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Guglielmo Ferrero
Grandezza e decadenza di Roma
Vol. IV
La repubblica di Augusto
Indice generale
I.
IL MITO DI AUGUSTO.
II.
I PRIMI EFFETTI DELLA CONQUISTA DELL’EGITTO
E IL CAPOLAVORO DI
ORAZIO.
III.
LA RINASCENZA RELIGIOSA E L’“ENEIDE”.
IV.
UNA NUOVA RIFORMA COSTITUZIONALE.
V.
L’ORIENTE.
VI.
“ARMENIA CAPTA, SIGNIS RECEPTIS”.
VII.
LE GRANDI LEGGI SOCIALI DELL’ANNO 18 A. C.
VIII.
I “LUDI SAECULARES”.
1907
LA REPUBBLICA DI AUGUSTO
I.
IL MITO DI AUGUSTO.
Si riviveva, alla fine! Da ogni parte la tremenda procella sgombrava
l’atmosfera, fuggiva, spariva all’estremo orizzonte; in alto, a
destra, a sinistra il cielo si rasserenava, immensi squarci azzurri
brillavano, promettitori di pace e di gioia. Tutti, tutti i tormenti
della rivoluzione, la tirannide triumvirale, la anarchia militare,
la rapina delle imposte, erano finiti; il Senato ricominciava a
tener regolarmente le sue tornate; i consoli, i pretori, gli edili,
i questori ripigliavano gli uffici antichi; ricominciava nelle
provincie la vicenda dei governatori scelti o sorteggiati tra i
consoli e i pretori uscenti. E dopo tante discordie atroci, dopo
tanto odio, tante demolizioni, tante distruzioni, l’Italia si
ritrovava finalmente concorde almeno nell’ammirare insieme e
fervidamente Augusto e l’antica Roma.
La guerra d’Azio, la rovina di Antonio, l’immaginario pericolo di
Cleopatra, la conquista dell’Egitto, la restaurazione della
repubblica; gli strani, quasi incredibili eventi degli ultimi anni
avevano risospinti precipitosamente indietro gli spiriti verso le
lontane sorgenti della storia nazionale e i piccoli principî
del grande impero. Arcaicizzavano tutti ormai, considerando ogni
cosa antica, solo perchè antica, come migliore delle cose
presenti: e in politica rammaricavano la grande aristocrazia che
aveva governato l’impero sino alla guerra di Perseo: e non solo il
costume privato, la famiglia, l’esercito, le istituzioni, la tempra
degli uomini parevano essersi via via disfatte, corrotte,
impicciolite di secolo in secolo; ma perfino gli scrittori classici,
Livio Andronico, Pacuvio, Ennio, Plauto e Terenzio erano anteposti
agli scrittori, invece tanto più ricchi e più vivi,
della generazione di Cesare: e non per accidente ma per deliberato
proposito il Senato aveva pochi mesi innanzi voluto riparare i
templi di Roma, prima che le vie dell’Italia, pur esse orribilmente
guaste dallo scempio che ne avevano fatte le legioni e dall’incuria
dei precedenti decenni. Giudicavano ormai tutti che Roma fosse
salita in tanta grandezza, perchè prima di diventare la
taverna e il lupanare del mondo era stata un santo ostello di Numi;
perchè, invisibili ma presenti dovunque, gli innumerevoli Dei
avevano per secoli vigilato sulla salute dei corpi e sulla
rettitudine delle intenzioni, sulla castità delle famiglie e
sulla disciplina degli eserciti, sulla probità dei singoli e
sulla giustizia pubblica, sulla concordia civica e sulla fortuna
delle guerre; perchè dei vincoli essenzialmente religiosi
avevano legata per secoli la sposa al marito, i figli al padre, il
patrono al cliente, il soldato al generale, il cittadino al
magistrato, il magistrato alla repubblica, tutti i cittadini tra
loro; perchè lo stato per secoli aveva potuto adoperare
lealmente e non per menzogna quel potente organo religioso di
disciplina morale e politica, che in tempi non ancora bugiardi
è il giuramento. Urgeva dunque ricostituire l’esercito, la
famiglia, il costume e la repubblica pia, che aveva conquistato il
mondo combattendo e pregando: opera immane, che pure ai più
pareva facile e di certa riuscita, ora che, vinti anche gli spiriti
più fermi dall’universale contagio di ammirazione e di
adulazione per Augusto, tutti riconoscevano come merito suo ogni
loro bene presente e in lui riponevano ogni futura speranza. Chi
aveva sventati i criminosi e tenebrosi disegni di Antonio e di
Cleopatra, intenti a preparare in silenzio a Roma le catene del
più obbrobrioso servaggio? A chi se non a colui che aveva
profusi in Italia i tesori dei Tolomei, dovevano esser riconoscenti
i veterani, entrando a poco a poco in possesso delle terre; i
municipi, i quali erano ricompensati con somme considerevoli dei
demani alienati; i creditori dello Stato, che ricevevano il denaro,
lungamente aspettato; i mestieri, le arti, la mercatura, la terra
che, bruciati dalla lunga siccità di capitale onde l’Italia
era stata riarsa come da torrida estate, si ravvivavano a poco a
poco sotto la pioggia dell’oro e dell’argento egiziani? Merito suo,
tutto suo, se le memorie della guerra civile lentamente affondavano
nell’immenso oceano che una dopo l’altra tutte le cose umane
raccoglie e seppellisce per sempre: l’oblio del passato! Onde
all’uomo, che tante mirabili cose aveva già compiute, il
pubblico largheggiava fiducia per il futuro; e questo prediletto
della fortuna, che aveva vinto per caso, era ammirato come nessun
grande uomo della storia di Roma prima di lui. Egli ricondurrebbe in
tutto l’impero la pace e la prosperità; egli rifarebbe la
giustizia incorrotta, emenderebbe i costumi, ripristinerebbe il
culto degli Dei; egli vendicherebbe le disfatte persiane di Crasso e
di Antonio. Il contagio anzi dell’ammirazione per lui si esaltava in
certuni a una specie di follia: tale quel senatore, che correva in
questo tempo pazzamente le vie di Roma ed esortava ogni viandante in
cui si imbattesse a dedicarsi ad Augusto, secondo l’uso spagnuolo,
impegnandosi cioè a non sopravvivergli1.
La leggenda, che circonfonde uomini e popoli fortunati con lo
splendore del mito; la invisibile ancella della fortuna che in
questo splendore trasfigura i fortunati ingrandendoli e ne
centuplica le forze ai nuovi cimenti, ingrandiva allora
smisuratamente, sopra lo sfondo dell’universale illusione, questo
antico senatore romano, che pur tanti avevano visto strisciar
piccolo e ignobile tra gli intrighi, le frodi, le violenze
dell’ultima rivoluzione. Mutato nome, autorità, anima e
mente, il sanguinario triunviro delle proscrizioni, il generale
inetto di Filippi, l’ammiraglio codardo di Scilla, lo spregiato
nipote dell’usuraio di Velletri appariva ora come l’universale
provvidenza in ogni cosa ai contemporanei, lungamente preparati ad
accogliere e ad inebriarsi di questa illusione dalle mistiche e
vaghe aspirazioni a una età più felice e più
pura, a un rinnovamento generale, che nei miserabili tempi della
rivoluzione avevano confusamente fomentate e gli aruspici
annuncianti a Roma, secondo una oscura dottrina etrusca, il
principio del decimo secolo, l’ultimo assegnato alla vita di
ciascuna nazione2; e gli oracoli sibillini, raccolti e divulgati dal
dolce Virgilio nella popolarissima egloga quarta, i quali
annunciavano l’imminente regno di Apollo, contaminando questa
dottrina etrusca con l’antica leggenda italica delle quattro
età del mondo3; e la filosofia pitagorica, molto studiata
anche allora, con la dottrina da Varrone4 divulgata in Roma delle
anime periodicamente ritornanti dal soggiorno degli Elisi sulla
terra5, e sulla quale si era sovrapposta un’altra dottrina, raccolta
pure da Varrone, secondo cui ogni 440 anni anima e corpo si
ricongiungono e il mondo rivive nelle antiche forme6. Sarebbe
difficile immaginare maggior confusione di idee disparate vaghe e
imprecise: ma appunto perchè vaghe e imprecise, tanto
più volentieri queste aspirazioni si semplificavano
nell’ammirazione smodata di Augusto, nel quale ciascuno,
attribuendogli tutte le intenzioni e tutte le potenze che più
gli piacevano, poteva raffigurare a suo comodo l’uomo atteso
così a lungo e chiamato, come tra poco scriverà
Virgilio, a condere aurea secula, a dar corpo alle tante vaghe
speranze che infiammavano gli spiriti. Senonchè c’era allora
nell’impero un uomo che non credeva nel mito di Augusto e ne
diffidava e quasi ne aveva paura: era Augusto. Ripetono da cinquanta
anni gli storici, uno a imitazione dell’altro e tutti sulle traccie
di una favola antica, che Augusto mirò con inflessibile
perseveranza dal principio alla fine a raccogliere in sua mano, come
Cesare, tutti i poteri, ma senza parere; a rivestire con le vecchie
forme repubblicane, a cui l’occhio dei contemporanei era avvezzo, la
nuova monarchia, di cui egli fabbricava occultamente, all’insaputa
di tutti, la forte ossatura. Ma la favola non ha senso, ed ha
trovato credito così a lungo, solo perchè nessuno
ancora ha investigato a fondo l’opera e i tempi di colui, che molto
impropriamente si suol chiamare il primo imperatore romano. Sebbene
sia cosa difficile, venti secoli dopo e conoscendo gli eventi
successivi, rivedere una situazione per gli occhi dei contemporanei;
sebbene per questa difficoltà, – la sola che ci sia nella
storia, ma così grande che il maggior numero non sa superarla
– nessuno abbia sinora inteso Augusto e il suo strano governo del
primo decennio di presidenza, non mi pare debba riuscire alla fine
troppo difficile il capire per quali ragioni Augusto avesse allora
paura delle vertiginose altezze, a cui la fortuna lo issava. Se gli
spiriti ardenti si lasciano spesso alla fine abbagliare dallo
splendore della propria leggenda, questo intellettuale egoista,
senza vanità e senza cupidigia; questo valetudinario inetto
ai cimenti repentini, pauroso di commozioni subitanee, e
precocemente vecchio a 36 anni; questo calcolatore acuto, freddo e
pavido, non si illudeva, neppure sulle più sublimi vette
della fortuna. Egli sapeva che l’anima della sua leggenda, il
fondamento della sua grandezza, la ragione dell’universale
ammirazione era un immenso malinteso; che il pubblico gli prodigava
omaggi, onori, potestà costituzionali e incostituzionali,
perchè si era persuaso spontaneamente, senza che nessuno
glielo avesse detto, come di cosa naturalissima, che Augusto farebbe
tante meraviglie, le quali invece egli sapeva di non poter compiere
e che perciò non intendeva nemmeno tentare. Prima di tutte,
la conquista della Persia. Era questa la più grave
difficoltà esterna che la rivoluzione, sconvolgendo
così profondamente l’ordine di cose stabilito in Oriente, gli
avesse trasmessa. Azio aveva sbigottito l’Italia, rivelando ad un
tratto anche agli spiriti più grossi quel che gli spiriti
più chiaroveggenti avevano incominciato a capire subito dopo
Filippi: che cioè posta in mezzo alle provincie barbare,
povere, malsicure dell’Occidente le quali le facevano corona,
l’Italia, troppo piccola, troppo povera, troppo poco popolosa,
lacerata da tremende discordie civili, non poteva dominar
sicuramente, attraverso il mare, la parte orientale dell’impero
troppo cresciuta negli ultimi cinquanta anni, prima per la conquista
del Ponto fatta da Lucullo, poi per la conquista della Siria fatta
da Pompeo, e recentemente infine per la conquista dell’Egitto fatta
da Augusto. Prendendosi l’Oriente, alleandosi con l’Egitto,
lasciando ad Ottaviano l’Occidente, Antonio non aveva forse
costretto per dieci anni l’Italia a logorarsi nell’inazione,
spettatrice impotente della propria rapida dissoluzione politica ed
economica, mentre egli aveva potuto agire sopra un campo smisurato
dalla Persia all’Egitto e tentar la conquista del mondo sulle vie
già calcate da Alessandro? Antonio e Cleopatra avevano
così rivelato a un tratto all’Italia che, se essa viveva
precipuamente sulle provincie orientali, questo immenso impero,
conquistato con tante fatiche in due secoli, poteva essere avulso
dalla metropoli facilmente, con un piccolo sforzo: anzi il romanzo
di Antonio e di Cleopatra, che aveva popolarmente spiegato alle
masse il pericolo corso, lo aveva ingrandito sino a far credere che
l’Oriente avesse addirittura minacciato di invertire le parti e di
dominare a sua volta, dopo avere servito. Si intuiva ormai in Italia
che la parte orientale dell’impero troppo cresciuta, più
ricca, più civile, più popolosa, minacciava di
soverchiare l’occidentale, più barbara e povera, e con essa
l’Italia stessa, mal situata, sul limitare della barbara Europa, per
dominare un impero, le cui regioni più vaste e importanti, i
cui interessi più gravi e molteplici erano in Asia ed in
Africa. Onde la formidabile esplosione del sentimento nazionale che,
dopo la battaglia di Azio, aveva precipitato Antonio nell’abisso e
costretto Augusto a far con la conquista dell’Egitto clamorosa
vendetta delle umiliazioni che da Efeso e da Alessandria erano state
inflitte a Roma, dei tenebrosi consigli con cui una Orientale aveva
pensato di rubarle la parte migliore del suo dominio. Onde le voci
continue di un possibile trasporto della capitale in Oriente, le
vive inquietudini del nazionalismo romano per questo pericolo, gli
ammonimenti di Orazio, che nella terza ode del terzo libro
simboleggia per bocca di Giunone la lotta tra l’Oriente e Roma nel
mito di Troia. Onde infine la smania popolare, che la conquista
dell’Egitto non aveva ancora appagata, di mostrare agli Orientali
quanto la spada di Roma tagliasse ancora. Infiammata dalla leggenda
popolare di Azio, che descriveva l’ultima guerra come una grande
prova della forza di Roma, illusa dal mito di Augusto, che da solo
le spianava innanzi in un momento le più ardue
difficoltà, l’Italia voleva continuare in Oriente, dopo la
conquista dell’Egitto, le sue rappresaglie e vendette; e vagheggiava
nella conquista della Persia il prestigio romano interamente
restaurato in tutta l’Asia, la grande preda di tesori di cui
abbisognava per rifarsi delle lunghe privazioni e delle immani
rovine passate. Ripigliava insomma essa, per la bocca canora dei
poeti che annunciavano ad ogni istante la partenza delle legioni per
la conquista lontana, anzi addirittura la conquista dell’India, il
grande disegno di Cesare e di Antonio....7.
Troppo tardi però, almeno a giudizio di Augusto. Augusto
pensava essere, sì, necessario consolidare in Oriente la
vacillante dominazione romana, ma adoperando arti diverse dalle
rappresaglie, dai colpi di forza, dalle guerre spettacolose, che
l’Italia desiderava. Egli conosceva l’arcano della battaglia di
Azio; egli sapeva di non aver osato atteggiarsi a campione del
nazionalismo romano-italico, se non quando Antonio, con gli
incredibili errori, già aveva distrutta egli stesso la
propria potenza; egli sapeva di aver vinto ad Azio senza combattere.
Se non pensava a trasportar la capitale in Oriente – dopo la rovina
di Antonio solo un pazzo avrebbe potuto volgere in mente un tale
disegno – aveva anche dedotta dagli ultimi eventi una convinzione,
che sola può spiegarci la politica esterna del suo primo
decennio di presidenza: le provincie dell’Occidente essere da sole,
anche avendo a capo l’Italia e Roma, troppo deboli di fronte alle
provincie dell’Oriente, tanto più popolose, più vaste,
più civili e più ricche; non poter Roma, dopo le
guerre civili, le rovine irreparabili e le atroci discordie, sperar
più di continuare in tutto l’Oriente, dal Ponto all’Egitto,
quelle brutalità e prepotenze audaci, con cui, nel pieno
vigore della sua feroce virilità, aveva sopraffatto uno dopo
l’altro, separatamente, tutti i grandi ma decrepiti e discordi Stati
orientali. Invecchiata a sua volta, Roma ormai sarebbe impotente
contro una nuova coalizione orientale, come quella tentata da
Cleopatra, che non ripetesse gli errori di Antonio. Se Antonio,
seguendo il consiglio di Cleopatra, si fosse apertamente dichiarato
re di Egitto, avesse fondato il nuovo impero e invece di muover
guerra a Ottaviano in Europa avesse aspettato che Roma lo assalisse
in Oriente per riconquistare le perdute provincie, che cosa avrebbe
egli fatto? Avrebbe egli osato di muovere guerra, dall’Italia, al
nuovo e formidabile impero? Cosicchè qualcuno potrebbe
ritentar l’impresa con maggiore fortuna e saggezza. Necessitava
quindi che in Oriente Roma riconoscesse la sua debolezza, e, come
tutti gli Stati e i partiti che invecchiano, la ravvolgesse
accortamente in un bello involucro di generosità e di
bontà, incominciando a trattare più umanamente le
tormentate provincie, per conciliarsele ormai che non poteva
più spaventarle8. L’ordinamento dell’Egitto, senza dubbio
immaginato e proposto da lui e che fu – ma gli storici non se ne
sono accorti – la vera novità rivoluzionaria introdotta dalle
guerre civili nella repubblica e definitivamente sanzionata dalla
restaurazione del 28 e del 27, era stato il primo saggio di questa
nuova politica orientale. Per la prima volta nella storia di Roma la
nuova conquista non era stata nè posta sotto una dinastia
vassalla, temendosi riapparisse in quella qualche nuova Cleopatra;
nè dichiarata provincia romana, dubitando Augusto che
l’Egitto si acconcerebbe al governo di un proconsole. Se neppure la
monarchia legittima, con il prestigio secolare, la presenza
continua, l’opera assidua e molteplice di corruzione e di
repressione, era riuscita, negli ultimi cinquanta anni, a mantenere
la pace; se le sommosse popolari, le congiure di palazzo, le guerre
civili avevano sconvolto senza tregua l’Egitto, si poteva presumere
riuscirebbe a mantenere l’ordine e la pace un oscuro senatore,
scelto quasi ogni anno a caso in Roma, ignaro dei luoghi e delle
genti, al quale non si potevano assegnare che tre legioni, di cui
una bastava appena a far la polizia di Alessandria?9 Roma era troppo
odiata e screditata in Oriente, sopratutto in Egitto! Augusto aveva
quindi immaginato, imitando la doppia politica di Antonio, di
inalzare in Egitto un simulacro posticcio dei Tolomei, un grossolano
fantoccio dinastico, affinchè il rappresentante repubblicano
di Roma potesse appiattarcisi dietro10; di governare l’Egitto per
mezzo di una magistratura bifronte, che presentasse all’Italia una
faccia repubblicana e latina, all’Egitto una faccia orientale e
monarchica, proprio come aveva tentato di fare Antonio. Augusto e il
praefectus Aegypti da lui nominato dovevano insieme e d’accordo
assumere le due persone di questa doppia magistratura: Augusto, che
in Italia non era se non il primo cittadino della repubblica,
figurerebbe per gli Egiziani, nei prossimi dieci anni di presidenza,
come il continuatore dei Tolomei e il nuovo re dell’Egitto, uscito
di Alessandria per reggere da Roma un più vasto impero e
governante l’Egitto per mezzo del praefectus; il quale poi agli
Egiziani apparirebbe come un vicerè, mentre gli Italiani
potevano considerarlo come la rinnovata antica magistratura che Roma
mandava a reggere le città suddite dell’Italia, nei primi
secoli della conquista italica. Immaginarsi dunque se chi non osava
neppure dichiarare l’Egitto provincia romana oserebbe tentar di
conquistare la Persia dopo i due grandi insuccessi di Crasso e di
Antonio! Del resto a conquistar la Persia non bastavano le pur
bellissime odi di Orazio: occorrevano, a giudizio di Cesare, sedici
legioni almeno e ingentissime somme di denaro. Ma ridotto l’esercito
a 23 legioni, quante bastavano appena a tener l’impero sulla difesa,
non era più possibile spedirne 16 sulla via, da cui Crasso
non aveva fatto ritorno.
Soltanto dunque per una specie di illusione contagiosa l’Italia
vedeva impersonate in Augusto tutte le sue aspirazioni. La concordia
tra la nazione e il primo magistrato della repubblica era solo
apparente. In una questione capitale, come la politica orientale, il
disaccordo era inconciliabile; l’Italia sospingendo Augusto sulla
via già percorsa da Crasso e da Antonio; e Augusto intendendo
invece di abbandonare la Persia ai poeti, affinchè la
conquistassero quante volte loro piacesse, sulla carta. E questo
disaccordo basterebbe a farci considerare ben altrimenti che come
una “commedia politica” la moderazione costituzionale di Augusto. Da
Crasso in poi la conquista della Persia era stata la sperata suprema
giustificazione di tutte le usurpazioni costituzionali, ambite o
compiute: con quella Cesare aveva sperato giustificare la dittatura,
Antonio il triunvirato: Augusto invece, che non voleva avventurarsi
a cercare nel lontano Oriente i trofei promessi da Antonio e da
Cesare, sul serio, per necessità e per saggezza, non per
inganno o per platonico spirito repubblicano, si proponeva di
esercitare soltanto e costituzionalmente il consolato in Roma e il
proconsolato nelle sue tre provincie, dissimulando più che
potesse il cumulo delle due autorità, consolare e
proconsolare, che dopo la prefettura dell’Egitto era la più
grave innovazione contenuta nelle riforme del 28 e del 27. Si era
perciò affrettato a congedare subito, dopo il 16 gennaio, il
codazzo dei fanatici che gli si ostinavano alle calcagna con nuove
proposte di onori; aveva cercato di raffreddare il bollore degli
ammiratori maniaci11; si studiava di mostrare in tutti i modi
ossequio al Senato, avendo pratica continuamente con i senatori di
maggior considerazione e consultandoli in ogni più grave
faccenda12; si sforzava insomma di rimpicciolire nella immaginazione
popolare il suo mito alla misura del ragionevole, di fuggire
dall’alone radiante entro cui la leggenda si affaticava a
trasfigurarlo, per persuadere i concittadini che egli era soltanto
un senatore e un magistrato di Roma. Commedie – ripetono da
cinquanta anni gli storici. Atti seriissimi – rispondo io:
perchè Augusto, il quale probabilmente conosceva Roma e
l’Italia del tempo suo così bene almeno come tanti moderni
professori di storia, sapeva che due sentimenti combattevano tra
loro nell’anima della nazione, cosicchè si poteva,
soddisfacendo l’uno, offendere l’altro, ma non già far
violenza ad ambedue: l’orgoglio imperiale e la fierezza
repubblicana. Solo chi conquistasse imperi e tesori, poteva malmenar
la repubblica impunemente o almeno con minore pericolo.... Ma se
Augusto, che non voleva impugnare i vessilli di Roma sulle vie della
Persia, aveva ragione di restringere egli stesso i propri poteri, il
pubblico non ristava perciò dal richiedergli mille cose, che
neppure la dittatura avrebbe potuto procurare alla repubblica. Per
esempio: la pace interna, l’ordine in Roma, la tranquillità
in Italia, il perfetto andamento della nuova costituzione. Pareva
cosa naturale a tutti che il nuovo magistrato, posto a capo della
restaurata repubblica, raffrenasse tutte le forze rivoluzionarie che
avevano nel secolo precedente dilacerata così atrocemente la
costituzione: vigilasse quindi che non rinascesse la disunione nella
aristocrazia e non risorgesse dagli ultimi avanzi del partito
cesariano una nuova demagogia; vigilasse che la aristocrazia e
l’ordine equestre, rimessi in possesso degli antichi privilegi,
compissero con zelo i propri doveri; vigilasse infine tutti gli
organi della costituzione, i comizi, il Senato, le singole
magistrature, i tribunali affinchè facesse ciascuno l’officio
proprio. Ma basterebbe a tanto compito l’autorità consolare,
la sola che Augusto poteva esercitare in Roma e in Italia? Definita
in tempi in cui ogni cosa era più semplice, più
piccola, più facile, quella autorità aveva, per i
bisogni presenti, mille manchevolezze; non essendo neppur munita di
uno strumento – spada, frusta, bastone – con cui mantenere l’ordine
nella fecciosa e riottosa metropoli. Sollecito di esercitare il
consolato con rigidezza costituzionale esemplare, Augusto aveva
mandate lontano da Roma le coorti pretorie, di cui, come proconsole,
aveva diritto di circondarsi quando assumeva il comando degli
eserciti; era risoluto a non chiamare mai in Roma i soldati, come
sciaguratamente il triunvirato aveva fatto tante volte: onde, per
raffrenar Roma, le sue moltitudini, le sue fazioni, i suoi violenti
istinti rivoluzionari, le sue discordie turbolente, egli non poteva
fare assegnamento su alcun solido arnese di repressione, ma soltanto
sul suo prestigio di salvatore di Roma, di debellatore di Cleopatra,
di restauratore della pace; e cioè sopra un’impressione non
duratura degli animi, che dileguerebbe presto, specialmente
allorchè si saprebbe che egli aveva paura dei Parti. Egli
insomma, come un tutore, doveva imporsi soltanto con
l’autorità morale e correggere con blandi castighi l’immensa
metropoli, che non era invece una pupilla docile e modesta, ma una
furia ardente di superbia, di cupidigia, di violenza, di
crudeltà.... È facile capire quanto fosse arduo il
compito suo soltanto in Roma: che dire poi della pace pubblica, del
buon andamento dello Stato, della regolarità costituzionale,
che tutti aspettavano da lui? Che dire sopratutto di un’altra grande
e antica aspirazione, che il mito di Augusto fomentava e riaccendeva
ormai in tutte le classi: la riforma dei corrotti costumi? Chiesta
da più d’un secolo, caldeggiata da tutti i partiti ora sul
serio e più spesso per opportunità, tentata qualche
volta sinceramente, qualche volta per forza, qualche volta per
finta; proposta, posposta, riproposta senza tregua, la riforma del
costume pareva ora urgere di nuovo, come l’unico farmaco risanatore
in una crisi mortale, come il complemento necessario della
restaurazione aristocratica. Tutti capivano che, restaurata la
repubblica, era necessario rifare anche un ordine senatorio ed un
ordine equestre, i quali sapessero usar delle ricchezze a profitto
del pubblico invece di profonderle in lusso insensato o in turpi
bagordi; i quali educassero numerose figliolanze, come in antico, al
governo e alla guerra; i quali fossero esempio al popolo di tutte le
virtù che conservano un impero fondato con le armi:
abnegazione civica, valor militare, costumi severi, alacrità,
risolutezza. Se la aristocrazia non si purificava in una grande
riforma morale, avrebbe essa potuto generare gli ufficiali e i
generali i quali avrebbero condotte le vittoriose legioni sin nel
cuore della Persia? Difatti Orazio, il quale si dilettava di
fissare, nei metri imitati dai lirici greci, questi pensieri e
questi sentimenti diffusi nelle classi colte; che già aveva
indicata come causa della potenza di Roma la purezza sessuale
conservata così a lungo dagli antenati nelle case severe13;
che già aveva gridato all’Italia non potersi vincere i Parti
finchè non si fossero sottoposti i giovani ad una nuova e
più severa educazione14; Orazio esclamava in questo tempo:
Quid leges sine moribus
Vanae proficiunt?15
Leges significa qui l’ordine ristabilito, la restaurata repubblica.
“Che giova – intende dire il poeta – aver ricostituita la
repubblica, se non si purificano i corrotti costumi? Anche le
istituzioni buone faranno opera cattiva”16. Urge innanzi tutto
sradicare dai cuori l’avidità delle ricchezze, sorgente di
tutti i mali.
Gli agresti Sciti meglio
vivon, che i nomadi tetti trascinano
su carri, e i Geti rigidi
che da gli iugeri non conti i liberi
traggon doni di Cerere....17
Ma Orazio non pensa che gli uomini si emenderanno spontaneamente,
vinti dalla virtù persuasiva delle buone ragioni e dei saggi
consigli: pensa che occorre la forza delle leggi:
Oh quei che vorrà l’empie
stragi e la civica rabbia dirimere,
e “Padre della Patria”
desia che scrivangli sotto le statue,
raffreni l’indomabile
licenza, a’ posteri chiaro: che, invidi,
virtù presente (infamia!)
s’odia, ricercasi quando dilegua.
Ma a che i lamenti lugubri
se niun supplizio le colpe elimina?18
E quel che Orazio esprimeva in magnifici versi, molti ripetevano in
ogni parte d’Italia come sapevano, domandando ad Augusto,
naturalmente, che facesse leggi contro il lusso, contro il
malcostume, contro il celibato; che rinnovasse quella antica polizia
del costume privato, che l’aristocrazia aveva per tanti secoli e con
tanta fermezza commessa ai censori19. Facile a dire, difficile a a
fare! Augusto, quanto a lui, non sarebbe stato alieno dal soddisfare
i nuovi puritani, perchè egli stesso era uno di questi
arcaicizzanti dell’alta società, e tra i più sinceri,
per temperamento, per persuasione, per tradizione: per temperamento,
perchè amava più il vecchio che il nuovo, più
la semplicità e la parsimonia che il lusso e la
prodigalità; per persuasione, perchè era un ammiratore
di Cicerone; per tradizione, perchè era nato in una famiglia
di borghesia provinciale e aveva frequentato quella parte
dell’aristocrazia romana, in cui la tradizione era conservata con
maggiore tenacia. Livia, ad esempio, la intelligente ed abilissima
Livia, che aveva ormai un così grande imperio su lui,
apparteneva ad una di queste famiglie. Ma Augusto, come tutti gli
uomini di alto intelletto che vivevano a Roma, conosceva a fondo la
dissoluzione morale dei ceti superiori e di quella che si potrebbe
chiamare, con uno scrittore moderno20, la classe politica; e
dubitava perciò si potesse ripulire la immane sentina del
mondo. Se per bocca di Orazio tutti gli ammiratori del buon tempo
antico domandavano rigori e leggi contro la corruzione dei tempi, un
altro poeta, Properzio, prorompeva intorno a questo tempo in un
grande grido di gioia, perchè con le altre disposizioni del
triunvirato era stata abolita una legge dei triunviri, promulgata
non sappiamo quando, e che, non è chiaro con quale
ingiunzione, cercava di costringere i cittadini al matrimonio.
Gavisa es certe sublatam, Cynthia, legem,
Qua quondam edicta, flemus
uterque diu....21
Mentre tutti anticipavano con l’immaginazione le grandi vittorie
delle armi romane sui Parti, questo poeta ingenuamente confessava
all’amante il suo egoismo civico:
Unde mihi Parthis natos praebere triumphis?
Nullus de nostro
sanguine miles erit;22
lo confessava senza infamarsi, senza perdere il favore della
aristocrazia, che lo ammirava, senza attirarsi la collera di
Mecenate, che lo proteggeva. Se Orazio coltivava la poesia civile e
religiosa, Properzio e un altro poeta, egualmente caro
all’aristocrazia, Tibullo, coltivavano con lode non minore quella
poesia erotica, che è una insidiosa forza dissolutrice di
tutte le forti compagini aristocratiche, le quali vogliono serrarsi
per la lotta e il dominio. Infine un altro scrittore, Tito Livio, in
questo tempo poneva nella prefazione, a fondamento della sua grande
storia di Roma, la concezione tradizionale e arcaicizzante dello
Stato e della morale, allora in voga; ma senza dissimulare che la
considerava come una inutile protesta della ragione contro la
invincibile forza di corruzione insita nelle cose. Egli dichiara che
si è immerso nello studio del passato, per dimenticare i guai
dei tempi presenti, tanto confusi e travagliati per la dissoluzione
degli antichi costumi, da “non poter tollerare più nè
i mali di cui soffrivano nè i rimedi necessari a curarli”.
“Nec vitia nostra nec remedia pati possumus.” Questa frase
compendiosa definisce così bene la strana condizione di quei
tempi, spiega così luminosamente tutta la politica di Augusto
nel primo decennio della sua presidenza, che io la considero non
come una riflessione personale e tutta di Livio, bensì come
la sintesi felice delle lunghe discussioni fatte sullo stato
dell’Italia tra Augusto e gli amici suoi, alle quali Livio era
presente.
Cosicchè per il momento Augusto, come non intendeva di
conquistare la Persia, non voleva neppure accingersi alla dubbia
fatica di far riripiegare a ritroso i costumi sulla via dell’antica
semplicità. Anche su questo punto l’Italia e il suo eroe
parevano, ma non erano d’accordo. Non la rivincita partica, non la
restaurazione dell’antica virtù erano il suo più grave
e più costante pensiero in quel primo ristoro della guerra
civile appena finita. A che parte della pubblica cosa intendeva
dunque Augusto di volgere le sue prime cure? Noi possiamo affermarlo
con sicurezza: al riordinamento delle finanze, che gli pareva – e a
ragione – il necessario prologo di ogni altra riforma23. Era chiaro
che nessun governo potrebbe nè tentar guerre nè
riordinare i servizi pubblici, nè far cosa alcuna, se prima
non avesse ricostituito un erario, con entrate sufficienti e
costanti; se prima non avesse almeno scemata la tormentosa scarsezza
del medio circolante – oro ed argento. Non solo l’erario dello
Stato, ma le arche dei templi e delle città erano vuote; ma
gli immani tesori rubati dalla rivoluzione, ma i tesori di Cleopatra
parevano essere spariti, tanto scarsa era ancora la moneta che
circolava tra i privati, con tanta ansia i fortunati saccheggiatori
stringevano ancora al seno i loro tesoretti, temendo di essere a
loro volta spogliati. Senonchè, se la riforma era necessaria,
era anche molto ardua. Con quali mezzi sollecitar fuori dai loro
nascondigli i preziosi metalli, paurosi degli innumerevoli ladri
ancora appostati in ogni parte? Deposto ogni proposito di
conquistare la Persia, non si poteva più provvedere
all’Italia il medio circolante con il mezzo più adoperato in
antico, la guerra. Ad Alessandria Roma aveva ghermito l’ultimo dei
grandi acervi d’oro e di argento, accumulati nei secoli precedenti
dagli Stati circummediterranei; e aveva gettato anche quello nella
voragine senza fondo dell’Italia, che già aveva inghiottiti
tutti gli altri: quelli deposti nei castelli di Mitridate come
quelli custoditi nei templi druidici della Gallia. Altri tesori
posti più vicino e meno difesi che i tesori della corte di
Persia, non c’erano fuorchè – almeno si sussurrava –
nell’interno dell’Arabia, presso certe popolazioni, le quali,
vendendo agli stranieri aromi e gemme senza comperar nulla,
ammucchiavano le monete d’oro e di argento24. Ma non volendo correre
alla leggera il rischio di un insuccesso, Augusto si riserbava di
studiare con maggior pacatezza una spedizione in Arabia; e intanto,
per aver denaro, non poteva ricorrere se non a tre mezzi: uno, che
è il più naturale, ma che allora era anche molto
più faticoso e dispendioso che il rubarlo a chi lo aveva
già accumulato, e cioè riattivare le miniere
abbandonate; e gli altri due molto usati in ogni tempo: curar meglio
le riscossioni dei vecchi tributi e imporne dei nuovi.
Senonchè Augusto poteva certamente riattivar le miniere e
spremere più vigorosamente i sudditi nelle provincie sue – e
all’una cosa come all’altra veniva pensando; come imperator, poteva
coniare per i suoi soldati monete di buona lega, come aveva
incominciato a fare, in luogo delle antiche mezzo false; poteva
infine, come console, indicare abusi e manchevolezze nella
amministrazione, proporre al Senato e al popolo imposte e riforme.
Ma non poteva nè dirigere nè controllare
l’amministrazione dell’erario, ricollocato sotto l’autorità
suprema del Senato e per le singole operazioni affidato, dopo
l’ultima riforma, ai praefecti aerarii saturni, scelti dal senato
medesimo25; non poteva vigilare la attuazione delle nuove imposte e
riforme fuori delle sue provincie, nelle provincie degli altri
governatori26. Nè il proporre nuove imposte o riforme
finanziarie era cosa agevole in quei tempi così difficili.
L’Italia si sarebbe tremendamente infuriata, se dopo la rivoluzione,
anche la pace fosse venuta a domandarle denaro: onde Augusto non
poteva pensare di imporre balzelli alla metropoli, se non voleva
porre a repentaglio la popolarità così faticosamente
acquistata. L’Oriente era esausto; e dopo Azio egli giudicava
più prudente blandirlo che scorticarlo. Poichè dunque
all’Italia non si poteva domandare nessun tributo; siccome non si
potevano aumentare i tributi dell’Oriente assottigliati come
l’ultimo filo d’acqua di una fontana esausta; siccome i nuovi
tributi dell’Egitto non bastavano a riempire il vuoto erario, non
restava che volgersi alle barbare provincie d’Europa, alla Gallia
conquistata da Cesare, alla Pannonia, alla Dalmazia conquistata da
Augusto stesso, che sino ad allora avevano contribuito poco o nulla.
E Augusto da un pezzo pensava di far contribuire questi barbari
all’erario dell’impero: ma non si poteva sperar di spremere molto
denaro da genti tanto povere e rozze27.
Ricchissimo, potentissimo, ammiratissimo, ricolmo di onori, quasi
adorato e divinizzato. Augusto tuttavia – e fu la ragione precipua
della sua duratura grandezza – continuava a temere l’incostanza
della fortuna. Non è possibile spiegare il primo decennio del
governo di Augusto, e quella specie di continuo terrore della
propria potenza che tutto lo domina, se non si ammette che in quegli
anni, su tutti i pensieri che Augusto poteva volgere in mente, su
tutti i propositi, le ambizioni, i desideri che un uomo,
smisuratamente favorito dalla sorte, può concepire, doveva
dominare, immensa, l’impressione delle quattro catastrofi dei
quattro uomini che erano successivamente riusciti a porsi a capo
della repubblica: di Crasso, di Pompeo, di Cesare, di Antonio; di
Antonio precipuamente, la cui catastrofe così recente,
così strana, così inverisimile, doveva sbigottirlo
più che le precedenti, perchè egli era tra i pochi che
ne conoscessero il terribile arcano. Quanto labile era la grandezza
in quei tempi! Come rapidamente le ammirazioni smodate delle
moltitudini, le aspettazioni intemperanti e pazze si volgevano in
odio furioso, quando sopraggiungeva l’inevitabile delusione che la
moltitudine, invece di accusare la propria stoltezza, imputava
sempre, come un delitto, all’uomo prima ammirato! Un errore, una
imprudenza: ed ecco l’arbitro dell’impero, l’uomo potente tra tutti,
precipitato negli abissi a furore di popolo! Perciò nessuna
cosa doveva parere più stolta ad Augusto, nel 27 a. C, che
mettere in scena una nuova “commedia politica” davanti
all’irritabile pubblico, che già aveva a mezzo dello
spettacolo lapidato tanti attori. Che frutto aveva ricavato Antonio
dagli sdoppiamenti pur tanto ingegnosi della sua politica, dalla
lunga “commedia” in cui si era travestito da re egiziano, si era
rivestito da proconsole, per travestirsi poi di nuovo all’asiatica?
No: non c’era valore, abilità, fortuna la quale potesse
avventurarsi sicuramente sulla corrente di quella politica, che si
rivolgeva in sè stessa nei terribili mulinelli di tante
contradizioni; era necessario rientrare finalmente nel vero per
tutte le porte, anche per le più basse ed anguste, per la
porta della pratica ragionevolezza come per quella della modestia;
era più savio trarsi in disparte, rimpicciolirsi, per non
rinfocolare in quella vecchia repubblica aristocratica, con
l’ostentazione di una potenza quasi monarchica, le già troppo
ardenti speranze popolari, per non ferir troppi amor propri, per non
inasprir troppe invidie; e nella penombra, senza chiasso, con “lenta
sollecitudine” – festina lente, era uno dei suoi motti favoriti28 –
iniziare una conciliazione universale, con un governo arrendevole,
benevolo e duttile, con opere poco spettacolose e clamorose, ma
saggie e benefiche. “Rallier autant que possible les
intérêts sans froisser les convictions”, queste parole
con cui uno storico moderno definisce gli scopi del consolato di
Bonaparte29, possono ripetersi del principato di Augusto. Quando
avesse la pace e la prosperità, l’Italia non rammaricherebbe
più le insoddisfatte aspirazioni di gloria; e a un presidente
così compiacente, così modesto, così equanime,
largo di tanti beneficî, non rinfaccerebbe il non aver
condotto a Roma in catene il re dei Parti. Urgeva riparare le vie
dell’Italia; l’erario era quasi vuoto; con i denari egiziani Augusto
avrebbe potuto assumersi il lavoro, ridare in qualche anno
all’Italia le sue vie riparate, rilastricate, lucenti; attirare
sulla sua persona da ogni parte la gratitudine dell’intera nazione
per così insigne munificenza. Invece no. Augusto volle
nascondersi dietro il Senato; convocò i più cospicui
senatori, dichiarò loro che egli intendeva riparare la via
Flaminia con tutti i ponti, da Roma a Rimini, e li persuase ad
assumersi ciascuno la riparazione di un’altra strada, lunga o corta.
Ad assumerla, com’è naturale, nominalmente: che di tutte o
quasi tutte le riparazioni pagherebbe egli la spesa30. Insomma egli
si assunse tutto il carico delle riparazioni e spartì invece
l’onore con la parte più eletta del Senato. Per meglio
vigilare l’amministrazione dell’erario senza fare atto alcuno che
non fosse costituzionale, immaginò di istituire, in casa sua,
per proprio uso privato, una contabilità dello Stato; scelse
tra i suoi numerosi schiavi e liberti i più istruiti e
intelligenti; e poichè come presidente del Senato, come
console, come proconsole di tre grandi provincie, poteva facilmente
procurarsi e comunicar loro tutte le cifre delle entrate e delle
spese, li incaricò di compilare per lui i conti dell’impero,
affinchè egli potesse ad ogni istante sapere quanto la
repubblica incassava e quanto spendeva, quanto rendevano le singole
imposte, e quanto costava ogni servizio; quali erano i cespiti e gli
impegni dello Stato31. Armato così di questi conti privati,
più esatti e diligenti di quelli tenuti dagli scribi dei
præfecti aerarii Saturni, egli potrebbe studiare le proposte
da sottoporre al Senato per riordinare le finanze; incitare,
ammonire o far incitare e ammonir dal Senato i magistrati che
spendessero male o che trascurassero di riscuotere le imposte e di
far fruttare le proprietà dello Stato; esercitare insomma,
senza esserne investito e senza incorrere in alcuna
responsabilità, l’autorità di un vero ministro delle
finanze. Urgeva però aumentare subito il medio circolante,
troppo scarso per i bisogni dello Stato e dei privati. Augusto
deliberò di riconquistare nella sua provincia di Spagna le
regioni aurifere abitate dai Cantabri e dagli Asturi, per riattivar
le miniere che nell’anarchia dell’ultimo secolo erano state
abbandonate, dopochè gli indigeni si erano ribellati alla
autorità di Roma. Deliberò pure di far conquistare
nelle Alpi la valle dei Salassi, considerata come l’Eldorato
d’Italia. Si risolvè pure – probabilmente facendo approvare
un decreto dal Senato – ad accrescere i tributi pagati dalla Gallia,
dalle popolazioni alpine, dalle provincie illiriche – specialmente
dalla Dalmazia e dalla Pannonia. Nel tempo stesso, per dominare Roma
e per mezzo di Roma la repubblica, senza adoperare la forza e senza
fare soverchio assegnamento sopra il suo prestigio, egli si accinse
pazientemente a legare al nuovo governo e tra loro le classi sociali
con sottili, quasi invisibili ma solide catenelle d’oro, posando sin
d’allora quello che sarà uno dei principii essenziali della
politica dell’impero: spendere molto, spendere senza contare in
Roma, in modo che tutte le classi ne approfittassero; se non
anteporre gli interessi della metropoli a tutti gli altri interessi
dell’impero, porli almeno a pari degli interessi più gravi.
D’ora innanzi, per secoli, le feste pubbliche di Roma saranno per il
governo una cura non meno grave che l’armamento delle legioni!
L’erario era semivuoto; tutti i servizi pubblici, dalla difesa delle
frontiere alle vie in disordine per mancanza di denaro; l’impero
esausto? Eppure Augusto si affrettava, anche prima di provvedere a
questi bisogni, a spendere ingenti somme del suo in Roma, in opere
pubbliche di dubbia urgenza; e incitava gli amici e i parenti a
imitare l’esempio, affinchè non mancassero il lavoro e il
guadagno al popolino e alla classe media. Non solo continuò
la riparazione dei templi, ma con particolar cura prese a riparare
il grande Santuario nazionale di Giove sul Campidoglio, e il teatro
di Pompeo32; a ricostruire il portico innalzato da Gn. Ottavio quasi
un secolo e mezzo prima e distrutto da un incendio33; a edificare in
capo alla via Sacra un tempio degli Dei Lari; a rifare il
vecchissimo tempio di Quirino sul Quirinale; e i templi, pur essi
antichi, di Minerva, e di Giunone Regina sull’Aventino!34 Poteva a
Roma scarseggiare la religione, ma non i luoghi del culto! Disegno
più vasto, egli intendeva di costruire un nuovo fôro.
L’antico e quello di Cesare non bastavano ai bisogni della
città tanto cresciuta: egli spianerebbe, allargherebbe,
edificherebbe un nuovo fôro intorno al tempio di Marte Ultore,
di cui aveva fatto voto a Filippi e che doveva essere, nel suo
pensiero, il tempio padre della milizia romana. Continuò
inoltre la costruzione del grande teatro, incominciato da Cesare.
Degli amici suoi, Statilio Tauro e Cornelio Balbo, il nipote e
l’erede del ricchissimo agente di Cesare, avevano acconsentito a
edificar ciascuno un altro teatro. Agrippa, ormai vicino a finire il
Pantheon, si assumeva di finire l’altra grande costruzione impresa
da Cesare, i Saepta Julia, il sontuoso edificio per i Comizi35; e
aveva risoluto di ingrandire il modesto laconico costruito dietro il
Pantheon in immense e sontuosissime terme, simili a quelle in cui si
bagnava il popolo della Siria, costruendo per alimentarle un nuovo
acquedotto, lungo 14 miglia, quello che riceverà poi il nome
di acqua Vergine36. Agrippa inoltre si assunse di fare per il
servizio delle acque quello che Augusto aveva fatto per le finanze:
e poichè dei magistrati, cui spettava costituzionalmente la
cura delle acque, i censori non erano più eletti da un pezzo
e gli edili non se ne occupavano, egli scelse tra i suoi schiavi un
personale alacre e intelligente, che vigilasse, riparasse, tenesse
in buon ordine gli acquedotti di Roma37. Più difficile
impresa era invece, al figlio di Cesare, al triunviro delle
proscrizioni, il riconciliarsi con la nobiltà storica; ma
Augusto ci si accingeva con una pazienza instancabile, con una
avvedutezza sempre all’erta e con potentissimi mezzi. Non solo
aiuterebbe nelle elezioni i personaggi più cospicui a
rioccupare, come nel bel tempo antico, le somme cariche; non solo
non tralasciava occasione alcuna di corteggiare o la nobiltà
tutta o qualche suo membro cospicuo: ma si proponeva – pegno di pace
più solido che tanti omaggi platonici – di rifarne le
disfatte fortune. Roma possedeva nelle provincie un immenso
patrimonio di terre, di boschi, di miniere che le guerre civili
avevano ancora accresciuto; che la repubblica aveva sfruttato
appaltandolo ogni tanti anni a società di pubblicani. Ora
però, disciolte le grandi società appaltatrici,
diminuiti di numero i grossi capitali, affievolito in Italia
l’avventuroso spirito di speculazione, venuto in odio a tutti sino
il nome di pubblicano, molta parte di questi beni erano abbandonati
in balìa di loro stessi; e i frutti trafugati, dispersi,
deviati per mille canali dalle pubbliche casse ove avrebbero dovuto
affluire. Il male era antico; e Cesare aveva fatto ordinare dal
Senato la misurazione di tutto l’impero, sopratutto per far
l’inventario e per meglio sfruttare questo gigantesco patrimonio: ma
le guerre civili avevano rallentato e intralciato il lavoro delle
commissioni inviate nelle differenti parti dell’impero,
cosicchè non pare che nessuna fosse ancora nel 27 interamente
misurata38. Ora Augusto aveva già provveduto – e fu certo una
delle sue prime cure, terminate le guerre – a sollecitare la fine
della grande opera, per adoperare, almeno nelle provincie sue,
questo patrimonio ai suoi fini, non più appaltandolo, ma
dandone le singole parti in locazione perpetua e per un canone annuo
o ai municipi o ai privati. La repubblica potrebbe così fare
assegnamento sopra un reddito costante; questi beni, le terre
sopratutto, invece di cadere preda di appaltatori frettolosi di far
denaro mettendole a sacco, verrebbero nel dominio di possidenti,
disposti a farne l’uso che un diligente padre di famiglia fa del suo
patrimonio; e quanta gente si potrebbe beneficare, arricchire,
obbligare con tante ricchezze, ora giacenti al sole quasi inutili e
oziose! Una parte di queste era da Augusto destinata alla
aristocrazia storica impoverita, a compenso dei beni perduti nelle
proscrizioni e nelle guerre civili.
Augusto insomma si proponeva di instaurare un governo modesto,
ossequioso delle tradizioni e sollecito sopratutto di restaurare la
fortuna dell’Italia e dello Stato, per avvezzar a poco a poco
l’Italia a smetter l’idea della conquista persiana e il rammarico
degli antichi tempi. Pace, raccoglimento, ossequio alla costituzione
erano i tre cardini della politica di Augusto, il quale, per dare
maggior prova di modestia, pensava addirittura di uscir di Roma,
prendendo a pretesto la guerra contro i Cantabri e gli Asturi,
sebbene questa non fosse certo di tanta mole, da richiedere la
presenza del generalissimo. Ma tra gli abili accorgimenti della sua
prudente politica, accorgimento felicissimo era il non stancare la
troppo fervorosa ammirazione di cui allora godeva, con la presenza e
il contatto continuo; l’avvezzare, con una lunga assenza, magistrati
e cittadini, a poco a poco, senza avvedersene, a far da sè,
senza sperar tutto da lui e senza ricorrere a lui per ogni cosa; il
diminuire a sè medesimo le occasioni di commettere errori, di
disgustar persone, di deludere l’opinione esagerata che molti si
erano fatta di lui e della sua potenza. Non si cancellano in pochi
mesi i ricordi di venti anni di guerra civile! In Senato gli avanzi
della aristocrazia storica, i superstiti delle proscrizioni e di
Filippi, i figli i nipoti delle vittime della rivoluzione, si
ritrovavano a fianco, sugli stessi banchi, ornati degli stessi
distintivi, i centurioni e gli avventurieri, entrati in Senato dopo
Filippi; che avevano preso e si godevano tanta parte dei loro beni
paterni, che avevano fatto perire i loro cari, che avevano rovinata
la potenza secolare del loro ceto. Se la nobiltà superstite
si acconciava a considerare come suoi pari i grandi capi della
rivoluzione, i Mecenate, gli Agrippa, i Pollione, che compensavano
con la gloria, la ricchezza e la cultura i natali, si ostinava
invece a trattare i senatori oscuri come usurpatori di
dignità e di patrimoni altrui. Vivere in Roma come console,
presiedere le sedute del senato, stare in mezzo agli uni e agli
altri senza offendere alcuno, era cosa difficilissima. Inoltre – ed
è una considerazione di minore importanza per noi, ma che
molta importanza aveva forse per Augusto – l’esempio di Cesare
ammoniva che nè l’ammirazione popolare, nè le cariche,
nè i littori, nè l’inviolabilità tribunizia,
erano schermo sufficiente contro la pugnalata di qualche Bruto
attardato; contro il quale non si potrebbero prendere in Roma
precauzioni troppo visibili, senza offendere il sentimento
repubblicano. Se era dal costume consentito – come Augusto faceva –
di adoperare schiavi germanici e gallici, forti, giovani, aitanti,
per difendere la sua casa e la sua persona, egli doveva anche in
questa cautela badare a non far nulla di più che tutti gli
altri ricchi signori della nobiltà senatoria, mentre il
pericolo era per lui tanto maggiore!
Nel mese di maggio, quando si tennero le ferie latine, che egli
doveva presiedere come console, egli si diede malato e non
intervenne39. Era egli veramente malato, o pretestò la
malattia, per non andare indifeso in mezzo alla folla festante? Poi
si fecero le elezioni, quetamente e con ordine. I bei tempi della
repubblica parevano ritornati. È probabile si presentassero a
domandare i suffragi del popolo solo coloro che avevano
l’approvazione di Augusto, il quale, per il favore universale, le
ricchezze, il grande numero di amici, era di fatto, se non di
diritto, l’arbitro dei comizi e il supremo elettore della
repubblica. I consoli furono due soli – egli stesso e T. Statilio
Tauro – perchè, ritornando all’antica e severa tradizione del
consolato doppio e annuale si erano aboliti “i piccoli consoli”
così numerosi nel tempo della rivoluzione. Ma il contegno
tenuto da Augusto negli anni seguenti prova che egli non desiderava
nemmeno di avere in così larga misura il potere e quindi la
responsabilità di designare tutti i magistrati, che voleva i
comizi ripigliassero a funzionare con vigore e con libertà.
