www.liberliber.it


Guglielmo Ferrero



Grandezza e decadenza di Roma


Vol. IV

La repubblica di Augusto

 

Indice generale

I.
IL MITO DI AUGUSTO.    

II.
I PRIMI EFFETTI DELLA CONQUISTA DELL’EGITTO
E IL CAPOLAVORO DI ORAZIO.  

III.
LA RINASCENZA RELIGIOSA E L’“ENEIDE”.    

IV.
UNA NUOVA RIFORMA COSTITUZIONALE.    

V.
L’ORIENTE.    

VI.
“ARMENIA CAPTA, SIGNIS RECEPTIS”.    

VII.
LE GRANDI LEGGI SOCIALI DELL’ANNO 18 A. C.    

VIII.
I “LUDI SAECULARES”.    


1907

LA REPUBBLICA DI AUGUSTO


I.
IL MITO DI AUGUSTO.

Si riviveva, alla fine! Da ogni parte la tremenda procella sgombrava l’atmosfera, fuggiva, spariva all’estremo orizzonte; in alto, a destra, a sinistra il cielo si rasserenava, immensi squarci azzurri brillavano, promettitori di pace e di gioia. Tutti, tutti i tormenti della rivoluzione, la tirannide triumvirale, la anarchia militare, la rapina delle imposte, erano finiti; il Senato ricominciava a tener regolarmente le sue tornate; i consoli, i pretori, gli edili, i questori ripigliavano gli uffici antichi; ricominciava nelle provincie la vicenda dei governatori scelti o sorteggiati tra i consoli e i pretori uscenti. E dopo tante discordie atroci, dopo tanto odio, tante demolizioni, tante distruzioni, l’Italia si ritrovava finalmente concorde almeno nell’ammirare insieme e fervidamente Augusto e l’antica Roma.

La guerra d’Azio, la rovina di Antonio, l’immaginario pericolo di Cleopatra, la conquista dell’Egitto, la restaurazione della repubblica; gli strani, quasi incredibili eventi degli ultimi anni avevano risospinti precipitosamente indietro gli spiriti verso le lontane sorgenti della storia nazionale e i piccoli principî del grande impero. Arcaicizzavano tutti ormai, considerando ogni cosa antica, solo perchè antica, come migliore delle cose presenti: e in politica rammaricavano la grande aristocrazia che aveva governato l’impero sino alla guerra di Perseo: e non solo il costume privato, la famiglia, l’esercito, le istituzioni, la tempra degli uomini parevano essersi via via disfatte, corrotte, impicciolite di secolo in secolo; ma perfino gli scrittori classici, Livio Andronico, Pacuvio, Ennio, Plauto e Terenzio erano anteposti agli scrittori, invece tanto più ricchi e più vivi, della generazione di Cesare: e non per accidente ma per deliberato proposito il Senato aveva pochi mesi innanzi voluto riparare i templi di Roma, prima che le vie dell’Italia, pur esse orribilmente guaste dallo scempio che ne avevano fatte le legioni e dall’incuria dei precedenti decenni. Giudicavano ormai tutti che Roma fosse salita in tanta grandezza, perchè prima di diventare la taverna e il lupanare del mondo era stata un santo ostello di Numi; perchè, invisibili ma presenti dovunque, gli innumerevoli Dei avevano per secoli vigilato sulla salute dei corpi e sulla rettitudine delle intenzioni, sulla castità delle famiglie e sulla disciplina degli eserciti, sulla probità dei singoli e sulla giustizia pubblica, sulla concordia civica e sulla fortuna delle guerre; perchè dei vincoli essenzialmente religiosi avevano legata per secoli la sposa al marito, i figli al padre, il patrono al cliente, il soldato al generale, il cittadino al magistrato, il magistrato alla repubblica, tutti i cittadini tra loro; perchè lo stato per secoli aveva potuto adoperare lealmente e non per menzogna quel potente organo religioso di disciplina morale e politica, che in tempi non ancora bugiardi è il giuramento. Urgeva dunque ricostituire l’esercito, la famiglia, il costume e la repubblica pia, che aveva conquistato il mondo combattendo e pregando: opera immane, che pure ai più pareva facile e di certa riuscita, ora che, vinti anche gli spiriti più fermi dall’universale contagio di ammirazione e di adulazione per Augusto, tutti riconoscevano come merito suo ogni loro bene presente e in lui riponevano ogni futura speranza. Chi aveva sventati i criminosi e tenebrosi disegni di Antonio e di Cleopatra, intenti a preparare in silenzio a Roma le catene del più obbrobrioso servaggio? A chi se non a colui che aveva profusi in Italia i tesori dei Tolomei, dovevano esser riconoscenti i veterani, entrando a poco a poco in possesso delle terre; i municipi, i quali erano ricompensati con somme considerevoli dei demani alienati; i creditori dello Stato, che ricevevano il denaro, lungamente aspettato; i mestieri, le arti, la mercatura, la terra che, bruciati dalla lunga siccità di capitale onde l’Italia era stata riarsa come da torrida estate, si ravvivavano a poco a poco sotto la pioggia dell’oro e dell’argento egiziani? Merito suo, tutto suo, se le memorie della guerra civile lentamente affondavano nell’immenso oceano che una dopo l’altra tutte le cose umane raccoglie e seppellisce per sempre: l’oblio del passato! Onde all’uomo, che tante mirabili cose aveva già compiute, il pubblico largheggiava fiducia per il futuro; e questo prediletto della fortuna, che aveva vinto per caso, era ammirato come nessun grande uomo della storia di Roma prima di lui. Egli ricondurrebbe in tutto l’impero la pace e la prosperità; egli rifarebbe la giustizia incorrotta, emenderebbe i costumi, ripristinerebbe il culto degli Dei; egli vendicherebbe le disfatte persiane di Crasso e di Antonio. Il contagio anzi dell’ammirazione per lui si esaltava in certuni a una specie di follia: tale quel senatore, che correva in questo tempo pazzamente le vie di Roma ed esortava ogni viandante in cui si imbattesse a dedicarsi ad Augusto, secondo l’uso spagnuolo, impegnandosi cioè a non sopravvivergli1.

La leggenda, che circonfonde uomini e popoli fortunati con lo splendore del mito; la invisibile ancella della fortuna che in questo splendore trasfigura i fortunati ingrandendoli e ne centuplica le forze ai nuovi cimenti, ingrandiva allora smisuratamente, sopra lo sfondo dell’universale illusione, questo antico senatore romano, che pur tanti avevano visto strisciar piccolo e ignobile tra gli intrighi, le frodi, le violenze dell’ultima rivoluzione. Mutato nome, autorità, anima e mente, il sanguinario triunviro delle proscrizioni, il generale inetto di Filippi, l’ammiraglio codardo di Scilla, lo spregiato nipote dell’usuraio di Velletri appariva ora come l’universale provvidenza in ogni cosa ai contemporanei, lungamente preparati ad accogliere e ad inebriarsi di questa illusione dalle mistiche e vaghe aspirazioni a una età più felice e più pura, a un rinnovamento generale, che nei miserabili tempi della rivoluzione avevano confusamente fomentate e gli aruspici annuncianti a Roma, secondo una oscura dottrina etrusca, il principio del decimo secolo, l’ultimo assegnato alla vita di ciascuna nazione2; e gli oracoli sibillini, raccolti e divulgati dal dolce Virgilio nella popolarissima egloga quarta, i quali annunciavano l’imminente regno di Apollo, contaminando questa dottrina etrusca con l’antica leggenda italica delle quattro età del mondo3; e la filosofia pitagorica, molto studiata anche allora, con la dottrina da Varrone4 divulgata in Roma delle anime periodicamente ritornanti dal soggiorno degli Elisi sulla terra5, e sulla quale si era sovrapposta un’altra dottrina, raccolta pure da Varrone, secondo cui ogni 440 anni anima e corpo si ricongiungono e il mondo rivive nelle antiche forme6. Sarebbe difficile immaginare maggior confusione di idee disparate vaghe e imprecise: ma appunto perchè vaghe e imprecise, tanto più volentieri queste aspirazioni si semplificavano nell’ammirazione smodata di Augusto, nel quale ciascuno, attribuendogli tutte le intenzioni e tutte le potenze che più gli piacevano, poteva raffigurare a suo comodo l’uomo atteso così a lungo e chiamato, come tra poco scriverà Virgilio, a condere aurea secula, a dar corpo alle tante vaghe speranze che infiammavano gli spiriti. Senonchè c’era allora nell’impero un uomo che non credeva nel mito di Augusto e ne diffidava e quasi ne aveva paura: era Augusto. Ripetono da cinquanta anni gli storici, uno a imitazione dell’altro e tutti sulle traccie di una favola antica, che Augusto mirò con inflessibile perseveranza dal principio alla fine a raccogliere in sua mano, come Cesare, tutti i poteri, ma senza parere; a rivestire con le vecchie forme repubblicane, a cui l’occhio dei contemporanei era avvezzo, la nuova monarchia, di cui egli fabbricava occultamente, all’insaputa di tutti, la forte ossatura. Ma la favola non ha senso, ed ha trovato credito così a lungo, solo perchè nessuno ancora ha investigato a fondo l’opera e i tempi di colui, che molto impropriamente si suol chiamare il primo imperatore romano. Sebbene sia cosa difficile, venti secoli dopo e conoscendo gli eventi successivi, rivedere una situazione per gli occhi dei contemporanei; sebbene per questa difficoltà, – la sola che ci sia nella storia, ma così grande che il maggior numero non sa superarla – nessuno abbia sinora inteso Augusto e il suo strano governo del primo decennio di presidenza, non mi pare debba riuscire alla fine troppo difficile il capire per quali ragioni Augusto avesse allora paura delle vertiginose altezze, a cui la fortuna lo issava. Se gli spiriti ardenti si lasciano spesso alla fine abbagliare dallo splendore della propria leggenda, questo intellettuale egoista, senza vanità e senza cupidigia; questo valetudinario inetto ai cimenti repentini, pauroso di commozioni subitanee, e precocemente vecchio a 36 anni; questo calcolatore acuto, freddo e pavido, non si illudeva, neppure sulle più sublimi vette della fortuna. Egli sapeva che l’anima della sua leggenda, il fondamento della sua grandezza, la ragione dell’universale ammirazione era un immenso malinteso; che il pubblico gli prodigava omaggi, onori, potestà costituzionali e incostituzionali, perchè si era persuaso spontaneamente, senza che nessuno glielo avesse detto, come di cosa naturalissima, che Augusto farebbe tante meraviglie, le quali invece egli sapeva di non poter compiere e che perciò non intendeva nemmeno tentare. Prima di tutte, la conquista della Persia. Era questa la più grave difficoltà esterna che la rivoluzione, sconvolgendo così profondamente l’ordine di cose stabilito in Oriente, gli avesse trasmessa. Azio aveva sbigottito l’Italia, rivelando ad un tratto anche agli spiriti più grossi quel che gli spiriti più chiaroveggenti avevano incominciato a capire subito dopo Filippi: che cioè posta in mezzo alle provincie barbare, povere, malsicure dell’Occidente le quali le facevano corona, l’Italia, troppo piccola, troppo povera, troppo poco popolosa, lacerata da tremende discordie civili, non poteva dominar sicuramente, attraverso il mare, la parte orientale dell’impero troppo cresciuta negli ultimi cinquanta anni, prima per la conquista del Ponto fatta da Lucullo, poi per la conquista della Siria fatta da Pompeo, e recentemente infine per la conquista dell’Egitto fatta da Augusto. Prendendosi l’Oriente, alleandosi con l’Egitto, lasciando ad Ottaviano l’Occidente, Antonio non aveva forse costretto per dieci anni l’Italia a logorarsi nell’inazione, spettatrice impotente della propria rapida dissoluzione politica ed economica, mentre egli aveva potuto agire sopra un campo smisurato dalla Persia all’Egitto e tentar la conquista del mondo sulle vie già calcate da Alessandro? Antonio e Cleopatra avevano così rivelato a un tratto all’Italia che, se essa viveva precipuamente sulle provincie orientali, questo immenso impero, conquistato con tante fatiche in due secoli, poteva essere avulso dalla metropoli facilmente, con un piccolo sforzo: anzi il romanzo di Antonio e di Cleopatra, che aveva popolarmente spiegato alle masse il pericolo corso, lo aveva ingrandito sino a far credere che l’Oriente avesse addirittura minacciato di invertire le parti e di dominare a sua volta, dopo avere servito. Si intuiva ormai in Italia che la parte orientale dell’impero troppo cresciuta, più ricca, più civile, più popolosa, minacciava di soverchiare l’occidentale, più barbara e povera, e con essa l’Italia stessa, mal situata, sul limitare della barbara Europa, per dominare un impero, le cui regioni più vaste e importanti, i cui interessi più gravi e molteplici erano in Asia ed in Africa. Onde la formidabile esplosione del sentimento nazionale che, dopo la battaglia di Azio, aveva precipitato Antonio nell’abisso e costretto Augusto a far con la conquista dell’Egitto clamorosa vendetta delle umiliazioni che da Efeso e da Alessandria erano state inflitte a Roma, dei tenebrosi consigli con cui una Orientale aveva pensato di rubarle la parte migliore del suo dominio. Onde le voci continue di un possibile trasporto della capitale in Oriente, le vive inquietudini del nazionalismo romano per questo pericolo, gli ammonimenti di Orazio, che nella terza ode del terzo libro simboleggia per bocca di Giunone la lotta tra l’Oriente e Roma nel mito di Troia. Onde infine la smania popolare, che la conquista dell’Egitto non aveva ancora appagata, di mostrare agli Orientali quanto la spada di Roma tagliasse ancora. Infiammata dalla leggenda popolare di Azio, che descriveva l’ultima guerra come una grande prova della forza di Roma, illusa dal mito di Augusto, che da solo le spianava innanzi in un momento le più ardue difficoltà, l’Italia voleva continuare in Oriente, dopo la conquista dell’Egitto, le sue rappresaglie e vendette; e vagheggiava nella conquista della Persia il prestigio romano interamente restaurato in tutta l’Asia, la grande preda di tesori di cui abbisognava per rifarsi delle lunghe privazioni e delle immani rovine passate. Ripigliava insomma essa, per la bocca canora dei poeti che annunciavano ad ogni istante la partenza delle legioni per la conquista lontana, anzi addirittura la conquista dell’India, il grande disegno di Cesare e di Antonio....7.

Troppo tardi però, almeno a giudizio di Augusto. Augusto pensava essere, sì, necessario consolidare in Oriente la vacillante dominazione romana, ma adoperando arti diverse dalle rappresaglie, dai colpi di forza, dalle guerre spettacolose, che l’Italia desiderava. Egli conosceva l’arcano della battaglia di Azio; egli sapeva di non aver osato atteggiarsi a campione del nazionalismo romano-italico, se non quando Antonio, con gli incredibili errori, già aveva distrutta egli stesso la propria potenza; egli sapeva di aver vinto ad Azio senza combattere. Se non pensava a trasportar la capitale in Oriente – dopo la rovina di Antonio solo un pazzo avrebbe potuto volgere in mente un tale disegno – aveva anche dedotta dagli ultimi eventi una convinzione, che sola può spiegarci la politica esterna del suo primo decennio di presidenza: le provincie dell’Occidente essere da sole, anche avendo a capo l’Italia e Roma, troppo deboli di fronte alle provincie dell’Oriente, tanto più popolose, più vaste, più civili e più ricche; non poter Roma, dopo le guerre civili, le rovine irreparabili e le atroci discordie, sperar più di continuare in tutto l’Oriente, dal Ponto all’Egitto, quelle brutalità e prepotenze audaci, con cui, nel pieno vigore della sua feroce virilità, aveva sopraffatto uno dopo l’altro, separatamente, tutti i grandi ma decrepiti e discordi Stati orientali. Invecchiata a sua volta, Roma ormai sarebbe impotente contro una nuova coalizione orientale, come quella tentata da Cleopatra, che non ripetesse gli errori di Antonio. Se Antonio, seguendo il consiglio di Cleopatra, si fosse apertamente dichiarato re di Egitto, avesse fondato il nuovo impero e invece di muover guerra a Ottaviano in Europa avesse aspettato che Roma lo assalisse in Oriente per riconquistare le perdute provincie, che cosa avrebbe egli fatto? Avrebbe egli osato di muovere guerra, dall’Italia, al nuovo e formidabile impero? Cosicchè qualcuno potrebbe ritentar l’impresa con maggiore fortuna e saggezza. Necessitava quindi che in Oriente Roma riconoscesse la sua debolezza, e, come tutti gli Stati e i partiti che invecchiano, la ravvolgesse accortamente in un bello involucro di generosità e di bontà, incominciando a trattare più umanamente le tormentate provincie, per conciliarsele ormai che non poteva più spaventarle8. L’ordinamento dell’Egitto, senza dubbio immaginato e proposto da lui e che fu – ma gli storici non se ne sono accorti – la vera novità rivoluzionaria introdotta dalle guerre civili nella repubblica e definitivamente sanzionata dalla restaurazione del 28 e del 27, era stato il primo saggio di questa nuova politica orientale. Per la prima volta nella storia di Roma la nuova conquista non era stata nè posta sotto una dinastia vassalla, temendosi riapparisse in quella qualche nuova Cleopatra; nè dichiarata provincia romana, dubitando Augusto che l’Egitto si acconcerebbe al governo di un proconsole. Se neppure la monarchia legittima, con il prestigio secolare, la presenza continua, l’opera assidua e molteplice di corruzione e di repressione, era riuscita, negli ultimi cinquanta anni, a mantenere la pace; se le sommosse popolari, le congiure di palazzo, le guerre civili avevano sconvolto senza tregua l’Egitto, si poteva presumere riuscirebbe a mantenere l’ordine e la pace un oscuro senatore, scelto quasi ogni anno a caso in Roma, ignaro dei luoghi e delle genti, al quale non si potevano assegnare che tre legioni, di cui una bastava appena a far la polizia di Alessandria?9 Roma era troppo odiata e screditata in Oriente, sopratutto in Egitto! Augusto aveva quindi immaginato, imitando la doppia politica di Antonio, di inalzare in Egitto un simulacro posticcio dei Tolomei, un grossolano fantoccio dinastico, affinchè il rappresentante repubblicano di Roma potesse appiattarcisi dietro10; di governare l’Egitto per mezzo di una magistratura bifronte, che presentasse all’Italia una faccia repubblicana e latina, all’Egitto una faccia orientale e monarchica, proprio come aveva tentato di fare Antonio. Augusto e il praefectus Aegypti da lui nominato dovevano insieme e d’accordo assumere le due persone di questa doppia magistratura: Augusto, che in Italia non era se non il primo cittadino della repubblica, figurerebbe per gli Egiziani, nei prossimi dieci anni di presidenza, come il continuatore dei Tolomei e il nuovo re dell’Egitto, uscito di Alessandria per reggere da Roma un più vasto impero e governante l’Egitto per mezzo del praefectus; il quale poi agli Egiziani apparirebbe come un vicerè, mentre gli Italiani potevano considerarlo come la rinnovata antica magistratura che Roma mandava a reggere le città suddite dell’Italia, nei primi secoli della conquista italica. Immaginarsi dunque se chi non osava neppure dichiarare l’Egitto provincia romana oserebbe tentar di conquistare la Persia dopo i due grandi insuccessi di Crasso e di Antonio! Del resto a conquistar la Persia non bastavano le pur bellissime odi di Orazio: occorrevano, a giudizio di Cesare, sedici legioni almeno e ingentissime somme di denaro. Ma ridotto l’esercito a 23 legioni, quante bastavano appena a tener l’impero sulla difesa, non era più possibile spedirne 16 sulla via, da cui Crasso non aveva fatto ritorno.

Soltanto dunque per una specie di illusione contagiosa l’Italia vedeva impersonate in Augusto tutte le sue aspirazioni. La concordia tra la nazione e il primo magistrato della repubblica era solo apparente. In una questione capitale, come la politica orientale, il disaccordo era inconciliabile; l’Italia sospingendo Augusto sulla via già percorsa da Crasso e da Antonio; e Augusto intendendo invece di abbandonare la Persia ai poeti, affinchè la conquistassero quante volte loro piacesse, sulla carta. E questo disaccordo basterebbe a farci considerare ben altrimenti che come una “commedia politica” la moderazione costituzionale di Augusto. Da Crasso in poi la conquista della Persia era stata la sperata suprema giustificazione di tutte le usurpazioni costituzionali, ambite o compiute: con quella Cesare aveva sperato giustificare la dittatura, Antonio il triunvirato: Augusto invece, che non voleva avventurarsi a cercare nel lontano Oriente i trofei promessi da Antonio e da Cesare, sul serio, per necessità e per saggezza, non per inganno o per platonico spirito repubblicano, si proponeva di esercitare soltanto e costituzionalmente il consolato in Roma e il proconsolato nelle sue tre provincie, dissimulando più che potesse il cumulo delle due autorità, consolare e proconsolare, che dopo la prefettura dell’Egitto era la più grave innovazione contenuta nelle riforme del 28 e del 27. Si era perciò affrettato a congedare subito, dopo il 16 gennaio, il codazzo dei fanatici che gli si ostinavano alle calcagna con nuove proposte di onori; aveva cercato di raffreddare il bollore degli ammiratori maniaci11; si studiava di mostrare in tutti i modi ossequio al Senato, avendo pratica continuamente con i senatori di maggior considerazione e consultandoli in ogni più grave faccenda12; si sforzava insomma di rimpicciolire nella immaginazione popolare il suo mito alla misura del ragionevole, di fuggire dall’alone radiante entro cui la leggenda si affaticava a trasfigurarlo, per persuadere i concittadini che egli era soltanto un senatore e un magistrato di Roma. Commedie – ripetono da cinquanta anni gli storici. Atti seriissimi – rispondo io: perchè Augusto, il quale probabilmente conosceva Roma e l’Italia del tempo suo così bene almeno come tanti moderni professori di storia, sapeva che due sentimenti combattevano tra loro nell’anima della nazione, cosicchè si poteva, soddisfacendo l’uno, offendere l’altro, ma non già far violenza ad ambedue: l’orgoglio imperiale e la fierezza repubblicana. Solo chi conquistasse imperi e tesori, poteva malmenar la repubblica impunemente o almeno con minore pericolo.... Ma se Augusto, che non voleva impugnare i vessilli di Roma sulle vie della Persia, aveva ragione di restringere egli stesso i propri poteri, il pubblico non ristava perciò dal richiedergli mille cose, che neppure la dittatura avrebbe potuto procurare alla repubblica. Per esempio: la pace interna, l’ordine in Roma, la tranquillità in Italia, il perfetto andamento della nuova costituzione. Pareva cosa naturale a tutti che il nuovo magistrato, posto a capo della restaurata repubblica, raffrenasse tutte le forze rivoluzionarie che avevano nel secolo precedente dilacerata così atrocemente la costituzione: vigilasse quindi che non rinascesse la disunione nella aristocrazia e non risorgesse dagli ultimi avanzi del partito cesariano una nuova demagogia; vigilasse che la aristocrazia e l’ordine equestre, rimessi in possesso degli antichi privilegi, compissero con zelo i propri doveri; vigilasse infine tutti gli organi della costituzione, i comizi, il Senato, le singole magistrature, i tribunali affinchè facesse ciascuno l’officio proprio. Ma basterebbe a tanto compito l’autorità consolare, la sola che Augusto poteva esercitare in Roma e in Italia? Definita in tempi in cui ogni cosa era più semplice, più piccola, più facile, quella autorità aveva, per i bisogni presenti, mille manchevolezze; non essendo neppur munita di uno strumento – spada, frusta, bastone – con cui mantenere l’ordine nella fecciosa e riottosa metropoli. Sollecito di esercitare il consolato con rigidezza costituzionale esemplare, Augusto aveva mandate lontano da Roma le coorti pretorie, di cui, come proconsole, aveva diritto di circondarsi quando assumeva il comando degli eserciti; era risoluto a non chiamare mai in Roma i soldati, come sciaguratamente il triunvirato aveva fatto tante volte: onde, per raffrenar Roma, le sue moltitudini, le sue fazioni, i suoi violenti istinti rivoluzionari, le sue discordie turbolente, egli non poteva fare assegnamento su alcun solido arnese di repressione, ma soltanto sul suo prestigio di salvatore di Roma, di debellatore di Cleopatra, di restauratore della pace; e cioè sopra un’impressione non duratura degli animi, che dileguerebbe presto, specialmente allorchè si saprebbe che egli aveva paura dei Parti. Egli insomma, come un tutore, doveva imporsi soltanto con l’autorità morale e correggere con blandi castighi l’immensa metropoli, che non era invece una pupilla docile e modesta, ma una furia ardente di superbia, di cupidigia, di violenza, di crudeltà.... È facile capire quanto fosse arduo il compito suo soltanto in Roma: che dire poi della pace pubblica, del buon andamento dello Stato, della regolarità costituzionale, che tutti aspettavano da lui? Che dire sopratutto di un’altra grande e antica aspirazione, che il mito di Augusto fomentava e riaccendeva ormai in tutte le classi: la riforma dei corrotti costumi? Chiesta da più d’un secolo, caldeggiata da tutti i partiti ora sul serio e più spesso per opportunità, tentata qualche volta sinceramente, qualche volta per forza, qualche volta per finta; proposta, posposta, riproposta senza tregua, la riforma del costume pareva ora urgere di nuovo, come l’unico farmaco risanatore in una crisi mortale, come il complemento necessario della restaurazione aristocratica. Tutti capivano che, restaurata la repubblica, era necessario rifare anche un ordine senatorio ed un ordine equestre, i quali sapessero usar delle ricchezze a profitto del pubblico invece di profonderle in lusso insensato o in turpi bagordi; i quali educassero numerose figliolanze, come in antico, al governo e alla guerra; i quali fossero esempio al popolo di tutte le virtù che conservano un impero fondato con le armi: abnegazione civica, valor militare, costumi severi, alacrità, risolutezza. Se la aristocrazia non si purificava in una grande riforma morale, avrebbe essa potuto generare gli ufficiali e i generali i quali avrebbero condotte le vittoriose legioni sin nel cuore della Persia? Difatti Orazio, il quale si dilettava di fissare, nei metri imitati dai lirici greci, questi pensieri e questi sentimenti diffusi nelle classi colte; che già aveva indicata come causa della potenza di Roma la purezza sessuale conservata così a lungo dagli antenati nelle case severe13; che già aveva gridato all’Italia non potersi vincere i Parti finchè non si fossero sottoposti i giovani ad una nuova e più severa educazione14; Orazio esclamava in questo tempo:

Quid leges sine moribus
Vanae proficiunt?15

Leges significa qui l’ordine ristabilito, la restaurata repubblica. “Che giova – intende dire il poeta – aver ricostituita la repubblica, se non si purificano i corrotti costumi? Anche le istituzioni buone faranno opera cattiva”16. Urge innanzi tutto sradicare dai cuori l’avidità delle ricchezze, sorgente di tutti i mali.

Gli agresti Sciti meglio
vivon, che i nomadi tetti trascinano

su carri, e i Geti rigidi
che da gli iugeri non conti i liberi

traggon doni di Cerere....17

Ma Orazio non pensa che gli uomini si emenderanno spontaneamente, vinti dalla virtù persuasiva delle buone ragioni e dei saggi consigli: pensa che occorre la forza delle leggi:

Oh quei che vorrà l’empie
stragi e la civica rabbia dirimere,

e “Padre della Patria”
desia che scrivangli sotto le statue,

raffreni l’indomabile
licenza, a’ posteri chiaro: che, invidi,

virtù presente (infamia!)
s’odia, ricercasi quando dilegua.

Ma a che i lamenti lugubri
se niun supplizio le colpe elimina?18

E quel che Orazio esprimeva in magnifici versi, molti ripetevano in ogni parte d’Italia come sapevano, domandando ad Augusto, naturalmente, che facesse leggi contro il lusso, contro il malcostume, contro il celibato; che rinnovasse quella antica polizia del costume privato, che l’aristocrazia aveva per tanti secoli e con tanta fermezza commessa ai censori19. Facile a dire, difficile a a fare! Augusto, quanto a lui, non sarebbe stato alieno dal soddisfare i nuovi puritani, perchè egli stesso era uno di questi arcaicizzanti dell’alta società, e tra i più sinceri, per temperamento, per persuasione, per tradizione: per temperamento, perchè amava più il vecchio che il nuovo, più la semplicità e la parsimonia che il lusso e la prodigalità; per persuasione, perchè era un ammiratore di Cicerone; per tradizione, perchè era nato in una famiglia di borghesia provinciale e aveva frequentato quella parte dell’aristocrazia romana, in cui la tradizione era conservata con maggiore tenacia. Livia, ad esempio, la intelligente ed abilissima Livia, che aveva ormai un così grande imperio su lui, apparteneva ad una di queste famiglie. Ma Augusto, come tutti gli uomini di alto intelletto che vivevano a Roma, conosceva a fondo la dissoluzione morale dei ceti superiori e di quella che si potrebbe chiamare, con uno scrittore moderno20, la classe politica; e dubitava perciò si potesse ripulire la immane sentina del mondo. Se per bocca di Orazio tutti gli ammiratori del buon tempo antico domandavano rigori e leggi contro la corruzione dei tempi, un altro poeta, Properzio, prorompeva intorno a questo tempo in un grande grido di gioia, perchè con le altre disposizioni del triunvirato era stata abolita una legge dei triunviri, promulgata non sappiamo quando, e che, non è chiaro con quale ingiunzione, cercava di costringere i cittadini al matrimonio.

Gavisa es certe sublatam, Cynthia, legem,
Qua quondam edicta, flemus uterque diu....21

Mentre tutti anticipavano con l’immaginazione le grandi vittorie delle armi romane sui Parti, questo poeta ingenuamente confessava all’amante il suo egoismo civico:

Unde mihi Parthis natos praebere triumphis?
Nullus de nostro sanguine miles erit;22

lo confessava senza infamarsi, senza perdere il favore della aristocrazia, che lo ammirava, senza attirarsi la collera di Mecenate, che lo proteggeva. Se Orazio coltivava la poesia civile e religiosa, Properzio e un altro poeta, egualmente caro all’aristocrazia, Tibullo, coltivavano con lode non minore quella poesia erotica, che è una insidiosa forza dissolutrice di tutte le forti compagini aristocratiche, le quali vogliono serrarsi per la lotta e il dominio. Infine un altro scrittore, Tito Livio, in questo tempo poneva nella prefazione, a fondamento della sua grande storia di Roma, la concezione tradizionale e arcaicizzante dello Stato e della morale, allora in voga; ma senza dissimulare che la considerava come una inutile protesta della ragione contro la invincibile forza di corruzione insita nelle cose. Egli dichiara che si è immerso nello studio del passato, per dimenticare i guai dei tempi presenti, tanto confusi e travagliati per la dissoluzione degli antichi costumi, da “non poter tollerare più nè i mali di cui soffrivano nè i rimedi necessari a curarli”. “Nec vitia nostra nec remedia pati possumus.” Questa frase compendiosa definisce così bene la strana condizione di quei tempi, spiega così luminosamente tutta la politica di Augusto nel primo decennio della sua presidenza, che io la considero non come una riflessione personale e tutta di Livio, bensì come la sintesi felice delle lunghe discussioni fatte sullo stato dell’Italia tra Augusto e gli amici suoi, alle quali Livio era presente.

Cosicchè per il momento Augusto, come non intendeva di conquistare la Persia, non voleva neppure accingersi alla dubbia fatica di far riripiegare a ritroso i costumi sulla via dell’antica semplicità. Anche su questo punto l’Italia e il suo eroe parevano, ma non erano d’accordo. Non la rivincita partica, non la restaurazione dell’antica virtù erano il suo più grave e più costante pensiero in quel primo ristoro della guerra civile appena finita. A che parte della pubblica cosa intendeva dunque Augusto di volgere le sue prime cure? Noi possiamo affermarlo con sicurezza: al riordinamento delle finanze, che gli pareva – e a ragione – il necessario prologo di ogni altra riforma23. Era chiaro che nessun governo potrebbe nè tentar guerre nè riordinare i servizi pubblici, nè far cosa alcuna, se prima non avesse ricostituito un erario, con entrate sufficienti e costanti; se prima non avesse almeno scemata la tormentosa scarsezza del medio circolante – oro ed argento. Non solo l’erario dello Stato, ma le arche dei templi e delle città erano vuote; ma gli immani tesori rubati dalla rivoluzione, ma i tesori di Cleopatra parevano essere spariti, tanto scarsa era ancora la moneta che circolava tra i privati, con tanta ansia i fortunati saccheggiatori stringevano ancora al seno i loro tesoretti, temendo di essere a loro volta spogliati. Senonchè, se la riforma era necessaria, era anche molto ardua. Con quali mezzi sollecitar fuori dai loro nascondigli i preziosi metalli, paurosi degli innumerevoli ladri ancora appostati in ogni parte? Deposto ogni proposito di conquistare la Persia, non si poteva più provvedere all’Italia il medio circolante con il mezzo più adoperato in antico, la guerra. Ad Alessandria Roma aveva ghermito l’ultimo dei grandi acervi d’oro e di argento, accumulati nei secoli precedenti dagli Stati circummediterranei; e aveva gettato anche quello nella voragine senza fondo dell’Italia, che già aveva inghiottiti tutti gli altri: quelli deposti nei castelli di Mitridate come quelli custoditi nei templi druidici della Gallia. Altri tesori posti più vicino e meno difesi che i tesori della corte di Persia, non c’erano fuorchè – almeno si sussurrava – nell’interno dell’Arabia, presso certe popolazioni, le quali, vendendo agli stranieri aromi e gemme senza comperar nulla, ammucchiavano le monete d’oro e di argento24. Ma non volendo correre alla leggera il rischio di un insuccesso, Augusto si riserbava di studiare con maggior pacatezza una spedizione in Arabia; e intanto, per aver denaro, non poteva ricorrere se non a tre mezzi: uno, che è il più naturale, ma che allora era anche molto più faticoso e dispendioso che il rubarlo a chi lo aveva già accumulato, e cioè riattivare le miniere abbandonate; e gli altri due molto usati in ogni tempo: curar meglio le riscossioni dei vecchi tributi e imporne dei nuovi. Senonchè Augusto poteva certamente riattivar le miniere e spremere più vigorosamente i sudditi nelle provincie sue – e all’una cosa come all’altra veniva pensando; come imperator, poteva coniare per i suoi soldati monete di buona lega, come aveva incominciato a fare, in luogo delle antiche mezzo false; poteva infine, come console, indicare abusi e manchevolezze nella amministrazione, proporre al Senato e al popolo imposte e riforme. Ma non poteva nè dirigere nè controllare l’amministrazione dell’erario, ricollocato sotto l’autorità suprema del Senato e per le singole operazioni affidato, dopo l’ultima riforma, ai praefecti aerarii saturni, scelti dal senato medesimo25; non poteva vigilare la attuazione delle nuove imposte e riforme fuori delle sue provincie, nelle provincie degli altri governatori26. Nè il proporre nuove imposte o riforme finanziarie era cosa agevole in quei tempi così difficili. L’Italia si sarebbe tremendamente infuriata, se dopo la rivoluzione, anche la pace fosse venuta a domandarle denaro: onde Augusto non poteva pensare di imporre balzelli alla metropoli, se non voleva porre a repentaglio la popolarità così faticosamente acquistata. L’Oriente era esausto; e dopo Azio egli giudicava più prudente blandirlo che scorticarlo. Poichè dunque all’Italia non si poteva domandare nessun tributo; siccome non si potevano aumentare i tributi dell’Oriente assottigliati come l’ultimo filo d’acqua di una fontana esausta; siccome i nuovi tributi dell’Egitto non bastavano a riempire il vuoto erario, non restava che volgersi alle barbare provincie d’Europa, alla Gallia conquistata da Cesare, alla Pannonia, alla Dalmazia conquistata da Augusto stesso, che sino ad allora avevano contribuito poco o nulla. E Augusto da un pezzo pensava di far contribuire questi barbari all’erario dell’impero: ma non si poteva sperar di spremere molto denaro da genti tanto povere e rozze27.