Motivo di più per andare in Spagna, dove le sollecitazioni
degli ambiziosi lo infastidirebbero meno! Senonchè prima di
partire Augusto doveva provvedere ad alcune gravi faccende. Doveva
innanzi tutto preparare l’opinione pubblica, che farneticava la
guerra contro i Parti ed altre simili gesta, ad approvare i suoi
più modesti disegni. All’Italia, che si aspettava la
conquista di immensi imperi, di magnifiche città, di opulenti
tesori, Augusto non osava dir chiaro e subito che muoveva alla
conquista di valli deserte, di qualche montagna brulla, di alcune
miglia di cunicoli sotterranei abbandonati e a metà
rovinati.... Egli incominciò quindi a spargere la voce che si
accingeva a partire, per muovere alla conquista della Britannia
prima e della Persia poi: quando fosse partito, a poco poco farebbe
divulgare la notizia che grandi rivolte erano scoppiate in Spagna,
accreditandola con successivi ampliamenti; avvezzerebbe così
il pubblico all’idea della spedizione e indugiando lungo la via,
aspetterebbe il tempo opportuno di mutare il suo viaggio40. Era
però necessario che, lui partito, non fosse turbata la pace,
in cui Roma viveva da alcuni anni: se no tutti avrebbero rammaricato
il suo viaggio, come un grave errore e una grande sciagura. Ma chi
avrebbe potuto far le sue veci, durante la assenza di lui? Sebbene
Agrippa, che era suo collega nel consolato per quell’anno, e
Statilio Tauro, che doveva esserlo nell’anno seguente, fossero
persone autorevolissime, non parve che, con la sola autorità
di consoli e lui lontano, potrebbero raffrenare senza armi e senza
milizia una moltitudine riottosa, per la quale il consolato aveva
perduto tutto l’antico splendore, dopochè l’aveva visto
profuso tra gente troppo ignobile e oscura. Era necessario qualche
cosa di più singolare; un nome almeno, poichè la forza
verace mancava, più insolito e più solenne, che
però fosse nel tempo stesso repubblicano. Assecondando il
vezzo arcaicizzante allora in voga, Augusto pensò di
disseppellire un’altra mummia: il praefectus urbi, che al tempo dei
re e nei principii della repubblica era nominato per fare in Roma le
veci, prima del re e poi dei consoli, quando uscivano per la guerra;
e cercò pur di persuadere Messala Corvino ad accettare la
carica, probabilmente su nomina del Senato. Messala era stato
amicissimo di Bruto, aveva combattuto al suo fianco a Filippi, lo
aveva veduto morire; e, benchè riconciliatosi poi con
Augusto, era rimasto fedele alla memoria dell’amico, di cui diceva e
scriveva in ogni occasione apertamente le lodi41; era un nobile di
grande famiglia, un repubblicano fermo e sincero, un guerriero
illustre; era anche molto amato e ammirato dai letterati, che
proteggeva e di cui raccoglieva intorno a sè un crocchio.
Messala rassicurerebbe dunque anche i più diffidenti
repubblicani. Ma Messala riluttò da principio42. Forse lo
spaventava la gravità del compito, forse la arcaica stranezza
del ripiego. Per gli archeologi la praefectura urbis, disusata da
tanti secoli, poteva essere ancora una istituzione repubblicana e
romana; non per il popolo, che l’aveva dimenticata interamente e da
un pezzo.
Ma una difficoltà più grave nasceva in Egitto. Non
ostante il suo fermo proposito di governar l’impero con una politica
semplice, coerente, senza contradizioni, Augusto era stato costretto
a imitare in Egitto, sia pur con maggior discrezione e con il
consenso delle autorità legittime, lo sdoppiamento
artificioso di Antonio. Ma non ostante la sua prudenza, delle
difficoltà inaspettate erano subito nate dallo stesso seme di
quella contradizione insolubile. Nella immensa e meravigliosa reggia
dei Tolomei, tra il lusso, i piaceri e gli omaggi prodigati a lui
che occupava, senza confessarlo, il trono dei Lagidi, anche Gallo,
l’antico borghesuccio di Forum Julii correva pericolo, come Antonio,
di perdere il senno. Non aveva solo accumulate immense ricchezze43,
accettati omaggi regi e fatte erigere in suo onore statue in ogni
parte44: ma aveva anche preso a trattare l’Egitto con la violenza di
un tiranno orientale e cominciato a sognar di fondare un grande
imperio di sua iniziativa. Tratto fuori di Alessandria da una
piccola rivolta scoppiata nell’interno, per reprimerla e per dare un
esempio, aveva addirittura distrutta Tebe45; poi aveva ripresa,
contro il volere di Augusto, la politica di espansione verso
l’interno del continente africano e le sorgenti del Nilo, che in
ogni età fu quasi una necessità di tutti gli Stati che
possedettero l’Egitto. Mirando forse probabilmente non solo a
soddisfare la sua smania di gloria e la sua avidità di
bottino, ma a far ammirare dagli Egiziani il nuovo regime, come
più ardito e più forte che il cadente governo dei
Tolomei, Gallo aveva, probabilmente nel 28, fatta una spedizione
nella Nubia – nel Sudan, cioè – arrivando, pare, sino a
Dongola, in una regione – dice egli forse troppo enfaticamente –
dove nessun generale di Roma e nessun re di Egitto aveva posto il
piede; ed era riuscito a fare accettare il protettorato romano a un
lontano predecessore di Menelik, il re degli Etiopi,
Triakontaschoeni, i cui ambasciatori lo avevano trovato a File46.
Augusto non approvava nè queste repressioni furibonde
nè queste temerarie avventure, temendo – al solito –
implicherebbero l’Egitto in gravi dispendi ed in guerre a cui non
sarebbero bastate le tre legioni, assegnate come guarnigione
all’antico regno dei Tolomei: ma non poteva, con la sola
autorità personale, trattenere la irrequieta ambizione di
Gallo, che celebre per fatti d’arme e per opere letterarie,
orgoglioso per i servizi già resi al partito trionfante e ad
Augusto, si considerava poco meno che pari del princeps; ma non
osava adoperare con un personaggio tanto cospicuo la autorità
sua così incerta, così equivoca, così poco
romana, di re di Egitto per sottinteso, tanto più che
probabilmente la prepotente e avventurosa politica di Gallo non
spiaceva all’Italia, avida di umiliare e maltrattare l’antico regno
di Cleopatra. Cosicchè Gallo non dipendendo da alcuno, non
dal Senato, che non amministrava l’Egitto, non da Augusto, che non
voleva, esercitandola, mostrare al popolo la sua strana
autorità, faceva e disfaceva in Egitto a suo talento: pare
anzi biasimasse acerbamente e pubblicamente le esitanze di Augusto,
e non si peritasse di empir l’Egitto di iscrizioni in cui celebrava
le imprese sue come tutte sue, senza alcuna allusione a colui che
doveva apparire agli Egiziani come il sovrano loro e di Gallo, e
obbligando gli Egiziani a domandarsi se Augusto fosse veramente il
sovrano dell’Egitto o se Gallo invece un generale in rivolta. Questo
strano contegno di Gallo aveva risvegliate tante diffidenze, che gli
astuti sacerdoti di File, incaricati di tradurgli in geroglifici una
iscrizione laudatoria delle sue gesta, nella quale Augusto era
appena nominato, sembra lo abbian tradito, traducendo in luogo delle
lodi sue, vaghe ed enfatiche lodi di Augusto. Gallo non poteva
decifrare i misteriosi caratteri!47
Trattenere Cornelio Gallo sulla via della nuova conquista era cosa
necessaria; ma il mezzo mancava, perchè dei mezzi che aveva a
sua disposizione Augusto non voleva servirsi. Alla fine sembra che
Augusto si risolvesse a fare intervenire il Senato e l’opinione
pubblica. Molti ufficiali ritornati dall’Egitto raccontavano, anche
esagerandole, le stranezze di Cornelio Gallo; tra questi il
più acerbo di tutti era un certo Valerio Largo, che sembra
avesse motivi di personale rancore con il praefectus Ægypti.
Non è improbabile che Augusto indirettamente facesse incitare
Largo a denunciare al pubblico le stravaganze di Gallo, con la
speranza di intimorire il governatore dell’Egitto, mostrandogli il
malcontento popolare.
Ma prima che Largo incominciasse le sue divulgazioni, Augusto era
uscito di Roma: non appena, probabilmente, Valerio Messala si fu
persuaso ad accettare, per l’anno prossimo, la praefectura urbis.
Egli annunciava di andare a conquistar la Britannia, già
tentata da Cesare, e a preparare la rivincita contro la Persia; e lo
seguiva l’augurio di Orazio, che al suo ritorno egli sarebbe adorato
quasi come un Dio. Egli invece andava soltanto a riconquistare una
regione ricca di miniere, e non per ritornare trasformato in
Semidio, ma per passare utilmente qualche anno lontano da Roma, e
prendere tempo a osservare come si metterebbero, frattanto, le cose
in quella universale incertezza.
II.
I PRIMI EFFETTI DELLA CONQUISTA DELL’EGITTO
E IL CAPOLAVORO DI
ORAZIO.
Augusto conduceva in Spagna il figliastro e il nipote48: Tiberio
Claudio Nerone, che aveva quindici anni, essendo nato da Livia il 16
novembre del 42; Marco Claudio Marcello, il figlio di Ottavia e del
Console famoso per aver provocata nel 50 la guerra civile, che si
crede fosse nato qualche mese prima di Tiberio, nel 43. Erano dunque
ambedue appena usciti di fanciullezza: eppure Augusto già li
conduceva alla guerra. Augusto, noi l’abbiamo detto, era un
arcaicizzante sincero e ragionevole; onde se capiva di non potere,
come il popolo farneticava, essere il restauratore di tutta l’antica
Roma, era invece disposto a tentare due cose: restaurare entro le
mura della sua casa un piccolo pezzo di quel passato, ricostituendo
una antica famiglia, uno di quei piccoli monarcati domestici che
erano stati il fondamento della società romana: ringiovanire
la repubblica, rinnovando uno dei principii più salutari del
governo aristocratico, che poi le gelosie e le diffidenze nate con
le discordie e le rivoluzioni avevano spento; non dover cioè
lo Stato diffidare della gioventù, dare le cariche più
alte e le missioni più difficili solo alla canuta vecchiaia.
Largo ai giovani di nuovo, come nei tempi aurei dell’aristocrazia!49
Non si era forse la nobiltà nell’ultimo secolo tanto
corrotta, perchè i suoi membri erano stati condannati ad
oziare nella età in cui le energie del corpo e dell’anima
ribollono, forzando il vaso in cui sono contenute; a sciupare nel
vizio e nelle dissolutezze la gioventù che non potevano
consumare in opere grandi? D’altra parte, l’aristocrazia era stata
così decimata, che se si voleva affidarle tutte le cariche
più importanti, era necessario sollecitare e spingere innanzi
i giovani, gli anziani non bastando più e molti non avendone
voglia. Prudente in ogni atto, pare che Augusto avesse già
fatto approvare una modificazione generale alle leggi annali allora
in vigore, per preparar gradualmente il ringiovanimento dello Stato;
e che intendesse poi proporre al Senato delle esenzioni speciali per
le persone che meritassero; mentre intanto incitava con un esempio
tutta la giovane aristocrazia a non perdere il tempo, facendo
incominciar subito il tirocinio militare e politico ai propri
parenti. Aveva perciò o raccolti sotto la sua autorità
o confidati a Ottavia e a Livia oltre l’unica figlia, Giulia,
natagli da Scribonia nel 30, tutti i fanciulli del parentado, che la
rivoluzione aveva orbati del genitore: i due figli di Livia, il
quindicenne Tiberio, di cui abbiamo già parlato e il fratello
minore, Nerone Claudio Druso, nato nel 38; i cinque figli che sua
sorella Ottavia aveva generati da Marcello e da Antonio, e
cioè le due Marcelle, il Marcello che lo accompagnava in
Spagna, e le due Antonie, nate prima che il triunviro abbandonasse
la sposa latina per Cleopatra; infine anche il figlio minore di
Antonio e di Fulvia, che doveva avere a un dipresso l’età di
Tiberio e a cui era stato mutato il nome in quello di Julo Antonio:
infine i tre figli superstiti di Cleopatra e di Antonio: Cleopatra
Selene, Alessandro Elios, e Filadelfo50. Di questi dodici fanciulli,
ai primi nove, che avevano nelle vene solo e purissimo sangue
romano, Augusto aveva da qualche tempo già incominciato ad
applicare il canone dell’antica educazione: le donne al telaio e gli
uomini al campo per tempo. Sebbene maschi e femmine fossero
accuratamente istruiti nella letteratura e nella filosofia, pure il
princeps voleva portar toghe tessute in casa dalle due donne, come i
grandi signori della età aristocratica51; e quanto ai maschi
intendeva tuffarli di buon’ora nelle vive correnti dell’azione, per
temperare armonicamente gli studi con l’esercizio delle
facoltà attive. Gli ultimi tre, bastardi di un grande romano
traviato e di una regina asiatica, pare che Augusto volesse tenerli
in serbo come strumenti dinastici di politica orientale: anzi pare
si accingesse già a servirsi di Cleopatra per riordinare la
Mauritania, annessa da Cesare. Augusto pensava di ristabilire la
dinastia nazionale, rimettendo sul trono di Giuba il figlio del re
vinto da Cesare, che era stato educato a Roma e aveva ricevuto una
educazione greco-romana: ma insieme con il regno, Giuba riceverebbe
Cleopatra per moglie52.
In Gallia Augusto si fermò a Narbona dove egli trovò
ad aspettarlo, convocati senza dubbio precedentemente, i notabili di
tutta la Gallia53; vide venirgli incontro quanto restava della
Gallia di Cesare e di Vercingetorice.... Venticinque anni erano
passati dalla caduta di Alesia; ma neppure Antonio, che l’aveva
veduta trascorrer furiosa sui campi di battaglia, moltiplicarsi
infaticabile per tanti anni nelle insidie e nelle rivolte,
precipitare infine, torrente immenso e vorticoso, sulle sottili
trincee romane di Alesia, neppure Antonio avrebbe riconosciuta la
terribile Gallia contro cui aveva combattuto, in quella generazione
incanutita, che si raccoglieva ad Alesia intorno ad Augusto:
riconciliata ormai con Roma, inerme, pacifica, dedita
all’agricoltura e alla pastorizia, arricchita, ingrassata; se non
curiosa di tutte le cose romane e disposta ad imitarle essa stessa,
corriva a lasciare i giovani, la generazione nuova, che non aveva
veduta la grande guerra nazionale o appena l’aveva intravista
nell’alba dell’infanzia, “romanizzarsi”. Roma (l’autore spera che il
suo lettore non l’abbia ancora dimenticato) aveva avuti sin dal
primo giungere di Cesare numerosi amici nella nobiltà
gallica, scontenta del disordine interno, irritata dalla
insubordinazione della plebe e dalla prepotenza dei grandi
plutocrati, inquieta per la crescente debolezza militare della
nazione e per la minacciosa preponderanza germanica. Combattuta tra
l’amore dell’indipendenza e la paura così dei germani come
dei nemici interni; ora irritata dalla prepotenza romana, ora
spaventata dalle minaccie popolari, la nobiltà aveva di
continuo oscillato per nove anni in quel modo che il lettore
ricorda: ora per Cesare ora per la Gallia, ma sempre così
poco ferma nel sostener Cesare come molle nel combatterlo, lasciando
nei momenti critici ogni cosa in balìa della minoranza
esaltata dei nemici irriconciliabili di Roma, dei “nazionalisti”
intransigenti. Cosicchè alla fine del 52 – fatto quasi
incredibile – un manipolo di giovani arverni, con a capo
Vercingetorice, non ostante l’età, l’inesperienza, la poca
autorità, avevano potuto rovesciare il governo e trascinar
tutta la Gallia nella tremenda avventura.... Ma fallita la grande
rivolta, perita in questa o nelle successive o emigrata tutta la
nobiltà irriconciliabile, esausto quindi il partito
nazionale, la maggior parte dell’antica nobiltà celtica era
ritornata nelle prime disposizioni e tanto più rapidamente,
perchè Cesare, capito il momento, aveva saputo rassicurarla
con abili concessioni. Gli Edui, i Lingoni, i Remi avevano
conservata la condizione di alleati, cioè di stato
indipendente, trattanti da pari a pari con Roma; molti popoli erano
stati dichiarati liberi, cioè autorizzati a vivere con le
loro leggi e a non ricevere guarnigioni romane, ma solo a pagare una
parte del tributo54; a molti pure erano stati conservati il
territorio, i tributarî, le gabelle, tutti i diritti e tutti i
titoli che si arrogavano prima della conquista; a nessuno, certo, fu
aumentato il tributo55, cosicchè la Gallia non dovè
pagare – se pure la pagò – che la non grave contribuzione
stabilita in origine di quaranta milioni di sesterzi. Si era
studiato insomma di palliare l’annessione con platoniche
sodisfazioni all’orgoglio nazionale; non aveva infierito contro la
nobiltà tentennante che un po’ l’aveva aiutato un po’ l’aveva
tradito; anzi aveva diviso i beni dei grandi periti o fuggiti, dei
plutocrati scomparsi nella rivoluzione tra le famiglie nobili
disposte ad accettare la supremazia romana56; molti nobili aveva
presi al suo servizio nelle guerre civili, dando loro doni e talora
la cittadinanza romana. Augusto si vedeva dintorno a Narbona in
prima fila i Cai Giulii, che al bel prenome e nome latino
attaccavano come cognome il loro barbaro gentilizio celtico; tutti
cioè i nobili Galli fatti cittadini romani da suo padre e che
formavano, nella nobiltà celtica, una specie di piccola
nobiltà più eccelsa57. Così le guerre civili,
che tutti avrebbero detto dover travolgere l’opera di Cesare, la
avevano invece sospinta verso il suo compimento, affrettando in
Gallia, per una strana contradizione, la pace. Intimoriti dai
ricordi delle rivolte galliche e dal fantasma di Vercingetorice,
costretti a richiamare dalla Gallia tutte le legioni, consapevoli
della loro debolezza, i triunviri avevano lasciata la Gallia quasi
in balìa di se stessa, e poco meno che indipendente di fatto
se non di nome. Parecchie monete ci mostrano che in questo tempo i
proconsoli romani, sempre provvisti di poche milizie, governavano la
Gallia per mezzo e con l’aiuto dei grandi di ciascun popolo,
restringendosi quindi a lasciar agire le antiche istituzioni
nazionali58; cioè a impedire le rivolte e le guerre tra i
singoli popoli e a percepire un piccolo tributo, se pure la Gallia
non cessò in quegli anni di pagare anche quello: non duro e
non severo regime, per il quale la Gallia non aveva tardato a
rifarsi di tutti i danni subiti. Allontanate le legioni, erano
cessate le straordinarie contribuzioni di guerra, le esazioni, le
rapine, le violenze; il tributo di 40 milioni di sesterzi, anche se
fu pagato, non esauriva una regione naturalmente così ricca;
la pace interna aveva disperse le torme dei cavalieri e dei clienti
di cui la nobiltà si era servita per le sue guerre: gli uni
mutando in artigiani o in agricoltori59; gli altri arruolando nella
cavalleria romana, e mandandoli a saccheggiare nelle guerre civili
l’Italia e l’impero, a raccattare cioè qua e là
qualche gruzzolo d’oro da riportare in patria. Si aggiunga infine
che la conquista di Cesare aveva rimessi in circolazione molti
inutili tesori ristagnanti nei templi e nelle case dei ricchi; e se
di questo capitale una parte era stata portata in Italia, una parte
pure era rimasta in Gallia, e spartita tra mille mani. La guerra
prima e la pace poi avevano insomma ridata alla Gallia una certa
abbondanza di capitale, una certa abbondanza di braccia, una certa
sicurezza; onde in una terra fertilissima60 allora come ora, bene
irrigata, coperta di boschi e ricca di minerali61, la opulenza era
in venticinque anni molto aumentata.
E così, al riparo delle Alpi, al riparo del fantasma di
Vercingetorice – e fu questo il vero servigio reso alla patria sua
dal vinto di Alesia – lentamente, placidamente la Gallia aveva
potuto a poco a poco in quel ventennio delle guerre civili, tanto
funesto all’Italia e alle provincie dell’Oriente, ritrovare o rifare
una parte delle sue ricchezze disperse e distrutte nella terribile
crisi. Si ricominciavano a scavare in ogni parte le miniere,
specialmente quelle d’oro, la rarità del metallo incitando a
frugare in ogni parte, anche nelle sabbie dei fiumi più
poveri62; si scoprirono intorno a questo tempo le miniere di
argento63; si prendeva a coltivar nuove terre e su quelle come sulle
terre già prima lavorate, si incominciava a piantare il lino,
che sino ad allora era stato coltivato quasi solo in Oriente64; gli
artigiani erano cresciuti di numero, dopochè i piccoli
eserciti gallici erano stati disciolti. E a mano a mano che la
nazione si avvezzava a questa pace e a questa prosperità, la
dominazione romana si faceva più stabile, appoggiandosi ad
una aristocrazia di grandi possidenti in cui i vecchi, dimenticando
il passato, si acconciavano a subirla, e i giovani, ignorando il
passato, incominciavano ad ammirarla, invogliati a godere almeno
certi prodotti materiali della raffinata civiltà
mediterranea: l’olio ed il vino. Già probabilmente si apriva
qua e là qualche scuola di latino per la gioventù
ricca65; già su per i fiumi salivano navi cariche di olio
italiano e di quel vino italiano e greco, di cui i bellicosi Galli
in antico avevano tanto temuto la snervante dolcezza66; già
nella Gallia Narbonese, più romanizzata, qualche artista
greco cominciava ad esser chiamato dalle ricche famiglie per
costruire qualche monumento insigne67; già gli eleganti
dèi di Roma e dell’Oriente venivano curiosi nelle selve
immense a osservare gli ispidi e rudi dèi celtici, se si
potesse farli entrare nel sontuoso Pantheon degli dèi
dell’impero.... Allora come sempre, insomma, questa terra felice si
era riavuta con una rapida rinascenza dalle rovine dell’ultima
guerra; e allora come sempre lo Stato che ne era signore si
accingeva a sfruttare con nuove imposte la sua fiorente ricchezza,
mettendo una parte della spesa necessaria a mantenere l’esercito a
carico della provincia, che sola forse aveva prosperato nella
universale decadenza, abolendo il privilegio dell’immunità di
cui la Gallia aveva goduto, per la debolezza di Roma negli anni
precedenti. Del resto, una parte dell’esercito non serviva forse
appunto a difendere la Gallia contro i Germani? Solo al riparo delle
legioni romane la Pace distribuiva ai Galli in così larga
misura i suoi doni. Era perciò giusto che la Gallia, dopo
aver goduto il beneficio68, contribuisse pure alle spese necessarie
a mantenerlo. È tuttavia probabile che nel congresso di
Narbona Augusto si restringesse ad annunciare e ad attuare un
seguito di misure che dovevano preparare la riforma tributaria,
senza però ancora accennare a questa. Divise la Gallia
chiomata – tolta quindi la Narbonese – in tre parti: la Aquitania,
la Lionese, la Belgica, ciascuna delle quali avrebbe un legatus69;
ordinò un grande censo per verificare lo stato mutato delle
fortune e per distribuire equamente i nuovi carichi; ad aiutare i
legati a fare il censo, pare lasciasse dei procuratori, scelti tra i
più abili suoi liberti, a capo dei quali aveva posto Licino,
quel giovanetto germanico che Cesare aveva catturato e poi liberato;
che conosceva la Gallia, la lingua celtica e l’arte di maneggiare i
quattrini70. Aveva infatti già saputo fare una immensa
fortuna. Disposte rapidamente tutte queste cose e dopo aver fatto
annunciare in Italia che grandi rivolte erano scoppiate in Spagna,
Augusto si recò in Spagna, dove giunse a tempo per inaugurare
il l.° gennaio del 26 il suo ottavo consolato in Tarragona71.
Ma mentre egli si recava in Spagna, era incominciato in Italia un
nuovo disordine, non materiale ma morale, effetto non di ambizioni e
di interessi cozzanti, ma di una irrequietezza e di un rodimento
interiori, che però aveva già in parte frustrati tutti
i saggi provvedimenti presi da Augusto prima di partire. Il
disordine aveva tratto origine dalle accuse di Valerio Largo contro
Cornelio Gallo. Aveva Largo, partito Augusto, impreso a denunciare
il lusso, le rapine, la superbia, la tracotanza del prefetto di
Egitto72: ma queste accuse, invece di increspare l’opinione pubblica
alla superficie con un piccolo fremito di disapprovazione, ci
scatenarono dentro una tremenda procella di collera. La aristocrazia
diede il segno, si gettò prima sulla vittima con un
accanimento furente, si trasse dietro le altre classi73; in pochi
giorni l’uomo potente e rispettato da tutti si mutò in un
orrendo ladrone, meritevole dei più aspri supplizi; in ogni
parte, ma specialmente nelle grandi case, si reclamò con urla
feroci un esempio salutare. Per un misterioso, repentino violento
commovimento degli spiriti, Roma fremè tutta all’improvviso
di orrore, sebbene in verità un poco troppo tardi, alla vista
delle rapine che l’avevano arricchita; smaniò che, non come
Gallo faceva, si dovevano reggere i sudditi. Qualche amico di Gallo,
qualche persona seria e dabbene cercò di risalir la
corrente74; invano, che Largo, complimentato, adulato, plaudito da
ogni parte e specialmente dai nobili, inebriato dal successo
inatteso, empiva Roma di accuse, e tutti, senza neppur aspettare che
Gallo ritornasse d’Egitto a dir le sue ragioni, che si discutessero
i processi intentatigli, lo avevano già condannato. Sotto
pretesto di giustizia e di rettitudine, il pubblico sfogava in
verità sul malcapitato un feroce ed occulto rancore, lasciato
negli animi dalle guerre civili che avevano distrutte tante medie
fortune, e così smisuratamente arricchito un piccolo numero
di fortunati. La pace era ritornata, ma nelle cose, non negli
spiriti! Se Augusto, se Agrippa, se gli uomini più eminenti
del partito vittorioso, se molti loro liberti, se qualche abile ed
oscuro plebleo erano diventati ricchissimi, il maggior numero dei
senatori aveva così modeste fortune che, nel riordinamento
della repubblica, si era fissato il censo senatorio a 400 000
sesterzi; e tanti erano i cavalieri che, pur non essendo stati
cancellati dai ruoli, non osavano più sedersi in teatro sui
quattordici banchi riserbati all’ordine equestre, perchè
avevano perduto il patrimonio nelle guerre civili, che Augusto li
fece dal Senato autorizzare a sedercisi, ciò non ostante75.
Tutti costoro naturalmente covavano in fondo al cuore un rancore
tenace contro le grandi fortune, non dissimile dall’odio con cui in
una città moderna, devastata dal ciclone di una crisi
finanziaria, la classe media perseguita i banchieri, che le hanno
vendute a caro prezzo le azioni poi rinvilite: inclinavano
cioè al modo stesso a considerare i palazzi, le ville, gli
schiavi, i denari dei pochi ricchi come un furto perpetrato a loro
danno; tanto più rodendosi rabbiosamente, perchè non
c’era alcuna speranza di vendetta o di risarcimento, anzi bisognava
perfino ammirare nella persona di parecchi potenti, di Augusto, di
Agrippa, di Mecenate, la spoliazione che tanti avevano subita76. Ed
ecco tutte queste vittime irritate della rivoluzione, che
ingrandivano nella propria immaginazione il torto e il danno
ricevuti, incontravano uno di quei fortunati spoliatori, nelle cui
mani essi pensavano fosse passata la parte maggiore delle proprie
sostanze, solo e lontano dagli amici che avevano preso parte con lui
al saccheggio, perchè l’orgoglioso aveva presunto di poter
staccarsi dalla piccola consorteria rivoluzionaria e dal suo capo
per fare da sè.... E la moltitudine lo aveva da prima
salutato rispettosamente, come soleva salutare tutti gli altri
potenti; ma quando un uomo più audace aveva osato additarlo
alla folla, vituperarlo, accusarlo, tutti i rancori latenti si erano
risvegliati; e avevano preso coraggio a mano a mano che avevano
visto il successo e la popolarità delle accuse. Ormai
l’aristocrazia, tutta unita, guidava il movimento popolare contro
Gallo per il piacer di distruggere uno dei tanti homines novi della
rivoluzione, per vendicarsi almeno su lui di Filippi e delle
proscrizioni: e i senatori poveri, i cavalieri, il popolo le
tenevano dietro, furenti, per invidia delle ricchezze e della
fortuna, per un’impazienza improvvisamente irritata di restaurare
l’ordine morale a lungo violato dal delitto impunito, per servile
condiscendenza alla nobiltà rifatta potente, per affettazione
arcaicizzante, per stupidità. Se gli amici di Gallo, se i
compagni nelle rapine della rivoluzione, con a capo Augusto, non
accorrevano a soccorrerlo, egli sarebbe sbranato! Ma Augusto fu
debole; ma gli amici si lasciarono facilmente scoraggire e
spaventare dalla esasperazione popolare; ma la pace veniva aguzzando
nei cuori nuovi egoismi, non meno atroci e bassi che quelli della
guerra civile, pur ravvolgendoli nei bei nomi della giustizia e
della rettitudine. Un filosofo avrebbe potuto affermare che in Roma,
nella città tutta edificata, dal lastricato delle vie ai
templi degli dèi, con l’immensa refurtiva di un saccheggio
mondiale, Gallo era benemerito della repubblica, perchè
almeno non derubava l’Italia ma gli Egiziani: più
semplicemente i suoi amici potevano domandare alla città
invirtuositasi subitamente così, che cosa Gallo avesse fatto,
che non avessero fatto e Agrippa e Augusto e tutti gli uomini
più ammirati di Roma in quella e nelle precedenti
generazioni; che non desiderasse di fare ogni cittadino giunto
all’età della ragione. Ma tutte le oligarchie che hanno
origini torbide e dominio poco sicuro, usano abbandonare di tempo in
tempo ai risentimenti dei dominati qualche loro membro. A chi tocca,
tocca! Allora, come sempre, era più comodo immolare il
proprio vicino, anzichè i propri privilegi; abbandonare ai
furori della aristocrazia storica, della classe media, del popolo,
l’orgoglioso e prepotente Gallo, anzichè restituire loro una
parte dei beni. Augusto, per non contrariare l’opinione pubblica
senza nuocere troppo a Gallo, lo revocò, dichiarò di
escluderlo dalle sue provincie e dalla sua casa77; ma punto
soddisfatto di questo blando castigo, anzi incoraggiato da Augusto
stesso, che con questa punizione dichiarava di ritenerlo colpevole,
il pubblico domandò nuovi e maggiori rigori; tutti
abbandonarono l’antico praefectus Ægypti; nuovi accusatori
spuntarono da ogni parte e nuove accuse, senza prove, esagerate,
fantastiche, che il pubblico accettava tutte come vere78. Per esser
sicuri della sua condanna, si riuscì, non sappiamo con qual
raggiro, a deferire il suo processo al Senato79.
Ma gli spiriti nobili non potevano non essere allora, come sono
sempre, profondamente turbati da questa esecuzione a furore di
popolo compiuta sopra un uomo illustre, cui si accusava di aver
fatto ciò che per tanti altri era gloria. Al principio del
26, sei giorni dopo avere assunta la praefectura urbis, Messala si
dimetteva dichiarando di non sentirsi pari all’ufficio e di non
considerare come costituzionale la carica80. È probabile che
la disgrazia di Gallo lo avesse spaventato, dimostrandogli che il
popolo non capiva più la magistratura, ormai troppo disusata,
del praefectus. Se al praefectus Ægypti toccava quel che
toccava, a qual repentaglio si esponerebbe chi dovesse esercitare la
carica in Roma? Così le fatiche spese da Augusto per
persuadere Messala andavan perdute; Roma restava senza princeps,
senza praefectus, con un solo console. A ribadir lo spavento
sopraggiunse la catastrofe: disperato per l’universale abbandono,
Gallo si era ucciso! Augusto rinunciò infatti a cercare un
nuovo praefectus urbi, lasciò la città nella custodia
dell’altro console, Statilio Tauro, sperando nella fortuna, e a
primavera si volse a incominciare la guerra, prendendo egli stesso
il comando dell’esercito81. Gli eventi degli ultimi anni lo avevano
trasfigurato anche agli occhi dei soldati, e più ancora le
terre e i denari profusi tra i veterani congedati: cosicchè
le legioni lo veneravano come il semidio, dalle cui mani uscirebbero
in avvenire i regolari stipendi e le laute pensioni finali. Non
è tuttavia difficile capire perchè il nuovo
generalissimo si desse pensiero, dimostrando che era capace di
dirigere solo, senza i consigli di Agrippa, una guerra, di far meno
stridente la contradizione tra la propria inettitudine militare e la
carica di supremo comandante delle legioni. Questa contradizione non
era nè la più piccola nè la meno perigliosa
delle contradizioni tra cui si avvolgeva; e l’accresceva l’urgenza,
palese a tutti, di restaurare gli ordini antichi sopratutto nella
milizia, che, come tra tutte le istituzioni si era maggiormente
corrotta, così aveva maggior bisogno di ritornare alle
origini sue. Difatti egli aveva aboliti gli abusi più
inveterati; non si rivolgeva più ai legionari chiamandoli
“compagni”, ma “soldati”; aveva escluso con rigore dalle legioni i
liberti, per ripristinare la dignità della milizia, come
privilegio dei liberi; aveva ristabilito il severo sistema delle
pene e delle ricompense antiche82.
Disgraziatamente però Augusto non era nato a comandare gli
eserciti. I Cantabri e gli Asturi, sapendo che vinti sarebbero stati
presi, incatenati e deportati nelle viscere dei monti a scavar
l’oro, si difendevano con disperato valore; e ridussero presto, con
abili e rapide mosse, in condizioni difficili l’incerto Augusto. Una
giudiziosa malattia lo colse a tempo, per giustificare alle legioni
il suo ritorno a Tarragona e il passaggio del comando a due legati:
Caio Antistio e Caio Furnio83. Augusto, il pio Augusto, si
contentò di far voto di un nuovo tempio sul Campidoglio a
Giove Tonante, questa volta per ringraziarlo di essere in una marcia
scampato miracolosamente al fulmine84: onde se per suo merito Roma
non riacquistava le miniere d’oro delle Asturie, avrebbe però
un tempio di più. Se ne sentiva il bisogno, senza dubbio!
Intanto un altro strano disordine era seguito in Roma alla
precipitosa caduta di Cornelio Gallo. Un uomo oscuro, un certo Marco
Egnazio Rufo, eletto edile per l’anno 26, aveva preso ad esercitare
la sua carica con zelo insolito; e mentre gli edili di solito
lasciavano placidamente bruciare le case del buon popolo, allegando
di non aver mezzi di spegnere gli incendi, egli aveva imitato per il
fuoco quello che Agrippa aveva fatto per l’acqua e Augusto per i
conti dello Stato: aveva cioè ordinate tra gli schiavi suoi
alcune squadre di pompieri e con quelle correva, come Crasso, a
spegnere gli incendi, gratuitamente però85. Naturalmente
nelle classi medie e popolari, che avevano cara la casa e le
masserizie almeno quanto la costituzione, Rufo era diventato
popolarissimo: i comizi avevano approvata una legge, che ordinava di
ripagargli quanto aveva speso del suo per il pubblico86; e
avvicinandosi le elezioni per l’anno 25 i suoi ammiratori volevano
proporlo subito a pretore87, a dispetto della legge, e rovesciando
di nuovo i segni della legalità, che Augusto e i suoi amici
così faticosamente tentavano di rialzare sul campo della
costituzione, devastato da tante rivoluzioni. Ma la nobiltà
invece si irritò e accusò lo zelante pompiere di
spegnere in Roma gli incendi, ma di rinfocolare negli animi le
passioni demagogiche88. La rovina di Cornelio Gallo aveva ridato
coraggio all’esausto partito della nobiltà, dimostrandogli
che nelle classi agiate, tra i senatori più rispettabili, tra
i cavalieri, anche nel ceto medio, covava una profonda avversione
contro gli uomini e i fatti della rivoluzione; nuovo coraggio gli
dava il mutamento ogni dì più visibile dell’opinione
pubblica, che in tutte le classi sociali, come spesso avviene dopo
le rivoluzioni, inclinava di nuovo al rispetto della nobiltà,
della ricchezza, delle glorie antiche, e prendeva in uggia gli
oscuri ambiziosi entrati in Senato dopo le Idi di marzo, come
indegni di rappresentare la maestà di Roma nel solenne
consesso. Perciò la nobiltà prendeva ardire a
contrastare il campo agli uomini nuovi, senza natali; e in questo
caso osò accusar Rufo di tentare con i suoi pompieri una
sedizione, di rinnovare i peggiori scandali delle passate agitazioni
demagogiche, sperando di rovinarlo come Cornelio Gallo e senza
badare che Rufo ripeteva solo quanto in misura maggiore facevano
Agrippa ed Augusto. Tanto meglio anzi: Rufo pagherebbe il fio di
queste novità poco costituzionali, che in Agrippa ed Augusto
era forza ammirare. Ma questa volta la nobiltà si
ingannò. Rufo non aveva, come Gallo, scritto soltanto belle
poesie e conquistato provincie: aveva salvato dal fuoco gli abituri
del popolino di Roma; e il favore della moltitudine per la sua
illegale candidatura a pretore crebbe in breve talmente, che
Statilio Tauro, il quale come console presiedeva le elezioni, non
osò cancellarne il nome dalla lista dei candidati. Rufo fu
eletto89.
Mentre Augusto era lontano, in quella Roma che a parole smaniava di
riconciliare i principî antichi della costituzione
aristocratica con i bisogni dei tempi mutati, un personaggio nuovo
era apparso a rimetter tra loro alle prese i partiti, ad esprimere
così le impazienze rivoluzionarie delle classi inferiori come
i rinascenti e irragionevoli puntigli della aristocrazia rifatta
potente: un pompiere. Pur che gli incendi fossero presto spenti, il
popolo non esitava a violare i principî fondamentali della
costituzione, due anni dopo che era stata ristabilita tra il giubilo
universale. Pur di far sentire la sua nuova forza, l’aristocrazia
pretendeva sotto pretesto di combattere la demagogia, pretendeva che
il popolo lasciasse bruciar le sue case, si volgeva contro, nella
persona di Rufo, a quel primo principio di riforma dei pubblici
servizi, che Augusto e Agrippa cautamente cercavano introdurre
nell’amministrazione, costituendo dei corpi privati di schiavi. A
ogni modo l’aristocrazia, che aveva distrutto così facilmente
Gallo, un poeta celebre, un guerriero illustre, un uomo
potentissimo, era stata vinta a sua volta da Rufo, che non aveva
altro merito se non di aver spento quattro incendi. Il contrasto era
stupido e assurdo; ma tutti si rassegnarono a subirlo in silenzio.
Anche Augusto si acconciò a dare la prefettura d’Egitto,
cioè la carica più importante dell’impero dopo la sua,
ad un oscuro cavaliere, a un certo Caio Petronio, perchè
tutti i personaggi autorevoli, spaventati dalla sorte di Gallo, la
rifiutavano90; e si confermò nel pensiero di non mescolarsi
troppo nelle cose dell’Italia, di attendere soltanto invece a
cercare in ogni parte dell’impero metalli preziosi, mentre seguiva
da Tarragona i lenti progressi della guerra cantabrica e asturica,
combattuta dai suoi generali. Egli preparava per l’anno prossimo, il
25, due spedizioni: una nel territorio dei Salassi – la moderna
valle d’Aosta – per conquistare la valle alpina più ricca di
miniere d’oro; e un’altra nell’interno dell’Arabia, per impadronirsi
dei tesori che si dicevano posseduti da quelle genti. Roma quindi
era abbandonata in balìa di sè stessa, nel vacuo della
sonnolenta tranquillità di quel tempo senza grandi imprese,
senza eventi clamorosi, senza forti impressioni; e in quel nulla la
concordia della città ristabilita in apparenza dopo Azio e in
seguito a quegli eventi terribili, si disgregava a poco a poco in
una incoerenza di propositi, di idee, di sentimenti contradittori
che, non avvertita o tollerata da tutti, perturbava in tutti il
retto intendimento dei fini e dei mezzi, l’accordo tra le parole e i
fatti, la coincidenza della dottrina e della pratica. Se l’ordine
era ristabilito alla meglio e se delle antiche feroci discordie non
restava più, diffusa per l’aria, che una nebbia sottile di
vaghi risentimenti, Roma incominciava a mettersi in contradizione ed
in guerra con sè medesima. Si era ricostituita la repubblica;
si cercava di ripristinare in ogni parte l’antico; si riformava un
partito della nobiltà che, approfittando della voga
arcaicizzante e della rinata ammirazione per il passato, si sforzava
di ridare alle famiglie nobili le cariche e tutto il potere,
umiliando ed escludendo i senatori di origine plebea, entrati nella
Curia per le porte spalancate dalla rivoluzione; rinascevano perfino
i fumi, le albagie, i dispregi gentilizi e con tanta forza, che pur
contro Agrippa questa rinnovata boria nobilesca affettava un certo
dispregio, inteso a coprire l’invidia e la rabbia91. Ma lo zelo
civico, anima dell’antico regime aristocratico, non si riaccendeva;
le cariche laboriose e dispendiose, le più ambite un tempo,
erano ormai schivate da quasi tutti; sebbene si togliessero via gli
ostacoli opposti dalle antiche leggi sulla via degli onori alla
giovinezza, non era facile coprire le liste dei candidati con nomi
onorevoli; bisognava continuamente ricorrere a ripieghi
straordinari, affinchè i più importanti servizi
pubblici – le strade, ad esempio – non giacessero in pieno
abbandono92. Il maggior numero dei senatori, più che a
profondere il proprio nelle cariche pubbliche, seguendo i consigli
di Cicerone, si disputavano le magistrature facilmente lucrose, come
quella di prefectus aerarii Saturni o amministratore del tesoro;
cercavano di guadagnare facendo gli avvocati, accettando dei
compensi per le difese forensi, in dispregio della antichissima lex
Cintia, che proibiva di ricevere mercede alcuna per atti di
assistenza legale93. Rammaricare questo disordine era facile; ma
come impedirlo? Il maggior numero dei senatori possedeva appena il
censo senatorio, e con 400 000 sesterzi nonchè spendere
per il pubblico era appena possibile di vivere decorosamente.
Insomma il principio della gratuità delle funzioni pubbliche,
essenziale all’antica costituzione, si accordava male con il mutato
assetto delle fortune; perchè gli uni erano troppo ricchi, e
gli altri troppo poveri, nella classe politica. Altre contradizioni
si aggiungevano ad aggravare e complicare il contrasto tra la
comodità privata e il dovere civico, immanente ormai in ogni
parte della repubblica. Si lodava universalmente l’antica
semplicità e parsimonia; ma intanto Augusto e i suoi amici,
con le grandi spese che per ragione politica facevano nella
metropoli, ne accrescevano la ricchezza e fomentavano in tutte le
classi il lusso, già avviato a crescere da sè, per la
naturale inclinazione degli spiriti. Se Roma si illudeva di avere
respinta ad Azio una audace aggressione dell’Egitto, essa non sapeva
resistere, dopo la vittoria, ad una nuova invasione egiziana meno
visibile ma più pericolosa che quella degli eserciti di
Antonio e di Cleopatra. Caduta la dinastia tolemaica, gli artisti, i
mercanti di oggetti di lusso, i professionisti, che avevano vissuto
lavorando per la corte di Alessandria, per i suoi eunuchi e i suoi
grandi, trovatisi in ozio, si erano volti a cercar lavoro e pane
nella grande città in cui viveva il successore dei Tolomei e
dove erano stati trasportati gli ingenti tesori dell’Egitto; e uno
dopo l’altro erano venuti e venivano in Italia, sbarcavano a
Pozzuoli, si fermavano – i più modesti – nelle città
della Campania, da Pompei a Napoli; altri andavano a Roma, ove
però cercavano invano la reggia sontuosa da adornare per il
successore dei Tolomei. Augusto abitava sul Palatino parecchie case,
costruite in diversi tempi da diversi signori, acquistate tutte da
lui e riunite, alla meglio, con differenti riparazioni, intorno alla
casa di Ortensio94, ma senza eunuchi, senza cortigiani, senza pompe.
Trovavano invece, quegli artefici, la parte più doviziosa
della aristocrazia senatoria ed equestre, che si accingeva a
edificare, tra le rovine della rivoluzione, una nuova Roma,
più sontuosa dell’antica; e che era disposta a far loro buona
accoglienza. La conquista e la caduta dell’Egitto, la leggenda di
Antonio e di Cleopatra per un’altra delle tante contradizioni di
quella età, avevano attirati gli spiriti verso le cose
egiziane. Molti degli uomini più autorevoli del partito di
Augusto avevano fatta la campagna di Egitto; avevano abitato molti
mesi ad Alessandria; avevano vissuto nelle case dei ricchi signori
egiziani; avevano curiosato tra gli splendori della immensa reggia
dei Tolomei; avevano riportato dall’Egitto mobili, vasi, tessuti,
oggetti d’arte. Molti in quell’ultimo saccheggio avevano fatta
fortuna prendendosi parte dei beni della Corona o di Antonio;
è probabile che la parte migliore del patrimonio di Augusto,
dei suoi parenti95, dei suoi amici fosse ormai in Egitto; il nuovo
lusso che ricominciava in Italia era alimentato dall’Egitto; erano
numerosi i ricchi romani i quali ora avevano faccende in Egitto, che
dovevano andarci ogni tanto o mandarci agenti. Il via vai tra
l’Italia e l’antico regno dei Tolomei cresceva come il commercio,
che faceva capo a Pozzuoli e che non trasportava in Italia solo oro
e argento, ma usi, ma costumi, ma idee. La conquista dell’Egitto non
tardò a far sentire il suo influsso sulla vita romana,
bilanciando rapidamente la propaganda arcaicizzante, che la politica
di Cleopatra aveva fomentata. Una vaghezza di eleganza di arte, di
lusso, di cose nuove, contratta dai più in Egitto,
tormentava, diffondendosi per contagio anche a quelli che non
avevano mai posto piede nel regno dei Tolomei, quegli ammiratori
rinnovellati della antica rusticità romana, invogliava molti
di coloro che avevano fatto fortuna, o che non l’avevano perduta
nella rivoluzione, a cercare in una bella casa il riposo e la pace,
dopo tante commozioni e tanti perigli. Bei palazzi si edificavano
nei diversi quartieri di Roma e perfin sull’Esquilino – l’antico
carnaio dei poveri – che si ingemmava di palazzi e di palazzine,
dopochè Mecenate ci aveva costruita una sontuosa dimora96. A
tempo perciò si offriva, per soddisfare questo confuso
desiderio di novità e di eleganza, per fomentarlo,
divulgarlo, raffinarlo, l’arte alessandrina, che era la più
raffinata, la più ricca, la più viva di tutte; e i
signori del mondo le facevano buona e larga accoglienza, la
invitavano a portare dalla metropoli dei Tolomei in Roma, nelle loro
nuove dimore, sulle pareti, sulle vôlte, sulla suppellettile
domestica, tutte le belle imagini, inventate e perfezionate con
secoli di minuzioso lavoro a sollazzo dei ricchi signori d’Egitto.
Divise le ampie pareti delle sale in compartimenti, inquadrati
questi con graziose cornici di festoni, di amorini alati, di
maschere, i pittori alessandrini ci dipingevano dentro, gli uni
scene omeriche o teocritee o mitologiche; altri alcuna di quelle
scene dionisiache che l’Egitto dei Tolomei amava tanto; altri, come
il celebre Ludio, degli artificiosi quadretti di genere, in cui le
eleganze dell’arte e le bellezze della natura erano mescolate con
fine maestria: colli e piani seminati di ville, di padiglioni, di
torri, di belvederi, di portici, di colonnati, di terrazze, di erme
dal viso dolce; ombreggiati da snelle palme e da pini a larga
ombrella; solcati da fiumicelli su cui si curvano degli eleganti
ponticelli di un solo arco; popolati di uomini e di donne che
passeggiano, si incontrano, si sollazzano. Chi visita la casa di
Livia sul Palatino o il Museo delle Terme diocleziane può
ammirare alcune opere molto belle di questa pittura decorativa,
raffinata, elegante, tutta soffusa di un vago erotismo, che in certi
recessi della casa getta i veli e diventa oscena. Altri artisti
ricoprivano le vôlte di stucchi, simili a quelli di cui
così magnifici avanzi sono pure nel Museo delle Terme
diocleziane, animando gli stessi quadretti di genere, gli stessi
artificiosi paesaggi, le stesse scene bacchiche sulla bianchezza
uniforme dello stucco, non più con il risalto dei colori, ma
con la leggerezza e il vigore incomparabili del tocco;
inghirlandando ogni quadretto con graziosissime ornamentazioni:
arabeschi e piante; Amori; grifoni che terminano talora in
arabeschi; Vittorie alate ritte sulla punta dei piedi.... Scultori
alessandrini incrostavano di marmi preziosi le pareti; mosaicisti
d’Alessandria componevano sui pavimenti grandiosi disegni; e ad
adornare queste sale i mercanti offrivano i sontuosi tappeti
tessuti; il magnifico vasellame cesellato, le tazze di onice e di
mirra lavorate ad Alessandria97. Ma queste case così adorne
in cui le Grazie si affaccendavano intorno al signore per dargli
piacere a ogni istante, con la vista di qualche bel paesaggio, di
qualche vago ornamento, di qualche leggiadro corpo nudo di donna;
queste case dipinte, stuccate, piene di marmi sontuosi, di mobili
ricchi, di Amorini, di Veneri, di Bacchi, di pitture sensuali ed
oscene, potevano essere nel tempo stesso i recinti quasi sacri, in
cui si raccogliesse di nuovo, agli uffici e ai doveri severi,
l’antico piccolo monarcato familiare, che tutti dicevano di voler
ricostituire? L’architettura della casa rispecchia in ogni
età la struttura della società, il fondo delle anime.
In quei nidi delle Grazie non poteva albergare l’amore antico, che
era il dovere civico della riproduzione da compiersi nel matrimonio;
ma solo l’amore nuovo, l’amore delle civiltà intellettuali,
raffinato da mille artifici in un egoistico godimento dei sensi e
dello spirito: in quelle belle case si compieva la evoluzione che in
quattro secoli aveva trasformato il matrimonio romano, da un chiuso
e rigido monarcato familiare nella più libera forma di unione
sessuale che la civiltà occidentale abbia vista, non molto
diversa da quel libero amore che i socialisti considerano come il
matrimonio dell’avvenire. Non più forme e riti; il consenso,
una certa condizione di dignità morale e, per usare le parole
romane, ‘‘l’affetto maritale” facevano il matrimonio, come il
dissenso, l’indegnità e la reciproca indifferenza lo
disfacevano; unico segno visibile di unione, per consuetudine
più che necessità giuridica, la dote; che un uomo
conducesse a viver con lui una donna libera, di famiglia onesta, ed
erano perciò solo considerati dalla legge marito e moglie, e
generavano figli legittimi; quando non volevano più esser
marito e moglie, si separavano; e il matrimonio era sciolto. Ecco
tratteggiato, nelle linee essenziali, il matrimonio romano ai tempi
di Augusto. La donna era ormai nella famiglia quasi libera ed eguale
all’uomo; perchè dell’antica incapacità di eterna
pupilla non le restava più che l’obbligo di essere assistita
da un tutore, se il padre o il marito non c’erano, ogni qualvolta
volesse obbligarsi, far testamento, intentare processi vendere una
res mancipi. Senonchè, se considerata in sè questa
forma di matrimonio era alta e nobile, a che si riduceva la
famiglia, ora che sparivano nelle donne dell’alta società le
antiche virtù femminili: la modestia, l’ubbidienza, la
laboriosità, la pudicizia?98 Ora che il poeta poteva imprecar
la morte a quanti ‘‘raccolgono i verdi smeraldi, e tingono con la
porpora di Tiro le bianche lane” perchè essi “accendono gli
animi delle giovani donne a voler vesti di seta e le brillanti
conchiglie del Mar Rosso?”99 Al paterfamilias del buon tempo antico,
il costume, senza il sussidio di legge alcuna, aveva potuto imporre
il matrimonio come un dovere, perchè il costume e la legge
gli riconoscevano diritti adeguati: la amministrazione di tutti i
beni e un potere quasi dispotico sui membri della famiglia. Ma quel
povero marito dei tempi di Augusto, scheletro, ombra, parodia
dell’antico, solenne, terribile paterfamilias romano, che poteri
aveva ormai, tranne quello di frodar qualche parte della dote;
sopratutto se gli avveniva di unirsi con una donna intelligente,
scaltra, prepotente, riccamente dotata, sostenuta da un parentado
cospicuo, da molti amici e ammiratori? Nonchè obbligarla a
generare molti figli e ad allevarli con zelo, nonchè
contrastarne i rovinosi capricci, egli non poteva neppure
costringerla a mantenersi fedele. Dissolvendosi l’antico monarcato
familiare, la donna aveva acquistato tutte le libertà, anche
quella dell’adulterio; perchè la legge non aveva osato
usurpare, minacciando essa delle pene, i diritti del paterfamilias e
quindi del tribunale domestico. Ma chi osava nemmeno proporre
più di convocare il tribunale domestico, in tanto
disfacimento della famiglia? Inoltre non sarebbe stato più
possibile punire l’adultera che con la morte; che alle altre pene
più miti, la relegazione in campagna ad esempio, la donna
poteva ormai facilmente sfuggire, divorziando: ma la morte pareva
ora pena troppo severa anche ai tradizionalisti più fieri....
Perciò quasi tutti ormai, fuori che qualche idealista
anticato, si sposavano, non per compiere un dovere civico, ma per
tornaconto; o perchè invaghiti di una bellezza, o
perchè cupidi di una ricca dote, o perchè desiderosi
di una parentela potente; e nel matrimonio molti facevano divorzio
appena il tornaconto non c’era più; altri cercavano un
sollievo mutando la moglie, come oggi si muta la cameriera; e non
pochi restavano celibi o sceglievano per concubina una liberta.
Queste unioni non erano considerate come matrimonii e quindi non
generavan figli legittimi: altro vantaggio per il padre, che poteva
adottare e dare il suo nome a quelli che più gli
piacessero100. Dal contatto dei pochi ricchissimi con i molti appena
agiati e invogliati continuamente a spendere dal lusso dei primi,
nasceva infine una depravazione ancora più orribile. Tra le
signore nate di famiglie equestri o senatorie poco ricche, sposate a
cavalieri e a senatori di modesta fortuna, non poche lavoravano, con
il consenso dei loro mariti, a fare una specie di curiosa
controrivoluzione, ripigliando ai Cresi di Roma con le carezze una
parte dei beni che costoro avevano presi con la forza e con la
rivoluzione. Non ostante la voga dell’arcaismo, le alte classi di
Roma giudicavano con molta indulgenza questo meretricio signorile,
perchè tutti ne profittavano, gli uni godendo, gli altri
lucrando; l’adulterio, che nel diritto antico il marito poteva
punire uccidendo moglie e drudo, diventava, per non pochi cavalieri
e senatori, un cospicuo commercio; cresceva in Roma, nelle alte
classi, il numero delle signore, di cui si sapeva che il cuore era
posto all’incanto101. Ma che caduta, per quella nobiltà che
aveva poggiato così alto, sulle vette più
inaccessibili al sospetto e al dispregio! Persino uno dei poeti
più scettici del tempo sembra avere sentito per un istante un
fremito di dolore e di orrore, vedendo la nobiltà romana
precipitata da quella altezza sublime di imperiosa e superba
virtù nell’avvilimento del meretricio elegante: e ha fatto
raccontare questo oscuro ma terribile dramma della storia di Roma,
dalla porta di una casa illustre, in pochi versi che non si possono
leggere senza commozione, tanto sono tragici, sebbene il poeta
voglia come di consueto scherzare. “Io – dice la porta – io che mi
aprivo un tempo ai grandi trionfi, io che ero casta e pura come una
vestale, io che fui varcata da tanti cocchi dorati e irrorata dalle
lagrime di tanti prigioni; io gemo ora, la notte, sotto i colpi dei
rissanti ebri, percossa da mani indegne. Ogni giorno io debbo
inghirlandarmi di infami corone, vedere ai miei piedi le torcie
lasciate dall’amante che non fu ricevuto. Io non posso più
difender le notti di una signora troppo famosa, io che, sì
illustre, sono fatta ludibrio di carmi osceni. Ma pur troppo essa
non si cura più di provvedere al suo onore; essa vuole con la
sua dissolutezza vincer quella dei tempi”102 E intanto se
nell’Italia ancora c’erano famiglie feconde, in quella piccola
oligarchia di famiglie possenti e ricchissime, che credevano di
presiedere in Roma alla ricostituzione del buon tempo antico,
nessuno dava l’esempio di generare numerosa prole, sebbene a nessuno
mancassero i mezzi di allevarla: e Augusto aveva solo una figlia, e
Agrippa pure; un solo figlio Marco Crasso, il figlio del ricchissimo
triunviro; nessun figlio invece Mecenate e Lucio Cornelio Balbo, il
quale anzi era scapolo. Solo M. Silano ne aveva due; e tre, Messala,
Asinio, Statilio Tauro. Le famiglie di sette od otto figli,
così numerose un tempo, non esistevano più; tutti
credevano di aver compiuti i loro doveri verso la repubblica, quando
avevano procreato uno o due fanciulli: anzi molti sfuggivano anche a
questo, pur così piccolo dovere! Immaginarsi se nelle
famiglie meno doviziose della classe alta la sollecitudine della
futura grandezza di Roma poteva esser maggiore! Le signore, invece
di invocare piamente sul seno fecondo la protezione di Iside e di
Ilitia, non avevano più nè vergogna nè timore
di “frugarlo con il ferro” per abortire,
....ut careat rugarum crimine venter.103
Era per gli uomini più sicuro e più gradevole che il
contrarre matrimonio, scegliere un’amante tra queste signore, tra le
liberte, tra le cantatrici siriache, le danzatrici greche e
spagnuole, le bionde e formose schiave germaniche e traciche, tra i
fanciulli corrotti che la dissolutezza addestrava nelle arti del
piacere per i signori del mondo. Difatti l’Amore egoistico, la
Voluttà sterile e il Piacere contro natura, che gli antichi
romani avevano scacciato dalla città con tanto orrore,
acquistavano ora in mezzo all’arcaismo in voga diritto di piena
cittadinanza, erano ammessi così nei costumi come nella
letteratura. Due poeti illustri, accarezzati, protetti dai grandi,
Tibullo, che era un favorito di Messala, Properzio, che era amico di
Mecenate, creavano definitivamente, da imitazioni greche e da
ispirazioni personali, la poesia erotica romana; e cioè uno
dei più attivi dissolventi dell’antica società e della
vecchia morale. Descrivendo in presenza o vagheggiando in
immaginazione le donne amate e le loro palesi o ascose bellezze
compiacendosi nel ricordo delle voluttà godute o struggendosi
nel desiderio di quelle aspettate; profondendo in versi il giubilo,
la festa, l’ebbrezza dell’amore ricambiato o le imprecazioni e i
furori della gelosia; risuscitando intorno al proprio amore le
favole della mitologia greca o circondandolo di descrizioni veraci
dei costumi contemporanei, questi due eleganti, morbidi, teneri,
talora anche sdolcinati e leccati poeti distruggevano senza saperlo
non solo la vecchia famiglia e la vecchia morale, ma perfino la
vecchia milizia romana. Properzio e Tibullo incominciano in nome del
dio Eros e in versi quella propaganda antimilitarista, che
sarà continuata per tre secoli, da diversi punti di vista e
da innumerevoli scrittori – non esclusi i cristiani – sinchè
consegnerà inerme l’impero alle orde dei barbari. “A te
giova, o Messala – esclama Tibullo – combattere in terra e in mare,
per ostentare poi nella tua casa le spoglie nemiche; io sono
incatenato dai vezzi di una bella fanciulla”104. “Era di ferro colui
che, potendo posseder te, o bella, preferì le prede e le
guerre”105. Tibullo loda la semplicità, ama teneramente la
campagna pacata e virtuosa, ripensa con un intenerimento melanconico
alla età dell’oro quando gli uomini eran buoni e felici,
impreca alle torbide cupidigie dell’età sua tempestosa e
agitata.... Ma la lode sua della semplicità trae inizio da
ben diversi motivi, che l’analoga lode in cui insistono tanto i
tradizionalisti e i militaristi del suo tempo. Questi volevano
emendare i costumi all’antica semplicità e austerità,
per rifare una generazione valorosa; consideravano anzi la guerra
come una scuola di quella virtù. Tibullo invece considera la
guerra, la cupidigia, il lusso, come flagelli consanguinei e quindi
egualmente detestabili, perchè l’uno non è mai senza
l’altro. “Quanto era felice l’uomo sotto il regno di Saturno....106
Non c’erano eserciti, non odii, non guerre; l’arte scellerata di un
fabbro crudele non aveva ancora martellata la spada....”107 “Chi per
il primo fabbricò la terribile spada? Un barbaro, un uomo dal
cuore di ferro, che scatenò le stragi e le guerre, e
accorciò le vie della morte. Ma no: il disgraziato non ne ha
colpa; fummo noi che rivolgemmo contro noi stessi il ferro che egli
ci aveva dato contro le belve. La colpa è dell’oro. Non ci
furono guerre finchè l’uomo bevve in una ciotola di
legno....”108 “Dèi Lari, allontanate da me gli strali di
bronzo....109 Amatemi così ed altri vada alla guerra....110
Che follia è quella di correre incontro alla morte....111
Quanto è più lodevole colui che la pigra vecchiaia
sorprende tra i figli in una piccola casa....112 La Pace, la Pace
fecondi i nostri campi. Essa prima piegò il collo dei buoi al
giogo dell’aratro; essa educò la vite e spremè i
succhi dell’uva, affinchè il figlio potesse bevere il vino
fabbricato dal padre. Rilucono nella Pace il vomere e il bidente,
arrugginisce la spada113”. E questo Amore, che ha paura della morte,
che ha paura della spada, che cerca un asilo recondito in fondo alle
città popolose e alle campagne solitarie, che si nutre di
piaceri sensuali e di sentimentali fantasticherie, Tibullo lo invoca
quasi a compagno degli dèi Lari, lo pone tra i numi tutelari
della famiglia, che esso isterilisce, in quella così bella e
soave prima elegia del libro secondo! Anzi egli alla fine imagina
addirittura che Venere sola potrà vincere la ferocia
introdotta nel tempo suo dalle rapine e dalle stragi della guerra
civile; cosicchè le Voluttà dell’amore gli appaiono
come la forza purificativa e rigeneratrice dei suoi tempi pervertiti
e corrotti!114 Meno tenero, meno sentimentale, più
appassionato Properzio si vanta – che vergogna per un antico romano
– di rinunciare per l’amor di una donna alla gloria, alle guerre, al
potere115; si compiace di esser diventato celebre per l’amore di lei
e dichiara di non voler altro vanto che quello di poeta erotico116;
grida che può toccar con i suoi piedi gli astri più
alti, ora che Cinzia si è data a lui117; dice che nulla val
nella vita una notte passata con lei118. “Che mi sarebbe la vita
senza di te? Tu sola sei la mia famiglia; tu sola sei la mia patria;
tu sei la sola ed eterna mia gioia”119. E dopo aver fatto
rammaricare alla porta della illustre casa patrizia la decadenza
della grande signora, che abita in quella, la fa commuovere ai
lamenti dell’amante, che non è riuscito ancora “ad aprirla
con i doni”.
E gli uomini che dovevano presiedere alla restaurazione del buon
tempo antico, ammiravano queste poesie e ne proteggevano gli autori!
Ma la contradizione era in ogni parte. Si voleva rifare della guerra
e del governo la sola occupazione dei grandi; e nell’ordine
senatorio e equestre si diffondeva invece il gusto di tutte le opere
che la morale antica considerava come indegne. Quanti, ad esempio,
avrebbero voluto farsi attori!120 Il teatro affascinava i nipoti dei
conquistatori del mondo, che avevano rappresentato ben altre azioni,
sopra scene ben più vaste e davanti a pubblici ben più
numerosi. Si riparavano in ogni parte di Roma templi, edicole,
sacelli; se ne costruivano dei nuovi, si ristabiliva con minuziosa
pedanteria il cerimoniale religioso: ma lo spirito dell’antico culto
latino agonizzava nelle forme troppo artistiche e troppo greche, di
cui si rivestivano ormai le cose sacre. La antica religione romana
era una austera disciplina interiore delle passioni, intesa a
prepararli ai doveri più penosi della vita privata e
pubblica: ma gli austeri dèi, simboleggianti i principî
essenziali di questa disciplina, male albergavano nei sontuosi
templi marmorei, simili a quello di Apollo, che Augusto aveva
inaugurato nel 28; si snaturavano assumendo il nome o materiandosi
nelle bellissime statue seminude delle divinità greche. Se il
politeismo greco era cresciuto dallo stesso seme del politeismo
romano e cioè dalle stesse idee e dai medesimi miti
fondamentali, esso li aveva svolti in modo opposto al romano,
divinizzando, non i principî morali che frenano le passioni,
ma le aspirazioni dell’uomo al piacere fisico e intellettuale in
tutte le forme. Era contradittorio rivestire una religione della
morale nelle belle forme d’una religione del piacere: ma
l’ammirazione della mitologia greca, delle sue leggiadre
rappresentazioni letterarie ed artistiche, era ormai troppo profonda
in Italia. Neppure i romani avrebbero più tollerata una
religione senza arte.
Contradizioni molteplici, strane, incessanti, ma che si riassumono
tutte in una contradizione più generale, la contradizione
delle contradizioni, innanzi a cui, finite le guerre civili, si
ritrovava l’Italia e da cui l’Italia sarà per un secolo
lacerata: la contradizione tra il principio latino e il principio
greco-orientale, tra lo stato considerato come organo di dominazione
e lo stato considerato come organo di un’alta e raffinata cultura,
tra il militarismo romano e la civiltà asiatica. Bisogna
comprendere bene questa contradizione, sceverarla sino al fondo, se
si vuol capire la storia del primo secolo dell’impero! L’ammirazione
del buon tempo antico non era allora, come molti storici hanno
creduto, una sentimentalità anacronistica, ma una
necessità. Che cosa era l’antico Stato romano se non un corpo
di tradizioni, di idee, di sentimenti, di istituzioni, di leggi, le
quali concorrevano tutte all’unico fine di vincere l’egoismo
privato, ogni volta che fosse in contrasto con l’interesse pubblico;
di obbligare tutti, dal senatore al contadino, ad agire per il bene
dello Stato anche quando fosse necessario di far getto delle cose
più preziose: gli affetti famigliari, i piaceri, i beni, la
vita? Ma di questo possente arnese di dominazione e di
amministrazione, l’Italia capiva di aver bisogno, per conservare e
reggere l’impero fondato con le armi; capiva di aver bisogno di
saggi statisti, di diplomatici avveduti, di amministratori oculati,
di soldati valorosi, di cittadini zelanti del pubblico bene: e
perciò desiderava che fossero riparate le forme troppo logore
e guaste dell’antica educazione, entro cui erano state plasmate le
vecchie generazioni. Desiderio sincero anche se in parte chimerico.
Senonchè l’Italia, non desiderava di conservare l’impero per
conservarlo, ma per goderlo e per avere cioè i mezzi di
soddisfare il bisogno, ormai troppo diffuso in tutte le classi, di
quella cultura più raffinata, sensuale, artistica,
filosofica, di cui era organo lo stato asiatico e che aveva per
effetto di incitare negli uomini e nelle classi tutti quegli egoismi
personali che lo stato latino si proponeva invece di incatenare e
comprimere. La cultura greco-asiatica intralciava la restaurazione
dell’antico stato latino invocata da tutti per salvare l’impero; ma
tutti o quasi tutti volevano salvare l’impero, affinchè non
mancassero all’Italia i mezzi di assimilare la cultura
greco-asiatica. Tale era, schematicamente riassunta, la
contradizione insolubile in cui si impigliava l’Italia; la
contradizione che la politica di Cleopatra e la conquista
dell’Egitto avevano smisuratamente allargata, fomentando da una
parte lo spirito di tradizione, dall’altra il gusto
dell’Orientalismo; la contradizione che confondeva, intralciava,
disordinava la vita privata come la politica, la religione come la
letteratura; la contradizione, che è l’anima del meraviglioso
poema composto in questi anni da Orazio, quasi a lasciarci,
cesellato in versi di inimitabile bellezza, il documento più
profondo di questa crisi decisiva del pensiero e del sentimento
romano, che non è poi se non una crisi la quale
periodicamente ritorna nella storia di tutte le civiltà
generate da Atene e da Roma. Orazio aveva cantata la grande
restaurazione nazionale di cui, dopo Azio, tutti avevano capita la
necessità, erigendo, con stupendi blocchi di strofe alcaiche
e delle saffiche, il magnifico monumento delle sue odi civili,
nazionali e religiose alla leggenda della società
aristocratica. Ma egli non era per temperamento, per inclinazione,
per ambizione nè un poeta nazionale, quale forse Augusto
l’avrebbe desiderato, nè un “poeta di corte” come l’hanno
definito coloro che l’hanno frainteso. Questo figlio di un liberto,
che aveva forse del sangue orientale nelle vene; questo meridionale,
nato nella Apulia mezzo greca dove le due lingue erano ancora
parlate; questo acuto pensatore e questo sovrano artista della
parola, per cui la vita non aveva altro scopo che di studiare e
osservare e rappresentare il mondo sensibile, di capire e di
analizzare tutte le contradizioni e le leggi del mondo ideale;
questo letterato filosofo non sentiva Roma, la sua grandezza, la sua
tradizione, il suo spirito troppo poco artistico e filosofico,
troppo pratico e politico. Egli che aveva cantate le grandi
tradizioni di Roma ne conosceva così poco la storia, che in
una poesia farà distrugger Cartagine da Scipione Africano,
confondendolo con Scipione Emiliano!121 Anzi l’età, gli
studî, un certo disgusto di tutto e di tutti, il piacere di
lavorare lo inducevano a raccogliersi in sè, a vivere
più che potesse in villa, lontano da Roma, dagli amici e dai
protettori. Aveva orrore di leggere in pubblico i versi suoi,
frequentava poco i dilettanti di letteratura come i gramatici, – i
professori e i critici del tempo; faceva sempre più rari
soggiorni nelle case dei suoi grandi amici: onde molti
incominciavano ad accusarlo di superbia, quasi egli non giudicasse
degni di udire le sue poesie che i grandi personaggi, i semidei,
Augusto e Mecenate122; mentre costoro dolenti di averlo così
poco nelle loro case, quasi lo accusavano di ingratitudine123. Era
stato insomma anche egli stupefatto di quella improvvisa,
simultanea, universale conversione di tutta l’Italia verso il
proprio passato; – aveva capita la profonda necessità di quel
movimento, ne aveva ammirata la bellezza, lo aveva preso come
materia di poesia, ma non perchè il movimento commovesse il
cittadino romano, bensì perchè la materia si prestava
al poeta col pensatore. Onde egli non poteva, come un poeta
nazionale, dedicar tutto sè a fomentare con la poesia quel
movimento degli spiriti; ma era trascinato dal suo temperamento a
trapassare ad altri soggetti, su cui far nuova prova del suo
mirabile e duttile ingegno. Era allora, a 39 anni, nella piena
maturità del suo genio: e ammirato, agiato, sicuro del
presente e dell’avvenire; ricco di studi molteplici e di grandi
esperienze, tra le quali, meravigliosa esperienza, la grande
rivoluzione di cui era stato testimone; provvisto nell’ordine
materiale e nell’ordine morale di quanto è necessario a uno
scrittore di polso per dar tutto sè stesso alla creazione di
una grande opera, Orazio aveva, dopo i primi saggi lirici, concepita
una più vasta ambizione: creare in Roma una lirica
così varia e perfetta per metri e materia, come quella greca;
divenire il Pindaro e l’Anacreonte, l’Alceo e il Bachilide
dell’Italia; esprimere in tutti i metri tutti gli aspetti della vita
che si svolgeva sotto i suoi occhi. Egli viveva nel centro del
mondo, in mezzo alle correnti così numerose d’idee, di
sentimenti, d’interessi che si incrociavano a Roma in quel tempo di
universali e gravi perplessità; avendo l’intelletto ed il
comodo, per quel suo crescente amore del raccoglimento severo, di
osservare ogni giorno, standone fuori, imparzialmente, il microcosmo
che reggeva l’impero e in cui maturavano tanti germi dell’avvenire.
Indifferente, e perciò appunto con lucida serenità,
egli poteva ragionare con Augusto, con Agrippa, con Mecenate dei
mali del tempo e dei rimedi, come seguire la cronaca mondana
dell’alta società, le feste, gli scandali, le avventure
galanti, le baruffe dei giovani e delle etère; egli assisteva
agli sforzi fatti per restaurare il culto antico degli dèi,
come era invitato ad ammirare e a godere le nuove case che gli
artisti alessandrini ornavano per i signori del mondo; egli vedeva
fervere nella città, a mala pena pacata, nuove ambizioni e
nuove cupidigie, crescere e diffondersi il lusso e le voluttà
alimentate dal denaro egiziano, come udiva da ogni parte imprecare
alla smodata avarizia ed alla corruzione dilagante; egli si
azzuffava con gli arcaicizzanti che volevano rimettere troppo in
onore la letteratura classica, come incoraggiava i giovani scrittori
a coltivare la nuova letteratura ellenizzante e leggeva ammirandola
la poesia erotica del suo caro amico Tibullo. Un grande ingegno,
posto in una condizione di tempi unica, queste due condizioni del
capolavoro letterario si ritrovavano allora.... E il capolavoro
maturava nello spirito del poeta, a mano a mano che i mille
accidenti di questa intensa vita romana gli suscitavano imagini,
pensieri, sentimenti, e richiamavano alla memoria strofe o versi
già letti nei poeti greci, motivi o leggende di quella poesia
greca allora tanto ammirata; a mano a mano che da queste imagini, da
questi pensieri, da questi sentimenti, da queste reminiscenze
nasceva in lui l’idea di un breve componimento lirico, da scrivere
in questo o in quel nuovo metro greco. A poco a poco, uno dopo
l’altro, egli componeva con la consueta, laboriosa lentezza, tra un
viaggetto e l’altro, tra l’uno e l’altro festino o invito o lettura,
gli ottantotto poemetti dei primi tre libri dei Carmi: non come
Catullo, per versare sulla carta la piena traboccante della
passione, ma elaborando ogni ode pensiero per pensiero, imagine per
imagine, strofa per strofa, verso per verso, parola per parola;
eleggendo studiatamente i motivi, i pensieri, le imagini da imitare
in Alceo, in Saffo, in Bachilide, in Simonide, in Pindaro, in
Anacreonte; adoperando con arte e in larga misura tutti i motivi
della mitologia greca. Lirica riflessiva, dunque; sollecita di
attingere il sommo della perfezione stilistica e di svolgere,
attraverso la varietà dei motivi, un unico soggetto
sottinteso, che è la vera ragione dell’opera. Chi lasciandosi
ingannare dalla divisione materiale delle Odi, legge ed ammira
ciascuna da sola e tratta il volume come una raccolta di poesie
varie, fa come chi rompe una collana e ne disperde le gemme. Per
comprendere l’opera più fine e più finita della
letteratura latina, è necessario leggere tutti insieme i
poemi, dai più lunghi e gravi a quelli così brevi e
semplici che paiono perdersi tra le pagine delle edizioni,
osservando come il motivo dell’uno o corrisponda o contradica a
quello dell’altro, cercando di scoprire l’invisibile filo ideale,
che le lega tutte insieme, proprio come le gemme di una collana.
Questo filo ideale, questo unico soggetto sottinteso in tutta
l’opera, è la dolorosa confusione in cui l’anima romana
allora versava, che il poeta ripiglia a considerare ostinatamente,
in ciascuna poesia, ora per un verso ora per un altro, così
nei piccoli come nei grandi fatti della vita pubblica e privata:
ripiglia a considerare nelle sue più inconciliabili
contradizioni, non solo senza speranza, ma quasi senza
volontà di risolverle, come a prolungare quella piacevole
stanchezza, che nasce dalla continua incertezza del pensiero e del
sentimento e che soffonde di una vaga melanconia il dramma
psicologico di quella età.
Dalle conversazioni con Augusto, con Agrippa, con Mecenate, il poeta
muove a comporre le famose odi civili e religiose, nelle quali egli
evoca, in magnifiche strofe saffiche, o alcaiche, il passato di Roma
e la secolare tradizione delle virtù pubbliche e private, in
cui il popolo per tanti anni aveva attinto forza. Talora enumera in
belle strofe saffiche, prima gli dèi e gli eroi della Grecia,
poi i personaggi illustri di Roma; ricorda Paolo “prodigo ai
Cartaginesi vittoriosi della grande anima” e la gloria dei Marcelli
e la morte bella di Catone e lo splendore dell’astro dei Giulii, per
compiacersi alla fine dell’ordine ristabilito nel mondo, sotto
l’imperio di Giove, di cui Augusto è il vicario124.
Fervidamente ammira altrove la virtù aristocratica, che non
è serva come la gloria degli ambiziosi del favor popolare125;
o ricordando i soldati di Crasso che, accasatisi in Persia, hanno
dimenticato il tempio di Vesta; risuscita, in una posa scultoria di
semplice e sublime eroismo, il leggendario Attilio Regolo126; o
ricorda con nobili imagini come la gioventù che “tinse il
mare di punico sangue” fosse educata austeramente nella famiglia,
non ancora inquinata dai tempi peccaminosi127. Un magnifico
monumento di stile classico erige il poeta alla leggendaria
grandezza della società aristocratica. Ma tra le colonne, le
metopi, i triglifi di questo monumento, fa il nido e svolazza uno
stormo di odi e di odicine erotiche, dionisiache, convivali. Uscendo
dalle case patrizie, piene di tanto spirito arcaico, Orazio
ricascava nella turba gioiosa dei giovani amici, che nella pace si
ridavano a godere con i redditi dei beni acquistati nel regno dei
Tolomei la vita, che amavano gli ozî della villa, le cene, le
belle donne, gli svaghi. E allora eccolo lanciare, affidandole alle
strofette leggere dei più agili metri greci, inviti ad amici
ed ammonimenti di preparare un buon pranzo; o interrompere con
comiche esagerazioni il litigio di avvinazzati banchettanti,
esortando un convitato a rivelare il nome della sua bella128; o
dipingere a vivi colori e con ricca abbondanza di motivi mitologici
dei quadretti erotici, ora sentimentali, ora sensuali, ora ironici.
A Lidia il poeta rimprovera scherzosamente che Sibari per amore di
lei non si faccia più vedere da alcun amico129; ora dipinge
con roventi imagini i tormenti della gelosia130; ora con fiorite
descrizioni invita Tindaride a sfuggire in una remota valletta della
Sabina, pacata dalla zampogna di Fauno, le fiamme della Canicola, e
il protervo Ciro che troppo spesso le caccia addosso le mani
violente131; ora esprime l’amor suo per Glicera “il cui corpo
splende più puro di marmo pario”132. Un giorno mentre vaga
nei boschi solo e inerme, pensando a Lalage, incontra un lupo, e il
lupo fugge. Orazio ricava da questo caso una singolare filosofia:
l’amore rende sacri, l’innamorato è l’uomo puro. Avvenga
dunque che può:
Dulce ridentem Lalagen amabo
Dulce loquentem133.
E nuove figure di donne e di amanti ci passano rapide davanti: ecco
Cloe che si invola come un cerbiatto spaventato dal muggito del
vento134; ecco dei giovani che battono disperatamente alla porta,
chiusasi a un tratto, di Lidia135; ecco un amante che si lascia
dominare da una schiava avida, astuta, prepotente136; ecco un
giovane innamorato di una fanciulla appena pubere, a cui il poeta
dà con complicate imagini saggi e ironici consigli,
ammonendolo di non desiderare “l’uva acerba”137; ecco la bella
etèra Barine, spavento delle madri, dei padri e delle giovani
spose, dei cui giuramenti ride il poeta, affermando con comica
solennità che gli spergiuri sono leciti in amore.
Ridet hoc, inquam, Venus ipsa, rident
Simplices Nymphæ, ferus
et Cupido138.
Asteria che aspetta Gige, assente per commercio un inverno e che
intanto si lascia consolare dal vicino Enipeo: è il soggetto
di un quadretto sardonico, dipinto, come al solito, con ironiche
amplificazioni mitologiche139. Grazioso è il duetto degli
amanti che cercano di farsi dispetto e ingelosirsi a vicenda, poi si
riconciliano alla fine140. Nè mancano le supplicazioni alle
belle dal cuore troppo duro, anche queste con una punta di humour,
come la preghiera rivolta a Mercurio, il quale, “potendo condursi
dietro le tigri e le selve”, deve poter anche ammansare una bella
crudele, alla quale il poeta ricorda, raccontandolo a lungo, con una
esagerazione splendida di ironia, nientemeno che il mito delle
Danaidi141. E così pure scherzosamente chiude le poesie
erotiche, paragonandosi a un vecchio soldato dell’amore, che, “dopo
aver militato non senza gloria”, va a deporre le armi nel tempio di
Venere; ma per invocare subito la dea che lo salvi da Cloe142.
Quadretti, situazioni, casi, personaggi, in parte senza dubbio
immaginari e probabilmente derivati dalla poesia greca, in parte
forse anche presi dalla cronaca galante di Roma; ma ad ogni modo
sempre o quasi sempre stranieri al poeta, che assume in persona
propria casi altrui o casi inventati: poesia erotica non personale,
come quella di Catullo, ma immaginata a tavolino, sui libri, per una
felice agilità di fantasia; poesia mista di sensualità
e di ironia, di fine psicologia e di virtuosità letteraria,
che è nella letteratura il segno del mutamento che avveniva
nei costumi, a mano a mano che l’amore da dovere civico della
riproduzione nella famiglia si mutava in sterile voluttà
personale, in spasimo dei sensi e in solletico della fantasia, in
sorgente di godimenti estetici e in soggetto di scherzi e di risa.
Così a volta a volta noi vediamo espressa in magnifiche
strofe la filosofia della virtù derivata dalla tradizione e
la filosofia del piacere derivata dall’arte ellenica e dai costumi
contemporanei. Ma Orazio non fa nessun tentativo di conciliare
queste due filosofie discordanti; si abbandona ora all’una ora
all’altra, e quindi non è soddisfatto nè dell’una
nè dell’altra. Della tradizione egli sentiva la forte
grandezza ideale; ma capiva pure che quella filosofia non conveniva
più nè alla fiacchezza dei tempi suoi, nè alla
sua stessa fiacchezza; e lo confessa senza reticenze. Condensava
allora nei pochi versi della meravigliosa ode alla dea signora di
Anzio, alla Fortuna, una amara filosofia della storia e della vita:
la fortuna e non la virtù, è la signora del mondo; il
destino ne è il docile schiavo; gli uomini e gli imperii sono
in sua balìa; a lei deve affidarsi anche Augusto, che muove
alle lontane spedizioni; da lei forse, ma con poca fede, si
può sperare qualche rimedio all’incurabile male dei tempi143.
La guerra e le pubbliche faccende erano le fatiche più
nobili, secondo l’antica morale; ma Orazio non sa nascondere che
ripugnano al suo egoismo intellettuale, e di tempo in tempo
apertamente loda l’inerzia civica. All’amico Iccio, che si prepara a
partire per la guerra d’Arabia nella speranza di far denari, egli
rivolge un’ode meravigliandosi come un uomo che già si era
avviato agli studî, un uomo che “aveva promesso meglio di
sè” ritorni alla guerra144. A Crispo Sallustio, il nipote
dello storico, esprime in una bella saffica il concetto stoico,
certamente nobile ma profondamente antiromano, che il vero imperio
dell’uomo, il solo che valga, non è il dominio sulle cose
materiali, ma quello delle proprie passioni145. Anzi l’egoismo
intellettuale in lui giunge a sfigurare uno dei principî
fondamentali dell’antica morale romana, il culto della
semplicità. Orazio biasima il lusso, l’avarizia e la
cupidità; inveisce contro le “moli regie” che usurpano la
terra all’aratro146; giudica più saggi dei Romani gli Sciti,
i quali portano sui carri la casa, e i Geti, che non conoscono la
proprietà della terra147. Ma dalle lodi della
semplicità egli deriva una dottrina di nichilismo politico
simile a quello di Tibullo: non le ricchezze, non gli onori, non le
cariche, non le brighe pubbliche fanno la vita perfetta, ma la
salute e gli studî. Che cosa domanda il poeta, in una solenne
poesia ad Apollo? “Viver di olive, di cicorie, di malve; conservarsi
sano; giungere a una vecchiaia onorata e rallegrata dalla
poesia”148. Più apertamente ancora, e rompendo del tutto con
le tradizioni romane, egli pone in certe odi lo scopo della vita nel
piacere fisico; incita ad affrettarsi a godere il vino e l’amore,
che sono le due vere voluttà della vita, si abbandona ad un
molle epicureismo, dal quale vengono poi a trarlo di tempo in tempo
degli scrupoli religiosi. Ma anche nella religione il poeta è
incerto e contradittorio. A volte, come vinto dal movimento di
restaurazione della vecchia religione romana, Orazio dichiara di
aver troppo navigato sul mare della filosofia, e di voler volgere le
vele al ritorno; descrive allora il Diespiter nazionale all’antica,
come il Dio che fende le nubi con il lampo e che percuote con le
sciagure gli umani149. Ma egli ammira ed ama troppo la artistica
religione del piacere e della bellezza creata dai Greci: e quasi
sempre invoca, descrive, fa agire gli dèi dell’Olimpo
ellenico rappresentandoli sotto le forme e negli atteggiamenti che
aveva loro dato la scultura e la pittura, con il significato e gli
uffici attribuiti loro dalla mitologia greca. Quali dèi
reggono davvero il mondo? Quegli austeri, impersonali, informi
dèi del buon tempo antico, che flagellano l’Italia di
sventure, perchè i loro templi cadono in rovina? Quegli
sparuti simboli del Pudor, della Justitia, della Fides, della
Veritas, così cari agli antichi Romani e che Orazio evoca
ancora, con versi resi soavi dall’amicizia, intorno al feretro di
Quintilio Varo?150 Oppure quel Mercurio Omerico, che tratto aveva il
poeta, ravvolgendolo in una nube, fuori dal tumulto della battaglia
di Filippi; o il Fauno invocato nelle none di Dicembre a proteggere
la sua proprietà in mezzo a un delizioso quadretto
bucolico151; o Venere e Cupido e Diana in forma greca; o gli
innumeri numi che il politeismo greco aveva disseminato sin nei
recessi più reconditi della natura, a divinizzare ogni
particella dell’essere universale, e che Orazio intravedeva sino nel
fonte di Bandusia, più splendido del vetro?152 Non si
potrebbe dire se Orazio creda in una religione etica o in una
religione estetica. Se a volte egli invoca nelle stesse poesie
civili gli dèi come regolatori e ordinatori supremi del
mondo, egli poi li mescola nelle altre sue poesie in tutti gli atti
e i fatti umani, perchè sono belli e si prestano a comporre
magnifiche strofe. Contradittoria la concezione politica e morale
della vita, incerta la concezione religiosa, quale scopo ben
definito può avere per Orazio la vita? Non le virtù
pubbliche e private, di cui egli non si sente capace e di cui non
crede capaci i propri contemporanei; non il piacere fisico o
intellettuale che egli comprende rovinerebbero il mondo se presi
come fine supremo di tutti gli sforzi umani; non una contemperanza
di piacere e di dovere, di cui non vede la opportuna misura; non la
cieca obbedienza alla volontà degli dèi, ormai troppo
numerosi, troppo diversi e tra loro troppo discordi. E quindi,
naturale effetto di tanta incertezza, ecco sorgere sull’estremo
confine di questo immenso vuoto morale, il fantasma che proietta la
sua ombra in tutte le età poco sicure di sè: la paura
della morte. Quando l’uomo non riesce a persuadersi che la vita
tende all’alto, verso qualche scopo ideale che nessun uomo, da solo,
con le sue forze singole, potrà mai raggiungere; quando il
vivere apparisce come il solo scopo della vita, la limitazione
dell’esistenza inquieta, turba e rattrista. E profondamente turbava
appunto Orazio, nel cui pensiero la morte è sempre presente.
Le poesie scritte in memoria di amici defunti sono senza dubbio le
più sentite e sincere. Affrettati a vivere, il tempo passa;
la morte non rispetta alcuno e tutti attende al varco; ogni cosa
sparirà nel nulla:
Eheu! fugaces, Postume, Postume,
Labuntur anni....153
questi motivi son ripetuti nelle più diverse e nelle
più mirabili forme, non solo alternandosi stranamente con le
poesie allegre e voluttuose, ma soffondendo l’opera intera di una
vaga e penetrante tristezza: melanconico sfondo di tutto il poema,
che sfuma lentamente verso le arcane lontananze di un mistero
impenetrabile dalla umana ragione, e dal poeta quasi paventato.
Strano poema, la cui unità ideale è formata appunto
dalle contradizioni delle sue parti. Un mezzo solitario, appartatosi
da Roma perchè poco l’amava, rappresenterebbe a fondo la
contradizione inconciliabile della sua anima. Chi capisce quel
poema, capisce anche le incertezze della politica di Augusto,
perchè misura sino al fondo il grande vuoto spirituale su cui
la fabbrica immane dell’impero posava. Chi poteva osar grandi cose,
quando la nazione si struggeva in tanta incertezza? Chi poteva
adoperare con vigore strumenti così logori dal tempo? Sono
pur piccoli e meschini quegli storici che vedono in tutta l’opera di
Augusto una “commedia politica” intesa a nascondere una monarchia
sotto le forme di una repubblica! Tragedia era, tragedia, questa
necessità di conciliare il forte militarismo della vecchia
Italia e la raffinata cultura dell’Asia ellenizzata, diventati dopo
la conquista dell’Egitto, anche più inconciliabili che prima
non fossero.
III.
LA RINASCENZA RELIGIOSA E L’“ENEIDE”.
Difatti il governo, restaurato nel 27, già nel 25 cadeva in
deliquescenza, disfatto da una universale e precoce stanchezza. A
Roma, quando si fecero le elezioni per le cariche del 24, non si
trovarono i candidati per i venti posti di questore154; e se pure
Agrippa inaugurò il Pantheon155, che era un bell’ornamento
dell’Urbe ancora così disadorna, strade, acque, annona
versarono nel consueto disordine. La parte dell’antica repubblica
restaurata davvero erano le frodi dei pubblicani, tollerate dai
praefecti aerarii saturni, di cui i più si studiavano solo di
lucrar essi stessi qualche denaro nella dilapidazione comune156.
Nelle provincie i governatori, invece di attendere con zelo
all’ufficio loro, cercando riparare gli immensi guasti fatti dalle
guerre civili, poltrivano così neghittosi, che tra poco
Augusto sarà incaricato di sorvegliarli tutti. Invano la
legge approvata al tempo della restaurazione, aveva loro assegnato
uno stipendio, per incitarne lo zelo; perchè i più
prendevano lo stipendio e lasciavano le brighe. Nè il Senato
adoperava la riacquistata autorità se non come un guanciale,
su cui posare il capo e dormire. Deserte le sedute, fioche le
discussioni, formale ogni atto: Augusto penserebbe egli a tutto;
bastava approvare157. Ma Augusto a sua volta, nella Spagna lontana,
intendeva occuparsi soltanto delle finanze; e silenziosamente, quasi
di nascosto, continuava le sue guerricciole, intese a provvedere di
metalli preziosi l’impero.... Nella primavera di questo anno158 un
ufficiale del prefetto di Egitto, Elio Gallo, imbarcava in un porto
del mar Rosso diecimila soldati e un contingente mandato dal re di
Giudea per tentare a spese del tesoro egiziano la spedizione nello
Yemen, deliberata dopochè Augusto si fu persuaso di poter
fare assegnamento sull’aiuto dei Nabatei, una popolazione araba
confinante con la Siria, che aveva accettato il protettorato romano.
Verso la metà del 25 la guerra contro i Cantabri e gli Asturi
era pure terminata, ma con una resa formale159. In questo stesso
anno Murena conduceva a buon fine la spedizione nella valle dei
Salassi, ma catturando con uno stratagemma infame il fiore della
popolazione e vendendo ad Ivrea – secondo uno scrittore antico –
36 000 tra uomini donne e bambini160: poi incominciava nel
cuore del territorio conquistato l’edificazione d’una colonia
romana, Augusta Praetoria Salassorum, la moderna Aosta. Pure in
questo anno infine, probabilmente nell’ultima parte e con un decreto
del Senato, Augusto imponeva alle popolazioni alpine, alla Gallia,
alla Dalmazia, alla Pannonia, i nuovi tributi studiati da Licinio,
tra i quali è verisimile fossero comprese una imposta
fondiaria, e – per la Gallia almeno – la famosa quadragesima
Galliarum, un diritto del due e mezzo per cento su tutte le
mercanzie importate161. Ma se pure avessero un giorno rovesciala
sull’Italia la pioggia d’oro tanto agognata, queste guerricciole e
queste riformuccie non potevano entusiasmare e inebriare l’Italia,
così da assopire in lei quel malessere vago nascente dal
disordine interno come non bastavano a sviar l’attenzione da questo,
le ambasciate di omaggio che da ogni parte di nuovo si affrettavano
verso Roma, ora che, finita la guerra civile, tutti ricominciavano a
temerne e a riverirne, nel suo nuovo capo, la forza. In questo tempo
gli Sciti abitanti nelle steppe della Russia meridionale avevano
mandata una legazione ad Augusto in Spagna; e gli ambasciatori di un
re delle Indie si recarono pure sino in Spagna a cercare e a
riverire il successore dei Tolomei nel governo dell’Egitto, con cui
gli Indiani facevano grosso commercio162.
Si incominciava a capire che la restaurazione della repubblica,
deliberata pochi anni prima tra tanto entusiasmo e con tanta
speranza, era stata invece solo un ripiego necessario ma inadeguato.
La ultima, calamitosissima rivoluzione aveva per reazione ridato
forza e autorità alla aristocrazia storica; ma questa, non
ostante la rinata fiducia pubblica, era stata troppo decimata,
impoverita, scoraggita dagli eventi terribili dell’ultimo ventennio;
era troppo ammollita dallo spirito nuovo di godimento, di egoismo,
di riposo che spirava a Roma dall’Egitto conquistato e che Tibullo
esprimeva nelle sue flebili e dolci elegie. Anche rinforzata dagli
uomini più intelligenti, vigorosi, fortunati del partito
rivoluzionario, essa non avea più la forza di ricomporre
l’immenso sfacelo in cui l’impero giaceva. Quasi tutta, o badava a
darsi bel tempo, come Mecenate che, sposata la bellissima Terenzia,
si era ritirato a vita privata; o giudicava più urgente di
rifar la fortuna anzichè di curare le faccende pubbliche; o
si dava alla letteratura, come Pollione e Messala, scrivendo storie
e memorie delle guerre civili, e convertendo Roma in una grande
officina letteraria. Senonchè nella universale dissoluzione
di tutte le forze politiche, la aristocrazia, incapace di governare,
aveva riacquistata forza sufficiente da impedire la costituzione di
un governo che fosse in disaccordo con i suoi pregiudizi tenaci e le
sue borie rinate, in cui gli onori e i vantaggi del potere
appartenessero ad altri uomini o ad altre classi. Il partito
popolare, disfatto anch’esso dalla rivoluzione e discreditatissimo,
quasi detestato ed odiato, non esisteva più: invano un esiguo
numero di senatori, tra i quali Egnazio Rufo e certi Murena e Fannio
Cepione, timidamente tentavano di ravvivarne dagli ultimi avanzi
l’anima e il corpo163. Sebbene a sommo dello stato fosse il figlio
di Cesare, i grandi capi del partito conservatore. Bruto, Cassio,
sopratutto Pompeo, erano l’oggetto dell’universale ammirazione; a
tal segno che Tizio, quell’ufficiale di Antonio che aveva ucciso
Sesto Pompeo, riconosciuto un giorno ad uno spettacolo nel teatro di
Pompeo, ne era stato scacciato dal pubblico con i fischi e con le
imprecazioni164. Era così forte questa inclinazione
dell’opinione pubblica, che, pur di non offendere l’aristocrazia,
Augusto si acconciava anche a lasciare in disordine i servizi dello
Stato; e infatti aveva perfino rimproverato a Rufo di avere
provvisto a salvar dal fuoco le case dei poveri senza il permesso
della nobiltà, restringendosi a raccomandare agli edili di
compiere con maggiore zelo il proprio dovere165. Ma chi vorrebbe
assumersi troppe brighe, se Rufo, per aver compiuto con zelo il
dover suo, era caduto in odio all’aristocrazia rifatta potente? La
situazione era assurda: ma come mutarla? Per il momento Augusto si
restringeva – ripiego passivo – a far sì che il compito
dell’amministrazione romana non crescesse: onde in questo anno,
volendo finalmente provvedere alla Mauritania che da sei anni era
senza re, non propose al Senato di farla provincia, ma di darla a
Giuba, re di Numidia, che diventerebbe re di Mauritania, e
sposerebbe Cleopatra Selene, la figlia di Antonio e di Cleopatra166.
Invece la nazione, irritata e delusa incominciava ad agitarsi. Non
però per muovere al governo una opposizione politica,
chè il partito popolare era morto e non risusciterebbe
più. I lagni e i malcontenti popolari confluivano questa
volta da ogni parte a gonfiare le correnti di quel moto per la
riforma morale e sociale che, scaturito dall’ultima rivoluzione,
dilagava a poco a poco in tutto lo Stato.... A mano a mano che
l’esperienza chiariva anche agli spiriti più grossi il senso
e la ragione di quella domanda, che Orazio aveva mossa:
Quid leges sine moribus
Vanae proficiunt?
tutti si persuadevano che la restaurazione della repubblica sarebbe
opera vana se non si rifacevano anche gli antichi costumi
repubblicani; onde tutti cercavano in ogni parte i rimedî alla
universale depravazione, vari e diversi a seconda della coltura e
del ceto. Nelle classi alte molti, sotto l’influsso del pensiero
greco, riponevano grandi speranze nello studio della filosofia
morale: non però nell’epicureismo materialista ed ateo che
perdeva rapidamente il favore di cui aveva goduto tra la generazione
di Cesare; nelle dottrine bensì che formulavano una morale
più rigida come lo stoicismo; in quelle che tentavano di
esplorare il mistero dell’al di là, allora così oscuro
e impreciso tanto nelle credenze popolari come nelle dottrine dei
filosofi; che indagavano se per avventura la giustizia, così
monca e imperfetta nella vita, non si compiesse oltre la vita. Tale
il pitagoreismo; o per essere più esatti, certe dottrine
attribuite al favoloso filosofo, in cui idee di scuole diverse erano
state intrecciate con miti e credenze popolari, per farne una regola
morale della vita che potesse diffondersi nelle moltitudini. Un
soffio divino, la “anima del mondo” – così suonava la poetica
dottrina – penetra in ogni parte e vivifica l’universo; come ogni
cosa animata e spirante, le anime degli uomini sono particelle di
questa anima universale; cadendo però nel corpo e
mescolandosi con lui, esse perdono una parte della loro divina
virtù; e neppur la morte, che le distacca dal corpo,
può subito purificarle interamente: è necessaria, dopo
la morte, una purificazione di mille anni, perchè l’anima
ritrovi la incontaminata purezza della origine sua; e i mille anni
passati, quando l’anima è ridiventata interamente essa stessa
Dio la tuffa nel fiume Lete, per indurre l’oblio del passato e
rimandarla di nuovo sulla terra ad animare un altro corpo. Gira
così su sè stessa, eternamente, la ruota della vita; e
le anime, nella temporanea prigione del corpo “carcere oscuro che
loro impedisce di vedere il cielo da cui discendono”, devono cercare
di esser degne quanto più possono, con una vita virtuosa,
della loro natura divina167. Di queste e di simili idee, mescolate
con dottrine stoiche, si servivano certi Sestio, padre e figlio, per
fondare a Roma una setta e aprire quasi una scuola pratica di
virtù, in cui non si insegnavano solo con i discorsi, ma si
praticavano le virtù più difficili: la
frugalità, la temperanza, la veracità, la
semplicità, la fortezza d’animo, perfino il vegetarianismo,
come si direbbe adesso, l’astinenza dalle carni, che fomentano la
lussuria e la crudeltà168. Qualche cosa insomma che adombra
già le regole dei conventi cristiani.... E la scuola era
allora in grandissima voga; da ogni parte affluivano seguaci169;
spesso delle persone, prese a un tratto, mentre il maggior numero si
dava al lusso e alla crapula, dal bisogno di vivere frugalmente,
castamente, austeramente, accorrevano alla scuola, si convertivano
alla nuova dottrina. La conversione di Lucio Crassicio era stata
particolarmente clamorosa, perchè Crassicio, un antico
liberto datosi agli studi e all’insegnamento, era molto noto come
letterato e maestro, e aveva tra i discepoli anche Julo Antonio, il
figlio di Antonio e di Fulvia170. Ma l’idea di riformare i costumi
della repubblica per mezzo della filosofia e della propaganda
morale, era idea troppo greca, troppo fine, troppo alta; nè
poteva entrare che in un piccolo numero di spiriti, per effetto di
studio, di letture, di imitazioni. In questa forte ma grossolana
nazione di soldati, di politici, di mercanti, di giuristi, di
agricoltori, che aveva sempre maneggiati solamente gli strumenti del
dominio corporeo, ambito ed esercitato l’impero della materia, la
maggioranza non sapeva fare assegnamento, anche per l’emenda dei
costumi, che sulle forze estrinseche e su i mezzi politici. Non
fisime di filosofi e predicazioni morali: ma leggi, magistrati,
minaccie e castighi. I nobili trascuravano i loro doveri,
dissipavano le proprie sostanze, preferivano la crapula alle
magistrature, gli amori alla guerra? Si facessero delle leggi che li
obbligassero a vivere virtuosamente; si rinnovassero le antiche
magistrature, che con tanta severità avevano vigilato sui
costumi dei grandi; si ristabilisse una giustizia severa e
imparziale. Sopratutto si richiedeva da ogni parte, con grande
instanza, che si indicessero le elezioni dei censori,
affinchè questi magistrati potessero, dopo così lungo
intervallo, ripigliare l’antico ufficio di carcerieri delle
virtù171. E cresceva, si divulgava, si rafforzava da ogni
parte, sopratutto nelle classi medie – tra i senatori e i cavalieri
di modesta fortuna tra gli scrittori i mercanti i liberti i
professionisti – un largo movimento puritano, che voleva con nuove
leggi e con nuovi castighi sradicare da Roma tutti i vizi importati
dalla ricchezza: l’impudicizia delle donne, la venale
accondiscendenza dei mariti, il celibato, il lusso, la concussione;
un largo movimento che, simile a un fiume, era alimentato da
numerosi affluenti scaturiti su diverse montagne. C’era tra questi
la sollecitudine del bene pubblico, l’affetto per la repubblica, la
rinata sincera devozione per la aristocrazia. Che cosa sarebbe di
Roma, se la nobiltà non si mostrasse di nuovo degna, come in
antico, della sua grandezza? Così domandavano molti. E non
pochi in quella nobile matrona, che un ricco liberto o straniero o
plebeo riusciva con l’oro a sottomettere alla propria lascivia,
sentivano come rovesciata e oltraggiata la dignità di Roma,
vilipesa la grandezza della sua storia passata. Sinceramente molti
desideravano pure che il governo delle provincie fosse più
equo, più retto, più umano, sia perchè le
dottrine di Cicerone sul governo dei sudditi si diffondevano, sia
perchè si addolcivano i sentimenti, sia perchè si
incominciava a capire che Roma doveva supplir con l’amore allo
scemato vigore. C’era poi la forza della tradizione. Per secoli la
morale romana aveva inculcato la semplicità, le virtù
familiari, la purezza sessuale; e solo i secoli potevano cancellare
quello che i secoli avevano insegnato. E c’era infine – non bisogna
negarlo – l’invidia delle classi medie, già abbastanza
depravate da desiderare, non ancora così ricche da poter
godere tutti i piaceri viziosi dei fortunati, che erano nel tempo
stesso depravati e opulenti. Se gli artigiani e gli appaltatori di
Roma, che guadagnavano molto servendo i pochi Cresi della metropoli,
ne ammiravano il lusso, i piccoli possidenti d’Italia, gli
intellettuali, i cavalieri e i senatori di modesta fortuna
soffrivano che altri, così pochi, potessero sbizzarrirsi
tanto liberamente per i campi del piacere e del vizio, quando essi
dovevano camminar così diritti sul sentiero della
virtù, fiancheggiati come erano a destra e a sinistra dalla
insormontabile siepe della povertà. La irritazione medesima
che aveva tanto inferocita la pubblica opinione contro Cornelio
Gallo, incitava questa volta le masse, non a sbranare selvaggiamente
un uomo, ma a giudicare amaramente e a sospettare di ogni bruttura i
costumi del tempo e a chiedere leggi che facessero più
difficili o più pericolosi ai fortunati i piaceri che esse
non potevano godere per povertà: leggi che punissero
l’adulterio, che frenassero il lusso, che costringessero i
governatori ad esercitare nelle provincie il loro imperio con
dolcezza e giustizia; che obbligassero tutti a vivere in una
uniforme e mediocre virtù.
Il puritanismo, la cui voga cresceva, era insomma un denso
involucro, che chiudeva in sè i semi più diversi: il
seme del rancore, il seme dell’invidia, il seme di non pochi
sentimenti nobili e salutari, come il sentimento della tradizione,
che vale per i popoli quanto il sentimento della famiglia per i
singoli uomini; come il senso del bene e del male innato in ogni
spirito non deforme e non traviato dalla passione o dall’interesse;
come la sollecitudine patriottica dell’universale disfacimento in
cui, dilagando, il vizio e il piacere e la cieca ragione della forza
avrebbero travolta ogni cosa. Si spiega così che questa
ventata di puritanismo investisse allora e scuotesse non solo i rami
più bassi e più larghi dell’albero, ma anche le cime;
che ci fossero dei fautori sinceri e ardenti della corrente
tradizionalista e puritana anche in mezzo alla oligarchia dei
gaudenti; che uno di costoro – il più ardente di tutti, forse
– fosse Tiberio, il figliastro di Augusto. Nato in una grande
famiglia ed educato da una vera patrizia romana, quale era Livia,
egli pure, in quel gran fervore di romanesimo che si riaccendeva
negli spiriti intorno a lui, si infiammava di ammirazione per
l’antica nobiltà romana, e si proponeva di imitare le
virtù che i posteri le attribuivano. E pure si spiega, se
essa aveva una anima di serietà, che verso questa corrente di
idee e di sentimenti scendesse, per tuffarcisi e prender forza a una
grande opera, un grande poeta: Virgilio. Ammiratore della
letteratura greca e sollecito nel tempo stesso di scegliere a
soggetto le maggiori preoccupazioni dello spirito pubblico, Virgilio
si era proposto di dare all’Italia, in una grande opera d’arte, che
fosse a un tempo la Iliade e la Odissea latina, il poema nazionale
della sua rigenerazione morale e religiosa, fondendoci dentro, e
nella forma e nella materia, così come gli altri si
sforzavano di fonderle nella vita, le parti più eccelse del
romanesimo e le parti più pure dell’ellenismo, le credenze
popolari e le dottrine filosofiche, la religione e la guerra, l’arte
e la morale, lo spirito di tradizione e il sentimento imperiale. Ma
a fondere insieme tanti metalli diversi in una sola pasta fluida, da
gettar poi nella vasta forma del poema, ci voleva un immenso fuoco
di fantasia e un immane lavoro. Ad Augusto, che dalla Spagna gli
domandava notizie del poema e celiando gli ingiungeva
minacciosamente di mandargliene qualche brano, Virgilio rispondeva
di non avere ancora finito nulla che fosse degno di lui; e che a
volte si sentiva come sbigottito dalla grandezza dell’opera impresa,
tanto gli studi e le ricerche e la fatica crescevano per via172.