Ricchissimo, potentissimo, ammiratissimo, ricolmo di onori, quasi adorato e divinizzato. Augusto tuttavia – e fu la ragione precipua della sua duratura grandezza – continuava a temere l’incostanza della fortuna. Non è possibile spiegare il primo decennio del governo di Augusto, e quella specie di continuo terrore della propria potenza che tutto lo domina, se non si ammette che in quegli anni, su tutti i pensieri che Augusto poteva volgere in mente, su tutti i propositi, le ambizioni, i desideri che un uomo, smisuratamente favorito dalla sorte, può concepire, doveva dominare, immensa, l’impressione delle quattro catastrofi dei quattro uomini che erano successivamente riusciti a porsi a capo della repubblica: di Crasso, di Pompeo, di Cesare, di Antonio; di Antonio precipuamente, la cui catastrofe così recente, così strana, così inverisimile, doveva sbigottirlo più che le precedenti, perchè egli era tra i pochi che ne conoscessero il terribile arcano. Quanto labile era la grandezza in quei tempi! Come rapidamente le ammirazioni smodate delle moltitudini, le aspettazioni intemperanti e pazze si volgevano in odio furioso, quando sopraggiungeva l’inevitabile delusione che la moltitudine, invece di accusare la propria stoltezza, imputava sempre, come un delitto, all’uomo prima ammirato! Un errore, una imprudenza: ed ecco l’arbitro dell’impero, l’uomo potente tra tutti, precipitato negli abissi a furore di popolo! Perciò nessuna cosa doveva parere più stolta ad Augusto, nel 27 a. C, che mettere in scena una nuova “commedia politica” davanti all’irritabile pubblico, che già aveva a mezzo dello spettacolo lapidato tanti attori. Che frutto aveva ricavato Antonio dagli sdoppiamenti pur tanto ingegnosi della sua politica, dalla lunga “commedia” in cui si era travestito da re egiziano, si era rivestito da proconsole, per travestirsi poi di nuovo all’asiatica? No: non c’era valore, abilità, fortuna la quale potesse avventurarsi sicuramente sulla corrente di quella politica, che si rivolgeva in sè stessa nei terribili mulinelli di tante contradizioni; era necessario rientrare finalmente nel vero per tutte le porte, anche per le più basse ed anguste, per la porta della pratica ragionevolezza come per quella della modestia; era più savio trarsi in disparte, rimpicciolirsi, per non rinfocolare in quella vecchia repubblica aristocratica, con l’ostentazione di una potenza quasi monarchica, le già troppo ardenti speranze popolari, per non ferir troppi amor propri, per non inasprir troppe invidie; e nella penombra, senza chiasso, con “lenta sollecitudine” – festina lente, era uno dei suoi motti favoriti28 – iniziare una conciliazione universale, con un governo arrendevole, benevolo e duttile, con opere poco spettacolose e clamorose, ma saggie e benefiche. “Rallier autant que possible les intérêts sans froisser les convictions”, queste parole con cui uno storico moderno definisce gli scopi del consolato di Bonaparte29, possono ripetersi del principato di Augusto. Quando avesse la pace e la prosperità, l’Italia non rammaricherebbe più le insoddisfatte aspirazioni di gloria; e a un presidente così compiacente, così modesto, così equanime, largo di tanti beneficî, non rinfaccerebbe il non aver condotto a Roma in catene il re dei Parti. Urgeva riparare le vie dell’Italia; l’erario era quasi vuoto; con i denari egiziani Augusto avrebbe potuto assumersi il lavoro, ridare in qualche anno all’Italia le sue vie riparate, rilastricate, lucenti; attirare sulla sua persona da ogni parte la gratitudine dell’intera nazione per così insigne munificenza. Invece no. Augusto volle nascondersi dietro il Senato; convocò i più cospicui senatori, dichiarò loro che egli intendeva riparare la via Flaminia con tutti i ponti, da Roma a Rimini, e li persuase ad assumersi ciascuno la riparazione di un’altra strada, lunga o corta. Ad assumerla, com’è naturale, nominalmente: che di tutte o quasi tutte le riparazioni pagherebbe egli la spesa30. Insomma egli si assunse tutto il carico delle riparazioni e spartì invece l’onore con la parte più eletta del Senato. Per meglio vigilare l’amministrazione dell’erario senza fare atto alcuno che non fosse costituzionale, immaginò di istituire, in casa sua, per proprio uso privato, una contabilità dello Stato; scelse tra i suoi numerosi schiavi e liberti i più istruiti e intelligenti; e poichè come presidente del Senato, come console, come proconsole di tre grandi provincie, poteva facilmente procurarsi e comunicar loro tutte le cifre delle entrate e delle spese, li incaricò di compilare per lui i conti dell’impero, affinchè egli potesse ad ogni istante sapere quanto la repubblica incassava e quanto spendeva, quanto rendevano le singole imposte, e quanto costava ogni servizio; quali erano i cespiti e gli impegni dello Stato31. Armato così di questi conti privati, più esatti e diligenti di quelli tenuti dagli scribi dei præfecti aerarii Saturni, egli potrebbe studiare le proposte da sottoporre al Senato per riordinare le finanze; incitare, ammonire o far incitare e ammonir dal Senato i magistrati che spendessero male o che trascurassero di riscuotere le imposte e di far fruttare le proprietà dello Stato; esercitare insomma, senza esserne investito e senza incorrere in alcuna responsabilità, l’autorità di un vero ministro delle finanze. Urgeva però aumentare subito il medio circolante, troppo scarso per i bisogni dello Stato e dei privati. Augusto deliberò di riconquistare nella sua provincia di Spagna le regioni aurifere abitate dai Cantabri e dagli Asturi, per riattivar le miniere che nell’anarchia dell’ultimo secolo erano state abbandonate, dopochè gli indigeni si erano ribellati alla autorità di Roma. Deliberò pure di far conquistare nelle Alpi la valle dei Salassi, considerata come l’Eldorato d’Italia. Si risolvè pure – probabilmente facendo approvare un decreto dal Senato – ad accrescere i tributi pagati dalla Gallia, dalle popolazioni alpine, dalle provincie illiriche – specialmente dalla Dalmazia e dalla Pannonia. Nel tempo stesso, per dominare Roma e per mezzo di Roma la repubblica, senza adoperare la forza e senza fare soverchio assegnamento sopra il suo prestigio, egli si accinse pazientemente a legare al nuovo governo e tra loro le classi sociali con sottili, quasi invisibili ma solide catenelle d’oro, posando sin d’allora quello che sarà uno dei principii essenziali della politica dell’impero: spendere molto, spendere senza contare in Roma, in modo che tutte le classi ne approfittassero; se non anteporre gli interessi della metropoli a tutti gli altri interessi dell’impero, porli almeno a pari degli interessi più gravi. D’ora innanzi, per secoli, le feste pubbliche di Roma saranno per il governo una cura non meno grave che l’armamento delle legioni! L’erario era semivuoto; tutti i servizi pubblici, dalla difesa delle frontiere alle vie in disordine per mancanza di denaro; l’impero esausto? Eppure Augusto si affrettava, anche prima di provvedere a questi bisogni, a spendere ingenti somme del suo in Roma, in opere pubbliche di dubbia urgenza; e incitava gli amici e i parenti a imitare l’esempio, affinchè non mancassero il lavoro e il guadagno al popolino e alla classe media. Non solo continuò la riparazione dei templi, ma con particolar cura prese a riparare il grande Santuario nazionale di Giove sul Campidoglio, e il teatro di Pompeo32; a ricostruire il portico innalzato da Gn. Ottavio quasi un secolo e mezzo prima e distrutto da un incendio33; a edificare in capo alla via Sacra un tempio degli Dei Lari; a rifare il vecchissimo tempio di Quirino sul Quirinale; e i templi, pur essi antichi, di Minerva, e di Giunone Regina sull’Aventino!34 Poteva a Roma scarseggiare la religione, ma non i luoghi del culto! Disegno più vasto, egli intendeva di costruire un nuovo fôro. L’antico e quello di Cesare non bastavano ai bisogni della città tanto cresciuta: egli spianerebbe, allargherebbe, edificherebbe un nuovo fôro intorno al tempio di Marte Ultore, di cui aveva fatto voto a Filippi e che doveva essere, nel suo pensiero, il tempio padre della milizia romana. Continuò inoltre la costruzione del grande teatro, incominciato da Cesare. Degli amici suoi, Statilio Tauro e Cornelio Balbo, il nipote e l’erede del ricchissimo agente di Cesare, avevano acconsentito a edificar ciascuno un altro teatro. Agrippa, ormai vicino a finire il Pantheon, si assumeva di finire l’altra grande costruzione impresa da Cesare, i Saepta Julia, il sontuoso edificio per i Comizi35; e aveva risoluto di ingrandire il modesto laconico costruito dietro il Pantheon in immense e sontuosissime terme, simili a quelle in cui si bagnava il popolo della Siria, costruendo per alimentarle un nuovo acquedotto, lungo 14 miglia, quello che riceverà poi il nome di acqua Vergine36. Agrippa inoltre si assunse di fare per il servizio delle acque quello che Augusto aveva fatto per le finanze: e poichè dei magistrati, cui spettava costituzionalmente la cura delle acque, i censori non erano più eletti da un pezzo e gli edili non se ne occupavano, egli scelse tra i suoi schiavi un personale alacre e intelligente, che vigilasse, riparasse, tenesse in buon ordine gli acquedotti di Roma37. Più difficile impresa era invece, al figlio di Cesare, al triunviro delle proscrizioni, il riconciliarsi con la nobiltà storica; ma Augusto ci si accingeva con una pazienza instancabile, con una avvedutezza sempre all’erta e con potentissimi mezzi. Non solo aiuterebbe nelle elezioni i personaggi più cospicui a rioccupare, come nel bel tempo antico, le somme cariche; non solo non tralasciava occasione alcuna di corteggiare o la nobiltà tutta o qualche suo membro cospicuo: ma si proponeva – pegno di pace più solido che tanti omaggi platonici – di rifarne le disfatte fortune. Roma possedeva nelle provincie un immenso patrimonio di terre, di boschi, di miniere che le guerre civili avevano ancora accresciuto; che la repubblica aveva sfruttato appaltandolo ogni tanti anni a società di pubblicani. Ora però, disciolte le grandi società appaltatrici, diminuiti di numero i grossi capitali, affievolito in Italia l’avventuroso spirito di speculazione, venuto in odio a tutti sino il nome di pubblicano, molta parte di questi beni erano abbandonati in balìa di loro stessi; e i frutti trafugati, dispersi, deviati per mille canali dalle pubbliche casse ove avrebbero dovuto affluire. Il male era antico; e Cesare aveva fatto ordinare dal Senato la misurazione di tutto l’impero, sopratutto per far l’inventario e per meglio sfruttare questo gigantesco patrimonio: ma le guerre civili avevano rallentato e intralciato il lavoro delle commissioni inviate nelle differenti parti dell’impero, cosicchè non pare che nessuna fosse ancora nel 27 interamente misurata38. Ora Augusto aveva già provveduto – e fu certo una delle sue prime cure, terminate le guerre – a sollecitare la fine della grande opera, per adoperare, almeno nelle provincie sue, questo patrimonio ai suoi fini, non più appaltandolo, ma dandone le singole parti in locazione perpetua e per un canone annuo o ai municipi o ai privati. La repubblica potrebbe così fare assegnamento sopra un reddito costante; questi beni, le terre sopratutto, invece di cadere preda di appaltatori frettolosi di far denaro mettendole a sacco, verrebbero nel dominio di possidenti, disposti a farne l’uso che un diligente padre di famiglia fa del suo patrimonio; e quanta gente si potrebbe beneficare, arricchire, obbligare con tante ricchezze, ora giacenti al sole quasi inutili e oziose! Una parte di queste era da Augusto destinata alla aristocrazia storica impoverita, a compenso dei beni perduti nelle proscrizioni e nelle guerre civili.

Augusto insomma si proponeva di instaurare un governo modesto, ossequioso delle tradizioni e sollecito sopratutto di restaurare la fortuna dell’Italia e dello Stato, per avvezzar a poco a poco l’Italia a smetter l’idea della conquista persiana e il rammarico degli antichi tempi. Pace, raccoglimento, ossequio alla costituzione erano i tre cardini della politica di Augusto, il quale, per dare maggior prova di modestia, pensava addirittura di uscir di Roma, prendendo a pretesto la guerra contro i Cantabri e gli Asturi, sebbene questa non fosse certo di tanta mole, da richiedere la presenza del generalissimo. Ma tra gli abili accorgimenti della sua prudente politica, accorgimento felicissimo era il non stancare la troppo fervorosa ammirazione di cui allora godeva, con la presenza e il contatto continuo; l’avvezzare, con una lunga assenza, magistrati e cittadini, a poco a poco, senza avvedersene, a far da sè, senza sperar tutto da lui e senza ricorrere a lui per ogni cosa; il diminuire a sè medesimo le occasioni di commettere errori, di disgustar persone, di deludere l’opinione esagerata che molti si erano fatta di lui e della sua potenza. Non si cancellano in pochi mesi i ricordi di venti anni di guerra civile! In Senato gli avanzi della aristocrazia storica, i superstiti delle proscrizioni e di Filippi, i figli i nipoti delle vittime della rivoluzione, si ritrovavano a fianco, sugli stessi banchi, ornati degli stessi distintivi, i centurioni e gli avventurieri, entrati in Senato dopo Filippi; che avevano preso e si godevano tanta parte dei loro beni paterni, che avevano fatto perire i loro cari, che avevano rovinata la potenza secolare del loro ceto. Se la nobiltà superstite si acconciava a considerare come suoi pari i grandi capi della rivoluzione, i Mecenate, gli Agrippa, i Pollione, che compensavano con la gloria, la ricchezza e la cultura i natali, si ostinava invece a trattare i senatori oscuri come usurpatori di dignità e di patrimoni altrui. Vivere in Roma come console, presiedere le sedute del senato, stare in mezzo agli uni e agli altri senza offendere alcuno, era cosa difficilissima. Inoltre – ed è una considerazione di minore importanza per noi, ma che molta importanza aveva forse per Augusto – l’esempio di Cesare ammoniva che nè l’ammirazione popolare, nè le cariche, nè i littori, nè l’inviolabilità tribunizia, erano schermo sufficiente contro la pugnalata di qualche Bruto attardato; contro il quale non si potrebbero prendere in Roma precauzioni troppo visibili, senza offendere il sentimento repubblicano. Se era dal costume consentito – come Augusto faceva – di adoperare schiavi germanici e gallici, forti, giovani, aitanti, per difendere la sua casa e la sua persona, egli doveva anche in questa cautela badare a non far nulla di più che tutti gli altri ricchi signori della nobiltà senatoria, mentre il pericolo era per lui tanto maggiore!

Nel mese di maggio, quando si tennero le ferie latine, che egli doveva presiedere come console, egli si diede malato e non intervenne39. Era egli veramente malato, o pretestò la malattia, per non andare indifeso in mezzo alla folla festante? Poi si fecero le elezioni, quetamente e con ordine. I bei tempi della repubblica parevano ritornati. È probabile si presentassero a domandare i suffragi del popolo solo coloro che avevano l’approvazione di Augusto, il quale, per il favore universale, le ricchezze, il grande numero di amici, era di fatto, se non di diritto, l’arbitro dei comizi e il supremo elettore della repubblica. I consoli furono due soli – egli stesso e T. Statilio Tauro – perchè, ritornando all’antica e severa tradizione del consolato doppio e annuale si erano aboliti “i piccoli consoli” così numerosi nel tempo della rivoluzione. Ma il contegno tenuto da Augusto negli anni seguenti prova che egli non desiderava nemmeno di avere in così larga misura il potere e quindi la responsabilità di designare tutti i magistrati, che voleva i comizi ripigliassero a funzionare con vigore e con libertà. Motivo di più per andare in Spagna, dove le sollecitazioni degli ambiziosi lo infastidirebbero meno! Senonchè prima di partire Augusto doveva provvedere ad alcune gravi faccende. Doveva innanzi tutto preparare l’opinione pubblica, che farneticava la guerra contro i Parti ed altre simili gesta, ad approvare i suoi più modesti disegni. All’Italia, che si aspettava la conquista di immensi imperi, di magnifiche città, di opulenti tesori, Augusto non osava dir chiaro e subito che muoveva alla conquista di valli deserte, di qualche montagna brulla, di alcune miglia di cunicoli sotterranei abbandonati e a metà rovinati.... Egli incominciò quindi a spargere la voce che si accingeva a partire, per muovere alla conquista della Britannia prima e della Persia poi: quando fosse partito, a poco poco farebbe divulgare la notizia che grandi rivolte erano scoppiate in Spagna, accreditandola con successivi ampliamenti; avvezzerebbe così il pubblico all’idea della spedizione e indugiando lungo la via, aspetterebbe il tempo opportuno di mutare il suo viaggio40. Era però necessario che, lui partito, non fosse turbata la pace, in cui Roma viveva da alcuni anni: se no tutti avrebbero rammaricato il suo viaggio, come un grave errore e una grande sciagura. Ma chi avrebbe potuto far le sue veci, durante la assenza di lui? Sebbene Agrippa, che era suo collega nel consolato per quell’anno, e Statilio Tauro, che doveva esserlo nell’anno seguente, fossero persone autorevolissime, non parve che, con la sola autorità di consoli e lui lontano, potrebbero raffrenare senza armi e senza milizia una moltitudine riottosa, per la quale il consolato aveva perduto tutto l’antico splendore, dopochè l’aveva visto profuso tra gente troppo ignobile e oscura. Era necessario qualche cosa di più singolare; un nome almeno, poichè la forza verace mancava, più insolito e più solenne, che però fosse nel tempo stesso repubblicano. Assecondando il vezzo arcaicizzante allora in voga, Augusto pensò di disseppellire un’altra mummia: il praefectus urbi, che al tempo dei re e nei principii della repubblica era nominato per fare in Roma le veci, prima del re e poi dei consoli, quando uscivano per la guerra; e cercò pur di persuadere Messala Corvino ad accettare la carica, probabilmente su nomina del Senato. Messala era stato amicissimo di Bruto, aveva combattuto al suo fianco a Filippi, lo aveva veduto morire; e, benchè riconciliatosi poi con Augusto, era rimasto fedele alla memoria dell’amico, di cui diceva e scriveva in ogni occasione apertamente le lodi41; era un nobile di grande famiglia, un repubblicano fermo e sincero, un guerriero illustre; era anche molto amato e ammirato dai letterati, che proteggeva e di cui raccoglieva intorno a sè un crocchio. Messala rassicurerebbe dunque anche i più diffidenti repubblicani. Ma Messala riluttò da principio42. Forse lo spaventava la gravità del compito, forse la arcaica stranezza del ripiego. Per gli archeologi la praefectura urbis, disusata da tanti secoli, poteva essere ancora una istituzione repubblicana e romana; non per il popolo, che l’aveva dimenticata interamente e da un pezzo.

Ma una difficoltà più grave nasceva in Egitto. Non ostante il suo fermo proposito di governar l’impero con una politica semplice, coerente, senza contradizioni, Augusto era stato costretto a imitare in Egitto, sia pur con maggior discrezione e con il consenso delle autorità legittime, lo sdoppiamento artificioso di Antonio. Ma non ostante la sua prudenza, delle difficoltà inaspettate erano subito nate dallo stesso seme di quella contradizione insolubile. Nella immensa e meravigliosa reggia dei Tolomei, tra il lusso, i piaceri e gli omaggi prodigati a lui che occupava, senza confessarlo, il trono dei Lagidi, anche Gallo, l’antico borghesuccio di Forum Julii correva pericolo, come Antonio, di perdere il senno. Non aveva solo accumulate immense ricchezze43, accettati omaggi regi e fatte erigere in suo onore statue in ogni parte44: ma aveva anche preso a trattare l’Egitto con la violenza di un tiranno orientale e cominciato a sognar di fondare un grande imperio di sua iniziativa. Tratto fuori di Alessandria da una piccola rivolta scoppiata nell’interno, per reprimerla e per dare un esempio, aveva addirittura distrutta Tebe45; poi aveva ripresa, contro il volere di Augusto, la politica di espansione verso l’interno del continente africano e le sorgenti del Nilo, che in ogni età fu quasi una necessità di tutti gli Stati che possedettero l’Egitto. Mirando forse probabilmente non solo a soddisfare la sua smania di gloria e la sua avidità di bottino, ma a far ammirare dagli Egiziani il nuovo regime, come più ardito e più forte che il cadente governo dei Tolomei, Gallo aveva, probabilmente nel 28, fatta una spedizione nella Nubia – nel Sudan, cioè – arrivando, pare, sino a Dongola, in una regione – dice egli forse troppo enfaticamente – dove nessun generale di Roma e nessun re di Egitto aveva posto il piede; ed era riuscito a fare accettare il protettorato romano a un lontano predecessore di Menelik, il re degli Etiopi, Triakontaschoeni, i cui ambasciatori lo avevano trovato a File46. Augusto non approvava nè queste repressioni furibonde nè queste temerarie avventure, temendo – al solito – implicherebbero l’Egitto in gravi dispendi ed in guerre a cui non sarebbero bastate le tre legioni, assegnate come guarnigione all’antico regno dei Tolomei: ma non poteva, con la sola autorità personale, trattenere la irrequieta ambizione di Gallo, che celebre per fatti d’arme e per opere letterarie, orgoglioso per i servizi già resi al partito trionfante e ad Augusto, si considerava poco meno che pari del princeps; ma non osava adoperare con un personaggio tanto cospicuo la autorità sua così incerta, così equivoca, così poco romana, di re di Egitto per sottinteso, tanto più che probabilmente la prepotente e avventurosa politica di Gallo non spiaceva all’Italia, avida di umiliare e maltrattare l’antico regno di Cleopatra. Cosicchè Gallo non dipendendo da alcuno, non dal Senato, che non amministrava l’Egitto, non da Augusto, che non voleva, esercitandola, mostrare al popolo la sua strana autorità, faceva e disfaceva in Egitto a suo talento: pare anzi biasimasse acerbamente e pubblicamente le esitanze di Augusto, e non si peritasse di empir l’Egitto di iscrizioni in cui celebrava le imprese sue come tutte sue, senza alcuna allusione a colui che doveva apparire agli Egiziani come il sovrano loro e di Gallo, e obbligando gli Egiziani a domandarsi se Augusto fosse veramente il sovrano dell’Egitto o se Gallo invece un generale in rivolta. Questo strano contegno di Gallo aveva risvegliate tante diffidenze, che gli astuti sacerdoti di File, incaricati di tradurgli in geroglifici una iscrizione laudatoria delle sue gesta, nella quale Augusto era appena nominato, sembra lo abbian tradito, traducendo in luogo delle lodi sue, vaghe ed enfatiche lodi di Augusto. Gallo non poteva decifrare i misteriosi caratteri!47

Trattenere Cornelio Gallo sulla via della nuova conquista era cosa necessaria; ma il mezzo mancava, perchè dei mezzi che aveva a sua disposizione Augusto non voleva servirsi. Alla fine sembra che Augusto si risolvesse a fare intervenire il Senato e l’opinione pubblica. Molti ufficiali ritornati dall’Egitto raccontavano, anche esagerandole, le stranezze di Cornelio Gallo; tra questi il più acerbo di tutti era un certo Valerio Largo, che sembra avesse motivi di personale rancore con il praefectus Ægypti. Non è improbabile che Augusto indirettamente facesse incitare Largo a denunciare al pubblico le stravaganze di Gallo, con la speranza di intimorire il governatore dell’Egitto, mostrandogli il malcontento popolare.

Ma prima che Largo incominciasse le sue divulgazioni, Augusto era uscito di Roma: non appena, probabilmente, Valerio Messala si fu persuaso ad accettare, per l’anno prossimo, la praefectura urbis. Egli annunciava di andare a conquistar la Britannia, già tentata da Cesare, e a preparare la rivincita contro la Persia; e lo seguiva l’augurio di Orazio, che al suo ritorno egli sarebbe adorato quasi come un Dio. Egli invece andava soltanto a riconquistare una regione ricca di miniere, e non per ritornare trasformato in Semidio, ma per passare utilmente qualche anno lontano da Roma, e prendere tempo a osservare come si metterebbero, frattanto, le cose in quella universale incertezza.

II.
I PRIMI EFFETTI DELLA CONQUISTA DELL’EGITTO
E IL CAPOLAVORO DI ORAZIO.

Augusto conduceva in Spagna il figliastro e il nipote48: Tiberio Claudio Nerone, che aveva quindici anni, essendo nato da Livia il 16 novembre del 42; Marco Claudio Marcello, il figlio di Ottavia e del Console famoso per aver provocata nel 50 la guerra civile, che si crede fosse nato qualche mese prima di Tiberio, nel 43. Erano dunque ambedue appena usciti di fanciullezza: eppure Augusto già li conduceva alla guerra. Augusto, noi l’abbiamo detto, era un arcaicizzante sincero e ragionevole; onde se capiva di non potere, come il popolo farneticava, essere il restauratore di tutta l’antica Roma, era invece disposto a tentare due cose: restaurare entro le mura della sua casa un piccolo pezzo di quel passato, ricostituendo una antica famiglia, uno di quei piccoli monarcati domestici che erano stati il fondamento della società romana: ringiovanire la repubblica, rinnovando uno dei principii più salutari del governo aristocratico, che poi le gelosie e le diffidenze nate con le discordie e le rivoluzioni avevano spento; non dover cioè lo Stato diffidare della gioventù, dare le cariche più alte e le missioni più difficili solo alla canuta vecchiaia. Largo ai giovani di nuovo, come nei tempi aurei dell’aristocrazia!49 Non si era forse la nobiltà nell’ultimo secolo tanto corrotta, perchè i suoi membri erano stati condannati ad oziare nella età in cui le energie del corpo e dell’anima ribollono, forzando il vaso in cui sono contenute; a sciupare nel vizio e nelle dissolutezze la gioventù che non potevano consumare in opere grandi? D’altra parte, l’aristocrazia era stata così decimata, che se si voleva affidarle tutte le cariche più importanti, era necessario sollecitare e spingere innanzi i giovani, gli anziani non bastando più e molti non avendone voglia. Prudente in ogni atto, pare che Augusto avesse già fatto approvare una modificazione generale alle leggi annali allora in vigore, per preparar gradualmente il ringiovanimento dello Stato; e che intendesse poi proporre al Senato delle esenzioni speciali per le persone che meritassero; mentre intanto incitava con un esempio tutta la giovane aristocrazia a non perdere il tempo, facendo incominciar subito il tirocinio militare e politico ai propri parenti. Aveva perciò o raccolti sotto la sua autorità o confidati a Ottavia e a Livia oltre l’unica figlia, Giulia, natagli da Scribonia nel 30, tutti i fanciulli del parentado, che la rivoluzione aveva orbati del genitore: i due figli di Livia, il quindicenne Tiberio, di cui abbiamo già parlato e il fratello minore, Nerone Claudio Druso, nato nel 38; i cinque figli che sua sorella Ottavia aveva generati da Marcello e da Antonio, e cioè le due Marcelle, il Marcello che lo accompagnava in Spagna, e le due Antonie, nate prima che il triunviro abbandonasse la sposa latina per Cleopatra; infine anche il figlio minore di Antonio e di Fulvia, che doveva avere a un dipresso l’età di Tiberio e a cui era stato mutato il nome in quello di Julo Antonio: infine i tre figli superstiti di Cleopatra e di Antonio: Cleopatra Selene, Alessandro Elios, e Filadelfo50. Di questi dodici fanciulli, ai primi nove, che avevano nelle vene solo e purissimo sangue romano, Augusto aveva da qualche tempo già incominciato ad applicare il canone dell’antica educazione: le donne al telaio e gli uomini al campo per tempo. Sebbene maschi e femmine fossero accuratamente istruiti nella letteratura e nella filosofia, pure il princeps voleva portar toghe tessute in casa dalle due donne, come i grandi signori della età aristocratica51; e quanto ai maschi intendeva tuffarli di buon’ora nelle vive correnti dell’azione, per temperare armonicamente gli studi con l’esercizio delle facoltà attive. Gli ultimi tre, bastardi di un grande romano traviato e di una regina asiatica, pare che Augusto volesse tenerli in serbo come strumenti dinastici di politica orientale: anzi pare si accingesse già a servirsi di Cleopatra per riordinare la Mauritania, annessa da Cesare. Augusto pensava di ristabilire la dinastia nazionale, rimettendo sul trono di Giuba il figlio del re vinto da Cesare, che era stato educato a Roma e aveva ricevuto una educazione greco-romana: ma insieme con il regno, Giuba riceverebbe Cleopatra per moglie52.

In Gallia Augusto si fermò a Narbona dove egli trovò ad aspettarlo, convocati senza dubbio precedentemente, i notabili di tutta la Gallia53; vide venirgli incontro quanto restava della Gallia di Cesare e di Vercingetorice.... Venticinque anni erano passati dalla caduta di Alesia; ma neppure Antonio, che l’aveva veduta trascorrer furiosa sui campi di battaglia, moltiplicarsi infaticabile per tanti anni nelle insidie e nelle rivolte, precipitare infine, torrente immenso e vorticoso, sulle sottili trincee romane di Alesia, neppure Antonio avrebbe riconosciuta la terribile Gallia contro cui aveva combattuto, in quella generazione incanutita, che si raccoglieva ad Alesia intorno ad Augusto: riconciliata ormai con Roma, inerme, pacifica, dedita all’agricoltura e alla pastorizia, arricchita, ingrassata; se non curiosa di tutte le cose romane e disposta ad imitarle essa stessa, corriva a lasciare i giovani, la generazione nuova, che non aveva veduta la grande guerra nazionale o appena l’aveva intravista nell’alba dell’infanzia, “romanizzarsi”. Roma (l’autore spera che il suo lettore non l’abbia ancora dimenticato) aveva avuti sin dal primo giungere di Cesare numerosi amici nella nobiltà gallica, scontenta del disordine interno, irritata dalla insubordinazione della plebe e dalla prepotenza dei grandi plutocrati, inquieta per la crescente debolezza militare della nazione e per la minacciosa preponderanza germanica. Combattuta tra l’amore dell’indipendenza e la paura così dei germani come dei nemici interni; ora irritata dalla prepotenza romana, ora spaventata dalle minaccie popolari, la nobiltà aveva di continuo oscillato per nove anni in quel modo che il lettore ricorda: ora per Cesare ora per la Gallia, ma sempre così poco ferma nel sostener Cesare come molle nel combatterlo, lasciando nei momenti critici ogni cosa in balìa della minoranza esaltata dei nemici irriconciliabili di Roma, dei “nazionalisti” intransigenti. Cosicchè alla fine del 52 – fatto quasi incredibile – un manipolo di giovani arverni, con a capo Vercingetorice, non ostante l’età, l’inesperienza, la poca autorità, avevano potuto rovesciare il governo e trascinar tutta la Gallia nella tremenda avventura.... Ma fallita la grande rivolta, perita in questa o nelle successive o emigrata tutta la nobiltà irriconciliabile, esausto quindi il partito nazionale, la maggior parte dell’antica nobiltà celtica era ritornata nelle prime disposizioni e tanto più rapidamente, perchè Cesare, capito il momento, aveva saputo rassicurarla con abili concessioni. Gli Edui, i Lingoni, i Remi avevano conservata la condizione di alleati, cioè di stato indipendente, trattanti da pari a pari con Roma; molti popoli erano stati dichiarati liberi, cioè autorizzati a vivere con le loro leggi e a non ricevere guarnigioni romane, ma solo a pagare una parte del tributo54; a molti pure erano stati conservati il territorio, i tributarî, le gabelle, tutti i diritti e tutti i titoli che si arrogavano prima della conquista; a nessuno, certo, fu aumentato il tributo55, cosicchè la Gallia non dovè pagare – se pure la pagò – che la non grave contribuzione stabilita in origine di quaranta milioni di sesterzi. Si era studiato insomma di palliare l’annessione con platoniche sodisfazioni all’orgoglio nazionale; non aveva infierito contro la nobiltà tentennante che un po’ l’aveva aiutato un po’ l’aveva tradito; anzi aveva diviso i beni dei grandi periti o fuggiti, dei plutocrati scomparsi nella rivoluzione tra le famiglie nobili disposte ad accettare la supremazia romana56; molti nobili aveva presi al suo servizio nelle guerre civili, dando loro doni e talora la cittadinanza romana. Augusto si vedeva dintorno a Narbona in prima fila i Cai Giulii, che al bel prenome e nome latino attaccavano come cognome il loro barbaro gentilizio celtico; tutti cioè i nobili Galli fatti cittadini romani da suo padre e che formavano, nella nobiltà celtica, una specie di piccola nobiltà più eccelsa57. Così le guerre civili, che tutti avrebbero detto dover travolgere l’opera di Cesare, la avevano invece sospinta verso il suo compimento, affrettando in Gallia, per una strana contradizione, la pace. Intimoriti dai ricordi delle rivolte galliche e dal fantasma di Vercingetorice, costretti a richiamare dalla Gallia tutte le legioni, consapevoli della loro debolezza, i triunviri avevano lasciata la Gallia quasi in balìa di se stessa, e poco meno che indipendente di fatto se non di nome. Parecchie monete ci mostrano che in questo tempo i proconsoli romani, sempre provvisti di poche milizie, governavano la Gallia per mezzo e con l’aiuto dei grandi di ciascun popolo, restringendosi quindi a lasciar agire le antiche istituzioni nazionali58; cioè a impedire le rivolte e le guerre tra i singoli popoli e a percepire un piccolo tributo, se pure la Gallia non cessò in quegli anni di pagare anche quello: non duro e non severo regime, per il quale la Gallia non aveva tardato a rifarsi di tutti i danni subiti. Allontanate le legioni, erano cessate le straordinarie contribuzioni di guerra, le esazioni, le rapine, le violenze; il tributo di 40 milioni di sesterzi, anche se fu pagato, non esauriva una regione naturalmente così ricca; la pace interna aveva disperse le torme dei cavalieri e dei clienti di cui la nobiltà si era servita per le sue guerre: gli uni mutando in artigiani o in agricoltori59; gli altri arruolando nella cavalleria romana, e mandandoli a saccheggiare nelle guerre civili l’Italia e l’impero, a raccattare cioè qua e là qualche gruzzolo d’oro da riportare in patria. Si aggiunga infine che la conquista di Cesare aveva rimessi in circolazione molti inutili tesori ristagnanti nei templi e nelle case dei ricchi; e se di questo capitale una parte era stata portata in Italia, una parte pure era rimasta in Gallia, e spartita tra mille mani. La guerra prima e la pace poi avevano insomma ridata alla Gallia una certa abbondanza di capitale, una certa abbondanza di braccia, una certa sicurezza; onde in una terra fertilissima60 allora come ora, bene irrigata, coperta di boschi e ricca di minerali61, la opulenza era in venticinque anni molto aumentata.

E così, al riparo delle Alpi, al riparo del fantasma di Vercingetorice – e fu questo il vero servigio reso alla patria sua dal vinto di Alesia – lentamente, placidamente la Gallia aveva potuto a poco a poco in quel ventennio delle guerre civili, tanto funesto all’Italia e alle provincie dell’Oriente, ritrovare o rifare una parte delle sue ricchezze disperse e distrutte nella terribile crisi. Si ricominciavano a scavare in ogni parte le miniere, specialmente quelle d’oro, la rarità del metallo incitando a frugare in ogni parte, anche nelle sabbie dei fiumi più poveri62; si scoprirono intorno a questo tempo le miniere di argento63; si prendeva a coltivar nuove terre e su quelle come sulle terre già prima lavorate, si incominciava a piantare il lino, che sino ad allora era stato coltivato quasi solo in Oriente64; gli artigiani erano cresciuti di numero, dopochè i piccoli eserciti gallici erano stati disciolti. E a mano a mano che la nazione si avvezzava a questa pace e a questa prosperità, la dominazione romana si faceva più stabile, appoggiandosi ad una aristocrazia di grandi possidenti in cui i vecchi, dimenticando il passato, si acconciavano a subirla, e i giovani, ignorando il passato, incominciavano ad ammirarla, invogliati a godere almeno certi prodotti materiali della raffinata civiltà mediterranea: l’olio ed il vino. Già probabilmente si apriva qua e là qualche scuola di latino per la gioventù ricca65; già su per i fiumi salivano navi cariche di olio italiano e di quel vino italiano e greco, di cui i bellicosi Galli in antico avevano tanto temuto la snervante dolcezza66; già nella Gallia Narbonese, più romanizzata, qualche artista greco cominciava ad esser chiamato dalle ricche famiglie per costruire qualche monumento insigne67; già gli eleganti dèi di Roma e dell’Oriente venivano curiosi nelle selve immense a osservare gli ispidi e rudi dèi celtici, se si potesse farli entrare nel sontuoso Pantheon degli dèi dell’impero.... Allora come sempre, insomma, questa terra felice si era riavuta con una rapida rinascenza dalle rovine dell’ultima guerra; e allora come sempre lo Stato che ne era signore si accingeva a sfruttare con nuove imposte la sua fiorente ricchezza, mettendo una parte della spesa necessaria a mantenere l’esercito a carico della provincia, che sola forse aveva prosperato nella universale decadenza, abolendo il privilegio dell’immunità di cui la Gallia aveva goduto, per la debolezza di Roma negli anni precedenti. Del resto, una parte dell’esercito non serviva forse appunto a difendere la Gallia contro i Germani? Solo al riparo delle legioni romane la Pace distribuiva ai Galli in così larga misura i suoi doni. Era perciò giusto che la Gallia, dopo aver goduto il beneficio68, contribuisse pure alle spese necessarie a mantenerlo. È tuttavia probabile che nel congresso di Narbona Augusto si restringesse ad annunciare e ad attuare un seguito di misure che dovevano preparare la riforma tributaria, senza però ancora accennare a questa. Divise la Gallia chiomata – tolta quindi la Narbonese – in tre parti: la Aquitania, la Lionese, la Belgica, ciascuna delle quali avrebbe un legatus69; ordinò un grande censo per verificare lo stato mutato delle fortune e per distribuire equamente i nuovi carichi; ad aiutare i legati a fare il censo, pare lasciasse dei procuratori, scelti tra i più abili suoi liberti, a capo dei quali aveva posto Licino, quel giovanetto germanico che Cesare aveva catturato e poi liberato; che conosceva la Gallia, la lingua celtica e l’arte di maneggiare i quattrini70. Aveva infatti già saputo fare una immensa fortuna. Disposte rapidamente tutte queste cose e dopo aver fatto annunciare in Italia che grandi rivolte erano scoppiate in Spagna, Augusto si recò in Spagna, dove giunse a tempo per inaugurare il l.° gennaio del 26 il suo ottavo consolato in Tarragona71.

Ma mentre egli si recava in Spagna, era incominciato in Italia un nuovo disordine, non materiale ma morale, effetto non di ambizioni e di interessi cozzanti, ma di una irrequietezza e di un rodimento interiori, che però aveva già in parte frustrati tutti i saggi provvedimenti presi da Augusto prima di partire. Il disordine aveva tratto origine dalle accuse di Valerio Largo contro Cornelio Gallo. Aveva Largo, partito Augusto, impreso a denunciare il lusso, le rapine, la superbia, la tracotanza del prefetto di Egitto72: ma queste accuse, invece di increspare l’opinione pubblica alla superficie con un piccolo fremito di disapprovazione, ci scatenarono dentro una tremenda procella di collera. La aristocrazia diede il segno, si gettò prima sulla vittima con un accanimento furente, si trasse dietro le altre classi73; in pochi giorni l’uomo potente e rispettato da tutti si mutò in un orrendo ladrone, meritevole dei più aspri supplizi; in ogni parte, ma specialmente nelle grandi case, si reclamò con urla feroci un esempio salutare. Per un misterioso, repentino violento commovimento degli spiriti, Roma fremè tutta all’improvviso di orrore, sebbene in verità un poco troppo tardi, alla vista delle rapine che l’avevano arricchita; smaniò che, non come Gallo faceva, si dovevano reggere i sudditi. Qualche amico di Gallo, qualche persona seria e dabbene cercò di risalir la corrente74; invano, che Largo, complimentato, adulato, plaudito da ogni parte e specialmente dai nobili, inebriato dal successo inatteso, empiva Roma di accuse, e tutti, senza neppur aspettare che Gallo ritornasse d’Egitto a dir le sue ragioni, che si discutessero i processi intentatigli, lo avevano già condannato. Sotto pretesto di giustizia e di rettitudine, il pubblico sfogava in verità sul malcapitato un feroce ed occulto rancore, lasciato negli animi dalle guerre civili che avevano distrutte tante medie fortune, e così smisuratamente arricchito un piccolo numero di fortunati. La pace era ritornata, ma nelle cose, non negli spiriti! Se Augusto, se Agrippa, se gli uomini più eminenti del partito vittorioso, se molti loro liberti, se qualche abile ed oscuro plebleo erano diventati ricchissimi, il maggior numero dei senatori aveva così modeste fortune che, nel riordinamento della repubblica, si era fissato il censo senatorio a 400 000 sesterzi; e tanti erano i cavalieri che, pur non essendo stati cancellati dai ruoli, non osavano più sedersi in teatro sui quattordici banchi riserbati all’ordine equestre, perchè avevano perduto il patrimonio nelle guerre civili, che Augusto li fece dal Senato autorizzare a sedercisi, ciò non ostante75. Tutti costoro naturalmente covavano in fondo al cuore un rancore tenace contro le grandi fortune, non dissimile dall’odio con cui in una città moderna, devastata dal ciclone di una crisi finanziaria, la classe media perseguita i banchieri, che le hanno vendute a caro prezzo le azioni poi rinvilite: inclinavano cioè al modo stesso a considerare i palazzi, le ville, gli schiavi, i denari dei pochi ricchi come un furto perpetrato a loro danno; tanto più rodendosi rabbiosamente, perchè non c’era alcuna speranza di vendetta o di risarcimento, anzi bisognava perfino ammirare nella persona di parecchi potenti, di Augusto, di Agrippa, di Mecenate, la spoliazione che tanti avevano subita76. Ed ecco tutte queste vittime irritate della rivoluzione, che ingrandivano nella propria immaginazione il torto e il danno ricevuti, incontravano uno di quei fortunati spoliatori, nelle cui mani essi pensavano fosse passata la parte maggiore delle proprie sostanze, solo e lontano dagli amici che avevano preso parte con lui al saccheggio, perchè l’orgoglioso aveva presunto di poter staccarsi dalla piccola consorteria rivoluzionaria e dal suo capo per fare da sè.... E la moltitudine lo aveva da prima salutato rispettosamente, come soleva salutare tutti gli altri potenti; ma quando un uomo più audace aveva osato additarlo alla folla, vituperarlo, accusarlo, tutti i rancori latenti si erano risvegliati; e avevano preso coraggio a mano a mano che avevano visto il successo e la popolarità delle accuse. Ormai l’aristocrazia, tutta unita, guidava il movimento popolare contro Gallo per il piacer di distruggere uno dei tanti homines novi della rivoluzione, per vendicarsi almeno su lui di Filippi e delle proscrizioni: e i senatori poveri, i cavalieri, il popolo le tenevano dietro, furenti, per invidia delle ricchezze e della fortuna, per un’impazienza improvvisamente irritata di restaurare l’ordine morale a lungo violato dal delitto impunito, per servile condiscendenza alla nobiltà rifatta potente, per affettazione arcaicizzante, per stupidità. Se gli amici di Gallo, se i compagni nelle rapine della rivoluzione, con a capo Augusto, non accorrevano a soccorrerlo, egli sarebbe sbranato! Ma Augusto fu debole; ma gli amici si lasciarono facilmente scoraggire e spaventare dalla esasperazione popolare; ma la pace veniva aguzzando nei cuori nuovi egoismi, non meno atroci e bassi che quelli della guerra civile, pur ravvolgendoli nei bei nomi della giustizia e della rettitudine. Un filosofo avrebbe potuto affermare che in Roma, nella città tutta edificata, dal lastricato delle vie ai templi degli dèi, con l’immensa refurtiva di un saccheggio mondiale, Gallo era benemerito della repubblica, perchè almeno non derubava l’Italia ma gli Egiziani: più semplicemente i suoi amici potevano domandare alla città invirtuositasi subitamente così, che cosa Gallo avesse fatto, che non avessero fatto e Agrippa e Augusto e tutti gli uomini più ammirati di Roma in quella e nelle precedenti generazioni; che non desiderasse di fare ogni cittadino giunto all’età della ragione. Ma tutte le oligarchie che hanno origini torbide e dominio poco sicuro, usano abbandonare di tempo in tempo ai risentimenti dei dominati qualche loro membro. A chi tocca, tocca! Allora, come sempre, era più comodo immolare il proprio vicino, anzichè i propri privilegi; abbandonare ai furori della aristocrazia storica, della classe media, del popolo, l’orgoglioso e prepotente Gallo, anzichè restituire loro una parte dei beni. Augusto, per non contrariare l’opinione pubblica senza nuocere troppo a Gallo, lo revocò, dichiarò di escluderlo dalle sue provincie e dalla sua casa77; ma punto soddisfatto di questo blando castigo, anzi incoraggiato da Augusto stesso, che con questa punizione dichiarava di ritenerlo colpevole, il pubblico domandò nuovi e maggiori rigori; tutti abbandonarono l’antico praefectus Ægypti; nuovi accusatori spuntarono da ogni parte e nuove accuse, senza prove, esagerate, fantastiche, che il pubblico accettava tutte come vere78. Per esser sicuri della sua condanna, si riuscì, non sappiamo con qual raggiro, a deferire il suo processo al Senato79.

Ma gli spiriti nobili non potevano non essere allora, come sono sempre, profondamente turbati da questa esecuzione a furore di popolo compiuta sopra un uomo illustre, cui si accusava di aver fatto ciò che per tanti altri era gloria. Al principio del 26, sei giorni dopo avere assunta la praefectura urbis, Messala si dimetteva dichiarando di non sentirsi pari all’ufficio e di non considerare come costituzionale la carica80. È probabile che la disgrazia di Gallo lo avesse spaventato, dimostrandogli che il popolo non capiva più la magistratura, ormai troppo disusata, del praefectus. Se al praefectus Ægypti toccava quel che toccava, a qual repentaglio si esponerebbe chi dovesse esercitare la carica in Roma? Così le fatiche spese da Augusto per persuadere Messala andavan perdute; Roma restava senza princeps, senza praefectus, con un solo console. A ribadir lo spavento sopraggiunse la catastrofe: disperato per l’universale abbandono, Gallo si era ucciso! Augusto rinunciò infatti a cercare un nuovo praefectus urbi, lasciò la città nella custodia dell’altro console, Statilio Tauro, sperando nella fortuna, e a primavera si volse a incominciare la guerra, prendendo egli stesso il comando dell’esercito81. Gli eventi degli ultimi anni lo avevano trasfigurato anche agli occhi dei soldati, e più ancora le terre e i denari profusi tra i veterani congedati: cosicchè le legioni lo veneravano come il semidio, dalle cui mani uscirebbero in avvenire i regolari stipendi e le laute pensioni finali. Non è tuttavia difficile capire perchè il nuovo generalissimo si desse pensiero, dimostrando che era capace di dirigere solo, senza i consigli di Agrippa, una guerra, di far meno stridente la contradizione tra la propria inettitudine militare e la carica di supremo comandante delle legioni. Questa contradizione non era nè la più piccola nè la meno perigliosa delle contradizioni tra cui si avvolgeva; e l’accresceva l’urgenza, palese a tutti, di restaurare gli ordini antichi sopratutto nella milizia, che, come tra tutte le istituzioni si era maggiormente corrotta, così aveva maggior bisogno di ritornare alle origini sue. Difatti egli aveva aboliti gli abusi più inveterati; non si rivolgeva più ai legionari chiamandoli “compagni”, ma “soldati”; aveva escluso con rigore dalle legioni i liberti, per ripristinare la dignità della milizia, come privilegio dei liberi; aveva ristabilito il severo sistema delle pene e delle ricompense antiche82.