Scoraggiamenti brevi e stanchezze fugaci, però: che il
delicato poeta possedeva una tenacia instancabile, di cui il
volubile Orazio mancava; e ritornava quindi con lena novella ad
affaccendarsi intorno al suo gigantesco abbozzo, allorchè
Orazio consumava dei mesi per limare qualche poema minuscolo. Da
parecchi secoli, e cioè da quando Roma e l’Oriente avevano
avuti tra loro più frequenti contatti, gli eruditi greci si
erano studiati di ricollegare con una favola del ciclo trojano – la
favola di Enea e delle sue peregrinazioni, dopo la caduta di Troja –
le principali saghe del Lazio e la fondazione di Roma, inventando
così tra le due schiatte una parentela mitica, le cui origini
si perdevano al di là dei principî della storia.
Accreditata dal Senato romano, che a più riprese se ne era
servito ai fini della sua politica orientale, la leggenda si era poi
a poco a poco ramificata, perchè parecchie cospicue famiglie
romane, tra cui la gens Julia, avevano derivata la stirpe loro dai
compagni che la leggenda attribuiva ad Enea; e si era alla fine
così solidamente incastrata nella grande tradizione mitica
della preistoria di Roma, che nessuno osava più tentare di
distaccamela. Anche Tito Livio, il quale pure lascia intendere nella
prefazione di avere tutte queste leggende in conto di favole,
dichiara di non volerle nè confutare nè conservare, ma
di riferirle soltanto per rispetto all’antichità. E difatti
incomincia la storia sua narrando come Enea giunse in Italia e si
alleò con il re Latino e ne sposò la figlia e
fondò Lavinio ed ebbe guerra con Turno re dei Rutuli e con
Mezenzio re degli Etruschi, enumerando poi la lunga progenie di
Enea, le città e le colonie fondate dal figlio, dai nipoti,
dai pronipoti, sino a Romolo e a Remo. Scelta dunque a favola del
suo poema la leggenda primigenia di Roma, Virgilio l’aveva
però ingrandita smisuratamente a significare, in forme
letterarie attinte al più puro ellenismo, l’idea capitale del
romanismo tradizionale: la religione, come fondamento della
grandezza politica e militare di Roma; Roma, che fonde insieme
l’Oriente e l’Occidente, prendendo dall’Oriente i riti e le credenze
sacre, dall’Occidente la saggezza pratica e il valore; Roma, che
domina il mondo, come metropoli militare e politica, e come
città santa. Nei primi sei libri Virgilio si proponeva di
compendiare un poema di avventure e di viaggi a imitazione
dell’Odissea; narrando in parte egli, in parte ponendole in bocca
allo stesso eroe, le avventurose peregrinazioni di Enea dalla notte
fatale in cui Troia arse all’arrivo in Italia: negli ultimi sei
libri voleva invece rifare una piccola Iliade, raccontando le guerre
combattute in Italia con i Rutuli sino alla morte del re Turno. Ma
nella nuova Iliade come nella nuova Odissea, Enea non doveva essere
l’eroe umano dei poemi omerici, violento o astuto, ardito o cauto,
credulo o doppio, che gli dèi amano e proteggono per amor di
lui stesso; ma un eroe sacro, investito di una missione politica e
religiosa e che gli dèi – o almeno una parte degli dèi
– proteggono per certe vedute lontane sul destino delle genti e
delle città: perchè egli deve portare alla rude e
bellicosa razza che vive nel Lazio i riti della religione, che
farà di Roma la dominatrice del mondo173. Egli quindi va
pietate insignis et armis174 quasi come un sonnambulo nel suo
viaggio avventuroso, senza tender l’arco della volontà e
dell’intelletto, come gli eroi omerici, senza neppur indagar lo
scopo del suo lungo erramento, lasciandosi portar di peso dal volere
divino, che è la legge suprema di tutte le cose. I veri
protagonisti di questo dramma non sono gli uomini, ma gli
dèi. Virgilio, che li vuole nel tempo stesso amati e temuti,
li veste delle più solenni e più leggiadre forme
immaginate dalla mitologia greca; e fa loro di continuo, quasi a
prova della loro potenza, contrariare le leggi del possibile,
dell’umano, talora anche del ragionevole e del giusto. Essi cacciano
Enea nei più tremendi perigli, ed essi lo salvano con i
più inaspettati miracoli; essi fanno innamorare Enea di
Didone ed essi lo costringono ad abbandonarla, non per altro motivo
se non perchè così è necessario ai futuri
destini di Roma che deve innalzarsi sulle rovine di Cartagine; essi
sospingono Enea in Italia e qui gli danno una sede, una sposa, un
regno contro ogni ragione di opportunità e di giustizia. Non
è egli un intruso nel Lazio? Lavinia non è già
promessa a Turno? Intorno a Evandro e a Turno il poeta intendeva
raffigurare, in un bel quadretto, quella prisca e semplice
latinità, che i suoi viziati contemporanei sospiravano con
così idilliaco rimpianto. Orbene: i Frigi di Enea non erano
al confronto dei Latini che una torma di molli ed imbelli Orientali.
Eppure Enea, aiutato dagli dèi, usurpa il talamo e il regno
di Turno; combatte e vince con i Frigii imbelli i forti Latini;
perchè egli porta al Lazio “le cose sacre” di cui il Lazio ha
bisogno; perchè solo quando sarà corroborata dai riti
e dalle credenze della religione, la virtù dei Latini
conquisterà il mondo. Perciò Enea non si cura d’altro
se non di spiare la volontà misteriosa degli dèi, e di
osservare, nelle più tristi come nelle più liete
occasioni, i riti della religione che egli porta alla nuova nazione.
A ogni pie’ sospinto interroga gli oracoli; sempre tende l’orecchio
allo stormir delle fronde, e appunta gli occhi al volo degli
uccelli, al guizzo del lampo; mai non si stanca di spiare
nell’ignoto attraverso le piccole feritoie della scienza augurale.
In mezzo alle fiamme e all’incendio di Troia egli pensa a salvare il
fuoco di Vesta, che arderà eterno nella valletta posta a pie’
dei colli Palatino e Capitolino; perfino nel momento in cui si
accinge a uscir di Troia con il padre, dopo avere combattuto tutta
la notte, si ricorda che, così lordo di sangue come è,
non può toccare i penati e prega il padre di toglierli in
mano; dalla mattina alla sera, in ogni pericolo, in ogni tristezza,
dopo ogni lieto evento egli prega, prega sempre, sino a infastidire,
se non gli dèi, per lo meno i lettori, trovando modo di
compiere, nel lungo viaggio, e di dare al poeta l’occasione di
descrivere minutamente, con precisione di archeologo e di teologo,
tutte le cerimonie del rituale latino, anche le più disusate.
Per obbedire agli dèi Enea non teme infine di discendere, per
il cammino tracciato dalle leggende popolari, in un inferno, nel
tempo stesso pieno di mostri mitologici e illuminato dalla filosofia
pitagorea, a cercare sotto terra la giustizia che sulla terra non
c’è e a conoscere una parte dei tempi futuri. Accompagnato
dalla Sibilla di Cuma, egli entra nell’inferno per le porte che una
vecchia leggenda italica aveva poste nella grotta del lago di
Averno, vicino a Napoli: vecchia leggenda derisa da Lucrezio ma che
Virgilio ripiglia come poetica e popolare, staccandosi così
quasi interamente dall’epicureismo, che Sirone gli aveva nella prima
giovinezza insegnato. La terra muggisce; i monti vacillano, i cani
urlano; ed Enea per il suo sotterraneo cammino, come in una notte
senza luna per una selva, giunge al vestibolo dell’inferno in cui
tra i rami di un immenso olmo opaco si annidano i Sogni, dove le
aeree allegorie latine del male stanno accampate con i mostri
corpulenti della leggenda greca: i Rimorsi con i Centauri; i pallidi
Morbi e la triste Vecchiaia con la Chimera ignivora e le Gorgoni; la
Paura, la Fame, la Povertà con l’Idra di Lerna e le Arpie.
Varcata la soglia infernale, ecco farsi incontro uno dei personaggi
più popolari della mitologia antica. Caronte, il collerico
nocchiere di Stige, che trasporta al di là della palude solo
coloro che furono sepolti. La Sibilla dà al nocchiero le
spiegazioni volute; quindi Enea, portato al di là di Stige,
si imbatte in Minosse il giudice: e intorno vede i primi abitatori
dell’al di là, le vittime passive della sorte, che nella vita
non han potuto nè meritare nè demeritare: i bambini
morti lattanti, gli uccisi in battaglia, i suicidi, i giustiziati a
torto, che sono posti in una condizione nè trista nè
lieta, liberi da tormenti, ma angustiati dal rammarico della vita
così poco goduta. Lì accanto Virgilio vede poi i
“Campi del pianto”, dove vagano le anime di coloro che la passione
dell’amore ha distrutto. La via si biforca al di là; e porta
a sinistra verso il Tartaro ove nessun giusto può entrare.
Enea quindi appena lo intravede dalle porte spalancate tra
rosseggiare di fiamme, urla disperate, stridore di ferri e di
catene; ma la Sibilla glielo descrive con maggiori particolari, come
il cupo ergastolo ove orrendi supplizi puniscono proprio i delitti
che in quel rinascimento puritano parevano più orribili: i
fratelli nemici, i figli ingrati, i patroni che hanno frodato i
clienti, il liberto infedele, gli adulteri, gli incestuosi, quelli
che hanno preso le armi contro la patria, i magistrati corrotti. Le
pene durano eterne e sono così atroci che la Sibilla non
vuole descriverle; affrettandosi verso i felici boschetti e le beate
sedi degli Elisi, dove Enea trova gli eroi della sua gente e il
padre Anchise. Il quale però gli mostra un altro al di
là, più ideale ed etereo, spiegandogli la dottrina
pitagorea dell’anima e del corpo, della contaminazione e della
purificazione, dell’oblio e della reincarnazione:
Principio cœlum ac terras camposque liquentis
Lucentemque globum
lunæ titaniaque astra
Spiritus intus alit....
Versi bellissimi e sublimi pensieri: i quali però
sovrappongono male al rozzo inferno delle leggende popolari, pieno
di mostri corpulenti, di supplizi e di cose massiccie, un filosofico
e ideale al di là....
Orazio è lo spirito possente ma solitario, che esce fuori
dalle cose e si pone alla necessaria distanza per ben giudicarle;
che, indifferente e quasi estraneo a Roma, all’Italia, al suo
passato, al suo presente, scruta, analizza, fissa i mille fenomeni
contradittori dell’istante meraviglioso in cui il suo genio rifulse.
Virgilio è la grande anima comunicativa, che con il
sentimento, la imaginazione, la scienza, la erudizione entra in
contatto con la vita, la riceve in sè, se ne inebria, la
descrive, la celebra, la ingigantisce, la purifica dalle scorie, ne
fonde i contrari, ne sublima la materia e lo spirito; che del
meraviglioso istante in cui il suo genio rifulse accanto a quello di
Orazio espresse e fuse in una sintesi imperfetta ma grandiosa tutte
le aspirazioni contradittorie, frementi nella parte più
eletta, più colta, più dabbene dell’Italia. Una
grandiosa amplificazione poetica delle rinascenti preoccupazioni
religiose, morali e militari; la voce solenne non di un singolo, e
sia pur grandissimo poeta, ma di una intera età: tale
è l’Eneide. Senonchè mentre Virgilio restaurava sulla
carta il culto e rigenerava la virtù dell’Italia, mentre il
pubblico aspettava con impazienza la pubblicazione del suo poema, il
culto restava in balìa del pontefice massimo che era Lepido,
l’antico triunviro ritiratosi pieno di rabbia a Circei, il quale non
si occupava più di nulla; e le cose della guerra erano
affidate ad Augusto, il quale aveva in Arabia anche minor fortuna
che in Spagna. La spedizione di Elio Gallo aveva avuto un cattivo
principio, perchè l’esercito imbarcato a Miosorno, fatta la
traversata del Mar Rosso, aveva dovuto fermarsi nel porto, dove era
sbarcato, a Leucocome, per una misteriosa malattia, che aveva
colpito il maggior numero dei soldati. Così almeno si
disse175. Nel tempo stesso un’orda di Etiopi, avendo saputo che una
parte delle milizie stanziate in Egitto erano in Arabia, invadeva
l’Egitto, giungendo sino a File, per vendicarsi della spedizione di
Cornelio Gallo; e Petronio, il prefetto, si accingeva a
respingerla176. Non a torto dunque Augusto aveva giudicata troppo
avventurosa la politica del primo praefectus. E intanto nuove
difficoltà, forse più gravi, spuntavano in Oriente.
Mentre si trovava ancora in Spagna, Augusto era stato raggiunto da
Tiridate, il pretendente al trono di Persia, postosi sotto la
protezione di Roma. Negli anni precedenti, approfittando delle
interne discordie, Tiridate era riuscito a scacciar Fraate
insuperbito e fatto crudele dopo la vittoria su Antonio. Fraate,
rifugiatosi tra gli Sciti, aveva assoldate numerose bande, alla
testa delle quali era riuscito a riconquistare il regno e a
rimettere in fuga Tiridate. Questi a sua volta, fuggendo, aveva
potuto rapire il figlio maggiore di Fraate; e lo portava ad
Augusto177. L’ostaggio era prezioso; ma accettandolo, non si correva
il pericolo di provocare rappresaglie dal re dei Parti e di
riaccendere la questione orientale, per il momento sopita? Queste
guerre civili della Persia rallegravano e inquietavano Augusto: lo
rallegravano, perchè indebolivano l’impero nemico; lo
inquietavano, non dovesse, come spesso avviene, il fuoco della
guerra interna divampare fuori, nelle provincie e negli Stati
protetti da Roma, in un più vasto incendio di guerre esterne.
Per maggiore sventura proprio in quel medesimo tempo Aminta, il re
di Galazia, periva in una spedizione contro un piccolo popolo di
briganti, gli Onomadensi, non lasciando che figli in tenera
età178. Roma perdeva in Oriente il suo più fedele e
forte alleato; il solo che, se una guerra scoppiasse, avrebbe potuto
mettere in campo contro la Persia un esercito agguerrito e retto con
disciplina romana. Il Senato, mancando eredi capaci di succedere nel
regno, aveva dichiarata la Galazia provincia romana, dandone il
governo, insieme con il comando degli eserciti galati, ad Augusto:
insigne onore, ma grave onere pure e pericolosa
responsabilità, se una guerra scoppiasse in Oriente. La
situazione interna era incerta; una irrequietezza pericolosa
ritornava ad agitare lo spirito pubblico; le spedizioni da lui
meditate o fallivano o non darebbero i frutti aspettati che tra
molti anni; le cose d’Oriente, quete per qualche tempo, accennavano
di nuovo a muoversi.... Tutte queste difficoltà, a cui si
aggiunse il proposito di celebrare il matrimonio del nipote Marcello
con sua figlia Giulia, indussero infine Augusto, nella seconda
metà del 25, a ritornare a Roma. Ma avesse egli almeno potuto
affermare ai Romani di aver conquistata davvero la Cantabria e
l’Asturia, ricche d’oro! Invece egli era appena uscito di Spagna, e
già Asturi e Cantabri insorgevano di nuovo!179 Perfino la sua
salute andava di male in peggio: pare che fosse tormentato in questi
tempi dal crampo degli scrittori; e in viaggio ammalò,
cosicchè dovette sostare e incaricare Agrippa di assistere
alle cerimonie nuziali di Giulia e Marcello180.
Il suo ritorno rallegrò tuttavia molto l’Italia. Il malessere
presente era soltanto effetto della lontananza di Augusto; ora che
egli era tornato, a molti guai troverebbe rimedio. Così
ragionava il pubblico, con fiducia e semplicità; e
così poetava Orazio, esagerando un tantino nel paragonare lui
reduce “vittorioso” dalla Spagna ad Ercole181: e così
pensava, parte per servilità, parte per pigrizia, parte per
sincera ammirazione, la maggioranza del Senato. Nella seduta del
1° gennaio del 24, il Senato approvò tutte le cose da lui
compiute con giuramento, come si usava nei tempi della rivoluzione,
cioè impegnandosi a non ritirar più l’approvazione182.
Poco dopo fece di più: quando Augusto, avvicinatosi a Roma,
volle donare a ciascun plebeo 400 sesterzi e domandò al
Senato di esser dispensato dall’osservanza della lex Cintia che
proibiva simili donazioni, il Senato rispose sciogliendolo
addirittura dal vincolo di tutte le leggi183. Non aveva detto
Orazio, salutando il dì del suo ritorno:
Questa per me verace festa i negri
pensieri scaccerà:
più non pavento
tumulti o mala morte, or che la terra
Cesare
tiene?184
La leggenda di Augusto rimetteva i fiori come un albero alla nuova
primavera. Ma Augusto credeva ora nella sua leggenda anche meno di
quando era partito. Con che mezzo poteva egli accontentare tanti
desideri opposti e imprecisi? Egli non accettò, naturalmente,
la dispensa da tutte le leggi185. Poco dopo il suo ritorno, avvenuto
nella prima metà del 24186, giunsero in Roma, mandati da
Petronio, mille schiavi etiopici, catturati nel respingere
gl’invasori dall’Alto Egitto187. Questa impresa almeno aveva sortito
esito felice; l’Egitto era di nuovo sicuro. Se Elio Gallo, che alla
fine dell’inverno aveva incominciata la marcia verso lo Yemen,
riuscisse a conquistare i tesori dei Sabei, l’Italia potrebbe almeno
celebrare una vittoria e Augusto lenire qualche malanno con la
infallibile cura dell’oro. Intanto, per dare qualche soddisfazione
alla opinione pubblica che chiedeva riforme, fece proporre in
Senato, avvicinandosi le elezioni per il 23, che Marcello fosse
autorizzato a domandare le cariche dieci anni e Tiberio cinque anni
prima del tempo legale; e fece presentare la candidatura del primo
all’edilità, del secondo alla questura188. Siccome la
edilità e la questura erano le cariche più schivate,
egli, offrendo così per tempo la sua famiglia alla
repubblica, ricordava alla nobiltà che i suoi privilegi
dovevano essere giustificati dallo zelo. Poi si accinse, come era
solito fare quando abitava Roma, a dare un esempio continuo di zelo,
tentando di compiere, nonostante la cattiva salute, tutti i doveri
che le magistrature accumulate su lui, la ricchezza, la gloria gli
imponevano; e che erano innumerevoli. Come console egli doveva
render giustizia dal suo seggio d’avorio; mettere all’asta gli
appalti pubblici, ora che ai consoli era stata trasmessa questa
facoltà, mancando i censori189; ricevere tutta la
corrispondenza dello Stato, convocare il Senato e informarlo di ogni
cosa, esser presente a un infinito numero di cerimonie civili e
religiose. Come proconsole di tre provincie, doveva continuarne da
Roma l’amministrazione per mezzo di legati; e come generalissimo,
tenere d’occhio e comandare da lontano ventitrè legioni e
innumerevoli corpi ausiliari sparsi per tutto l’impero. Quante
incertezze da risolvere, quanti errori da correggere, quante
dimenticanze da riparare, quante lettere da leggere e da scrivere,
ogni giorno! Augusto aveva perfino pensato di assoldare come
segretario Orazio, che aveva rifiutato190. Come princeps senatus,
Augusto doveva inoltre presiedere le sedute del grande consesso;
come membro del collegio degli auguri, del collegio dei pontefici,
del collegio dei quindecemviri sacris faciundis, doveva esser
presente a riunioni, a cerimonie, a banchetti, senza fine; come capo
dello Stato, eletto per essere il cittadino esemplare, modello delle
virtù civiche, doveva compiere tutti i doveri che la
tradizione imponeva al nobile romano; e quindi assistere
gratuitamente in giudizio tutti i clienti della famiglia, gli amici,
i plebei poveri con cui avesse avuto qualche relazione, nel quale
numero quindi erano compresi tutti i veterani delle guerre
civili191; non doveva mancare ad alcun atto pubblico, dalle sedute
del Senato alle elezioni, nelle quali, per dare il buon esempio,
percorreva le tribù con i candidati suoi per domandare i
suffragi, come ai bei tempi della repubblica, e votava, come
l’ultimo dei cittadini192; doveva infine offrire un grande numero di
banchetti solenni193 e, quel che era peggio, accettare un numero non
minore di inviti e ingoiare con viso ilare anche i più
mediocri desinari, perchè se avesse mostrato di non gradire
l’ospitalità delle case troppo modeste avrebbe offesi tutti i
cittadini come chi si credesse da più di loro194. I fatti
provavano che la cumulazione delle cariche, immaginata da Giulio
Cesare, aveva potuto essere l’opportuno ripiego di un uomo
straordinariamente alacre, in tempi calamitosi e agitati; non poteva
essere il principio nuovo di un governo di pace, retto non da
semidei ma da uomini che sentissero la fatica, come tutto il genere
umano. Solo un uomo di ferro avrebbe potuto resistere solo, senza
aiuti numerosi, a tante brighe, non Augusto; che infatti nel mese di
giugno ammalò di nuovo195, cosicchè nei mesi rimanenti
neppure egli non fece più nulla; fuorchè spendere
denari per costruzioni e per feste; e solo Elio Gallo condusse a
termine la sua spedizione arabica, ma con poca fortuna. Egli giunse
dopo una marcia faticosa, sebbene non contrastata, sino alla
città principale dei Sabei, Mariba: ma non trovò in
nessuna parte gli agognati tesori e dovè in fretta e furia
ritornare, con l’esercito dimezzato dalle malattie e con le mani
vuote. Dell’insuccesso si diè la colpa ai Nabatei e
specialmente al ministro del re, Silleo, che accompagnò Gallo
e che lo avrebbe, sotto colore di aiutarlo, tradito: spiegazione che
potrebbe rispondere al vero, o essere una invenzione immaginata dai
Romani, por nascondere i propri errori196. Certo è che
l’Arabia e l’Egitto rivaleggiavano per il commercio tra il
Mediterraneo, l’India e la Cina; e che tutte le popolazioni arabe
dovevano cercare che il nuovo Stato signore dell’Egitto non si
impadronisse della via rivale a quella di Alessandria che, per
Leucocome e Petra, giungeva in Fenicia197.
L’anno 23 incominciò quindi male; e continuò peggio.
Invano l’edile Marcello cercò di rallegrare la metropoli,
dando feste sontuose con i denari dello zio198. Un morbo detto
vagamente peste dagli antichi e nel quale uno scrittore moderno ha
creduto riconoscere una epidemia di tifo199, empì prima
l’Italia e Roma di lutto; e poi minacciò addirittura di
precipitare una catastrofe politica, quando, dopo tante vittime,
assalì anche Augusto che, probabilmente in primavera e certo
prima di giugno, ammalò per la terza volta, ma più
gravemente che le precedenti200. Un brutto giorno Roma seppe che
Augusto era in fin di vita e che già aveva prese le
disposizioni supreme, fatto il testamento, consegnate tutte le carte
di pubblico interesse, compresi i conti privatamente fatti fare in
casa sua della finanza, all’altro console Pisone: solo permettendosi
di indicare al Senato e al popolo Agrippa come suo successore, con
una raccomandazione discreta, che non poteva offendere neppure i
più rigidi repubblicani, dandogli cioè il suo anello o
sigillo201. È facile immaginare che commozione suscitasse
questa notizia. Che cosa avverrebbe mai se Augusto morisse a un
tratto, a quarant’anni, lasciando tutte le cose sospese in quella
strana incertezza, e appena appena in grado di reggersi? Nessuno
poteva prevederlo. Ma ecco a un tratto apparire per la prima volta a
salvar la repubblica dagli imminenti pericoli un liberto orientale,
un medico. Augusto credeva nella virtù della tradizione
allorchè occorreva curare le malattie dello Stato, non per
guarire quelle del suo corpo: per queste, alle ricette tradizionali
delle grandi famiglie romane, egli aveva preposta la scienza della
medicina greca, tenendosi in casa un grande luminare dell’arte
salutare, un antico medico di Giuba II, re di Mauritania, il
fondatore di una nuova scuola medica: Antonio Musa. E Antonio Musa,
quando tutti giudicavano Augusto già morto, lo risanò
con una cura di bagni freddi202. La gioia fu vivissima, e ricadde in
una pioggia di onori sul capo del medico. Per sottoscrizione
pubblica gli fu eretta una statua addirittura accanto a quella di
Esculapio; il Senato gli assegnò un guiderdone in denaro e lo
iscrisse nell’albo dei cavalieri203. Non basta ancora: l’ammirazione
per Musa traboccò su tutti i medici; e in un momento di
universale entusiasmo il Senato votò l’immunità,
cioè, l’esenzione da ogni imposta e carico pubblico, per
coloro che esercitassero la medicina in Roma e in Italia204. Insomma
in un baleno, per la sola guarigione di Augusto, tutti parevano
essersi convertiti alla ammirazione della medicina scientifica dei
Greci, che tante diffidenze suscitava ancora in tanti Romani: altra
riprova, e tra le più singolari, che quella età non
aveva fermezza in alcun sentimento, nè nell’ammirazione
dell’antico, nè nella diffidenza del nuovo, nè nel
proposito di ritornare alle tradizioni, nè nelle inclinazioni
a orientalizzare lo Stato. Non per capriccio o per stoltezza i
grandi difensori della tradizione detestavano la medicina greca,
come una impura miscela di ciurmeria e di cupidigia205. Ogni vera
aristocrazia militare è naturalmente portata a deprimere le
professioni intellettuali, specialmente i medici e gli avvocati, che
in ogni tempo formarono il nucleo del ceto medio più potente
per cultura, per aderenze, per influenze e quindi in grado, quando
acquista potere, di contrastare in pubblico ed in privato, nelle
famiglie e nello Stato, al potere di una aristocrazia militare, di
diffondere idee qualità e virtù contrarie a quelle in
cui una aristocrazia militare riassume l’ideale della vita.
L’aristocrazia romana infatti aveva da secoli monopolizzata la
avvocatura e, spregiandola, lasciata la medicina agli orientali,
perchè liberti. Ma tanto più viva doveva essere la
avversione contro queste professioni in Roma allora, perchè
questi liberti orientali venivano da scuole lontane e professavano
su tutte le cose idee profondamente diverse da quelle radicate nella
tradizione romana. Quanto potere acquisterebbero costoro, se
avessero persuaso ai Romani, ormai così paurosi dell’al di
là, di possedere il segreto della vita e della morte?
Perciò la antica diffidenza vigilava a persuadere che meglio
di tutta la medicina greca valevano le vecchie ricette tramandate di
padre in figlio. Ed ecco a un tratto uno di questi professionisti,
divenuto celebre, ricevere gli onori riserbati ai conquistatori e ai
negoziatori di trattati; e la legislazione da un giorno all’altro
farsi a proteggere coloro, di cui sino allora aveva diffidato o che
aveva avversati!
IV.
UNA NUOVA RIFORMA COSTITUZIONALE.
Ma troppo presto gli ammiratori di Augusto avevano giubilato. Mentre
essi coprivano Antonio Musa di ricompense, Augusto dichiarava di
voler ritirarsi a vita privata206, perchè stanco e malato. La
riforma costituzionale del 27, già da qualche anno in
dissoluzione, si sfasciava ad un tratto per questa rinuncia. Immensa
fu la costernazione di Roma. Che Augusto avesse bisogno di riposare,
chi poteva negarlo? Eppure tutte le cose parevano reggersi appena
appena in bilico per virtù sua; egli solo pareva poter
raffrenare, temperare, attenuare, con diuturna abilità,
ricominciando sempre da capo, il contrasto di tante discordie
insanabili, l’acrimonia di tanti rancori inesorabili, il rodimento
di tanti appetiti inappagabili. Si cercò quindi con ogni
mezzo di dissuaderlo.
Ma Augusto diceva proprio sul serio di voler ritirarsi a vita
privata? Io vedo invece in quella mossa una finta. Lo stato delle
cose era allora così bizzarro e confuso, che ad Augusto
riusciva così difficile continuare a governar l’impero, come
cessare dal governarlo. Difficile continuare, perchè
l’aristocrazia posticcia che si radunava intorno a lui di vecchi e
di nuovi nobili si faceva ogni anno più indisciplinata e
riottosa: difficile cessare, perchè la poca alacrità e
autorità che nello Stato era ancora, derivava tutta da lui.
La nobiltà ricostituiva le proprie fortune con i matrimoni,
con le eredità, con il favore dei tempi e anche con l’aiuto
di Augusto stesso; a mano a mano cioè che, per intercessione
di Augusto, si distribuivano in concessione perpetua alle famiglie
più cospicue dell’aristocrazia storica, con l’obbligo di
pagare un piccolo vectigal annuo, le terre e le miniere migliori
poste nelle provincie. Livia aveva avute certe ricchissime miniere
di rame poste nella Gallia transalpina207; Sallustio, il nipote
dello storico, aveva prese certe altre miniere di rame e di ferro
nel territorio dei Salassi, conquistato da poco208; Marco Lollio, il
primo governatore della Galazia. aveva già incominciata,
probabilmente con concessioni di terre pubbliche, la colossale
fortuna della famiglia209; e con doni di Augusto Gneo Lentulo
Augure, la cui sola virtù era la gloria del casato,
ricostituiva al proprio nome un patrimonio che più tardi
sarà valutato molti milioni di sesterzi210. Quanti altri
illustri casati aristocratici, che nei decenni seguenti sfoggiarono
in Roma grandi ricchezze, dovettero rifare i loro patrimoni con
l’aiuto di Augusto in questo modo, se il nome di Lentulo valeva
tanti milioni agli occhi del princeps! Ma che i suoi patrimoni
fossero in parte ricostituiti da Augusto, era motivo sufficiente
alla aristocrazia storica per mantenerlo al potere, per fargli votar
dal Senato le più larghe facoltà e i decreti
più onorifici; non già per sottomettersi, sul suo
comando ed esempio, ad una dura disciplina, immolando al pubblico
bene comodi piaceri e vantaggi privati. Lo svanito terrore del
triunvirato, le riacquistate ricchezze e la mitezza del governo
augusteo la rifacevano insolente e prepotente. Da un pezzo la
nobiltà aveva capito che, tra tante difficoltà
interne, con alle spalle il cumulo delle memorie delle guerre
civili, con l’impero in disordine, e in presenza di nuovi pericoli
esterni, Augusto non oserebbe farsi troppi nemici nelle alte classi,
nè per buoni nè per cattivi motivi. Onde uno spirito
di crescente irrequietezza e indisciplina. Tutti quei senatori, che
dieci o quindici anni prima, durante il triunvirato, a metà
rovinati, incerti della vita e dell’avvenire, avevano saputo farsi
piccini piccini, incedevano ora pettoruti per Roma, ingombravano
superbi il Senato, si bisticciavano di continuo per dei nonnulla, si
detestavano l’un l’altro e perfino Augusto rispettavano soltanto a
parole. Di tempo in tempo persone che a lui dovevano tutto, morivano
senza lasciargli un ricordo, ciò che era allora una offesa
gravissima211: si aprivano di tempo in tempo dei testamenti in cui,
con il pretesto di spiegare le ragioni per cui non aveva lasciato
nulla ad Augusto, il testatore inseriva contumelie o diatribe contro
di lui, che il magistrato era costretto a leggere in pubblico212;
non solo i morti parlavano, ma anche i vivi, perchè dei
libelli – pamphlets, diremmo noi – contro di lui incominciavano a
esser messi in giro213; nè molti dei suoi colleghi si
trattenevano, quando potevano, di fargli dispetto. Augusto aveva un
giorno scacciato dalla sua casa un dotto greco, di molta rinomanza,
il quale diceva e scriveva sul conto suo e di Livia cose atroci: ma
subito si era affrettato ad accoglierlo in casa sua, con ostentata
benevolenza, Asinio Pollione, e tutti i grandi se lo disputavano214.
Perfino Lentulo affettava di lagnarsi che Augusto, con le sue
larghezze, lo avesse distolto dagli studî, per obbligarlo ad
attendere alla pubblica cosa!215 Perfino i suoi amici più
antichi, non ostante la sua pazienza infinita, si intiepidivano o si
corrucciavano. Tutti in Roma sapevano che Mecenate non era
più con lui l’amico di un tempo; perchè – così
almeno si diceva – lo sospettava di ammirar troppo fervidamente sua
moglie216. E appena risanato, colui che gli storici moderni chiamano
il signore del mondo, non ebbe autorità sufficiente a
spegnere una discordia accesasi nella sua stessa famiglia tra il suo
nipote Marcello e il suo amico Agrippa. Urtatisi per ragioni che
sono poco chiare, Agrippa intimò ad Augusto di dargli
interamente ragione, e poichè Augusto non volle o non
potè, si partì sdegnato per l’Oriente, risoluto a
privar l’impero dei suoi servigi per rappresaglia di una offesa
privata217. Immaginarsi se potevano andar d’accordo tra loro i
membri di questa aristocrazia, quando avevano così poco
rispetto per colui che, volessero o no, era il loro capo! Bizze,
maldicenze, ripicchi, puntigli e dispetti: questa la trama, su cui
la aristocrazia tesseva ogni dì la sua tela. Se nessuno
attendeva alle pubbliche faccende, la minuta e continua persecuzione
del partito popolare nei suoi ultimi avanzi, appassionava molti come
un giuoco eccitante, crudele e senza pericolo; non mancavano i
magistrati che, per dare al popolo giuochi più belli dei
propri colleghi, facevano follie218; cosa più grave, nelle
provincie abbandonate al capriccio dei governatori, negli eserciti
retti con disciplina assoluta, il potere smisurato faceva talora
addirittura perdere il senno a questi nobili, già così
superbi a Roma. Ogni tanto Roma doveva sdegnarsi per qualche
crudeltà e prepotenza commessa da un illustre governatore
nella sua provincia; e inclinando a sensi più umani anche per
i sudditi, domandava ad Augusto che correggesse questi abusi219. Ma
come, con quali mezzi? Addolorato per la partenza di Agrippa,
Augusto aveva spedito a raggiungerlo in viaggio, a modo di compenso
e come messaggio di conciliazione, la nomina a suo legatus per la
Siria220, cercando così di volgere in bene anche la lite con
Marcello. Le faccende partiche si intorbidivano sempre più;
Fraate mandava a Roma un’ambasciata per domandare il figlio e
Tiridate221, vale a dire, probabilmente, per intimare un ultimatum.
Comunque volgessero le cose, era savio consiglio porre Agrippa alla
testa delle legioni siriache. Ma Agrippa, duro: non smise il
broncio; e pur non rifiutando la nomina, restò a Lesbo, come
Achille sotto la tenda, senza occuparsi delle provincie222;
cosicchè Augusto, non osando intimargli di accettare o di
rifiutare, si trovava ad avere, minacciando una guerra con i Parti,
la Siria senza legatus. Intanto tra le classi medie, nella parte
più rispettabile dei senatori e dei cavalieri di modesta
fortuna, per naturale avversione a questi vizi della nuova
aristocrazia, la corrente puritana acquistava forza; la elezione dei
censori, la compilazione di leggi severe contro la corruzione dei
costumi, dei provvedimenti insomma che raffrenassero il disordine
dell’alta società erano sollecitati come urgentissimi, non
più differibili. Ed era una nuova gravissima
difficoltà per Augusto. Augusto era più sinceramente e
fervidamente ammirato dalle classi medie, a cui non aveva dato
nulla, che dalla aristocrazia, a cui aveva dato tutto: anzi questa
popolarità nelle classi medie era la forza maggiore del suo
governo. Perciò egli capiva di dover dare a queste classi
almeno qualche soddisfazione morale. Ma non osava secondare
apertamente il movimento, incitarlo e adoperarlo per raffrenare,
intimorire, piegare al suo volere l’aristocrazia. Nei bei tempi
della repubblica la disciplina del costume privato era stata
mantenuta sopratutto dai capi della famiglia, nel piccolo monarcato
domestico: questi mancando al proprio dovere, non si poteva, come
molti chiedevano, fare intervenire la legge, se non sconvolgendo i
principî fondamentali del diritto familiare, rovinando
cioè la tradizione che si voleva restaurare. Nec vitia nostra
nec remedia pati possumus. Augusto era disposto solo a far eleggere
di nuovo i censori; e a prendere l’iniziativa di una nuova riforma
dell’erario, che affrettasse la restaurazione della finanza, sempre
più necessaria. Ogni anno si dovevano trarre a sorte tra i
pretori due amministratori, che avrebbero nome di “praetores
aerarii”223. Ma per il resto, egli voleva adoperare quello che a lui
pareva ancora in tutte le difficoltà il migliore rimedio,
l’indugio. Un solo uomo insomma avrebbe potuto far le sue veci, a
capo dello Stato, Agrippa; e anche quello, il solo collaboratore da
cui egli fosse stato efficacemente aiutato negli anni precedenti, si
era tratto in disparte per un ripicco. Infastidito da tante
difficoltà, disgustato da tanti contrasti, sollecito di
aversi riguardo per non sciupare con soverchie brighe quel po’ di
salute che ancora gli restava, Augusto aveva alla fine ideato una
nuova riforma costituzionale, con cui trasporterebbe la sua
autorità dall’Italia sulle provincie, dalla politica interna
sulla estera: abbandonare cioè definitivamente il principio
cesariano della cumulazione delle cariche che appariva assurdo e
impossibile, per la gravezza delle fatiche che imponeva; farsi
attribuire un potere discrezionale di vigilanza e di controllo sui
governatori di tutte le provincie senatorie e sue, con cui integrare
e correggere in ciascuna l’opera loro; diventare insomma il vero
princeps vagheggiato da Aristotele, da Polibio, da Cicerone: e
cioè un vigilatore supremo. Per questa riforma Augusto non
avrebbe più dovuto attendere al governo di Roma e
dell’Italia, che era il più difficile e grave: potrebbe
recarsi e dimorare per lunghi anni nelle provincie: potrebbe in
queste, lavorando pacatamente, continuare il riordinamento delle
finanze imperiali e la ricostituzione della fortuna dell’Italia;
potrebbe anche affittare in perpetuo ai suoi amici i beni pubblici
di tutto l’impero, invece che quelli soltanto delle sue provincie;
potrebbe infine dare una soddisfazione alle classi medie e alle
classi intellettuali d’Italia, se non emendando i costumi della
corrotta metropoli, impedendo almeno nelle provincie gli abusi e le
rapine più scandalose; applicare nella misura del possibile i
tre versi famosi, con cui Virgilio definisce la missione imperiale
di Roma:
Tu regere imperio populos, Romane, memento;
Hae tibi erunt artes;
pacisque imponere morem,
Parcere subiectis et debellare superbos;
praticar largamente, in persona, sui luoghi, invece che per mezzo di
governatori svogliati e restii, quella politica di conciliazione e
di giustizia, che egli, pur tenendo distinte tre cose che i
contemporanei inclinavano sempre più a confondere, la
filosofia, la poesia e la politica, giudicava essere necessaria
sopratutto in Oriente. Poco prima infatti alcune città
dell’Asia Minore rovinate dal terremoto avendo osato ricorrere per
aiuto al Senato romano, il quale da secoli era solito non a dare ma
a prender denaro, Augusto aveva favorita la domanda e Tiberio
l’aveva perorata in Senato224. Voleva insomma provare in tutto
l’impero, e incominciando con un viaggio in Grecia e in Oriente,
quella riforma della amministrazione delle provincie, che era
fallita a Silla, a Lucullo e a Cicerone; sapendo ad ogni modo che
egli potrebbe con minor fatica tenere a freno la avarizia dei
grandi, ora che non c’era quasi più nulla da rubare nelle
provincie; ora che i terribili pubblicani erano scomparsi; ora che
egli poteva dare ai grandi, in premio della loro onestà, il
sicuro godimento dei beni pubblici. Augusto conosceva a fondo la
suprema arte politica di ingrandire agli occhi delle moltitudini le
difficoltà, per accrescere il merito di averle vinte; onde
assumeva volentieri un ufficio che aveva il pregio, insuperabile per
un uomo politico, di essere facile e di parere difficilissimo.
Perciò io penso che la minaccia di ritirarsi a vita privata
fosse una finta, per indurre più facilmente il Senato e il
popolo ad approvare questo mutamento, sopratutto la abdicazione del
Consolato, che doveva spiacere molto alle alte classi di Roma,
queste non conoscendo mezzo più comodo che far console
Augusto, per mantenere l’ordine in Roma e per avere delle buone
elezioni senza fatica. Ma quando Augusto ebbe minacciata loro
l’alternativa: o cedessero o egli si ritirava, dovettero acconciarsi
e venire ad un accordo. Senonchè se era facile indurre il
Senato a perdere un così comodo console, più difficile
era dichiarare brutalmente all’Italia, sopratutto alle classi medie,
le quali tanto speravano dall’opera sua, che egli non intendeva
più prender cura dei loro interessi. Perciò si
convenne nell’accordo che il Senato darebbe ad Augusto la
potestà tribunizia a vita; e cioè i diritti dei
tribuni che egli ancora non possedeva: il diritto di veto, il
diritto di far proposte al Senato, il diritto di proporre leggi ai
comizi. Così egli non sembrerebbe abbandonare del tutto
l’Italia; conserverebbe un mezzo di intervenire nelle faccende di
Roma; e nel tempo stesso sarebbe gravato da poteri e quindi da
responsabilità e brighe molto minori che non il console225.
Verso la metà dell’anno, dopo le Ferie latine, fu data
infatti esecuzione all’accordo. Augusto abdicò il consolato;
e il Senato gli accordò in cambio un potere di vigilanza e di
controllo sui governatori di tutte le provincie: aggiunse a questo
il diritto di entrare nel Pomerio senza decadere dai poteri
proconsolari; gli concesse infine la potestà tribunizia a
vita226. A sua volta Augusto, per corrispondere al partito
aristocratico un compenso, aiutò nella elezione suppletiva
del consolato Lucio Sestio, un antico proscritto e fedelissimo amico
di Bruto227. E così parvero tutte appianate le
difficoltà, che erano nate dalla malattia del princeps. Ma ne
nacquero subito delle nuove, perchè non le malattie d’Augusto
generavano le difficoltà, come i più credevano; ma la
continua contradizione d’ogni cosa con sè medesima, che
nessun decreto poteva annullare. Il Senato e i magistrati
continuando, come solevano, a oziar beatamente tra le urgenze e le
complicazioni delle pubbliche faccende, la riforma costituzionale
non impedì che nella seconda metà dell’anno 23
nessuno, nè gli edili, nè i consoli, si desse
più pensiero di cosa alcuna, nemmeno della carestia che
minacciava di affamare l’Italia e Roma; che il partito della
nobiltà si agitasse tutto e soltanto per ripetere lo scandalo
di Cornelio Gallo contro un oscuro governatore della Macedonia, un
certo Marco Primo, il quale pare avesse fatta una piccola spedizione
contro gli Odrisii, senza essere stato autorizzato dal Senato.
Vendicare su Primo l’oltraggiata maestà del Senato era
evidentemente cosa di maggior momento, che provvedere
affinchè tra poco il popolino di Roma non morisse di fame!
Implacabile nel perseguitare quelli che gli parevano gli usurpatori
e gli intrusi nelle dignità riserbate a lui, il partito della
nobiltà aveva fatto accusar Primo: ma il piccolo manipolo
democratico, che aveva lasciato sbranare Cornelio Gallo, aveva
questa volta raccolta la sfida. Murena accettava la difesa di Primo;
gli altri, specialmente Faunio Gepione, si accingevano ad adoperarsi
in tutti i modi affinchè Primo fosse assolto228: Roma stava
dunque per vedere un nuovo scandaloso processo; mentre la carestia
silenziosa, insidiosa e invisibile, vuotava a poco a poco i granai
di Roma. Giunsero in quella gli ambasciatori dei Parti; e come
sudditi di un monarca, poco versati nel diritto costituzionale
romano, si rivolsero ad Augusto.
Una ambasciata partica in Roma, in quel momento, avrebbe potuto
legittimamente distogliere l’attenzione pubblica non solo da una
miseria come il processo di Primo, ma anche dalle cose serie, come
la imminente carestia. La questione partica era la più grave
tra le questioni di politica estera, che allora pendevano;
perchè l’Italia non voleva ancora riconoscere di non aver
forze bastevoli a conquistare la Persia. Alessandro l’aveva
conquistata, dunque doveva conquistarla anche Roma – ragionava il
pubblico, con la consueta sveltezza; ma intanto l’impero non aveva
più che ventitrè legioni e pochi denari; e Fraate
chiedeva la consegna non solo del figlio, ma di Tiridate, accolto
profugo dalla repubblica: onde ad accondiscendere si sarebbe non
solo avvilita in Oriente la potenza romana, ma scontentata
profondamente l’Italia, che voleva umiliata la Persia; a rispondere
arrogantemente, si poteva provocare quella guerra, di cui solo gli
inesperti e gli irresponsabili potevano parlare così
leggermente, come se ne parlava in Italia. Ma l’arrivo degli
ambasciatori partici era un evento grave anche per un’altra ragione:
e cioè perchè esso doveva mettere alla prova
definitiva e nella sua parte più essenziale la restaurazione
della costituzione deliberata nel 27. Era questa la più grave
faccenda di politica estera che si fosse presentata a Roma, dopo che
il nuovo ordine di cose era stato stabilito; e non Augusto ma il
Senato doveva risolverla, perchè il Senato solo era
competente a trattare con Stati stranieri. Augusto infatti, che
osservava scrupolosamente la costituzione sopratutto quando voleva
schivare qualche responsabilità grave, aveva rimandati gli
ambasciatori al Senato. Per la prima volta dunque, dopo la
restaurazione della repubblica, anzi da quasi mezzo secolo, il
Senato si ritrovava dinanzi e con piena facoltà di trattarla
a suo modo, come nei tempi più belli della repubblica, una
gravissima faccenda di politica estera; per la prima volta esso
poteva assumer di nuovo l’antica autorità diplomatica, che i
partiti e le cricche gli avevano usurpata negli ultimi quaranta
anni, che era stata nei secoli precedenti, che doveva essere nel
futuro la parte essenziale della sua potenza. Era chiaro infatti
che, non ostante tutte le riforme che si potessero introdurre nella
costituzione, il Senato non sarebbe più l’organo supremo,
quasi il cervello di un impero come quello di Roma, se non avesse
saputo, come in antico, amministrare gli interessi mondiali di Roma
con una saggia politica estera. Fu quindi un momento importante
quello in cui, con l’antico cerimoniale, gli ambasciatori partici
furono introdotti nel Senato. Si vedrebbe in quel momento,
definitivamente, se il Senato avesse ancora tanto vigore da
ripigliare gli uffici antichi, dopo un così lungo intervallo;
o se fosse incurabilmente invecchiato. Ma la prova fu disgraziata.
Il Senato rimandò gli ambasciatori ad Augusto, incaricando
Augusto di trattare e di accordarsi con loro229. Per quali ragioni?
Gli storici non ce le dicono, sebbene non sia difficile argomentare
che quel Senato fatto dalle guerre civili non aveva nè il
coraggio, nè la pratica, nè la voglia di trattare una
faccenda così grave. I Parti lo spaventavano: pensasse dunque
Augusto anche a questo! Augusto intese che facendo viaggiare
dall’uno all’altro gli ambasciatori, questi avrebbero capito che
tutti a Roma avevano paura; e quindi, poichè qualcuno doveva
pur trattare, si acconciò a trattare egli, con molta
abilità, ponendo innanzi la questione dei compensi.
Rifiutò di consegnare Tiridate, si dichiarò pronto a
non aiutarne più i tentativi per riconquistare il trono, e a
conchiudere un trattato di amicizia con Fraate e a restituirgli il
figlio: ma quale compenso era disposto a corrispondere il re dei
Parti? Augusto non tardò ad accorgersi che Fraate, poco saldo
nel dominio, minacciato dalla rivoluzione, stretto da pretendenti,
era anche più di lui desideroso di una pace definitiva; e
destro nell’approfittare delle debolezze dell’avversario come i
diplomatici romani della vecchia scuola, domandò e ottenne in
cambio del figlio e di un trattato di amicizia, la restituzione
delle insegne e dei prigionieri presi nelle ultime guerre, e
l’abbandono dell’Armenia, caduta dopo Azio sotto il protettorato
partico, all’influenza romana230. Il protettorato dell’Armenia,
inutile a Roma, doveva forse, nel pensiero di Augusto, servire come
compenso da offrire all’Italia, invece della conquista persiana. Ben
presto Roma seppe che Augusto aveva conchiuso un accordo
soddisfacente con i Parti, e tutti ne furono contenti; nessuno
dubitando che nel momento in cui commetteva ad Augusto di trattare
la più importante faccenda estera che si fosse presentata
dopo la restaurazione della repubblica, il Senato aveva posta in
Roma la prima pietra dell’edificio della monarchia, che non
sarà terminato che due secoli più tardi. Con quel
senatusconsulto il Senato si dichiarava inetto a dirigere le
relazioni dell’impero con gli stranieri; faceva getto spontaneamente
della sua autorità più importante; trasferiva ad un
uomo e ad una famiglia la direzione della politica estera: dava
opera cioè, molto più efficacemente che Augusto e
contro la sua volontà, a fondare in Roma la monarchia. Il
giorno in cui in Roma non più il Senato, ma una famiglia
sarà capace di trattare la politica estera, Roma
albergherà veramente tra le sue mura una dinastia231.
Ma mentre Augusto pensava ai lontani confini orientali dell’impero,
e aristocratici e popolari si accingevano ad azzuffarsi per Primo,
la Fame piombò nella città non difesa. Sul principio
della carestia il popolo si sfogò con i discorsi,
rammaricando che Augusto non fosse più console, giudicando
che, lui console, il grano non sarebbe mancato232: ma quando la fame
diventò acuta, quando per maggiore sventura il Tevere
straripò, rubando ai poveri plebei, cui già mancava il
pane, il giaciglio, il popolo si levò, fece delle
dimostrazioni, acclamò Augusto dittatore, gli mandò
delle deputazioni a supplicarlo di accettare, di assumersi, come
Pompeo nel 57, la cura dell’annona233 e in pochi giorni
frantumò la ultima e studiata riforma costituzionale. Augusto
rifiutò da prima questa dittatura conferita a furore di
popolo: ma quando il popolo bloccò il Senato che teneva
seduta e minacciò di bruciar Curia e padri coscritti se non
facevano il dittatore234, capì che non si poteva scherzare
con la fame delle masse come con le conquiste e gli accordi
diplomatici; accettò la cura dell’annona, nominò,
scegliendoli tra gli antichi pretori, due præfecti frumenti
dandi235; distribuì del grano236; ne fece cercare
dappertutto; e per pungere con un esempio la pigrizia della
nobiltà, incaricò di scaricare il grano ad Ostia e di
trasportarlo a Roma il suo figliastro Tiberio237. Un Claudio, il
discendente di una delle casate più superbe e più
nobili di Roma, intento a trasportar grano a Roma, quasi come un
secondo Egnazio Rufo! Ma il giovane aveva veramente alcune
qualità della vecchia aristocrazia che di solito si
ritrovavano solo nei libri: la alacrità, la serietà,
l’ambizione di segnalarsi; e quindi compì bene la sua modesta
missione238. Pure il pubblico non si quetò: il malcontento
per la carestia aveva fomentato ancor più il movimento
puritano; smessa l’idea di fare Augusto dittatore, si
cominciò a ventilar la proposta di crearlo censore a vita.
Era evidente che, senza una sorveglianza più rigorosa dei
costumi, lo Stato si dissolverebbe; ma chi poteva esercitar questa
sorveglianza meglio di Augusto? Augusto, che non voleva neanche
questo nuovo e difficile carico, che non aveva però nemmeno
il coraggio di opporsi al desiderio popolare troppo infiammato,
propose al Senato una transazione: si indicessero le elezioni dei
censori. E così fu fatto. Furono eletti due personaggi
cospicui: Lucio Munazio Planco, Paolo Emilio Lepido239. Ma il
pubblico, acceso da un rinnovato fervore di fede nel mito di
Augusto, non fu contento: continuò a domandar che Augusto
avesse o la dittatura o la censura, una forma insomma di
autorità rapida e forte; e con così viva istanza, che
Augusto dovette alla fine appigliarsi all’espediente di una
transazione. Non volle nè il nome nè l’autorità
vera di dittatore o di censore: accettò, certo con
l’intenzione di servirsene soltanto per provvedere all’annona, che
il Senato gli accordasse la facoltà di emanare editti validi,
come fosse console, ogni volta che egli giudicasse ciò
opportuno per il pubblico bene: allargasse cioè quel potere
discrezionale di sorveglianza sulle provincie, datogli pochi mesi
prima, sino a comprendervi Roma e l’Italia240. Gli fu insomma
conferita una mezza dittatura.
Finì così, tra queste ansietà, il tempestoso
anno 23. Ma nessuno, nemmeno Augusto, aveva capito che cosa era
davvero avvenuto in quell’anno, e sopratutto l’ultima violenta
oscillazione con cui la Fame del popolo aveva spinto di nuovo lo
Stato verso la dittatura, mentre verso la metà dell’anno la
malattia di Augusto aveva sembrato inclinarlo di nuovo verso le
schiette forme repubblicane. Quella potestà generica di
emanare editti, votata in fretta e furia dal Senato, tra le urla
della plebe affamata, sarà il piccolo seme da cui
crescerà il dispotismo monarchico: pianticella modesta prima,
poi rigoglioso arbusto, poi robusta pianta; infine albero gigantesco
che coprirà con i suoi rami l’impero. Ma i contemporanei non
ebbero di ciò, come è naturale, alcun sentore, e
attesero ai guai presenti, che non erano nè pochi nè
piccoli. Sul principio del 22 una grave sventura piombò sulla
casa di Augusto. Ammalatosi Marcello del morbo che l’anno prima
aveva ridotto Augusto in fin di vita, invano Antonio Musa
riprovò la cura dei bagni freddi: Marcello, il solo maschio
della discendenza di Cesare, morì241. Intanto i provvedimenti
del Curatore della annona e i nuovi raccolti alleviavano la
carestia; il popolo si tranquillava; Augusto restava impacciato e
gravato dalla sua mezza dittatura, di cui non sapeva quale uso fare
e di cui non voleva fare uso alcuno; e la tanto aspettata, invocata,
sospirata censura di Munazio e di Paolo in poco tempo disilludeva
anche i più fiduciosi. I due censori avevano subito preso a
litigare; poco dopo Paolo era morto; il superstite, Munazio, era un
uomo troppo vizioso, e non poteva quindi correggere i costumi
altrui: onde nessuno fece nulla242. Per palliare al pubblico
alquanto la sua delusione, Augusto dovè cercare di supplire
alla manchevolezza scandalosa dei due censori, adoperando la sua
potestà semi-dittatoria243; e vietò ai cavalieri e ai
figli dei senatori di salire le scene, per contrastare alla
diffusione di questo morboso capriccio tra le alte classi;
proibì certi banchetti pubblici e agli altri impose una
maggiore frugalità; raffrenò le rovinose gare dei
magistrati nel dare i giuochi, assegnando la cura di questi ai
pretori, disponendo che ciascuno avesse un sussidio dal tesoro,
imponendo a tutti di spendere egualmente; limitò il numero
dei gladiatori. Si studiò anche di provvedere alla estinzione
degli incendi, comprendendo che non si poteva obbligare il popolo a
lasciar bruciare le proprie case, perchè l’aristocrazia aveva
in uggia Egnazio Rufo: e imitò Rufo, che egli aveva
perciò biasimato, incaricando gli edili curuli di spegnere
gli incendi, dando loro seicento schiavi, un personale cioè
più numeroso di quello che possedevano244. Frattanto
democratici e aristocratici ripigliavano ad azzuffarsi per il
processo di Primo; e riuscivano a tirare nella contesa anche
Augusto, il quale avrebbe voluto restare spettatore imparziale. Non
potendo negare che aveva impresa la sua spedizione senza
l’autorizzizione del Senato, Primo diceva, per difendersi, ora che
Augusto, e cioè il generalissimo, ora che Marcello, il quale
era morto, gli avevano dato l’ordine245. La scusa era inventata,
tanto è vero che Primo non osava citare Augusto al
processo246: ma egli sperava che Augusto non lo smentirebbe. E
difatti gli accusatori di Primo speravano così poco nella
compiacenza di Augusto, che neppur essi osavano citarlo:
cosicchè il processo pareva dipendere da un testimonio, che
accusatori e difensori incontravano ogni dì sul foro e che
nessuno voleva interrogare! Quando, all’improvviso, il dì del
processo, Augusto comparve spontaneamente e depose, non ostante le
invettive dei difensori, di non aver dato alcun ordine al
governatore della Macedonia247. Augusto aggiungeva la condanna di
Primo al seguito di compensi, con cui cercava di far dimenticare
alla nobiltà le proscrizioni, Filippi, le confische, lo
sterminio della famiglia di Pompeo, la decennale tirannide del
triunvirato! E la nobiltà fu così lieta
dell’intervento di Augusto, che subito gli fece assegnare dal Senato
la facoltà di convocare a piacimento il Senato come se fosse
console248. Il partito democratico si irritò; e....
Quel che accadde allora è poco chiaro. Pare che Augusto fosse
avvertito da un certo Castricio249 di stare all’erta, perchè
Murena, Fannio Cepione ed altri capi del partito democratico –
Egnazio Rufo escluso, però250 – sdegnati per la deposizione,
che era un tradimento del suo antico partito, tramavano una congiura
per ammazzarlo, come Cesare. La congiura era seria? O si riduceva a
qualche sconsiderato proposito, espresso subito dopo il processo di
Primo, nel bollore dell’ira?251 Impossibile dirlo. Certo è
che Augusto, apertosi con Mecenate, inclinava da prima a spegnere la
cosa con il silenzio. Ma la cosa si riseppe, sembra per colpa di
Mecenate e di sua moglie, che era sorella di Murena252; e una nuova,
più atroce mischia di odî, di persecuzioni, di
calunnie, di vendette infuriò. Augusto, per la potestà
tribunizia, era sacrosanto: una congiura contro di lui era quindi un
gravissimo sfregio alla divinità. Il pubblico che ammirava
Augusto e che ridiventava bigotto, si infuriò anche
più del solito, smarrì il lume o meglio il barlume
della ragione, e senza distinguere troppo per il sottile il torto e
la ragione di ciascuno, domandò solo condanne: accusare un
congiurato fu cosa popolarissima, rimeritata dalla lode pubblica e
facilissima, perchè un vago indizio, una testimonianza falsa,
un nonnulla bastavano a convincere un tranquillo cittadino di
assassinio. E pronto, il partito della nobiltà ne
approfittò per sterminare gli ultimi avanzi del partito
popolare; quanti sentivano ambizione e inclinazione alle nuove idee
conservatrici e arcaicizzanti si scelsero un avversario, accusarono
qualcuno; la congiura contro Augusto diventò pretesto a una
selvaggia persecuzione, intesa a sfogare gli ultimi rancori delle
guerre civili su poche vittime quasi innocenti. Alcune persone serie
e coraggiose, osarono resistere alla follìa universale, o
protestando contro le accuse non provate, o rifiutandosi di
condannare nei giurì, o mostrando simpatia per i
condannati253; ma i più incrudelirono, anzi parecchi giovani
fecero con queste accuse la loro prima e solenne adesione al nuovo
partito della nobiltà, che voleva distruggere la tradizione
democratica, come il più funesto flagello del romanesimo e
restaurare, nella misura del possibile, l’antica politica
aristocratica e conservatrice. Tra costoro Tiberio, che
accusò Cepione254.
Augusto non aizzò la persecuzione e non fece nulla per
contenerla: ma fu così spaventato da quel furore popolare e
dalla facilità delle condanne con cui si sfogò, che
propose una legge secondo la quale l’unanimità dei suffragi
sarebbe necessaria per una condanna255. Poi si affrettò a
partire. A Roma c’era per lui un pericolo più continuo che le
insidie delle congiure: l’ammirazione popolare che non gli dava
tregua; che lo aveva eletto console, non ostante le sue proteste,
per il 21; che lo obbligava ad adoperare i poteri della sua mezza
dittatura! Un’altra volta, sollecitato dagli uomini e più
dalla necessità, egli aveva dovuto, in una cosa piccola e
urgente, acconsentire a farne uso. In ogni parte d’Italia si
lamentava la misteriosa scomparsa di persone, che si diceva fossero
state rapite da proprietari poco scrupolosi e chiusi negli ergastoli
durante l’anarchia dei precedenti decenni; si bucinava che negli
anni in cui le fazioni avevano reclutate tante legioni, molti
possidenti avessero aperto i loro ergastoli ai giovani che volevano
sfuggire ai reclutatori, offrendosi di farli passare per schiavi
propri; ma che poi li avevano trattenuti per davvero....
Considerando che i magistrati ordinari non avrebbero saputo far
nulla, Augusto, che già aveva lodato Tiberio per la missione
annonaria, lo incaricò di frugare negli ergastoli, di
interrogare gli schiavi, di rompere le catene dei liberi chiusivi a
forza256. Poi finalmente, dopo aver rinunziato al consolato e
restituita al Senato la Gallia Narbonese e Cipro, nella seconda
metà del 22, partì da Roma, fuggendo quasi la sua
stessa dittatura; e se ne andò in Sicilia, prima tappa del
suo viaggio, per compire la deduzione già incominciata di
alcune colonie dei suoi veterani di Azio in diverse città
della costa, di cui è incerto il numero e il nome257. Ma la
dittatura tentò ancora una volta di inseguire il fuggente.
Tra le cure di queste deduzioni Augusto fu raggiunto da una
deputazione di cittadini eminenti, venuti da Roma a supplicarlo di
ritornare. Dovendosi eleggere il console che occupasse il posto
lasciato vuoto da lui, ed essendosi presentati due candidati, Quinto
Lepido e Marco Silano, erano scoppiati nuovamente dei grandi
disordini, che nessuna autorità poteva reprimere e per i
quali non si era potuta far l’elezione. Augusto, sempre Augusto, per
ogni contingenza e in tutte le vesti: mercante di grano, banchiere
dello Stato, conquistatore, riparatore di vie, capo di polizia!
Sopraggiunsero i due candidati, venuti dopo la commissione a
perorare la loro causa. Ma Augusto non ritornò; sgridò
solo i due candidati, ingiungendo loro di non ritornare a Roma se
non dopochè l’elezione fosse compiuta. Invano: i tumulti
ricominciarono quando si ritentò di far l’elezione;
cosicchè al 1.° gennaio del 21 non si era ancora potuto
eleggere l’altro console. Augusto capì che doveva prendere
qualche provvedimento; e si risolvè a fare un’altra volta uso
dei poteri discrezionali e in misura maggiore, per impedire che quei
guai si rinnovassero; mandando a Roma, quasi come governatore,
Agrippa. La morte di Marcello aveva come è naturale,
riavvicinati i due antichi amici: i casi di Roma persuasero Augusto
a fare una piena riconciliazione; dandogli in sposa Giulia, la
vedova di Marcello, e affidandogli, in virtù dei suoi poteri
discrezionali, il governo di Roma, che Messala Corvino aveva
rifiutato nel 26 dopo sei giorni. Facendolo suo genero, egli
solleciterebbe lo zelo di Agrippa; e accrescerebbe l’autorità
sua presso il popolo258. Poi, nella primavera del 21, egli
veleggiò verso la Grecia traendosi finalmente fuori dalle
faccende italiche. Non ostante i suoi sforzi per rianimare la
vecchia costituzione; non ostante il rinascimento dello spirito
aristocratico e il rinnovato culto della tradizione repubblicana,
Augusto aveva dovuto assumere e in parte esercitare a più
riprese la autorità di un mezzo dittatore; e non trovava
altro rimedio, per non diventare dittatore intero, che di fuggire
lontano.
Il disegno del suo viaggio in Oriente si era frattanto ingrandito.
Sia che, come farebbe credere un passo di Dione, il re dei Parti,
riavuto il figlio, tardasse troppo a mantenere gli impegni assunti;
sia che Augusto temesse una vigorosa resistenza del re di Armenia;
sia che egli volesse soltanto inscenare il suo studiato accordo
diplomatico nel grande teatro dell’Oriente, sopra uno sfondo di
legioni, di battaglie, di episodi guerreschi, per farlo apparire
come uno di quei clamorosi drammi cesariani tanto ammirati dal
popolo, Augusto aveva deliberato di invadere l’Armenia con un
esercito. Egli sapeva quanto fosse facile spezzare queste fragili
monarchie dell’Oriente: se, quando un esercito romano fosse entrato
in Armenia, il re dei Parti gli mandasse le insegne e i prigionieri,
sarebbe facile far credere all’Italia che, invadendo l’Armenia,
Augusto aveva costretto il riluttante re dei Parti a implorare
l’amicizia di Roma.
V.
L’ORIENTE.
Quando nel 146 a. C. Roma la aveva dichiarata provincia, la Grecia
da un pezzo scivolava lungo la china di una universale decadenza. A
poco a poco, smembrati gli imperii territoriali e marittimi,
rovesciata la supremazia commerciale, consumati i capitali,
impoverite e distrutte le industrie, isterilite le arti e gli
studii, tutte le sorgenti dell’antica ricchezza si erano inaridite.
Nella Laconia si erano spente le fucine che fabbricavano tante spade
lancie ed elmi, tanti trapani lime e martelli259; si erano chiuse ad
Argo le fonderie di bronzo in antico così operose e
famose260, a Sicione le botteghe dei suoi artisti, così
celebri un tempo261; Egina aveva a poco a poco lasciata deperire la
flotta mercantile, chiuse le celebri fonderie di bronzo, le
fabbriche di quelle minute merci eginetiche, – chincaglierie,
diremmo ora, – che erano passate in proverbio262; tutta la
meravigliosa fortuna di Atene era stata sepolta sotto le rovine del
suo impero marittimo. Il suo commercio era morto, quando, perduto
l’imperio dei mari, Atene non aveva più potuto aiutarlo con
prepotenze e privilegi; era cessato il profusissimo spendere della
repubblica in navi, in armi, in opere pubbliche, in beneficenze
politiche, quando erano venuti meno i tributi degli alleati; con
l’impero era minato quel sistema di cleruchie e di possessi
territoriali, per cui tanti Ateniesi potevano consumare ad Atene i
frutti di campi, di boschi, di miniere posti in ogni parte. Quindi
una universale rovina: fallita l’industria navale dei cantieri del
Pireo, come quella delle armi; passata la voga di quei vasi attici,
rossi e neri, di cui Atene aveva per secoli adornate le case dei
ricchi in tutte le regioni del Mediterraneo; esauste perfino le
miniere d’argento del Laurio, prima sorgente della ricchezza
ateniese; impoveriti e diradati tutti i mestieri e tutte le arti,
che avevano lavorato per i bisogni e per il lusso di Atene, quando
l’opulenta città, metropoli di un vasto impero ed emporio di
un immenso commercio, decadde a capitale spopolata di una piccola
regione di 40 miglia quadrate, che non poteva esportar più se
non poco olio, poco miele, poco marmo e certi famosi profumi: ultimo
avanzo del vasto “imperio degli affari” di cui aveva tenuto un tempo
lo scettro263. Sola Corinto prosperò in mezzo alla universale
decadenza per commerci ed industrie. Intanto la decadenza delle
grandi città industriose e mercantili impoveriva per
ripercussione tutta la Grecia, le campagne come le città
secondarie; in quelle scemando i lucri di molte coltivazioni, in
queste il lavoro e il guadagno alle arti e ai mesteri: e nello
stesso tempo dappertutto, nelle campagne più remote come
nelle piccole e grandi repubbliche, a mano a mano che la nazione
impoveriva, la spinta dei rurali verso la città,
l’inclinazione ai lussi, ai vizi, ai piaceri, alle arti del vivere
cittadinesco, la fretta dei subiti guadagni, la passione per i
giuochi, lo spirito di intrigo, di rivalità, di sopraffazione
nei partiti e nelle città; tutti insomma i vizi, le
ambizioni, le aspirazioni nate dalla grandezza e dall’opulenza,
invece di cadere e morire, crescevano con forza novella. Onde un
terribile universale travaglio, che aveva desolata la Grecia sino
alla conquista romana. Pur di conservare alle città uno
splendore artificiale, pur di rimunerare artisti e artigiani di
opere di lusso, pur di mantenere le scuole degli atleti, i grandi
giuochi e le tradizioni intellettuali, pur di soddisfare le smodate
ambizioni, le cupidigie e i tenaci rancori delle innumeri oligarchie
politiche che si annidavano in tante città grandi e piccole,
pur di godere e scialare, la Grecia aveva dilapidate
spensieratamente tutte le ricchezze accumulate dagli avi, impegnato
e compromesso in ogni cosa l’avvenire. I partiti e le città
avevano cercata in guerre e rivoluzioni, in rapine e violenze, una
parodia della antica gloria e della antica potenza; queste guerre,
queste rivoluzioni, le orgie, i piaceri, le folli dilapidazioni
dello sfarzo privato e del pubblico, avevano impoverite ancora
più tutte le regioni; il celibato e i debiti – i due flagelli
più terribili del mondo antico che sofferse sempre, anche in
tempi prosperi, scarsezza di capitale e rarità di popolazione
– avevano desolate fin le campagne. A poco a poco le grandi
proprietà a schiavi o addirittura il deserto sterile avevano
spopolate le regioni un tempo più popolose, mentre nelle
città, non ostante tanti disperati sforzi, le arti
languivano, i costumi si corrompevano, le istituzioni decadevano, la
miseria e lo spreco, indivisibile coppia, entravano nel palazzo del
signore, nella casa del mercante, nell’abituro del villano....
Su questa lubrica china scivolava la Grecia quando Roma le pose la
mano sul collo. Ma non per sostenerla a mezzo della caduta: che anzi
rincalzò più precipitosamente verso il fondo
dell’abisso. Chi vuol capire davvero che cosa sia stato l’impero
romano, deve sgombrare la mente da uno degli errori più
inveterati e diffusi: che cioè Roma abbia amministrate le sue
Provincie con larghe vedute di generale vantaggio, secondo certi
savi e benefici principî che mirassero sopratutto al bene dei
dominati. Nè Roma, nè alcun altro impero resse mai a
questo modo le nazioni soggette; perchè la dominazione non fu
mai vantaggiosa ai dominati se non per accidente; e sempre invece i
dominatori cercarono di ricavarne il maggior vantaggio con il minore
pericolo e sforzo. Roma infatti aveva lasciate in Grecia, come in
tutti gli Stati soggetti, le cose seguire l’inclinazione loro
naturale, buona o cattiva, sinchè non ne nascesse pericolo o
nocumento per lei. Distruggendo Corinto, l’ultima sua città
industriosa e l’ultimo emporio mercantile l’aveva ridotta a vivere
sulle scarse risorse del suo territorio e ad aiutarsi con le
miserabili ciurmerie dei popoli falliti, con le antichità, i
monumenti, i forestieri, le miracolose guarigioni di Epidauro; e
l’aveva poi sminuzzata in un infinito numero di staterelli, i
più comprendenti il solo territorio di una città, tra
i quali Sparta, Atene poche altre città soltanto avevano
conservata l’indipendenza e un territorio un poco più vasto –
la prima una parte della Laconia, la seconda tutta l’Attica con
qualche isola. Legate a Roma da un trattato di alleanza, queste
città avevano continuato a reggersi con le antiche
istituzioni e con le antiche leggi, senza pagare tributo alcuno,
senza essere sottoposte alla autorità del governatore. Il
rimanente territorio era stato invece incorporato con la Macedonia,
e diviso tra un grandissimo numero di città, che pagavano
tributo e si reggevano indipendenti, ciascuna con le proprie leggi e
istituzioni, sotto la vigilanza però del governatore e del
Senato romano; i quali le lasciavano logorarsi a poco a poco nei
vizi inveterati e profondi, purchè puntualmente pagassero
ogni anno la contribuzione e non turbassero, con guerre e con
rivoluzioni, la pax romana. La quale però non aveva nè
rigenerata e nemmeno riposata la stanca nazione; sia perchè
l’ordine, quando non è l’effetto di un naturale equilibrio
interiore, ma di forze estrinseche, può paragonarsi al sopore
infuso dal narcotico nelle vene dell’infermo, che annulla per un
istante il dolore ma aggrava il morbo; sia perchè quel poco
che aveva risparmiato la pace, era stato depredato da Roma. La
grande guerra di Mitridate prima, le guerre civili degli ultimi
trenta anni poi, le taglie, le ruberie delle milizie, le imposizioni
delle fazioni, aggiunte alle contribuzioni ordinarie e alle usure
dei pubblicani, avevano mortalmente estenuata la Grecia, aggravata
ancor più di debiti la grande proprietà già
così oberata, scoraggiata dalla tenace assiduità, che
ne è la vita, la piccola possidenza, diradata la popolazione,
indeboliti i governi già tanto guasti, dispersi gli ultimi
capitali. Perfino il tesoro del tempio di Delfi era vuoto. La
nazione che un tempo era stata la bellissima madre dell’Ellenismo,
mendicava ora nel mondo fra le ancelle di Roma, decrepita, sordida,
in cenci, coperta di piaghe.
Se fosse cosa umana e possibile la inversione morale sognata da
tanti, i quali vogliono abbellire il mondo secondo la propria
inclinazione; se l’imperio su altrui, tanto agognato dagli uomini,
potesse snaturarsi in sacrificio del dominatore a pro’ del vinto.
Augusto avrebbe potuto tentare la più mirabile impresa della
storia di Roma: ringiovanire la Grecia! Ma Augusto, il quale pur
amando i versi di Virgilio, non attingeva in quelli la saggezza
politica, sapeva che Roma era una potenza mediocre a paragone del
nome, e che l’impero poggiava in parte sopra una immensa illusione
dei popoli soggetti, che divisi, ignari, scoraggiti, si immaginavano
Roma molto più forte che non fosse in verità; non
dimenticava mai che nel maggior numero delle provincie Roma non
poteva mantenere guarnigioni; che in tutte stentava a mandare ogni
anno un governatore e qualche diecina di ufficiali svogliati ed
ignari; che in nessuna aveva ancora potuto introdurre, come in tempi
più antichi essa aveva fatto in Italia, o un suo corpo di
leggi, o la sua religione, o nuove istituzioni amministrative e
qualche principio morale suo che la avvincesse alla metropoli,
restringendosi dovunque a governare i popoli soggetti con le antiche
loro istituzioni nazionali. Egli sapeva quindi di non poter far
quasi nulla per la Grecia; e di aver minore forza qui che altrove di
applicare il gran verso di Virgilio: pacis... imponere morem.
Nell’ordine materiale la povertà era il maggior male della
Grecia ed aveva cagioni molteplici: i debiti, i latifondi
infruttiferi, la rarità della popolazione, la scarsezza del
capitale, la decadenza delle industrie. Ma Roma aveva fatto quanto
poteva per lenir questi mali, dando mano a ricostruire Corinto; la
quale infatti risorgeva rapidamente, perchè i coloni avevano
scoperta tra le rovine lasciate da Mummio una miniera di
antichità, che si vendevano a caro prezzo, specialmente a
Roma, e potevano quindi riedificare la nuova città con le
spoglie e le ceneri dell’antica264. Tuttavia, nell’ordine materiale
la Grecia avrebbe potuto aiutarsi da sè, chè ogni
risorsa non le mancava, come dimostrava l’Elide, i cui possidenti
prendevano a coltivare le piante tessili, la canapa, il lino, il
cotone; come dimostrava Patrasso, ove molte donne si stabilivano per
tessere queste materie, e specialmente il bisso, che era eccellente
e incominciava a esportarsi265. Cresceva inoltre, in molte parti
della Grecia, l’albero di Atena, il mite ulivo: che era
nell’antichità un albero dai frutti d’oro, perchè
l’olio serviva agli usi più diversi: come condimento, per
illuminare, quale farmaco, a guisa di sapone e di unguento,
specialmente nei ginnasi, nei bagni, nelle scuole di atleti. Pur
troppo però la povertà era effetto di molti vizi
morali, pubblici e privati; come il lusso, la frivolezza, la
depravazione dei costumi, la corrotta giustizia, la vanagloria e
l’indifferenza civica, la litigiosità feroce, la universale
mancanza di fede la prepotenza dei pochi ricchi, la viltà dei
molti poveri. Infrenare qualche abuso troppo grande, di tempo in
tempo, Roma poteva per mezzo dei pochi suoi rappresentanti inviati
ogni anno a governare; ma non correggere tanti vizi, inveterati e
profondi appunto nelle istituzioni nazionali che il governatore
romano era costretto ad adoperare, nelle tradizioni che doveva
rispettare, negli interessi che non poteva ledere, e negli spiriti
che gli era pericoloso di offendere.
D’altra parte il soggiorno in Grecia era per Augusto la breve tappa
d’un viaggio, di cui più lontano era il termine e ben altro
lo scopo. Si stava preparando, probabilmente in Macedonia,
l’esercito che nell’estate e nell’autunno egli condurrebbe
attraverso la Tracia in Asia, per invader nella prossima primavera
l’Armenia, insieme con un esercito portato da Archelao, re di
Cappadocia. Augusto perciò non veniva, con piccolo seguito e
modesto apparato, nella desolata provincia a rubare gli ultimi cenci
della infelice mendicante, che sulle vie del mondo simboleggiava la
caducità delle umane grandezze; ma non veniva neppure a
rifarle la casa, applicando la poetica politica di Cicerone e di
Virgilio. Veniva piuttosto a riadattare ai tempi nuovi la vecchia
politica greca di Tito Quinzio Flaminino e del partito
aristocratico: dissimulare cioè l’impotenza di Roma in un
premuroso rispetto della libertà greca; lasciar la Grecia
vivere alla sua guisa e quindi consumarsi nei suoi vizi se non aveva
la forza di emendarsi da sè, per modo che essa stessa delle
sue sofferenze accusasse sè, piuttosto che Roma. Durante
questo soggiorno o attuò o ideò parecchie riforme che
furono attuate più tardi, per addolcire la politica di
frantumazione seguita nell’ultimo secolo, per ridare alla Grecia
qualche avanzo della sua libertà antica e molte illusioni di
libertà266. Separò la Grecia dalla Macedonia, ne fece
una provincia a parte comprendente la Tessaglia, l’Epiro, le Isole
Ioniche, l’Eubea e un certo numero delle isole del mare Egeo con il
nome di Acaia e il cui governatore risiederebbe nella risorta
Corinto267; riordinò l’antico consiglio degli Anfizioni che
si radunava ogni anno a Delfi, e le cui tornate erano state
così solenni un tempo; si studiò di organizzare una
dieta a cui tutte le città della nuova provincia di Acaia
manderebbero un rappresentante e che si radunerebbe ogni anno268;
diede la libertà a parecchie città, tra le altre alla
lega delle città laconiche, che occupava la metà
meridionale della Laconia269. Ritoccò anche il territorio di
Atene e di Sparta; ad Atene proibì di vendere, come faceva,
il titolo di cittadino, perchè la dissestata città
aveva troppo abusato di questo losco espediente270. Non sembra che
riordinasse o accrescesse i tributi, perchè la provincia era
troppo povera; pare invece che si studiasse di trarre partito dai
beni che la repubblica aveva in Grecia. Diede infatti a una grande
famiglia della Laconia, a quell’Euricle che aveva combattuto con lui
ad Azio, l’isola di Citera, che era diventata tutta proprietà
dello Stato, certo contro il pagamento di un vectigal271. Poi
nell’autunno del 21, mentre l’esercito per il Bosforo entrava in
Bitinia, egli si recò a Samo dove intendeva passar l’inverno
a preparare la spedizione d’Armenia e a sorvegliare le cose
dell’Asia Minore.
Durante questi mesi Agrippa aveva sposata Giulia, e Roma si era
tranquillata da sè, dopo gli ultimi torbidi272. Ma quetati
appena i tumulti della via, un’altra guerra si era accesa nella
metropoli: una guerra di attori e di scrittori, che aveva per campo
di battaglia i teatri di Roma. L’aristocrazia un po’ posticcia che
intorno ad Augusto, per dissimulare le sue origini recenti,
ostentava tanta ammirazione per il buon tempo antico, si studiava di
rimettere in voga anche il teatro di Ennio, di Nevio, di Accio, di
Pacuvio, di Cecilio, di Plauto, di Terenzio e quindi il teatro
greco, che gli scrittori romani avevano imitato273. Tra i doveri
civici c’era ormai anche quello di correre e pigiarsi alle
rappresentazioni delle opere classiche, di applaudirle
fragorosamente, di gridare ai contemporanei in ogni occasione che
non si scriverebbe mai nulla di più bello, di reclamare un
teatro nazionale, il quale fosse veicolo di idee morali e
patriottiche nel popolo. Tutti i buoni cittadini dovevano
collaborare alla nobile impresa. Perfino Orazio era sollecitato a
calzare il coturno! Ma Orazio era un cittadino mediocre: come a
Filippi aveva gettato lo scudo, ora si schermiva, si sgomentava
all’idea di affrontare sulle scene i sibili del pubblico di Roma274.
Peggio ancora, trovava a ridire su quei vecchi autori tanto
ammirati: che i versi zoppicavano, che la lingua era grossolana ed
impura275. Per fortuna abbondavano a Roma i cittadini, animati da
ben altro sentimento civico, i quali per la repubblica erano pronti
a tutto; anche a scrivere tragedie. Ne scriveva non poche Asinio
Pollione. Ne aveva scritta una intitolata Aiace (o almeno l’aveva
abbozzata) persino Augusto276, il quale però di solito
preferiva incoraggiare con i denari gli altri a scrivere e aveva
data una grossissima somma a Lucio Vario Rufo, per il suo Tieste,
che tutti giudicavano un capolavoro277. Ne scrivevano molte quei
letterati del medio ceto che si studiavano di ingraziarsi con la
penna i potenti: come Gaio Fundanio, le cui commedie non spiacevano
a Orazio278; e molti altri forse, il cui nome si è perduto.
Ma ecco a un tratto, quando tanti romani sudavano sulle dotte carte
a ridare ad Aiace, ad Achille, a Tieste l’antica voce stentorea in
nobili giambi, arrivare a Roma dall’Oriente certi Pilade di Cilicia
e Batillo di Alessandria, che in questo anno avevano preso a
rappresentare un genere di spettacoli ancora ignoto ai Romani: le
pantomime279. Voci invisibili, accompagnate da musiche soavi,
cantavano una favola; un attore, il mimo, coperto il volto di una
maschera leggiadra, vestito in bella veste di seta così da
raffigurare il personaggio principale del racconto, si presentava a
mimare con gesti cadenzati la scena raccontata dalle invisibili
voci: quando la scena era finita, l’attore scompariva e mentre un
soave intermezzo musicale intratteneva gli spettatori, mutava veste,
di uomo si faceva donna, di giovane vecchio, di uomo Dio e
ricompariva a gesticolare un’altra parte del racconto. Di solito i
mimi scieglievano i soggetti nelle innumerevoli avventure degli
dèi ellenici, nei poemi omerici e ciclici, negli antichi miti
greci divulgati dalla tragedia; prediligendo naturalmente gli
episodi sensuali e le catastrofi terribili, come le furie di Aiace;
facevano comporre talora i versi da poeti di merito; ma miravano
sopratutto, subordinando a questo scopo poema e musica, a
solleticare o a scuotere i nervi degli spettatori con tante scene
diverse – tragiche o comiche, sensuali o caste, dolci o terribili –
il cui legame era tenue. Cosicchè non era necessario alcuno
sforzo della mente per capire e godere: bastava guardare e
ascoltare, aprire il canale dei sensi, fissare di minuto in minuto
il particolare fuggente, anche dimenticandolo subito. Chi pensi che
una opera d’arte è tanto più perfetta quanto
più rassomiglia ad un corpo vivo, dal quale nessun membro
può essere avulso, e quanto maggior copia di verità
universali esprima in tipi e in persone umane, non esiterà a
giudicar queste pantomime come una degenerazione della vera
tragedia. Al pubblico di Roma invece esse piacquero in un modo
sì grande, che Pilade diventò in breve tempo l’idolo
del favore popolare. Alle gioie intellettuali, elette ma laboriose,
delle grandi opere classiche il pubblico preferiva il facile piacere
sensuale delle pantomime, e in questo mostrava la frivolezza di
gente corrotta; ma non aveva forse torto di preferire i mimi, vivi,
agili, coloriti, alle noiose tragedie contemporanee, faticosamente
imitate dai grandi modelli, e in cui della gravità e della
poesia in queste contemperate era rimasta soltanto la
gravità; il peso cioè e la noia.
Ma gli autori di tragedie noiose, gli attori nazionali, le persone
serie e rispettabili alzavano le braccia al cielo, scuotevano il
capo, protestavano. Oh tempi! Un Pilade di Cilicia, un Battilo di
Alessandria, scacciavano dai teatri di Roma Accio e Pacuvio! E
veramente questa rivoluzioncella teatrale non era cosa sì
frivola come molti hanno giudicato, perchè dimostrava come
nel teatro, non meno che nel costume e nello Stato, i fatti andavano
in contraria parte dalle intenzioni degli uomini. Tradizione,
affermavano gli uomini; orientalismo, rispondevano ostinate le cose.
E la discordia si inaspriva. Ma Augusto, sebbene pensasse la materia
degli spettacoli pubblici esser degna di attenzione per un reggitore
di Stato, non poteva badare in quel tempo agli attori di Roma e alle
loro baruffe, perchè era intento allora a dar di sè ai
popoli dell’Asia Minore e sopra una più vasta scena ben altro
spettacolo che i mimi di Pilade e di Batillo: ad ascendere nel cielo
in carne ed ossa, proprio come un attore portato in aria da una
macchina ingegnosa in un finale spettacoloso. Non l’ambizione sua
l’aveva spinto, ma l’ammirazione dell’Asia lo costringeva a salire
sopra un vecchio e sdrucito congegno, che già aveva portati
nelle nuvole i re d’Egitto; e a intraprendere l’aereo viaggio, che
pur non era scevro di qualche pericolo. L’avventura era singolare.
Il 25 Novembre, così pare almeno, egli era sbarcato a
Samo280, alle porte delle antiche monarchie di Pergamo e di Bitinta,
delle due provincie cioè di Asia e di Bitinia che dopo Azio
gli avevan domandato di innalzare a lui, come agli antichi re, due
templi, nelle due antiche metropoli, Pergamo e Nicomedia; e se non
aveva trovato ancora i due templi già finiti281, aveva
trovato invece il culto suo in via di diffondersi singolarmente in
tutta l’Asia greca. A edificare il tempio di Pergamo, a organizzare
intorno al tempio il culto di Augusto sul modello del culto di Zeus
non attendeva più sola Pergamo, ma tutta l’Asia, il κοινόν
Ασίας, la dieta delle città asiatiche, che da qualche tempo
già sotto Antonio si radunava, affinchè non esprimesse
più solo la devozione di una sola città, ma la
devozione dell’Asia intera282. E tutta l’Asia infatti si votava con
fervore al nuovo culto e al nuovo Dio; in molte città si
parlava di istituire ogni anno solenni giuochi di Roma e di Augusto;
altre città, come Milasa283, come Nisa284, come Mitilene285,
si accingevano a erigere are e templi al princeps della repubblica
romana, o ad associarlo, come Alabanda. con qualche divinità
della città. Mitilene in una iscrizione riconosce che in
nessun modo “quello che è basso per sorte e per natura possa
eguagliarsi agli esseri che hanno il lustro divino e la
superiorità dei Numi”; sembra rammaricare che anche la
divinizzazione non basti; solennemente promette che non
trascurerà alcun mezzo di fare Augusto ancor più
divino, se quel mezzo si troverà286. Un’altra iscrizione, pur
troppo mutilata, contiene il decreto che ordina il culto di Augusto
non sappiamo in quale città e dispone che tavole portanti
inciso il decreto siano affisse non solo nel tempio di Pergamo, ma
in molte città dell’impero. Si è potuto decifrare il
nome di parecchie: Azio, Brindisi, Tarragona, Marsiglia, Antiochia
di Siria287. Non bastava alle città dell’Asia l’adorare il
presidente della repubblica latina; esse volevano anche divulgare ai
quattro venti la devozione loro, quasi per incitare gli altri popoli
a santificare nello stesso modo le proprie catene, convertendo la
servitù in religione.
Insomma lo scettico politicante della decadente repubblica, il
nipote dell’usuraio di Velletri era assunto a collega di Zeus, di
Ares, di Hera nell’Asia Minore, proprio in quell’Eldorado pieno di
pericoli, in cui Roma aveva trovato tesori e catastrofi di
incomparabile grandezza, e che, acquistato senza colpo ferire, essa
non aveva conservato se non versando fiumi di sangue. Per quanto sia
verisimile che in quell’inverno Augusto stesse sopratutto in
pensiero per le faccende partiche e per la spedizione di Armenia che
doveva essere compiuta a primavera, non è possibile che non
abbia anche cercato di indagare che cosa i popoli dell’Oriente gli
domandavano in cambio del culto e dei templi. Questo culto era una
novità singolare. Anche ai tempi della monarchia l’adorazione
dei re viventi sembra essersi praticata soltanto in Egitto, mentre
l’Asia Minore aspettava a collocare i suoi sovrani tra gli
dèi dopo che fossero morti. Perchè ad un tratto questa
pianta egiziana, a cui il suolo dell’Asia era sempre stato sterile,
ci metteva così rapidamente radice? Perchè il culto
dei sovrani viventi, suprema esagerazione della sudditanza
monarchica, germogliava rapidamente trai Greci dell’Asia Minore,
quando in Italia si tentava di restaurare le istituzioni
repubblicane, abbarbicandosi come una edera intorno alla persona del
primo magistrato della nuova repubblica? Sbarcando in Asia Minore,
Augusto aveva posto il piede in una delle tre maggiori regioni
industriali del mondo amico, che erano appunto l’Asia Minore, la
Siria e l’Egitto. Sulle coste dell’Asia Minore, frastagliate,
rientranti in insenature e sporgenti in promontori, simili per clima
e per coltivazione alle sponde sorelle della Grecia che le guardano
di faccia; nelle valli ubertose dei fiumi che lentamente risalgono
verso l’altipiano, nelle regioni che corrispondevano agli antichi
regni di Pergamo e di Bitinia, un grande numero di città
greche si erano spartite, dopo la conquista macedone, il territorio
popolato di Frigii, di Carii, di Licii e di Misii; e fabbricavano e
vendevano quelli che noi oggi chiamiamo i “manufatti” nel tempo
stesso in cui governavano ciascuna il territorio suo con le
classiche istituzioni della repubblica greca: la ecclesia o
radunanza di tutti i cittadini; la boulé o consiglio di
città eletto dal popolo; gli strateghi, gli arconti, i
pritani, o come fossero detti in ciascuna città i magistrati
eletti dal popolo a trattare le faccende pubbliche. Così
Sardi, la metropoli della Lidia, spediva in ogni parte certe belle
coperte di lana ricamate288 e tingeva una porpora, se meno pregiata
di quella di Tiro, pur famosissima289; Tiatira tingeva porpore molto
ricercate290; Pergamo era celebre in ogni nazione per le tende e per
le vesti intessute d’oro291 e per quella materia su cui scrivere,
rivale del papiro, che fu detto pergamena292; Mileto tingeva
porpore; tesseva vesti e coperte di lana per letti, lettuccie e
porte293; Tralle plasmava ed esportava ceramiche294, come Cnido295;
famosi erano in ogni parte i cristalli di Alabanda296; Laodicea
fabbricava e vendeva parecchi tessuti di lana che portavano il suo
nome297; Hierapoli era celebre e ricca per le sue tintorie298; Rodi
caricava ogni anno sulle navi innumerevoli anfore piene del suo vino
famoso299, come fabbricava in grande copia armi e utensili di
ferro300; Coo esportava vino e – sola forse tra le città
antiche – pare pure filasse tessesse e tingesse la seta301; Samo
vendeva olio302; Chio il celeberrimo vino303 e gli unguenti. A
queste città perciò da tutte le regioni del mondo
antico, ove i suoi mercanti avevano sbarcato il vino, i panni e le
altre mercanzie, le navi riportavano nei porti dell’Egeo molto oro e
molto argento, monetati od in verghe; e questo oro e questo argento
a poco a poco si spandevano lungo le coste, per le case dei mercanti
e degli artigiani; nelle campagne, per le case dei possidenti o per
gli abituri dei contadini; risalivano per le valli verso
l’altipiano. Dopo Alessandro il Grande, l’Ellenismo aveva sfolgorato
nelle città greche dell’Asia di tutto il bagliore di questo
oro accumulato tessendo e tingendo. Con questo oro esso aveva
adornato di tanto lusso pubblico e privato le sue città,
incoraggiate le arti e le lettere, accresciuta la pompa alla
religione, copiosamente nutrito un artigianato numeroso, continuate
utilmente le istituzioni della πόλις greca, adattandole a
città precipuamente composte di artigiani e di mercanti.
Rodi, la piccola Venezia dell’Egeo, aveva luminosamente dimostrato
che una aristocrazia di mercanti navigatori poteva governare con le
istituzioni greche anche uno Stato pieno di artigiani e
perciò incline alle turbolenze demagogiche, purchè
sapesse profondere larghe beneficenze nel popolo; pagandogli
cioè del proprio feste e sollazzi, impedendo con accorte
larghezze il caro dei viveri così frequente nelle
città popolose, soccorrendolo in ogni strettezza304. Con
questo oro infine, con l’energia che infondeva nei Greci e nelle
popolazioni ellenizzate la coltura, l’orgoglio, lo spirito
d’avventura, la cupidigia mercantile, l’ambizione, la sete
insaziabile di dominare, di godere, di sapere, tutte insomma le
belle forze di espansione e le forze orrende insite nell’ellenismo,
queste repubbliche avevano tenacemente tentato di sfruttare, di
governare, di assimilare le razze indigene della campagna e
dell’altipiano: impresa per certi rispetti facile, per altri
difficile e nella quale l’ellenismo si era a sua volta in parte
almeno snaturato e contaminato. Risalendo dalle coste frastagliate e
ridenti verso l’altipiano, che, monotono e immenso, è il
principio dell’Asia centrale, l’ellenismo avanzava in terra avversa
e straniera, in cui nulla concordava più con il mondo in cui
esso era nato e cresciuto: così la natura fisica come lo
spirito degli uomini. Non più ricche e industriose
città, ma come oggi nelle regioni più popolose della
Russia, boschi immensi, vasti campi di lino e di grano, pascoli
sterminati; e appena appena di tempo in tempo qualche povero
villaggio e qualche armento lontano: piccola, spaurita, quasi
sperduta apparizione dell’uomo nel selvaggio, sinistro, quasi
minaccioso silenzio della deserta natura. Non piccole repubbliche
agitate, ardenti, sediziose, in continuo rivolgimento; ma vaste e
sonnolente monarchie, tanto più venerate quanto più
antiche, che si studiavano di ricollegare la loro origine con gli
Achemenidi e con l’impero persiano. Non genti vive, mobili, curiose,
indocili a tutte le dominazioni umane e divine, avide di dominio, di
ricchezze, di sapere, di voluttà, di pericoli, tranne nella
monarchia fondata a sud del Ponto, nel cuore dell’Asia Minore dalle
orde dei Galli immigrati nel III secolo e popolata da una miscela di
Frigi e di Celti, che degli invasori aveva conservato con la lingua
lo spirito inquieto ed ardito: ma in tutto il resto razze barbare,
dure, fatte per subire la dominazione degli uomini e dei Numi, sotto
ogni sua forma, incapaci di iniziativa, pronte a servire in
schiavitù, a farsi arruolare negli eserciti, a obbedire ai
monarchi, a venerare gli dèi e i loro sacerdoti. Non spirito
politico, non filosofie, lettere od arti originali: ma dominatrici
delle menti e dei corpi, immense e monotone come l’altipiano in cui
si espandevano, due di quelle religioni metafisiche, generali,
cosmopolite che, opprimendo sotto il mistico assoluto gli spiriti,
hanno tanto contribuito in ogni età a mescolare i popoli e ad
educarli al servaggio. Più recente il mitraismo, lasciatoci
dalla dominazione persiana: un culto austero, nato dalla
congiunzione del primitivo mazdeismo con dottrine semitiche di
Babilonia, che in Mitra venerava nel tempo stesso il Sole e la
Giustizia, il sublime, quasi inaccessibile principio della vita e
della virtù; che sospingeva la piccola e debole
umanità verso questo principio inaccessibile
sovraccaricandola di riti e simboli oscuri; che nei re vedeva una
irradiazione umana di questo principio e nella monarchia la povera
ma venerabile imagine umana della divinità305. Più
antico l’altro, il culto della Dea Madre, detta qui Didimene,
là Cibele, altrove diversamente, che era addirittura una
mistica religione antisociale della natura selvaggia, fondata
intorno al mistero della generazione: antichissima creazione di
sacerdoti tanto sapienti quanto smaniosi di arricchire e di
dominare, che avevano saputo, prima delle conquiste di Alessandro il
Grande, accumulare una immensa manomorta e imperare tra le razze
barbare dell’altipiano insegnando loro a cercare la Divinità,
oltre le regole della morale convenzionale, i legami artificiali
della famiglia e della società, nelle due estreme ed opposte
violenze a cui l’istinto della riproduzione trascende. La Dea Madre,
la Natura cioè, non visita le città in cui i Greci si
pigiano a trafficare e a disputare; vive nelle deserte montagne,
sulle rive solitarie dei laghi, lontano dagli uomini e
seguìta da una torma di animali – leoni e cervi – che vivono
secondo natura. L’uomo deve seguire la Dea, lontano dalle
città, nei selvaggi recessi della solitaria natura; là
dove si compie liberamente il grande mistero divino della
riproduzione, che concilia l’unità eterna con la
varietà temporanea; il mistero per cui, se gli esseri singoli
compaiono, durano un istante, spariscono, il tutto vive imperituro.
Onde gli esseri umani si immergono nella Divinità quando
sciolgono questo istinto, in cui risiede la loro essenza divina, dai
lacci e dai vincoli in cui la artificiosa civiltà l’ha
incatenato: teologia oscura ma non scevra di qualche idea profonda,
con cui i sacerdoti avevano potuto sfruttare le due forze misteriose
e contrarie che giacciono insieme nelle oscure profondità
dell’amore: l’attrazione e la ripulsione dei sessi. Come i monaci
cristiani fabbricavano cioccolata e liquori, così questi
sacerdoti avevano aperto nei templi dei postriboli all’insegna della
Dea Madre, persuadendo le donne devote di compire opera meritoria
prostituendosi all’ombra del tempio e lasciando alla Dea,
cioè ai suoi ministri, il denaro lucrato: sfruttavano nel
tempo stesso le tendenze ascetiche, annoverando tra le opere di
pietà, accanto alla prostituzione, la castità e
perfino l’evirazione; avevano costituiti dei corpi di sacerdoti
eunuchi e raccoglievano a feste sanguinose quanti volessero
recidersi, per farne omaggio alla Dea, la propria
virilità306.
Eppure dal contatto di climi, di razze, di lingue, di stati, di
economie, di religioni così disparate ferveva da secoli
nell’Asia Minore uno sforzo di unificazione e di sintesi. Le strade
per cui le monarchie dell’interno comunicavano con il mondo
mediterraneo passavano per i territori greci; le strade per cui le
città greche comunicavano con la Persia passavano per i
territori delle monarchie. Se gli indigeni dell’altipiano erano
agricoltori e pastori, i greci erano artigiani e mercanti; questi
vendevano a quelli molti oggetti fabbricati nelle loro città,
prendevano in cambio le pelli, le lane, i lini, il legno, i
minerali; e sopratutto gli schiavi. A riempire le città
greche, sia che le vuotasse il naturale logoramento della plebe
cittadinesca, sia che crescesse il bisogno delle braccia,
provvedevano in parte anche la Frigia, la Lidia, il vasto regno del
Ponto, la Cappadocia; dove i contadini non consideravano nè
obbrobrioso nè crudele generare e allevare dei figliuoli per
venderli poi ai mercanti di schiavi, che li portavano nelle
città industriali e bisognose di uomini307. Se l’ellenismo
non aveva invaso tutto l’altipiano, ne toccava almeno con i suoi
raggi luminosi le vette; le corti che tutte grecizzavano rimunerando
artisti, segretari, impiegati greci; edificando e ingrandendo
artificialmente, con grande dispendio e come serre dell’ellenismo,
poche città. A sua volta l’ellenismo dell’Asia aveva perduta
molta parte del suo spirito politico, impregnandosi invece di
spirito religioso. La plebe artigiana, composta in parte di Carii,
di Frigii, di Misii, di Lidii inurbati portando nella città
il nativo loro bigottismo, a poco a poco era divenuta più
ligia ai templi che alla città; le classi alte, composte in
misura sempre maggiore di ricchi mercanti, facilmente si erano
indotte, tra tante religioni strane o piacevoli o impressionanti,
che commovevano l’immaginazione ed eccitavano i sensi, a dedicare
agli dèi una parte del tempo che, secondo il concetto greco
della vita, esse avrebbero dovuto dedicare allo Stato; a poco a poco
gli dèi ellenici avevano albergato nei loro templi gli
dèi indigeni e cercato di rassomigliar loro, come l’Artemide
di Efeso; i templi indigeni si erano aperti a dèi ellenici; e
i Numi delle due religioni metafisiche avevano assunto forme e
sembianze greche. Componendo il gruppo di Mitra Tauroctono, la
scuola di Pergamo aveva impersonato in un bell’efebo greco con il
berretto frigio persino quel vago splendore di divinità
concepito dallo spirito persiano308. E così, mentre lo
spirito civico aveva languito, la religione aveva primeggiato,
accanto all’industria e al commercio, con gli innumerevoli
sacerdozi, i templi sontuosi e ricchissimi, i culti molteplici, le
cerimonie e le feste frequenti e interminabili, tra le cose
pubbliche e le private degli Elleni dell’Asia309. Nel contatto
infine con le razze indigene da secoli avvezze al reggimento
monarchico, nei bisogni della attività industriale, nella
diffusione dello spirito religioso le città greche dell’Asia
Minore avevano conciliata perfino la monarchia e la repubblica,
dopochè la monarchia, conquistata da avventurieri venuti
dall’Europa, aveva rivestite le forme e assunta la protezione
dell’ellenismo, aiutando e adoperando, invece che combatterle ed
esserne combattuta, queste repubbliche. Tramutate le città
greche dell’Asia in emporii industriosi, ogni città aveva
avuto interessi più vasti del suo piccolo territorio e
bisogno perciò di pace, di sicurezza, di leggi eque in
regioni a cui non giungeva la piccola forza, irradiata come la
piccola luce di una piccola lampada in una notte buia, dal suo
minuscolo Stato. D’altra parte il misticismo, il commercio, la lenta
infiltrazione delle idee monarchiche dell’altipiano avevano
affievolito nei Greci d’Asia lo spirito civico e repubblicano: onde
le città avevano facilmente riconosciuto nella monarchia la
forza più vasta capace di coordinare i loro interessi; i
Diadochi che avevano capito, pur guerreggiando fra loro, la propria
comune missione, non solo avevano rispettate le istituzioni
repubblicane delle città, cercando di servirsene per
governare ed ellenizzare le razze indigene, ma avevano fondato essi
stessi, sopratutto nell’interno, parecchie di queste repubbliche; e
a lor volta i Greci avevano adorata questa coordinazione dei loro
interessi perfino nella persona dei Re. In quell’aria rossa per il
pulviscolo ardente del misticismo sparso dovunque, avevano preso un
colore religioso anche le inclinazioni monarchiche; e tra l’esempio
dell’Egitto lontano e le dottrine indigene del mitraismo, anche i
Greci d’Asia avevano capito non esserci miglior mezzo per incutere a
tutti i popoli dell’Asia Minore il rispetto di questi re, che farne
dei Numi e dei Semidei. Onde la monarchia semidivina e l’apoteosi
dei re defunti non erano stati in Asia Minore un’abiezione servile
di Greci degenerati; ma un altro dei tanti strumenti di cui
l’ellenismo versatile si serviva, per compiere il suo grande disegno
di dominazione mercantile e intellettuale. Queste piccole
repubbliche di mercanti, di artigiani, di letterati, ricche di
denaro, ma deboli nella milizia e nella diplomazia, avevano opposte
le nuove monarchie elleniche come un propugnacolo alla Persia
lontana, alle minori monarchie semi-persiane che si frapponevano
sull’altipiano tra l’antico impero degli Achemenidi e le coste;
l’avevano adoperate e adorate come la sintesi delle loro particolari
esistenze, la forza lungi radiante, che proteggeva sul continente e
sui mari il loro commercio.
Ed ora gli Asiatici, un secolo dopo la caduta della monarchia di
Pergamo, adoravano non più dei re defunti ma un magistrato
repubblicano ancora vivo; si prosternavano innanzi a Roma, che era
un nome ad essi più funesto che caro. Succedendo ai re di
Pergamo, Roma ne aveva continuata quasi la tradizione politica, ma
non la missione storica. Aveva dichiarate libere, cioè esenti
dal tributo, indipendenti dal Senato e dal proconsole, alleate su
piè di eguaglianze, parecchie città – Cnido, Milasa,
Chio, Mitilene, Ilio, Lampsaco, Cizico, Rodi che erano ancora in
tale condizione, quando Augusto giungeva in Asia310. Aveva
sottoposte le altre al proconsole e al tributo, anche in queste
però lasciando il popolo radunarsi, legiferare, eleggere
consigli e magistrati, governarsi con le leggi sue, salvo
l’intervento, del resto non frequente, del Senato e del proconsole;
il quale non era che un controllore e un tesoriere, incaricato di
raccogliere e spedire alla metropoli ogni anno i denari del tributo.