Disgraziatamente però Augusto non era nato a comandare gli eserciti. I Cantabri e gli Asturi, sapendo che vinti sarebbero stati presi, incatenati e deportati nelle viscere dei monti a scavar l’oro, si difendevano con disperato valore; e ridussero presto, con abili e rapide mosse, in condizioni difficili l’incerto Augusto. Una giudiziosa malattia lo colse a tempo, per giustificare alle legioni il suo ritorno a Tarragona e il passaggio del comando a due legati: Caio Antistio e Caio Furnio83. Augusto, il pio Augusto, si contentò di far voto di un nuovo tempio sul Campidoglio a Giove Tonante, questa volta per ringraziarlo di essere in una marcia scampato miracolosamente al fulmine84: onde se per suo merito Roma non riacquistava le miniere d’oro delle Asturie, avrebbe però un tempio di più. Se ne sentiva il bisogno, senza dubbio! Intanto un altro strano disordine era seguito in Roma alla precipitosa caduta di Cornelio Gallo. Un uomo oscuro, un certo Marco Egnazio Rufo, eletto edile per l’anno 26, aveva preso ad esercitare la sua carica con zelo insolito; e mentre gli edili di solito lasciavano placidamente bruciare le case del buon popolo, allegando di non aver mezzi di spegnere gli incendi, egli aveva imitato per il fuoco quello che Agrippa aveva fatto per l’acqua e Augusto per i conti dello Stato: aveva cioè ordinate tra gli schiavi suoi alcune squadre di pompieri e con quelle correva, come Crasso, a spegnere gli incendi, gratuitamente però85. Naturalmente nelle classi medie e popolari, che avevano cara la casa e le masserizie almeno quanto la costituzione, Rufo era diventato popolarissimo: i comizi avevano approvata una legge, che ordinava di ripagargli quanto aveva speso del suo per il pubblico86; e avvicinandosi le elezioni per l’anno 25 i suoi ammiratori volevano proporlo subito a pretore87, a dispetto della legge, e rovesciando di nuovo i segni della legalità, che Augusto e i suoi amici così faticosamente tentavano di rialzare sul campo della costituzione, devastato da tante rivoluzioni. Ma la nobiltà invece si irritò e accusò lo zelante pompiere di spegnere in Roma gli incendi, ma di rinfocolare negli animi le passioni demagogiche88. La rovina di Cornelio Gallo aveva ridato coraggio all’esausto partito della nobiltà, dimostrandogli che nelle classi agiate, tra i senatori più rispettabili, tra i cavalieri, anche nel ceto medio, covava una profonda avversione contro gli uomini e i fatti della rivoluzione; nuovo coraggio gli dava il mutamento ogni dì più visibile dell’opinione pubblica, che in tutte le classi sociali, come spesso avviene dopo le rivoluzioni, inclinava di nuovo al rispetto della nobiltà, della ricchezza, delle glorie antiche, e prendeva in uggia gli oscuri ambiziosi entrati in Senato dopo le Idi di marzo, come indegni di rappresentare la maestà di Roma nel solenne consesso. Perciò la nobiltà prendeva ardire a contrastare il campo agli uomini nuovi, senza natali; e in questo caso osò accusar Rufo di tentare con i suoi pompieri una sedizione, di rinnovare i peggiori scandali delle passate agitazioni demagogiche, sperando di rovinarlo come Cornelio Gallo e senza badare che Rufo ripeteva solo quanto in misura maggiore facevano Agrippa ed Augusto. Tanto meglio anzi: Rufo pagherebbe il fio di queste novità poco costituzionali, che in Agrippa ed Augusto era forza ammirare. Ma questa volta la nobiltà si ingannò. Rufo non aveva, come Gallo, scritto soltanto belle poesie e conquistato provincie: aveva salvato dal fuoco gli abituri del popolino di Roma; e il favore della moltitudine per la sua illegale candidatura a pretore crebbe in breve talmente, che Statilio Tauro, il quale come console presiedeva le elezioni, non osò cancellarne il nome dalla lista dei candidati. Rufo fu eletto89.

Mentre Augusto era lontano, in quella Roma che a parole smaniava di riconciliare i principî antichi della costituzione aristocratica con i bisogni dei tempi mutati, un personaggio nuovo era apparso a rimetter tra loro alle prese i partiti, ad esprimere così le impazienze rivoluzionarie delle classi inferiori come i rinascenti e irragionevoli puntigli della aristocrazia rifatta potente: un pompiere. Pur che gli incendi fossero presto spenti, il popolo non esitava a violare i principî fondamentali della costituzione, due anni dopo che era stata ristabilita tra il giubilo universale. Pur di far sentire la sua nuova forza, l’aristocrazia pretendeva sotto pretesto di combattere la demagogia, pretendeva che il popolo lasciasse bruciar le sue case, si volgeva contro, nella persona di Rufo, a quel primo principio di riforma dei pubblici servizi, che Augusto e Agrippa cautamente cercavano introdurre nell’amministrazione, costituendo dei corpi privati di schiavi. A ogni modo l’aristocrazia, che aveva distrutto così facilmente Gallo, un poeta celebre, un guerriero illustre, un uomo potentissimo, era stata vinta a sua volta da Rufo, che non aveva altro merito se non di aver spento quattro incendi. Il contrasto era stupido e assurdo; ma tutti si rassegnarono a subirlo in silenzio. Anche Augusto si acconciò a dare la prefettura d’Egitto, cioè la carica più importante dell’impero dopo la sua, ad un oscuro cavaliere, a un certo Caio Petronio, perchè tutti i personaggi autorevoli, spaventati dalla sorte di Gallo, la rifiutavano90; e si confermò nel pensiero di non mescolarsi troppo nelle cose dell’Italia, di attendere soltanto invece a cercare in ogni parte dell’impero metalli preziosi, mentre seguiva da Tarragona i lenti progressi della guerra cantabrica e asturica, combattuta dai suoi generali. Egli preparava per l’anno prossimo, il 25, due spedizioni: una nel territorio dei Salassi – la moderna valle d’Aosta – per conquistare la valle alpina più ricca di miniere d’oro; e un’altra nell’interno dell’Arabia, per impadronirsi dei tesori che si dicevano posseduti da quelle genti. Roma quindi era abbandonata in balìa di sè stessa, nel vacuo della sonnolenta tranquillità di quel tempo senza grandi imprese, senza eventi clamorosi, senza forti impressioni; e in quel nulla la concordia della città ristabilita in apparenza dopo Azio e in seguito a quegli eventi terribili, si disgregava a poco a poco in una incoerenza di propositi, di idee, di sentimenti contradittori che, non avvertita o tollerata da tutti, perturbava in tutti il retto intendimento dei fini e dei mezzi, l’accordo tra le parole e i fatti, la coincidenza della dottrina e della pratica. Se l’ordine era ristabilito alla meglio e se delle antiche feroci discordie non restava più, diffusa per l’aria, che una nebbia sottile di vaghi risentimenti, Roma incominciava a mettersi in contradizione ed in guerra con sè medesima. Si era ricostituita la repubblica; si cercava di ripristinare in ogni parte l’antico; si riformava un partito della nobiltà che, approfittando della voga arcaicizzante e della rinata ammirazione per il passato, si sforzava di ridare alle famiglie nobili le cariche e tutto il potere, umiliando ed escludendo i senatori di origine plebea, entrati nella Curia per le porte spalancate dalla rivoluzione; rinascevano perfino i fumi, le albagie, i dispregi gentilizi e con tanta forza, che pur contro Agrippa questa rinnovata boria nobilesca affettava un certo dispregio, inteso a coprire l’invidia e la rabbia91. Ma lo zelo civico, anima dell’antico regime aristocratico, non si riaccendeva; le cariche laboriose e dispendiose, le più ambite un tempo, erano ormai schivate da quasi tutti; sebbene si togliessero via gli ostacoli opposti dalle antiche leggi sulla via degli onori alla giovinezza, non era facile coprire le liste dei candidati con nomi onorevoli; bisognava continuamente ricorrere a ripieghi straordinari, affinchè i più importanti servizi pubblici – le strade, ad esempio – non giacessero in pieno abbandono92. Il maggior numero dei senatori, più che a profondere il proprio nelle cariche pubbliche, seguendo i consigli di Cicerone, si disputavano le magistrature facilmente lucrose, come quella di prefectus aerarii Saturni o amministratore del tesoro; cercavano di guadagnare facendo gli avvocati, accettando dei compensi per le difese forensi, in dispregio della antichissima lex Cintia, che proibiva di ricevere mercede alcuna per atti di assistenza legale93. Rammaricare questo disordine era facile; ma come impedirlo? Il maggior numero dei senatori possedeva appena il censo senatorio, e con 400 000 sesterzi nonchè spendere per il pubblico era appena possibile di vivere decorosamente. Insomma il principio della gratuità delle funzioni pubbliche, essenziale all’antica costituzione, si accordava male con il mutato assetto delle fortune; perchè gli uni erano troppo ricchi, e gli altri troppo poveri, nella classe politica. Altre contradizioni si aggiungevano ad aggravare e complicare il contrasto tra la comodità privata e il dovere civico, immanente ormai in ogni parte della repubblica. Si lodava universalmente l’antica semplicità e parsimonia; ma intanto Augusto e i suoi amici, con le grandi spese che per ragione politica facevano nella metropoli, ne accrescevano la ricchezza e fomentavano in tutte le classi il lusso, già avviato a crescere da sè, per la naturale inclinazione degli spiriti. Se Roma si illudeva di avere respinta ad Azio una audace aggressione dell’Egitto, essa non sapeva resistere, dopo la vittoria, ad una nuova invasione egiziana meno visibile ma più pericolosa che quella degli eserciti di Antonio e di Cleopatra. Caduta la dinastia tolemaica, gli artisti, i mercanti di oggetti di lusso, i professionisti, che avevano vissuto lavorando per la corte di Alessandria, per i suoi eunuchi e i suoi grandi, trovatisi in ozio, si erano volti a cercar lavoro e pane nella grande città in cui viveva il successore dei Tolomei e dove erano stati trasportati gli ingenti tesori dell’Egitto; e uno dopo l’altro erano venuti e venivano in Italia, sbarcavano a Pozzuoli, si fermavano – i più modesti – nelle città della Campania, da Pompei a Napoli; altri andavano a Roma, ove però cercavano invano la reggia sontuosa da adornare per il successore dei Tolomei. Augusto abitava sul Palatino parecchie case, costruite in diversi tempi da diversi signori, acquistate tutte da lui e riunite, alla meglio, con differenti riparazioni, intorno alla casa di Ortensio94, ma senza eunuchi, senza cortigiani, senza pompe. Trovavano invece, quegli artefici, la parte più doviziosa della aristocrazia senatoria ed equestre, che si accingeva a edificare, tra le rovine della rivoluzione, una nuova Roma, più sontuosa dell’antica; e che era disposta a far loro buona accoglienza. La conquista e la caduta dell’Egitto, la leggenda di Antonio e di Cleopatra per un’altra delle tante contradizioni di quella età, avevano attirati gli spiriti verso le cose egiziane. Molti degli uomini più autorevoli del partito di Augusto avevano fatta la campagna di Egitto; avevano abitato molti mesi ad Alessandria; avevano vissuto nelle case dei ricchi signori egiziani; avevano curiosato tra gli splendori della immensa reggia dei Tolomei; avevano riportato dall’Egitto mobili, vasi, tessuti, oggetti d’arte. Molti in quell’ultimo saccheggio avevano fatta fortuna prendendosi parte dei beni della Corona o di Antonio; è probabile che la parte migliore del patrimonio di Augusto, dei suoi parenti95, dei suoi amici fosse ormai in Egitto; il nuovo lusso che ricominciava in Italia era alimentato dall’Egitto; erano numerosi i ricchi romani i quali ora avevano faccende in Egitto, che dovevano andarci ogni tanto o mandarci agenti. Il via vai tra l’Italia e l’antico regno dei Tolomei cresceva come il commercio, che faceva capo a Pozzuoli e che non trasportava in Italia solo oro e argento, ma usi, ma costumi, ma idee. La conquista dell’Egitto non tardò a far sentire il suo influsso sulla vita romana, bilanciando rapidamente la propaganda arcaicizzante, che la politica di Cleopatra aveva fomentata. Una vaghezza di eleganza di arte, di lusso, di cose nuove, contratta dai più in Egitto, tormentava, diffondendosi per contagio anche a quelli che non avevano mai posto piede nel regno dei Tolomei, quegli ammiratori rinnovellati della antica rusticità romana, invogliava molti di coloro che avevano fatto fortuna, o che non l’avevano perduta nella rivoluzione, a cercare in una bella casa il riposo e la pace, dopo tante commozioni e tanti perigli. Bei palazzi si edificavano nei diversi quartieri di Roma e perfin sull’Esquilino – l’antico carnaio dei poveri – che si ingemmava di palazzi e di palazzine, dopochè Mecenate ci aveva costruita una sontuosa dimora96. A tempo perciò si offriva, per soddisfare questo confuso desiderio di novità e di eleganza, per fomentarlo, divulgarlo, raffinarlo, l’arte alessandrina, che era la più raffinata, la più ricca, la più viva di tutte; e i signori del mondo le facevano buona e larga accoglienza, la invitavano a portare dalla metropoli dei Tolomei in Roma, nelle loro nuove dimore, sulle pareti, sulle vôlte, sulla suppellettile domestica, tutte le belle imagini, inventate e perfezionate con secoli di minuzioso lavoro a sollazzo dei ricchi signori d’Egitto. Divise le ampie pareti delle sale in compartimenti, inquadrati questi con graziose cornici di festoni, di amorini alati, di maschere, i pittori alessandrini ci dipingevano dentro, gli uni scene omeriche o teocritee o mitologiche; altri alcuna di quelle scene dionisiache che l’Egitto dei Tolomei amava tanto; altri, come il celebre Ludio, degli artificiosi quadretti di genere, in cui le eleganze dell’arte e le bellezze della natura erano mescolate con fine maestria: colli e piani seminati di ville, di padiglioni, di torri, di belvederi, di portici, di colonnati, di terrazze, di erme dal viso dolce; ombreggiati da snelle palme e da pini a larga ombrella; solcati da fiumicelli su cui si curvano degli eleganti ponticelli di un solo arco; popolati di uomini e di donne che passeggiano, si incontrano, si sollazzano. Chi visita la casa di Livia sul Palatino o il Museo delle Terme diocleziane può ammirare alcune opere molto belle di questa pittura decorativa, raffinata, elegante, tutta soffusa di un vago erotismo, che in certi recessi della casa getta i veli e diventa oscena. Altri artisti ricoprivano le vôlte di stucchi, simili a quelli di cui così magnifici avanzi sono pure nel Museo delle Terme diocleziane, animando gli stessi quadretti di genere, gli stessi artificiosi paesaggi, le stesse scene bacchiche sulla bianchezza uniforme dello stucco, non più con il risalto dei colori, ma con la leggerezza e il vigore incomparabili del tocco; inghirlandando ogni quadretto con graziosissime ornamentazioni: arabeschi e piante; Amori; grifoni che terminano talora in arabeschi; Vittorie alate ritte sulla punta dei piedi.... Scultori alessandrini incrostavano di marmi preziosi le pareti; mosaicisti d’Alessandria componevano sui pavimenti grandiosi disegni; e ad adornare queste sale i mercanti offrivano i sontuosi tappeti tessuti; il magnifico vasellame cesellato, le tazze di onice e di mirra lavorate ad Alessandria97. Ma queste case così adorne in cui le Grazie si affaccendavano intorno al signore per dargli piacere a ogni istante, con la vista di qualche bel paesaggio, di qualche vago ornamento, di qualche leggiadro corpo nudo di donna; queste case dipinte, stuccate, piene di marmi sontuosi, di mobili ricchi, di Amorini, di Veneri, di Bacchi, di pitture sensuali ed oscene, potevano essere nel tempo stesso i recinti quasi sacri, in cui si raccogliesse di nuovo, agli uffici e ai doveri severi, l’antico piccolo monarcato familiare, che tutti dicevano di voler ricostituire? L’architettura della casa rispecchia in ogni età la struttura della società, il fondo delle anime. In quei nidi delle Grazie non poteva albergare l’amore antico, che era il dovere civico della riproduzione da compiersi nel matrimonio; ma solo l’amore nuovo, l’amore delle civiltà intellettuali, raffinato da mille artifici in un egoistico godimento dei sensi e dello spirito: in quelle belle case si compieva la evoluzione che in quattro secoli aveva trasformato il matrimonio romano, da un chiuso e rigido monarcato familiare nella più libera forma di unione sessuale che la civiltà occidentale abbia vista, non molto diversa da quel libero amore che i socialisti considerano come il matrimonio dell’avvenire. Non più forme e riti; il consenso, una certa condizione di dignità morale e, per usare le parole romane, ‘‘l’affetto maritale” facevano il matrimonio, come il dissenso, l’indegnità e la reciproca indifferenza lo disfacevano; unico segno visibile di unione, per consuetudine più che necessità giuridica, la dote; che un uomo conducesse a viver con lui una donna libera, di famiglia onesta, ed erano perciò solo considerati dalla legge marito e moglie, e generavano figli legittimi; quando non volevano più esser marito e moglie, si separavano; e il matrimonio era sciolto. Ecco tratteggiato, nelle linee essenziali, il matrimonio romano ai tempi di Augusto. La donna era ormai nella famiglia quasi libera ed eguale all’uomo; perchè dell’antica incapacità di eterna pupilla non le restava più che l’obbligo di essere assistita da un tutore, se il padre o il marito non c’erano, ogni qualvolta volesse obbligarsi, far testamento, intentare processi vendere una res mancipi. Senonchè, se considerata in sè questa forma di matrimonio era alta e nobile, a che si riduceva la famiglia, ora che sparivano nelle donne dell’alta società le antiche virtù femminili: la modestia, l’ubbidienza, la laboriosità, la pudicizia?98 Ora che il poeta poteva imprecar la morte a quanti ‘‘raccolgono i verdi smeraldi, e tingono con la porpora di Tiro le bianche lane” perchè essi “accendono gli animi delle giovani donne a voler vesti di seta e le brillanti conchiglie del Mar Rosso?”99 Al paterfamilias del buon tempo antico, il costume, senza il sussidio di legge alcuna, aveva potuto imporre il matrimonio come un dovere, perchè il costume e la legge gli riconoscevano diritti adeguati: la amministrazione di tutti i beni e un potere quasi dispotico sui membri della famiglia. Ma quel povero marito dei tempi di Augusto, scheletro, ombra, parodia dell’antico, solenne, terribile paterfamilias romano, che poteri aveva ormai, tranne quello di frodar qualche parte della dote; sopratutto se gli avveniva di unirsi con una donna intelligente, scaltra, prepotente, riccamente dotata, sostenuta da un parentado cospicuo, da molti amici e ammiratori? Nonchè obbligarla a generare molti figli e ad allevarli con zelo, nonchè contrastarne i rovinosi capricci, egli non poteva neppure costringerla a mantenersi fedele. Dissolvendosi l’antico monarcato familiare, la donna aveva acquistato tutte le libertà, anche quella dell’adulterio; perchè la legge non aveva osato usurpare, minacciando essa delle pene, i diritti del paterfamilias e quindi del tribunale domestico. Ma chi osava nemmeno proporre più di convocare il tribunale domestico, in tanto disfacimento della famiglia? Inoltre non sarebbe stato più possibile punire l’adultera che con la morte; che alle altre pene più miti, la relegazione in campagna ad esempio, la donna poteva ormai facilmente sfuggire, divorziando: ma la morte pareva ora pena troppo severa anche ai tradizionalisti più fieri.... Perciò quasi tutti ormai, fuori che qualche idealista anticato, si sposavano, non per compiere un dovere civico, ma per tornaconto; o perchè invaghiti di una bellezza, o perchè cupidi di una ricca dote, o perchè desiderosi di una parentela potente; e nel matrimonio molti facevano divorzio appena il tornaconto non c’era più; altri cercavano un sollievo mutando la moglie, come oggi si muta la cameriera; e non pochi restavano celibi o sceglievano per concubina una liberta. Queste unioni non erano considerate come matrimonii e quindi non generavan figli legittimi: altro vantaggio per il padre, che poteva adottare e dare il suo nome a quelli che più gli piacessero100. Dal contatto dei pochi ricchissimi con i molti appena agiati e invogliati continuamente a spendere dal lusso dei primi, nasceva infine una depravazione ancora più orribile. Tra le signore nate di famiglie equestri o senatorie poco ricche, sposate a cavalieri e a senatori di modesta fortuna, non poche lavoravano, con il consenso dei loro mariti, a fare una specie di curiosa controrivoluzione, ripigliando ai Cresi di Roma con le carezze una parte dei beni che costoro avevano presi con la forza e con la rivoluzione. Non ostante la voga dell’arcaismo, le alte classi di Roma giudicavano con molta indulgenza questo meretricio signorile, perchè tutti ne profittavano, gli uni godendo, gli altri lucrando; l’adulterio, che nel diritto antico il marito poteva punire uccidendo moglie e drudo, diventava, per non pochi cavalieri e senatori, un cospicuo commercio; cresceva in Roma, nelle alte classi, il numero delle signore, di cui si sapeva che il cuore era posto all’incanto101. Ma che caduta, per quella nobiltà che aveva poggiato così alto, sulle vette più inaccessibili al sospetto e al dispregio! Persino uno dei poeti più scettici del tempo sembra avere sentito per un istante un fremito di dolore e di orrore, vedendo la nobiltà romana precipitata da quella altezza sublime di imperiosa e superba virtù nell’avvilimento del meretricio elegante: e ha fatto raccontare questo oscuro ma terribile dramma della storia di Roma, dalla porta di una casa illustre, in pochi versi che non si possono leggere senza commozione, tanto sono tragici, sebbene il poeta voglia come di consueto scherzare. “Io – dice la porta – io che mi aprivo un tempo ai grandi trionfi, io che ero casta e pura come una vestale, io che fui varcata da tanti cocchi dorati e irrorata dalle lagrime di tanti prigioni; io gemo ora, la notte, sotto i colpi dei rissanti ebri, percossa da mani indegne. Ogni giorno io debbo inghirlandarmi di infami corone, vedere ai miei piedi le torcie lasciate dall’amante che non fu ricevuto. Io non posso più difender le notti di una signora troppo famosa, io che, sì illustre, sono fatta ludibrio di carmi osceni. Ma pur troppo essa non si cura più di provvedere al suo onore; essa vuole con la sua dissolutezza vincer quella dei tempi”102 E intanto se nell’Italia ancora c’erano famiglie feconde, in quella piccola oligarchia di famiglie possenti e ricchissime, che credevano di presiedere in Roma alla ricostituzione del buon tempo antico, nessuno dava l’esempio di generare numerosa prole, sebbene a nessuno mancassero i mezzi di allevarla: e Augusto aveva solo una figlia, e Agrippa pure; un solo figlio Marco Crasso, il figlio del ricchissimo triunviro; nessun figlio invece Mecenate e Lucio Cornelio Balbo, il quale anzi era scapolo. Solo M. Silano ne aveva due; e tre, Messala, Asinio, Statilio Tauro. Le famiglie di sette od otto figli, così numerose un tempo, non esistevano più; tutti credevano di aver compiuti i loro doveri verso la repubblica, quando avevano procreato uno o due fanciulli: anzi molti sfuggivano anche a questo, pur così piccolo dovere! Immaginarsi se nelle famiglie meno doviziose della classe alta la sollecitudine della futura grandezza di Roma poteva esser maggiore! Le signore, invece di invocare piamente sul seno fecondo la protezione di Iside e di Ilitia, non avevano più nè vergogna nè timore di “frugarlo con il ferro” per abortire,

....ut careat rugarum crimine venter.103

Era per gli uomini più sicuro e più gradevole che il contrarre matrimonio, scegliere un’amante tra queste signore, tra le liberte, tra le cantatrici siriache, le danzatrici greche e spagnuole, le bionde e formose schiave germaniche e traciche, tra i fanciulli corrotti che la dissolutezza addestrava nelle arti del piacere per i signori del mondo. Difatti l’Amore egoistico, la Voluttà sterile e il Piacere contro natura, che gli antichi romani avevano scacciato dalla città con tanto orrore, acquistavano ora in mezzo all’arcaismo in voga diritto di piena cittadinanza, erano ammessi così nei costumi come nella letteratura. Due poeti illustri, accarezzati, protetti dai grandi, Tibullo, che era un favorito di Messala, Properzio, che era amico di Mecenate, creavano definitivamente, da imitazioni greche e da ispirazioni personali, la poesia erotica romana; e cioè uno dei più attivi dissolventi dell’antica società e della vecchia morale. Descrivendo in presenza o vagheggiando in immaginazione le donne amate e le loro palesi o ascose bellezze compiacendosi nel ricordo delle voluttà godute o struggendosi nel desiderio di quelle aspettate; profondendo in versi il giubilo, la festa, l’ebbrezza dell’amore ricambiato o le imprecazioni e i furori della gelosia; risuscitando intorno al proprio amore le favole della mitologia greca o circondandolo di descrizioni veraci dei costumi contemporanei, questi due eleganti, morbidi, teneri, talora anche sdolcinati e leccati poeti distruggevano senza saperlo non solo la vecchia famiglia e la vecchia morale, ma perfino la vecchia milizia romana. Properzio e Tibullo incominciano in nome del dio Eros e in versi quella propaganda antimilitarista, che sarà continuata per tre secoli, da diversi punti di vista e da innumerevoli scrittori – non esclusi i cristiani – sinchè consegnerà inerme l’impero alle orde dei barbari. “A te giova, o Messala – esclama Tibullo – combattere in terra e in mare, per ostentare poi nella tua casa le spoglie nemiche; io sono incatenato dai vezzi di una bella fanciulla”104. “Era di ferro colui che, potendo posseder te, o bella, preferì le prede e le guerre”105. Tibullo loda la semplicità, ama teneramente la campagna pacata e virtuosa, ripensa con un intenerimento melanconico alla età dell’oro quando gli uomini eran buoni e felici, impreca alle torbide cupidigie dell’età sua tempestosa e agitata.... Ma la lode sua della semplicità trae inizio da ben diversi motivi, che l’analoga lode in cui insistono tanto i tradizionalisti e i militaristi del suo tempo. Questi volevano emendare i costumi all’antica semplicità e austerità, per rifare una generazione valorosa; consideravano anzi la guerra come una scuola di quella virtù. Tibullo invece considera la guerra, la cupidigia, il lusso, come flagelli consanguinei e quindi egualmente detestabili, perchè l’uno non è mai senza l’altro. “Quanto era felice l’uomo sotto il regno di Saturno....106 Non c’erano eserciti, non odii, non guerre; l’arte scellerata di un fabbro crudele non aveva ancora martellata la spada....”107 “Chi per il primo fabbricò la terribile spada? Un barbaro, un uomo dal cuore di ferro, che scatenò le stragi e le guerre, e accorciò le vie della morte. Ma no: il disgraziato non ne ha colpa; fummo noi che rivolgemmo contro noi stessi il ferro che egli ci aveva dato contro le belve. La colpa è dell’oro. Non ci furono guerre finchè l’uomo bevve in una ciotola di legno....”108 “Dèi Lari, allontanate da me gli strali di bronzo....109 Amatemi così ed altri vada alla guerra....110 Che follia è quella di correre incontro alla morte....111 Quanto è più lodevole colui che la pigra vecchiaia sorprende tra i figli in una piccola casa....112 La Pace, la Pace fecondi i nostri campi. Essa prima piegò il collo dei buoi al giogo dell’aratro; essa educò la vite e spremè i succhi dell’uva, affinchè il figlio potesse bevere il vino fabbricato dal padre. Rilucono nella Pace il vomere e il bidente, arrugginisce la spada113”. E questo Amore, che ha paura della morte, che ha paura della spada, che cerca un asilo recondito in fondo alle città popolose e alle campagne solitarie, che si nutre di piaceri sensuali e di sentimentali fantasticherie, Tibullo lo invoca quasi a compagno degli dèi Lari, lo pone tra i numi tutelari della famiglia, che esso isterilisce, in quella così bella e soave prima elegia del libro secondo! Anzi egli alla fine imagina addirittura che Venere sola potrà vincere la ferocia introdotta nel tempo suo dalle rapine e dalle stragi della guerra civile; cosicchè le Voluttà dell’amore gli appaiono come la forza purificativa e rigeneratrice dei suoi tempi pervertiti e corrotti!114 Meno tenero, meno sentimentale, più appassionato Properzio si vanta – che vergogna per un antico romano – di rinunciare per l’amor di una donna alla gloria, alle guerre, al potere115; si compiace di esser diventato celebre per l’amore di lei e dichiara di non voler altro vanto che quello di poeta erotico116; grida che può toccar con i suoi piedi gli astri più alti, ora che Cinzia si è data a lui117; dice che nulla val nella vita una notte passata con lei118. “Che mi sarebbe la vita senza di te? Tu sola sei la mia famiglia; tu sola sei la mia patria; tu sei la sola ed eterna mia gioia”119. E dopo aver fatto rammaricare alla porta della illustre casa patrizia la decadenza della grande signora, che abita in quella, la fa commuovere ai lamenti dell’amante, che non è riuscito ancora “ad aprirla con i doni”.

E gli uomini che dovevano presiedere alla restaurazione del buon tempo antico, ammiravano queste poesie e ne proteggevano gli autori! Ma la contradizione era in ogni parte. Si voleva rifare della guerra e del governo la sola occupazione dei grandi; e nell’ordine senatorio e equestre si diffondeva invece il gusto di tutte le opere che la morale antica considerava come indegne. Quanti, ad esempio, avrebbero voluto farsi attori!120 Il teatro affascinava i nipoti dei conquistatori del mondo, che avevano rappresentato ben altre azioni, sopra scene ben più vaste e davanti a pubblici ben più numerosi. Si riparavano in ogni parte di Roma templi, edicole, sacelli; se ne costruivano dei nuovi, si ristabiliva con minuziosa pedanteria il cerimoniale religioso: ma lo spirito dell’antico culto latino agonizzava nelle forme troppo artistiche e troppo greche, di cui si rivestivano ormai le cose sacre. La antica religione romana era una austera disciplina interiore delle passioni, intesa a prepararli ai doveri più penosi della vita privata e pubblica: ma gli austeri dèi, simboleggianti i principî essenziali di questa disciplina, male albergavano nei sontuosi templi marmorei, simili a quello di Apollo, che Augusto aveva inaugurato nel 28; si snaturavano assumendo il nome o materiandosi nelle bellissime statue seminude delle divinità greche. Se il politeismo greco era cresciuto dallo stesso seme del politeismo romano e cioè dalle stesse idee e dai medesimi miti fondamentali, esso li aveva svolti in modo opposto al romano, divinizzando, non i principî morali che frenano le passioni, ma le aspirazioni dell’uomo al piacere fisico e intellettuale in tutte le forme. Era contradittorio rivestire una religione della morale nelle belle forme d’una religione del piacere: ma l’ammirazione della mitologia greca, delle sue leggiadre rappresentazioni letterarie ed artistiche, era ormai troppo profonda in Italia. Neppure i romani avrebbero più tollerata una religione senza arte.

Contradizioni molteplici, strane, incessanti, ma che si riassumono tutte in una contradizione più generale, la contradizione delle contradizioni, innanzi a cui, finite le guerre civili, si ritrovava l’Italia e da cui l’Italia sarà per un secolo lacerata: la contradizione tra il principio latino e il principio greco-orientale, tra lo stato considerato come organo di dominazione e lo stato considerato come organo di un’alta e raffinata cultura, tra il militarismo romano e la civiltà asiatica. Bisogna comprendere bene questa contradizione, sceverarla sino al fondo, se si vuol capire la storia del primo secolo dell’impero! L’ammirazione del buon tempo antico non era allora, come molti storici hanno creduto, una sentimentalità anacronistica, ma una necessità. Che cosa era l’antico Stato romano se non un corpo di tradizioni, di idee, di sentimenti, di istituzioni, di leggi, le quali concorrevano tutte all’unico fine di vincere l’egoismo privato, ogni volta che fosse in contrasto con l’interesse pubblico; di obbligare tutti, dal senatore al contadino, ad agire per il bene dello Stato anche quando fosse necessario di far getto delle cose più preziose: gli affetti famigliari, i piaceri, i beni, la vita? Ma di questo possente arnese di dominazione e di amministrazione, l’Italia capiva di aver bisogno, per conservare e reggere l’impero fondato con le armi; capiva di aver bisogno di saggi statisti, di diplomatici avveduti, di amministratori oculati, di soldati valorosi, di cittadini zelanti del pubblico bene: e perciò desiderava che fossero riparate le forme troppo logore e guaste dell’antica educazione, entro cui erano state plasmate le vecchie generazioni. Desiderio sincero anche se in parte chimerico. Senonchè l’Italia, non desiderava di conservare l’impero per conservarlo, ma per goderlo e per avere cioè i mezzi di soddisfare il bisogno, ormai troppo diffuso in tutte le classi, di quella cultura più raffinata, sensuale, artistica, filosofica, di cui era organo lo stato asiatico e che aveva per effetto di incitare negli uomini e nelle classi tutti quegli egoismi personali che lo stato latino si proponeva invece di incatenare e comprimere. La cultura greco-asiatica intralciava la restaurazione dell’antico stato latino invocata da tutti per salvare l’impero; ma tutti o quasi tutti volevano salvare l’impero, affinchè non mancassero all’Italia i mezzi di assimilare la cultura greco-asiatica. Tale era, schematicamente riassunta, la contradizione insolubile in cui si impigliava l’Italia; la contradizione che la politica di Cleopatra e la conquista dell’Egitto avevano smisuratamente allargata, fomentando da una parte lo spirito di tradizione, dall’altra il gusto dell’Orientalismo; la contradizione che confondeva, intralciava, disordinava la vita privata come la politica, la religione come la letteratura; la contradizione, che è l’anima del meraviglioso poema composto in questi anni da Orazio, quasi a lasciarci, cesellato in versi di inimitabile bellezza, il documento più profondo di questa crisi decisiva del pensiero e del sentimento romano, che non è poi se non una crisi la quale periodicamente ritorna nella storia di tutte le civiltà generate da Atene e da Roma. Orazio aveva cantata la grande restaurazione nazionale di cui, dopo Azio, tutti avevano capita la necessità, erigendo, con stupendi blocchi di strofe alcaiche e delle saffiche, il magnifico monumento delle sue odi civili, nazionali e religiose alla leggenda della società aristocratica. Ma egli non era per temperamento, per inclinazione, per ambizione nè un poeta nazionale, quale forse Augusto l’avrebbe desiderato, nè un “poeta di corte” come l’hanno definito coloro che l’hanno frainteso. Questo figlio di un liberto, che aveva forse del sangue orientale nelle vene; questo meridionale, nato nella Apulia mezzo greca dove le due lingue erano ancora parlate; questo acuto pensatore e questo sovrano artista della parola, per cui la vita non aveva altro scopo che di studiare e osservare e rappresentare il mondo sensibile, di capire e di analizzare tutte le contradizioni e le leggi del mondo ideale; questo letterato filosofo non sentiva Roma, la sua grandezza, la sua tradizione, il suo spirito troppo poco artistico e filosofico, troppo pratico e politico. Egli che aveva cantate le grandi tradizioni di Roma ne conosceva così poco la storia, che in una poesia farà distrugger Cartagine da Scipione Africano, confondendolo con Scipione Emiliano!121 Anzi l’età, gli studî, un certo disgusto di tutto e di tutti, il piacere di lavorare lo inducevano a raccogliersi in sè, a vivere più che potesse in villa, lontano da Roma, dagli amici e dai protettori. Aveva orrore di leggere in pubblico i versi suoi, frequentava poco i dilettanti di letteratura come i gramatici, – i professori e i critici del tempo; faceva sempre più rari soggiorni nelle case dei suoi grandi amici: onde molti incominciavano ad accusarlo di superbia, quasi egli non giudicasse degni di udire le sue poesie che i grandi personaggi, i semidei, Augusto e Mecenate122; mentre costoro dolenti di averlo così poco nelle loro case, quasi lo accusavano di ingratitudine123. Era stato insomma anche egli stupefatto di quella improvvisa, simultanea, universale conversione di tutta l’Italia verso il proprio passato; – aveva capita la profonda necessità di quel movimento, ne aveva ammirata la bellezza, lo aveva preso come materia di poesia, ma non perchè il movimento commovesse il cittadino romano, bensì perchè la materia si prestava al poeta col pensatore. Onde egli non poteva, come un poeta nazionale, dedicar tutto sè a fomentare con la poesia quel movimento degli spiriti; ma era trascinato dal suo temperamento a trapassare ad altri soggetti, su cui far nuova prova del suo mirabile e duttile ingegno. Era allora, a 39 anni, nella piena maturità del suo genio: e ammirato, agiato, sicuro del presente e dell’avvenire; ricco di studi molteplici e di grandi esperienze, tra le quali, meravigliosa esperienza, la grande rivoluzione di cui era stato testimone; provvisto nell’ordine materiale e nell’ordine morale di quanto è necessario a uno scrittore di polso per dar tutto sè stesso alla creazione di una grande opera, Orazio aveva, dopo i primi saggi lirici, concepita una più vasta ambizione: creare in Roma una lirica così varia e perfetta per metri e materia, come quella greca; divenire il Pindaro e l’Anacreonte, l’Alceo e il Bachilide dell’Italia; esprimere in tutti i metri tutti gli aspetti della vita che si svolgeva sotto i suoi occhi. Egli viveva nel centro del mondo, in mezzo alle correnti così numerose d’idee, di sentimenti, d’interessi che si incrociavano a Roma in quel tempo di universali e gravi perplessità; avendo l’intelletto ed il comodo, per quel suo crescente amore del raccoglimento severo, di osservare ogni giorno, standone fuori, imparzialmente, il microcosmo che reggeva l’impero e in cui maturavano tanti germi dell’avvenire. Indifferente, e perciò appunto con lucida serenità, egli poteva ragionare con Augusto, con Agrippa, con Mecenate dei mali del tempo e dei rimedi, come seguire la cronaca mondana dell’alta società, le feste, gli scandali, le avventure galanti, le baruffe dei giovani e delle etère; egli assisteva agli sforzi fatti per restaurare il culto antico degli dèi, come era invitato ad ammirare e a godere le nuove case che gli artisti alessandrini ornavano per i signori del mondo; egli vedeva fervere nella città, a mala pena pacata, nuove ambizioni e nuove cupidigie, crescere e diffondersi il lusso e le voluttà alimentate dal denaro egiziano, come udiva da ogni parte imprecare alla smodata avarizia ed alla corruzione dilagante; egli si azzuffava con gli arcaicizzanti che volevano rimettere troppo in onore la letteratura classica, come incoraggiava i giovani scrittori a coltivare la nuova letteratura ellenizzante e leggeva ammirandola la poesia erotica del suo caro amico Tibullo. Un grande ingegno, posto in una condizione di tempi unica, queste due condizioni del capolavoro letterario si ritrovavano allora.... E il capolavoro maturava nello spirito del poeta, a mano a mano che i mille accidenti di questa intensa vita romana gli suscitavano imagini, pensieri, sentimenti, e richiamavano alla memoria strofe o versi già letti nei poeti greci, motivi o leggende di quella poesia greca allora tanto ammirata; a mano a mano che da queste imagini, da questi pensieri, da questi sentimenti, da queste reminiscenze nasceva in lui l’idea di un breve componimento lirico, da scrivere in questo o in quel nuovo metro greco. A poco a poco, uno dopo l’altro, egli componeva con la consueta, laboriosa lentezza, tra un viaggetto e l’altro, tra l’uno e l’altro festino o invito o lettura, gli ottantotto poemetti dei primi tre libri dei Carmi: non come Catullo, per versare sulla carta la piena traboccante della passione, ma elaborando ogni ode pensiero per pensiero, imagine per imagine, strofa per strofa, verso per verso, parola per parola; eleggendo studiatamente i motivi, i pensieri, le imagini da imitare in Alceo, in Saffo, in Bachilide, in Simonide, in Pindaro, in Anacreonte; adoperando con arte e in larga misura tutti i motivi della mitologia greca. Lirica riflessiva, dunque; sollecita di attingere il sommo della perfezione stilistica e di svolgere, attraverso la varietà dei motivi, un unico soggetto sottinteso, che è la vera ragione dell’opera. Chi lasciandosi ingannare dalla divisione materiale delle Odi, legge ed ammira ciascuna da sola e tratta il volume come una raccolta di poesie varie, fa come chi rompe una collana e ne disperde le gemme. Per comprendere l’opera più fine e più finita della letteratura latina, è necessario leggere tutti insieme i poemi, dai più lunghi e gravi a quelli così brevi e semplici che paiono perdersi tra le pagine delle edizioni, osservando come il motivo dell’uno o corrisponda o contradica a quello dell’altro, cercando di scoprire l’invisibile filo ideale, che le lega tutte insieme, proprio come le gemme di una collana. Questo filo ideale, questo unico soggetto sottinteso in tutta l’opera, è la dolorosa confusione in cui l’anima romana allora versava, che il poeta ripiglia a considerare ostinatamente, in ciascuna poesia, ora per un verso ora per un altro, così nei piccoli come nei grandi fatti della vita pubblica e privata: ripiglia a considerare nelle sue più inconciliabili contradizioni, non solo senza speranza, ma quasi senza volontà di risolverle, come a prolungare quella piacevole stanchezza, che nasce dalla continua incertezza del pensiero e del sentimento e che soffonde di una vaga melanconia il dramma psicologico di quella età.