Ma non si era punto curata di difendere, come le monarchie
asiatiche, i vitali interessi dell’ellenismo, di favorire la
diffusione della sua cultura, di mantenerne il primato sulle razze
indigene, di proteggerne e favorirne il commercio, di coordinare gli
sforzi diversi delle singole città. Lontana, rappresentata da
un proconsole mutato ogni anno e da un Senato distratto,
affaccendato, legiferante, come tutte le assemblee, saltuariamente,
poco esperto dei luoghi e delle genti; non d’altro sollecita che di
arraffar denari, Roma aveva a poco a poco nell’Asia Minore
abbandonata ogni cosa in balìa di sè medesima,
lasciando perfino i pirati distruggere a metà il commercio
delle città greche e due volte in trenta anni la cavalleria
partica volteggiare sotto le loro mura; curandosi invece solo di
rubar loro la maggior parte dell’oro e dell’argento che esse
accumulavano in cambio di manufatti; e di vigilare affinchè
nessuna delle monarchie dell’altipiano – il Ponto, l’Armenia, la
Cappadocia, la Galazia, la Commagene – osasse un giorno scendere
alle coste a raccogliere l’eredità degli Attalidi con
maggiore scrupolo che non avesse fatto Roma. Essa aveva così,
per egoistica sollecitudine del vantaggio proprio, pur senza
distruggerne alcuno, indeboliti tutti gli elementi vitali di questa
società eterogenea, l’ellenismo come le tradizioni indigene;
aveva rovinate a metà le repubbliche greche, semi-spente in
quelle le arti, la alacrità intellettuale; come aveva
indebolite, facendole e disfacendole continuamente, tutte le
monarchie dell’altipiano, tranne forse la Galazia. Qui almeno al
tempo di Augusto sotto una aristocrazia di ricchi possidenti, ed un
re che era di tutti il più ricco311, viveva una forte
popolazione frigio-celta di contadini e di soldati, i quali
coltivavano la terra, pascolavano immensi armenti, esportavano le
lane312, la santonina313 e certe gomme medicinali estratte dalle
acacie314; e, alleati di Roma da secoli, avevano accumulato molte
ricchezze guerreggiando nell’ultimo mezzo secolo a servizio di Roma,
specialmente contro il Ponto. Augusto dopo Azio aveva considerato
questo popolo vigoroso abbastanza, il suo re Aminta valente quanto
era necessario per unire al suo territorio la Licaonia, la Panfilia,
la Pisidia, la Cilicia orientale, le parti cioè più
selvaggie dell’Asia Minore dove erano i nidi inesauribili del
brigantaggio e della pirateria desolanti l’Oriente, con l’incarico
di distruggerli tutti. Ma Aminta era morto in questa impresa; e
Roma, non trovando chi lo volesse, aveva dovuto ridurre a provincia
il suo regno: onde non rimanevano più sull’altipiano che
monarchie occupate da sovrani pavidi, imbelli, talora anche poveri:
ombre dell’antica potenza, mantenute da Roma per sfruttarne tra gli
indigeni l’ultimo bagliore del prestigio morente, incapaci
così di nuocere come di giovare. Un letterato greco di
Laodicea, Polemone, figlio del celebre oratore Zenone, governava il
Ponto; l’antico e glorioso regno di Mitridate, appartatosi ormai in
quel remoto angolo, quasi ad espiare e a dimenticare il grande sogno
crollato del dominio dell’Asia, nella pace oscura di un placido
stato agricolo. Le sue numerose razze, parlanti lingue così
diverse che spesso non si intendevano tra di loro, non attendevano
più che a coltivare le terre, a scavar le miniere315, a
pascere gli armenti, a riprodursi e a venerare gli dèi: le
poche città, le colonie greche della costa del Mar Nero –
Sinope, Amiso, Trapezunte – deposti gli spiriti ambiziosi e
belligeri, si raccoglievano a esercitare le poche industrie loro, a
pescare il tonno, a esportare il legno, la lana, il ferro
dell’interno316 e certi semplici, rari e costosi, come la
rigolizia317 e l’elleboro318. Più oscura, più povera,
più ignobile ancora era sotto lo scettro di Archelao, la
Cappadocia: una vasta regione popolata da una razza poco
intelligente, che si nutriva anche essa coltivando la terra,
pascolando armenti e scavando miniere319, che parlava una lingua
propria, che aveva due sole città, Mazaca e Comana320. Ma se
le razze indigene dell’altipiano erano state, tranne i Galati,
decimate, impoverite, umiliate dalla politica romana; se avevano
perduta la parte migliore del loro sangue nelle terribili guerre che
Roma aveva accese in tutta l’Asia Minore, i loro antichi
conquistatori, i Greci delle città, non avevano sofferto e
perduto meno di loro. Costrette da un secolo, Sisifo novello, a
ripigliare all’Italia, in cambio di merci, i metalli preziosi da
Roma ghermitile, per poi esser di nuovo depredate quando ne avessero
fatto un nuovo mucchio, le città greche dell’Asia Minore si
erano alla fine spossate a ripetere tante volte la loro fatica, dopo
la prima invasione di Mitridate e la riconquista di Silla, con i
pirati e i pubblicani romani, dopo le confische dei generali di
Pompeo, dopo le rapine di Bruto e di Cassio, dopo le esazioni di
Antonio. Le classi ricche, rovinate, assottigliate, sminuite da
tante e ripetute catastrofi finanziarie, debolmente sostenute da
Roma, la cui autorità declinava, non avevano più,
specialmente negli ultimi trenta anni, potuto sostenere con l’antico
splendore le onerose liturgie, e quindi il prestigio dell’ellenismo,
che su quelle precipuamente posava. Le istituzioni della polis erano
perciò cadute nel più grande disordine; le arti e le
scienze decadevano; in ogni città camorre corrotte di
politicanti bisognosi sgovernavano, sfruttando i vizi e l’ignoranza
della plebe; le finanze erano dissestate, i monumenti in rovina, le
scuole neglette, la giustizia venale, l’opinione pubblica
capricciosa e violenta, gli uomini austeri e dabbene amareggiati e
sfiduciati dal fastidio di una corruttela nel tempo stesso
intollerabile ed incurabile. E in Asia Minore, come in tutto
l’Oriente, su quella immane dissoluzione sociale che la politica
romana aveva scatenata nell’ellenismo, erano silenziosamente,
lentamente, tenacemente cresciuti di numero, di forza, di ricchezza,
come quelle piante che germogliano tra le rovine, gli uni chiusi
nelle loro montagne, gli altri sparsi in tutto l’Oriente, i briganti
e gli Ebrei.
I popoli viventi di brigantaggio nella Cilicia avevano ucciso ad
Augusto, poco prima, Aminta. Arrivando in Asia Augusto trovava una
novità singolare, che nessun sapiente o potente avrebbe un
secolo prima neppur supposta come possibile. Trovava che, morto
Aminta, il sovrano più attivo, più ardito, più
geniale dell’Oriente; il solo che si imponesse se non alla
ammirazione, alla considerazione almeno di tutti era il re di
Giudea, Erode. Era costui tra gli asiatici un barbaro, un arabo
Idumeo, convertito da poco al Giudaismo; era tra i sovrani orientali
un parvenu che nel disordine della ultima rivoluzione aveva usurpata
la dignità sovrana con raggiri e violenze alla logora
famiglia degli Asmonei; era il re di un popolo piccolo, oscuro e
rozzo, che per molti secoli sembrava non aver avuto altro destino
che di ingrossare, nelle guerre dei grandi potentati dell’Asia,
l’armento dei sudditi, preda del vincitore. Eppure egli aspirava
ormai, visibilmente, a prendere il primo luogo nel lungo codazzo dei
vassalli di Roma: e non tralasciava cosa alcuna per mettere in vista
sè e il regno di Giudea; e aveva contribuito un contingente
di milizie alla spedizione nello Yemen fatta da Elio Gallo; e aveva
rinominata Samaria in Sebaste (traduzione greca di Augusta)321; e
incominciava la costruzione di una città cui voleva porre il
nome di Cesarea322; e voleva anche egli stabilire in Giudea, tra
quei barbari, una monarchia ellenizzante, fastosa, munifica,
incominciando in ogni parte del suo regno grandi opere pubbliche di
lusso; e perfino in Gerusalemme egli aveva stabilito dei giochi
quinquennali in onore di Augusto, dato mano a costruire un grande
teatro e un anfiteatro323; e chiamava da ogni parte artisti greci; e
faceva coniare in greco le sue monete. Insomma, sia pur cautamente,
Erode mostrava l’ambizione di essere in Oriente come il primo
vassallo di Roma e una specie di protettore dell’ellenismo; lui,
l’arabo Idumeo, il re dei rozzi ebrei! Eppure Erode non era un
pazzo, e poteva ormai, ragionevolmente e non per follia, aspirare a
questo ufficio, perchè la condizione degli Ebrei era ben
mutata nel corso dell’ultimo secolo in tutto l’Oriente. Gli Ebrei
avevano già allora alcune delle qualità che li fanno
anche oggi così forti e resistenti alla lotta: erano
laboriosi, erano parchi; e in mezzo a tante religioni sensuali
vivevano sotto la vigilanza di un unico Dio mascolino, che era un
arcigno gendarme, e non un mezzano compiacente dei vizi degli
uomini: erano infine – virtù massima allora, in un tempo in
cui la civiltà logorava così rapidamente le razze –
prolifici. Da lungo tempo costretti a emigrare in grande numero, gli
Ebrei avevano trovata nell’ultimo secolo una facilità
meravigliosa di espansione e le più felici occasioni di
fortuna nella dissoluzione dell’ellenismo; onde si erano raccolti in
immense, ricche, floride colonie in tutte le città
dell’Oriente: in quelle dell’Egitto, in Alessandria specialmente324,
come in quelle dell’Asia Minore325, come oltre la frontiera nelle
città della Persia, a Babilonia326 per esempio; formando
ovunque parte necessaria della popolazione urbana: sopratutto
artigiani, mercanti, banchieri327. I più campavano
modestamente la vita; un certo numero conquistava una bella
agiatezza; un piccolissimo numero aveva accumulate immense ricchezze
– anche in Oriente c’erano allora dei Rothschild: – tutti insieme
formavano colonie che avevano costumi, leggi, idee singolari,
diverse da quelle dei Greci e non volevano a nessun costo lasciarle;
si ribellavano a quell’eclettismo religioso così comune tra
gli antichi e non volevano adorar che il Dio loro; cercavano di far
propaganda del proprio culto, accogliendo il quale occorreva lasciar
gli altri; avevano riti strani, che intendevano di osservare con
scrupolo ovunque si trovassero, anche se offendendo o annoiando la
maggioranza; dove le leggi della città contradicevano ai
precetti della religione loro, volevano a ogni costo essere
esentati, se no se ne andavano; si mescolavano poco con la
popolazione ospitante, vivevano tra di loro, formando quasi un
popolo nel popolo, uno Stato nello Stato328. Numerosi, uniti,
laboriosi, ricchi, odiati per la loro diversità e temuti per
le loro ricchezze, essi non cessavano di volgere gli occhi della
mente e i sospiri dell’anima verso Gerusalemme e il suo tempio; non
dimenticavano mai la terra sacra dove Geova aveva il suo santuario;
e alla patria ritornavano spesso, mandavano sempre ingenti somme di
denaro, che la aiutavano a vivere. Insomma gli Ebrei avevano
acquistata, con le colonie, il commercio, i denari, una vasta
potenza in tutto l’Oriente, ingrandendo sulla decadenza
dell’ellenismo: onde Erode saviamente intendeva non poter più
chiudersi in sè, quando il popolo ebreo si spandeva per il
mondo; pensava dovere lo stato ebraico tener dietro al suo popolo,
farsi conoscere, amare, temere anche al di là delle
frontiere, per poter aiutare dappertutto l’emigrazione degli ebrei;
e per diminuire intorno alle colonie giudaiche le avversioni e gli
ostacoli. I principî essenziali della sua politica erano:
accettare la condizione di cliente e di vassallo di Roma senza
rammarichi, sotterfugi o rancori, per assicurar dovunque alle
colonie ebraiche la protezione della grande repubblica; tentar di
conciliare quanto era possibile, il giudaismo arrobustito ma
incapace di dominare da solo l’Oriente, con l’ellenismo indebolito
ma pur sempre vivo, ambizioso di dominio e di ricchezza, ancora
capace di una nuova rinascita....
Il tempio di Pergamo, il culto di Augusto e di Roma erano il primo
segno della tenacia vitale dell’ellenismo. Da dieci anni la pace era
ristabilita, un certo ordine regnava, la fiducia rinasceva; in tutta
l’Asia Minore i telai ricominciavano a battere, le vasche delle
tintorie a stemperare i colori, le flotte mercantili a rimetter le
vele, gli smunti artigianati delle città a ricostituirsi. Nel
tempo stesso, laggiù, su quel lontano orizzonte ove esso per
un secolo non aveva potuto discernere che la grigia
impersonalità del Senato, l’ellenismo asiatico aveva vista
comparire, durare, ingrandire la figura di un uomo nel quale esso
poteva raffigurar da lungi la figura del monarca a lui così
familiare. Non per servilità o per abiezione l’Asia con tanto
zelo faceva largo nel suo Olimpo, che era un congresso
raccogliticcio di dèi disparati, venuti da ogni parte e di
continuo crescenti, all’ultimo Dio, venuto un poco all’improvviso in
carne ed ossa dall’Italia. Questo Dio doveva essere una forza non
meno benefica che il Sole adorato in Mitra, o la Natura adorata in
Cibele; doveva essere la forza coordinatrice degli interessi
particolari delle città greche, il propugnacolo contro la
Persia, la protezione dei loro commerci, come l’antica monarchia dei
Diadochi. L’aveva aspettata, invocata, desiderata per un secolo,
questa forza benefica, l’ellenismo dell’Asia; e aveva divinizzata
prima Roma; poi aveva tentato di divinizzare, cogliendolo al suo
passaggio, qualche frettoloso proconsole. Sempre invano e sempre
deluso, però! Ma le speranze rinascevano più vive e
generali, ora che l’ellenismo tentava di risollevarsi dalla
decadenza in cui l’ultimo secolo l’aveva piombato. Erigendo a lui e
a Roma il tempio di Pergamo, ordinando intorno a quello un culto
regolare, l’ellenismo asiatico invitava Augusto ad assumere il
grande ufficio storico compiuto in Asia dalla monarchia ellenizzante
e trascurato da Roma: lo invitava con desiderio acuito da un secolo
di immenso disordine e facendolo Dio addirittura vivente, al modo
Egiziano.
VI.
“ARMENIA CAPTA, SIGNIS RECEPTIS”.
Stupendo compito, missione magnifica: ma poteva Augusto, già
costretto a sorreggere in Italia, solo o quasi solo, una repubblica
mezzo sfasciata, impersonare nell’Asia Minore la monarchia
ellenizzante? Se egli aveva in Asia Minore dei templi, non aveva
più il gigantesco patrimonio dei re di Pergamo, che era stato
il fondamento granitico della loro potenza: le immense foreste, le
grandi tenute, le innumerevoli fabbriche di tappeti, di broccati
d’oro, di pergamene, la sterminata moltitudine dei βασιλικοί o
schiavi reali329. L’annessione del regno aveva disperso questo
gigantesco patrimonio: liberati gli schiavi reali, le grandi
officine si erano spezzate in un infinito numero di piccole botteghe
private, tutte insieme molto più alacri, probabilmente, che
le poche antiche fabbriche immense; le terre erano passate in
possesso della repubblica romana, che ne aveva fatto lo scempio ben
noto. È difficile argomentare quanta parte di tanta ricchezza
non fosse ancora dilapidata: e ad ogni modo quel che restava
apparteneva a Roma, non ad Augusto330. Quanto al patrimonio suo, che
pure era ingente; quanto agli schiavi che Augusto, come gli antichi
re di Pergamo, possedeva in grande numero, non era possibile fare
dei paragoni. Ricchissimo per i tempi suoi e tra i contemporanei,
Augusto possedeva appena una modesta agiatezza a petto delle
sterminate ricchezze degli antichi sovrani asiatici; e di quello che
possedeva doveva spendere la maggior parte in Italia. Egli era
insomma in Asia un Dio senza quattrini e senza folgori; onde gli
omaggi a lui prodigati esprimevano più le smodate speranze
poste in lui dagli Asiatici, che un qualche sentimento verace di
riverenza e timore, di cui questi fossero compresi in sua presenza.
Se Augusto si fosse illuso, due fatti gli avrebbero aperti gli
occhi. Poco dopo l’arrivo suo a Samo, proprio quindi sotto gli occhi
del Nume, i Ciziceni, in occasione di certi tumulti, avevano rifatta
una di quelle piccole stragi di cittadini romani, che, dopo il
grande macello dei tempi di Mitridate, le città dell’Asia
ripetevano, ora l’una ora l’altra, periodicamente, quasi per non
perdere la mano ad ammazzare Romani331. Poco prima Augusto,
sollecitato dal suo maestro Atenodoro di Tarso, aveva voluto por
fine a certe ruberie che nella amministrazione del ginnasio di Tarso
faceva una camorra, annidatacisi sino dai tempi di Antonio; e aveva
mandato Atenodoro stesso a scacciare i ladri. Ma, non ostante la
veneranda età, la solidarietà degli onesti, la fama,
la protezione di Augusto, Atenodoro si trovò nella
città sua esposto ai dileggi e alle minaccie del partito
percosso, che una notte aveva perfino mandato degli ammalati di
diarrea ad alleggerirsi il ventre sulla soglia della sua casa, per
dispregio.... E il filosofo aveva dovuto castigare i suoi
insultatori con dei motti: radunare il popolo, tener loro un
discorso, dire che quanto fosse inferma dentro la città, si
capiva anche dalle sue deiezioni332. Uomo o Dio, l’autorità
di Augusto in Asia emanava da Roma, come la luce della luna viene
dal sole: onde egli doveva, anche per ragioni di politica asiatica,
sforzarsi affinchè l’accordo con i Parti sfolgorasse
improvviso sull’Asia, e facesse stupire tutte quelle genti. Anche
questa volta la fortuna lo aiutò. Le cose dell’Armenia
precipitarono da loro e più rapide che egli non pensasse
verso il segno a cui egli si affaticava di volgerle; perchè
nell’inverno dal 21 al 20, mentre le forze romane e i contingenti
cappadoci si raccoglievano sui confini dell’Armenia per invaderla a
primavera, una rivoluzione scoppiava nel regno, rovesciava il re e
si dichiarava pronta ad accettare la signoria romana333. Non c’erano
in Asia che due grandi Stati: Roma e l’impero dei Parti; le
monarchie minori, poste tra l’una e l’altra, il Ponto, la
Cappadocia, la Commagene, l’Armenia erano ombre e parvenze
più che corpi; Roma e la Persia, quando l’una non fosse
impedita dall’altra, potevano fare di queste il governo che loro
piacesse. Tuttavia Augusto non annette la Armenia all’impero; e
abbandonando la politica di suo padre, ripristinò in questa
occasione la vecchia politica del partito aristocratico334. Da Efeso
il proconsole o il propretore romano governavano facilmente l’antico
regno di Pergamo, cioè l’Asia greca, industriale e
repubblicana, perchè aveva sotto le mani, come una lunga
tastiera, le città elleniche, tra cui tutto il territorio era
spartito. Che egli lasciasse agire le istituzioni di queste
città, vigilando: e tutto il territorio, bene o male, sia pur
più male che bene, era governato. Sull’altipiano invece,
abolite le monarchie, il proconsole romano avrebbe dovuto governare
una popolazione rada, in vaste regioni, senza milizie, senza
sussidio di istituzioni indigene, senza funzionari che conoscessero
i luoghi e le cose, senz’altro aiuto che il rispetto e il terrore
irradiante dal nome di Roma; rispetto e terrore che si affievolivano
crescendo la distanza dal mare. Insomma, siccome queste genti erano
da tempo immemorabile avvezze ad obbedire soltanto ai sacerdoti e
alle dinastie, era miglior consiglio, per dominarle, impadronirsi
dei loro sovrani, governare con il braccio e per bocca di questi,
nascondendosi dietro il loro trono. Perciò Augusto si
risolvè a dare alla Armenia un nuovo re, Tigrane, un fratello
del re morto, che, catturato da lui ad Alessandria dopo Azio, era
stato educato a Roma; e, non potendo recarsi personalmente in
Armenia, gli fece porre sul capo il diadema reale dal suo figliastro
Tiberio, in una solenne cerimonia che ebbe luogo nel campo
romano335.
Il protettorato in luogo dell’annessione aveva un altro vantaggio:
inquieterebbe meno i Parti, i quali si acconcerebbero più
facilmente a tollerarlo; mentre per l’Oriente, se i Parti
riconoscessero il rivolgimento di cose avvenuto in Armenia, esso
significherebbe sempre un ingrandimento considerevole della potenza
e del prestigio di Roma. Ma si rassegnerebbero i Parti a far questo
passo indietro? Molti, dubitandone, temettero che il duello tra Roma
e la Persia ricominciasse; tutta l’Asia fu in ansietà; il
commercio, impaurito, si rinserrò sopratutto nelle
città marinare, come a Bisanzio, dove il grano rincarì
assai336. Augusto invece pare avesse già allora fondati
motivi di reputare che Fraate cederebbe, invece di resistere, a
questo atto di forza; perchè, sereno tra tanta agitazione,
volse l’attenzione sua alle cose dell’Asia, incominciando con
prudenza a tentar di coordinare, in qualche parte almeno, gli
interessi delle città greche. Una questione primeggiava: i
debiti. Se i telai ricominciavano a battere e le navi a rimettere le
vele per viaggi usati, la penuria del capitale, disperso rubato
nascosto, era grande; e implicati tutti in fitti debiti, così
i privati come le città, così i mercanti come i
possidenti, a stento potevano muovere i primi passi per riportare
ancora una volta la pietra del proprio destino sulla vetta della
prosperità. Perfino Rodi, che pure era forse la città
più ricca, aveva sofferto gravissimi danni nelle guerre
civili337; abbiamo già visto che molte città, guaste
dal terremoto, avevano ricorso a Roma per aiuto; Chio lasciava
cadere in rovina il suo portico meraviglioso338; in tutte le
città si vedevano macerie, abbandoni, trascuranze forzate.
Forse il male sarebbe a poco a poco guarito da sè; ma con
quanta lentezza! Sembra che Augusto si persuadesse essere necessaria
una operazione e che perciò autorizzasse le città ad
annullare senz’altro i propri debiti339. Si può esser certi
che molte approfittarono di questa facoltà, sebbene sia noto
che Rodi rifiutò. Augusto provvide poi a proporzionare meglio
il carico dei tributi alle forze di ciascuna città,
alleggerendo le città impoverite, aggravando quelle
più doviziose340; introdusse anche, qua e là, qualche
riforma costituzionale, seguendo probabilmente le sollecitazioni
delle stesse città341; castigò Cizico per la strage
dei cittadini romani, togliendole la libertà342.
Riordinò infine un poco anche le cose dell’altipiano. Nella
parte orientale comprendente la catena dell’Amano, ristabilì
l’antico regno di quel Tarcondimeto che era morto nella campagna di
Azio sotto gli ordini di Antonio, richiamando nel regno e negli
averi del padre il figlio, che aveva lo stesso nome343. Essendo da
poco morto Artavasde, il re della piccola Armenia, fece di questa un
altro dono ad Archelao, re di Cappadocia344. Al confine
settentrionale della Siria stava, scolta avanzata verso la Persia,
il piccolo regno della Commagene, con il trono da un decennio
vacante, abbandonato dalla Persia e da Roma, in balìa di
sè stesso.... Augusto approfittò dell’occasione, per
ristabilirvi la dinastia nazionale, nella persona di un fanciullo,
che aveva nome Mitridate345. Intanto il 12 maggio – a quanto pare346
– giungevano al campo romano i prigionieri e le insegne restituite
da Fraate, insieme con gli ambasciatori incaricati di conchiudere il
trattato definitivo di pace con Roma.
Stupefatta l’Asia ammirò il meraviglioso, quasi incredibile
trionfo della politica romana. Nessuno supponeva che l’impero dei
Parti avrebbe dato addietro a quel modo, dopo tre guerre vittoriose.
Augusto era proprio un Dio, e con il suo avvento aveva rimutata ogni
cosa. Perfino la Persia cedeva; e Roma faceva un gran passo innanzi,
conquistava l’indubbio primato in tutta l’Asia anteriore!
Ammirò anche l’Italia, senza accorgersi che il protettorato
armeniaco era piccola cosa in confronto della promessa e aspettata
conquista della Persia. Augusto, prevedendo che molti lo
biasimerebbero per non aver egli neppure annessa l’Armenia, e
continuata la politica di suo padre, aveva prudentemente inserita
nelle lettere mandate al Senato, per domandare l’approvazione di
quanto aveva fatto, una lunga dissertazione sulla politica estera,
in cui rinnovava le vecchie dottrine di Scipione e
dell’aristocrazia, dimostrando che Roma non doveva più
aggiungere nuove Provincie all’impero347. Ma la precauzione era
soverchia: perchè i suoi amici si erano affrettati a stendere
sul quadro vero degli eventi di Oriente, che era una severa opera di
stile arcaico, una tela di leggenda dipinta con vistoso stile
cesariano, in cui si rappresentavano l’Armenia conquistata e il re
dei Parti inginocchiato innanzi a Roma in atto di domandar perdono
delle offese antiche, di restituire, per ammenda, le insegne, e di
implorare la pace. Se il Senato giudicò la lettera di Augusto
un portento di saviezza, il popolo ammirò Augusto, come se
avesse conquistata Armenia e Persia e fatto proprio l’opposto di
quanto egli aveva dichiarato nelle lettere utile e saggio.
....Ius imperiumque Phraates
Caesaris accepit genibus minor....
scriveva in questo anno Orazio348, abusando un poco del privilegio
concesso ai poeti di dir bugie; si coniarono monete con la leggenda
“Armenia capta”349 sulle quali un Parto tende genuflesso le
insegne350; la stessa scena fu divulgata in pitture, una delle quali
sembra essere stata ritrovata sul Palatino351. A ogni modo l’Italia,
pur sfigurando nella sua mente gli eventi, aveva più ragione
che essa stessa non credesse di giubilare: chè quel trattato
stabilì per un secolo la pace in Oriente con una transazione
ragionevole tra i due grandi imperii rivali. I Parti, con quel
trattato, si trassero definitivamente fuori dalla politica
mediterranea, abbandonarono l’Asia Minore e la Siria a Roma,
rinunciarono a scendere, attraversando l’altipiano, verso le sponde
del bel mare, così ardentemente ambite invece dalla politica
dell’impero persiano. Roma a sua volta abbandonò il programma
di Alessandro Magno, si impegnò a non penetrare nell’Asia
centrale. Noi conosciamo abbastanza bene le ragioni che persuasero a
Roma questo grande atto di saggezza; non sappiamo invece
perchè i Parti abbiano abbandonata la antica politica
persiana dell’espansione verso il Mediterraneo, proprio quando Roma
era più debole. Ad ogni modo il momento è solenne:
chè proprio nel momento in cui questa pace si conchiude,
nasce l’Europa in cui noi ancora viviamo. Per questa pace Roma
riacquistava piena libertà d’azione in Europa; per questa
pace tra qualche anno Roma potrà incominciare in Gallia
quella politica, da cui nascerà la civiltà europea. Se
i Parti avessero occupato Roma sull’Eufrate in guerre continue, il
Reno avrebbe per secoli ancora, selvaggio e ignoto confine della
barbarie lontana, aspettate invano le legioni e le leggi romane.
Dopo la consegna degli stendardi e dei prigionieri, Augusto era
andato in Siria352, nella patria delle pantomime che tanto piacevano
allora a Roma, per riordinare la riscossione dei tributi siriaci353
e per risolvere certe difficoltà nate in Giudea dalla
politica di Erode. Sebbene anche in Siria la conquista macedone
avesse portate le istituzioni della polis greca e diffuso
l’ellenismo prima come dopo la conquista macedone, prima come dopo
la conquista romana, la ragione d’essere di questa nazione semitica,
sensuale, mistica, indifferente alla politica, alla guerra, alla
filosofia, alla arte severa, avida solo di denari e di piaceri, era
lo sforzo comune per mantenere nel mondo quello che si potrebbe
chiamare l’impero siriaco delle voluttà, il primato nei
commerci, nelle industrie, nelle professioni voluttuose. Adoperando
la forza di un contadiname tenuto in un mezzo servaggio, un ceto di
piccoli possidenti ingegnosissimi aveva fatto dei propri orti il
modello insuperato di tutti i coltivatori del Mediterraneo354; e
deliziava con i frutti squisiti e i succolenti legumi il popolo e i
grandi delle città; e con i vini di Laodicea inebriava
perfino i ricchi signori della India lontana355; e con i suoi famosi
fichi356; con le sue prugne secche357, con i suoi pistacchi358
solleticava i golosi di tutte le Provincie imperiali. Non meno abili
dei contadini, gli artigiani. Tiro e Sidone, attraverso le vicende
di tante guerre, avevano conservata la antica rinomanza nelle
industrie della tessitura, della tintura, del vetro, e il primato
della porpora359: Tiro specialmente nell’orribile sucidume delle sue
viuzze popolosissime, piene di botteghe di tintori, sprofondate come
pozzi tra due file di altissime case, restava la pestilenziale ma
ricchissima capitale della porpora. In ogni bottega uno o pochi
artigiani tingevano la porpora più famosa del mondo, che i
mercanti siriaci portavano poi a vendere in ogni parte con grande
profitto. Erano questi forse i mercanti più astuti e
più attivi di tutto il mondo antico. Non solo esportavano i
prodotti della regione, non solo erano riusciti a incanalare per la
Siria una parte del commercio che la Persia, la Cina e l’India
facevano con le contrade Mediterranee360; ma si recavano a fondare
case e uffici di commercio in ogni angolo del bacino mediterraneo.
In quasi tutte le città marinare si trovavano in quei tempi
piccole colonie semitiche di negozianti siriaci, come nei tempi
più antichi le fattorie dei Fenici361. Insieme con i mercanti
la Siria inviava in tutte le città ricche e vogliose di
divertirsi, ballerini, fantini, funamboli, atleti, musicisti,
pantomimi; Siriaci erano il maggior numero dei musici, maschi e
femmine, sparsi per l’impero; e siriache moltissime donne di
piacere, specialmente a Roma, dove le graziose “ambubaie”
deliziavano i giovani e non soltanto coi flauti362. Così con
mille arti i duttili, ingegnosi, astuti semiti della Siria traevano
da ogni parte dell’impero oro ed argento in cambio di piaceri e di
lussi, per profonderli poi in lussi e piaceri nella Siria; ma in
questa perenne affannosa ricerca del piacere che gli uomini sono
disposti a pagare a peso d’oro, in questo continuo contatto con la
voluttà, goduta o fatta godere, tutti i rapporti sociali si
ammollivano e lo spirito nazionale si infrivoliva. Questa nazione di
mercanti e di giocolieri non era stata capace mai di ricevere entro
di sè alcuno dei grandi concetti filosofici o delle grandi
idee politiche, alcuna delle grandi aspirazioni artistiche o
letterarie dell’ellenismo, che rinnovandola avrebbero potuto
sollevarla dalla doviziosa bassezza di vinattiera e meretrice del
mondo a più civili e più alti destini. La sua
letteratura si componeva soltanto di romanzacci greci, pieni di
briganti, di magie e di amori, e che si potrebbero paragonare ai
nostri più grossolani romanzi di appendice; le grandi arti
intellettuali, come la scultura e l’architettura, che non richiedono
solo ingegnosità e abilità, ma vigore di mente e di
volere, non avevano cultori363; i culti erotici, che già
abbiamo veduto diffusi nell’Asia minore, e che in Siria fiorivano
quasi soli, disperdevano in grossolane pratiche superstiziose, in
orgie ed in feste fastose ogni aspirazione profonda a ricongiungersi
con l’infinito364. In ogni parte la vita era facile e molle.... Al
suono dei crotali e dei sistri le istituzioni repubblicane della
polis greca, che richiedevano vigore ed energia, si erano quasi
assopite; non c’erano lotte, partiti, dissensi seri nelle
città siriache; l’abbondanza, i divertimenti, i culti
voluttuosi, la facilità dei rapporti con le classi ricche,
più che le minaccie della legge, mantenevano di solito
tranquilli gli artigiani delle città, docili nei campi e
rassegnati al loro mezzo e non duro servaggio i contadini; se la
volubilità siriaca prorompeva talora in tumulti, si
ritranquillava poi da sè facilmente; avvezza ai facili e
copiosi guadagni, tutta la nazione pagava la parte maggiore delle
spese necessarie a mantenere l’esercito romano, senza mormorare, con
una docile indifferenza. Non si doleva dell’imposizione, come non
intendeva che, al riparo dell’esercito vigilante le frontiere, essa
si apprestava a invadere l’impero con i suoi mercanti, i suoi
fantini, le sue suonatrici di crotalo e le sue meretrici.
In Siria, per la Siria, Augusto ebbe poco da fare. Si restrinse a
togliere a Tiro e a Sidone la libertà, per certi tumulti
scoppiati nelle due città poco prima365. Invece di più
gravi cure gli fu cagione la Giudea, dove la politica di Erode, pur
così sapiente e necessaria, era ferocemente avversata dal
popolo ebreo; da questo popolo strano, così difficile a
governare quanto i Siri erano docili. Fanatici conservatori della
tradizione; invasati da un orgoglio nazionale, non misurato sulla
potenza della nazione; sempre scontenti, sempre irrequieti, sempre
favorevoli alla politica opposta a quella che prevaleva, gli Ebrei
detestavano Erode. All’Idumeo convertito di recente, al figlio del
ministro che aveva usurpato il trono dei suoi padroni, la politica
romanofila era rimproverata come un tradimento, l’ellenofilia come
una empietà. L’impopolarità di Erode era immensa; e
invano egli si studiava di vincerla con ogni sorta di ingegnosi
espedienti: i partigiani della famiglia spodestata, i superstiti di
questa famiglia che egli aveva tratti nella reggia, sposando
Marianne, una nipote dei due ultimi Asmonei, nella vana speranza di
legittimare così la sua usurpazione, la rinfocolavano con
studio assiduo. Odiato come un usurpatore, impopolare appunto per
quella parte della sua politica che era più illuminata e
benefica, malsicuro persino degli intimi, questo arabo violento,
sensuale, sospettoso, aveva stabilito un governo di spionaggio e di
terrore, e fatta uccidere perfino Marianne per ingiusti sospetti;
queste crudeltà avevano ancora più accresciuto l’odio
popolare; città e privati denunciavano di continuo ad Augusto
le crudeltà di Erode; e allora allora avevano ricorso a lui
gli abitanti della città di Gadara, domandando addirittura di
essere ammessi alla provincia della Siria366. Onde Augusto poteva
dubitare se, continuando l’aiuto ad Erode, non si provocherebbe alla
fine qualche movimento in Giudea grave e profondo, che implicherebbe
Roma in immense responsabilità. La situazione era difficile:
Roma poteva fare sicuro assegnamento su Erode; ma la sua
impopolarità non era diventata così grande, che Roma
non potesse senza grande rischio continuare a servirsi di questo
fedele ma pericoloso vassallo?
In Siria egli vide Erode, ascoltò i Gadaresi,
considerò per ogni verso la condizione delle cose; e si
persuase che, nonostante le colpe e gli errori, Erode si affaticava
per il bene di Roma, delle provincie orientali, degli Ebrei. Anche
Erode nel suo piccolo regno, come Augusto nell’immenso impero, si
trovava implicato in una situazione piena di contraddizioni; e
quindi costretto ad adoperar mezzi pericolosi per attuare le
più savie idee. Respinse perciò la domanda dei
Gadaresi; confermò il suo favore ad Erode; e giudicando
essere costui uomo intelligente, alacre, sicuro, lo fece suo
procuratore generale per la Siria, incaricandolo di vigilare e
dirigere i differenti procuratori, disseminati per la ricca
provincia. Anzi, essendo morto Zenodoro, il piccolo principe di
Abila nell’Antilibano, egli diè ad Erode i suoi Stati367.
Poi, all’avvicinarsi dell’inverno, fece ritorno alla diletta
Samo368, mentre Tiberio si recava a svernare in Rodi369. In Roma
intanto la confusione cresceva. L’accordo con i Parti non aveva
rallentata quella acre fermentazione dello spirito puritano, con cui
le classi medie, gli scrittori, la parte più seria
dell’aristocrazia continuavano a protestare contro la monca,
imperfetta, adulterata restaurazione aristocratica del 27; anzi il
pubblico sempre più irritato, sfogava il malumore su tutto e
su tutti, sull’aristocrazia, contro i cui corrotti costumi il
pubblico protestava più aspramente che mai; sugli ultimi
avanzi del partito democratico, che invano si dibattevano tra queste
onde scivolanti e fluttuanti del pubblico malcontento, per giungere
di nuovo alla sponda lontana del favore popolare; e perfino su
Orazio, che aveva alla fine pubblicate le odi. Dalla solitudine in
cui aveva consumati tanti anni laboriosi a trapiantare e ad
acclimatare in Italia i metri più belli, le forme più
leggiadre, i motivi più splendidi della lirica greca, egli
era finalmente uscito, tutto lieto dell’opera sua, in mezzo al
pubblico, per mostrargliela e ricevere il premio ambito della
pubblica lode! Invece egli era stato accolto dai critici e dal
pubblico con una freddezza arcigna, quasi con avversione. Le odi
erano piaciute moltissimo solo ai pochi, che erano capaci di
intenderle; in ispecial modo ad Augusto che le aveva giudicate
“opera eterna”370; ma i letterati ma i critici di professione ma il
pubblico avevano trovato a ridire mille cose sul volumetto. Roma lo
aveva letto, perchè Orazio oramai era tale scrittore di cui
non si potevano più ignorare le opere; ma non aveva capita
questa opera capitale della sua letteratura, e invece di ammirarla,
aveva preferito sfogare anche sulla sua eterna bellezza il confuso
malcontento di quel minuto371. I puritani furono disgustati dalle
poesie erotiche e accusarono l’opera di immoralità372; i
critici si vendicarono di quel suo schifiltoso appartarsi dalle
conventicole letterarie; il pubblico lento e torpido, bisognoso di
trovare ogni cosa moderna peggiore delle antiche, avvezzo da secoli
alla monotona solennità dell’esametro e alla semplice cadenza
del distico, non gustò la varietà dei metri offertigli
a un tratto dal poeta, la sua raffinatissima lingua, le sue
descrizioni stupende; e all’opera, che non gli piaceva perchè
troppo originale, rimproverò la mancanza di
originalità. Sì, le poesie erano belline e si facevano
leggere: ma, infine, erano tutte imitazioni di Archiloco, d’Alceo,
di Saffo!373 L’Italia insomma aveva quasi paura di riconoscere, in
questo specchio delle sue inconciliabili contradizioni, la propria
imagine; e preferiva, badando ai particolari e alla forma, illudersi
che quelle fossero imitazioni greche. Intanto era scoppiato a Roma
un nuovo furibondo disordine quando Egnazio Rufo, l’edile e il
pompiere tanto famoso quanto inviso alla aristocrazia, aveva posto
la sua candidatura al consolato.
La aristocrazia, ormai da parecchi anni avvezza a occupare, come ai
bei tempi antichi, i due posti di console, non voleva a nessun costo
che un uomo così oscuro, il quale ostentava la propria
indipendenza dalla nobiltà, fosse eletto console. Ma Egnazio
era il solo forse ormai che in Roma potesse sperar di riuscire,
anche senza gli aiuti della piccola oligarchia dominatrice, e non
ostante la crescente avversione agli uomini nuovi, per il favore
popolare conservato dall’edilità. Onde una guerra accanita.
Furono proposti contro di lui due candidati fortissimi. Caio Senzio
Saturnino, un nobile di antica famiglia, e Augusto medesimo, non
ostante la lontananza e i ripetuti rifiuti. Egnazio dovè
ritirarsi; Augusto e Senzio furono eletti; e Augusto avendo
rifiutato, si trasse per le lunghe la elezione suppletoria,
cosicchè il primo gennaio dell’anno 19 Senzio assunse il
consolato da solo374. Il quale, invasato dallo spirito arcaicizzante
e puritano che allora predominava, volle fare il console all’antica;
e piombò di sorpresa distribuendo nerbate a destra e a
sinistra sulla muta di cani magri e famelici che rosicchiavano gli
ultimi fili di carne intorno all’osso spolpato delle finanze
pubbliche; sui ladruncoli che rubacchiavano qualche migliaio di
sesterzi all’erario e che non avevano aderenze, amicizie,
autorità, ricchezza da poter fermare un così matto e
improvviso furore. Ai piccoli appaltatori, avvezzi a esser trattati
con bonomia, impose l’esecuzione dei contratti con maniaco rigore;
spulciò i conti sino al sesterzio; esigette i crediti obliati
dello Stato con implacabile durezza375; tribolò insomma molti
poveri diavoli per risparmiare allo Stato qualche migliaio di
sesterzi; e si fece ammirare da tutti gli imbecilli e da tutti i
lacchè dell’aristocrazia, come un salvatore della morale e
della repubblica. Quello era un uomo degno degli antichi tempi!
Inorgoglito, Senzio, quando bisognò pur procedere alla
elezione del collega, credè di poter fare il console di
antico stampo anche con Egnazio Rufo, come con i piccoli appaltatori
di Roma; e dichiarò che se Egnazio Rufo avesse presentata la
sua candidatura, egli avrebbe ricusato di inscriverne il nome tra i
candidati. Ma Egnazio Rufo aveva popolarità, ardire,
ambizione; non si impaurì quindi e propose la sua candidatura
contro quella di Lucrezio Vespillone, un nobile che era stato tra i
proscritti del 42 e che aveva combattuto a Filippi; e quando Senzio
ebbe cancellato il suo nome dalla lista dei candidati non se ne
diè per inteso: si accinse a ricercare suffragi, sfidando il
console e tutta la cricca che lo incitava con i plausi e con le
lodi376. Conservatori e popolari ancora una volta chiamarono a
raccolta tutte le forze loro, per o contro Rufo; Senzio, invelenito,
dichiarò che, neppure se avessero eletto Rufo, egli non lo
avrebbe proclamato377; da una parte e dall’altra si diè mano
prima al denaro e poi ai bastoni. Dei tumulti incominciarono; il
sangue corse378; la camarilla aristocratica sentì ruggire dal
fondo della propria vecchiaia i furori della giovinezza, volle dare
una lezione, ordinò che Senzio reclutasse una forza armata e
facesse un macello.... Ma a questo punto il coraggio mancò al
terribile console, che, non volendo emulare la gloria di Opimio e di
Nasica, rifiutò la guardia379. I due partiti furono ridotti a
combattersi con un mutuo, rabbioso, ridicolo ostruzionismo, che
empì Roma di tumulti; e durò così a lungo, che
nel mese di giugno il secondo console non era ancora eletto380. Alla
fine la camarilla aristocratica capì che da sola non avrebbe
mai ragione dell’indomabile pompiere; e si rivolse ancora una volta,
per aiuto, ad Augusto.
In mezzo a questi tumulti fu inaugurato l’acquedotto dell’acqua
Vergine, costruito da Agrippa381: insigne contributo a quel
perfezionamento dei servizi pubblici, che era invocato da tutti
nella metropoli, universalmente desiderosa di maggiori
comodità materiali. In questo nessuno arcaicizzava; nessuno
rimpiangeva l’antico. Augusto invece, sebbene sollecitato a
ritornare dai privati e dal Senato, si tratteneva sulla via del
ritorno ad Atene382, insieme con Virgilio che, avendo intrapreso un
lungo viaggio in Oriente per vedere i luoghi del suo poema prima di
dargli l’ultima mano, si era incontrato nella metropoli attica con
il suo illustre amico. Indugiava Augusto probabilmente per le
medesime ragioni per cui gli altri lo sollecitavano, ma considerate
dal lato opposto, per il pericolo che gliene verrebbe, come gli
altri le consideravano alla stregua del vantaggio, che loro ne
ridonderebbe; e aspettava per vedere se i due partiti potessero
finire la discordia tra loro ed egli rientrare in Roma, quando la
tranquillità fosse ristabilita. Ma alla fine, le cose
volgendo sempre peggio a Roma, egli dovè risolversi a
ritornare, e nel mese di Agosto partì per l’Italia,
conducendo seco Virgilio il quale, non sentendosi in buona salute,
interrompeva il suo viaggio al principio. Tornarono quindi insieme,
il poeta e il presidente; ma a Brindisi, sentendosi male, il poeta
diede addio per sempre al suo grande amico e protettore, cui doveva
di aver potuto compiere l’opera sua. Augusto proseguì il
viaggio, verso la Campania, dove gli veniva incontro una deputazione
degli uomini più eminenti di Roma, accompagnata da una parte
dei pretori e dei tribuni e presieduta da Q. Lucrezio Vespillone, il
candidato che invano contrastava il campo a Egnazio383: per fargli
onore in nome di tutta la città ed esporgli il miserabile
stato di Roma, in apparenza; in verità, per accaparrare
l’aiuto di lui alla camarilla aristocratica. I principes viri
venivano a domandare al presidente la sconfitta di Egnazio; e tanto
fecero infatti e tanto dissero, che lo persuasero non esserci
rimedio alcuno fuori che l’uso dei suoi poteri discrezionali.
Eleggesse egli il console, sostituendosi ai comizi. Augusto
cedè, la diede vinta ai conservatori ancora una volta,
eleggendo Lucrezio, l’antico proscritto384. Esultante il partito
aristocratico si apprestava a riceverlo in Roma con grandissima
pompa, prendendo a pretesto l’esagerata vittoria sui Parti, la
questione orientale finalmente composta, l’Oriente ricondotto alla
docile obbedienza di Roma; per ringraziarlo in verità
dell’abbandono di Egnazio. Lo smacco del troppo zelante pompiere
valeva più che la missione in Oriente! Ma il prudente
Augusto, che non voleva mai esasperare coloro cui pure era costretto
di offendere, non si prestò a questa ostentazione trionfale,
si avvicinò chetamente a Roma; e all’improvviso, nella notte
dall’11 al 12 ottobre, entrò di soppiatto in Roma, come un
privato385. Alla mattina, il partito che si apprestava a insolentire
sui vinti, seppe che Augusto era già nella sua casa, sul
Palatino; e che tanti preparativi erano inutili.
VII.
LE GRANDI LEGGI SOCIALI DELL’ANNO 18 A. C.
Poco prima, il 21 settembre386, Virgilio era morto, a 52 anni, in
Brindisi, alcuni giorni dopo essere sbarcato; dividendo il cospicuo
patrimonio donatogli dagli amici – 10 milioni di sesterzi – tra il
fratellastro al quale ne lasciava metà, Augusto che ne ebbe
un quarto, Mecenate cui ne toccò la dodicesima parte, e due
letterati amici suoi, Lucio Vario e Plozio Tucca, che ricevettero il
resto387. Così il dolce poeta delle Georgiche e delle Egloghe
aveva reclinato il capo per sempre sulla opera sua non compiuta,
lasciando solo una faraggine tormentata di mirabili squarci ancora
slegati o mal connessi tra loro; senza aver potuto fondere insieme
le innumerevoli e diverse materie adoperate per comporre il poema:
il drammatico con il simbolico, la archeologia latina con la
mitologia greca, la filosofia con la leggenda, la storia con la
poesia. Le figure secondarie, come Didone e Turno, sono vive ed
umane; ma Enea è un pio automa, i cui fili tengono e muovono
gli dèi; quegli dèi che a loro volta non hanno
più la umanità per cui vive e si agita l’Olimpo di
Omero e non sono ancora i simboli astratti delle religioni
metafisiche. Se la descrizione dell’incendio di Troia è
stupenda, per movimento e per colore, il poema manca di spirito
epico, perchè tutto vi è prestabilito. Enea, il pio
fantoccio, vince senza far nulla, biascicando orazioni; e Turno,
nonostante il suo ardore, il suo valore, il suo furore, è
vinto, perchè così è necessario ai fati
d’Italia. Anche l’umana avventura di Didone e di Enea è
repentinamente troncata dalle necessità filosofiche della
storia; le quali fanno partire Enea come lo hanno fatto arrivare e
innamorarsi, automaticamente, per giustificare la futura guerra di
Roma e di Cartagine. La descrizione del Lazio primitivo ha una
freschezza e una dolcezza quasi musicali; ma è male
incorniciata nella macchinosa struttura di un poema di guerre, che
troppo letterariamente imita l’Iliade, pieno di battaglie
sommariamente e perciò poco chiaramente descritte. Si sente
che Virgilio non ne ha mai vedute, che ricalca descrizioni altrui,
che raccoglie qua e là dei particolari pittoreschi senza
unirli in un insieme vivente. Gigantesco, più grande assai
che quello dell’Iliade, era il disegno del poema, come gigantesche e
più grandi che le greche furono tutte le opere civili e
politiche di Roma: non un piccolo dramma umano, come la rissa di
Agamennone e di Achille; ma tutta la filosofia della lunga storia di
un grande popolo rappresentata drammaticamente; ma la visione
crepuscolare della città santa che domina il mondo,
ricomposta raccogliendo in ogni parte i più venerabili ruderi
liturgici dell’antica religione morente, e animata da un soffio
epico. Se l’esecuzione fosse stata pari all’idea, Virgilio avrebbe
composto il capolavoro della letteratura universale, lasciandosi
addietro Omero di un lungo tratto e superando Dante, quanto Roma ai
tempi di Augusto era più grande di Firenze al principio del
XIV secolo. Invece anche questa, come tutte le opere di Roma,
più grandiosa per disegno, fu solo abbozzata, non perfetta e
finita come le greche. Virgilio lo riconobbe per primo; e aveva
ingiunto a Vario e a Tucca di bruciare il manoscritto388 non
presentendo in che modo l’opera sua si sarebbe trasfigurata con i
secoli nella imaginazione degli uomini; in quale profetico chiarore
di aurora trapasserebbe a poco a poco, come nelle notti estive delle
regioni iperboree, la luce crepuscolare della città santa,
che egli aveva veduta guardando il passato. I dieci milioni di
sesterzi dati al poeta dalla aristocrazia politica di Roma erano
perduti: l’Italia non avrebbe il grande poema nazionale, atteso da
tanto tempo, con tanta impazienza.
Felice lui, del resto, che moriva in pieno favore popolare, sotto lo
sguardo tenero dell’Italia innamorata di lui e da lui aspettante da
troppo tempo, con troppa fede, un capolavoro, per non trovar piena
di sublime bellezza, qualunque fosse, l’opera che egli lasciava. Dei
difetti si accuserebbe la fortuna, che aveva mozzato all’artefice il
tempo. Orazio invece, irritato e scoraggito dalla poco lieta
accoglienza fatta alle Odi, intimorito dai rimproveri del partito
puritano, si era messo anche egli a studiare filosofia morale,
accennando ad unirsi alla comitiva di quanti volevano rifare i
costumi del tempo; era ritornato, con mente più matura, con
animo più pacato, con più fina e profonda ironia, al
genere satirico; e si era dato a scrivere in pulitissimi esametri
delle lettere in cui, prendendo ogni volta le mosse da qualche
accidente giornaliero, si aggirava con la lanterna del filosofo tra
i vizi, le menzogne, le contradizioni dell’età sua: ci si
aggirava vagando, al solito, qua e là un po’ a caso, come le
impressioni delle cose, i suggerimenti dell’animo, le letture lo
sospingevano, senza seguire l’itinerario prestabilito da alcuna
dottrina:
Ac ne forte roges, quo me duce, quo Lare tuter:
Nullius addictus
iurare in verba magistri
Quo me cumque rapit tempestas, deferor
hospes.389
Ma per quanto, probabilmente, queste lettere morali fossero scritte
per riconciliarsi un poco il pubblico romano, la natura era
più forte dei propositi: onde anche in queste divagazioni
satiriche e filosofiche, come in quelle liriche degli anni
precedenti, veniva fatto ad Orazio di contrariare a ogni istante le
inclinazioni popolari. I tempi erano bizzarri: e nessuna cosa in
quelli sortiva più l’effetto ragionevolmente previsto.
Augusto aveva immaginato di uscir di Roma a compiere l’accordo con i
Parti, per trarsi fuori in parte dalle difficoltà interne; ed
ecco che l’accordo compiuto lo riconduceva come prima, anzi
più di prima, nel folto di quelle difficoltà. Punto
scoraggito dalla sua entrata furtiva in Roma, il Senato si era
affrettato ad esprimere in un altro modo anche più
significativo l’impazienza con cui l’Italia lo aveva atteso:
dichiarando festivo il dì del ritorno, che era il 12 Ottobre,
istituendo per quel giorno la nuova solennità delle
Augustalia, deliberando di erigere un altare alla Fortuna del
ritorno a porta Capena, presso il tempio dell’Onore e del Valore; e
ordinando ai pontefici e alle vestali di fare un sacrificio ogni
anno il 12 Ottobre su quell’ara390. E purtroppo il Senato non aveva
esagerato, per adulazione, il sentimento del pubblico; perchè
questo da lungo tempo smaniava di mostrare ad Augusto la sua
ammirazione per le cose da lui compiute in Oriente al solito modo,
incaricandolo di una nuova missione ancora più grave: la
riforma dei costumi. Gli ultimi scandali avevano esasperato a tal
segno il movimento puritano e tradizionalista, che tutti ormai, chi
per una ragione e chi per un’altra, volevano una qualche riforma
sociale di sicura, infallibile efficacia. Irritato dalla lunga lotta
per la candidatura di Egnazio Rufo, imbaldanzito dal favore pubblico
e dal trionfo finale, il partito della nobiltà osava alla
fine domandare apertamente quello che per tanti anni aveva
desiderato in segreto: la epurazione del Senato; la cacciata degli
intrusi della rivoluzione; la restaurazione di una costituzione se
non interamente aristocratica, timocratica almeno, basata
cioè sul privilegio del censo; la esclusione dalle
magistrature di chi non avesse una certa ricchezza. Le classi medie,
la parte migliore dell’ordine equestre, gli intellettuali, sempre
più inacerbiti dalla loro scontentezza generica, sempre
più smaniosi di perfezioni impossibili, volevano pure,
sebbene per altri motivi, questa cacciata; e senza badar che
distruggevano essi stessi la strada per cui entrar nel Senato,
gridavano che ci voleva un piccolo Senato composto di persone
eccellentissime, e non un ingombrante Senato come quello di allora,
composto di forse 8 o 900 membri: ma domandavano anche, e questa
volta con voce più alta e imperiosa, quelle tali leggi che
costringerebbero i ricchi a vivere con la modestia e la virtù
a cui essi erano costretti dalla povertà; che reprimerebbero
i disordini delle famiglie i quali erano la cagione del maggior
scandalo e della più fiera esecrazione universale. Un uomo,
un uomo zelante del pubblico bene che ritrovasse la Pudicizia,
fuggita nessun sapeva dove, dalla vista degli orrori della
metropoli; che la riconducesse solennemente in Roma a vigilare sui
focolari: questo da ogni parte invocava l’Italia. E chi poteva esser
quell’uomo, se non Augusto? Onde non appena giunto, Augusto fu
attorniato, assediato, quasi soffocato da una ressa di postulanti e
di ammiratori, che volevano fargli salvare in un modo o nell’altro
Roma, l’Italia, l’impero, il mondo; prima della fine dell’anno fu
proposto di nominarlo praefectus morum con potestà di
censore391;deputazioni venivano di continuo a ripetergli il
ritornello: Roma e l’Italia essere stanche del presente disordine;
correggesse adunque a suo piacimento tutti gli abusi; proponesse
quante leggi giudicasse opportune; facesse lui insomma e ripulisse
l’immane sentina del mondo392. La grave questione occupava talmente
lo spirito pubblico, che Livio, giunto a scrivere la storia
dell’anno 195 in cui fu deliberata l’abolizione della legge Oppia
contro il lusso delle donne, credè di dover riassumere
lungamente la discussione, il discorso di Catone, la risposta degli
avversari, introducendo probabilmente in quelle non pochi degli
argomenti che si portavano pro e contro la legislazione dei
costumi393. Ma la corrente popolare per queste leggi era ormai
così forte, che nessuna persona autorevole osava più
contrastarle, tranne uno solo, Orazio naturalmente, che, condannato
ormai a pensarla in ogni argomento diversamente dai suoi
concittadini, spargeva a piene mani nelle sue lettere le ironiche
confutazioni del movimento puritano, che voleva rigenerare il mondo
con le leggi, quando invece la virtù e il vizio sono cose
interne, atteggiamenti diversi del sentimento e del pensiero. Se gli
uomini non imparano sin da fanciulli a discernere il bene dal male e
a frenare le passioni viziose; se sono dominati dalla smania dei
piaceri, degli onori, delle ricchezze; se ascoltano quello che dice
Janus summus ab imo – la Borsa, diremmo noi:
O cives, cives, quaerenda pecunia primum est;
Virtus post nummos;394
se prendono per misura della dignità il censo necessario a
coprire le cariche, la virtù non sarà mai che una
inutile chimera. “Volete sapere – dice egli – perchè io non
vo d’accordo in nessuna cosa con i miei concittadini? E con chi
potrei andare d’accordo? Gli uni non badano che a far quattrini; gli
altri che a sfoggiare e a sfogare i capricci: ville, pranzi,
viaggi....395” L’essenza della morale è la rigorosa
educazione della mente e del cuore, la vigile introspezione dei
propri pensieri e dei propri sentimenti396. Persino l’Iliade e
l’Odissea gli paiono un insuperabile manuale di etica pratica, che
alle classi alte, le quali pretendono emendare i vizi degli altri,
ricorda mirabilmente in mille modi i vizi propri. Altro che leggi di
riforma! In un meraviglioso verso immortale Orazio condensa la
filosofia eterna ed universale della politica e dello Stato, a
nasconder la quale i potenti inventarono infinite menzogne, e tutta
la ipocrita morale convenzionale:
Quidquid delirant reges, plectuntur Achivi397
“I re le fanno e il popolo le sconta”. Anzi contro l’universale
inclinazione al vivere cittadinesco, al lusso, al piacere, Orazio si
compiace talora di opporre addirittura la sua semplicità, il
suo amore per la campagna, la sua indipendenza, quasi per rispondere
a quanti avevano in uggia la sua fiera singolarità di
giudizi, che essi dicevano le cose, mentre egli le faceva.