Dalle conversazioni con Augusto, con Agrippa, con Mecenate, il poeta muove a comporre le famose odi civili e religiose, nelle quali egli evoca, in magnifiche strofe saffiche, o alcaiche, il passato di Roma e la secolare tradizione delle virtù pubbliche e private, in cui il popolo per tanti anni aveva attinto forza. Talora enumera in belle strofe saffiche, prima gli dèi e gli eroi della Grecia, poi i personaggi illustri di Roma; ricorda Paolo “prodigo ai Cartaginesi vittoriosi della grande anima” e la gloria dei Marcelli e la morte bella di Catone e lo splendore dell’astro dei Giulii, per compiacersi alla fine dell’ordine ristabilito nel mondo, sotto l’imperio di Giove, di cui Augusto è il vicario124. Fervidamente ammira altrove la virtù aristocratica, che non è serva come la gloria degli ambiziosi del favor popolare125; o ricordando i soldati di Crasso che, accasatisi in Persia, hanno dimenticato il tempio di Vesta; risuscita, in una posa scultoria di semplice e sublime eroismo, il leggendario Attilio Regolo126; o ricorda con nobili imagini come la gioventù che “tinse il mare di punico sangue” fosse educata austeramente nella famiglia, non ancora inquinata dai tempi peccaminosi127. Un magnifico monumento di stile classico erige il poeta alla leggendaria grandezza della società aristocratica. Ma tra le colonne, le metopi, i triglifi di questo monumento, fa il nido e svolazza uno stormo di odi e di odicine erotiche, dionisiache, convivali. Uscendo dalle case patrizie, piene di tanto spirito arcaico, Orazio ricascava nella turba gioiosa dei giovani amici, che nella pace si ridavano a godere con i redditi dei beni acquistati nel regno dei Tolomei la vita, che amavano gli ozî della villa, le cene, le belle donne, gli svaghi. E allora eccolo lanciare, affidandole alle strofette leggere dei più agili metri greci, inviti ad amici ed ammonimenti di preparare un buon pranzo; o interrompere con comiche esagerazioni il litigio di avvinazzati banchettanti, esortando un convitato a rivelare il nome della sua bella128; o dipingere a vivi colori e con ricca abbondanza di motivi mitologici dei quadretti erotici, ora sentimentali, ora sensuali, ora ironici. A Lidia il poeta rimprovera scherzosamente che Sibari per amore di lei non si faccia più vedere da alcun amico129; ora dipinge con roventi imagini i tormenti della gelosia130; ora con fiorite descrizioni invita Tindaride a sfuggire in una remota valletta della Sabina, pacata dalla zampogna di Fauno, le fiamme della Canicola, e il protervo Ciro che troppo spesso le caccia addosso le mani violente131; ora esprime l’amor suo per Glicera “il cui corpo splende più puro di marmo pario”132. Un giorno mentre vaga nei boschi solo e inerme, pensando a Lalage, incontra un lupo, e il lupo fugge. Orazio ricava da questo caso una singolare filosofia: l’amore rende sacri, l’innamorato è l’uomo puro. Avvenga dunque che può:

Dulce ridentem Lalagen amabo
Dulce loquentem133.

E nuove figure di donne e di amanti ci passano rapide davanti: ecco Cloe che si invola come un cerbiatto spaventato dal muggito del vento134; ecco dei giovani che battono disperatamente alla porta, chiusasi a un tratto, di Lidia135; ecco un amante che si lascia dominare da una schiava avida, astuta, prepotente136; ecco un giovane innamorato di una fanciulla appena pubere, a cui il poeta dà con complicate imagini saggi e ironici consigli, ammonendolo di non desiderare “l’uva acerba”137; ecco la bella etèra Barine, spavento delle madri, dei padri e delle giovani spose, dei cui giuramenti ride il poeta, affermando con comica solennità che gli spergiuri sono leciti in amore.

Ridet hoc, inquam, Venus ipsa, rident
Simplices Nymphæ, ferus et Cupido138.

Asteria che aspetta Gige, assente per commercio un inverno e che intanto si lascia consolare dal vicino Enipeo: è il soggetto di un quadretto sardonico, dipinto, come al solito, con ironiche amplificazioni mitologiche139. Grazioso è il duetto degli amanti che cercano di farsi dispetto e ingelosirsi a vicenda, poi si riconciliano alla fine140. Nè mancano le supplicazioni alle belle dal cuore troppo duro, anche queste con una punta di humour, come la preghiera rivolta a Mercurio, il quale, “potendo condursi dietro le tigri e le selve”, deve poter anche ammansare una bella crudele, alla quale il poeta ricorda, raccontandolo a lungo, con una esagerazione splendida di ironia, nientemeno che il mito delle Danaidi141. E così pure scherzosamente chiude le poesie erotiche, paragonandosi a un vecchio soldato dell’amore, che, “dopo aver militato non senza gloria”, va a deporre le armi nel tempio di Venere; ma per invocare subito la dea che lo salvi da Cloe142. Quadretti, situazioni, casi, personaggi, in parte senza dubbio immaginari e probabilmente derivati dalla poesia greca, in parte forse anche presi dalla cronaca galante di Roma; ma ad ogni modo sempre o quasi sempre stranieri al poeta, che assume in persona propria casi altrui o casi inventati: poesia erotica non personale, come quella di Catullo, ma immaginata a tavolino, sui libri, per una felice agilità di fantasia; poesia mista di sensualità e di ironia, di fine psicologia e di virtuosità letteraria, che è nella letteratura il segno del mutamento che avveniva nei costumi, a mano a mano che l’amore da dovere civico della riproduzione nella famiglia si mutava in sterile voluttà personale, in spasimo dei sensi e in solletico della fantasia, in sorgente di godimenti estetici e in soggetto di scherzi e di risa.

Così a volta a volta noi vediamo espressa in magnifiche strofe la filosofia della virtù derivata dalla tradizione e la filosofia del piacere derivata dall’arte ellenica e dai costumi contemporanei. Ma Orazio non fa nessun tentativo di conciliare queste due filosofie discordanti; si abbandona ora all’una ora all’altra, e quindi non è soddisfatto nè dell’una nè dell’altra. Della tradizione egli sentiva la forte grandezza ideale; ma capiva pure che quella filosofia non conveniva più nè alla fiacchezza dei tempi suoi, nè alla sua stessa fiacchezza; e lo confessa senza reticenze. Condensava allora nei pochi versi della meravigliosa ode alla dea signora di Anzio, alla Fortuna, una amara filosofia della storia e della vita: la fortuna e non la virtù, è la signora del mondo; il destino ne è il docile schiavo; gli uomini e gli imperii sono in sua balìa; a lei deve affidarsi anche Augusto, che muove alle lontane spedizioni; da lei forse, ma con poca fede, si può sperare qualche rimedio all’incurabile male dei tempi143. La guerra e le pubbliche faccende erano le fatiche più nobili, secondo l’antica morale; ma Orazio non sa nascondere che ripugnano al suo egoismo intellettuale, e di tempo in tempo apertamente loda l’inerzia civica. All’amico Iccio, che si prepara a partire per la guerra d’Arabia nella speranza di far denari, egli rivolge un’ode meravigliandosi come un uomo che già si era avviato agli studî, un uomo che “aveva promesso meglio di sè” ritorni alla guerra144. A Crispo Sallustio, il nipote dello storico, esprime in una bella saffica il concetto stoico, certamente nobile ma profondamente antiromano, che il vero imperio dell’uomo, il solo che valga, non è il dominio sulle cose materiali, ma quello delle proprie passioni145. Anzi l’egoismo intellettuale in lui giunge a sfigurare uno dei principî fondamentali dell’antica morale romana, il culto della semplicità. Orazio biasima il lusso, l’avarizia e la cupidità; inveisce contro le “moli regie” che usurpano la terra all’aratro146; giudica più saggi dei Romani gli Sciti, i quali portano sui carri la casa, e i Geti, che non conoscono la proprietà della terra147. Ma dalle lodi della semplicità egli deriva una dottrina di nichilismo politico simile a quello di Tibullo: non le ricchezze, non gli onori, non le cariche, non le brighe pubbliche fanno la vita perfetta, ma la salute e gli studî. Che cosa domanda il poeta, in una solenne poesia ad Apollo? “Viver di olive, di cicorie, di malve; conservarsi sano; giungere a una vecchiaia onorata e rallegrata dalla poesia”148. Più apertamente ancora, e rompendo del tutto con le tradizioni romane, egli pone in certe odi lo scopo della vita nel piacere fisico; incita ad affrettarsi a godere il vino e l’amore, che sono le due vere voluttà della vita, si abbandona ad un molle epicureismo, dal quale vengono poi a trarlo di tempo in tempo degli scrupoli religiosi. Ma anche nella religione il poeta è incerto e contradittorio. A volte, come vinto dal movimento di restaurazione della vecchia religione romana, Orazio dichiara di aver troppo navigato sul mare della filosofia, e di voler volgere le vele al ritorno; descrive allora il Diespiter nazionale all’antica, come il Dio che fende le nubi con il lampo e che percuote con le sciagure gli umani149. Ma egli ammira ed ama troppo la artistica religione del piacere e della bellezza creata dai Greci: e quasi sempre invoca, descrive, fa agire gli dèi dell’Olimpo ellenico rappresentandoli sotto le forme e negli atteggiamenti che aveva loro dato la scultura e la pittura, con il significato e gli uffici attribuiti loro dalla mitologia greca. Quali dèi reggono davvero il mondo? Quegli austeri, impersonali, informi dèi del buon tempo antico, che flagellano l’Italia di sventure, perchè i loro templi cadono in rovina? Quegli sparuti simboli del Pudor, della Justitia, della Fides, della Veritas, così cari agli antichi Romani e che Orazio evoca ancora, con versi resi soavi dall’amicizia, intorno al feretro di Quintilio Varo?150 Oppure quel Mercurio Omerico, che tratto aveva il poeta, ravvolgendolo in una nube, fuori dal tumulto della battaglia di Filippi; o il Fauno invocato nelle none di Dicembre a proteggere la sua proprietà in mezzo a un delizioso quadretto bucolico151; o Venere e Cupido e Diana in forma greca; o gli innumeri numi che il politeismo greco aveva disseminato sin nei recessi più reconditi della natura, a divinizzare ogni particella dell’essere universale, e che Orazio intravedeva sino nel fonte di Bandusia, più splendido del vetro?152 Non si potrebbe dire se Orazio creda in una religione etica o in una religione estetica. Se a volte egli invoca nelle stesse poesie civili gli dèi come regolatori e ordinatori supremi del mondo, egli poi li mescola nelle altre sue poesie in tutti gli atti e i fatti umani, perchè sono belli e si prestano a comporre magnifiche strofe. Contradittoria la concezione politica e morale della vita, incerta la concezione religiosa, quale scopo ben definito può avere per Orazio la vita? Non le virtù pubbliche e private, di cui egli non si sente capace e di cui non crede capaci i propri contemporanei; non il piacere fisico o intellettuale che egli comprende rovinerebbero il mondo se presi come fine supremo di tutti gli sforzi umani; non una contemperanza di piacere e di dovere, di cui non vede la opportuna misura; non la cieca obbedienza alla volontà degli dèi, ormai troppo numerosi, troppo diversi e tra loro troppo discordi. E quindi, naturale effetto di tanta incertezza, ecco sorgere sull’estremo confine di questo immenso vuoto morale, il fantasma che proietta la sua ombra in tutte le età poco sicure di sè: la paura della morte. Quando l’uomo non riesce a persuadersi che la vita tende all’alto, verso qualche scopo ideale che nessun uomo, da solo, con le sue forze singole, potrà mai raggiungere; quando il vivere apparisce come il solo scopo della vita, la limitazione dell’esistenza inquieta, turba e rattrista. E profondamente turbava appunto Orazio, nel cui pensiero la morte è sempre presente. Le poesie scritte in memoria di amici defunti sono senza dubbio le più sentite e sincere. Affrettati a vivere, il tempo passa; la morte non rispetta alcuno e tutti attende al varco; ogni cosa sparirà nel nulla:

Eheu! fugaces, Postume, Postume,
Labuntur anni....153

questi motivi son ripetuti nelle più diverse e nelle più mirabili forme, non solo alternandosi stranamente con le poesie allegre e voluttuose, ma soffondendo l’opera intera di una vaga e penetrante tristezza: melanconico sfondo di tutto il poema, che sfuma lentamente verso le arcane lontananze di un mistero impenetrabile dalla umana ragione, e dal poeta quasi paventato.

Strano poema, la cui unità ideale è formata appunto dalle contradizioni delle sue parti. Un mezzo solitario, appartatosi da Roma perchè poco l’amava, rappresenterebbe a fondo la contradizione inconciliabile della sua anima. Chi capisce quel poema, capisce anche le incertezze della politica di Augusto, perchè misura sino al fondo il grande vuoto spirituale su cui la fabbrica immane dell’impero posava. Chi poteva osar grandi cose, quando la nazione si struggeva in tanta incertezza? Chi poteva adoperare con vigore strumenti così logori dal tempo? Sono pur piccoli e meschini quegli storici che vedono in tutta l’opera di Augusto una “commedia politica” intesa a nascondere una monarchia sotto le forme di una repubblica! Tragedia era, tragedia, questa necessità di conciliare il forte militarismo della vecchia Italia e la raffinata cultura dell’Asia ellenizzata, diventati dopo la conquista dell’Egitto, anche più inconciliabili che prima non fossero.

III.
LA RINASCENZA RELIGIOSA E L’“ENEIDE”.

Difatti il governo, restaurato nel 27, già nel 25 cadeva in deliquescenza, disfatto da una universale e precoce stanchezza. A Roma, quando si fecero le elezioni per le cariche del 24, non si trovarono i candidati per i venti posti di questore154; e se pure Agrippa inaugurò il Pantheon155, che era un bell’ornamento dell’Urbe ancora così disadorna, strade, acque, annona versarono nel consueto disordine. La parte dell’antica repubblica restaurata davvero erano le frodi dei pubblicani, tollerate dai praefecti aerarii saturni, di cui i più si studiavano solo di lucrar essi stessi qualche denaro nella dilapidazione comune156. Nelle provincie i governatori, invece di attendere con zelo all’ufficio loro, cercando riparare gli immensi guasti fatti dalle guerre civili, poltrivano così neghittosi, che tra poco Augusto sarà incaricato di sorvegliarli tutti. Invano la legge approvata al tempo della restaurazione, aveva loro assegnato uno stipendio, per incitarne lo zelo; perchè i più prendevano lo stipendio e lasciavano le brighe. Nè il Senato adoperava la riacquistata autorità se non come un guanciale, su cui posare il capo e dormire. Deserte le sedute, fioche le discussioni, formale ogni atto: Augusto penserebbe egli a tutto; bastava approvare157. Ma Augusto a sua volta, nella Spagna lontana, intendeva occuparsi soltanto delle finanze; e silenziosamente, quasi di nascosto, continuava le sue guerricciole, intese a provvedere di metalli preziosi l’impero.... Nella primavera di questo anno158 un ufficiale del prefetto di Egitto, Elio Gallo, imbarcava in un porto del mar Rosso diecimila soldati e un contingente mandato dal re di Giudea per tentare a spese del tesoro egiziano la spedizione nello Yemen, deliberata dopochè Augusto si fu persuaso di poter fare assegnamento sull’aiuto dei Nabatei, una popolazione araba confinante con la Siria, che aveva accettato il protettorato romano. Verso la metà del 25 la guerra contro i Cantabri e gli Asturi era pure terminata, ma con una resa formale159. In questo stesso anno Murena conduceva a buon fine la spedizione nella valle dei Salassi, ma catturando con uno stratagemma infame il fiore della popolazione e vendendo ad Ivrea – secondo uno scrittore antico – 36 000 tra uomini donne e bambini160: poi incominciava nel cuore del territorio conquistato l’edificazione d’una colonia romana, Augusta Praetoria Salassorum, la moderna Aosta. Pure in questo anno infine, probabilmente nell’ultima parte e con un decreto del Senato, Augusto imponeva alle popolazioni alpine, alla Gallia, alla Dalmazia, alla Pannonia, i nuovi tributi studiati da Licinio, tra i quali è verisimile fossero comprese una imposta fondiaria, e – per la Gallia almeno – la famosa quadragesima Galliarum, un diritto del due e mezzo per cento su tutte le mercanzie importate161. Ma se pure avessero un giorno rovesciala sull’Italia la pioggia d’oro tanto agognata, queste guerricciole e queste riformuccie non potevano entusiasmare e inebriare l’Italia, così da assopire in lei quel malessere vago nascente dal disordine interno come non bastavano a sviar l’attenzione da questo, le ambasciate di omaggio che da ogni parte di nuovo si affrettavano verso Roma, ora che, finita la guerra civile, tutti ricominciavano a temerne e a riverirne, nel suo nuovo capo, la forza. In questo tempo gli Sciti abitanti nelle steppe della Russia meridionale avevano mandata una legazione ad Augusto in Spagna; e gli ambasciatori di un re delle Indie si recarono pure sino in Spagna a cercare e a riverire il successore dei Tolomei nel governo dell’Egitto, con cui gli Indiani facevano grosso commercio162.

Si incominciava a capire che la restaurazione della repubblica, deliberata pochi anni prima tra tanto entusiasmo e con tanta speranza, era stata invece solo un ripiego necessario ma inadeguato. La ultima, calamitosissima rivoluzione aveva per reazione ridato forza e autorità alla aristocrazia storica; ma questa, non ostante la rinata fiducia pubblica, era stata troppo decimata, impoverita, scoraggita dagli eventi terribili dell’ultimo ventennio; era troppo ammollita dallo spirito nuovo di godimento, di egoismo, di riposo che spirava a Roma dall’Egitto conquistato e che Tibullo esprimeva nelle sue flebili e dolci elegie. Anche rinforzata dagli uomini più intelligenti, vigorosi, fortunati del partito rivoluzionario, essa non avea più la forza di ricomporre l’immenso sfacelo in cui l’impero giaceva. Quasi tutta, o badava a darsi bel tempo, come Mecenate che, sposata la bellissima Terenzia, si era ritirato a vita privata; o giudicava più urgente di rifar la fortuna anzichè di curare le faccende pubbliche; o si dava alla letteratura, come Pollione e Messala, scrivendo storie e memorie delle guerre civili, e convertendo Roma in una grande officina letteraria. Senonchè nella universale dissoluzione di tutte le forze politiche, la aristocrazia, incapace di governare, aveva riacquistata forza sufficiente da impedire la costituzione di un governo che fosse in disaccordo con i suoi pregiudizi tenaci e le sue borie rinate, in cui gli onori e i vantaggi del potere appartenessero ad altri uomini o ad altre classi. Il partito popolare, disfatto anch’esso dalla rivoluzione e discreditatissimo, quasi detestato ed odiato, non esisteva più: invano un esiguo numero di senatori, tra i quali Egnazio Rufo e certi Murena e Fannio Cepione, timidamente tentavano di ravvivarne dagli ultimi avanzi l’anima e il corpo163. Sebbene a sommo dello stato fosse il figlio di Cesare, i grandi capi del partito conservatore. Bruto, Cassio, sopratutto Pompeo, erano l’oggetto dell’universale ammirazione; a tal segno che Tizio, quell’ufficiale di Antonio che aveva ucciso Sesto Pompeo, riconosciuto un giorno ad uno spettacolo nel teatro di Pompeo, ne era stato scacciato dal pubblico con i fischi e con le imprecazioni164. Era così forte questa inclinazione dell’opinione pubblica, che, pur di non offendere l’aristocrazia, Augusto si acconciava anche a lasciare in disordine i servizi dello Stato; e infatti aveva perfino rimproverato a Rufo di avere provvisto a salvar dal fuoco le case dei poveri senza il permesso della nobiltà, restringendosi a raccomandare agli edili di compiere con maggiore zelo il proprio dovere165. Ma chi vorrebbe assumersi troppe brighe, se Rufo, per aver compiuto con zelo il dover suo, era caduto in odio all’aristocrazia rifatta potente? La situazione era assurda: ma come mutarla? Per il momento Augusto si restringeva – ripiego passivo – a far sì che il compito dell’amministrazione romana non crescesse: onde in questo anno, volendo finalmente provvedere alla Mauritania che da sei anni era senza re, non propose al Senato di farla provincia, ma di darla a Giuba, re di Numidia, che diventerebbe re di Mauritania, e sposerebbe Cleopatra Selene, la figlia di Antonio e di Cleopatra166. Invece la nazione, irritata e delusa incominciava ad agitarsi. Non però per muovere al governo una opposizione politica, chè il partito popolare era morto e non risusciterebbe più. I lagni e i malcontenti popolari confluivano questa volta da ogni parte a gonfiare le correnti di quel moto per la riforma morale e sociale che, scaturito dall’ultima rivoluzione, dilagava a poco a poco in tutto lo Stato.... A mano a mano che l’esperienza chiariva anche agli spiriti più grossi il senso e la ragione di quella domanda, che Orazio aveva mossa:

Quid leges sine moribus
Vanae proficiunt?

tutti si persuadevano che la restaurazione della repubblica sarebbe opera vana se non si rifacevano anche gli antichi costumi repubblicani; onde tutti cercavano in ogni parte i rimedî alla universale depravazione, vari e diversi a seconda della coltura e del ceto. Nelle classi alte molti, sotto l’influsso del pensiero greco, riponevano grandi speranze nello studio della filosofia morale: non però nell’epicureismo materialista ed ateo che perdeva rapidamente il favore di cui aveva goduto tra la generazione di Cesare; nelle dottrine bensì che formulavano una morale più rigida come lo stoicismo; in quelle che tentavano di esplorare il mistero dell’al di là, allora così oscuro e impreciso tanto nelle credenze popolari come nelle dottrine dei filosofi; che indagavano se per avventura la giustizia, così monca e imperfetta nella vita, non si compiesse oltre la vita. Tale il pitagoreismo; o per essere più esatti, certe dottrine attribuite al favoloso filosofo, in cui idee di scuole diverse erano state intrecciate con miti e credenze popolari, per farne una regola morale della vita che potesse diffondersi nelle moltitudini. Un soffio divino, la “anima del mondo” – così suonava la poetica dottrina – penetra in ogni parte e vivifica l’universo; come ogni cosa animata e spirante, le anime degli uomini sono particelle di questa anima universale; cadendo però nel corpo e mescolandosi con lui, esse perdono una parte della loro divina virtù; e neppur la morte, che le distacca dal corpo, può subito purificarle interamente: è necessaria, dopo la morte, una purificazione di mille anni, perchè l’anima ritrovi la incontaminata purezza della origine sua; e i mille anni passati, quando l’anima è ridiventata interamente essa stessa Dio la tuffa nel fiume Lete, per indurre l’oblio del passato e rimandarla di nuovo sulla terra ad animare un altro corpo. Gira così su sè stessa, eternamente, la ruota della vita; e le anime, nella temporanea prigione del corpo “carcere oscuro che loro impedisce di vedere il cielo da cui discendono”, devono cercare di esser degne quanto più possono, con una vita virtuosa, della loro natura divina167. Di queste e di simili idee, mescolate con dottrine stoiche, si servivano certi Sestio, padre e figlio, per fondare a Roma una setta e aprire quasi una scuola pratica di virtù, in cui non si insegnavano solo con i discorsi, ma si praticavano le virtù più difficili: la frugalità, la temperanza, la veracità, la semplicità, la fortezza d’animo, perfino il vegetarianismo, come si direbbe adesso, l’astinenza dalle carni, che fomentano la lussuria e la crudeltà168. Qualche cosa insomma che adombra già le regole dei conventi cristiani.... E la scuola era allora in grandissima voga; da ogni parte affluivano seguaci169; spesso delle persone, prese a un tratto, mentre il maggior numero si dava al lusso e alla crapula, dal bisogno di vivere frugalmente, castamente, austeramente, accorrevano alla scuola, si convertivano alla nuova dottrina. La conversione di Lucio Crassicio era stata particolarmente clamorosa, perchè Crassicio, un antico liberto datosi agli studi e all’insegnamento, era molto noto come letterato e maestro, e aveva tra i discepoli anche Julo Antonio, il figlio di Antonio e di Fulvia170. Ma l’idea di riformare i costumi della repubblica per mezzo della filosofia e della propaganda morale, era idea troppo greca, troppo fine, troppo alta; nè poteva entrare che in un piccolo numero di spiriti, per effetto di studio, di letture, di imitazioni. In questa forte ma grossolana nazione di soldati, di politici, di mercanti, di giuristi, di agricoltori, che aveva sempre maneggiati solamente gli strumenti del dominio corporeo, ambito ed esercitato l’impero della materia, la maggioranza non sapeva fare assegnamento, anche per l’emenda dei costumi, che sulle forze estrinseche e su i mezzi politici. Non fisime di filosofi e predicazioni morali: ma leggi, magistrati, minaccie e castighi. I nobili trascuravano i loro doveri, dissipavano le proprie sostanze, preferivano la crapula alle magistrature, gli amori alla guerra? Si facessero delle leggi che li obbligassero a vivere virtuosamente; si rinnovassero le antiche magistrature, che con tanta severità avevano vigilato sui costumi dei grandi; si ristabilisse una giustizia severa e imparziale. Sopratutto si richiedeva da ogni parte, con grande instanza, che si indicessero le elezioni dei censori, affinchè questi magistrati potessero, dopo così lungo intervallo, ripigliare l’antico ufficio di carcerieri delle virtù171. E cresceva, si divulgava, si rafforzava da ogni parte, sopratutto nelle classi medie – tra i senatori e i cavalieri di modesta fortuna tra gli scrittori i mercanti i liberti i professionisti – un largo movimento puritano, che voleva con nuove leggi e con nuovi castighi sradicare da Roma tutti i vizi importati dalla ricchezza: l’impudicizia delle donne, la venale accondiscendenza dei mariti, il celibato, il lusso, la concussione; un largo movimento che, simile a un fiume, era alimentato da numerosi affluenti scaturiti su diverse montagne. C’era tra questi la sollecitudine del bene pubblico, l’affetto per la repubblica, la rinata sincera devozione per la aristocrazia. Che cosa sarebbe di Roma, se la nobiltà non si mostrasse di nuovo degna, come in antico, della sua grandezza? Così domandavano molti. E non pochi in quella nobile matrona, che un ricco liberto o straniero o plebeo riusciva con l’oro a sottomettere alla propria lascivia, sentivano come rovesciata e oltraggiata la dignità di Roma, vilipesa la grandezza della sua storia passata. Sinceramente molti desideravano pure che il governo delle provincie fosse più equo, più retto, più umano, sia perchè le dottrine di Cicerone sul governo dei sudditi si diffondevano, sia perchè si addolcivano i sentimenti, sia perchè si incominciava a capire che Roma doveva supplir con l’amore allo scemato vigore. C’era poi la forza della tradizione. Per secoli la morale romana aveva inculcato la semplicità, le virtù familiari, la purezza sessuale; e solo i secoli potevano cancellare quello che i secoli avevano insegnato. E c’era infine – non bisogna negarlo – l’invidia delle classi medie, già abbastanza depravate da desiderare, non ancora così ricche da poter godere tutti i piaceri viziosi dei fortunati, che erano nel tempo stesso depravati e opulenti. Se gli artigiani e gli appaltatori di Roma, che guadagnavano molto servendo i pochi Cresi della metropoli, ne ammiravano il lusso, i piccoli possidenti d’Italia, gli intellettuali, i cavalieri e i senatori di modesta fortuna soffrivano che altri, così pochi, potessero sbizzarrirsi tanto liberamente per i campi del piacere e del vizio, quando essi dovevano camminar così diritti sul sentiero della virtù, fiancheggiati come erano a destra e a sinistra dalla insormontabile siepe della povertà. La irritazione medesima che aveva tanto inferocita la pubblica opinione contro Cornelio Gallo, incitava questa volta le masse, non a sbranare selvaggiamente un uomo, ma a giudicare amaramente e a sospettare di ogni bruttura i costumi del tempo e a chiedere leggi che facessero più difficili o più pericolosi ai fortunati i piaceri che esse non potevano godere per povertà: leggi che punissero l’adulterio, che frenassero il lusso, che costringessero i governatori ad esercitare nelle provincie il loro imperio con dolcezza e giustizia; che obbligassero tutti a vivere in una uniforme e mediocre virtù.

Il puritanismo, la cui voga cresceva, era insomma un denso involucro, che chiudeva in sè i semi più diversi: il seme del rancore, il seme dell’invidia, il seme di non pochi sentimenti nobili e salutari, come il sentimento della tradizione, che vale per i popoli quanto il sentimento della famiglia per i singoli uomini; come il senso del bene e del male innato in ogni spirito non deforme e non traviato dalla passione o dall’interesse; come la sollecitudine patriottica dell’universale disfacimento in cui, dilagando, il vizio e il piacere e la cieca ragione della forza avrebbero travolta ogni cosa. Si spiega così che questa ventata di puritanismo investisse allora e scuotesse non solo i rami più bassi e più larghi dell’albero, ma anche le cime; che ci fossero dei fautori sinceri e ardenti della corrente tradizionalista e puritana anche in mezzo alla oligarchia dei gaudenti; che uno di costoro – il più ardente di tutti, forse – fosse Tiberio, il figliastro di Augusto. Nato in una grande famiglia ed educato da una vera patrizia romana, quale era Livia, egli pure, in quel gran fervore di romanesimo che si riaccendeva negli spiriti intorno a lui, si infiammava di ammirazione per l’antica nobiltà romana, e si proponeva di imitare le virtù che i posteri le attribuivano. E pure si spiega, se essa aveva una anima di serietà, che verso questa corrente di idee e di sentimenti scendesse, per tuffarcisi e prender forza a una grande opera, un grande poeta: Virgilio. Ammiratore della letteratura greca e sollecito nel tempo stesso di scegliere a soggetto le maggiori preoccupazioni dello spirito pubblico, Virgilio si era proposto di dare all’Italia, in una grande opera d’arte, che fosse a un tempo la Iliade e la Odissea latina, il poema nazionale della sua rigenerazione morale e religiosa, fondendoci dentro, e nella forma e nella materia, così come gli altri si sforzavano di fonderle nella vita, le parti più eccelse del romanesimo e le parti più pure dell’ellenismo, le credenze popolari e le dottrine filosofiche, la religione e la guerra, l’arte e la morale, lo spirito di tradizione e il sentimento imperiale. Ma a fondere insieme tanti metalli diversi in una sola pasta fluida, da gettar poi nella vasta forma del poema, ci voleva un immenso fuoco di fantasia e un immane lavoro. Ad Augusto, che dalla Spagna gli domandava notizie del poema e celiando gli ingiungeva minacciosamente di mandargliene qualche brano, Virgilio rispondeva di non avere ancora finito nulla che fosse degno di lui; e che a volte si sentiva come sbigottito dalla grandezza dell’opera impresa, tanto gli studi e le ricerche e la fatica crescevano per via172. Scoraggiamenti brevi e stanchezze fugaci, però: che il delicato poeta possedeva una tenacia instancabile, di cui il volubile Orazio mancava; e ritornava quindi con lena novella ad affaccendarsi intorno al suo gigantesco abbozzo, allorchè Orazio consumava dei mesi per limare qualche poema minuscolo. Da parecchi secoli, e cioè da quando Roma e l’Oriente avevano avuti tra loro più frequenti contatti, gli eruditi greci si erano studiati di ricollegare con una favola del ciclo trojano – la favola di Enea e delle sue peregrinazioni, dopo la caduta di Troja – le principali saghe del Lazio e la fondazione di Roma, inventando così tra le due schiatte una parentela mitica, le cui origini si perdevano al di là dei principî della storia. Accreditata dal Senato romano, che a più riprese se ne era servito ai fini della sua politica orientale, la leggenda si era poi a poco a poco ramificata, perchè parecchie cospicue famiglie romane, tra cui la gens Julia, avevano derivata la stirpe loro dai compagni che la leggenda attribuiva ad Enea; e si era alla fine così solidamente incastrata nella grande tradizione mitica della preistoria di Roma, che nessuno osava più tentare di distaccamela. Anche Tito Livio, il quale pure lascia intendere nella prefazione di avere tutte queste leggende in conto di favole, dichiara di non volerle nè confutare nè conservare, ma di riferirle soltanto per rispetto all’antichità. E difatti incomincia la storia sua narrando come Enea giunse in Italia e si alleò con il re Latino e ne sposò la figlia e fondò Lavinio ed ebbe guerra con Turno re dei Rutuli e con Mezenzio re degli Etruschi, enumerando poi la lunga progenie di Enea, le città e le colonie fondate dal figlio, dai nipoti, dai pronipoti, sino a Romolo e a Remo. Scelta dunque a favola del suo poema la leggenda primigenia di Roma, Virgilio l’aveva però ingrandita smisuratamente a significare, in forme letterarie attinte al più puro ellenismo, l’idea capitale del romanismo tradizionale: la religione, come fondamento della grandezza politica e militare di Roma; Roma, che fonde insieme l’Oriente e l’Occidente, prendendo dall’Oriente i riti e le credenze sacre, dall’Occidente la saggezza pratica e il valore; Roma, che domina il mondo, come metropoli militare e politica, e come città santa. Nei primi sei libri Virgilio si proponeva di compendiare un poema di avventure e di viaggi a imitazione dell’Odissea; narrando in parte egli, in parte ponendole in bocca allo stesso eroe, le avventurose peregrinazioni di Enea dalla notte fatale in cui Troia arse all’arrivo in Italia: negli ultimi sei libri voleva invece rifare una piccola Iliade, raccontando le guerre combattute in Italia con i Rutuli sino alla morte del re Turno. Ma nella nuova Iliade come nella nuova Odissea, Enea non doveva essere l’eroe umano dei poemi omerici, violento o astuto, ardito o cauto, credulo o doppio, che gli dèi amano e proteggono per amor di lui stesso; ma un eroe sacro, investito di una missione politica e religiosa e che gli dèi – o almeno una parte degli dèi – proteggono per certe vedute lontane sul destino delle genti e delle città: perchè egli deve portare alla rude e bellicosa razza che vive nel Lazio i riti della religione, che farà di Roma la dominatrice del mondo173. Egli quindi va pietate insignis et armis174 quasi come un sonnambulo nel suo viaggio avventuroso, senza tender l’arco della volontà e dell’intelletto, come gli eroi omerici, senza neppur indagar lo scopo del suo lungo erramento, lasciandosi portar di peso dal volere divino, che è la legge suprema di tutte le cose. I veri protagonisti di questo dramma non sono gli uomini, ma gli dèi. Virgilio, che li vuole nel tempo stesso amati e temuti, li veste delle più solenni e più leggiadre forme immaginate dalla mitologia greca; e fa loro di continuo, quasi a prova della loro potenza, contrariare le leggi del possibile, dell’umano, talora anche del ragionevole e del giusto. Essi cacciano Enea nei più tremendi perigli, ed essi lo salvano con i più inaspettati miracoli; essi fanno innamorare Enea di Didone ed essi lo costringono ad abbandonarla, non per altro motivo se non perchè così è necessario ai futuri destini di Roma che deve innalzarsi sulle rovine di Cartagine; essi sospingono Enea in Italia e qui gli danno una sede, una sposa, un regno contro ogni ragione di opportunità e di giustizia. Non è egli un intruso nel Lazio? Lavinia non è già promessa a Turno? Intorno a Evandro e a Turno il poeta intendeva raffigurare, in un bel quadretto, quella prisca e semplice latinità, che i suoi viziati contemporanei sospiravano con così idilliaco rimpianto. Orbene: i Frigi di Enea non erano al confronto dei Latini che una torma di molli ed imbelli Orientali. Eppure Enea, aiutato dagli dèi, usurpa il talamo e il regno di Turno; combatte e vince con i Frigii imbelli i forti Latini; perchè egli porta al Lazio “le cose sacre” di cui il Lazio ha bisogno; perchè solo quando sarà corroborata dai riti e dalle credenze della religione, la virtù dei Latini conquisterà il mondo. Perciò Enea non si cura d’altro se non di spiare la volontà misteriosa degli dèi, e di osservare, nelle più tristi come nelle più liete occasioni, i riti della religione che egli porta alla nuova nazione. A ogni pie’ sospinto interroga gli oracoli; sempre tende l’orecchio allo stormir delle fronde, e appunta gli occhi al volo degli uccelli, al guizzo del lampo; mai non si stanca di spiare nell’ignoto attraverso le piccole feritoie della scienza augurale. In mezzo alle fiamme e all’incendio di Troia egli pensa a salvare il fuoco di Vesta, che arderà eterno nella valletta posta a pie’ dei colli Palatino e Capitolino; perfino nel momento in cui si accinge a uscir di Troia con il padre, dopo avere combattuto tutta la notte, si ricorda che, così lordo di sangue come è, non può toccare i penati e prega il padre di toglierli in mano; dalla mattina alla sera, in ogni pericolo, in ogni tristezza, dopo ogni lieto evento egli prega, prega sempre, sino a infastidire, se non gli dèi, per lo meno i lettori, trovando modo di compiere, nel lungo viaggio, e di dare al poeta l’occasione di descrivere minutamente, con precisione di archeologo e di teologo, tutte le cerimonie del rituale latino, anche le più disusate. Per obbedire agli dèi Enea non teme infine di discendere, per il cammino tracciato dalle leggende popolari, in un inferno, nel tempo stesso pieno di mostri mitologici e illuminato dalla filosofia pitagorea, a cercare sotto terra la giustizia che sulla terra non c’è e a conoscere una parte dei tempi futuri. Accompagnato dalla Sibilla di Cuma, egli entra nell’inferno per le porte che una vecchia leggenda italica aveva poste nella grotta del lago di Averno, vicino a Napoli: vecchia leggenda derisa da Lucrezio ma che Virgilio ripiglia come poetica e popolare, staccandosi così quasi interamente dall’epicureismo, che Sirone gli aveva nella prima giovinezza insegnato. La terra muggisce; i monti vacillano, i cani urlano; ed Enea per il suo sotterraneo cammino, come in una notte senza luna per una selva, giunge al vestibolo dell’inferno in cui tra i rami di un immenso olmo opaco si annidano i Sogni, dove le aeree allegorie latine del male stanno accampate con i mostri corpulenti della leggenda greca: i Rimorsi con i Centauri; i pallidi Morbi e la triste Vecchiaia con la Chimera ignivora e le Gorgoni; la Paura, la Fame, la Povertà con l’Idra di Lerna e le Arpie. Varcata la soglia infernale, ecco farsi incontro uno dei personaggi più popolari della mitologia antica. Caronte, il collerico nocchiere di Stige, che trasporta al di là della palude solo coloro che furono sepolti. La Sibilla dà al nocchiero le spiegazioni volute; quindi Enea, portato al di là di Stige, si imbatte in Minosse il giudice: e intorno vede i primi abitatori dell’al di là, le vittime passive della sorte, che nella vita non han potuto nè meritare nè demeritare: i bambini morti lattanti, gli uccisi in battaglia, i suicidi, i giustiziati a torto, che sono posti in una condizione nè trista nè lieta, liberi da tormenti, ma angustiati dal rammarico della vita così poco goduta. Lì accanto Virgilio vede poi i “Campi del pianto”, dove vagano le anime di coloro che la passione dell’amore ha distrutto. La via si biforca al di là; e porta a sinistra verso il Tartaro ove nessun giusto può entrare. Enea quindi appena lo intravede dalle porte spalancate tra rosseggiare di fiamme, urla disperate, stridore di ferri e di catene; ma la Sibilla glielo descrive con maggiori particolari, come il cupo ergastolo ove orrendi supplizi puniscono proprio i delitti che in quel rinascimento puritano parevano più orribili: i fratelli nemici, i figli ingrati, i patroni che hanno frodato i clienti, il liberto infedele, gli adulteri, gli incestuosi, quelli che hanno preso le armi contro la patria, i magistrati corrotti. Le pene durano eterne e sono così atroci che la Sibilla non vuole descriverle; affrettandosi verso i felici boschetti e le beate sedi degli Elisi, dove Enea trova gli eroi della sua gente e il padre Anchise. Il quale però gli mostra un altro al di là, più ideale ed etereo, spiegandogli la dottrina pitagorea dell’anima e del corpo, della contaminazione e della purificazione, dell’oblio e della reincarnazione:

Principio cœlum ac terras camposque liquentis
Lucentemque globum lunæ titaniaque astra
Spiritus intus alit....

Versi bellissimi e sublimi pensieri: i quali però sovrappongono male al rozzo inferno delle leggende popolari, pieno di mostri corpulenti, di supplizi e di cose massiccie, un filosofico e ideale al di là....