“Preferisco mangiar pane asciutto ma essere libero, che rimpinzarmi,
al servizio dei sacerdoti, di focacce di miele”398. “Chi vuol vivere
secondo natura, si edifichi la casa in campagna e non in
città399”. “È forse l’acqua, che sforza i tubi degli
acquedotti, più pura di quella che freme e mormora per il
declivio dei rii?400” Ed eccolo bisticciarsi con il suo fattore, che
vuol essere chiamato a servire a Roma, dove lo attirano i postriboli
e le taverne sempre aperte401. Anche i servi sono ormai trattenuti
in campagna a fatica; e si farnetica di rimandarci i liberi! Del
fastidio che gli procurava l’artificioso e convenzionale puritanismo
tradizionalista allora in voga, Orazio si vendica additando sul
proprio corpo ai suoi contemporanei, che non parevano vederli, i
segni di tutte le malattie delle civiltà corrotte:
l’universale rovello per guadagnar denaro402, la sfrenata
vanità403, l’amore del lusso e del piacere, quella
irrequietezza sconclusionata, che è in tutte le
civiltà l’effetto della soverchia ricchezza e sicurezza; che
noi diciamo nervosismo, e che Orazio definisce strenua inertia404, o
inerzia agitata. Perchè i ricchi non sono mai contenti, e
mutano di voglia ogni giorno, e appena ottengono quel che avevano
più vivamente desiderato subito se ne annoiano; e sempre
giudicano stupendo e vogliono ciò che non hanno?405 Ma che
dire dei ricchi? anche i poveri sono ormai presi da questo morbo:
Quid pauper? Ride: mutat cenacula, lectos,
Balnea, tonsores,
conducto navigio aeque
Nauseat ac locuples, quem ducit priva
triremis406.
Eppure la infelicità e la felicità – osserva a ragione
il poeta filosofo – scaturiscono dalla fonte interna dell’anima, non
dalle cose esteriori; e scioccamente gli uomini, che non la
conoscono, si immaginano di poter correre dietro alla
felicità in una nave a vele spiegate o in una carrozza al
galoppo407: in automobile, avrebbe detto se avesse scritto oggi.
Più audacemente egli giunge infine una volta a dire, in mezzo
a tanta gente che da mattina a sera invocava il rispetto delle
leggi, esser cosa da poco e spregevole quella bella virtù che
consiste nel rispettare i senatusconsulti, le leggi, il diritto
civile. Ma quante male azioni – egli dice – si possono commettere
anche rispettando queste leggi! Il pubblico ha in conto di uomo
dabbene chi debitamente sacrifica agli dèi il porco o il bue;
anche se poi sottovoce domanda a Laverna, la dea dei ladri, di poter
impunemente rubare e truffare, pur essendo giudicato un
sant’uomo408. Era difficile dire più apertamente che il
puritanismo del suo tempo gli pareva esser soltanto una forma
più raffinata di furfanteria.
Ma Orazio era un solitario poeta che campava di rendita; mentre
Augusto era il padrone del mondo. Il primo poteva dunque pensare e
scrivere a modo suo in ogni cosa; e l’altro invece doveva servire le
masse. Le contradizioni delle cose, a cui lo spirito critico del
poeta si dilettava di muover guerra dal suo romitorio, per celebrare
il solitario e sterile trionfo del pensiero puro sulle necessarie
infermità della vita, si imponevano invece al capo
dell’impero, come forze mille volte più forti di lui.
Chimeriche o no, le aspirazioni puritane erano ormai così
intense e così universali, che l’eluderle si faceva
difficile: tanto più difficile, anzi, perchè in quei
nove anni, se Augusto aveva fatto molto per la plebe di Roma e per
l’aristocrazia, non aveva dato alle classi medie, le quali ora
volevano quelle leggi, che la platonica soddisfazione dell’accordo
con i Parti e la riparazione, che procedeva con grande lentezza,
delle vie della penisola. Inoltre Augusto non poteva giudicare
quelle aspirazioni così chimeriche e vane, come Orazio. Se il
nuovo puritanismo era in parte alimentato dagli interessi, in parte
inasprito da antiche invidie, derivava pure in parte dalla
tradizione e da un più sano intendimento della vita, dei suoi
doveri e dei suoi fini, che le tentazioni della ricchezza
pervertivano meno nelle città ancora modeste dell’Italia,
come Caio Gracco aveva divinato. Molte leggi, simili a quelle allora
richieste, erano state proposte ed imposte nei secoli precedenti:
prova che parecchie generazioni avevano loro attribuita una qualche
efficacia nel rallentare almeno i progressi della corruzione dei
costumi. Perchè quelle leggi non avrebbero ritenuta anche nei
tempi nuovi la loro secolare virtù? L’esempio degli antichi
doveva dar coraggio a un così fervido ammiratore della
tradizione. Augusto infatti se, pur non rifiutandola409, non si
servì della potestà censoria e della cura morum
così presto e così largamente, come l’impazienza
pubblica richiedeva, si risolvè almeno a ripigliare con
maggior lena gli studi delle leggi di riforma incominciati da tanto
tempo; e incaricò una Commissione di senatori410 di elaborare
innanzi tutto una legge contro il celibato. Ma non voleva precipitar
nessuna deliberazione in materia così grave: anzi, mentre con
questi studii preparatori teneva a bada l’impazienza del pubblico,
cercava di predisporre acconciamente ogni cosa, affinchè
quando non potesse più rimandarla, potesse almeno tentar la
riforma con minore fatica e pericolo. C’era vicina una occasione
propizia. Il 15 dicembre fu inaugurata l’ara della Fortuna del
ritorno; l’anno 19 finiva; incominciava il 18, l’ultimo della
decennale presidenza di Augusto. Alla fine dell’anno i poteri del
princeps scadrebbero; ma che egli potesse ritirarsi a vita privata,
nessuno voleva ammetterlo neppure per supposizione. La riforma dei
costumi non era fatica che potesse compiersi nello scorcio di un
anno. Senonchè Augusto, se parte per amore parte per forza,
era disposto a continuare il governo, non voleva però
sobbarcarsi di nuovo e solo a un carco così grave, che le
smodate aspirazioni pubbliche appesantivano ogni anno di più:
onde veniva immaginando un nuovo ordinamento della suprema
autorità, il terzo in dieci anni; associarsi Agrippa e
spartire con lui gli onori e le cure, i privilegi e le
responsabilità. Lo aveva perciò invitato a tornare
dalla Gallia dove aveva allora allora compiuti alcuni atti
importanti, di cui diremo tra breve; e mentre lo aspettava a Roma,
mentre discuteva con la commissione dei senatori le differenti
proposte che erano messe innanzi, salvava all’Italia il poema suo,
in cui tutte le aspirazioni nazionali erano state verseggiate
melodiosamente.... Per sua intercessione Vario e Tucca, gli
esecutori testamentari di Virgilio, osarono disobbedire al morto e
invece di ardere, si accinsero a riordinare il manoscritto
dell’Eneide. Singolare ironia delle cose! Mentre tutta l’Italia
smaniava perchè fosse restaurata la sacrosanta
autorità delle leggi, Augusto annullava rivoluzionariamente e
con il plauso universale la suprema volontà di un defunto,
che per i vecchi Romani aveva la forza di una legge inviolabile. Un
capolavoro letterario valeva, per questa generazione, un sacrilegio:
nobile prepotenza per uno Stato di alta e raffinata cultura; cattivo
principio, per una nazione che diceva di voler restaurare in
sè stessa la ferrea disciplina di un governo militare. Ma
Tito Livio aveva detto: nec vitia nostra nec remedia pati possumus.
A mano a mano che la sua commissione tentava di precisare nei
particolari la legge sul celibato, appariva chiaro che qualsiasi
riforma dovrebbe volgersi nel giro vizioso di una antinomia
inconciliabile. Fare una legge contro il celibato significava
sancire, più o meno apertamente, l’obbligo per tutti i
cittadini di contrarre matrimonio, come un secolo prima, quando il
male era agli inizii, aveva proposto Quinto Metello Macedonico in un
famoso discorso de prole augenda. Senonchè era chiaro che per
imporre, come in antico, il matrimonio come un dovere, sarebbe stato
necessario ridare al padre i diritti sulla moglie, sui figli, sui
beni, che in antico corrispondevano a quel dovere; restringere tutte
le libertà in cui l’antico monarcato familiare si era a poco
a poco sfasciato; togliere sopratutto di mezzo, quanto più si
potesse, quella che tutti riconoscevano a ragione essere stata la
cagione principale della dissoluzione dell’antica famiglia: il
feminismo, la progressiva emancipazione della donna, che stava per
compiersi in una libertà intera. Ma Augusto, sebbene fosse,
diremmo adesso, un avversario del feminismo, non intendeva avviare
la riforma per questi troppo aspri sentieri e tentar di restringere
alcuna delle libertà in cui l’antica famiglia si era
sfasciata. Da troppo tempo le alte classi usavano ed abusavano di
queste libertà; troppo inveterate abitudini, troppi interessi
erano ormai in esse implicati. Si ricascava in una nuova
contradizione: lo Stato, disfatto esso stesso dal dissolvimento
della famiglia, avrebbe dovuto accingersi a rifar la famiglia!
Augusto preferiva perciò studiare se con qualche stimolo
artificiale si potrebbe sollecitare l’egoismo dei cittadini ad
affrontare il matrimonio anche in quel regime di pericolosa
libertà; ma il compito era arduo; e i mesi passavano; e non
si giungeva mai al punto di conchiudere. Per fortuna alla fine
giunse a Roma Agrippa; e dopochè Augusto ebbe a suo fianco
l’energico amico, il governo si mosse con più spedito vigore.
Fu definito innanzi tutto nei suoi particolari il nuovo ordinamento
del supremo potere. Ad Augusto si prolungherebbero per 5 anni tutti
i suoi poteri e la cura morum: e si darebbe a lui per collega
Agrippa, con poteri eguali ai suoi: e cioè con la
potestà tribunizia, l’alta sorveglianza sulle provincie, il
potere di emettere editti, e forse anche la cura morum. Gli storici
moderni, ipnotizzati dal preconcetto delle mire monarchiche di
Augusto, non hanno inteso nè l’importanza nè il
significato di questo atto con il quale Augusto – tanto poco egli
mirava a fondare una monarchia e una dinastia! – dopo essere stato
per dieci anni solo a capo del governo, introduceva di nuovo nella
nuova carica suprema, ancora così incerta, uno dei principii
più antichi e più universali delle magistrature
repubblicane, la collegialità, anche a rischio di rompere
nuovamente la unità dello Stato, ricostituita con
l’autorità del princeps unico. Insomma come per tanti secoli
la repubblica aveva avuto a capo due consoli annuali, ora avrebbe,
sopra i consoli, due principes, scelti per cinque anni411. E allora
finalmente, quando il Senato e il popolo ebbero approvato questo
nuovo ordinamento del potere supremo e prolungato ad Augusto per il
quinquennio seguente “la cura morum”, Augusto, rinforzato da
Agrippa, si risolvè a tentare la epurazione del Senato. Ma
con quanta prudenza! Augusto pensava che, per purificare il Senato,
sarebbe stato necessario ridurre il numero dei senatori a non
più di 300412: ma per non offendere troppe persone,
deliberò prudentemente di accogliere nel nuovo Senato almeno
seicento membri, restringendosi a lasciar fuori proprio gli
scadentissimi: anzi neppur questa volta volle assumersi l’odio delle
necessarie esclusioni; e immaginò un curioso modo di scelta,
che potrebbe definirsi la cooptazione girante o il vaglio automatico
dei senatori, per cui i due o trecento destinati alla esclusione si
troverebbero un bel giorno fuori del Senato, quasi senza
accorgersene, e sopratutto senza poter imputare ad alcuno la propria
disgrazia. Dopo aver solennemente giurato di non avere altra cosa in
mente che il bene pubblico nel compiere quello a cui si accingeva,
Augusto sceglierebbe a far parte del Senato i trenta cittadini che
egli giudicasse i più degni; questi, dopo aver prestato un
eguale giuramento, presenterebbero ciascuno una lista di cinque – i
più degni a loro giudizio; e da ognuna di queste liste si
trarrebbe a sorte un nome. I trenta indicati così dalla
scelta dei loro colleghi e dalla sorte, raggiungerebbero in Senato i
trenta designati da Augusto e dovrebbero a loro volta compilare
ciascuno la lista dei cinque preferiti, tra i quali si procederebbe
al sorteggio, come sulla lista dei precedenti. E così via,
per venti volte, sino a integrare il numero di seicento. A questo
modo nessuno sarebbe stato escluso da nessuno; e i radiati non
potrebbero imprecare che contro la sorte. Tra le tante ingegnose
pensate di questo abilissimo politicante, nessuna forse fu
più ingegnosa. Senonchè questa era anzi troppo
ingegnosa; e, come spesso avviene, per essere troppo ingegnosa,
fallì. Quanti avevano ragione di temere che non passerebbero
per i fori del vaglio, non restarono con le mani in mano: appena
Augusto ebbe annunciato in che modo procederebbe alla scelta, gli
uomini più eminenti furono sollecitati, pregati, supplicali
di ricordarsi di loro dai colleghi più oscuri; infastiditi,
molti imitarono quel che faceva Augusto nelle congiunture difficili,
se ne andarono di Roma; cosicchè, appena cominciati, gli
scrutinii furono rallentati da una prima difficoltà, e
cioè che parecchi tra gli scelti non erano in Roma e quindi
non potevano compilare la loro lista. Ci si rimediò,
lì per lì, sorteggiando per ogni assente tra i
senatori già scelti uno che ne facesse le veci; ma se per
questo ripiego le operazioni poterono continuare alla meglio, sia
pur più lentamente che non si fosse pensato nei primi giorni,
quando si dovevano vagliare i nomi più illustri, che non si
potevano escludere, le difficoltà, gli intoppi, le lentezze
crebbero, quando si scese verso la folla oscura, tra la quale era
nel tempo stesso necessario e difficilissimo scegliere. Infinite
cabale furono ordite dagli oscuri soldati della rivoluzione, che si
vedevano spogliati dell’agognatissimo onore arraffato a rischio
della vita; si giunse perfino ad aprir gli occhi alla cieca sorte
con dei brogli e dei falsi. Augusto, irritato e disgustato, per un
momento pensò di fare una serrata e restringere il numero dei
senatori ai primi 300 designati – che erano certo i migliori: poi
prese un partito medio e integrò egli il numero dei seicento
senatori, scegliendo quelli che gli parvero migliori o meno
scadenti413.
Ma Augusto non si ingannava, giudicando che l’epurazione del Senato
gli sarebbe cagione di infiniti fastidi. Quasi tutti gli esclusi
protestarono, reclamarono, supplicarono, per indurlo ciascuno a
considerare il caso suo, che, naturalmente, era diverso da tutti gli
altri; e ognuno aveva qualche amico autorevole, il quale patrocinava
la sua causa. Pur essendo tutti in teoria favorevoli a una vigorosa
epurazione, quando poi dai discorsi si passava ai fatti ciascuno
voleva aiutare i propri amici; e tutti avevano una certa ragione,
perchè molti inclusi non valevano più degli esclusi.
Augusto si trovò tra Scilla e Cariddi. Chiudendo le orecchie
a tante preghiere, irriterebbe troppe persone; accondiscendendo
soverchiamente, irriterebbe il partito aristocratico, che non voleva
veder rientrar nella Curia alla chetichella ed alla spicciolata
coloro che aveva scacciati in massa e così clamorosamente.
Egli riparò subito qualche ingiustizia più grave;
cercò di rabbonire con promesse gli altri, esortandoli ad
aver pazienza, ad aspettare414. Si vedrebbe con il tempo! Ma la
prima prova non incoraggiava a tentare altre riforme. Anzi non
tardarono a piovere da tutte le parti le denuncie e le accuse di
congiure, che sarebbero state ordite per uccidere Augusto; dei
processi furono discussi415; e serie o immaginarie che fossero le
accuse, persuasero Augusto a stare all’erta416, non volesse per caso
qualcuno ricompensarlo delle sue fatiche, mandandolo innanzi tempo a
raggiungere Cesare nell’Olimpo dei Numi e per la medesima via.
Ciò non ostante, compiuta la epurazione del Senato, Augusto
si accinse a dare una soddisfazione maggiore al partito puritano, a
quanti erano o si professavano fedeli alla tradizione:
presentò ai comizi come tribuno della plebe la tanto studiata
legge contro il celibato chiamandola, lex Julia de maritandis
ordinibus417. Questa legge era una ingegnosa ma artificiosissima
transazione tra le tradizioni storiche e le necessità
presenti, tra l’antico ideale della famiglia e i vizi, gli egoismi,
gli interessi dei contemporanei: e procedeva perciò per
continue contradizioni, distruggendo in una parte quello che aveva
fatto nell’altra, e continuamente adoperando per ricostituire la
tradizione dei mezzi che dovevano accelerarne la definitiva rovina.
Dopo aver sancito l’obbligo del matrimonio per tutti i cittadini418,
che non avessero, se uomini, passati i sessanta anni, se donne i
cinquanta419, la legge risolveva con una transazione ardita ma
rivoluzionaria, la grave questione delle unioni tra i liberi e le
liberte. Questi concubinati erano frequenti in Roma e in Italia,
specialmente nel ceto medio, sia per le ragioni che abbiamo
già dette, sia perchè a Roma i cittadini maschi
essendo molto più numerosi che le donne, tutti non potevano,
neppur volendo, scegliersi tra quelle una sposa420. Sollecito di
accrescere il numero dei matrimonii, Augusto doveva quindi inclinare
a riconoscere e a incoraggiare queste unioni, che, come il fatto
dimostrava, molti cittadini giudicavano a loro più
convenienti che le iustae nuptiae, se in quelle generavano dei
figli: ma i puritani e i tradizionalisti le odiavano, parte per
aristocratica fierezza di casta, parte, quelli che avevano figlie da
marito, per interesse, lamentando che plebei, cavalieri, senatori
perfino, vivessero con liberte in concubinaggio, quando tanti onesti
cittadini dovevano tenersi in casa, zittelle, le virtuose figliole,
perchè non potevano dare loro le ricche doti, senza cui ormai
nessuno voleva più togliersi in casa una sposa. Tra la
tradizione e la necessità, Augusto immaginò questa
transazione: proibì di sposare delle liberte, e cioè
di averne dei figli legittimi, soltanto ai senatori, ai loro figli,
alle loro figlie, ai loro nipoti e pronipoti – maschi e femmine –
nati dalla loro discendenza maschile421; lo permise invece a tutti
gli altri cittadini422. Nessuno degli uomini che in Senato
impersonerebbero la potenza di Roma, che l’eserciterebbero nelle
provincie, che comanderebbero le legioni, doveva avere per madre
qualche leggiadra danzatrice siriaca o qualche graziosa serva ebrea,
ma soltanto una matrona romana di pura stirpe libera e latina,
affinchè in essi si conservasse integro e forte il senso
della tradizione: negli altri invece si tollerava per
necessità quella mistione di ceti, in cui nei secoli seguenti
si diluirà sino a perdersi il puro romanesimo antico. Si
costituivano così nel mondo muliebre due ordini che avrebbero
una capacità nuziale diversa: le ingenuae honestae,
l’aristocrazia del matrimonio, che, possedendo la piena
degnità morale, non potevano essere che mogli legittime; le
libertae, il ceto medio, del matrimonio, che potevano essere, a
scelta dell’uomo, mogli legittime o concubine. A questi due ordini,
precisando vecchie consuetudini, e compiendo quell’alta concezione
romana che faceva dipendere la legittimità del matrimonio non
da alcune formalità legali più o meno simboliche, ma
da una certa condizione di degnità morale delle donne e dal
libero consentimento degli sposi, Augusto proponeva di aggiungere un
terzo ordine, la plebe del matrimonio, composta delle donne che, non
possedendo degnità morale, non potevano essere mogli
legittime ma soltanto concubine: le prostitute, le mezzane, le
liberte delle mezzane, le adultere e le attrici423. Tripartito
così il sesso femminile, la legge passava ad affrontare la
difficoltà maggiore, a ricercare i mezzi con cui, imposto il
dovere del matrimonio, si sarebbero costretti o indotti gli uomini a
compierlo. Noi abbiamo già detto che Augusto non voleva
restringere la libertà e l’autonomia della famiglia. Egli
aveva perciò preferito immaginare un ingegnoso sistema di
contrappesi da applicare all’egoismo celibatario: dei premi che
bilanciassero per gli uomini e per le donne i pericoli e i crucci
del matrimonio; delle pene che, tormentandolo, annullassero le
troppe comodità personali del celibato. Senonchè in
quanti contorcimenti strani aveva dovuto piegare e ripiegare la sua
legge, in quante contradizioni implicarla, a quanti espedienti
rivoluzionari audacemente sospingerla, per fare l’ineffettuabile:
per imporre l’ideale civico di una aristocrazia senatoria e
militare, combinando artificialmente gli egoismi di un tempo,
invincibilmente proclive alla eguaglianza democratica,
all’utilitarismo mercantile e pacifico! Non esitò Augusto a
fare scempio di tradizioni antiche e venerate; come di quella per
cui le seconde nozze erano state sempre mal viste a Roma, quasi come
un adulterio postumo. La legge nuova obbligava brutalmente le vedove
e le divorziate a ricevere un nuovo marito nel letto ancor caldo del
predecessore: entro un anno le vedove, entro sei mesi le
divorziate424. Sembra poi che Augusto proponesse di diminuire gli
impedimenti della affinità, proibendo le nozze soltanto tra
matrigna e figliastro, tra figliastra e patrigno, tra suocero e
nuora, tra suocera e genero, là dove insomma fosse un
rapporto che adombrava la paternità425. Più
audacemente poi spinse egli la legge a intervenire nei testamenti e
nei rapporti familiari, in un campo cioè i cui confini la
legge aveva sino allora rispettati quasi con scrupolo religioso:
proponendo che ogni erede o legatario fosse sciolto dall’obbligo del
celibato e della vedovanza, se il testatore avesse posta tal
condizione426; che se un padre o un tutore rifiutassero il consenso
al matrimonio o la dote, il figlio o la figlia, il pupillo o la
pupilla avessero il diritto di ricorrere al pretore, affinchè
valutasse i motivi del rifiuto e trovandoli ingiusti obbligasse il
padre o il tutore a dare il consenso o la dote427. Nè i premi
proposti al matrimonio turbavano meno di queste disposizioni
l’antico diritto pubblico o privato. Ce ne erano molti, e
differenti, come è naturale, per i due sessi e per i vari
ordini sociali. A favore dei senatori che avevano moglie e figli la
legge sanciva parecchi privilegi dei quali tre ci sono noti: che dei
consoli avesse il diritto di assumer primo i fasci quello che aveva
più figli, o che aveva figli o che aveva moglie se l’altro
era orbus (ammogliato senza prole) o celibe428; che i maritati e i
padri di famiglia avessero certi vantaggi – non possiamo precisar
quali – nella surrogazione dei magistrati morti in carica429 e nella
spartizione delle Provincie430; che ogni cittadino potesse domandare
le magistrature tanti anni prima del tempo legale, quanti figli
aveva431. Con questa disposizione, Augusto non incoraggiava soltanto
il matrimonio, ma trovava un altro modo di svecchiare lo Stato. Nel
campo del diritto privato non solo la lex Julia fregiava la
maternità tre volte feconda con una specie di decorazione, il
diritto di portare la stola; ma la coronava con la eguaglianza
civile, liberando la donna dagli ultimi resti di tutela432: bella
riforma che affrettava la piena emancipazione della donna, ma che
doveva far tanto più paurosa agli uomini la paternità,
quanto alla maternità invogliava le donne. Se le donne erano
dalla legge spinte a desiderare figliuoli, molti mariti dovevano
temere il giorno in cui, avendo generati tre fanciulli, essi non
avrebbero più alcun potere legale sulla loro compagna! A
favore infine dei liberti la legge sanciva dei privilegi che
indebolivano singolarmente quella autorità padronale che
Augusto cercava di ristabihre con l’esempio nel costume. Autorizzava
il liberto e la liberta, che avessero ricevuta la libertà a
condizione di non maritarsi – come i padroni facevano di sovente per
assicurarsi l’eredità – a contrarre matrimonio433; esentava i
liberti che avessero due o più figli dall’obbligo delle
operae, dei dona, dei munera434, e quelli che avessero avuto in
tempi differenti due figli sotto la patria potestà o ne
avessero uno solo di cinque anni, dall’obbligo delle operae435,
annullando quindi i diritti economici più importanti del
patronato. Escludeva però da questo privilegio i liberti che
facessero i commedianti o i gladiatori436. La liberta invece era
dispensata dall’obbligo delle operae quando era sposata con il
consenso del padrone437. Toglieva infine alla moglie del liberto la
facoltà di far divorzio, senza il consenso del marito438. Ma
dopo il miele, l’aceto. Benigna con chi avesse adempiuti i doveri
verso la specie, la legge si sforzava di tormentare la comoda
solitudine degli scapoli con molte pene; delle quali due sono note a
noi con precisione. La prima, grave in un tempo in cui divertimenti
e spettacoli erano un servizio di Stato, escludeva dalle feste e
dagli spettacoli pubblici gli scapoli439. Non volevano, gli egoisti,
incorrere in crucci per il bene dello Stato? E lo Stato ricuserebbe
di divertirli! Infine la legge proponeva di togliere ai celibi la
facoltà di ricevere per testamento un legato da ogni persona
che non fosse parente in sesto grado, lasciando in ogni altra parte
valere il testamento440: grave proposta, la quale rovesciava uno dei
principii fondamentali dell’antico diritto, facendo modificare dalla
legge, per ragioni di pubblico interesse, le volontà dei
defunti; e perchè, togliendo ai celibi le eredità
degli estranei, toglieva un mezzo ormai consueto e universale nelle
classi ricche per accrescere il patrimonio e per attenuare la
disparità delle fortune.
Questa artificiosissima legge violava tanti principii di diritto
secolari, che non poteva non esser l’oggetto di aspre critiche da
parte dei giuristi più fedeli alla tradizione. Il Senato
romano non era ancora una corte di servi; e in quello Antistio
Labeone, il più insigne rappresentante del tradizionalismo
nel giure, biasimò aspramente lo spirito rivoluzionario di
una legislazione che, dicendo di restaurare la tradizione, si
intrometteva così brutalmente tra il patrono e il liberto,
tra il testatore e l’erede, tra il padre ed il figlio441. Ma se
questi argomenti, prettamente giuridici, potevano poco sul pubblico
che voleva le leggi, più gravi obiezioni mosse il partito
puritano: e cioè, che la legge non curava il male dalla
radice, anzi adoperava rimedi pericolosi, che potevano aggravarlo;
tali, per esempio, le disposizioni, che emancipavano interamente la
donna. Gli uomini giustificavano la universale inclinazione al
celibato con la crescente indipendenza della donna, che ne aveva
tanto aizzata l’imperiosa natura, le voglie smodate, il frivolo
egoismo. Ed ora la legge invece di raffrenare, accresceva ancora
quelle libertà! Tuttavia ad Augusto non fu difficile di far
approvare la legge, prima dal Senato, come si faceva nei tempi aurei
dell’aristocrazia, e poi dal popolo442. Gli animi erano troppo
infatuati di queste leggi e troppo creduli alla loro meravigliosa
bontà, perchè alcuno osasse opporsi con vigore; e la
legge, se minacciava guai lontani a non pochi, prometteva pure
pronti beneficî a molti: legittimava le convivenze con le
liberte; migliorava la condizione di non pochi schiavi liberati;
attribuiva privilegi e faceva nascere speranze in quanti avevano
già figli; aveva infine con sè tutti i maritati ed i
padri. Questi si imposero, con il favore del momento, agli scapoli.
Quindi non ci fu seria opposizione, ma anzi un consentimento
universale, che quella legge sola non bastava, che ce ne volevano
altre, più fondamentali ancora, le quali strappassero la
radice del male. Incoraggiato dalla facile approvazione di questa
legge, il partito tradizionalista sùbito iniziò una
agitazione per domandare una legge, la quale ristabilisse l’ordine
nella famiglia. A che valeva crear con la lex de maritandis
ordinibus tante famiglie, se ognuna di queste diventasse poi una
serpaia orrenda di adulterii, di libidini, di discordie, di
vergogne? Quale uomo serio e dabbene avrebbe acconsentito a fondare
una famiglia, se in quella poi non avesse potuto nè
costringere i figli ad obbedirlo, nè infrenare la matta
prodigalità, il lusso capriccioso, la dissolutezza, il
puntiglio di disobbedire al marito per non parer donna da poco;
tutti i vizi insomma che in tante mogli fomentavano il matrimonio
libero, la universale scostumatezza, il parentado, gli amici, la
letteratura, la dote?443 E poichè la famiglia non aveva
più in sè la forza di mantenere l’ordine, occorreva
che i buoni mariti fossero aiutati dalle leggi. Leggi ci volevano:
che raffrenassero il lusso, che reprimessero la dissolutezza dei
giovani, che facessero dell’adulterio un delitto, punito dai codici
pubblici. Dei senatori trattarono la questione in Senato; accesero
vive discussioni; si rivolsero direttamente ad Augusto; misero
innanzi diverse proposte444.
Ma Augusto non era punto incline ad assecondare questa nuova
domanda445, a restringere la libertà della famiglia; per
molti motivi, tra cui non è improbabile ce ne fossero anche
di personali. Come supremo magistrato della repubblica, egli avrebbe
dovuto dar l’esempio di osservare queste leggi, se non voleva
meritare il biasimo del pubblico, sempre pronto a vituperare i
grandi. Ora Augusto non aveva paura della sua legge de maritandis
ordinibus. Egli era ammogliato e aveva una figlia; questa era
già al secondo marito, aveva un figlio di tre anni, Caio,
nato da Agrippa nel 20, e ne aveva allora allora partorito o stava
per partorirne un altro, Lucio; Tiberio aveva già sposato
Agrippina, la figlia di Agrippa e della sua prima moglie, che era
figlia di Attico446; a Druso, il secondo figlio di Livia, che allora
aveva 20 anni, si darebbe presto moglie. Invece una nuova legge
contro il lusso poteva essergli cagione di qualche noia. Non per
sè, tuttavia. Augusto viveva all’antica, conservando in mezzo
alle immense ricchezze che passavano, ogni anno, come un fiume
d’oro, attraverso la sua grande casa per spandersi poi per Roma,
l’Italia e l’impero in mille rivi e rigagnoli, la parsimoniosa
semplicità di quella borghesia italica, onde usciva: portava
sempre delle toghe fatte in casa, dalle sue ancelle, sotto la
vigilanza di Livia447; si faceva veder nella bottega del porporaio a
mercanteggiare le pezze, che dovevano servirgli per gli abiti di
cerimonia448; nel suo vasto ma non sontuoso palazzo, la sua camera
era arredata con una semplicità arcaica, che doveva un giorno
passare quasi in proverbio449; e nei pranzi che egli dava c’era
quella cortesia e quella signorilità che non si separano mai
dalla terza sorella, la semplicità: non più che tre
portate, di solito; e sei nelle occasioni solennissime450. Anche
Tiberio, in questo come in tante altre cose, si mostrava un
tradizionalista coerente. Ma Giulia, invece, mostrava altre
inclinazioni. Bella, intelligente, colta, gentile, fiorente di
giovinezza – aveva 22 anni – essa pareva nata ad essere una
principessa asiatica e non una matrona romana: amava la letteratura,
le arti, l’eleganza, il lusso, le grandi ville, i bei palazzi, le
vesti seriche, le comitive elette, le feste451: e l’autorità
del padre e del marito, l’esempio di tutta la famiglia potevano meno
su lei, a mano a mano che gli anni passavano. Era temerario sperare
che essa obbedirebbe facilmente ad una nuova legge suntuaria. Ma
più pericolosa ancora poteva sembrare una legge sui costumi e
sull’adulterio. Profonder milioni, affaticarsi in mille opere
diverse dall’alba al tramonto, sorridere a tutti, coprirsi il volto
con tutte le maschere, a volta a volta, sì: ma assumersi
anche l’ufficio di guardiano della pudicizia, con il suo passato,
no. Ad Augusto il compito doveva parer troppo grave. Nè solo
il passato, ma anche il presente lo spaventava, perchè la
bella facciata arcaica di pudicizia e di decoro, che la sua famiglia
presentava fuori al pubblico, era in parte almeno attaccaticcia e
posticcia. Vera o falsa che fosse la diceria, si diceva intanto per
Roma che Augusto se la intendesse troppo con Terenzia, la bellissima
moglie di Mecenate452. Agrippa viaggiava molto per affari di Stato e
durante le assenze di lui, Giulia praticava troppo liberamente con i
giovani belli e piacenti dell’aristocrazia, cosicchè Augusto
aveva dovuto qualche volta far delle rimostranze453; e già
forse vedeva troppo sovente e con troppo vivo piacere, un giovane di
grande famiglia, un Sempronio Gracco, discendente dei famosi
tribuni454. Tiberio e Agrippina soli facevano una coppia esemplare,
innamorata, appartata, di cui neppur le male lingue potevano dir
nulla455.
Resistè Augusto da prima; fece dei discorsi in Senato per
dimostrare che il marito ed il padre dovevano mantenere non con le
leggi, ma con la propria autorità e con la propria saggezza,
l’ordine nella famiglia, come nell’antico monarcato domestico;
giunse perfino una volta a citare anche l’esempio suo. Si
cercò allora dai puritani di metterlo nell’imbarazzo,
approfittando dei disordini che pur turbavano la sua famiglia. Un
giorno Augusto fu pregato di esporre al Senato come governava la sua
famiglia: ciò ch’egli fece, svolgendo in un lungo discorso il
suo pensiero sulla famiglia, e facendo della sua casa una
descrizione immaginaria, che nessuno osò naturalmente
dichiarar falsa. Si ricorse allora ad altri mezzi per intimorirlo:
si denunciò a lui, come a censore, un giovane che durante le
guerre civili aveva sposata una donna di cui era stato amante prima,
proprio come aveva fatto egli stesso con Livia, coprendolo per
questo misfatto delle più atroci ingiurie: velata minaccia,
di ritornare a frugare nel suo terribile passato, se egli non
accontentava il partito del rigore e del pudore456. E così
finalmente, aizzando l’opinione pubblica, sollecitando il Senato,
punzecchiando e copertamente minacciando Augusto, il partito
puritano riusci a vincere anche questo punto. Augusto alla fine si
risolvè a far compilare, senza dubbio da commissioni composte
di puritani arrabbiati, due nuove leggi: una legge suntuaria457 e la
famosa lex Julia de pudicitia et de coercendis adulteriis458. Della
prima, di cui indoviniamo facilmente Io spirito, noi conosciamo
soltanto alcune disposizioni: sappiamo che infrenava il lusso delle
costruzioni, così ripetutamente lamentato nelle Odi da
Orazio459; possiamo congetturare che, per le disposizioni sugli
adornamenti muliebri, moderasse l’uso della seta, il lascivo tessuto
che, al dire dei puritani, sotto pretesto di vestirle, denudava le
donne460; sappiamo che conteneva infine disposizioni sul dispendio
dei banchetti. Nei giorni comuni si poteva banchettare, spendendo
non più che 200 sesterzi (50 fr.); nelle Calende, nelle Idi e
nelle None e in alcuni altri giorni festivi, non più che 300
(75 fr.); nelle cerimonie nuziali, non più di 1000 (250
fr.)461. Alla maggioranza questa legge doveva piacere assai,
perchè senza tanti discorsi, spicciativamente, sparecchiava
sotto gli occhi di Roma i sontuosi festini con cui i Cresi della
metropoli facevano sfigurare i modesti desinari dei senatori, dei
cavalieri, dei plebei provvisti di scarsa fortuna; toglieva alle
ricche matrone le vesti e i gioielli che ingelosivano le signore
più povere; tentava di umiliare la mole sontuosa dei palazzi
costruiti e adornati dagli architetti e dagli artisti di
Alessandria, quasi a pari delle povere dimore latine dei più.
Gli ingenui speravano anche che il denaro risparmiato in questa
legge sarebbe speso ad allevare figlioli! La lex de adulteriis462
invece mirava non soltanto a punire l’adulterio, ma a purificare la
famiglia da tutte le frodi e le turpitudini che l’avevano inquinata
nei due secoli precedenti, usurpando per lo Stato un altro immenso
territorio d’autorità sull’antico e disfatto monarcato
domestico. La legge conservava al pater familias romano – ultimo
vestigio dell’antica autorità – il diritto di uccidere la
figlia e l’adultero subito dopo scoperta la colpa463; al marito
conservava il diritto di uccidere l’adultero, quando lo sorprendesse
in casa sua e fosse un commediante, o un cantante, o un danzatore, o
un condannato, o un liberto della famiglia464, non mai la moglie,
tranne l’avesse sorpresa nella sua casa. Scoperto l’adulterio, erano
accordati sessanta giorni al marito e se il marito non agiva, al
padre che fossero cittadini romani, per accusare l’adultera
cittadina romana ed il complice al pretore e alla quaestio465 o
giurì, che probabilmente fu istituita con la legge medesima.
Se il marito o il padre non accusavano, per quattro mesi, oltre i
sessanta giorni, qualunque persona poteva proporre l’accusa,
dichiarandosi i processi per adulterio judicia pubblica non meno che
i parricidi ed i falsi466. Le pene erano terribili: per l’adultero,
la relegazione a vita e la confisca di metà dei beni; per
l’adultera, la relegazione a vita, la perdita di metà della
dote, di un terzo della sostanza, l’incapacità nuziale, per
cui non poteva più vivere con un uomo se non come
concubina467. Tutti gli aiuti dati a commettere adulterio, come il
prestare la propria casa ai convegni degli amanti, o per il marito
il lucrare sulla impudicizia della moglie, il tenerla in casa dopo
averne scoperto l’adulterio, costituivano il reato di lenocinium ed
erano puniti come l’adulterio468. Infine erano vietati dalla legge e
puniti con le stesse pene che l’adulterio e il lenocinio, gli
stupra; con la qual parola si intendevano semplicemente le relazioni
illecite, che non si potevano supporre legittimate dalla maritalis
affectio, per il modo stesso con cui avvenivano, per es. per la
segretezza o per la saltuarietà, con una donna libera, di
onesta famiglia, di fama rispettabile, che fosse nubile o vedova469.
La moglie non poteva invece accusare d’adulterio il marito470, il
quale poteva impunemente avere pratica con donne che non fossero
maritate o ingenue o oneste, praticando le quali invece poteva esser
condannato, ma non per essere stato infedele alla propria sposa,
bensì per aver commesso o stuprum o adulterio con la moglie
di un altro.
Insomma il regime del terrore era istituito nel regno di Afrodite;
lo spirito di delazione e di calunnia, l’invidia della ricchezza, le
crudeli ambizioni dell’oratoria, le cupidigie e le perfidie del
ricatto, tutte le basse passioni motrici della accusa privata nel
mondo antico, dell’ignobile giornalismo diffamatorio nel mondo
moderno, erano lanciate da questa legge puritana, stormo di sucide
arpie, a devastare i voluttuosi giardini di Citera. Sarebbe
impossibile immaginare una legge di più fiera persecuzione
delle alte classi, che questa. Poichè questa legge, compilata
e promulgata soltanto per i cittadini romani, praticamente non
minaccerebbe se non la aristocrazia senatoria ed equestre, le cui
ricchezze e la cui rinomanza potevano invogliare gli accusatori
privati a correre il rischio dell’accusa471; cosicchè essa
stabilirebbe per la aristocrazia di Roma un privilegio a rovescio.
Mentre i liberti o gli stranieri, anche in Roma, anche se ricchi,
potrebbero, uomini e donne, commettere adulterio impunemente quante
volte volessero, avere pratica con quanti uomini o donne piacesse
loro, per amore o per lucro, i cittadini romani, specialmente
nell’ordine senatorio ed equestre, sarebbero esposti, uscendo dai
regni dell’Amore permesso, ai rigori terribili della lex Julia! Ma
la lex de adulteriis come la lex sumptuaria, come la lex de
maritandis ordinibus erano tre grandi e serii tentativi di
restaurazione aristocratica; e quindi dovevano accanto ai privilegi
sancire i doveri. Chi sogna un Augusto inteso a fondare con subdoli
accorgimenti la monarchia, non ha sviscerate o non ha intese queste
leggi, che furono uno dei fondamenti di tutta la opera sua. Con la
lex sumptuaria, con la lex de maritandis ordinibus e con la lex de
adulteriis Augusto non mirava nè solo nè precipuamente
ad aumentare la popolazione dell’Italia, che non è certo
decrescesse in ogni regione: egli mirava sopratutto a riordinare
economicamente e moralmente la famiglia aristocratica, l’antico
seminario della repubblica poi isterilitosi, l’antica scuola dei
generali e dei diplomatici, che avevano conquistato l’impero, a poco
a poco disfattasi. Se Augusto avesse voluto fondare una monarchia,
avrebbe dovuto incoraggiare il lusso, il profuso spendere, la
dissolutezza, il celibato della aristocrazia, non cercare di
raffrenarli; perchè la monarchia non poteva costituirsi che
sulle rovine di una aristocrazia, come quella dei tempi di Luigi
XIV, tramutata dal bisogno e dai piaceri in una torma servile di
cortigiani. Ma Augusto, il quale non poteva scegliere i suoi
collaboratori che nelle famiglie aristocratiche, aveva bisogno di
una aristocrazia vigorosa; e siccome voleva sul serio ricostituire a
Roma una grande aristocrazia, così cercava di imporre alla
nobiltà certi gravi e speciali doveri, senza i quali i suoi
privilegi sarebbero stati insopportabilmente iniqui. Vano tentativo,
senza dubbio, almeno in parte; perchè la dissoluzione
dell’aristocrazia romana continuò: ma sarebbe ben presuntuoso
chi volesse perciò affermare che il tentativo non fu fatto
sul serio; o chi volesse dire che fu interamente inutile. Noi non
sappiamo quello che sarebbe successo, se queste leggi non fossero
state approvate: se la dissoluzione non sarebbe stata più
rapida; se queste leggi non ritardarono almeno ciò che non
ebbero forza di impedire. Augusto infatti compiè queste con
altre leggi, che ne rischiarano singolarmente lo scopo e il
carattere. Non solo nella stessa lex de adulteriis Augusto
riformò il regime della dote, proibendo al marito, che sino
allora aveva avuto il diritto di farne quell’uso che voleva, di
venderla e di obbligarla, per consolidare quindi le fondamenta
economiche della famiglia nelle classi ricche472; ma dopo aver
stabiliti tanti privilegi a rovescio per l’aristocrazia,
rinforzò il privilegio vero ed essenziale, proponendo una
legge che restringeva il diritto di presentarsi candidato alle
magistrature a coloro i quali avessero un censo di almeno
400 000 sesterzi. Lo Stato chiudeva dinanzi alle folle oscure i
suoi cancelli, aperti da un secolo, scacciandone fuori i poveri; la
antica costituzione timocratica ed aristocratica era ristabilita; le
cariche delle repubbliche, a cui nella generazione precedente aveva
potuto concorrere un povero mulattiere come Ventidio, erano dalla
legge dichiarate privilegio delle classi censite; il governo
ricascava in potere di una aristocrazia discorde, scadente,
neghittosa sinchè si vuole, ma chiusa e legalmente
privilegiata. Eppure questa serrata, che terminava un secolo di
lotte immani, che poteva incominciare un nuovo ordine di cose, fu
deliberata placidamente, tra l’indifferenza universale,
cosicchè appena ce ne è pervenuta notizia, tra molti
fatterelli, in due righe scritte disattentamente da uno storico
tardivo!473 Ma il partito democratico, il grande partito di Caio
Gracco e di Caio Cesare, era ormai morto. Proponendo quella legge,
Augusto non uccideva neppure un moribondo; componeva nel sepolcro,
un cadavere. Roma ritornava, dopo un lungo turbamento, alle origini
sue di Stato aristocratico; rifaceva, per mano di Augusto, un codice
di doveri e di privilegi alla nobiltà, con cui essa avrebbe
potuto governare per secoli l’impero che aveva conquistato. Ne
sarebbe essa capace? L’avvenire lo dirà. Insieme con questa
legge è probabile Augusto ne proponesse un’altra sulla
corruzione elettorale, de ambitu, in cui si puniva con l’esclusione
dalle cariche per 5 anni chi avesse comprato i suffragi474. Infine
fu permesso ai pretori di spendere, se volevano, anche tre volte la
somma assegnata loro per i giuochi dal tesoro pubblico475. Se per la
legge suntuaria era proibito ai ricchi di gozzovigliare nelle loro
case, il pubblico invece aveva diritto di stare allegro nelle vie e
nei teatri. Era questo il nuovo spirito popolare che alitava nella
restaurata società aristocratica; e Augusto sapeva
soddisfarlo.
VIII.
I “LUDI SAECULARES”.
E finalmente, approvate anche le leggi sociali, il cielo nuvoloso di
malcontento, che intristiva da tanto tempo l’Italia, si aprì;
un raggio di gioia passò per quello, brillò,
illuminò Roma. Tanti eventi felici seguitisi in brevi anni,
l’accordo con i Parti, l’epurazione del Senato, lo sdoppiamento
della autorità suprema tra Augusto ed Agrippa, la iniziata
restaurazione del costume antico parvero alla fine infondere
nell’esasperata nazione un senso ammolliente di universale
compiacimento. E non senza ragione, del resto: chè, a petto
dei miserabili tempi della rivoluzione, la condizione presente era
quasi meravigliosa come un miracolo. Nessuno aveva divinato che in
quindici anni Roma risalirebbe così rapidamente l’erta della
gloria e della potenza. Se anche il pubblico aveva stranamente
travisata a modo suo l’intesa con i Parti, era pur vero che la massa
enorme dell’impero, nella gran pace diffusa dovunque, riprendeva ad
esercitare la naturale forza sua di attrazione su tutti i piccoli
Stati, alleati protetti indipendenti, i quali la attorniavano, come
pianeti; che Roma incominciava a diventare la immensa metropoli del
mondo mediterraneo, in cui, dalle selve della fredda Germania come
dalla Corte del re dei Parti, si davano convegno e cercavano
fondersi l’Oriente e l’Occidente, tutte le favelle, le razze, le
nazioni, le genti disparatissime che Roma aveva raccolte sotto il
suo imperio o con cui era venuta a contatto. Non solo Erode, ma
tutti i sovrani dei piccoli Stati alleati o vassalli facevano
educare i propri figli e successori a Roma, ora che Augusto
incominciava ad ospitarli nella sua casa e a curarne la educazione
senza avarizia; a mutare insomma la sua casa a sue spese in una
specie di sontuoso collegio di istruzione per i futuri sovrani
vassalli di Roma, creando all’impero un potente organo di
romanizzazione degli Stati alleati, di cui esso aveva bisogno ma di
cui la spensierata repubblica non si era data cura476. E a Roma
venivano pure per istruirsi e conoscere la formidabile potenza che,
dopo averli domati, incominciava ad affascinarli, molti giovani
della nobiltà gallica; veniva pure di là del Reno
qualche giovane appartenente a cospicue famiglie germaniche, come il
marcomanno Marbod, spinto pur esso dalla vaga curiosità delle
cose romane che incominciava a pungere e a muovere, tra le sue
paludi e nelle sue selve, anche la torpida barbarie germanica477;
venivano i nobili fuorusciti partici, che le guerre civili avevano
scacciati, probabilmente per raggiungere Tiridate478, a cui Augusto
aveva fatto assegnare una pensione479. Questa piccola cosmopoli si
raccoglieva intorno alla casa di Augusto e dei suoi amici più
ricchi; e raffigurava visibilmente ai Romani il rinnovato prestigio
di Roma: l’Europa, l’Asia e l’Africa, che piegavano di nuovo le
ginocchia innanzi alla grande repubblica; il mondo libero ancora
oltre i confini dell’impero, che, compreso di ammirazione e di
stupore, sollecitava anche esso di poter conoscere e adorare la
meravigliosa città. Il sole non aveva ancora illuminato un
impero più vasto, più potente, più duraturo:
tale il compiacimento che ogni anno, ravvivato da qualche solenne
ambasciata, da qualche piccola vittoria, dalle rassicuranti notizie
delle provincie, si spandeva per tutta l’Italia. Ogni classe aveva
poi particolari motivi di rallegrarsi. La nobiltà sarebbe
stata pazza se si fosse lagnata seriamente del suo stato; essa che
senza far nulla da dieci anni riacquistava ricchezze ed onori, essa
che di nuovo si vedeva intorno le classi medie ed il popolino di
Roma disposti all’ossequio, solo perchè ogni famiglia si
degnava di far partecipare al godimento dei patrimoni rifatti a
spese dell’impero un certo numero di letterati e di plebei. Ormai
quei plebei poveri che avevano formato il codazzo dei demagoghi,
contribuite le forze maggiori ai collegi di Clodio, si acconciavano
a mendicare dai grandi quegli aiuti che in antico avevano loro dati
i capi dei partiti; e cercavano di farsi accogliere nel numero dei
clienti di qualche grande casa, che dava loro ogni tanti giorni o un
pranzo o una somma di denaro o altri regali in altre occasioni: essi
venivano a loro volta a far visita ogni mattino al patrono, ad
accompagnarlo sul foro, nelle visite; ad applaudirlo quando
arringava in un tribunale, a farglisi innanzi con volto ilare o con
volto dimesso in ogni occasione lieta o triste della esistenza. Si
veniva insomma formando quel corpo di obblighi artificiosi, che
legherà per più secoli alle classi ricche di Roma uno
sterminato codazzo di pezzenti, per il comune tormento dei
protettori e dei protetti480. Costava denaro e noie questa usanza
nuova, senza dubbio: ma intanto i nobili ritornavano a percorrere le
vie di Roma con un lungo codazzo, riveriti da tutti come semidei;
non avevano più crucci per l’esito delle elezioni o per le
discussioni in Senato; assicuravano l’ordine di Roma più
efficacemente che minacciando supplizi. Nè minore era
l’ossequio nelle classi medie, nelle quali, specialmente i giovani
che avevano studiato, non sognavano più che di piacere nella
aristocrazia a un protettore potente, come Orazio, Virgilio,
Tibullo, Properzio. Tutte le antiche ripugnanze romane a questa
specie di domesticità letterata venivano meno; come
dimostrano le Epistole di Orazio, che discutono a lungo della sua
dignità. Orazio ammette, nella diciassettesima epistola del
libro primo, che si può viver felici anche nella
oscurità e nella povertà; ma aggiunge che chi voglia
essere utile ai suoi e vivere discretamente, deve cercare l’amicizia
dei potenti; ma perseguita con aspri sarcasmi i seguaci di Diogene,
quanti affettano cioè un disprezzo sistematico della
ricchezza. Dice anzi apertamente di giudicar meno ignobile chi adula
la ricchezza, di chi piaggia la povertà, la sordidezza, la
volgarità e quanto nell’ordine sociale è posto in
basso: protesta che se l’uomo non deve vergognarsi di indossare il
rude saio, non deve vergognarsi neppure di portar la porpora di
Mileto; afferma risolutamente che
Principibus placuisse viris non ultima laus est;
raccomanda però dignità e discrezione.... Non si
reciti ad alta voce, come il mendicante, la sua filastrocca: “Mia
sorella non ha dote; mia madre ha fame; il campicello avito non
frutta....”. E mentre Augusto preparava l’accordo con i Parti,
Orazio aveva scritta un’altra lettera poetica – la diciottesima del
libro primo – ad un amico che, accolto nella alta clientela di un
ricco ci si sentiva a disagio, ne aveva quasi vergogna: temendo di
essere uno scroccone; l’aveva scritta per rassicurare questa
coscienza inquieta tra due età e due morali, assicurandolo
che “l’amico dista dallo scroccone quanto la signora rispettabile
dalla meretrice”. Orazio che, amante della propria libertà,
geloso della propria indipendenza, aveva per sè rifiutata
questa ospitalità, consigliava, sia pur con una certa bonaria
ironia, i propri amici e colleghi ad accettarla. Insomma se le leggi
recentemente approvate arrecherebbero qualche noia ai grandi, la
nobiltà sotto il governo di Augusto ridominava Roma e
l’impero, più comodamente che non avesse mai fatto, senza
pericolo e senza responsabilità, solo godendo. Nè la
classe media aveva motivo di essere troppo scontenta. La sua
agiatezza cresceva, parte per la protezione dei grandi, parte per il
naturale riprosperare dell’agricoltura, delle arti, del commercio.