Orazio è lo spirito possente ma solitario, che esce fuori dalle cose e si pone alla necessaria distanza per ben giudicarle; che, indifferente e quasi estraneo a Roma, all’Italia, al suo passato, al suo presente, scruta, analizza, fissa i mille fenomeni contradittori dell’istante meraviglioso in cui il suo genio rifulse. Virgilio è la grande anima comunicativa, che con il sentimento, la imaginazione, la scienza, la erudizione entra in contatto con la vita, la riceve in sè, se ne inebria, la descrive, la celebra, la ingigantisce, la purifica dalle scorie, ne fonde i contrari, ne sublima la materia e lo spirito; che del meraviglioso istante in cui il suo genio rifulse accanto a quello di Orazio espresse e fuse in una sintesi imperfetta ma grandiosa tutte le aspirazioni contradittorie, frementi nella parte più eletta, più colta, più dabbene dell’Italia. Una grandiosa amplificazione poetica delle rinascenti preoccupazioni religiose, morali e militari; la voce solenne non di un singolo, e sia pur grandissimo poeta, ma di una intera età: tale è l’Eneide. Senonchè mentre Virgilio restaurava sulla carta il culto e rigenerava la virtù dell’Italia, mentre il pubblico aspettava con impazienza la pubblicazione del suo poema, il culto restava in balìa del pontefice massimo che era Lepido, l’antico triunviro ritiratosi pieno di rabbia a Circei, il quale non si occupava più di nulla; e le cose della guerra erano affidate ad Augusto, il quale aveva in Arabia anche minor fortuna che in Spagna. La spedizione di Elio Gallo aveva avuto un cattivo principio, perchè l’esercito imbarcato a Miosorno, fatta la traversata del Mar Rosso, aveva dovuto fermarsi nel porto, dove era sbarcato, a Leucocome, per una misteriosa malattia, che aveva colpito il maggior numero dei soldati. Così almeno si disse175. Nel tempo stesso un’orda di Etiopi, avendo saputo che una parte delle milizie stanziate in Egitto erano in Arabia, invadeva l’Egitto, giungendo sino a File, per vendicarsi della spedizione di Cornelio Gallo; e Petronio, il prefetto, si accingeva a respingerla176. Non a torto dunque Augusto aveva giudicata troppo avventurosa la politica del primo praefectus. E intanto nuove difficoltà, forse più gravi, spuntavano in Oriente. Mentre si trovava ancora in Spagna, Augusto era stato raggiunto da Tiridate, il pretendente al trono di Persia, postosi sotto la protezione di Roma. Negli anni precedenti, approfittando delle interne discordie, Tiridate era riuscito a scacciar Fraate insuperbito e fatto crudele dopo la vittoria su Antonio. Fraate, rifugiatosi tra gli Sciti, aveva assoldate numerose bande, alla testa delle quali era riuscito a riconquistare il regno e a rimettere in fuga Tiridate. Questi a sua volta, fuggendo, aveva potuto rapire il figlio maggiore di Fraate; e lo portava ad Augusto177. L’ostaggio era prezioso; ma accettandolo, non si correva il pericolo di provocare rappresaglie dal re dei Parti e di riaccendere la questione orientale, per il momento sopita? Queste guerre civili della Persia rallegravano e inquietavano Augusto: lo rallegravano, perchè indebolivano l’impero nemico; lo inquietavano, non dovesse, come spesso avviene, il fuoco della guerra interna divampare fuori, nelle provincie e negli Stati protetti da Roma, in un più vasto incendio di guerre esterne. Per maggiore sventura proprio in quel medesimo tempo Aminta, il re di Galazia, periva in una spedizione contro un piccolo popolo di briganti, gli Onomadensi, non lasciando che figli in tenera età178. Roma perdeva in Oriente il suo più fedele e forte alleato; il solo che, se una guerra scoppiasse, avrebbe potuto mettere in campo contro la Persia un esercito agguerrito e retto con disciplina romana. Il Senato, mancando eredi capaci di succedere nel regno, aveva dichiarata la Galazia provincia romana, dandone il governo, insieme con il comando degli eserciti galati, ad Augusto: insigne onore, ma grave onere pure e pericolosa responsabilità, se una guerra scoppiasse in Oriente. La situazione interna era incerta; una irrequietezza pericolosa ritornava ad agitare lo spirito pubblico; le spedizioni da lui meditate o fallivano o non darebbero i frutti aspettati che tra molti anni; le cose d’Oriente, quete per qualche tempo, accennavano di nuovo a muoversi.... Tutte queste difficoltà, a cui si aggiunse il proposito di celebrare il matrimonio del nipote Marcello con sua figlia Giulia, indussero infine Augusto, nella seconda metà del 25, a ritornare a Roma. Ma avesse egli almeno potuto affermare ai Romani di aver conquistata davvero la Cantabria e l’Asturia, ricche d’oro! Invece egli era appena uscito di Spagna, e già Asturi e Cantabri insorgevano di nuovo!179 Perfino la sua salute andava di male in peggio: pare che fosse tormentato in questi tempi dal crampo degli scrittori; e in viaggio ammalò, cosicchè dovette sostare e incaricare Agrippa di assistere alle cerimonie nuziali di Giulia e Marcello180.

Il suo ritorno rallegrò tuttavia molto l’Italia. Il malessere presente era soltanto effetto della lontananza di Augusto; ora che egli era tornato, a molti guai troverebbe rimedio. Così ragionava il pubblico, con fiducia e semplicità; e così poetava Orazio, esagerando un tantino nel paragonare lui reduce “vittorioso” dalla Spagna ad Ercole181: e così pensava, parte per servilità, parte per pigrizia, parte per sincera ammirazione, la maggioranza del Senato. Nella seduta del 1° gennaio del 24, il Senato approvò tutte le cose da lui compiute con giuramento, come si usava nei tempi della rivoluzione, cioè impegnandosi a non ritirar più l’approvazione182. Poco dopo fece di più: quando Augusto, avvicinatosi a Roma, volle donare a ciascun plebeo 400 sesterzi e domandò al Senato di esser dispensato dall’osservanza della lex Cintia che proibiva simili donazioni, il Senato rispose sciogliendolo addirittura dal vincolo di tutte le leggi183. Non aveva detto Orazio, salutando il dì del suo ritorno:

Questa per me verace festa i negri
pensieri scaccerà: più non pavento
tumulti o mala morte, or che la terra
Cesare tiene?184

La leggenda di Augusto rimetteva i fiori come un albero alla nuova primavera. Ma Augusto credeva ora nella sua leggenda anche meno di quando era partito. Con che mezzo poteva egli accontentare tanti desideri opposti e imprecisi? Egli non accettò, naturalmente, la dispensa da tutte le leggi185. Poco dopo il suo ritorno, avvenuto nella prima metà del 24186, giunsero in Roma, mandati da Petronio, mille schiavi etiopici, catturati nel respingere gl’invasori dall’Alto Egitto187. Questa impresa almeno aveva sortito esito felice; l’Egitto era di nuovo sicuro. Se Elio Gallo, che alla fine dell’inverno aveva incominciata la marcia verso lo Yemen, riuscisse a conquistare i tesori dei Sabei, l’Italia potrebbe almeno celebrare una vittoria e Augusto lenire qualche malanno con la infallibile cura dell’oro. Intanto, per dare qualche soddisfazione alla opinione pubblica che chiedeva riforme, fece proporre in Senato, avvicinandosi le elezioni per il 23, che Marcello fosse autorizzato a domandare le cariche dieci anni e Tiberio cinque anni prima del tempo legale; e fece presentare la candidatura del primo all’edilità, del secondo alla questura188. Siccome la edilità e la questura erano le cariche più schivate, egli, offrendo così per tempo la sua famiglia alla repubblica, ricordava alla nobiltà che i suoi privilegi dovevano essere giustificati dallo zelo. Poi si accinse, come era solito fare quando abitava Roma, a dare un esempio continuo di zelo, tentando di compiere, nonostante la cattiva salute, tutti i doveri che le magistrature accumulate su lui, la ricchezza, la gloria gli imponevano; e che erano innumerevoli. Come console egli doveva render giustizia dal suo seggio d’avorio; mettere all’asta gli appalti pubblici, ora che ai consoli era stata trasmessa questa facoltà, mancando i censori189; ricevere tutta la corrispondenza dello Stato, convocare il Senato e informarlo di ogni cosa, esser presente a un infinito numero di cerimonie civili e religiose. Come proconsole di tre provincie, doveva continuarne da Roma l’amministrazione per mezzo di legati; e come generalissimo, tenere d’occhio e comandare da lontano ventitrè legioni e innumerevoli corpi ausiliari sparsi per tutto l’impero. Quante incertezze da risolvere, quanti errori da correggere, quante dimenticanze da riparare, quante lettere da leggere e da scrivere, ogni giorno! Augusto aveva perfino pensato di assoldare come segretario Orazio, che aveva rifiutato190. Come princeps senatus, Augusto doveva inoltre presiedere le sedute del grande consesso; come membro del collegio degli auguri, del collegio dei pontefici, del collegio dei quindecemviri sacris faciundis, doveva esser presente a riunioni, a cerimonie, a banchetti, senza fine; come capo dello Stato, eletto per essere il cittadino esemplare, modello delle virtù civiche, doveva compiere tutti i doveri che la tradizione imponeva al nobile romano; e quindi assistere gratuitamente in giudizio tutti i clienti della famiglia, gli amici, i plebei poveri con cui avesse avuto qualche relazione, nel quale numero quindi erano compresi tutti i veterani delle guerre civili191; non doveva mancare ad alcun atto pubblico, dalle sedute del Senato alle elezioni, nelle quali, per dare il buon esempio, percorreva le tribù con i candidati suoi per domandare i suffragi, come ai bei tempi della repubblica, e votava, come l’ultimo dei cittadini192; doveva infine offrire un grande numero di banchetti solenni193 e, quel che era peggio, accettare un numero non minore di inviti e ingoiare con viso ilare anche i più mediocri desinari, perchè se avesse mostrato di non gradire l’ospitalità delle case troppo modeste avrebbe offesi tutti i cittadini come chi si credesse da più di loro194. I fatti provavano che la cumulazione delle cariche, immaginata da Giulio Cesare, aveva potuto essere l’opportuno ripiego di un uomo straordinariamente alacre, in tempi calamitosi e agitati; non poteva essere il principio nuovo di un governo di pace, retto non da semidei ma da uomini che sentissero la fatica, come tutto il genere umano. Solo un uomo di ferro avrebbe potuto resistere solo, senza aiuti numerosi, a tante brighe, non Augusto; che infatti nel mese di giugno ammalò di nuovo195, cosicchè nei mesi rimanenti neppure egli non fece più nulla; fuorchè spendere denari per costruzioni e per feste; e solo Elio Gallo condusse a termine la sua spedizione arabica, ma con poca fortuna. Egli giunse dopo una marcia faticosa, sebbene non contrastata, sino alla città principale dei Sabei, Mariba: ma non trovò in nessuna parte gli agognati tesori e dovè in fretta e furia ritornare, con l’esercito dimezzato dalle malattie e con le mani vuote. Dell’insuccesso si diè la colpa ai Nabatei e specialmente al ministro del re, Silleo, che accompagnò Gallo e che lo avrebbe, sotto colore di aiutarlo, tradito: spiegazione che potrebbe rispondere al vero, o essere una invenzione immaginata dai Romani, por nascondere i propri errori196. Certo è che l’Arabia e l’Egitto rivaleggiavano per il commercio tra il Mediterraneo, l’India e la Cina; e che tutte le popolazioni arabe dovevano cercare che il nuovo Stato signore dell’Egitto non si impadronisse della via rivale a quella di Alessandria che, per Leucocome e Petra, giungeva in Fenicia197.

L’anno 23 incominciò quindi male; e continuò peggio. Invano l’edile Marcello cercò di rallegrare la metropoli, dando feste sontuose con i denari dello zio198. Un morbo detto vagamente peste dagli antichi e nel quale uno scrittore moderno ha creduto riconoscere una epidemia di tifo199, empì prima l’Italia e Roma di lutto; e poi minacciò addirittura di precipitare una catastrofe politica, quando, dopo tante vittime, assalì anche Augusto che, probabilmente in primavera e certo prima di giugno, ammalò per la terza volta, ma più gravemente che le precedenti200. Un brutto giorno Roma seppe che Augusto era in fin di vita e che già aveva prese le disposizioni supreme, fatto il testamento, consegnate tutte le carte di pubblico interesse, compresi i conti privatamente fatti fare in casa sua della finanza, all’altro console Pisone: solo permettendosi di indicare al Senato e al popolo Agrippa come suo successore, con una raccomandazione discreta, che non poteva offendere neppure i più rigidi repubblicani, dandogli cioè il suo anello o sigillo201. È facile immaginare che commozione suscitasse questa notizia. Che cosa avverrebbe mai se Augusto morisse a un tratto, a quarant’anni, lasciando tutte le cose sospese in quella strana incertezza, e appena appena in grado di reggersi? Nessuno poteva prevederlo. Ma ecco a un tratto apparire per la prima volta a salvar la repubblica dagli imminenti pericoli un liberto orientale, un medico. Augusto credeva nella virtù della tradizione allorchè occorreva curare le malattie dello Stato, non per guarire quelle del suo corpo: per queste, alle ricette tradizionali delle grandi famiglie romane, egli aveva preposta la scienza della medicina greca, tenendosi in casa un grande luminare dell’arte salutare, un antico medico di Giuba II, re di Mauritania, il fondatore di una nuova scuola medica: Antonio Musa. E Antonio Musa, quando tutti giudicavano Augusto già morto, lo risanò con una cura di bagni freddi202. La gioia fu vivissima, e ricadde in una pioggia di onori sul capo del medico. Per sottoscrizione pubblica gli fu eretta una statua addirittura accanto a quella di Esculapio; il Senato gli assegnò un guiderdone in denaro e lo iscrisse nell’albo dei cavalieri203. Non basta ancora: l’ammirazione per Musa traboccò su tutti i medici; e in un momento di universale entusiasmo il Senato votò l’immunità, cioè, l’esenzione da ogni imposta e carico pubblico, per coloro che esercitassero la medicina in Roma e in Italia204. Insomma in un baleno, per la sola guarigione di Augusto, tutti parevano essersi convertiti alla ammirazione della medicina scientifica dei Greci, che tante diffidenze suscitava ancora in tanti Romani: altra riprova, e tra le più singolari, che quella età non aveva fermezza in alcun sentimento, nè nell’ammirazione dell’antico, nè nella diffidenza del nuovo, nè nel proposito di ritornare alle tradizioni, nè nelle inclinazioni a orientalizzare lo Stato. Non per capriccio o per stoltezza i grandi difensori della tradizione detestavano la medicina greca, come una impura miscela di ciurmeria e di cupidigia205. Ogni vera aristocrazia militare è naturalmente portata a deprimere le professioni intellettuali, specialmente i medici e gli avvocati, che in ogni tempo formarono il nucleo del ceto medio più potente per cultura, per aderenze, per influenze e quindi in grado, quando acquista potere, di contrastare in pubblico ed in privato, nelle famiglie e nello Stato, al potere di una aristocrazia militare, di diffondere idee qualità e virtù contrarie a quelle in cui una aristocrazia militare riassume l’ideale della vita. L’aristocrazia romana infatti aveva da secoli monopolizzata la avvocatura e, spregiandola, lasciata la medicina agli orientali, perchè liberti. Ma tanto più viva doveva essere la avversione contro queste professioni in Roma allora, perchè questi liberti orientali venivano da scuole lontane e professavano su tutte le cose idee profondamente diverse da quelle radicate nella tradizione romana. Quanto potere acquisterebbero costoro, se avessero persuaso ai Romani, ormai così paurosi dell’al di là, di possedere il segreto della vita e della morte? Perciò la antica diffidenza vigilava a persuadere che meglio di tutta la medicina greca valevano le vecchie ricette tramandate di padre in figlio. Ed ecco a un tratto uno di questi professionisti, divenuto celebre, ricevere gli onori riserbati ai conquistatori e ai negoziatori di trattati; e la legislazione da un giorno all’altro farsi a proteggere coloro, di cui sino allora aveva diffidato o che aveva avversati!

IV.
UNA NUOVA RIFORMA COSTITUZIONALE.

Ma troppo presto gli ammiratori di Augusto avevano giubilato. Mentre essi coprivano Antonio Musa di ricompense, Augusto dichiarava di voler ritirarsi a vita privata206, perchè stanco e malato. La riforma costituzionale del 27, già da qualche anno in dissoluzione, si sfasciava ad un tratto per questa rinuncia. Immensa fu la costernazione di Roma. Che Augusto avesse bisogno di riposare, chi poteva negarlo? Eppure tutte le cose parevano reggersi appena appena in bilico per virtù sua; egli solo pareva poter raffrenare, temperare, attenuare, con diuturna abilità, ricominciando sempre da capo, il contrasto di tante discordie insanabili, l’acrimonia di tanti rancori inesorabili, il rodimento di tanti appetiti inappagabili. Si cercò quindi con ogni mezzo di dissuaderlo.

Ma Augusto diceva proprio sul serio di voler ritirarsi a vita privata? Io vedo invece in quella mossa una finta. Lo stato delle cose era allora così bizzarro e confuso, che ad Augusto riusciva così difficile continuare a governar l’impero, come cessare dal governarlo. Difficile continuare, perchè l’aristocrazia posticcia che si radunava intorno a lui di vecchi e di nuovi nobili si faceva ogni anno più indisciplinata e riottosa: difficile cessare, perchè la poca alacrità e autorità che nello Stato era ancora, derivava tutta da lui. La nobiltà ricostituiva le proprie fortune con i matrimoni, con le eredità, con il favore dei tempi e anche con l’aiuto di Augusto stesso; a mano a mano cioè che, per intercessione di Augusto, si distribuivano in concessione perpetua alle famiglie più cospicue dell’aristocrazia storica, con l’obbligo di pagare un piccolo vectigal annuo, le terre e le miniere migliori poste nelle provincie. Livia aveva avute certe ricchissime miniere di rame poste nella Gallia transalpina207; Sallustio, il nipote dello storico, aveva prese certe altre miniere di rame e di ferro nel territorio dei Salassi, conquistato da poco208; Marco Lollio, il primo governatore della Galazia. aveva già incominciata, probabilmente con concessioni di terre pubbliche, la colossale fortuna della famiglia209; e con doni di Augusto Gneo Lentulo Augure, la cui sola virtù era la gloria del casato, ricostituiva al proprio nome un patrimonio che più tardi sarà valutato molti milioni di sesterzi210. Quanti altri illustri casati aristocratici, che nei decenni seguenti sfoggiarono in Roma grandi ricchezze, dovettero rifare i loro patrimoni con l’aiuto di Augusto in questo modo, se il nome di Lentulo valeva tanti milioni agli occhi del princeps! Ma che i suoi patrimoni fossero in parte ricostituiti da Augusto, era motivo sufficiente alla aristocrazia storica per mantenerlo al potere, per fargli votar dal Senato le più larghe facoltà e i decreti più onorifici; non già per sottomettersi, sul suo comando ed esempio, ad una dura disciplina, immolando al pubblico bene comodi piaceri e vantaggi privati. Lo svanito terrore del triunvirato, le riacquistate ricchezze e la mitezza del governo augusteo la rifacevano insolente e prepotente. Da un pezzo la nobiltà aveva capito che, tra tante difficoltà interne, con alle spalle il cumulo delle memorie delle guerre civili, con l’impero in disordine, e in presenza di nuovi pericoli esterni, Augusto non oserebbe farsi troppi nemici nelle alte classi, nè per buoni nè per cattivi motivi. Onde uno spirito di crescente irrequietezza e indisciplina. Tutti quei senatori, che dieci o quindici anni prima, durante il triunvirato, a metà rovinati, incerti della vita e dell’avvenire, avevano saputo farsi piccini piccini, incedevano ora pettoruti per Roma, ingombravano superbi il Senato, si bisticciavano di continuo per dei nonnulla, si detestavano l’un l’altro e perfino Augusto rispettavano soltanto a parole. Di tempo in tempo persone che a lui dovevano tutto, morivano senza lasciargli un ricordo, ciò che era allora una offesa gravissima211: si aprivano di tempo in tempo dei testamenti in cui, con il pretesto di spiegare le ragioni per cui non aveva lasciato nulla ad Augusto, il testatore inseriva contumelie o diatribe contro di lui, che il magistrato era costretto a leggere in pubblico212; non solo i morti parlavano, ma anche i vivi, perchè dei libelli – pamphlets, diremmo noi – contro di lui incominciavano a esser messi in giro213; nè molti dei suoi colleghi si trattenevano, quando potevano, di fargli dispetto. Augusto aveva un giorno scacciato dalla sua casa un dotto greco, di molta rinomanza, il quale diceva e scriveva sul conto suo e di Livia cose atroci: ma subito si era affrettato ad accoglierlo in casa sua, con ostentata benevolenza, Asinio Pollione, e tutti i grandi se lo disputavano214. Perfino Lentulo affettava di lagnarsi che Augusto, con le sue larghezze, lo avesse distolto dagli studî, per obbligarlo ad attendere alla pubblica cosa!215 Perfino i suoi amici più antichi, non ostante la sua pazienza infinita, si intiepidivano o si corrucciavano. Tutti in Roma sapevano che Mecenate non era più con lui l’amico di un tempo; perchè – così almeno si diceva – lo sospettava di ammirar troppo fervidamente sua moglie216. E appena risanato, colui che gli storici moderni chiamano il signore del mondo, non ebbe autorità sufficiente a spegnere una discordia accesasi nella sua stessa famiglia tra il suo nipote Marcello e il suo amico Agrippa. Urtatisi per ragioni che sono poco chiare, Agrippa intimò ad Augusto di dargli interamente ragione, e poichè Augusto non volle o non potè, si partì sdegnato per l’Oriente, risoluto a privar l’impero dei suoi servigi per rappresaglia di una offesa privata217. Immaginarsi se potevano andar d’accordo tra loro i membri di questa aristocrazia, quando avevano così poco rispetto per colui che, volessero o no, era il loro capo! Bizze, maldicenze, ripicchi, puntigli e dispetti: questa la trama, su cui la aristocrazia tesseva ogni dì la sua tela. Se nessuno attendeva alle pubbliche faccende, la minuta e continua persecuzione del partito popolare nei suoi ultimi avanzi, appassionava molti come un giuoco eccitante, crudele e senza pericolo; non mancavano i magistrati che, per dare al popolo giuochi più belli dei propri colleghi, facevano follie218; cosa più grave, nelle provincie abbandonate al capriccio dei governatori, negli eserciti retti con disciplina assoluta, il potere smisurato faceva talora addirittura perdere il senno a questi nobili, già così superbi a Roma. Ogni tanto Roma doveva sdegnarsi per qualche crudeltà e prepotenza commessa da un illustre governatore nella sua provincia; e inclinando a sensi più umani anche per i sudditi, domandava ad Augusto che correggesse questi abusi219. Ma come, con quali mezzi? Addolorato per la partenza di Agrippa, Augusto aveva spedito a raggiungerlo in viaggio, a modo di compenso e come messaggio di conciliazione, la nomina a suo legatus per la Siria220, cercando così di volgere in bene anche la lite con Marcello. Le faccende partiche si intorbidivano sempre più; Fraate mandava a Roma un’ambasciata per domandare il figlio e Tiridate221, vale a dire, probabilmente, per intimare un ultimatum. Comunque volgessero le cose, era savio consiglio porre Agrippa alla testa delle legioni siriache. Ma Agrippa, duro: non smise il broncio; e pur non rifiutando la nomina, restò a Lesbo, come Achille sotto la tenda, senza occuparsi delle provincie222; cosicchè Augusto, non osando intimargli di accettare o di rifiutare, si trovava ad avere, minacciando una guerra con i Parti, la Siria senza legatus. Intanto tra le classi medie, nella parte più rispettabile dei senatori e dei cavalieri di modesta fortuna, per naturale avversione a questi vizi della nuova aristocrazia, la corrente puritana acquistava forza; la elezione dei censori, la compilazione di leggi severe contro la corruzione dei costumi, dei provvedimenti insomma che raffrenassero il disordine dell’alta società erano sollecitati come urgentissimi, non più differibili. Ed era una nuova gravissima difficoltà per Augusto. Augusto era più sinceramente e fervidamente ammirato dalle classi medie, a cui non aveva dato nulla, che dalla aristocrazia, a cui aveva dato tutto: anzi questa popolarità nelle classi medie era la forza maggiore del suo governo. Perciò egli capiva di dover dare a queste classi almeno qualche soddisfazione morale. Ma non osava secondare apertamente il movimento, incitarlo e adoperarlo per raffrenare, intimorire, piegare al suo volere l’aristocrazia. Nei bei tempi della repubblica la disciplina del costume privato era stata mantenuta sopratutto dai capi della famiglia, nel piccolo monarcato domestico: questi mancando al proprio dovere, non si poteva, come molti chiedevano, fare intervenire la legge, se non sconvolgendo i principî fondamentali del diritto familiare, rovinando cioè la tradizione che si voleva restaurare. Nec vitia nostra nec remedia pati possumus. Augusto era disposto solo a far eleggere di nuovo i censori; e a prendere l’iniziativa di una nuova riforma dell’erario, che affrettasse la restaurazione della finanza, sempre più necessaria. Ogni anno si dovevano trarre a sorte tra i pretori due amministratori, che avrebbero nome di “praetores aerarii”223. Ma per il resto, egli voleva adoperare quello che a lui pareva ancora in tutte le difficoltà il migliore rimedio, l’indugio. Un solo uomo insomma avrebbe potuto far le sue veci, a capo dello Stato, Agrippa; e anche quello, il solo collaboratore da cui egli fosse stato efficacemente aiutato negli anni precedenti, si era tratto in disparte per un ripicco. Infastidito da tante difficoltà, disgustato da tanti contrasti, sollecito di aversi riguardo per non sciupare con soverchie brighe quel po’ di salute che ancora gli restava, Augusto aveva alla fine ideato una nuova riforma costituzionale, con cui trasporterebbe la sua autorità dall’Italia sulle provincie, dalla politica interna sulla estera: abbandonare cioè definitivamente il principio cesariano della cumulazione delle cariche che appariva assurdo e impossibile, per la gravezza delle fatiche che imponeva; farsi attribuire un potere discrezionale di vigilanza e di controllo sui governatori di tutte le provincie senatorie e sue, con cui integrare e correggere in ciascuna l’opera loro; diventare insomma il vero princeps vagheggiato da Aristotele, da Polibio, da Cicerone: e cioè un vigilatore supremo. Per questa riforma Augusto non avrebbe più dovuto attendere al governo di Roma e dell’Italia, che era il più difficile e grave: potrebbe recarsi e dimorare per lunghi anni nelle provincie: potrebbe in queste, lavorando pacatamente, continuare il riordinamento delle finanze imperiali e la ricostituzione della fortuna dell’Italia; potrebbe anche affittare in perpetuo ai suoi amici i beni pubblici di tutto l’impero, invece che quelli soltanto delle sue provincie; potrebbe infine dare una soddisfazione alle classi medie e alle classi intellettuali d’Italia, se non emendando i costumi della corrotta metropoli, impedendo almeno nelle provincie gli abusi e le rapine più scandalose; applicare nella misura del possibile i tre versi famosi, con cui Virgilio definisce la missione imperiale di Roma:

Tu regere imperio populos, Romane, memento;
Hae tibi erunt artes; pacisque imponere morem,
Parcere subiectis et debellare superbos;

praticar largamente, in persona, sui luoghi, invece che per mezzo di governatori svogliati e restii, quella politica di conciliazione e di giustizia, che egli, pur tenendo distinte tre cose che i contemporanei inclinavano sempre più a confondere, la filosofia, la poesia e la politica, giudicava essere necessaria sopratutto in Oriente. Poco prima infatti alcune città dell’Asia Minore rovinate dal terremoto avendo osato ricorrere per aiuto al Senato romano, il quale da secoli era solito non a dare ma a prender denaro, Augusto aveva favorita la domanda e Tiberio l’aveva perorata in Senato224. Voleva insomma provare in tutto l’impero, e incominciando con un viaggio in Grecia e in Oriente, quella riforma della amministrazione delle provincie, che era fallita a Silla, a Lucullo e a Cicerone; sapendo ad ogni modo che egli potrebbe con minor fatica tenere a freno la avarizia dei grandi, ora che non c’era quasi più nulla da rubare nelle provincie; ora che i terribili pubblicani erano scomparsi; ora che egli poteva dare ai grandi, in premio della loro onestà, il sicuro godimento dei beni pubblici. Augusto conosceva a fondo la suprema arte politica di ingrandire agli occhi delle moltitudini le difficoltà, per accrescere il merito di averle vinte; onde assumeva volentieri un ufficio che aveva il pregio, insuperabile per un uomo politico, di essere facile e di parere difficilissimo.

Perciò io penso che la minaccia di ritirarsi a vita privata fosse una finta, per indurre più facilmente il Senato e il popolo ad approvare questo mutamento, sopratutto la abdicazione del Consolato, che doveva spiacere molto alle alte classi di Roma, queste non conoscendo mezzo più comodo che far console Augusto, per mantenere l’ordine in Roma e per avere delle buone elezioni senza fatica. Ma quando Augusto ebbe minacciata loro l’alternativa: o cedessero o egli si ritirava, dovettero acconciarsi e venire ad un accordo. Senonchè se era facile indurre il Senato a perdere un così comodo console, più difficile era dichiarare brutalmente all’Italia, sopratutto alle classi medie, le quali tanto speravano dall’opera sua, che egli non intendeva più prender cura dei loro interessi. Perciò si convenne nell’accordo che il Senato darebbe ad Augusto la potestà tribunizia a vita; e cioè i diritti dei tribuni che egli ancora non possedeva: il diritto di veto, il diritto di far proposte al Senato, il diritto di proporre leggi ai comizi. Così egli non sembrerebbe abbandonare del tutto l’Italia; conserverebbe un mezzo di intervenire nelle faccende di Roma; e nel tempo stesso sarebbe gravato da poteri e quindi da responsabilità e brighe molto minori che non il console225. Verso la metà dell’anno, dopo le Ferie latine, fu data infatti esecuzione all’accordo. Augusto abdicò il consolato; e il Senato gli accordò in cambio un potere di vigilanza e di controllo sui governatori di tutte le provincie: aggiunse a questo il diritto di entrare nel Pomerio senza decadere dai poteri proconsolari; gli concesse infine la potestà tribunizia a vita226. A sua volta Augusto, per corrispondere al partito aristocratico un compenso, aiutò nella elezione suppletiva del consolato Lucio Sestio, un antico proscritto e fedelissimo amico di Bruto227. E così parvero tutte appianate le difficoltà, che erano nate dalla malattia del princeps. Ma ne nacquero subito delle nuove, perchè non le malattie d’Augusto generavano le difficoltà, come i più credevano; ma la continua contradizione d’ogni cosa con sè medesima, che nessun decreto poteva annullare. Il Senato e i magistrati continuando, come solevano, a oziar beatamente tra le urgenze e le complicazioni delle pubbliche faccende, la riforma costituzionale non impedì che nella seconda metà dell’anno 23 nessuno, nè gli edili, nè i consoli, si desse più pensiero di cosa alcuna, nemmeno della carestia che minacciava di affamare l’Italia e Roma; che il partito della nobiltà si agitasse tutto e soltanto per ripetere lo scandalo di Cornelio Gallo contro un oscuro governatore della Macedonia, un certo Marco Primo, il quale pare avesse fatta una piccola spedizione contro gli Odrisii, senza essere stato autorizzato dal Senato. Vendicare su Primo l’oltraggiata maestà del Senato era evidentemente cosa di maggior momento, che provvedere affinchè tra poco il popolino di Roma non morisse di fame! Implacabile nel perseguitare quelli che gli parevano gli usurpatori e gli intrusi nelle dignità riserbate a lui, il partito della nobiltà aveva fatto accusar Primo: ma il piccolo manipolo democratico, che aveva lasciato sbranare Cornelio Gallo, aveva questa volta raccolta la sfida. Murena accettava la difesa di Primo; gli altri, specialmente Faunio Gepione, si accingevano ad adoperarsi in tutti i modi affinchè Primo fosse assolto228: Roma stava dunque per vedere un nuovo scandaloso processo; mentre la carestia silenziosa, insidiosa e invisibile, vuotava a poco a poco i granai di Roma. Giunsero in quella gli ambasciatori dei Parti; e come sudditi di un monarca, poco versati nel diritto costituzionale romano, si rivolsero ad Augusto.

Una ambasciata partica in Roma, in quel momento, avrebbe potuto legittimamente distogliere l’attenzione pubblica non solo da una miseria come il processo di Primo, ma anche dalle cose serie, come la imminente carestia. La questione partica era la più grave tra le questioni di politica estera, che allora pendevano; perchè l’Italia non voleva ancora riconoscere di non aver forze bastevoli a conquistare la Persia. Alessandro l’aveva conquistata, dunque doveva conquistarla anche Roma – ragionava il pubblico, con la consueta sveltezza; ma intanto l’impero non aveva più che ventitrè legioni e pochi denari; e Fraate chiedeva la consegna non solo del figlio, ma di Tiridate, accolto profugo dalla repubblica: onde ad accondiscendere si sarebbe non solo avvilita in Oriente la potenza romana, ma scontentata profondamente l’Italia, che voleva umiliata la Persia; a rispondere arrogantemente, si poteva provocare quella guerra, di cui solo gli inesperti e gli irresponsabili potevano parlare così leggermente, come se ne parlava in Italia. Ma l’arrivo degli ambasciatori partici era un evento grave anche per un’altra ragione: e cioè perchè esso doveva mettere alla prova definitiva e nella sua parte più essenziale la restaurazione della costituzione deliberata nel 27. Era questa la più grave faccenda di politica estera che si fosse presentata a Roma, dopo che il nuovo ordine di cose era stato stabilito; e non Augusto ma il Senato doveva risolverla, perchè il Senato solo era competente a trattare con Stati stranieri. Augusto infatti, che osservava scrupolosamente la costituzione sopratutto quando voleva schivare qualche responsabilità grave, aveva rimandati gli ambasciatori al Senato. Per la prima volta dunque, dopo la restaurazione della repubblica, anzi da quasi mezzo secolo, il Senato si ritrovava dinanzi e con piena facoltà di trattarla a suo modo, come nei tempi più belli della repubblica, una gravissima faccenda di politica estera; per la prima volta esso poteva assumer di nuovo l’antica autorità diplomatica, che i partiti e le cricche gli avevano usurpata negli ultimi quaranta anni, che era stata nei secoli precedenti, che doveva essere nel futuro la parte essenziale della sua potenza. Era chiaro infatti che, non ostante tutte le riforme che si potessero introdurre nella costituzione, il Senato non sarebbe più l’organo supremo, quasi il cervello di un impero come quello di Roma, se non avesse saputo, come in antico, amministrare gli interessi mondiali di Roma con una saggia politica estera. Fu quindi un momento importante quello in cui, con l’antico cerimoniale, gli ambasciatori partici furono introdotti nel Senato. Si vedrebbe in quel momento, definitivamente, se il Senato avesse ancora tanto vigore da ripigliare gli uffici antichi, dopo un così lungo intervallo; o se fosse incurabilmente invecchiato. Ma la prova fu disgraziata. Il Senato rimandò gli ambasciatori ad Augusto, incaricando Augusto di trattare e di accordarsi con loro229. Per quali ragioni? Gli storici non ce le dicono, sebbene non sia difficile argomentare che quel Senato fatto dalle guerre civili non aveva nè il coraggio, nè la pratica, nè la voglia di trattare una faccenda così grave. I Parti lo spaventavano: pensasse dunque Augusto anche a questo! Augusto intese che facendo viaggiare dall’uno all’altro gli ambasciatori, questi avrebbero capito che tutti a Roma avevano paura; e quindi, poichè qualcuno doveva pur trattare, si acconciò a trattare egli, con molta abilità, ponendo innanzi la questione dei compensi. Rifiutò di consegnare Tiridate, si dichiarò pronto a non aiutarne più i tentativi per riconquistare il trono, e a conchiudere un trattato di amicizia con Fraate e a restituirgli il figlio: ma quale compenso era disposto a corrispondere il re dei Parti? Augusto non tardò ad accorgersi che Fraate, poco saldo nel dominio, minacciato dalla rivoluzione, stretto da pretendenti, era anche più di lui desideroso di una pace definitiva; e destro nell’approfittare delle debolezze dell’avversario come i diplomatici romani della vecchia scuola, domandò e ottenne in cambio del figlio e di un trattato di amicizia, la restituzione delle insegne e dei prigionieri presi nelle ultime guerre, e l’abbandono dell’Armenia, caduta dopo Azio sotto il protettorato partico, all’influenza romana230. Il protettorato dell’Armenia, inutile a Roma, doveva forse, nel pensiero di Augusto, servire come compenso da offrire all’Italia, invece della conquista persiana. Ben presto Roma seppe che Augusto aveva conchiuso un accordo soddisfacente con i Parti, e tutti ne furono contenti; nessuno dubitando che nel momento in cui commetteva ad Augusto di trattare la più importante faccenda estera che si fosse presentata dopo la restaurazione della repubblica, il Senato aveva posta in Roma la prima pietra dell’edificio della monarchia, che non sarà terminato che due secoli più tardi. Con quel senatusconsulto il Senato si dichiarava inetto a dirigere le relazioni dell’impero con gli stranieri; faceva getto spontaneamente della sua autorità più importante; trasferiva ad un uomo e ad una famiglia la direzione della politica estera: dava opera cioè, molto più efficacemente che Augusto e contro la sua volontà, a fondare in Roma la monarchia. Il giorno in cui in Roma non più il Senato, ma una famiglia sarà capace di trattare la politica estera, Roma albergherà veramente tra le sue mura una dinastia231.

Ma mentre Augusto pensava ai lontani confini orientali dell’impero, e aristocratici e popolari si accingevano ad azzuffarsi per Primo, la Fame piombò nella città non difesa. Sul principio della carestia il popolo si sfogò con i discorsi, rammaricando che Augusto non fosse più console, giudicando che, lui console, il grano non sarebbe mancato232: ma quando la fame diventò acuta, quando per maggiore sventura il Tevere straripò, rubando ai poveri plebei, cui già mancava il pane, il giaciglio, il popolo si levò, fece delle dimostrazioni, acclamò Augusto dittatore, gli mandò delle deputazioni a supplicarlo di accettare, di assumersi, come Pompeo nel 57, la cura dell’annona233 e in pochi giorni frantumò la ultima e studiata riforma costituzionale. Augusto rifiutò da prima questa dittatura conferita a furore di popolo: ma quando il popolo bloccò il Senato che teneva seduta e minacciò di bruciar Curia e padri coscritti se non facevano il dittatore234, capì che non si poteva scherzare con la fame delle masse come con le conquiste e gli accordi diplomatici; accettò la cura dell’annona, nominò, scegliendoli tra gli antichi pretori, due præfecti frumenti dandi235; distribuì del grano236; ne fece cercare dappertutto; e per pungere con un esempio la pigrizia della nobiltà, incaricò di scaricare il grano ad Ostia e di trasportarlo a Roma il suo figliastro Tiberio237. Un Claudio, il discendente di una delle casate più superbe e più nobili di Roma, intento a trasportar grano a Roma, quasi come un secondo Egnazio Rufo! Ma il giovane aveva veramente alcune qualità della vecchia aristocrazia che di solito si ritrovavano solo nei libri: la alacrità, la serietà, l’ambizione di segnalarsi; e quindi compì bene la sua modesta missione238. Pure il pubblico non si quetò: il malcontento per la carestia aveva fomentato ancor più il movimento puritano; smessa l’idea di fare Augusto dittatore, si cominciò a ventilar la proposta di crearlo censore a vita. Era evidente che, senza una sorveglianza più rigorosa dei costumi, lo Stato si dissolverebbe; ma chi poteva esercitar questa sorveglianza meglio di Augusto? Augusto, che non voleva neanche questo nuovo e difficile carico, che non aveva però nemmeno il coraggio di opporsi al desiderio popolare troppo infiammato, propose al Senato una transazione: si indicessero le elezioni dei censori. E così fu fatto. Furono eletti due personaggi cospicui: Lucio Munazio Planco, Paolo Emilio Lepido239. Ma il pubblico, acceso da un rinnovato fervore di fede nel mito di Augusto, non fu contento: continuò a domandar che Augusto avesse o la dittatura o la censura, una forma insomma di autorità rapida e forte; e con così viva istanza, che Augusto dovette alla fine appigliarsi all’espediente di una transazione. Non volle nè il nome nè l’autorità vera di dittatore o di censore: accettò, certo con l’intenzione di servirsene soltanto per provvedere all’annona, che il Senato gli accordasse la facoltà di emanare editti validi, come fosse console, ogni volta che egli giudicasse ciò opportuno per il pubblico bene: allargasse cioè quel potere discrezionale di sorveglianza sulle provincie, datogli pochi mesi prima, sino a comprendervi Roma e l’Italia240. Gli fu insomma conferita una mezza dittatura.

Finì così, tra queste ansietà, il tempestoso anno 23. Ma nessuno, nemmeno Augusto, aveva capito che cosa era davvero avvenuto in quell’anno, e sopratutto l’ultima violenta oscillazione con cui la Fame del popolo aveva spinto di nuovo lo Stato verso la dittatura, mentre verso la metà dell’anno la malattia di Augusto aveva sembrato inclinarlo di nuovo verso le schiette forme repubblicane. Quella potestà generica di emanare editti, votata in fretta e furia dal Senato, tra le urla della plebe affamata, sarà il piccolo seme da cui crescerà il dispotismo monarchico: pianticella modesta prima, poi rigoglioso arbusto, poi robusta pianta; infine albero gigantesco che coprirà con i suoi rami l’impero. Ma i contemporanei non ebbero di ciò, come è naturale, alcun sentore, e attesero ai guai presenti, che non erano nè pochi nè piccoli. Sul principio del 22 una grave sventura piombò sulla casa di Augusto. Ammalatosi Marcello del morbo che l’anno prima aveva ridotto Augusto in fin di vita, invano Antonio Musa riprovò la cura dei bagni freddi: Marcello, il solo maschio della discendenza di Cesare, morì241. Intanto i provvedimenti del Curatore della annona e i nuovi raccolti alleviavano la carestia; il popolo si tranquillava; Augusto restava impacciato e gravato dalla sua mezza dittatura, di cui non sapeva quale uso fare e di cui non voleva fare uso alcuno; e la tanto aspettata, invocata, sospirata censura di Munazio e di Paolo in poco tempo disilludeva anche i più fiduciosi. I due censori avevano subito preso a litigare; poco dopo Paolo era morto; il superstite, Munazio, era un uomo troppo vizioso, e non poteva quindi correggere i costumi altrui: onde nessuno fece nulla242. Per palliare al pubblico alquanto la sua delusione, Augusto dovè cercare di supplire alla manchevolezza scandalosa dei due censori, adoperando la sua potestà semi-dittatoria243; e vietò ai cavalieri e ai figli dei senatori di salire le scene, per contrastare alla diffusione di questo morboso capriccio tra le alte classi; proibì certi banchetti pubblici e agli altri impose una maggiore frugalità; raffrenò le rovinose gare dei magistrati nel dare i giuochi, assegnando la cura di questi ai pretori, disponendo che ciascuno avesse un sussidio dal tesoro, imponendo a tutti di spendere egualmente; limitò il numero dei gladiatori. Si studiò anche di provvedere alla estinzione degli incendi, comprendendo che non si poteva obbligare il popolo a lasciar bruciare le proprie case, perchè l’aristocrazia aveva in uggia Egnazio Rufo: e imitò Rufo, che egli aveva perciò biasimato, incaricando gli edili curuli di spegnere gli incendi, dando loro seicento schiavi, un personale cioè più numeroso di quello che possedevano244. Frattanto democratici e aristocratici ripigliavano ad azzuffarsi per il processo di Primo; e riuscivano a tirare nella contesa anche Augusto, il quale avrebbe voluto restare spettatore imparziale. Non potendo negare che aveva impresa la sua spedizione senza l’autorizzizione del Senato, Primo diceva, per difendersi, ora che Augusto, e cioè il generalissimo, ora che Marcello, il quale era morto, gli avevano dato l’ordine245. La scusa era inventata, tanto è vero che Primo non osava citare Augusto al processo246: ma egli sperava che Augusto non lo smentirebbe. E difatti gli accusatori di Primo speravano così poco nella compiacenza di Augusto, che neppur essi osavano citarlo: cosicchè il processo pareva dipendere da un testimonio, che accusatori e difensori incontravano ogni dì sul foro e che nessuno voleva interrogare! Quando, all’improvviso, il dì del processo, Augusto comparve spontaneamente e depose, non ostante le invettive dei difensori, di non aver dato alcun ordine al governatore della Macedonia247. Augusto aggiungeva la condanna di Primo al seguito di compensi, con cui cercava di far dimenticare alla nobiltà le proscrizioni, Filippi, le confische, lo sterminio della famiglia di Pompeo, la decennale tirannide del triunvirato! E la nobiltà fu così lieta dell’intervento di Augusto, che subito gli fece assegnare dal Senato la facoltà di convocare a piacimento il Senato come se fosse console248. Il partito democratico si irritò; e....

Quel che accadde allora è poco chiaro. Pare che Augusto fosse avvertito da un certo Castricio249 di stare all’erta, perchè Murena, Fannio Cepione ed altri capi del partito democratico – Egnazio Rufo escluso, però250 – sdegnati per la deposizione, che era un tradimento del suo antico partito, tramavano una congiura per ammazzarlo, come Cesare. La congiura era seria? O si riduceva a qualche sconsiderato proposito, espresso subito dopo il processo di Primo, nel bollore dell’ira?251 Impossibile dirlo. Certo è che Augusto, apertosi con Mecenate, inclinava da prima a spegnere la cosa con il silenzio. Ma la cosa si riseppe, sembra per colpa di Mecenate e di sua moglie, che era sorella di Murena252; e una nuova, più atroce mischia di odî, di persecuzioni, di calunnie, di vendette infuriò. Augusto, per la potestà tribunizia, era sacrosanto: una congiura contro di lui era quindi un gravissimo sfregio alla divinità. Il pubblico che ammirava Augusto e che ridiventava bigotto, si infuriò anche più del solito, smarrì il lume o meglio il barlume della ragione, e senza distinguere troppo per il sottile il torto e la ragione di ciascuno, domandò solo condanne: accusare un congiurato fu cosa popolarissima, rimeritata dalla lode pubblica e facilissima, perchè un vago indizio, una testimonianza falsa, un nonnulla bastavano a convincere un tranquillo cittadino di assassinio. E pronto, il partito della nobiltà ne approfittò per sterminare gli ultimi avanzi del partito popolare; quanti sentivano ambizione e inclinazione alle nuove idee conservatrici e arcaicizzanti si scelsero un avversario, accusarono qualcuno; la congiura contro Augusto diventò pretesto a una selvaggia persecuzione, intesa a sfogare gli ultimi rancori delle guerre civili su poche vittime quasi innocenti. Alcune persone serie e coraggiose, osarono resistere alla follìa universale, o protestando contro le accuse non provate, o rifiutandosi di condannare nei giurì, o mostrando simpatia per i condannati253; ma i più incrudelirono, anzi parecchi giovani fecero con queste accuse la loro prima e solenne adesione al nuovo partito della nobiltà, che voleva distruggere la tradizione democratica, come il più funesto flagello del romanesimo e restaurare, nella misura del possibile, l’antica politica aristocratica e conservatrice. Tra costoro Tiberio, che accusò Cepione254.

Augusto non aizzò la persecuzione e non fece nulla per contenerla: ma fu così spaventato da quel furore popolare e dalla facilità delle condanne con cui si sfogò, che propose una legge secondo la quale l’unanimità dei suffragi sarebbe necessaria per una condanna255. Poi si affrettò a partire. A Roma c’era per lui un pericolo più continuo che le insidie delle congiure: l’ammirazione popolare che non gli dava tregua; che lo aveva eletto console, non ostante le sue proteste, per il 21; che lo obbligava ad adoperare i poteri della sua mezza dittatura! Un’altra volta, sollecitato dagli uomini e più dalla necessità, egli aveva dovuto, in una cosa piccola e urgente, acconsentire a farne uso. In ogni parte d’Italia si lamentava la misteriosa scomparsa di persone, che si diceva fossero state rapite da proprietari poco scrupolosi e chiusi negli ergastoli durante l’anarchia dei precedenti decenni; si bucinava che negli anni in cui le fazioni avevano reclutate tante legioni, molti possidenti avessero aperto i loro ergastoli ai giovani che volevano sfuggire ai reclutatori, offrendosi di farli passare per schiavi propri; ma che poi li avevano trattenuti per davvero.... Considerando che i magistrati ordinari non avrebbero saputo far nulla, Augusto, che già aveva lodato Tiberio per la missione annonaria, lo incaricò di frugare negli ergastoli, di interrogare gli schiavi, di rompere le catene dei liberi chiusivi a forza256. Poi finalmente, dopo aver rinunziato al consolato e restituita al Senato la Gallia Narbonese e Cipro, nella seconda metà del 22, partì da Roma, fuggendo quasi la sua stessa dittatura; e se ne andò in Sicilia, prima tappa del suo viaggio, per compire la deduzione già incominciata di alcune colonie dei suoi veterani di Azio in diverse città della costa, di cui è incerto il numero e il nome257. Ma la dittatura tentò ancora una volta di inseguire il fuggente. Tra le cure di queste deduzioni Augusto fu raggiunto da una deputazione di cittadini eminenti, venuti da Roma a supplicarlo di ritornare. Dovendosi eleggere il console che occupasse il posto lasciato vuoto da lui, ed essendosi presentati due candidati, Quinto Lepido e Marco Silano, erano scoppiati nuovamente dei grandi disordini, che nessuna autorità poteva reprimere e per i quali non si era potuta far l’elezione. Augusto, sempre Augusto, per ogni contingenza e in tutte le vesti: mercante di grano, banchiere dello Stato, conquistatore, riparatore di vie, capo di polizia! Sopraggiunsero i due candidati, venuti dopo la commissione a perorare la loro causa. Ma Augusto non ritornò; sgridò solo i due candidati, ingiungendo loro di non ritornare a Roma se non dopochè l’elezione fosse compiuta. Invano: i tumulti ricominciarono quando si ritentò di far l’elezione; cosicchè al 1.° gennaio del 21 non si era ancora potuto eleggere l’altro console. Augusto capì che doveva prendere qualche provvedimento; e si risolvè a fare un’altra volta uso dei poteri discrezionali e in misura maggiore, per impedire che quei guai si rinnovassero; mandando a Roma, quasi come governatore, Agrippa. La morte di Marcello aveva come è naturale, riavvicinati i due antichi amici: i casi di Roma persuasero Augusto a fare una piena riconciliazione; dandogli in sposa Giulia, la vedova di Marcello, e affidandogli, in virtù dei suoi poteri discrezionali, il governo di Roma, che Messala Corvino aveva rifiutato nel 26 dopo sei giorni. Facendolo suo genero, egli solleciterebbe lo zelo di Agrippa; e accrescerebbe l’autorità sua presso il popolo258. Poi, nella primavera del 21, egli veleggiò verso la Grecia traendosi finalmente fuori dalle faccende italiche. Non ostante i suoi sforzi per rianimare la vecchia costituzione; non ostante il rinascimento dello spirito aristocratico e il rinnovato culto della tradizione repubblicana, Augusto aveva dovuto assumere e in parte esercitare a più riprese la autorità di un mezzo dittatore; e non trovava altro rimedio, per non diventare dittatore intero, che di fuggire lontano.

Il disegno del suo viaggio in Oriente si era frattanto ingrandito. Sia che, come farebbe credere un passo di Dione, il re dei Parti, riavuto il figlio, tardasse troppo a mantenere gli impegni assunti; sia che Augusto temesse una vigorosa resistenza del re di Armenia; sia che egli volesse soltanto inscenare il suo studiato accordo diplomatico nel grande teatro dell’Oriente, sopra uno sfondo di legioni, di battaglie, di episodi guerreschi, per farlo apparire come uno di quei clamorosi drammi cesariani tanto ammirati dal popolo, Augusto aveva deliberato di invadere l’Armenia con un esercito. Egli sapeva quanto fosse facile spezzare queste fragili monarchie dell’Oriente: se, quando un esercito romano fosse entrato in Armenia, il re dei Parti gli mandasse le insegne e i prigionieri, sarebbe facile far credere all’Italia che, invadendo l’Armenia, Augusto aveva costretto il riluttante re dei Parti a implorare l’amicizia di Roma.

V.
L’ORIENTE.

Quando nel 146 a. C. Roma la aveva dichiarata provincia, la Grecia da un pezzo scivolava lungo la china di una universale decadenza. A poco a poco, smembrati gli imperii territoriali e marittimi, rovesciata la supremazia commerciale, consumati i capitali, impoverite e distrutte le industrie, isterilite le arti e gli studii, tutte le sorgenti dell’antica ricchezza si erano inaridite. Nella Laconia si erano spente le fucine che fabbricavano tante spade lancie ed elmi, tanti trapani lime e martelli259; si erano chiuse ad Argo le fonderie di bronzo in antico così operose e famose260, a Sicione le botteghe dei suoi artisti, così celebri un tempo261; Egina aveva a poco a poco lasciata deperire la flotta mercantile, chiuse le celebri fonderie di bronzo, le fabbriche di quelle minute merci eginetiche, – chincaglierie, diremmo ora, – che erano passate in proverbio262; tutta la meravigliosa fortuna di Atene era stata sepolta sotto le rovine del suo impero marittimo. Il suo commercio era morto, quando, perduto l’imperio dei mari, Atene non aveva più potuto aiutarlo con prepotenze e privilegi; era cessato il profusissimo spendere della repubblica in navi, in armi, in opere pubbliche, in beneficenze politiche, quando erano venuti meno i tributi degli alleati; con l’impero era minato quel sistema di cleruchie e di possessi territoriali, per cui tanti Ateniesi potevano consumare ad Atene i frutti di campi, di boschi, di miniere posti in ogni parte. Quindi una universale rovina: fallita l’industria navale dei cantieri del Pireo, come quella delle armi; passata la voga di quei vasi attici, rossi e neri, di cui Atene aveva per secoli adornate le case dei ricchi in tutte le regioni del Mediterraneo; esauste perfino le miniere d’argento del Laurio, prima sorgente della ricchezza ateniese; impoveriti e diradati tutti i mestieri e tutte le arti, che avevano lavorato per i bisogni e per il lusso di Atene, quando l’opulenta città, metropoli di un vasto impero ed emporio di un immenso commercio, decadde a capitale spopolata di una piccola regione di 40 miglia quadrate, che non poteva esportar più se non poco olio, poco miele, poco marmo e certi famosi profumi: ultimo avanzo del vasto “imperio degli affari” di cui aveva tenuto un tempo lo scettro263. Sola Corinto prosperò in mezzo alla universale decadenza per commerci ed industrie. Intanto la decadenza delle grandi città industriose e mercantili impoveriva per ripercussione tutta la Grecia, le campagne come le città secondarie; in quelle scemando i lucri di molte coltivazioni, in queste il lavoro e il guadagno alle arti e ai mesteri: e nello stesso tempo dappertutto, nelle campagne più remote come nelle piccole e grandi repubbliche, a mano a mano che la nazione impoveriva, la spinta dei rurali verso la città, l’inclinazione ai lussi, ai vizi, ai piaceri, alle arti del vivere cittadinesco, la fretta dei subiti guadagni, la passione per i giuochi, lo spirito di intrigo, di rivalità, di sopraffazione nei partiti e nelle città; tutti insomma i vizi, le ambizioni, le aspirazioni nate dalla grandezza e dall’opulenza, invece di cadere e morire, crescevano con forza novella. Onde un terribile universale travaglio, che aveva desolata la Grecia sino alla conquista romana. Pur di conservare alle città uno splendore artificiale, pur di rimunerare artisti e artigiani di opere di lusso, pur di mantenere le scuole degli atleti, i grandi giuochi e le tradizioni intellettuali, pur di soddisfare le smodate ambizioni, le cupidigie e i tenaci rancori delle innumeri oligarchie politiche che si annidavano in tante città grandi e piccole, pur di godere e scialare, la Grecia aveva dilapidate spensieratamente tutte le ricchezze accumulate dagli avi, impegnato e compromesso in ogni cosa l’avvenire. I partiti e le città avevano cercata in guerre e rivoluzioni, in rapine e violenze, una parodia della antica gloria e della antica potenza; queste guerre, queste rivoluzioni, le orgie, i piaceri, le folli dilapidazioni dello sfarzo privato e del pubblico, avevano impoverite ancora più tutte le regioni; il celibato e i debiti – i due flagelli più terribili del mondo antico che sofferse sempre, anche in tempi prosperi, scarsezza di capitale e rarità di popolazione – avevano desolate fin le campagne. A poco a poco le grandi proprietà a schiavi o addirittura il deserto sterile avevano spopolate le regioni un tempo più popolose, mentre nelle città, non ostante tanti disperati sforzi, le arti languivano, i costumi si corrompevano, le istituzioni decadevano, la miseria e lo spreco, indivisibile coppia, entravano nel palazzo del signore, nella casa del mercante, nell’abituro del villano....

Su questa lubrica china scivolava la Grecia quando Roma le pose la mano sul collo. Ma non per sostenerla a mezzo della caduta: che anzi rincalzò più precipitosamente verso il fondo dell’abisso. Chi vuol capire davvero che cosa sia stato l’impero romano, deve sgombrare la mente da uno degli errori più inveterati e diffusi: che cioè Roma abbia amministrate le sue Provincie con larghe vedute di generale vantaggio, secondo certi savi e benefici principî che mirassero sopratutto al bene dei dominati. Nè Roma, nè alcun altro impero resse mai a questo modo le nazioni soggette; perchè la dominazione non fu mai vantaggiosa ai dominati se non per accidente; e sempre invece i dominatori cercarono di ricavarne il maggior vantaggio con il minore pericolo e sforzo. Roma infatti aveva lasciate in Grecia, come in tutti gli Stati soggetti, le cose seguire l’inclinazione loro naturale, buona o cattiva, sinchè non ne nascesse pericolo o nocumento per lei. Distruggendo Corinto, l’ultima sua città industriosa e l’ultimo emporio mercantile l’aveva ridotta a vivere sulle scarse risorse del suo territorio e ad aiutarsi con le miserabili ciurmerie dei popoli falliti, con le antichità, i monumenti, i forestieri, le miracolose guarigioni di Epidauro; e l’aveva poi sminuzzata in un infinito numero di staterelli, i più comprendenti il solo territorio di una città, tra i quali Sparta, Atene poche altre città soltanto avevano conservata l’indipendenza e un territorio un poco più vasto – la prima una parte della Laconia, la seconda tutta l’Attica con qualche isola. Legate a Roma da un trattato di alleanza, queste città avevano continuato a reggersi con le antiche istituzioni e con le antiche leggi, senza pagare tributo alcuno, senza essere sottoposte alla autorità del governatore. Il rimanente territorio era stato invece incorporato con la Macedonia, e diviso tra un grandissimo numero di città, che pagavano tributo e si reggevano indipendenti, ciascuna con le proprie leggi e istituzioni, sotto la vigilanza però del governatore e del Senato romano; i quali le lasciavano logorarsi a poco a poco nei vizi inveterati e profondi, purchè puntualmente pagassero ogni anno la contribuzione e non turbassero, con guerre e con rivoluzioni, la pax romana. La quale però non aveva nè rigenerata e nemmeno riposata la stanca nazione; sia perchè l’ordine, quando non è l’effetto di un naturale equilibrio interiore, ma di forze estrinseche, può paragonarsi al sopore infuso dal narcotico nelle vene dell’infermo, che annulla per un istante il dolore ma aggrava il morbo; sia perchè quel poco che aveva risparmiato la pace, era stato depredato da Roma. La grande guerra di Mitridate prima, le guerre civili degli ultimi trenta anni poi, le taglie, le ruberie delle milizie, le imposizioni delle fazioni, aggiunte alle contribuzioni ordinarie e alle usure dei pubblicani, avevano mortalmente estenuata la Grecia, aggravata ancor più di debiti la grande proprietà già così oberata, scoraggiata dalla tenace assiduità, che ne è la vita, la piccola possidenza, diradata la popolazione, indeboliti i governi già tanto guasti, dispersi gli ultimi capitali. Perfino il tesoro del tempio di Delfi era vuoto. La nazione che un tempo era stata la bellissima madre dell’Ellenismo, mendicava ora nel mondo fra le ancelle di Roma, decrepita, sordida, in cenci, coperta di piaghe.

Se fosse cosa umana e possibile la inversione morale sognata da tanti, i quali vogliono abbellire il mondo secondo la propria inclinazione; se l’imperio su altrui, tanto agognato dagli uomini, potesse snaturarsi in sacrificio del dominatore a pro’ del vinto. Augusto avrebbe potuto tentare la più mirabile impresa della storia di Roma: ringiovanire la Grecia! Ma Augusto, il quale pur amando i versi di Virgilio, non attingeva in quelli la saggezza politica, sapeva che Roma era una potenza mediocre a paragone del nome, e che l’impero poggiava in parte sopra una immensa illusione dei popoli soggetti, che divisi, ignari, scoraggiti, si immaginavano Roma molto più forte che non fosse in verità; non dimenticava mai che nel maggior numero delle provincie Roma non poteva mantenere guarnigioni; che in tutte stentava a mandare ogni anno un governatore e qualche diecina di ufficiali svogliati ed ignari; che in nessuna aveva ancora potuto introdurre, come in tempi più antichi essa aveva fatto in Italia, o un suo corpo di leggi, o la sua religione, o nuove istituzioni amministrative e qualche principio morale suo che la avvincesse alla metropoli, restringendosi dovunque a governare i popoli soggetti con le antiche loro istituzioni nazionali. Egli sapeva quindi di non poter far quasi nulla per la Grecia; e di aver minore forza qui che altrove di applicare il gran verso di Virgilio: pacis... imponere morem. Nell’ordine materiale la povertà era il maggior male della Grecia ed aveva cagioni molteplici: i debiti, i latifondi infruttiferi, la rarità della popolazione, la scarsezza del capitale, la decadenza delle industrie. Ma Roma aveva fatto quanto poteva per lenir questi mali, dando mano a ricostruire Corinto; la quale infatti risorgeva rapidamente, perchè i coloni avevano scoperta tra le rovine lasciate da Mummio una miniera di antichità, che si vendevano a caro prezzo, specialmente a Roma, e potevano quindi riedificare la nuova città con le spoglie e le ceneri dell’antica264. Tuttavia, nell’ordine materiale la Grecia avrebbe potuto aiutarsi da sè, chè ogni risorsa non le mancava, come dimostrava l’Elide, i cui possidenti prendevano a coltivare le piante tessili, la canapa, il lino, il cotone; come dimostrava Patrasso, ove molte donne si stabilivano per tessere queste materie, e specialmente il bisso, che era eccellente e incominciava a esportarsi265. Cresceva inoltre, in molte parti della Grecia, l’albero di Atena, il mite ulivo: che era nell’antichità un albero dai frutti d’oro, perchè l’olio serviva agli usi più diversi: come condimento, per illuminare, quale farmaco, a guisa di sapone e di unguento, specialmente nei ginnasi, nei bagni, nelle scuole di atleti. Pur troppo però la povertà era effetto di molti vizi morali, pubblici e privati; come il lusso, la frivolezza, la depravazione dei costumi, la corrotta giustizia, la vanagloria e l’indifferenza civica, la litigiosità feroce, la universale mancanza di fede la prepotenza dei pochi ricchi, la viltà dei molti poveri. Infrenare qualche abuso troppo grande, di tempo in tempo, Roma poteva per mezzo dei pochi suoi rappresentanti inviati ogni anno a governare; ma non correggere tanti vizi, inveterati e profondi appunto nelle istituzioni nazionali che il governatore romano era costretto ad adoperare, nelle tradizioni che doveva rispettare, negli interessi che non poteva ledere, e negli spiriti che gli era pericoloso di offendere.

D’altra parte il soggiorno in Grecia era per Augusto la breve tappa d’un viaggio, di cui più lontano era il termine e ben altro lo scopo. Si stava preparando, probabilmente in Macedonia, l’esercito che nell’estate e nell’autunno egli condurrebbe attraverso la Tracia in Asia, per invader nella prossima primavera l’Armenia, insieme con un esercito portato da Archelao, re di Cappadocia. Augusto perciò non veniva, con piccolo seguito e modesto apparato, nella desolata provincia a rubare gli ultimi cenci della infelice mendicante, che sulle vie del mondo simboleggiava la caducità delle umane grandezze; ma non veniva neppure a rifarle la casa, applicando la poetica politica di Cicerone e di Virgilio. Veniva piuttosto a riadattare ai tempi nuovi la vecchia politica greca di Tito Quinzio Flaminino e del partito aristocratico: dissimulare cioè l’impotenza di Roma in un premuroso rispetto della libertà greca; lasciar la Grecia vivere alla sua guisa e quindi consumarsi nei suoi vizi se non aveva la forza di emendarsi da sè, per modo che essa stessa delle sue sofferenze accusasse sè, piuttosto che Roma. Durante questo soggiorno o attuò o ideò parecchie riforme che furono attuate più tardi, per addolcire la politica di frantumazione seguita nell’ultimo secolo, per ridare alla Grecia qualche avanzo della sua libertà antica e molte illusioni di libertà266. Separò la Grecia dalla Macedonia, ne fece una provincia a parte comprendente la Tessaglia, l’Epiro, le Isole Ioniche, l’Eubea e un certo numero delle isole del mare Egeo con il nome di Acaia e il cui governatore risiederebbe nella risorta Corinto267; riordinò l’antico consiglio degli Anfizioni che si radunava ogni anno a Delfi, e le cui tornate erano state così solenni un tempo; si studiò di organizzare una dieta a cui tutte le città della nuova provincia di Acaia manderebbero un rappresentante e che si radunerebbe ogni anno268; diede la libertà a parecchie città, tra le altre alla lega delle città laconiche, che occupava la metà meridionale della Laconia269. Ritoccò anche il territorio di Atene e di Sparta; ad Atene proibì di vendere, come faceva, il titolo di cittadino, perchè la dissestata città aveva troppo abusato di questo losco espediente270. Non sembra che riordinasse o accrescesse i tributi, perchè la provincia era troppo povera; pare invece che si studiasse di trarre partito dai beni che la repubblica aveva in Grecia. Diede infatti a una grande famiglia della Laconia, a quell’Euricle che aveva combattuto con lui ad Azio, l’isola di Citera, che era diventata tutta proprietà dello Stato, certo contro il pagamento di un vectigal271. Poi nell’autunno del 21, mentre l’esercito per il Bosforo entrava in Bitinia, egli si recò a Samo dove intendeva passar l’inverno a preparare la spedizione d’Armenia e a sorvegliare le cose dell’Asia Minore.

Durante questi mesi Agrippa aveva sposata Giulia, e Roma si era tranquillata da sè, dopo gli ultimi torbidi272. Ma quetati appena i tumulti della via, un’altra guerra si era accesa nella metropoli: una guerra di attori e di scrittori, che aveva per campo di battaglia i teatri di Roma. L’aristocrazia un po’ posticcia che intorno ad Augusto, per dissimulare le sue origini recenti, ostentava tanta ammirazione per il buon tempo antico, si studiava di rimettere in voga anche il teatro di Ennio, di Nevio, di Accio, di Pacuvio, di Cecilio, di Plauto, di Terenzio e quindi il teatro greco, che gli scrittori romani avevano imitato273. Tra i doveri civici c’era ormai anche quello di correre e pigiarsi alle rappresentazioni delle opere classiche, di applaudirle fragorosamente, di gridare ai contemporanei in ogni occasione che non si scriverebbe mai nulla di più bello, di reclamare un teatro nazionale, il quale fosse veicolo di idee morali e patriottiche nel popolo. Tutti i buoni cittadini dovevano collaborare alla nobile impresa. Perfino Orazio era sollecitato a calzare il coturno! Ma Orazio era un cittadino mediocre: come a Filippi aveva gettato lo scudo, ora si schermiva, si sgomentava all’idea di affrontare sulle scene i sibili del pubblico di Roma274. Peggio ancora, trovava a ridire su quei vecchi autori tanto ammirati: che i versi zoppicavano, che la lingua era grossolana ed impura275. Per fortuna abbondavano a Roma i cittadini, animati da ben altro sentimento civico, i quali per la repubblica erano pronti a tutto; anche a scrivere tragedie. Ne scriveva non poche Asinio Pollione. Ne aveva scritta una intitolata Aiace (o almeno l’aveva abbozzata) persino Augusto276, il quale però di solito preferiva incoraggiare con i denari gli altri a scrivere e aveva data una grossissima somma a Lucio Vario Rufo, per il suo Tieste, che tutti giudicavano un capolavoro277. Ne scrivevano molte quei letterati del medio ceto che si studiavano di ingraziarsi con la penna i potenti: come Gaio Fundanio, le cui commedie non spiacevano a Orazio278; e molti altri forse, il cui nome si è perduto. Ma ecco a un tratto, quando tanti romani sudavano sulle dotte carte a ridare ad Aiace, ad Achille, a Tieste l’antica voce stentorea in nobili giambi, arrivare a Roma dall’Oriente certi Pilade di Cilicia e Batillo di Alessandria, che in questo anno avevano preso a rappresentare un genere di spettacoli ancora ignoto ai Romani: le pantomime279. Voci invisibili, accompagnate da musiche soavi, cantavano una favola; un attore, il mimo, coperto il volto di una maschera leggiadra, vestito in bella veste di seta così da raffigurare il personaggio principale del racconto, si presentava a mimare con gesti cadenzati la scena raccontata dalle invisibili voci: quando la scena era finita, l’attore scompariva e mentre un soave intermezzo musicale intratteneva gli spettatori, mutava veste, di uomo si faceva donna, di giovane vecchio, di uomo Dio e ricompariva a gesticolare un’altra parte del racconto. Di solito i mimi scieglievano i soggetti nelle innumerevoli avventure degli dèi ellenici, nei poemi omerici e ciclici, negli antichi miti greci divulgati dalla tragedia; prediligendo naturalmente gli episodi sensuali e le catastrofi terribili, come le furie di Aiace; facevano comporre talora i versi da poeti di merito; ma miravano sopratutto, subordinando a questo scopo poema e musica, a solleticare o a scuotere i nervi degli spettatori con tante scene diverse – tragiche o comiche, sensuali o caste, dolci o terribili – il cui legame era tenue. Cosicchè non era necessario alcuno sforzo della mente per capire e godere: bastava guardare e ascoltare, aprire il canale dei sensi, fissare di minuto in minuto il particolare fuggente, anche dimenticandolo subito. Chi pensi che una opera d’arte è tanto più perfetta quanto più rassomiglia ad un corpo vivo, dal quale nessun membro può essere avulso, e quanto maggior copia di verità universali esprima in tipi e in persone umane, non esiterà a giudicar queste pantomime come una degenerazione della vera tragedia. Al pubblico di Roma invece esse piacquero in un modo sì grande, che Pilade diventò in breve tempo l’idolo del favore popolare. Alle gioie intellettuali, elette ma laboriose, delle grandi opere classiche il pubblico preferiva il facile piacere sensuale delle pantomime, e in questo mostrava la frivolezza di gente corrotta; ma non aveva forse torto di preferire i mimi, vivi, agili, coloriti, alle noiose tragedie contemporanee, faticosamente imitate dai grandi modelli, e in cui della gravità e della poesia in queste contemperate era rimasta soltanto la gravità; il peso cioè e la noia.

Ma gli autori di tragedie noiose, gli attori nazionali, le persone serie e rispettabili alzavano le braccia al cielo, scuotevano il capo, protestavano. Oh tempi! Un Pilade di Cilicia, un Battilo di Alessandria, scacciavano dai teatri di Roma Accio e Pacuvio! E veramente questa rivoluzioncella teatrale non era cosa sì frivola come molti hanno giudicato, perchè dimostrava come nel teatro, non meno che nel costume e nello Stato, i fatti andavano in contraria parte dalle intenzioni degli uomini. Tradizione, affermavano gli uomini; orientalismo, rispondevano ostinate le cose. E la discordia si inaspriva. Ma Augusto, sebbene pensasse la materia degli spettacoli pubblici esser degna di attenzione per un reggitore di Stato, non poteva badare in quel tempo agli attori di Roma e alle loro baruffe, perchè era intento allora a dar di sè ai popoli dell’Asia Minore e sopra una più vasta scena ben altro spettacolo che i mimi di Pilade e di Batillo: ad ascendere nel cielo in carne ed ossa, proprio come un attore portato in aria da una macchina ingegnosa in un finale spettacoloso. Non l’ambizione sua l’aveva spinto, ma l’ammirazione dell’Asia lo costringeva a salire sopra un vecchio e sdrucito congegno, che già aveva portati nelle nuvole i re d’Egitto; e a intraprendere l’aereo viaggio, che pur non era scevro di qualche pericolo. L’avventura era singolare. Il 25 Novembre, così pare almeno, egli era sbarcato a Samo280, alle porte delle antiche monarchie di Pergamo e di Bitinta, delle due provincie cioè di Asia e di Bitinia che dopo Azio gli avevan domandato di innalzare a lui, come agli antichi re, due templi, nelle due antiche metropoli, Pergamo e Nicomedia; e se non aveva trovato ancora i due templi già finiti281, aveva trovato invece il culto suo in via di diffondersi singolarmente in tutta l’Asia greca. A edificare il tempio di Pergamo, a organizzare intorno al tempio il culto di Augusto sul modello del culto di Zeus non attendeva più sola Pergamo, ma tutta l’Asia, il κοινόν Ασίας, la dieta delle città asiatiche, che da qualche tempo già sotto Antonio si radunava, affinchè non esprimesse più solo la devozione di una sola città, ma la devozione dell’Asia intera282. E tutta l’Asia infatti si votava con fervore al nuovo culto e al nuovo Dio; in molte città si parlava di istituire ogni anno solenni giuochi di Roma e di Augusto; altre città, come Milasa283, come Nisa284, come Mitilene285, si accingevano a erigere are e templi al princeps della repubblica romana, o ad associarlo, come Alabanda. con qualche divinità della città. Mitilene in una iscrizione riconosce che in nessun modo “quello che è basso per sorte e per natura possa eguagliarsi agli esseri che hanno il lustro divino e la superiorità dei Numi”; sembra rammaricare che anche la divinizzazione non basti; solennemente promette che non trascurerà alcun mezzo di fare Augusto ancor più divino, se quel mezzo si troverà286. Un’altra iscrizione, pur troppo mutilata, contiene il decreto che ordina il culto di Augusto non sappiamo in quale città e dispone che tavole portanti inciso il decreto siano affisse non solo nel tempio di Pergamo, ma in molte città dell’impero. Si è potuto decifrare il nome di parecchie: Azio, Brindisi, Tarragona, Marsiglia, Antiochia di Siria287. Non bastava alle città dell’Asia l’adorare il presidente della repubblica latina; esse volevano anche divulgare ai quattro venti la devozione loro, quasi per incitare gli altri popoli a santificare nello stesso modo le proprie catene, convertendo la servitù in religione.

Insomma lo scettico politicante della decadente repubblica, il nipote dell’usuraio di Velletri era assunto a collega di Zeus, di Ares, di Hera nell’Asia Minore, proprio in quell’Eldorado pieno di pericoli, in cui Roma aveva trovato tesori e catastrofi di incomparabile grandezza, e che, acquistato senza colpo ferire, essa non aveva conservato se non versando fiumi di sangue. Per quanto sia verisimile che in quell’inverno Augusto stesse sopratutto in pensiero per le faccende partiche e per la spedizione di Armenia che doveva essere compiuta a primavera, non è possibile che non abbia anche cercato di indagare che cosa i popoli dell’Oriente gli domandavano in cambio del culto e dei templi. Questo culto era una novità singolare. Anche ai tempi della monarchia l’adorazione dei re viventi sembra essersi praticata soltanto in Egitto, mentre l’Asia Minore aspettava a collocare i suoi sovrani tra gli dèi dopo che fossero morti. Perchè ad un tratto questa pianta egiziana, a cui il suolo dell’Asia era sempre stato sterile, ci metteva così rapidamente radice? Perchè il culto dei sovrani viventi, suprema esagerazione della sudditanza monarchica, germogliava rapidamente trai Greci dell’Asia Minore, quando in Italia si tentava di restaurare le istituzioni repubblicane, abbarbicandosi come una edera intorno alla persona del primo magistrato della nuova repubblica? Sbarcando in Asia Minore, Augusto aveva posto il piede in una delle tre maggiori regioni industriali del mondo amico, che erano appunto l’Asia Minore, la Siria e l’Egitto. Sulle coste dell’Asia Minore, frastagliate, rientranti in insenature e sporgenti in promontori, simili per clima e per coltivazione alle sponde sorelle della Grecia che le guardano di faccia; nelle valli ubertose dei fiumi che lentamente risalgono verso l’altipiano, nelle regioni che corrispondevano agli antichi regni di Pergamo e di Bitinia, un grande numero di città greche si erano spartite, dopo la conquista macedone, il territorio popolato di Frigii, di Carii, di Licii e di Misii; e fabbricavano e vendevano quelli che noi oggi chiamiamo i “manufatti” nel tempo stesso in cui governavano ciascuna il territorio suo con le classiche istituzioni della repubblica greca: la ecclesia o radunanza di tutti i cittadini; la boulé o consiglio di città eletto dal popolo; gli strateghi, gli arconti, i pritani, o come fossero detti in ciascuna città i magistrati eletti dal popolo a trattare le faccende pubbliche. Così Sardi, la metropoli della Lidia, spediva in ogni parte certe belle coperte di lana ricamate288 e tingeva una porpora, se meno pregiata di quella di Tiro, pur famosissima289; Tiatira tingeva porpore molto ricercate290; Pergamo era celebre in ogni nazione per le tende e per le vesti intessute d’oro291 e per quella materia su cui scrivere, rivale del papiro, che fu detto pergamena292; Mileto tingeva porpore; tesseva vesti e coperte di lana per letti, lettuccie e porte293; Tralle plasmava ed esportava ceramiche294, come Cnido295; famosi erano in ogni parte i cristalli di Alabanda296; Laodicea fabbricava e vendeva parecchi tessuti di lana che portavano il suo nome297; Hierapoli era celebre e ricca per le sue tintorie298; Rodi caricava ogni anno sulle navi innumerevoli anfore piene del suo vino famoso299, come fabbricava in grande copia armi e utensili di ferro300; Coo esportava vino e – sola forse tra le città antiche – pare pure filasse tessesse e tingesse la seta301; Samo vendeva olio302; Chio il celeberrimo vino303 e gli unguenti. A queste città perciò da tutte le regioni del mondo antico, ove i suoi mercanti avevano sbarcato il vino, i panni e le altre mercanzie, le navi riportavano nei porti dell’Egeo molto oro e molto argento, monetati od in verghe; e questo oro e questo argento a poco a poco si spandevano lungo le coste, per le case dei mercanti e degli artigiani; nelle campagne, per le case dei possidenti o per gli abituri dei contadini; risalivano per le valli verso l’altipiano. Dopo Alessandro il Grande, l’Ellenismo aveva sfolgorato nelle città greche dell’Asia di tutto il bagliore di questo oro accumulato tessendo e tingendo. Con questo oro esso aveva adornato di tanto lusso pubblico e privato le sue città, incoraggiate le arti e le lettere, accresciuta la pompa alla religione, copiosamente nutrito un artigianato numeroso, continuate utilmente le istituzioni della πόλις greca, adattandole a città precipuamente composte di artigiani e di mercanti. Rodi, la piccola Venezia dell’Egeo, aveva luminosamente dimostrato che una aristocrazia di mercanti navigatori poteva governare con le istituzioni greche anche uno Stato pieno di artigiani e perciò incline alle turbolenze demagogiche, purchè sapesse profondere larghe beneficenze nel popolo; pagandogli cioè del proprio feste e sollazzi, impedendo con accorte larghezze il caro dei viveri così frequente nelle città popolose, soccorrendolo in ogni strettezza304. Con questo oro infine, con l’energia che infondeva nei Greci e nelle popolazioni ellenizzate la coltura, l’orgoglio, lo spirito d’avventura, la cupidigia mercantile, l’ambizione, la sete insaziabile di dominare, di godere, di sapere, tutte insomma le belle forze di espansione e le forze orrende insite nell’ellenismo, queste repubbliche avevano tenacemente tentato di sfruttare, di governare, di assimilare le razze indigene della campagna e dell’altipiano: impresa per certi rispetti facile, per altri difficile e nella quale l’ellenismo si era a sua volta in parte almeno snaturato e contaminato. Risalendo dalle coste frastagliate e ridenti verso l’altipiano, che, monotono e immenso, è il principio dell’Asia centrale, l’ellenismo avanzava in terra avversa e straniera, in cui nulla concordava più con il mondo in cui esso era nato e cresciuto: così la natura fisica come lo spirito degli uomini. Non più ricche e industriose città, ma come oggi nelle regioni più popolose della Russia, boschi immensi, vasti campi di lino e di grano, pascoli sterminati; e appena appena di tempo in tempo qualche povero villaggio e qualche armento lontano: piccola, spaurita, quasi sperduta apparizione dell’uomo nel selvaggio, sinistro, quasi minaccioso silenzio della deserta natura. Non piccole repubbliche agitate, ardenti, sediziose, in continuo rivolgimento; ma vaste e sonnolente monarchie, tanto più venerate quanto più antiche, che si studiavano di ricollegare la loro origine con gli Achemenidi e con l’impero persiano. Non genti vive, mobili, curiose, indocili a tutte le dominazioni umane e divine, avide di dominio, di ricchezze, di sapere, di voluttà, di pericoli, tranne nella monarchia fondata a sud del Ponto, nel cuore dell’Asia Minore dalle orde dei Galli immigrati nel III secolo e popolata da una miscela di Frigi e di Celti, che degli invasori aveva conservato con la lingua lo spirito inquieto ed ardito: ma in tutto il resto razze barbare, dure, fatte per subire la dominazione degli uomini e dei Numi, sotto ogni sua forma, incapaci di iniziativa, pronte a servire in schiavitù, a farsi arruolare negli eserciti, a obbedire ai monarchi, a venerare gli dèi e i loro sacerdoti. Non spirito politico, non filosofie, lettere od arti originali: ma dominatrici delle menti e dei corpi, immense e monotone come l’altipiano in cui si espandevano, due di quelle religioni metafisiche, generali, cosmopolite che, opprimendo sotto il mistico assoluto gli spiriti, hanno tanto contribuito in ogni età a mescolare i popoli e ad educarli al servaggio. Più recente il mitraismo, lasciatoci dalla dominazione persiana: un culto austero, nato dalla congiunzione del primitivo mazdeismo con dottrine semitiche di Babilonia, che in Mitra venerava nel tempo stesso il Sole e la Giustizia, il sublime, quasi inaccessibile principio della vita e della virtù; che sospingeva la piccola e debole umanità verso questo principio inaccessibile sovraccaricandola di riti e simboli oscuri; che nei re vedeva una irradiazione umana di questo principio e nella monarchia la povera ma venerabile imagine umana della divinità305. Più antico l’altro, il culto della Dea Madre, detta qui Didimene, là Cibele, altrove diversamente, che era addirittura una mistica religione antisociale della natura selvaggia, fondata intorno al mistero della generazione: antichissima creazione di sacerdoti tanto sapienti quanto smaniosi di arricchire e di dominare, che avevano saputo, prima delle conquiste di Alessandro il Grande, accumulare una immensa manomorta e imperare tra le razze barbare dell’altipiano insegnando loro a cercare la Divinità, oltre le regole della morale convenzionale, i legami artificiali della famiglia e della società, nelle due estreme ed opposte violenze a cui l’istinto della riproduzione trascende. La Dea Madre, la Natura cioè, non visita le città in cui i Greci si pigiano a trafficare e a disputare; vive nelle deserte montagne, sulle rive solitarie dei laghi, lontano dagli uomini e seguìta da una torma di animali – leoni e cervi – che vivono secondo natura. L’uomo deve seguire la Dea, lontano dalle città, nei selvaggi recessi della solitaria natura; là dove si compie liberamente il grande mistero divino della riproduzione, che concilia l’unità eterna con la varietà temporanea; il mistero per cui, se gli esseri singoli compaiono, durano un istante, spariscono, il tutto vive imperituro. Onde gli esseri umani si immergono nella Divinità quando sciolgono questo istinto, in cui risiede la loro essenza divina, dai lacci e dai vincoli in cui la artificiosa civiltà l’ha incatenato: teologia oscura ma non scevra di qualche idea profonda, con cui i sacerdoti avevano potuto sfruttare le due forze misteriose e contrarie che giacciono insieme nelle oscure profondità dell’amore: l’attrazione e la ripulsione dei sessi. Come i monaci cristiani fabbricavano cioccolata e liquori, così questi sacerdoti avevano aperto nei templi dei postriboli all’insegna della Dea Madre, persuadendo le donne devote di compire opera meritoria prostituendosi all’ombra del tempio e lasciando alla Dea, cioè ai suoi ministri, il denaro lucrato: sfruttavano nel tempo stesso le tendenze ascetiche, annoverando tra le opere di pietà, accanto alla prostituzione, la castità e perfino l’evirazione; avevano costituiti dei corpi di sacerdoti eunuchi e raccoglievano a feste sanguinose quanti volessero recidersi, per farne omaggio alla Dea, la propria virilità306.