Essa aveva avuta inoltre la soddisfazione anelata, quelle grandi
leggi sociali, dalle quali si riprometteva il principio di una nuova
età, più felice e più forte che quella
trascorsa. L’amministrazione dell’impero era molto migliore; gli
spaventosi saccheggi dell’età di Cesare non si ripetevano
più; i governi erano dati di nuovo a persone ricche le quali,
se talora non erano molto alacri e intelligenti, non avevano bisogno
di depredare i sudditi per rimpinzare d’oro le loro clientele
politiche a Roma. Anche l’ordinamento del potere supremo per i
cinque anni futuri dovette accrescere la pubblica soddisfazione.
L’Italia voleva godersi i vantaggi della monarchia – e cioè
la continuità e la stabilità del potere – senza
perdere i privilegi della repubblica: la eguaglianza giuridica di
tutti i cittadini, la semplicità del cerimoniale, la
libertà piena di insolentire gli uomini potenti,
l’impersonalità dello Stato. La presidenza doppia per cinque
anni, invece che la unica presidenza decennale, aveva due vantaggi:
faceva sperare un governo anche più vigoroso perchè
due presidenti, se concordi, potrebbero fare più che uno
solo; si allontanava meno dalla tradizione repubblicana, per la
minore durata e per il principio collegiale. Tutti coloro i quali
volevano ammirare il nuovo regime come eccellente in ogni cosa,
avevano dunque nuova ragione di persuadersi che la costituzione
secolare della repubblica non era stata ritoccata se non in qualche
particolare di poco momento. Anche se la Pace tardava a sciogliere
gli innumerevoli lacci in cui la Povertà aveva stretta,
durante la guerra civile, la infelice nazione, tutti si risentivano
disposti a sperar bene dell’avvenire, come nel 21 a. C; e nelle
masse ripigliavano forza quelle mistiche aspirazioni a una
palingenesi universale, quelle ingenue aspettazioni del secolo
nuovo, inteso come il principio di una vita più felice e
più pura, che da venticinque anni fluttuavano nell’anima
della nazione come un vapore, ora addensandosi, ora diradandosi
sotto il soffio mutevole degli eventi, ma senza disperdersi mai
interamente. In uno Stato malato di un pessimismo incurabile, questa
onda vivida di fiducia sia pur mistica e vaga, era un sollievo
troppo benefico, perchè ci sia difficile di spiegare come o
ad Augusto o a qualcuno dei suoi amici venisse sul finire del 18
alla mente questo pensiero: non forse convenisse rinforzare la
felice disposizione dello spirito pubblico con una grande cerimonia,
che nel tempo stesso esprimesse in forme solenni la vaga idea
popolare del secolo nuovo, inizio di nuova vita, e la
ricongiungesse, nello spirito delle masse, con i principî
morali e sociali formulati nella legislazione degli ultimi anni. Era
chiaro che occorreva una cerimonia insolita e solennissima, la quale
raccogliesse in una sintesi pittoresca tutti gli elementi della
credenza popolare nel secolo nuovo, come tutte le concezioni sociali
della oligarchia, che governava l’impero: e la dottrina etrusca dei
dieci secoli, e la leggenda italica delle quattro età del
mondo, e gli oracoli della Sibilla annunciante l’imminente regno di
Apollo, e i ricordi della popolarissima egloga di Virgilio che aveva
predetto il prossimo avvento dell’età dell’oro, e la dottrina
pitagorea del ritorno delle anime sulla terra, e la dottrina secondo
cui ogni 440 anni anima e corpo si ricongiungono e il mondo rivive
nelle forme antiche, e la necessità di ritornare alle fonti
storiche della tradizione nazionale, e l’urgenza di ricostituire la
religione, la famiglia, le istituzioni, i costumi dello antico stato
militare. Ma quale cerimonia poteva esprimere tante cose? Inventarne
una nuova ripugnava a una generazione che, dopo aver con tanta
fatica ritrovato alla meglio, mezzo scancellato e distrutto, il
sentiero della tradizione, non voleva lasciarlo più, paurosa
di smarrirsi di nuovo, come prima, nell’impervio avvenire. Si
frugò quindi nel passato; e si trovò una antichissima
cerimonia, coeva della repubblica, la quale doveva essere celebrata
ogni secolo. Istituiti nell’anno stesso in cui la repubblica era
stata fondata, nel 509 a. C, in onore delle Divinità
infernali. Dite e Proserpina, per implorare la fine di una terribile
pestilenza481, i ludi saeculares erano stati, a solenne garanzia
della pubblica salute, ripetuti ogni secolo, sia pure con
puntualità non perfettissima altre tre volte: nel 346482 a.
C; nel 249483; nel 149 (o secondo altri nel 146 a. C.)484. I quinti
giuochi secolari sarebbero quindi caduti intorno al 49, cioè
nel tempo in cui incominciava la guerra civile di Cesare e di
Pompeo. Ma allora gli uomini, più che di far sacrifici a Dite
e a Proserpina, erano solleciti di non scendere nei loro regni
sotterranei per qualche scorciatoia troppo ripida; onde nessuno
aveva pensato a celebrare la quinta volta i giuochi secolari; i
quali sfumavano ormai nella memoria di tutti, come cosa lontana
lontana.... A disseppellire anche questa mummia dalla necropoli
della storia romana, Augusto dovette indursi precipuamente per due
ragioni. Era chiaro non esser facile trovar modo di commuovere
più profondamente le moltitudini, che rinnovando una
cerimonia così unica, che nessuno dei viventi aveva veduta,
che si sapeva potersi vedere soltanto una volta nella vita. Inoltre
in questa cerimonia era implicata l’idea del secolo, inteso –
è vero – come divisione del tempo in periodi di cento anni,
ma che poteva facilmente rinnovarsi nell’idea popolare del secolo
mistico, poichè nessuno ricordava più quel che la
cerimonia significasse in origine. Ripristinando i ludi saeculares
Augusto quindi non intendeva soltanto di riparare un’altra omissione
delle guerre civili nè di provvedere alla pubblica salute
supplicando la deità dell’inferno; ma si proponeva di
ordinare con nome antico una cerimonia nuova, trattando i ludi
saeculares a quel modo, con cui Virgilio aveva trattati nell’Eneide
le tradizioni e i miti latini. Sarei quasi tentato di dire che i
ludi saeculares di Augusto sono uno squarcio dell’Eneide in azione,
così profondamente virgiliana è la concezione, lo
spirito, quello sforzo di fondere i principî tradizionali
della società latina con riti e miti cosmopolitici,
specialmente etruschi e greci; di ravvolgere in forme straniere,
precipuamente elleniche, una sostanza schiettamente romana, quasi a
simboleggiare la fusione che gli spiriti eletti di Roma
vagheggiavano allora potesse compiersi tra il mondo latino ed il
greco. Facendosi aiutare anche in questa impresa da un giovane
giurista non meno versato nel diritto religioso che nel civile, Caio
Ateio Capitone485, Augusto incominciò, affinchè le
menti più facilmente si persuadessero che il secolo dei ludi
significava il mistico principio di un’età nuova, ad
accogliere nella sua cerimonia il concetto etrusco del secolo,
considerato quale il massimo tempo della vita umana e computato
perciò 110 anni; ricorrendo per giustificare questa
novità a quegli oracoli greci della Sibilla486, con cui si
era vinta tante volte la resistenza dei romani all’introduzione di
cose straniere. Interrogato il collegio del quindecemviri, che era
incaricato di conservare gli oracoli della Sibilla, e del quale
Augusto stesso faceva parte, il collegio non stentò molto a
trovare un oracolo, che sarebbe stato detto dalla Sibilla ai tempi
dell’agitazione dei Gracchi, quando i primi fermenti della rivolta
agraria incominciavano a diffondersi per l’Italia e cioè
verso il 126 a. C: un oracolo che descrivendo minutamente i giuochi
secolari imponeva di celebrarli ogni 110 anni. Ateio Capitone e il
collegio dei quindecemviri riconobbero in questo oracolo la vera
legge dei giuochi secolari; affermarono di aver trovato negli atti
del collegio, che i giuochi erano infatti stati celebrati già
quattro volte, a distanza di 110 anni ciascuna, a partire dal 126,
tranne alcune piccole differenze487; che perciò un altro
secolo di 110 anni stava per finire, e che i giuochi si potevano
celebrare nel primo anno della nuova duplice presidenza488.
Così i quinti giuochi secolari chiudendo un periodo di 440
anni, coloro i quali credevano nella dottrina esposta da Varrone
sulla ricongiunzione dei corpi e delle anime, potevano sperare che
con i giuochi secolari ricomincierebbe addirittura la ricostituzione
corporea dell’antica Roma, che le generazioni della antica
repubblica si reincarnerebbero, avendo finita la dimora degli Elisi!
Quale incitamento ad obbedire con zelo alla legge de maritandis
ordinibus! A coloro invece i quali fossero più sensibili al
simbolismo dei riti o che più vivamente credessero negli
oracoli della Sibilla, tanto diffusi nei decenni precedenti, si
darebbe peculiarmente soddisfazione nelle cerimonie. Ateio e i
quindecemviri, sempre sulla traccia dell’oracolo, disposero che le
feste religiose consterebbero di sacrifici fatti in tre notti
successive, la prima alle Moire (il nome greco delle Parche), la
seconda alle Ilitie o dee della generazione, la terza alla Terra
madre: alle divinità cioè da cui dipende l’esistenza
fisica, la vita e la morte dei singoli uomini, la fecondità
della razza così necessaria allo stato, la fertilità
della terra che è la prima sorgente della ricchezza e della
prosperità. Come invocar più chiaramente dagli
dèi un’età senza scellerate distruzioni di vite,
feconda di uomini, beata di una meritata abbondanza? Nei giorni
invece si farebbero sacrifici agli dèi dell’empireo in questo
ordine: Giove, il primo, Giunone, il secondo, Diana ed Apollo,
l’ultimo, per modo che la festa culminasse e si riassumesse nella
solennità del bel Dio greco di cui Augusto si affaticava
tanto a diffondere il culto; del dio che, secondo l’oracolo della
Sibilla e l’egloga di Virgilio, doveva presiedere al nuovo secolo;
del dio che rappresentava il Sole e la Intelligenza, la luce e il
calore da cui si origina la vita fisica, e lo splendore della mente
umana, da cui nasce tutto l’infinito mondo dei fatti e delle idee.
L’inno ad Apollo e a Diana, che doveva chiudere e ricapitolare le
feste, sarebbe composto dal maggior poeta vivente: Orazio. Alle
feste sarebbero invitati tutti gli uomini liberi, cittadini e non
cittadini; e prenderebbero in quelle parte, come attori, i
rappresentanti delle alte classi di Roma, uomini e matrone, avendo a
capo i due presidenti: Agrippa ed Augusto.
Il 17 febbraio489 il Senato decretava, non sappiamo su proposta di
chi, che in quell’anno si celebrassero i ludi secolari; deliberava
la spesa e l’appalto dei lavori occorrenti per le cerimonie, i
giuochi e le feste; incaricava Augusto, che era uno dei magistri o
presidenti del collegio dei quindecemviri, di ordinare la
cerimonia490. Augusto sottopose allora il programma preparato da
Ateio Capitone al collegio dei quindecemviri; lo fece non solo
approvare ma pubblicare da questi, come dal collegio fece pubblicare
in editti o in decreti tutte le norme necessarie alla festa, che via
via si chiarivano necessarie; per modo che il Collegio dei
quindecemviri, e non Augusto, sembrasse ordinare e prendere la
direzione della festa. Fu così stabilito che si darebbe
principio a questa nella notte del 31 maggio, con il sacrificio alle
Moerae (Μοῖραι), e si seguiterebbe poi, nell’ordine già
detto, sino al 3 giugno, collegando le cerimonie religiose l’una
all’altra con una ininterrotta catena di divertimenti popolari. Si
mandarono poi degli araldi in ogni parte d’Italia, sino nei
più lontani villaggi, ad annunciare la grande cerimonia che
doveva celebrarsi in Roma; la cerimonia che nessuno aveva vista e
che nessuno rivedrebbe più491; si scelsero a partecipare alla
cerimonia le persone più rispettabili delle alte classi; si
prepararono le processioni e gli spettacoli, si incominciarono ad
istruire i cori.... Tra questi preparativi il Collegio dei
quindecemviri fu chiamato a considerare se si dovessero anche in
questa cerimonia, come nella precedente, far fare prima al popolo i
suffimenta o suffumigi o purificazioni nei vapori di zolfo o di
bitume, e accettare dal popolo offerte di commestibili (orzo, grano,
fave), da distribuirsi poi a quanti assisterebbero alla festa492.
Non dimentichiamo che i ludi saeculares erano in origine una
cerimonia etrusca intesa a implorar dagli dèi la fine delle
pestilenze; che quindi in principio essa dovette celebrarsi in tempo
di morìa; e che non è perciò improbabile avesse
la saggezza etrusca intravisto esser necessario prima di radunare
folle in tempi di epidemia, rischiando di centuplicare la forza del
contagio, purificare i singoli spettatori con questi mezzi, a cui
anche la scienza moderna riconoscerebbe qualche efficacia. L’offerta
delle fruges si ricollegava probabilmente, per qualche idea
religiosa, ai suffimenta. E il collegio deliberò che il 28
maggio493, davanti al tempio di Giove Ottimo Massimo e al tempio di
Giove tonante sul Campidoglio, negli spaziosi portici del tempio di
Apollo sul Palatino, e del tempio di Diana sull’Aventino, i membri
del collegio dei quindecemviri si trovassero a ricevere dal popolo
le fruges offerte in dono e negli stessi luoghi, fuorchè nel
tempio di Diana, a dargli lo zolfo e il bitume, nei cui vapori
ciascuno a casa doveva purificare sè e la propria famiglia,
prima di venire alla festa494. A mano a mano che si preparava la
grande festa, le dicerie si rincorrevano per tutta l’Italia; e
l’aspettazione cresceva; cosicchè ben presto l’Italia tutta
si raccolse, dimenticata ogni altra cura o interesse, nella attesa
della solennità unica; da Augusto, da Agrippa, dai Consoli,
che volevano riuscisse mirabile, ai piccoli possidenti delle remote
città, che si preparavano a far per questa occasione unica il
viaggio lontano della metropoli; dalla aristocrazia romana, che
doveva figurar nella festa con gli uomini suoi più
rispettabili, con le sue donne più belle e più caste,
con i suoi giovinetti più promettenti, ad Orazio, che pur
essendo più misantropo e malcontento che mai, pur credendo
poco alla sincerità della festa e di chi la faceva, non aveva
saputo rinunciare a scrivere una bella poesia, che il pubblico
nemico dovrebbe per forza ascoltare, questa volta. Senonchè
in quale misura le masse capirebbero e sentirebbero l’idea cardinale
della festa: la necessità di rigenerar Roma, non aspettando
dagli dèi la favolosa età dell’oro, ma praticando le
severe virtù, di cui le leggi approvate l’anno precedente
imponevano l’osservanza; vivendo semplicemente, virtuosamente,
austeramente nella famiglia feconda? Intanto si avvicinava il
1.° giugno; turbe immense giungevano a Roma. Ma una
difficoltà si presentò. La lex de maritandis ordinibus
interdiceva gli spettacoli pubblici ai celibi. Un grande numero di
persone avrebbe quindi dovuto essere escluso: e tra queste,
singolare esclusione, anche Orazio, il poeta che componeva l’inno
ufficiale della grande cerimonia. Il 23 maggio, cedendo a molteplici
sollecitazioni, il Senato sospendeva per queste feste il divieto
della lex de maritandis ordinibus e ordinava che un commentarium dei
ludi fosse scritto sopra una colonna di bronzo ed un altro sopra una
colonna di marmo495; due giorni dopo i quindecemviri, considerato il
grande numero degli intervenuti, deliberavano che la distribuzione
del suffimenta si facesse non in uno, ma in tre giorni: il 26, il
27, il 28 maggio496.
Purificati gli uomini liberi, le cerimonie incominciarono
nell’ultima notte di maggio. Nel Campo Marzio sulla riva del Tevere,
nel luogo, indicato dall’Oracolo, in cui il Tevere è
più stretto e profondo497, cioè nella parte oggi
adiacente al Ponte Vittorio Emanuele, erano state costruite tre are
e vicino una scena, ma senza annesso il teatro, e quindi senza
sedili, affinchè gli spettatori assistessero allo spettacolo
in piedi, e la cerimonia fosse improntata ad una maschia
solennità arcaica, ricordante i tempi in cui non si
conoscevano nè comodi sedili, nè provvidi tendoni per
riparare dal sole498. Nella notte dunque il popolo si pigiò
nel Tarentum verso la seconda ora, nella oscurità illuminata
soltanto dalle stelle nel cielo e dalle tre are fumanti in fondo, al
buio, sulla riva del Tevere; tra quelle faci comparve Augusto
seguìto da tutto il Collegio dei quindecemviri499; e
immolò 9 agnelle e 9 capre sulle tre are500 achivo ritu, alla
greca501: poi nel gran silenzio, sotto la notte, rivolse per tutti i
cittadini e i liberi, presenti ed assenti, alle dee che volgono e
rompono con le loro dita i tenui fili della vita, una preghiera
esplicita e asciutta come un contratto, e di cui sarebbe impossibile
rendere in una traduzione tutta la incredibile arcaica
aridità, e la celerità mercantile. La riporto quindi
nel testo, come gli eruditi l’hanno ricomposta dai rotti avanzi:
“Moerae, uti vobis in illeis libreis scriptum est, quarum rerum
ergo, quodque melius siet p. R. Quiritibus, vobis VIIII agnis
feminis et IX capris feminis sacrum fiat; vos quaeso praecorque uti
imperium maiestamque P. R.... Quiritium duelli domique auxitis
utique semper nomen Latinum tuaeamini,... incolumitatem sempiternam
victoriam valetudinem populo romano Quiritibus tribuatis faveatisque
populo Romano Quiritium legionibusque populi R. Quiritium remque p.
populi Romani Quiritium salvam servetis,... uti sitis volentes
propitiae p. R. Quiritibus quindecivirum collegio mihi domo familiae
et uti huius... sacrificii acceptrices sitis VIIII agnarum feminarum
et VIIII caprarum feminarum propriarum immolandarum; harum rerum
ergo macte hac agna femina immolanda estate fitote volentes
propitiae p. R. Quiribus quindecemvirorum collegio mihi domo
familiae”502. Cioè non a me Augusto, alla famiglia e alla
casa di Augusto; ma a me presente, cittadino, uomo libero, recitando
Augusto la formola della preghiera, che in quel momento doveva esser
sulle labbra di tutti i presenti, di tutta l’Italia; e che
chiaramente, senza circonlocuzioni, proponeva alla deità il
contratto; da una parte 9 agnelle e 9 capre, offerte alle dee,
dall’altra la felicità dello Stato e dei privati data in
cambio dei sacrifici dalle dee; una preghiera antica per la lingua,
per la elocuzione, per le formole. Non si parla che di populus
romanus e di Quiriti, in una cerimonia a cui erano invitati tutti i
liberi! Compiuto il sacrificio, si accesero i lumi sulla scena e
grandi fuochi, e sulla scena si rappresentarono vari spettacoli503
che il pubblico guardò in piedi, mentre 110 matrone, tante
quanti gli anni del secolo, offrivano a Diana e a Giunone un
sellisternio o banchetto sacro504. Il giorno seguente,
solennità in Campidoglio: Agrippa e Augusto, i due colleghi,
sacrificarono ciascuno un bue a Giove Ottimo Massimo, ripetendo a
Giove la monotona filastrocca con cui nella notte Augusto aveva
già pregate le Moire505: poi in un teatro di legno costruito
sul Campo Marzio presso il Tevere e provvisto, questa volta, dei
necessari sedili, si rappresentarono i ludi latini, mentre
continuavano sulla scena costruita nel Tarento i ludi incominciati
la notte innanzi506. Ci fu in questo giorno un nuovo sellisternio,
offerto dalle madri di famiglia507, e i quindecemviri sospesero i
lutti privati delle donne508. Alla notte, nuovo sacrificio nella
oscurità del Tarento, in riva al Tevere, alle Ilitie, le dee
della fecondità: sacrificio incruento di 27 focaccie, in tre
volte e di tre specie diverse, accompagnato dalla consueta preghiera
a cui Augusto mutò solo il nome della dea509. Il 2 giugno era
riserbato ad un grande sacrificio a Giunone sul Campidoglio, e alle
matrone, per simboleggiare l’ufficio religioso che nello Stato e
nella famiglia ha la donna, la quale, se non deve attendere alle
pubbliche cose, può unire efficacemente le sue preghiere a
quelle degli uomini per implorare la protezione degli dèi.
110 madri di famiglia, tante quante gli anni del secolo, scelte dai
quindecemviri tra le più nobili e rispettate di Roma,
ricevevano l’ordine di trovarsi sul Campidoglio al sacrificio; e
dopochè Agrippa e Augusto ebbero immolato ciascuno una
vacca510, dopochè Augusto ebbe ripetuto a Giunone quello che
già aveva detto alle Parche, a Giove, alle Ilitie, si
inginocchiarono tutte e recitarono una lunga preghiera un poco, ma
non molto diversa dalla solita per domandare a Giunone, genibus
nixae, che proteggesse la repubblica e la famiglia, desse ai Romani
eternamente la vittoria e la forza511. Nuovi giuochi poi per tutta
Roma512. E alla notte, nel Tarento, il terzo sacrificio notturno
alla Terra madre, con la quinta ripetizione della consueta preghiera
e seguita dal solito sellisternio513. Il 3 giugno infine si
compiè l’ultima e maggiore solennità: il sacrificio
delle 27 focaccie già offerte alle Ilitie, in onore di
Apollo, nel suo tempio sul Palatino514. Ma quando il sacrificio fu
compiuto, quando Augusto ebbe per la sesta volta recitata la sua
monotona prece, quando il seguito così poco variato di
cerimonie durate tre giorni fu per finire, allora finalmente l’ode
di Orazio, cantata da 27 fanciulli e da 27 fanciulle, spiccò
il volo, si librò, come un’allodola sulle ali, sulle strofe
vigorose, sparse la sua melodia nell’immenso cielo di Roma, che non
aveva ancora udito tra i sette colli labbra umane rivolgere agli
dèi così dolci, così molli, così
armoniose preghiere. Che diversità tra le preghiere
protocollari, recitate da Augusto e dalle 110 matrone, grevi di
pronomi relativi e di gerundi strascicanti la lunga terminazione, e
queste strofe alate, leggere e robuste, volteggianti nell’aria come
uno stormo di uccelli leggiadri e canori; questa poesia che
riassume, ma con ben altra dignità di forme, i complessi
significati della lunga cerimonia: la mescolanza mitologica dei
simboli astronomici e morali, la commemorazione delle recenti leggi
sociali, la glorificazione delle grandi tradizioni di Roma, le
aspirazioni alla pace, alla potenza, alla gloria, alla
prosperità e alla virtù, che è la condizione
suprema di tutti i beni agognati dall’uomo. In un proodo di due
strofe, i fanciulli e le fanciulle invocano Apollo e Diana515:
Febo e Dïana che le selve regni,
lucido onor del ciel, sempre adorandi
e adorati, ciò date che nel sacro
tempo preghiamo,
quando, ammonendo i sibillini versi,
vergini elette e giovinetti casti
agli Dèi ch’ebber cari i sette colli
dicono un carme.
Poi i fanciulli si rivolgono ad Apollo, al Dio della luce, al Sole;
e gli cantano la strofa che nessun figlio di Roma potrà
leggere mai, neppur venti secoli dopo, senza commozione:
Almo Sol, che col nitido tuo carro
dài, togli il giorno, e un altro ed ognor quello
rinasci, oh nulla tu maggior di Roma
possa vedere!
Seguono le fanciulle, confondendo Diana con Ilitia e Lucina, le dee
della Generazione:
Tu proteggi le madri, Ilitia, ch’usi
trar blanda in luce i maturati germi,
Lucina ti piaccia esser chiamata
o Genitale.
E continuano i fanciulli, invocando il favore della dea sulle leggi
approvate l’anno innanzi:
Diva, e tu cresci i figli, ed i decreti
de’ Padri afforza su le donne a nozze
pronte e la legge marital di nova
prole ferace.
Sarà così possibile – ripigliano le fanciulle –
celebrare ogni 110 anni, per tre dì e per tre notti, i ludi
saeculares.
sì che il certo rotar de l’anno cento
decimo e canti riconduca e ludi
al chiaro dì tre volte e tre a l’amica
notte frequenti.
E alternandosi i fanciulli e le fanciulle invocano poi le Parche, le
dee del destino; poi la Terra madre della fertilità e della
prosperità; quindi Apollo di nuovo, come dio della Salute,
che mite e pacato ripone il dardo; e Diana, questa volta sotto la
forma astronomica della luna falcata:
E voi, Parche ricantanti il vero
che fu detto una volta e stabilito
ne l’ordine del mondo, ai corsi or buoni
fati aggiungete.
D’armenti e messi fertile la Terra
doni a Cerere spicëa corona,
nutrano i frutti le salubri acque,
l’aure di Giove.
Mite e placido tu, deposto il dardo,
ascolta, Apollo, i supplici garzoni;
bicorne donna de le stelle, ascolta
tu le fanciulle.
Invocati così partitamente il Sole, la Fecondità, il
Destino, la Prosperità, la Luna, i fanciulli e le fanciulle,
continuando probabilmente ad alternare le strofe, unitamente si
rivolgono a tutti gli dèi dell’Olimpo, per innalzare loro in
poche strofe stupende il voto universale di Roma e dell’Italia; il
voto che riassumeva tutti i rimpianti, tutti i rammarici, tutte le
aspirazioni, tutte le speranze, tutti i sogni fluttuanti come un
oceano di mobili vapori entro l’anima della nazione, in quel primo
ristoro dell’immensa catastrofe.
Se vostr’opera è Roma, e de le teucre
torme una parte il lido etrusco tenne,
mutar costretta in salvatrice corsa
patria e penati,
(e a lei per Troia in fiamme il casto Enea
libera via senza perigli aperse,
a la patria superstite, per darle
più del perduto)
Dèi, a la docil gioventù il costume.
Dèi, quiete a la placida vecchiezza,
date al romuleo seme, averi, prole,
tutte le glorie,
e il buon sangue di Venere e d’Anchise
ciò che vi prega con i bianchi bovi
consegua, primo in guerreggiar, ma mite
sovra il giacente.
Ecco già il Medo in terra e in mar possenti
teme le mani e le latine scuri,
chiedon comandi già, testè superbi,
gli Indi e gli Sciti.
Già Fede, Pace, Onor, Virtù negletta
Pudore antico osano far ritorno,
e beata apparir col corno pieno
ecco la Copia.
L’augure Apollo per il fulgid’arco
bello e gradito da le nove Muse,
che l’egre membra con la salutare
arte ristora,
se guarda amico il palatino colle,
spinge il poter di Roma ed il felice
Lazio ad un altro secolo ed a tempi
sempre migliori.
E una ultima invocazione, sommesso e discreto congedo di devoti che
si sentono l’anima pia dopo avere pregato, chiude il coro:
Le preghiere dei quindici Dïana
cura d’Algido in vetta e d’Aventino,
ed ai voti dei giovini benigno
porge l’orecchio.
Certa e buona speranza a casa porto
che questo piace a Giove e a tutti i Numi,
io Coro, in glorïar Febo e Dïana
fatto maestro.
Bella poesia; mirabile inno alla vita nelle sue forme molteplici, al
Sole, alla Fecondità, all’Abbondanza, alla Virtù, alla
Potenza, mitologicamente stilizzate alla greca. Poesia troppo bella,
anzi. Chi confronta questa stupenda preghiera con le asciutte
formole recitate da Augusto, intende a fondo il disagio e
l’incertezza e la contradizione di quell’età. Da una parte
sta una vecchia religione politica mummificata nel suo materialismo
barbarico e nel suo secolare ritualismo: dall’altra dei tentativi di
ravvivarla con l’arte, la mitologia e la filosofia greca, eleganti
ma puramente intellettuali, che non scaturiscono da una nuova
pietà. Il carme secolare era una bella opera d’arte, come una
bella opera d’arte era il tempio di Apollo, costruito da Augusto,
tra le cui colonne era stato recitato: ma era una grande lirica
umana, non un fervido carme religioso; e poteva essere scritto anche
da un grande artista, il quale considerasse quei numi come puri
simboli intellettuali, atti a personificare artisticamente certe
astrazioni. Senza dubbio il rozzo contadino o l’ignaro plebeo di
Roma potevano ancora credere di ottenere dalle Parche o da Apollo
quello che desideravano, ripetendo le formole dette da Augusto: ma
come poteva servire per governare l’impero quella vecchia religione,
ora che della religione la aristocrazia non sapeva servirsi
più per disciplinare le masse? E quanta virtù
avrebbero i bei versi di Orazio di rinforzare la conscienza dei
doveri nella corrotta e frivola nobiltà, che li ripeteva
perchè suonavano bene? Insomma i ludi secolari provano che i
tentativi fatti per rinnovare con l’ellenismo la vecchia religione
romana generavano piuttosto della confusione che un qualche
ringiovanimento. Potè quindi il coro dei 27 fanciulli e delle
27 fanciulle recarsi a ripetere il carme sul Campidoglio516;
potè il popolo quel giorno godersi, oltre i consueti ludi,
anche una corsa di quadrighe517; poterono i quindecemviri, per
compiacere all’universale allegrezza, aggiungere 7 giorni di ludi
honorarii ai tre di ludi solemnes, imponendo solo un giorno di
riposo, il 3 giugno518; ma la buona e certa speme che il coro di
Orazio diceva di aver portato a casa, era una bella menzogna
poetica. Mentre l’Italia si baloccava in Roma con questi riti, con
queste cerimonie, con queste cantate, le provincie europee
dell’impero si apprestavano a commentare con una vasta rivolta i
Giuochi secolari e il loro Carme. Il lungo disordine dell’ultimo
secolo aveva in tutto l’impero invertito a tal segno, da un luogo
all’altro, il corso naturale delle cause e degli effetti, che la
Pace, proprio la Pace, attizzava allora un gran fuoco di guerra
nelle Alpi e nelle provincie europee. Se l’Italia e le ricche
Provincie di Oriente avevano ricevuto indicibil ristoro dalla Pace,
le rozze genti che obbedivano a Roma nelle Alpi, nella Gallia
transalpina, nella Spagna, nella Pannonia non avevano troppo gradito
i doni che essa aveva serbato in fondo al grembo per loro: le leve
più frequenti e rigorose degli ausiliari, la rafforzata
autorità dei proconsoli e dei propretori; sopratutto le nuove
imposte deliberate da Augusto e percepite con vigore dai suoi
procuratori, per rifare il disfatto tesoro della repubblica. In
quelle regioni, avvezze da lungo tempo a tributare
all’autorità romana un omaggio formale, tirava da un pezzo
vento di rivolta; anche in Gallia, dove il censo ordinato e i nuovi
tributi imposti da Augusto avevano in quei dieci anni rotta a mezzo
la pacificazione della nazione e ricacciata questa indietro nelle
discordie e nelle torbide macchinazioni di un tempo519. Licino, il
famoso liberto di Augusto incaricato di curare la riscossione dei
tributi, impersonava agli occhi dei Galli questo improvviso e
detestato rivolgimento della politica romana. Primo forse dei
Romani, Licino – che per l’ufficio suo viaggiava la Gallia,
conosceva possidenti, mercanti, artigiani, spiava la ricchezza di
tutte le classi – aveva veduto apparir qua e là, nella
fredda, brumosa, barbara Gallia, i segni di un prossimo meraviglioso
arricchimento; primo forse aveva intravista la prosperità e
la grandezza a cui era destinata quella terra520: ma per servirsene
intanto a mostrare al suo signore che egli era maestro nell’arte di
spremere oro ed argento. In nessuna parte dell’impero nessun
governatore o questore o legato o procuratore di Augusto aveva data
opera a ricostituire il tesoro della repubblica con tanto zelo come
Licino in Gallia, ma nessuno neppur con così pochi scrupoli;
e cioè seguendo in ogni parte della Gallia gli ufficiali
incaricati di fare il censo, interpretando le istruzioni di Augusto
a modo suo, mettendo innanzi la sua persona più che non
convenisse a un liberto del princeps, il quale in Gallia era
soltanto un aiuto privato del legatus, imponendosi infine anche a
costui, e non trascurando di empire, insieme con la cassa
dell’erario, la cassa sua. Egli sapeva che a Roma nessuno
sofisticherebbe troppo sui mezzi, in tanta strettezza dell’erario,
se i frutti fossero copiosi. Senonchè un grave malcontento
era rinato in Gallia; e nella nobiltà si ricostituiva un
partito antiromano: grave pericolo in sè, accresciuto da un
pericolo nuovo, o meglio da un pericolo antico che rinasceva; il
pericolo germanico. Con la vittoria su Ariovisto, Cesare aveva
ributtati i Germani fuori di Gallia, e chiuse loro alle spalle
saldamente le porte della nuova provincia romana: ma quaranta anni
erano passati dalla disfatta del re degli Svevi, e durante quelli,
mentre il prestigio di Roma scemava, nuove generazioni erano
cresciute, al di là del Reno, le quali non avevano visto
Cesare in armi in Gallia; le quali ritornavano a vagheggiare le
belle terre fertili della Gallia, antichissima aspirazione delle
loro genti, il vasto campo di emigrazione, di conquista e di preda –
la colonia diremmo adesso – a cui prima dell’invasione romana i
Germani avevano adito così facile, e che non erano difese che
da cinque legioni. Agrippa sembra essersi per il primo accorto che
Roma doveva stare all’erta, non ricominciasse una parte della
nobiltà gallica ad occhieggiare ai Germani, non tornasse ai
Germani la speranza di riconquistarla; e nell’ultima sua dimora in
Gallia aveva immaginato due grandi accorgimenti politici per
integrare in Gallia la insufficiente forza militare: uno dei quali
era inteso a placare il risentimento dei Galli per le contribuzioni
accresciute; l’altro, a prevenire una invasione germanica
pacificamente. A una grande moltitudine di Ubii, che abitavano lungo
la sponda germanica del Reno, permise di passare il fiume e di
occupare al di qua vaste terre incolte521, sperando così di
amicarsi le popolazioni rivierasche e di confine, e di convertire in
sudditi laboriosi, quelli che altrimenti sarebbe stato forse un
giorno costretto a distruggere come bestie selvaggie. Per la Gallia
invece Agrippa, con la sua mente larga e possente, aveva visto che
Roma, non essendo più forte abbastanza da imporla senza
mormorazioni, doveva giustificare agli occhi stessi dei Galli
l’esazione dei gravi tributi, rendendo loro qualche servizio,
facendo anche in Gallia, ciò che Augusto aveva incominciato a
fare in Asia: curando cioè la coordinazione degli interessi
tra le parti diverse della nazione, in antico e diuturno contrasto.
La pace riconfondeva nel comune desiderio di imitare la
civiltà greco-latina e di trarre partito dal nuovo ordine di
cose, le aristocrazie locali che la guerra aveva nei secoli
precedenti scagliate furibonde l’una contro l’altra; crescendo le
città ed il commercio, sia quello interiore, sia quello con
la Germania e con l’Italia, cresceva pure di numero e di importanza
il ceto degli artigiani e dei mercanti, i quali avevano bisogno,
proprio come in Asia, che la pace, l’ordine, la sicurezza,
regnassero oltre i confini dello staterello a cui appartenevano. Chi
poteva assicurare questa pace, in Gallia come in Asia, se non Roma?
Agrippa aveva visto che doveva incominciare dal rifare alla nazione
una ossatura di strade; e aveva in quegli anni disegnato e
incominciato a costruire il grande quadrivio della Gallia: le
quattro strade che da Lione andavano una a Nord, sino all’Oceano,
probabilmente al villaggio a cui metteva capo la navigazione per la
Bretagna; una a Sud, sino a Marsiglia; una ad Est sino al Reno; una
ad Ovest, attraverso l’Aquitania, sino alla Saintonge522,
naturalmente adoperando nel tracciato ed allargando le strade
galliche già esistenti. Così i denari spremuti da
Licino alla Gallia erano in parte spesi in Gallia a vantaggio della
Gallia.
Ma Agrippa aveva dovuto interrompere a mezzo la vasta sua opera, per
venire a Roma a far con Augusto le leggi sociali, e a celebrare i
ludi saeculares. Così la tempesta che si accumulava da un
pezzo verso la frontiera settentrionale, scoppiò al principio
dell’anno 16. Nel tempo stesso, o quasi, i Bessi si ribellarono in
Tracia contro il re Rimetalce, imposto dai Romani: la Macedonia fa
invasa da Denteleti dagli Scordisci e pare anche dai Sauromati; i
Pannoni insorsero, traendosi dietro nella rivolta anche il regno del
Norico, che era soltanto protetto e invasero l’Istria; nelle Alpi
presero le armi i Vennoneti e i Camunni523. Abitavano i primi nella
Valtellina, forse anche in una parte della Valle dell’Adige e
nell’alta valle dell’Inn524; i secondi nella valle Camonica, che
ancora ne serba il nome. Sul principio dell’anno 16 un fragoroso
strepito d’armi giunse quindi da ogni parte a Roma, donde Augusto si
trovava a disagio in mezzo ai primi effetti delle sue leggi sociali.
L’albero piantato con tanta fatica aveva dato dei frutti molto
singolari. Intanto era ormai chiaro che la epurazione del Senato,
richiesta dal partito della nobiltà come una misura di
salvezza suprema, non aveva altro effetto che di vuotare anche
più di prima le sedute del Senato; e di mostrare quindi a
tutto il popolo la negligenza civica di quella aristocrazia, che con
tanta arroganza si atteggiava di nuovo a privilegiata signora dello
Stato525. E gli esclusi ripigliavano coraggio, stringevano intorno
ad Augusto l’assedio delle sollecitazioni, ritornavano all’assalto
della sua severità censoria, battendola in breccia con la
catapulta di questo argomento inconfutabile: perchè
infliggere a tanti senatori modesti l’affronto di essere scacciati,
se i rimasti, gli uomini insigni, i nobiloni, non valevano di
più? E uno dopo l’altro, alla spicciolata, gli esclusi
rientravano526. Ma difficoltà più gravi generavano
leggi sul matrimonio e sull’adulterio. Augusto si era affrettato ad
adottare i due figli di Agrippa e di Giulia, Caio e Lucio, dei quali
il primo aveva tre anni e il secondo pochi mesi, per dare il buono
esempio, mettersi in regola con la lex de maritandis ordinibus, e
poter dire di avere anche esso, come la legge prescriveva ad ogni
buon cittadino, allevato alla repubblica tre figli: Giulia e questi
due527. Agrippa aveva una figlia, generata da Pomponia, la moglie di
Tiberio; ed era ancor vigoroso, quanto bastava per avere da Giulia
altri due bambini; adottando due fanciulli in tenera età,
Augusto non potrebbe essere accusato di eluder lo spirito della
legge e di sfuggire ai carichi e ai doveri della lunga educazione.
Ma se, come sempre, Augusto aveva saputo ingegnosamente risolvere la
difficoltà sua, di cui gli era cagione la sterilità di
Livia, non tutti invece potevano così facilmente, come egli,
mettersi in regola con la legge. Inoltre i primi processi pubblici
di adulterio avevano sùbito dato a divedere che lo
Spionaggio, il Ricatto, la Delazione, introdotti tra gli dèi
Lari a vegliare sulla purità del focolare domestico,
purificavano sì le case, ma gettando le sozzure accumulate
nella famiglia in mezzo alla via, anche a rischio di imbrattare i
passanti ancor mondi. Il pubblico correva ai processi per adulterio
come ad uno scandaloso divertimento, tanto facilmente le parti si
accapigliavano con ingiurie immonde, turpi accuse, sucide
rivelazioni528; e pigliava tanto gusto a curiosar nelle altrui
faccende, che ormai teneva gli occhi addosso anche a Terenzia e ad
Augusto nel modo più molesto. Erano tutti curiosi di sapere
se davvero anche in questa materia l’autore della legge darebbe
l’esempio dell’osservanza529. Infine se si poteva dubitare che
queste leggi rigenerassero Roma, era certo che accrescerebbero i
piati e i processi: cosa pericolosa, ora che, mentre la vecchia lex
Cintia sonnecchiava, molti senatori, cavalieri, plebei, cercavano di
guadagnare denaro con l’avvocatura. I processi si moltiplicano,
ingrossano, si allungano interminabilmente quando l’avvocatura
è rimunerata.... Per tutte queste ragioni Augusto aveva
voluto rinfrescar a tutti nella memoria i divieti della lex Cintia,
facendo riconfermar dal Senato, con una speciale deliberazione, le
disposizioni che riguardavano gli onorari dei processi; e aveva
fatto deliberare, pur dal Senato, una multa per i senatori che
mancassero senza ragione alle sedute530. Ma da un pezzo egli pensava
a metter mano al consueto espediente dei momenti difficili: sparire;
uscir di nuovo di Roma, dove gli era altrettanto spinoso il fare
eseguire le sue leggi, quanto pericoloso il lasciarle a poco a poco
logorare dalla inosservanza impunita531.... Tante rivolte offrivano
già un pretesto decoroso alla fuga da lungo divisata. Notizie
anche più gravi seguirono di lì a poco, e diedero
l’ultima spinta alla sua intenzione: i Germani tentavano di riaprir
le porte delle Gallie, chiuse loro da Cesare. Partito Agrippa, era
rimasto a governare la Gallia un uomo in cui Augusto aveva molta
fiducia e che per certe qualità la meritava: Marco Lollio,
che era stato il primo governatore della Galazia dopo l’annessione e
console nel 21. Lollio era un uomo alacre, intelligente, ma
avidissimo; che accumulava un gigantesco patrimonio all’ombra
dell’amicizia di Augusto, con grande abilità, senza
compromettersi, e che allora spremeva, d’accordo con Licino, i Galli
per arricchire l’erario e sè medesimo. Non poteva quindi
esser molto amato dai Galli. Parte per questa ragione, parte per la
repentinità dell’assalto, parte forse per qualche errore suo,
Lollio non seppe ricacciare gli invasori al di là del Reno,
fu battuto in parecchi scontri, perdette un’aquila della V legione;
e alla fine, spaventato, mandò a domandare aiuto ad Augusto.
Venisse subito il figlio di Cesare a disperdere il rinascente
pericolo germanico, a infrenare le Gallie turbolente532.
Queste notizie dovettero in Roma e in Italia sviare per un momento
lo spirito pubblico dalle interne questioni e dagli scandalosi
processi per adulterio. La contemporaneità di tante rivolte,
come induce lo storico moderno a domandarsi se in realtà non
ci fu tra questi popoli qualche intesa, doveva esser cagione di viva
inquietudine al governo ed al pubblico. E se ricomparisse in Gallia
un Vercingetorice, quando metà delle provincie europee erano
minacciate di guerra? D’altra parte Augusto, tutto fresco e ancor
raggiante della gloria dell’accordo con i Parti, doveva domandarsi
quali sarebbero le ripercussioni di questa crisi europea in Oriente,
dove pure ogni cosa si reggeva in bilico per miracolo. Se Fraate
approfittasse della congiuntura favorevole e dei suoi imbarazzi, per
far pari con lui e ripigliare l’Armenia? Insomma gli dèi
parevano dare con i fatti una risposta ironica alle poetiche
invocazioni del Carmen saeculare. Per fortuna accanto ad Augusto
c’era Agrippa; e i due principes poterono prendere rapidamente i
necessari provvedimenti. Si riconobbe che in Gallia doveva, in un
momento così pericoloso, andare il figlio di Cesare, il cui
nome solo, per l’impressione che nelle guerre può tanto,
valeva parecchie legioni. Agrippa invece andrebbe in Oriente, per
tener ferme laggiù le cose con la presenza, e, se la presenza
non bastasse, con il braccio, mentre Augusto ricomporrebbe l’ordine
in Europa. Roma e l’Italia sarebbero affidate a Statilio Tauro,
nominato dal Senato praefectus urbi all’antica533; Publio Silio, il
governatore dell’Illiria, che era già partito contro i
Pannoni ed il Norico, per respingerli dall’Istria, piegherebbe,
liberata l’Istria, nella Valle del Po e si recherebbe a combattere i
popoli ribellati delle Alpi534.
Così fu fatto. Il Senato approvò tutto. Agrippa
partì per l’Oriente, portando seco, non ostante gli antichi
divieti rinnovati da Augusto, Giulia535. Non si giudicò
prudente, dopo l’approvazione della lex de adulteriis, di lasciarla
a Roma, lontana dal marito e dal padre, e pienamente libera di
ricevere gli omaggi, e di ascoltare gli sdolcinati discorsi
dell’inutile ed elegantissimo Sempronio Gracco? Agrippa aveva fretta
di colmare il vuoto fatto nella sua famiglia dalle adozioni di
Augusto? Augusto invece, dopo aver inaugurato il tempio del Dio
Quirino536, si condusse seco Tiberio, che in quell’anno era pretore,
facendo autorizzare dal Senato il fratello Druso a compierne in sua
vece le funzioni, per aver seco un giovane nel cui ingegno e nella
cui serietà riponeva piena fiducia537. Ma quando giunse in
Gallia, il nome di Cesare aveva già ricacciato al di
là del Reno i Germani. Egli trovò la Gallia vuota di
invasori e all’opera, ma più terribile degli invasori, il
solo Licino538.
FINE DEL QUARTO VOLUME.
INDICE.
I.
Il mito di Augusto.
(Pag. 1 a 53)539.
Illusioni e aspirazioni dell’Italia. – Augusto e il grande impero. –
Accordo apparente tra Augusto e l’Italia. – La politica orientale,
secondo l’opinione pubblica. – La politica orientale, secondo
Augusto. – Le conseguenze di questo primo malinteso. – Altri
disaccordi tra Augusto e l’opinione pubblica. – La riforma dei
costumi. – Augusto e la riforma dei costumi. – “Nec vitia nostra nec
remedia pati possumus”. – La restaurazione delle finanze imperiali.
– Nuove miniere e nuove imposte. – Principî e procedimenti del
governo augusteo. – Come Augusto riordinò i conti dello
Stato. – Il nuovo governo e Roma. – Il nuovo governo e
l’aristocrazia. – Il primo viaggio di Augusto: suoi pretesti e
ragioni. – Il “praefectus urbi”. – Il vicerè di Egitto. –
Prime difficoltà egiziane. – La partenza di Augusto.
II.
I primi effetti della conquista dell’Egitto e il capolavoro di
Orazio.
(Pag. 54 a 123).
La famiglia di Augusto. – La nuova repubblica e i giovani. – Il
“conventus” di Narbona. – La Gallia nel 27 a. C. – Venticinque anni
dopo Alesia. – La cultura del lino in Gallia. – I principî del
romanesimo in Gallia. – Il primo scandalo del nuovo regime. – Le
accuse contro Cornelio Gallo. – Augusto e lo scandalo. – Messala si
dimette dalla “praefectura urbis”. – La guerra di Spagna. –
L’edilità di Marco Egnazio Rufo. – La candidatura di Rufo a
pretore. – Il secondo “praefectus Ægypti”. – I difetti della
nuova costituzione. – Le istituzioni repubblicane e i nuovi costumi.
– L’arte alessandrina. – Gli artisti alessandrini a Roma. – L’amore,
la famiglia e la donna. – La corruzione dei costumi. – La decadenza
morale della nobiltà. – La poesia erotica: Tibullo e
Properzio. – La pace e la guerra nelle elegie di Tibullo. – Cinzia e
Properzio. – La contradizione fondamentale della società
romana. – Orazio e le odi. – Orazio e la tradizione. – La
composizione delle odi. – L’unità ideale delle odi. – Le odi
civili e le odi erotiche. – L’ideale della vita, secondo Orazio. –
Contradizioni e incertezze. – La paura della morte.
III.
La rinascenza religiosa e l’“Eneide”.
(Pag. 124 a 163).
Disordine e confusione. – La fondazione di Augusta Praetoria
Salassorum. – Ambasciate a Roma. – Nuovi orientamenti dello spirito
pubblico. – I progressi del movimento puritano. – La setta dei
Sestii. – Ragioni del movimento puritano. – L’“Eneide”. – Il
concetto fondamentale dell’“Eneide”. – Il protagonista del poema. –
L’inferno dell’“Eneide”. – Orazio e Virgilio. – Complicazioni in
Oriente. – Il ritorno di Augusto in Italia. – La prima magistratura
di Marcello e di Tiberio. – Le occupazioni di Augusto a Roma. – La
spedizione nello Yemen. – La malattia di Augusto. – Antonio Musa e i
medici di Roma.
IV.
Una nuova riforma costituzionale.
(Pag. 164 a 200).
Le nuove dimissioni di Augusto. – Augusto e la nobiltà. – La
discordia tra Marcello e Agrippa. – Agrippa in Oriente. – Nuovi
progressi del partito puritano. – La riforma costituzionale del 23
a. C. – Il processo di Marco Primo. – L’ambasciata del re dei Parti
a Roma. – Il Senato rimanda gli ambasciatori ad Augusto. – Il vero
principio della monarchia a Roma. – La carestia: il popolo acclama
Augusto dittatore. – La semi-dittatura. – L’insuccesso della censura
di Planco e di Paolo. – La congiura di Cepione e di Murena. – La
partenza di Augusto per l’Oriente. – Nuovi disordini a Roma.
V.
L’Oriente.
(Pag. 201 a 245).
La Grecia, prima della conquista romana. – La Grecia e la conquista
romana. – La Grecia nell’ultimo secolo della repubblica. – Impotenza
di Roma a curare i mali della Grecia. – La politica di Augusto in
Grecia. – Dispute teatrali a Roma. – Le pantomime siriache. – Pilade
di Cilicia. – Il tempio di Roma e di Augusto a Pergamo. – L’Asia
Minore. – Le città industriali e le repubbliche greche della
costa. – Le monarchie agricole dell’altipiano. – Il culto di Mitra e
il culto di Cibele. – L’unità dell’Asia Minore. – L’ellenismo
asiatico e le religioni asiatiche. – Le repubbliche greche e la
monarchia asiatica. – L’Asia Minore dopo un secolo di dominio
romano. – Indebolimento, crisi, disordine universale. – La crisi
dell’ellenismo e gli Ebrei. – L’espansione ebraica in Oriente. – Il
culto di Roma e di Augusto nell’Asia Minore. – La rinascita
dell’ellenismo.
VI.
“Armenia capta, signis receptis”.
(Pag. 246 a 273).
Augusto e la monarchia ellenizzante. – L’accordo con i Parti e la
politica asiatica. – Il protettorato romano in Oriente. – Le riforme
asiatiche di Augusto. – La pace con l’impero dei Parti. – Importanza
storica di questa pace. – La Siria. – L’impero siriaco delle
voluttà. – Difficoltà interne nel regno di Giudea. –
Augusto ed Erode. – La pubblicazione delle odi di Orazio. – La
candidatura di Egnazio Rufo al consolato. – Nuovi intrighi della
nobiltà. – Il ritorno di Augusto a Roma.
VII.
Le grandi leggi sociali dell’anno 18 a. C.
(Pag. 274 a 326).
La morte di Virgilio. – Orazio scrive le “Epistulae”. – Nuovi onori
deliberati ad Augusto. – Si ridomanda la riforma dei costumi. –
Orazio e il movimento puritano. – La morale e le leggi. – Augusto e
il movimento puritano. – La fine del primo decennio di presidenza. –
Difficoltà di una legislazione dei costumi. – Agrippa e
Augusto presidenti della repubblica. – L’epurazione del Senato. –
Augusto si accinge alla legislazione dei costumi. – La “lex de
maritandis ordinibus”. – I matrimoni tra cittadini e liberte. – Gli
incoraggiamenti al matrimonio. – Le pene del celibato. – La legge
è approvata. – Nuova agitazione del partito puritano. –
Giulia. – Esitanze di Augusto. – La “lex Julia de adulteriis”. –
L’adulterio “judicium publicum”. – “Adulterium, lenocinium,
stuprum”. – Scopi e caratteri di queste leggi. – La riforma
timocratica della costituzione.
VIII.
I “ludi saeculares”.
(Pag. 327 a 373).
La città universale. – La nobiltà e la plebe. – Gli
intellettuali e le grandi famiglie. – Rinascente fiducia. – I “ludi
saeculares” nei secoli precedenti. – I “ludi saeculares” di Augusto.
– Molteplici significati dei “ludi”. – L’ordine delle cerimonie. – I
“suffimenta” e le “fruges”. – Gli ultimi preparativi della festa. –
La preghiera alle “Moerae”. – La cerimonia del 1.° e del 2
giugno. – Il “Carmen saeculare”. – Nuovi pericoli nelle provincie
europee. – Licino e la Gallia. – La politica gallica di Agrippa. –
Agrippa e la rete stradale della Gallia. – Augusto adotta i due
figli di Agrippa. – I primi effetti delle leggi sociali. – Una
invasione germanica in Gallia. – Agrippa in Oriente e Augusto in
Gallia.