Eppure dal contatto di climi, di razze, di lingue, di stati, di economie, di religioni così disparate ferveva da secoli nell’Asia Minore uno sforzo di unificazione e di sintesi. Le strade per cui le monarchie dell’interno comunicavano con il mondo mediterraneo passavano per i territori greci; le strade per cui le città greche comunicavano con la Persia passavano per i territori delle monarchie. Se gli indigeni dell’altipiano erano agricoltori e pastori, i greci erano artigiani e mercanti; questi vendevano a quelli molti oggetti fabbricati nelle loro città, prendevano in cambio le pelli, le lane, i lini, il legno, i minerali; e sopratutto gli schiavi. A riempire le città greche, sia che le vuotasse il naturale logoramento della plebe cittadinesca, sia che crescesse il bisogno delle braccia, provvedevano in parte anche la Frigia, la Lidia, il vasto regno del Ponto, la Cappadocia; dove i contadini non consideravano nè obbrobrioso nè crudele generare e allevare dei figliuoli per venderli poi ai mercanti di schiavi, che li portavano nelle città industriali e bisognose di uomini307. Se l’ellenismo non aveva invaso tutto l’altipiano, ne toccava almeno con i suoi raggi luminosi le vette; le corti che tutte grecizzavano rimunerando artisti, segretari, impiegati greci; edificando e ingrandendo artificialmente, con grande dispendio e come serre dell’ellenismo, poche città. A sua volta l’ellenismo dell’Asia aveva perduta molta parte del suo spirito politico, impregnandosi invece di spirito religioso. La plebe artigiana, composta in parte di Carii, di Frigii, di Misii, di Lidii inurbati portando nella città il nativo loro bigottismo, a poco a poco era divenuta più ligia ai templi che alla città; le classi alte, composte in misura sempre maggiore di ricchi mercanti, facilmente si erano indotte, tra tante religioni strane o piacevoli o impressionanti, che commovevano l’immaginazione ed eccitavano i sensi, a dedicare agli dèi una parte del tempo che, secondo il concetto greco della vita, esse avrebbero dovuto dedicare allo Stato; a poco a poco gli dèi ellenici avevano albergato nei loro templi gli dèi indigeni e cercato di rassomigliar loro, come l’Artemide di Efeso; i templi indigeni si erano aperti a dèi ellenici; e i Numi delle due religioni metafisiche avevano assunto forme e sembianze greche. Componendo il gruppo di Mitra Tauroctono, la scuola di Pergamo aveva impersonato in un bell’efebo greco con il berretto frigio persino quel vago splendore di divinità concepito dallo spirito persiano308. E così, mentre lo spirito civico aveva languito, la religione aveva primeggiato, accanto all’industria e al commercio, con gli innumerevoli sacerdozi, i templi sontuosi e ricchissimi, i culti molteplici, le cerimonie e le feste frequenti e interminabili, tra le cose pubbliche e le private degli Elleni dell’Asia309. Nel contatto infine con le razze indigene da secoli avvezze al reggimento monarchico, nei bisogni della attività industriale, nella diffusione dello spirito religioso le città greche dell’Asia Minore avevano conciliata perfino la monarchia e la repubblica, dopochè la monarchia, conquistata da avventurieri venuti dall’Europa, aveva rivestite le forme e assunta la protezione dell’ellenismo, aiutando e adoperando, invece che combatterle ed esserne combattuta, queste repubbliche. Tramutate le città greche dell’Asia in emporii industriosi, ogni città aveva avuto interessi più vasti del suo piccolo territorio e bisogno perciò di pace, di sicurezza, di leggi eque in regioni a cui non giungeva la piccola forza, irradiata come la piccola luce di una piccola lampada in una notte buia, dal suo minuscolo Stato. D’altra parte il misticismo, il commercio, la lenta infiltrazione delle idee monarchiche dell’altipiano avevano affievolito nei Greci d’Asia lo spirito civico e repubblicano: onde le città avevano facilmente riconosciuto nella monarchia la forza più vasta capace di coordinare i loro interessi; i Diadochi che avevano capito, pur guerreggiando fra loro, la propria comune missione, non solo avevano rispettate le istituzioni repubblicane delle città, cercando di servirsene per governare ed ellenizzare le razze indigene, ma avevano fondato essi stessi, sopratutto nell’interno, parecchie di queste repubbliche; e a lor volta i Greci avevano adorata questa coordinazione dei loro interessi perfino nella persona dei Re. In quell’aria rossa per il pulviscolo ardente del misticismo sparso dovunque, avevano preso un colore religioso anche le inclinazioni monarchiche; e tra l’esempio dell’Egitto lontano e le dottrine indigene del mitraismo, anche i Greci d’Asia avevano capito non esserci miglior mezzo per incutere a tutti i popoli dell’Asia Minore il rispetto di questi re, che farne dei Numi e dei Semidei. Onde la monarchia semidivina e l’apoteosi dei re defunti non erano stati in Asia Minore un’abiezione servile di Greci degenerati; ma un altro dei tanti strumenti di cui l’ellenismo versatile si serviva, per compiere il suo grande disegno di dominazione mercantile e intellettuale. Queste piccole repubbliche di mercanti, di artigiani, di letterati, ricche di denaro, ma deboli nella milizia e nella diplomazia, avevano opposte le nuove monarchie elleniche come un propugnacolo alla Persia lontana, alle minori monarchie semi-persiane che si frapponevano sull’altipiano tra l’antico impero degli Achemenidi e le coste; l’avevano adoperate e adorate come la sintesi delle loro particolari esistenze, la forza lungi radiante, che proteggeva sul continente e sui mari il loro commercio.

Ed ora gli Asiatici, un secolo dopo la caduta della monarchia di Pergamo, adoravano non più dei re defunti ma un magistrato repubblicano ancora vivo; si prosternavano innanzi a Roma, che era un nome ad essi più funesto che caro. Succedendo ai re di Pergamo, Roma ne aveva continuata quasi la tradizione politica, ma non la missione storica. Aveva dichiarate libere, cioè esenti dal tributo, indipendenti dal Senato e dal proconsole, alleate su piè di eguaglianze, parecchie città – Cnido, Milasa, Chio, Mitilene, Ilio, Lampsaco, Cizico, Rodi che erano ancora in tale condizione, quando Augusto giungeva in Asia310. Aveva sottoposte le altre al proconsole e al tributo, anche in queste però lasciando il popolo radunarsi, legiferare, eleggere consigli e magistrati, governarsi con le leggi sue, salvo l’intervento, del resto non frequente, del Senato e del proconsole; il quale non era che un controllore e un tesoriere, incaricato di raccogliere e spedire alla metropoli ogni anno i denari del tributo. Ma non si era punto curata di difendere, come le monarchie asiatiche, i vitali interessi dell’ellenismo, di favorire la diffusione della sua cultura, di mantenerne il primato sulle razze indigene, di proteggerne e favorirne il commercio, di coordinare gli sforzi diversi delle singole città. Lontana, rappresentata da un proconsole mutato ogni anno e da un Senato distratto, affaccendato, legiferante, come tutte le assemblee, saltuariamente, poco esperto dei luoghi e delle genti; non d’altro sollecita che di arraffar denari, Roma aveva a poco a poco nell’Asia Minore abbandonata ogni cosa in balìa di sè medesima, lasciando perfino i pirati distruggere a metà il commercio delle città greche e due volte in trenta anni la cavalleria partica volteggiare sotto le loro mura; curandosi invece solo di rubar loro la maggior parte dell’oro e dell’argento che esse accumulavano in cambio di manufatti; e di vigilare affinchè nessuna delle monarchie dell’altipiano – il Ponto, l’Armenia, la Cappadocia, la Galazia, la Commagene – osasse un giorno scendere alle coste a raccogliere l’eredità degli Attalidi con maggiore scrupolo che non avesse fatto Roma. Essa aveva così, per egoistica sollecitudine del vantaggio proprio, pur senza distruggerne alcuno, indeboliti tutti gli elementi vitali di questa società eterogenea, l’ellenismo come le tradizioni indigene; aveva rovinate a metà le repubbliche greche, semi-spente in quelle le arti, la alacrità intellettuale; come aveva indebolite, facendole e disfacendole continuamente, tutte le monarchie dell’altipiano, tranne forse la Galazia. Qui almeno al tempo di Augusto sotto una aristocrazia di ricchi possidenti, ed un re che era di tutti il più ricco311, viveva una forte popolazione frigio-celta di contadini e di soldati, i quali coltivavano la terra, pascolavano immensi armenti, esportavano le lane312, la santonina313 e certe gomme medicinali estratte dalle acacie314; e, alleati di Roma da secoli, avevano accumulato molte ricchezze guerreggiando nell’ultimo mezzo secolo a servizio di Roma, specialmente contro il Ponto. Augusto dopo Azio aveva considerato questo popolo vigoroso abbastanza, il suo re Aminta valente quanto era necessario per unire al suo territorio la Licaonia, la Panfilia, la Pisidia, la Cilicia orientale, le parti cioè più selvaggie dell’Asia Minore dove erano i nidi inesauribili del brigantaggio e della pirateria desolanti l’Oriente, con l’incarico di distruggerli tutti. Ma Aminta era morto in questa impresa; e Roma, non trovando chi lo volesse, aveva dovuto ridurre a provincia il suo regno: onde non rimanevano più sull’altipiano che monarchie occupate da sovrani pavidi, imbelli, talora anche poveri: ombre dell’antica potenza, mantenute da Roma per sfruttarne tra gli indigeni l’ultimo bagliore del prestigio morente, incapaci così di nuocere come di giovare. Un letterato greco di Laodicea, Polemone, figlio del celebre oratore Zenone, governava il Ponto; l’antico e glorioso regno di Mitridate, appartatosi ormai in quel remoto angolo, quasi ad espiare e a dimenticare il grande sogno crollato del dominio dell’Asia, nella pace oscura di un placido stato agricolo. Le sue numerose razze, parlanti lingue così diverse che spesso non si intendevano tra di loro, non attendevano più che a coltivare le terre, a scavar le miniere315, a pascere gli armenti, a riprodursi e a venerare gli dèi: le poche città, le colonie greche della costa del Mar Nero – Sinope, Amiso, Trapezunte – deposti gli spiriti ambiziosi e belligeri, si raccoglievano a esercitare le poche industrie loro, a pescare il tonno, a esportare il legno, la lana, il ferro dell’interno316 e certi semplici, rari e costosi, come la rigolizia317 e l’elleboro318. Più oscura, più povera, più ignobile ancora era sotto lo scettro di Archelao, la Cappadocia: una vasta regione popolata da una razza poco intelligente, che si nutriva anche essa coltivando la terra, pascolando armenti e scavando miniere319, che parlava una lingua propria, che aveva due sole città, Mazaca e Comana320. Ma se le razze indigene dell’altipiano erano state, tranne i Galati, decimate, impoverite, umiliate dalla politica romana; se avevano perduta la parte migliore del loro sangue nelle terribili guerre che Roma aveva accese in tutta l’Asia Minore, i loro antichi conquistatori, i Greci delle città, non avevano sofferto e perduto meno di loro. Costrette da un secolo, Sisifo novello, a ripigliare all’Italia, in cambio di merci, i metalli preziosi da Roma ghermitile, per poi esser di nuovo depredate quando ne avessero fatto un nuovo mucchio, le città greche dell’Asia Minore si erano alla fine spossate a ripetere tante volte la loro fatica, dopo la prima invasione di Mitridate e la riconquista di Silla, con i pirati e i pubblicani romani, dopo le confische dei generali di Pompeo, dopo le rapine di Bruto e di Cassio, dopo le esazioni di Antonio. Le classi ricche, rovinate, assottigliate, sminuite da tante e ripetute catastrofi finanziarie, debolmente sostenute da Roma, la cui autorità declinava, non avevano più, specialmente negli ultimi trenta anni, potuto sostenere con l’antico splendore le onerose liturgie, e quindi il prestigio dell’ellenismo, che su quelle precipuamente posava. Le istituzioni della polis erano perciò cadute nel più grande disordine; le arti e le scienze decadevano; in ogni città camorre corrotte di politicanti bisognosi sgovernavano, sfruttando i vizi e l’ignoranza della plebe; le finanze erano dissestate, i monumenti in rovina, le scuole neglette, la giustizia venale, l’opinione pubblica capricciosa e violenta, gli uomini austeri e dabbene amareggiati e sfiduciati dal fastidio di una corruttela nel tempo stesso intollerabile ed incurabile. E in Asia Minore, come in tutto l’Oriente, su quella immane dissoluzione sociale che la politica romana aveva scatenata nell’ellenismo, erano silenziosamente, lentamente, tenacemente cresciuti di numero, di forza, di ricchezza, come quelle piante che germogliano tra le rovine, gli uni chiusi nelle loro montagne, gli altri sparsi in tutto l’Oriente, i briganti e gli Ebrei.

I popoli viventi di brigantaggio nella Cilicia avevano ucciso ad Augusto, poco prima, Aminta. Arrivando in Asia Augusto trovava una novità singolare, che nessun sapiente o potente avrebbe un secolo prima neppur supposta come possibile. Trovava che, morto Aminta, il sovrano più attivo, più ardito, più geniale dell’Oriente; il solo che si imponesse se non alla ammirazione, alla considerazione almeno di tutti era il re di Giudea, Erode. Era costui tra gli asiatici un barbaro, un arabo Idumeo, convertito da poco al Giudaismo; era tra i sovrani orientali un parvenu che nel disordine della ultima rivoluzione aveva usurpata la dignità sovrana con raggiri e violenze alla logora famiglia degli Asmonei; era il re di un popolo piccolo, oscuro e rozzo, che per molti secoli sembrava non aver avuto altro destino che di ingrossare, nelle guerre dei grandi potentati dell’Asia, l’armento dei sudditi, preda del vincitore. Eppure egli aspirava ormai, visibilmente, a prendere il primo luogo nel lungo codazzo dei vassalli di Roma: e non tralasciava cosa alcuna per mettere in vista sè e il regno di Giudea; e aveva contribuito un contingente di milizie alla spedizione nello Yemen fatta da Elio Gallo; e aveva rinominata Samaria in Sebaste (traduzione greca di Augusta)321; e incominciava la costruzione di una città cui voleva porre il nome di Cesarea322; e voleva anche egli stabilire in Giudea, tra quei barbari, una monarchia ellenizzante, fastosa, munifica, incominciando in ogni parte del suo regno grandi opere pubbliche di lusso; e perfino in Gerusalemme egli aveva stabilito dei giochi quinquennali in onore di Augusto, dato mano a costruire un grande teatro e un anfiteatro323; e chiamava da ogni parte artisti greci; e faceva coniare in greco le sue monete. Insomma, sia pur cautamente, Erode mostrava l’ambizione di essere in Oriente come il primo vassallo di Roma e una specie di protettore dell’ellenismo; lui, l’arabo Idumeo, il re dei rozzi ebrei! Eppure Erode non era un pazzo, e poteva ormai, ragionevolmente e non per follia, aspirare a questo ufficio, perchè la condizione degli Ebrei era ben mutata nel corso dell’ultimo secolo in tutto l’Oriente. Gli Ebrei avevano già allora alcune delle qualità che li fanno anche oggi così forti e resistenti alla lotta: erano laboriosi, erano parchi; e in mezzo a tante religioni sensuali vivevano sotto la vigilanza di un unico Dio mascolino, che era un arcigno gendarme, e non un mezzano compiacente dei vizi degli uomini: erano infine – virtù massima allora, in un tempo in cui la civiltà logorava così rapidamente le razze – prolifici. Da lungo tempo costretti a emigrare in grande numero, gli Ebrei avevano trovata nell’ultimo secolo una facilità meravigliosa di espansione e le più felici occasioni di fortuna nella dissoluzione dell’ellenismo; onde si erano raccolti in immense, ricche, floride colonie in tutte le città dell’Oriente: in quelle dell’Egitto, in Alessandria specialmente324, come in quelle dell’Asia Minore325, come oltre la frontiera nelle città della Persia, a Babilonia326 per esempio; formando ovunque parte necessaria della popolazione urbana: sopratutto artigiani, mercanti, banchieri327. I più campavano modestamente la vita; un certo numero conquistava una bella agiatezza; un piccolissimo numero aveva accumulate immense ricchezze – anche in Oriente c’erano allora dei Rothschild: – tutti insieme formavano colonie che avevano costumi, leggi, idee singolari, diverse da quelle dei Greci e non volevano a nessun costo lasciarle; si ribellavano a quell’eclettismo religioso così comune tra gli antichi e non volevano adorar che il Dio loro; cercavano di far propaganda del proprio culto, accogliendo il quale occorreva lasciar gli altri; avevano riti strani, che intendevano di osservare con scrupolo ovunque si trovassero, anche se offendendo o annoiando la maggioranza; dove le leggi della città contradicevano ai precetti della religione loro, volevano a ogni costo essere esentati, se no se ne andavano; si mescolavano poco con la popolazione ospitante, vivevano tra di loro, formando quasi un popolo nel popolo, uno Stato nello Stato328. Numerosi, uniti, laboriosi, ricchi, odiati per la loro diversità e temuti per le loro ricchezze, essi non cessavano di volgere gli occhi della mente e i sospiri dell’anima verso Gerusalemme e il suo tempio; non dimenticavano mai la terra sacra dove Geova aveva il suo santuario; e alla patria ritornavano spesso, mandavano sempre ingenti somme di denaro, che la aiutavano a vivere. Insomma gli Ebrei avevano acquistata, con le colonie, il commercio, i denari, una vasta potenza in tutto l’Oriente, ingrandendo sulla decadenza dell’ellenismo: onde Erode saviamente intendeva non poter più chiudersi in sè, quando il popolo ebreo si spandeva per il mondo; pensava dovere lo stato ebraico tener dietro al suo popolo, farsi conoscere, amare, temere anche al di là delle frontiere, per poter aiutare dappertutto l’emigrazione degli ebrei; e per diminuire intorno alle colonie giudaiche le avversioni e gli ostacoli. I principî essenziali della sua politica erano: accettare la condizione di cliente e di vassallo di Roma senza rammarichi, sotterfugi o rancori, per assicurar dovunque alle colonie ebraiche la protezione della grande repubblica; tentar di conciliare quanto era possibile, il giudaismo arrobustito ma incapace di dominare da solo l’Oriente, con l’ellenismo indebolito ma pur sempre vivo, ambizioso di dominio e di ricchezza, ancora capace di una nuova rinascita....

Il tempio di Pergamo, il culto di Augusto e di Roma erano il primo segno della tenacia vitale dell’ellenismo. Da dieci anni la pace era ristabilita, un certo ordine regnava, la fiducia rinasceva; in tutta l’Asia Minore i telai ricominciavano a battere, le vasche delle tintorie a stemperare i colori, le flotte mercantili a rimetter le vele, gli smunti artigianati delle città a ricostituirsi. Nel tempo stesso, laggiù, su quel lontano orizzonte ove esso per un secolo non aveva potuto discernere che la grigia impersonalità del Senato, l’ellenismo asiatico aveva vista comparire, durare, ingrandire la figura di un uomo nel quale esso poteva raffigurar da lungi la figura del monarca a lui così familiare. Non per servilità o per abiezione l’Asia con tanto zelo faceva largo nel suo Olimpo, che era un congresso raccogliticcio di dèi disparati, venuti da ogni parte e di continuo crescenti, all’ultimo Dio, venuto un poco all’improvviso in carne ed ossa dall’Italia. Questo Dio doveva essere una forza non meno benefica che il Sole adorato in Mitra, o la Natura adorata in Cibele; doveva essere la forza coordinatrice degli interessi particolari delle città greche, il propugnacolo contro la Persia, la protezione dei loro commerci, come l’antica monarchia dei Diadochi. L’aveva aspettata, invocata, desiderata per un secolo, questa forza benefica, l’ellenismo dell’Asia; e aveva divinizzata prima Roma; poi aveva tentato di divinizzare, cogliendolo al suo passaggio, qualche frettoloso proconsole. Sempre invano e sempre deluso, però! Ma le speranze rinascevano più vive e generali, ora che l’ellenismo tentava di risollevarsi dalla decadenza in cui l’ultimo secolo l’aveva piombato. Erigendo a lui e a Roma il tempio di Pergamo, ordinando intorno a quello un culto regolare, l’ellenismo asiatico invitava Augusto ad assumere il grande ufficio storico compiuto in Asia dalla monarchia ellenizzante e trascurato da Roma: lo invitava con desiderio acuito da un secolo di immenso disordine e facendolo Dio addirittura vivente, al modo Egiziano.

VI.
“ARMENIA CAPTA, SIGNIS RECEPTIS”.

Stupendo compito, missione magnifica: ma poteva Augusto, già costretto a sorreggere in Italia, solo o quasi solo, una repubblica mezzo sfasciata, impersonare nell’Asia Minore la monarchia ellenizzante? Se egli aveva in Asia Minore dei templi, non aveva più il gigantesco patrimonio dei re di Pergamo, che era stato il fondamento granitico della loro potenza: le immense foreste, le grandi tenute, le innumerevoli fabbriche di tappeti, di broccati d’oro, di pergamene, la sterminata moltitudine dei βασιλικοί o schiavi reali329. L’annessione del regno aveva disperso questo gigantesco patrimonio: liberati gli schiavi reali, le grandi officine si erano spezzate in un infinito numero di piccole botteghe private, tutte insieme molto più alacri, probabilmente, che le poche antiche fabbriche immense; le terre erano passate in possesso della repubblica romana, che ne aveva fatto lo scempio ben noto. È difficile argomentare quanta parte di tanta ricchezza non fosse ancora dilapidata: e ad ogni modo quel che restava apparteneva a Roma, non ad Augusto330. Quanto al patrimonio suo, che pure era ingente; quanto agli schiavi che Augusto, come gli antichi re di Pergamo, possedeva in grande numero, non era possibile fare dei paragoni. Ricchissimo per i tempi suoi e tra i contemporanei, Augusto possedeva appena una modesta agiatezza a petto delle sterminate ricchezze degli antichi sovrani asiatici; e di quello che possedeva doveva spendere la maggior parte in Italia. Egli era insomma in Asia un Dio senza quattrini e senza folgori; onde gli omaggi a lui prodigati esprimevano più le smodate speranze poste in lui dagli Asiatici, che un qualche sentimento verace di riverenza e timore, di cui questi fossero compresi in sua presenza. Se Augusto si fosse illuso, due fatti gli avrebbero aperti gli occhi. Poco dopo l’arrivo suo a Samo, proprio quindi sotto gli occhi del Nume, i Ciziceni, in occasione di certi tumulti, avevano rifatta una di quelle piccole stragi di cittadini romani, che, dopo il grande macello dei tempi di Mitridate, le città dell’Asia ripetevano, ora l’una ora l’altra, periodicamente, quasi per non perdere la mano ad ammazzare Romani331. Poco prima Augusto, sollecitato dal suo maestro Atenodoro di Tarso, aveva voluto por fine a certe ruberie che nella amministrazione del ginnasio di Tarso faceva una camorra, annidatacisi sino dai tempi di Antonio; e aveva mandato Atenodoro stesso a scacciare i ladri. Ma, non ostante la veneranda età, la solidarietà degli onesti, la fama, la protezione di Augusto, Atenodoro si trovò nella città sua esposto ai dileggi e alle minaccie del partito percosso, che una notte aveva perfino mandato degli ammalati di diarrea ad alleggerirsi il ventre sulla soglia della sua casa, per dispregio.... E il filosofo aveva dovuto castigare i suoi insultatori con dei motti: radunare il popolo, tener loro un discorso, dire che quanto fosse inferma dentro la città, si capiva anche dalle sue deiezioni332. Uomo o Dio, l’autorità di Augusto in Asia emanava da Roma, come la luce della luna viene dal sole: onde egli doveva, anche per ragioni di politica asiatica, sforzarsi affinchè l’accordo con i Parti sfolgorasse improvviso sull’Asia, e facesse stupire tutte quelle genti. Anche questa volta la fortuna lo aiutò. Le cose dell’Armenia precipitarono da loro e più rapide che egli non pensasse verso il segno a cui egli si affaticava di volgerle; perchè nell’inverno dal 21 al 20, mentre le forze romane e i contingenti cappadoci si raccoglievano sui confini dell’Armenia per invaderla a primavera, una rivoluzione scoppiava nel regno, rovesciava il re e si dichiarava pronta ad accettare la signoria romana333. Non c’erano in Asia che due grandi Stati: Roma e l’impero dei Parti; le monarchie minori, poste tra l’una e l’altra, il Ponto, la Cappadocia, la Commagene, l’Armenia erano ombre e parvenze più che corpi; Roma e la Persia, quando l’una non fosse impedita dall’altra, potevano fare di queste il governo che loro piacesse. Tuttavia Augusto non annette la Armenia all’impero; e abbandonando la politica di suo padre, ripristinò in questa occasione la vecchia politica del partito aristocratico334. Da Efeso il proconsole o il propretore romano governavano facilmente l’antico regno di Pergamo, cioè l’Asia greca, industriale e repubblicana, perchè aveva sotto le mani, come una lunga tastiera, le città elleniche, tra cui tutto il territorio era spartito. Che egli lasciasse agire le istituzioni di queste città, vigilando: e tutto il territorio, bene o male, sia pur più male che bene, era governato. Sull’altipiano invece, abolite le monarchie, il proconsole romano avrebbe dovuto governare una popolazione rada, in vaste regioni, senza milizie, senza sussidio di istituzioni indigene, senza funzionari che conoscessero i luoghi e le cose, senz’altro aiuto che il rispetto e il terrore irradiante dal nome di Roma; rispetto e terrore che si affievolivano crescendo la distanza dal mare. Insomma, siccome queste genti erano da tempo immemorabile avvezze ad obbedire soltanto ai sacerdoti e alle dinastie, era miglior consiglio, per dominarle, impadronirsi dei loro sovrani, governare con il braccio e per bocca di questi, nascondendosi dietro il loro trono. Perciò Augusto si risolvè a dare alla Armenia un nuovo re, Tigrane, un fratello del re morto, che, catturato da lui ad Alessandria dopo Azio, era stato educato a Roma; e, non potendo recarsi personalmente in Armenia, gli fece porre sul capo il diadema reale dal suo figliastro Tiberio, in una solenne cerimonia che ebbe luogo nel campo romano335.

Il protettorato in luogo dell’annessione aveva un altro vantaggio: inquieterebbe meno i Parti, i quali si acconcerebbero più facilmente a tollerarlo; mentre per l’Oriente, se i Parti riconoscessero il rivolgimento di cose avvenuto in Armenia, esso significherebbe sempre un ingrandimento considerevole della potenza e del prestigio di Roma. Ma si rassegnerebbero i Parti a far questo passo indietro? Molti, dubitandone, temettero che il duello tra Roma e la Persia ricominciasse; tutta l’Asia fu in ansietà; il commercio, impaurito, si rinserrò sopratutto nelle città marinare, come a Bisanzio, dove il grano rincarì assai336. Augusto invece pare avesse già allora fondati motivi di reputare che Fraate cederebbe, invece di resistere, a questo atto di forza; perchè, sereno tra tanta agitazione, volse l’attenzione sua alle cose dell’Asia, incominciando con prudenza a tentar di coordinare, in qualche parte almeno, gli interessi delle città greche. Una questione primeggiava: i debiti. Se i telai ricominciavano a battere e le navi a rimettere le vele per viaggi usati, la penuria del capitale, disperso rubato nascosto, era grande; e implicati tutti in fitti debiti, così i privati come le città, così i mercanti come i possidenti, a stento potevano muovere i primi passi per riportare ancora una volta la pietra del proprio destino sulla vetta della prosperità. Perfino Rodi, che pure era forse la città più ricca, aveva sofferto gravissimi danni nelle guerre civili337; abbiamo già visto che molte città, guaste dal terremoto, avevano ricorso a Roma per aiuto; Chio lasciava cadere in rovina il suo portico meraviglioso338; in tutte le città si vedevano macerie, abbandoni, trascuranze forzate. Forse il male sarebbe a poco a poco guarito da sè; ma con quanta lentezza! Sembra che Augusto si persuadesse essere necessaria una operazione e che perciò autorizzasse le città ad annullare senz’altro i propri debiti339. Si può esser certi che molte approfittarono di questa facoltà, sebbene sia noto che Rodi rifiutò. Augusto provvide poi a proporzionare meglio il carico dei tributi alle forze di ciascuna città, alleggerendo le città impoverite, aggravando quelle più doviziose340; introdusse anche, qua e là, qualche riforma costituzionale, seguendo probabilmente le sollecitazioni delle stesse città341; castigò Cizico per la strage dei cittadini romani, togliendole la libertà342. Riordinò infine un poco anche le cose dell’altipiano. Nella parte orientale comprendente la catena dell’Amano, ristabilì l’antico regno di quel Tarcondimeto che era morto nella campagna di Azio sotto gli ordini di Antonio, richiamando nel regno e negli averi del padre il figlio, che aveva lo stesso nome343. Essendo da poco morto Artavasde, il re della piccola Armenia, fece di questa un altro dono ad Archelao, re di Cappadocia344. Al confine settentrionale della Siria stava, scolta avanzata verso la Persia, il piccolo regno della Commagene, con il trono da un decennio vacante, abbandonato dalla Persia e da Roma, in balìa di sè stesso.... Augusto approfittò dell’occasione, per ristabilirvi la dinastia nazionale, nella persona di un fanciullo, che aveva nome Mitridate345. Intanto il 12 maggio – a quanto pare346 – giungevano al campo romano i prigionieri e le insegne restituite da Fraate, insieme con gli ambasciatori incaricati di conchiudere il trattato definitivo di pace con Roma.

Stupefatta l’Asia ammirò il meraviglioso, quasi incredibile trionfo della politica romana. Nessuno supponeva che l’impero dei Parti avrebbe dato addietro a quel modo, dopo tre guerre vittoriose. Augusto era proprio un Dio, e con il suo avvento aveva rimutata ogni cosa. Perfino la Persia cedeva; e Roma faceva un gran passo innanzi, conquistava l’indubbio primato in tutta l’Asia anteriore! Ammirò anche l’Italia, senza accorgersi che il protettorato armeniaco era piccola cosa in confronto della promessa e aspettata conquista della Persia. Augusto, prevedendo che molti lo biasimerebbero per non aver egli neppure annessa l’Armenia, e continuata la politica di suo padre, aveva prudentemente inserita nelle lettere mandate al Senato, per domandare l’approvazione di quanto aveva fatto, una lunga dissertazione sulla politica estera, in cui rinnovava le vecchie dottrine di Scipione e dell’aristocrazia, dimostrando che Roma non doveva più aggiungere nuove Provincie all’impero347. Ma la precauzione era soverchia: perchè i suoi amici si erano affrettati a stendere sul quadro vero degli eventi di Oriente, che era una severa opera di stile arcaico, una tela di leggenda dipinta con vistoso stile cesariano, in cui si rappresentavano l’Armenia conquistata e il re dei Parti inginocchiato innanzi a Roma in atto di domandar perdono delle offese antiche, di restituire, per ammenda, le insegne, e di implorare la pace. Se il Senato giudicò la lettera di Augusto un portento di saviezza, il popolo ammirò Augusto, come se avesse conquistata Armenia e Persia e fatto proprio l’opposto di quanto egli aveva dichiarato nelle lettere utile e saggio.

....Ius imperiumque Phraates
Caesaris accepit genibus minor....

scriveva in questo anno Orazio348, abusando un poco del privilegio concesso ai poeti di dir bugie; si coniarono monete con la leggenda “Armenia capta”349 sulle quali un Parto tende genuflesso le insegne350; la stessa scena fu divulgata in pitture, una delle quali sembra essere stata ritrovata sul Palatino351. A ogni modo l’Italia, pur sfigurando nella sua mente gli eventi, aveva più ragione che essa stessa non credesse di giubilare: chè quel trattato stabilì per un secolo la pace in Oriente con una transazione ragionevole tra i due grandi imperii rivali. I Parti, con quel trattato, si trassero definitivamente fuori dalla politica mediterranea, abbandonarono l’Asia Minore e la Siria a Roma, rinunciarono a scendere, attraversando l’altipiano, verso le sponde del bel mare, così ardentemente ambite invece dalla politica dell’impero persiano. Roma a sua volta abbandonò il programma di Alessandro Magno, si impegnò a non penetrare nell’Asia centrale. Noi conosciamo abbastanza bene le ragioni che persuasero a Roma questo grande atto di saggezza; non sappiamo invece perchè i Parti abbiano abbandonata la antica politica persiana dell’espansione verso il Mediterraneo, proprio quando Roma era più debole. Ad ogni modo il momento è solenne: chè proprio nel momento in cui questa pace si conchiude, nasce l’Europa in cui noi ancora viviamo. Per questa pace Roma riacquistava piena libertà d’azione in Europa; per questa pace tra qualche anno Roma potrà incominciare in Gallia quella politica, da cui nascerà la civiltà europea. Se i Parti avessero occupato Roma sull’Eufrate in guerre continue, il Reno avrebbe per secoli ancora, selvaggio e ignoto confine della barbarie lontana, aspettate invano le legioni e le leggi romane.

Dopo la consegna degli stendardi e dei prigionieri, Augusto era andato in Siria352, nella patria delle pantomime che tanto piacevano allora a Roma, per riordinare la riscossione dei tributi siriaci353 e per risolvere certe difficoltà nate in Giudea dalla politica di Erode. Sebbene anche in Siria la conquista macedone avesse portate le istituzioni della polis greca e diffuso l’ellenismo prima come dopo la conquista macedone, prima come dopo la conquista romana, la ragione d’essere di questa nazione semitica, sensuale, mistica, indifferente alla politica, alla guerra, alla filosofia, alla arte severa, avida solo di denari e di piaceri, era lo sforzo comune per mantenere nel mondo quello che si potrebbe chiamare l’impero siriaco delle voluttà, il primato nei commerci, nelle industrie, nelle professioni voluttuose. Adoperando la forza di un contadiname tenuto in un mezzo servaggio, un ceto di piccoli possidenti ingegnosissimi aveva fatto dei propri orti il modello insuperato di tutti i coltivatori del Mediterraneo354; e deliziava con i frutti squisiti e i succolenti legumi il popolo e i grandi delle città; e con i vini di Laodicea inebriava perfino i ricchi signori della India lontana355; e con i suoi famosi fichi356; con le sue prugne secche357, con i suoi pistacchi358 solleticava i golosi di tutte le Provincie imperiali. Non meno abili dei contadini, gli artigiani. Tiro e Sidone, attraverso le vicende di tante guerre, avevano conservata la antica rinomanza nelle industrie della tessitura, della tintura, del vetro, e il primato della porpora359: Tiro specialmente nell’orribile sucidume delle sue viuzze popolosissime, piene di botteghe di tintori, sprofondate come pozzi tra due file di altissime case, restava la pestilenziale ma ricchissima capitale della porpora. In ogni bottega uno o pochi artigiani tingevano la porpora più famosa del mondo, che i mercanti siriaci portavano poi a vendere in ogni parte con grande profitto. Erano questi forse i mercanti più astuti e più attivi di tutto il mondo antico. Non solo esportavano i prodotti della regione, non solo erano riusciti a incanalare per la Siria una parte del commercio che la Persia, la Cina e l’India facevano con le contrade Mediterranee360; ma si recavano a fondare case e uffici di commercio in ogni angolo del bacino mediterraneo. In quasi tutte le città marinare si trovavano in quei tempi piccole colonie semitiche di negozianti siriaci, come nei tempi più antichi le fattorie dei Fenici361. Insieme con i mercanti la Siria inviava in tutte le città ricche e vogliose di divertirsi, ballerini, fantini, funamboli, atleti, musicisti, pantomimi; Siriaci erano il maggior numero dei musici, maschi e femmine, sparsi per l’impero; e siriache moltissime donne di piacere, specialmente a Roma, dove le graziose “ambubaie” deliziavano i giovani e non soltanto coi flauti362. Così con mille arti i duttili, ingegnosi, astuti semiti della Siria traevano da ogni parte dell’impero oro ed argento in cambio di piaceri e di lussi, per profonderli poi in lussi e piaceri nella Siria; ma in questa perenne affannosa ricerca del piacere che gli uomini sono disposti a pagare a peso d’oro, in questo continuo contatto con la voluttà, goduta o fatta godere, tutti i rapporti sociali si ammollivano e lo spirito nazionale si infrivoliva. Questa nazione di mercanti e di giocolieri non era stata capace mai di ricevere entro di sè alcuno dei grandi concetti filosofici o delle grandi idee politiche, alcuna delle grandi aspirazioni artistiche o letterarie dell’ellenismo, che rinnovandola avrebbero potuto sollevarla dalla doviziosa bassezza di vinattiera e meretrice del mondo a più civili e più alti destini. La sua letteratura si componeva soltanto di romanzacci greci, pieni di briganti, di magie e di amori, e che si potrebbero paragonare ai nostri più grossolani romanzi di appendice; le grandi arti intellettuali, come la scultura e l’architettura, che non richiedono solo ingegnosità e abilità, ma vigore di mente e di volere, non avevano cultori363; i culti erotici, che già abbiamo veduto diffusi nell’Asia minore, e che in Siria fiorivano quasi soli, disperdevano in grossolane pratiche superstiziose, in orgie ed in feste fastose ogni aspirazione profonda a ricongiungersi con l’infinito364. In ogni parte la vita era facile e molle.... Al suono dei crotali e dei sistri le istituzioni repubblicane della polis greca, che richiedevano vigore ed energia, si erano quasi assopite; non c’erano lotte, partiti, dissensi seri nelle città siriache; l’abbondanza, i divertimenti, i culti voluttuosi, la facilità dei rapporti con le classi ricche, più che le minaccie della legge, mantenevano di solito tranquilli gli artigiani delle città, docili nei campi e rassegnati al loro mezzo e non duro servaggio i contadini; se la volubilità siriaca prorompeva talora in tumulti, si ritranquillava poi da sè facilmente; avvezza ai facili e copiosi guadagni, tutta la nazione pagava la parte maggiore delle spese necessarie a mantenere l’esercito romano, senza mormorare, con una docile indifferenza. Non si doleva dell’imposizione, come non intendeva che, al riparo dell’esercito vigilante le frontiere, essa si apprestava a invadere l’impero con i suoi mercanti, i suoi fantini, le sue suonatrici di crotalo e le sue meretrici.

In Siria, per la Siria, Augusto ebbe poco da fare. Si restrinse a togliere a Tiro e a Sidone la libertà, per certi tumulti scoppiati nelle due città poco prima365. Invece di più gravi cure gli fu cagione la Giudea, dove la politica di Erode, pur così sapiente e necessaria, era ferocemente avversata dal popolo ebreo; da questo popolo strano, così difficile a governare quanto i Siri erano docili. Fanatici conservatori della tradizione; invasati da un orgoglio nazionale, non misurato sulla potenza della nazione; sempre scontenti, sempre irrequieti, sempre favorevoli alla politica opposta a quella che prevaleva, gli Ebrei detestavano Erode. All’Idumeo convertito di recente, al figlio del ministro che aveva usurpato il trono dei suoi padroni, la politica romanofila era rimproverata come un tradimento, l’ellenofilia come una empietà. L’impopolarità di Erode era immensa; e invano egli si studiava di vincerla con ogni sorta di ingegnosi espedienti: i partigiani della famiglia spodestata, i superstiti di questa famiglia che egli aveva tratti nella reggia, sposando Marianne, una nipote dei due ultimi Asmonei, nella vana speranza di legittimare così la sua usurpazione, la rinfocolavano con studio assiduo. Odiato come un usurpatore, impopolare appunto per quella parte della sua politica che era più illuminata e benefica, malsicuro persino degli intimi, questo arabo violento, sensuale, sospettoso, aveva stabilito un governo di spionaggio e di terrore, e fatta uccidere perfino Marianne per ingiusti sospetti; queste crudeltà avevano ancora più accresciuto l’odio popolare; città e privati denunciavano di continuo ad Augusto le crudeltà di Erode; e allora allora avevano ricorso a lui gli abitanti della città di Gadara, domandando addirittura di essere ammessi alla provincia della Siria366. Onde Augusto poteva dubitare se, continuando l’aiuto ad Erode, non si provocherebbe alla fine qualche movimento in Giudea grave e profondo, che implicherebbe Roma in immense responsabilità. La situazione era difficile: Roma poteva fare sicuro assegnamento su Erode; ma la sua impopolarità non era diventata così grande, che Roma non potesse senza grande rischio continuare a servirsi di questo fedele ma pericoloso vassallo?

In Siria egli vide Erode, ascoltò i Gadaresi, considerò per ogni verso la condizione delle cose; e si persuase che, nonostante le colpe e gli errori, Erode si affaticava per il bene di Roma, delle provincie orientali, degli Ebrei. Anche Erode nel suo piccolo regno, come Augusto nell’immenso impero, si trovava implicato in una situazione piena di contraddizioni; e quindi costretto ad adoperar mezzi pericolosi per attuare le più savie idee. Respinse perciò la domanda dei Gadaresi; confermò il suo favore ad Erode; e giudicando essere costui uomo intelligente, alacre, sicuro, lo fece suo procuratore generale per la Siria, incaricandolo di vigilare e dirigere i differenti procuratori, disseminati per la ricca provincia. Anzi, essendo morto Zenodoro, il piccolo principe di Abila nell’Antilibano, egli diè ad Erode i suoi Stati367. Poi, all’avvicinarsi dell’inverno, fece ritorno alla diletta Samo368, mentre Tiberio si recava a svernare in Rodi369. In Roma intanto la confusione cresceva. L’accordo con i Parti non aveva rallentata quella acre fermentazione dello spirito puritano, con cui le classi medie, gli scrittori, la parte più seria dell’aristocrazia continuavano a protestare contro la monca, imperfetta, adulterata restaurazione aristocratica del 27; anzi il pubblico sempre più irritato, sfogava il malumore su tutto e su tutti, sull’aristocrazia, contro i cui corrotti costumi il pubblico protestava più aspramente che mai; sugli ultimi avanzi del partito democratico, che invano si dibattevano tra queste onde scivolanti e fluttuanti del pubblico malcontento, per giungere di nuovo alla sponda lontana del favore popolare; e perfino su Orazio, che aveva alla fine pubblicate le odi. Dalla solitudine in cui aveva consumati tanti anni laboriosi a trapiantare e ad acclimatare in Italia i metri più belli, le forme più leggiadre, i motivi più splendidi della lirica greca, egli era finalmente uscito, tutto lieto dell’opera sua, in mezzo al pubblico, per mostrargliela e ricevere il premio ambito della pubblica lode! Invece egli era stato accolto dai critici e dal pubblico con una freddezza arcigna, quasi con avversione. Le odi erano piaciute moltissimo solo ai pochi, che erano capaci di intenderle; in ispecial modo ad Augusto che le aveva giudicate “opera eterna”370; ma i letterati ma i critici di professione ma il pubblico avevano trovato a ridire mille cose sul volumetto. Roma lo aveva letto, perchè Orazio oramai era tale scrittore di cui non si potevano più ignorare le opere; ma non aveva capita questa opera capitale della sua letteratura, e invece di ammirarla, aveva preferito sfogare anche sulla sua eterna bellezza il confuso malcontento di quel minuto371. I puritani furono disgustati dalle poesie erotiche e accusarono l’opera di immoralità372; i critici si vendicarono di quel suo schifiltoso appartarsi dalle conventicole letterarie; il pubblico lento e torpido, bisognoso di trovare ogni cosa moderna peggiore delle antiche, avvezzo da secoli alla monotona solennità dell’esametro e alla semplice cadenza del distico, non gustò la varietà dei metri offertigli a un tratto dal poeta, la sua raffinatissima lingua, le sue descrizioni stupende; e all’opera, che non gli piaceva perchè troppo originale, rimproverò la mancanza di originalità. Sì, le poesie erano belline e si facevano leggere: ma, infine, erano tutte imitazioni di Archiloco, d’Alceo, di Saffo!373 L’Italia insomma aveva quasi paura di riconoscere, in questo specchio delle sue inconciliabili contradizioni, la propria imagine; e preferiva, badando ai particolari e alla forma, illudersi che quelle fossero imitazioni greche. Intanto era scoppiato a Roma un nuovo furibondo disordine quando Egnazio Rufo, l’edile e il pompiere tanto famoso quanto inviso alla aristocrazia, aveva posto la sua candidatura al consolato.

La aristocrazia, ormai da parecchi anni avvezza a occupare, come ai bei tempi antichi, i due posti di console, non voleva a nessun costo che un uomo così oscuro, il quale ostentava la propria indipendenza dalla nobiltà, fosse eletto console. Ma Egnazio era il solo forse ormai che in Roma potesse sperar di riuscire, anche senza gli aiuti della piccola oligarchia dominatrice, e non ostante la crescente avversione agli uomini nuovi, per il favore popolare conservato dall’edilità. Onde una guerra accanita. Furono proposti contro di lui due candidati fortissimi. Caio Senzio Saturnino, un nobile di antica famiglia, e Augusto medesimo, non ostante la lontananza e i ripetuti rifiuti. Egnazio dovè ritirarsi; Augusto e Senzio furono eletti; e Augusto avendo rifiutato, si trasse per le lunghe la elezione suppletoria, cosicchè il primo gennaio dell’anno 19 Senzio assunse il consolato da solo374. Il quale, invasato dallo spirito arcaicizzante e puritano che allora predominava, volle fare il console all’antica; e piombò di sorpresa distribuendo nerbate a destra e a sinistra sulla muta di cani magri e famelici che rosicchiavano gli ultimi fili di carne intorno all’osso spolpato delle finanze pubbliche; sui ladruncoli che rubacchiavano qualche migliaio di sesterzi all’erario e che non avevano aderenze, amicizie, autorità, ricchezza da poter fermare un così matto e improvviso furore. Ai piccoli appaltatori, avvezzi a esser trattati con bonomia, impose l’esecuzione dei contratti con maniaco rigore; spulciò i conti sino al sesterzio; esigette i crediti obliati dello Stato con implacabile durezza375; tribolò insomma molti poveri diavoli per risparmiare allo Stato qualche migliaio di sesterzi; e si fece ammirare da tutti gli imbecilli e da tutti i lacchè dell’aristocrazia, come un salvatore della morale e della repubblica. Quello era un uomo degno degli antichi tempi! Inorgoglito, Senzio, quando bisognò pur procedere alla elezione del collega, credè di poter fare il console di antico stampo anche con Egnazio Rufo, come con i piccoli appaltatori di Roma; e dichiarò che se Egnazio Rufo avesse presentata la sua candidatura, egli avrebbe ricusato di inscriverne il nome tra i candidati. Ma Egnazio Rufo aveva popolarità, ardire, ambizione; non si impaurì quindi e propose la sua candidatura contro quella di Lucrezio Vespillone, un nobile che era stato tra i proscritti del 42 e che aveva combattuto a Filippi; e quando Senzio ebbe cancellato il suo nome dalla lista dei candidati non se ne diè per inteso: si accinse a ricercare suffragi, sfidando il console e tutta la cricca che lo incitava con i plausi e con le lodi376. Conservatori e popolari ancora una volta chiamarono a raccolta tutte le forze loro, per o contro Rufo; Senzio, invelenito, dichiarò che, neppure se avessero eletto Rufo, egli non lo avrebbe proclamato377; da una parte e dall’altra si diè mano prima al denaro e poi ai bastoni. Dei tumulti incominciarono; il sangue corse378; la camarilla aristocratica sentì ruggire dal fondo della propria vecchiaia i furori della giovinezza, volle dare una lezione, ordinò che Senzio reclutasse una forza armata e facesse un macello.... Ma a questo punto il coraggio mancò al terribile console, che, non volendo emulare la gloria di Opimio e di Nasica, rifiutò la guardia379. I due partiti furono ridotti a combattersi con un mutuo, rabbioso, ridicolo ostruzionismo, che empì Roma di tumulti; e durò così a lungo, che nel mese di giugno il secondo console non era ancora eletto380. Alla fine la camarilla aristocratica capì che da sola non avrebbe mai ragione dell’indomabile pompiere; e si rivolse ancora una volta, per aiuto, ad Augusto.

In mezzo a questi tumulti fu inaugurato l’acquedotto dell’acqua Vergine, costruito da Agrippa381: insigne contributo a quel perfezionamento dei servizi pubblici, che era invocato da tutti nella metropoli, universalmente desiderosa di maggiori comodità materiali. In questo nessuno arcaicizzava; nessuno rimpiangeva l’antico. Augusto invece, sebbene sollecitato a ritornare dai privati e dal Senato, si tratteneva sulla via del ritorno ad Atene382, insieme con Virgilio che, avendo intrapreso un lungo viaggio in Oriente per vedere i luoghi del suo poema prima di dargli l’ultima mano, si era incontrato nella metropoli attica con il suo illustre amico. Indugiava Augusto probabilmente per le medesime ragioni per cui gli altri lo sollecitavano, ma considerate dal lato opposto, per il pericolo che gliene verrebbe, come gli altri le consideravano alla stregua del vantaggio, che loro ne ridonderebbe; e aspettava per vedere se i due partiti potessero finire la discordia tra loro ed egli rientrare in Roma, quando la tranquillità fosse ristabilita. Ma alla fine, le cose volgendo sempre peggio a Roma, egli dovè risolversi a ritornare, e nel mese di Agosto partì per l’Italia, conducendo seco Virgilio il quale, non sentendosi in buona salute, interrompeva il suo viaggio al principio. Tornarono quindi insieme, il poeta e il presidente; ma a Brindisi, sentendosi male, il poeta diede addio per sempre al suo grande amico e protettore, cui doveva di aver potuto compiere l’opera sua. Augusto proseguì il viaggio, verso la Campania, dove gli veniva incontro una deputazione degli uomini più eminenti di Roma, accompagnata da una parte dei pretori e dei tribuni e presieduta da Q. Lucrezio Vespillone, il candidato che invano contrastava il campo a Egnazio383: per fargli onore in nome di tutta la città ed esporgli il miserabile stato di Roma, in apparenza; in verità, per accaparrare l’aiuto di lui alla camarilla aristocratica. I principes viri venivano a domandare al presidente la sconfitta di Egnazio; e tanto fecero infatti e tanto dissero, che lo persuasero non esserci rimedio alcuno fuori che l’uso dei suoi poteri discrezionali. Eleggesse egli il console, sostituendosi ai comizi. Augusto cedè, la diede vinta ai conservatori ancora una volta, eleggendo Lucrezio, l’antico proscritto384. Esultante il partito aristocratico si apprestava a riceverlo in Roma con grandissima pompa, prendendo a pretesto l’esagerata vittoria sui Parti, la questione orientale finalmente composta, l’Oriente ricondotto alla docile obbedienza di Roma; per ringraziarlo in verità dell’abbandono di Egnazio. Lo smacco del troppo zelante pompiere valeva più che la missione in Oriente! Ma il prudente Augusto, che non voleva mai esasperare coloro cui pure era costretto di offendere, non si prestò a questa ostentazione trionfale, si avvicinò chetamente a Roma; e all’improvviso, nella notte dall’11 al 12 ottobre, entrò di soppiatto in Roma, come un privato385. Alla mattina, il partito che si apprestava a insolentire sui vinti, seppe che Augusto era già nella sua casa, sul Palatino; e che tanti preparativi erano inutili.

VII.
LE GRANDI LEGGI SOCIALI DELL’ANNO 18 A. C.

Poco prima, il 21 settembre386, Virgilio era morto, a 52 anni, in Brindisi, alcuni giorni dopo essere sbarcato; dividendo il cospicuo patrimonio donatogli dagli amici – 10 milioni di sesterzi – tra il fratellastro al quale ne lasciava metà, Augusto che ne ebbe un quarto, Mecenate cui ne toccò la dodicesima parte, e due letterati amici suoi, Lucio Vario e Plozio Tucca, che ricevettero il resto387. Così il dolce poeta delle Georgiche e delle Egloghe aveva reclinato il capo per sempre sulla opera sua non compiuta, lasciando solo una faraggine tormentata di mirabili squarci ancora slegati o mal connessi tra loro; senza aver potuto fondere insieme le innumerevoli e diverse materie adoperate per comporre il poema: il drammatico con il simbolico, la archeologia latina con la mitologia greca, la filosofia con la leggenda, la storia con la poesia. Le figure secondarie, come Didone e Turno, sono vive ed umane; ma Enea è un pio automa, i cui fili tengono e muovono gli dèi; quegli dèi che a loro volta non hanno più la umanità per cui vive e si agita l’Olimpo di Omero e non sono ancora i simboli astratti delle religioni metafisiche. Se la descrizione dell’incendio di Troia è stupenda, per movimento e per colore, il poema manca di spirito epico, perchè tutto vi è prestabilito. Enea, il pio fantoccio, vince senza far nulla, biascicando orazioni; e Turno, nonostante il suo ardore, il suo valore, il suo furore, è vinto, perchè così è necessario ai fati d’Italia. Anche l’umana avventura di Didone e di Enea è repentinamente troncata dalle necessità filosofiche della storia; le quali fanno partire Enea come lo hanno fatto arrivare e innamorarsi, automaticamente, per giustificare la futura guerra di Roma e di Cartagine. La descrizione del Lazio primitivo ha una freschezza e una dolcezza quasi musicali; ma è male incorniciata nella macchinosa struttura di un poema di guerre, che troppo letterariamente imita l’Iliade, pieno di battaglie sommariamente e perciò poco chiaramente descritte. Si sente che Virgilio non ne ha mai vedute, che ricalca descrizioni altrui, che raccoglie qua e là dei particolari pittoreschi senza unirli in un insieme vivente. Gigantesco, più grande assai che quello dell’Iliade, era il disegno del poema, come gigantesche e più grandi che le greche furono tutte le opere civili e politiche di Roma: non un piccolo dramma umano, come la rissa di Agamennone e di Achille; ma tutta la filosofia della lunga storia di un grande popolo rappresentata drammaticamente; ma la visione crepuscolare della città santa che domina il mondo, ricomposta raccogliendo in ogni parte i più venerabili ruderi liturgici dell’antica religione morente, e animata da un soffio epico. Se l’esecuzione fosse stata pari all’idea, Virgilio avrebbe composto il capolavoro della letteratura universale, lasciandosi addietro Omero di un lungo tratto e superando Dante, quanto Roma ai tempi di Augusto era più grande di Firenze al principio del XIV secolo. Invece anche questa, come tutte le opere di Roma, più grandiosa per disegno, fu solo abbozzata, non perfetta e finita come le greche. Virgilio lo riconobbe per primo; e aveva ingiunto a Vario e a Tucca di bruciare il manoscritto388 non presentendo in che modo l’opera sua si sarebbe trasfigurata con i secoli nella imaginazione degli uomini; in quale profetico chiarore di aurora trapasserebbe a poco a poco, come nelle notti estive delle regioni iperboree, la luce crepuscolare della città santa, che egli aveva veduta guardando il passato. I dieci milioni di sesterzi dati al poeta dalla aristocrazia politica di Roma erano perduti: l’Italia non avrebbe il grande poema nazionale, atteso da tanto tempo, con tanta impazienza.

Felice lui, del resto, che moriva in pieno favore popolare, sotto lo sguardo tenero dell’Italia innamorata di lui e da lui aspettante da troppo tempo, con troppa fede, un capolavoro, per non trovar piena di sublime bellezza, qualunque fosse, l’opera che egli lasciava. Dei difetti si accuserebbe la fortuna, che aveva mozzato all’artefice il tempo. Orazio invece, irritato e scoraggito dalla poco lieta accoglienza fatta alle Odi, intimorito dai rimproveri del partito puritano, si era messo anche egli a studiare filosofia morale, accennando ad unirsi alla comitiva di quanti volevano rifare i costumi del tempo; era ritornato, con mente più matura, con animo più pacato, con più fina e profonda ironia, al genere satirico; e si era dato a scrivere in pulitissimi esametri delle lettere in cui, prendendo ogni volta le mosse da qualche accidente giornaliero, si aggirava con la lanterna del filosofo tra i vizi, le menzogne, le contradizioni dell’età sua: ci si aggirava vagando, al solito, qua e là un po’ a caso, come le impressioni delle cose, i suggerimenti dell’animo, le letture lo sospingevano, senza seguire l’itinerario prestabilito da alcuna dottrina:

Ac ne forte roges, quo me duce, quo Lare tuter:
Nullius addictus iurare in verba magistri
Quo me cumque rapit tempestas, deferor hospes.389

Ma per quanto, probabilmente, queste lettere morali fossero scritte per riconciliarsi un poco il pubblico romano, la natura era più forte dei propositi: onde anche in queste divagazioni satiriche e filosofiche, come in quelle liriche degli anni precedenti, veniva fatto ad Orazio di contrariare a ogni istante le inclinazioni popolari. I tempi erano bizzarri: e nessuna cosa in quelli sortiva più l’effetto ragionevolmente previsto. Augusto aveva immaginato di uscir di Roma a compiere l’accordo con i Parti, per trarsi fuori in parte dalle difficoltà interne; ed ecco che l’accordo compiuto lo riconduceva come prima, anzi più di prima, nel folto di quelle difficoltà. Punto scoraggito dalla sua entrata furtiva in Roma, il Senato si era affrettato ad esprimere in un altro modo anche più significativo l’impazienza con cui l’Italia lo aveva atteso: dichiarando festivo il dì del ritorno, che era il 12 Ottobre, istituendo per quel giorno la nuova solennità delle Augustalia, deliberando di erigere un altare alla Fortuna del ritorno a porta Capena, presso il tempio dell’Onore e del Valore; e ordinando ai pontefici e alle vestali di fare un sacrificio ogni anno il 12 Ottobre su quell’ara390. E purtroppo il Senato non aveva esagerato, per adulazione, il sentimento del pubblico; perchè questo da lungo tempo smaniava di mostrare ad Augusto la sua ammirazione per le cose da lui compiute in Oriente al solito modo, incaricandolo di una nuova missione ancora più grave: la riforma dei costumi. Gli ultimi scandali avevano esasperato a tal segno il movimento puritano e tradizionalista, che tutti ormai, chi per una ragione e chi per un’altra, volevano una qualche riforma sociale di sicura, infallibile efficacia. Irritato dalla lunga lotta per la candidatura di Egnazio Rufo, imbaldanzito dal favore pubblico e dal trionfo finale, il partito della nobiltà osava alla fine domandare apertamente quello che per tanti anni aveva desiderato in segreto: la epurazione del Senato; la cacciata degli intrusi della rivoluzione; la restaurazione di una costituzione se non interamente aristocratica, timocratica almeno, basata cioè sul privilegio del censo; la esclusione dalle magistrature di chi non avesse una certa ricchezza. Le classi medie, la parte migliore dell’ordine equestre, gli intellettuali, sempre più inacerbiti dalla loro scontentezza generica, sempre più smaniosi di perfezioni impossibili, volevano pure, sebbene per altri motivi, questa cacciata; e senza badar che distruggevano essi stessi la strada per cui entrar nel Senato, gridavano che ci voleva un piccolo Senato composto di persone eccellentissime, e non un ingombrante Senato come quello di allora, composto di forse 8 o 900 membri: ma domandavano anche, e questa volta con voce più alta e imperiosa, quelle tali leggi che costringerebbero i ricchi a vivere con la modestia e la virtù a cui essi erano costretti dalla povertà; che reprimerebbero i disordini delle famiglie i quali erano la cagione del maggior scandalo e della più fiera esecrazione universale. Un uomo, un uomo zelante del pubblico bene che ritrovasse la Pudicizia, fuggita nessun sapeva dove, dalla vista degli orrori della metropoli; che la riconducesse solennemente in Roma a vigilare sui focolari: questo da ogni parte invocava l’Italia. E chi poteva esser quell’uomo, se non Augusto? Onde non appena giunto, Augusto fu attorniato, assediato, quasi soffocato da una ressa di postulanti e di ammiratori, che volevano fargli salvare in un modo o nell’altro Roma, l’Italia, l’impero, il mondo; prima della fine dell’anno fu proposto di nominarlo praefectus morum con potestà di censore391;deputazioni venivano di continuo a ripetergli il ritornello: Roma e l’Italia essere stanche del presente disordine; correggesse adunque a suo piacimento tutti gli abusi; proponesse quante leggi giudicasse opportune; facesse lui insomma e ripulisse l’immane sentina del mondo392. La grave questione occupava talmente lo spirito pubblico, che Livio, giunto a scrivere la storia dell’anno 195 in cui fu deliberata l’abolizione della legge Oppia contro il lusso delle donne, credè di dover riassumere lungamente la discussione, il discorso di Catone, la risposta degli avversari, introducendo probabilmente in quelle non pochi degli argomenti che si portavano pro e contro la legislazione dei costumi393. Ma la corrente popolare per queste leggi era ormai così forte, che nessuna persona autorevole osava più contrastarle, tranne uno solo, Orazio naturalmente, che, condannato ormai a pensarla in ogni argomento diversamente dai suoi concittadini, spargeva a piene mani nelle sue lettere le ironiche confutazioni del movimento puritano, che voleva rigenerare il mondo con le leggi, quando invece la virtù e il vizio sono cose interne, atteggiamenti diversi del sentimento e del pensiero. Se gli uomini non imparano sin da fanciulli a discernere il bene dal male e a frenare le passioni viziose; se sono dominati dalla smania dei piaceri, degli onori, delle ricchezze; se ascoltano quello che dice Janus summus ab imo – la Borsa, diremmo noi:

O cives, cives, quaerenda pecunia primum est;
Virtus post nummos;394

se prendono per misura della dignità il censo necessario a coprire le cariche, la virtù non sarà mai che una inutile chimera. “Volete sapere – dice egli – perchè io non vo d’accordo in nessuna cosa con i miei concittadini? E con chi potrei andare d’accordo? Gli uni non badano che a far quattrini; gli altri che a sfoggiare e a sfogare i capricci: ville, pranzi, viaggi....395” L’essenza della morale è la rigorosa educazione della mente e del cuore, la vigile introspezione dei propri pensieri e dei propri sentimenti396. Persino l’Iliade e l’Odissea gli paiono un insuperabile manuale di etica pratica, che alle classi alte, le quali pretendono emendare i vizi degli altri, ricorda mirabilmente in mille modi i vizi propri. Altro che leggi di riforma! In un meraviglioso verso immortale Orazio condensa la filosofia eterna ed universale della politica e dello Stato, a nasconder la quale i potenti inventarono infinite menzogne, e tutta la ipocrita morale convenzionale:

Quidquid delirant reges, plectuntur Achivi397

“I re le fanno e il popolo le sconta”. Anzi contro l’universale inclinazione al vivere cittadinesco, al lusso, al piacere, Orazio si compiace talora di opporre addirittura la sua semplicità, il suo amore per la campagna, la sua indipendenza, quasi per rispondere a quanti avevano in uggia la sua fiera singolarità di giudizi, che essi dicevano le cose, mentre egli le faceva. “Preferisco mangiar pane asciutto ma essere libero, che rimpinzarmi, al servizio dei sacerdoti, di focacce di miele”398. “Chi vuol vivere secondo natura, si edifichi la casa in campagna e non in città399”. “È forse l’acqua, che sforza i tubi degli acquedotti, più pura di quella che freme e mormora per il declivio dei rii?400” Ed eccolo bisticciarsi con il suo fattore, che vuol essere chiamato a servire a Roma, dove lo attirano i postriboli e le taverne sempre aperte401. Anche i servi sono ormai trattenuti in campagna a fatica; e si farnetica di rimandarci i liberi! Del fastidio che gli procurava l’artificioso e convenzionale puritanismo tradizionalista allora in voga, Orazio si vendica additando sul proprio corpo ai suoi contemporanei, che non parevano vederli, i segni di tutte le malattie delle civiltà corrotte: l’universale rovello per guadagnar denaro402, la sfrenata vanità403, l’amore del lusso e del piacere, quella irrequietezza sconclusionata, che è in tutte le civiltà l’effetto della soverchia ricchezza e sicurezza; che noi diciamo nervosismo, e che Orazio definisce strenua inertia404, o inerzia agitata. Perchè i ricchi non sono mai contenti, e mutano di voglia ogni giorno, e appena ottengono quel che avevano più vivamente desiderato subito se ne annoiano; e sempre giudicano stupendo e vogliono ciò che non hanno?405 Ma che dire dei ricchi? anche i poveri sono ormai presi da questo morbo:

Quid pauper? Ride: mutat cenacula, lectos,
Balnea, tonsores, conducto navigio aeque
Nauseat ac locuples, quem ducit priva triremis406.

Eppure la infelicità e la felicità – osserva a ragione il poeta filosofo – scaturiscono dalla fonte interna dell’anima, non dalle cose esteriori; e scioccamente gli uomini, che non la conoscono, si immaginano di poter correre dietro alla felicità in una nave a vele spiegate o in una carrozza al galoppo407: in automobile, avrebbe detto se avesse scritto oggi. Più audacemente egli giunge infine una volta a dire, in mezzo a tanta gente che da mattina a sera invocava il rispetto delle leggi, esser cosa da poco e spregevole quella bella virtù che consiste nel rispettare i senatusconsulti, le leggi, il diritto civile. Ma quante male azioni – egli dice – si possono commettere anche rispettando queste leggi! Il pubblico ha in conto di uomo dabbene chi debitamente sacrifica agli dèi il porco o il bue; anche se poi sottovoce domanda a Laverna, la dea dei ladri, di poter impunemente rubare e truffare, pur essendo giudicato un sant’uomo408. Era difficile dire più apertamente che il puritanismo del suo tempo gli pareva esser soltanto una forma più raffinata di furfanteria.

Ma Orazio era un solitario poeta che campava di rendita; mentre Augusto era il padrone del mondo. Il primo poteva dunque pensare e scrivere a modo suo in ogni cosa; e l’altro invece doveva servire le masse. Le contradizioni delle cose, a cui lo spirito critico del poeta si dilettava di muover guerra dal suo romitorio, per celebrare il solitario e sterile trionfo del pensiero puro sulle necessarie infermità della vita, si imponevano invece al capo dell’impero, come forze mille volte più forti di lui. Chimeriche o no, le aspirazioni puritane erano ormai così intense e così universali, che l’eluderle si faceva difficile: tanto più difficile, anzi, perchè in quei nove anni, se Augusto aveva fatto molto per la plebe di Roma e per l’aristocrazia, non aveva dato alle classi medie, le quali ora volevano quelle leggi, che la platonica soddisfazione dell’accordo con i Parti e la riparazione, che procedeva con grande lentezza, delle vie della penisola. Inoltre Augusto non poteva giudicare quelle aspirazioni così chimeriche e vane, come Orazio. Se il nuovo puritanismo era in parte alimentato dagli interessi, in parte inasprito da antiche invidie, derivava pure in parte dalla tradizione e da un più sano intendimento della vita, dei suoi doveri e dei suoi fini, che le tentazioni della ricchezza pervertivano meno nelle città ancora modeste dell’Italia, come Caio Gracco aveva divinato. Molte leggi, simili a quelle allora richieste, erano state proposte ed imposte nei secoli precedenti: prova che parecchie generazioni avevano loro attribuita una qualche efficacia nel rallentare almeno i progressi della corruzione dei costumi. Perchè quelle leggi non avrebbero ritenuta anche nei tempi nuovi la loro secolare virtù? L’esempio degli antichi doveva dar coraggio a un così fervido ammiratore della tradizione. Augusto infatti se, pur non rifiutandola409, non si servì della potestà censoria e della cura morum così presto e così largamente, come l’impazienza pubblica richiedeva, si risolvè almeno a ripigliare con maggior lena gli studi delle leggi di riforma incominciati da tanto tempo; e incaricò una Commissione di senatori410 di elaborare innanzi tutto una legge contro il celibato. Ma non voleva precipitar nessuna deliberazione in materia così grave: anzi, mentre con questi studii preparatori teneva a bada l’impazienza del pubblico, cercava di predisporre acconciamente ogni cosa, affinchè quando non potesse più rimandarla, potesse almeno tentar la riforma con minore fatica e pericolo. C’era vicina una occasione propizia. Il 15 dicembre fu inaugurata l’ara della Fortuna del ritorno; l’anno 19 finiva; incominciava il 18, l’ultimo della decennale presidenza di Augusto. Alla fine dell’anno i poteri del princeps scadrebbero; ma che egli potesse ritirarsi a vita privata, nessuno voleva ammetterlo neppure per supposizione. La riforma dei costumi non era fatica che potesse compiersi nello scorcio di un anno. Senonchè Augusto, se parte per amore parte per forza, era disposto a continuare il governo, non voleva però sobbarcarsi di nuovo e solo a un carco così grave, che le smodate aspirazioni pubbliche appesantivano ogni anno di più: onde veniva immaginando un nuovo ordinamento della suprema autorità, il terzo in dieci anni; associarsi Agrippa e spartire con lui gli onori e le cure, i privilegi e le responsabilità. Lo aveva perciò invitato a tornare dalla Gallia dove aveva allora allora compiuti alcuni atti importanti, di cui diremo tra breve; e mentre lo aspettava a Roma, mentre discuteva con la commissione dei senatori le differenti proposte che erano messe innanzi, salvava all’Italia il poema suo, in cui tutte le aspirazioni nazionali erano state verseggiate melodiosamente.... Per sua intercessione Vario e Tucca, gli esecutori testamentari di Virgilio, osarono disobbedire al morto e invece di ardere, si accinsero a riordinare il manoscritto dell’Eneide. Singolare ironia delle cose! Mentre tutta l’Italia smaniava perchè fosse restaurata la sacrosanta autorità delle leggi, Augusto annullava rivoluzionariamente e con il plauso universale la suprema volontà di un defunto, che per i vecchi Romani aveva la forza di una legge inviolabile. Un capolavoro letterario valeva, per questa generazione, un sacrilegio: nobile prepotenza per uno Stato di alta e raffinata cultura; cattivo principio, per una nazione che diceva di voler restaurare in sè stessa la ferrea disciplina di un governo militare. Ma Tito Livio aveva detto: nec vitia nostra nec remedia pati possumus. A mano a mano che la sua commissione tentava di precisare nei particolari la legge sul celibato, appariva chiaro che qualsiasi riforma dovrebbe volgersi nel giro vizioso di una antinomia inconciliabile. Fare una legge contro il celibato significava sancire, più o meno apertamente, l’obbligo per tutti i cittadini di contrarre matrimonio, come un secolo prima, quando il male era agli inizii, aveva proposto Quinto Metello Macedonico in un famoso discorso de prole augenda. Senonchè era chiaro che per imporre, come in antico, il matrimonio come un dovere, sarebbe stato necessario ridare al padre i diritti sulla moglie, sui figli, sui beni, che in antico corrispondevano a quel dovere; restringere tutte le libertà in cui l’antico monarcato familiare si era a poco a poco sfasciato; togliere sopratutto di mezzo, quanto più si potesse, quella che tutti riconoscevano a ragione essere stata la cagione principale della dissoluzione dell’antica famiglia: il feminismo, la progressiva emancipazione della donna, che stava per compiersi in una libertà intera. Ma Augusto, sebbene fosse, diremmo adesso, un avversario del feminismo, non intendeva avviare la riforma per questi troppo aspri sentieri e tentar di restringere alcuna delle libertà in cui l’antica famiglia si era sfasciata. Da troppo tempo le alte classi usavano ed abusavano di queste libertà; troppo inveterate abitudini, troppi interessi erano ormai in esse implicati. Si ricascava in una nuova contradizione: lo Stato, disfatto esso stesso dal dissolvimento della famiglia, avrebbe dovuto accingersi a rifar la famiglia! Augusto preferiva perciò studiare se con qualche stimolo artificiale si potrebbe sollecitare l’egoismo dei cittadini ad affrontare il matrimonio anche in quel regime di pericolosa libertà; ma il compito era arduo; e i mesi passavano; e non si giungeva mai al punto di conchiudere. Per fortuna alla fine giunse a Roma Agrippa; e dopochè Augusto ebbe a suo fianco l’energico amico, il governo si mosse con più spedito vigore. Fu definito innanzi tutto nei suoi particolari il nuovo ordinamento del supremo potere. Ad Augusto si prolungherebbero per 5 anni tutti i suoi poteri e la cura morum: e si darebbe a lui per collega Agrippa, con poteri eguali ai suoi: e cioè con la potestà tribunizia, l’alta sorveglianza sulle provincie, il potere di emettere editti, e forse anche la cura morum. Gli storici moderni, ipnotizzati dal preconcetto delle mire monarchiche di Augusto, non hanno inteso nè l’importanza nè il significato di questo atto con il quale Augusto – tanto poco egli mirava a fondare una monarchia e una dinastia! – dopo essere stato per dieci anni solo a capo del governo, introduceva di nuovo nella nuova carica suprema, ancora così incerta, uno dei principii più antichi e più universali delle magistrature repubblicane, la collegialità, anche a rischio di rompere nuovamente la unità dello Stato, ricostituita con l’autorità del princeps unico. Insomma come per tanti secoli la repubblica aveva avuto a capo due consoli annuali, ora avrebbe, sopra i consoli, due principes, scelti per cinque anni411. E allora finalmente, quando il Senato e il popolo ebbero approvato questo nuovo ordinamento del potere supremo e prolungato ad Augusto per il quinquennio seguente “la cura morum”, Augusto, rinforzato da Agrippa, si risolvè a tentare la epurazione del Senato. Ma con quanta prudenza! Augusto pensava che, per purificare il Senato, sarebbe stato necessario ridurre il numero dei senatori a non più di 300412: ma per non offendere troppe persone, deliberò prudentemente di accogliere nel nuovo Senato almeno seicento membri, restringendosi a lasciar fuori proprio gli scadentissimi: anzi neppur questa volta volle assumersi l’odio delle necessarie esclusioni; e immaginò un curioso modo di scelta, che potrebbe definirsi la cooptazione girante o il vaglio automatico dei senatori, per cui i due o trecento destinati alla esclusione si troverebbero un bel giorno fuori del Senato, quasi senza accorgersene, e sopratutto senza poter imputare ad alcuno la propria disgrazia. Dopo aver solennemente giurato di non avere altra cosa in mente che il bene pubblico nel compiere quello a cui si accingeva, Augusto sceglierebbe a far parte del Senato i trenta cittadini che egli giudicasse i più degni; questi, dopo aver prestato un eguale giuramento, presenterebbero ciascuno una lista di cinque – i più degni a loro giudizio; e da ognuna di queste liste si trarrebbe a sorte un nome. I trenta indicati così dalla scelta dei loro colleghi e dalla sorte, raggiungerebbero in Senato i trenta designati da Augusto e dovrebbero a loro volta compilare ciascuno la lista dei cinque preferiti, tra i quali si procederebbe al sorteggio, come sulla lista dei precedenti. E così via, per venti volte, sino a integrare il numero di seicento. A questo modo nessuno sarebbe stato escluso da nessuno; e i radiati non potrebbero imprecare che contro la sorte. Tra le tante ingegnose pensate di questo abilissimo politicante, nessuna forse fu più ingegnosa. Senonchè questa era anzi troppo ingegnosa; e, come spesso avviene, per essere troppo ingegnosa, fallì. Quanti avevano ragione di temere che non passerebbero per i fori del vaglio, non restarono con le mani in mano: appena Augusto ebbe annunciato in che modo procederebbe alla scelta, gli uomini più eminenti furono sollecitati, pregati, supplicali di ricordarsi di loro dai colleghi più oscuri; infastiditi, molti imitarono quel che faceva Augusto nelle congiunture difficili, se ne andarono di Roma; cosicchè, appena cominciati, gli scrutinii furono rallentati da una prima difficoltà, e cioè che parecchi tra gli scelti non erano in Roma e quindi non potevano compilare la loro lista. Ci si rimediò, lì per lì, sorteggiando per ogni assente tra i senatori già scelti uno che ne facesse le veci; ma se per questo ripiego le operazioni poterono continuare alla meglio, sia pur più lentamente che non si fosse pensato nei primi giorni, quando si dovevano vagliare i nomi più illustri, che non si potevano escludere, le difficoltà, gli intoppi, le lentezze crebbero, quando si scese verso la folla oscura, tra la quale era nel tempo stesso necessario e difficilissimo scegliere. Infinite cabale furono ordite dagli oscuri soldati della rivoluzione, che si vedevano spogliati dell’agognatissimo onore arraffato a rischio della vita; si giunse perfino ad aprir gli occhi alla cieca sorte con dei brogli e dei falsi. Augusto, irritato e disgustato, per un momento pensò di fare una serrata e restringere il numero dei senatori ai primi 300 designati – che erano certo i migliori: poi prese un partito medio e integrò egli il numero dei seicento senatori, scegliendo quelli che gli parvero migliori o meno scadenti413.

Ma Augusto non si ingannava, giudicando che l’epurazione del Senato gli sarebbe cagione di infiniti fastidi. Quasi tutti gli esclusi protestarono, reclamarono, supplicarono, per indurlo ciascuno a considerare il caso suo, che, naturalmente, era diverso da tutti gli altri; e ognuno aveva qualche amico autorevole, il quale patrocinava la sua causa. Pur essendo tutti in teoria favorevoli a una vigorosa epurazione, quando poi dai discorsi si passava ai fatti ciascuno voleva aiutare i propri amici; e tutti avevano una certa ragione, perchè molti inclusi non valevano più degli esclusi. Augusto si trovò tra Scilla e Cariddi. Chiudendo le orecchie a tante preghiere, irriterebbe troppe persone; accondiscendendo soverchiamente, irriterebbe il partito aristocratico, che non voleva veder rientrar nella Curia alla chetichella ed alla spicciolata coloro che aveva scacciati in massa e così clamorosamente. Egli riparò subito qualche ingiustizia più grave; cercò di rabbonire con promesse gli altri, esortandoli ad aver pazienza, ad aspettare414. Si vedrebbe con il tempo! Ma la prima prova non incoraggiava a tentare altre riforme. Anzi non tardarono a piovere da tutte le parti le denuncie e le accuse di congiure, che sarebbero state ordite per uccidere Augusto; dei processi furono discussi415; e serie o immaginarie che fossero le accuse, persuasero Augusto a stare all’erta416, non volesse per caso qualcuno ricompensarlo delle sue fatiche, mandandolo innanzi tempo a raggiungere Cesare nell’Olimpo dei Numi e per la medesima via. Ciò non ostante, compiuta la epurazione del Senato, Augusto si accinse a dare una soddisfazione maggiore al partito puritano, a quanti erano o si professavano fedeli alla tradizione: presentò ai comizi come tribuno della plebe la tanto studiata legge contro il celibato chiamandola, lex Julia de maritandis ordinibus417. Questa legge era una ingegnosa ma artificiosissima transazione tra le tradizioni storiche e le necessità presenti, tra l’antico ideale della famiglia e i vizi, gli egoismi, gli interessi dei contemporanei: e procedeva perciò per continue contradizioni, distruggendo in una parte quello che aveva fatto nell’altra, e continuamente adoperando per ricostituire la tradizione dei mezzi che dovevano accelerarne la definitiva rovina. Dopo aver sancito l’obbligo del matrimonio per tutti i cittadini418, che non avessero, se uomini, passati i sessanta anni, se donne i cinquanta419, la legge risolveva con una transazione ardita ma rivoluzionaria, la grave questione delle unioni tra i liberi e le liberte. Questi concubinati erano frequenti in Roma e in Italia, specialmente nel ceto medio, sia per le ragioni che abbiamo già dette, sia perchè a Roma i cittadini maschi essendo molto più numerosi che le donne, tutti non potevano, neppur volendo, scegliersi tra quelle una sposa420. Sollecito di accrescere il numero dei matrimonii, Augusto doveva quindi inclinare a riconoscere e a incoraggiare queste unioni, che, come il fatto dimostrava, molti cittadini giudicavano a loro più convenienti che le iustae nuptiae, se in quelle generavano dei figli: ma i puritani e i tradizionalisti le odiavano, parte per aristocratica fierezza di casta, parte, quelli che avevano figlie da marito, per interesse, lamentando che plebei, cavalieri, senatori perfino, vivessero con liberte in concubinaggio, quando tanti onesti cittadini dovevano tenersi in casa, zittelle, le virtuose figliole, perchè non potevano dare loro le ricche doti, senza cui ormai nessuno voleva più togliersi in casa una sposa. Tra la tradizione e la necessità, Augusto immaginò questa transazione: proibì di sposare delle liberte, e cioè di averne dei figli legittimi, soltanto ai senatori, ai loro figli, alle loro figlie, ai loro nipoti e pronipoti – maschi e femmine – nati dalla loro discendenza maschile421; lo permise invece a tutti gli altri cittadini422. Nessuno degli uomini che in Senato impersonerebbero la potenza di Roma, che l’eserciterebbero nelle provincie, che comanderebbero le legioni, doveva avere per madre qualche leggiadra danzatrice siriaca o qualche graziosa serva ebrea, ma soltanto una matrona romana di pura stirpe libera e latina, affinchè in essi si conservasse integro e forte il senso della tradizione: negli altri invece si tollerava per necessità quella mistione di ceti, in cui nei secoli seguenti si diluirà sino a perdersi il puro romanesimo antico. Si costituivano così nel mondo muliebre due ordini che avrebbero una capacità nuziale diversa: le ingenuae honestae, l’aristocrazia del matrimonio, che, possedendo la piena degnità morale, non potevano essere che mogli legittime; le libertae, il ceto medio, del matrimonio, che potevano essere, a scelta dell’uomo, mogli legittime o concubine. A questi due ordini, precisando vecchie consuetudini, e compiendo quell’alta concezione romana che faceva dipendere la legittimità del matrimonio non da alcune formalità legali più o meno simboliche, ma da una certa condizione di degnità morale delle donne e dal libero consentimento degli sposi, Augusto proponeva di aggiungere un terzo ordine, la plebe del matrimonio, composta delle donne che, non possedendo degnità morale, non potevano essere mogli legittime ma soltanto concubine: le prostitute, le mezzane, le liberte delle mezzane, le adultere e le attrici423. Tripartito così il sesso femminile, la legge passava ad affrontare la difficoltà maggiore, a ricercare i mezzi con cui, imposto il dovere del matrimonio, si sarebbero costretti o indotti gli uomini a compierlo. Noi abbiamo già detto che Augusto non voleva restringere la libertà e l’autonomia della famiglia. Egli aveva perciò preferito immaginare un ingegnoso sistema di contrappesi da applicare all’egoismo celibatario: dei premi che bilanciassero per gli uomini e per le donne i pericoli e i crucci del matrimonio; delle pene che, tormentandolo, annullassero le troppe comodità personali del celibato. Senonchè in quanti contorcimenti strani aveva dovuto piegare e ripiegare la sua legge, in quante contradizioni implicarla, a quanti espedienti rivoluzionari audacemente sospingerla, per fare l’ineffettuabile: per imporre l’ideale civico di una aristocrazia senatoria e militare, combinando artificialmente gli egoismi di un tempo, invincibilmente proclive alla eguaglianza democratica, all’utilitarismo mercantile e pacifico! Non esitò Augusto a fare scempio di tradizioni antiche e venerate; come di quella per cui le seconde nozze erano state sempre mal viste a Roma, quasi come un adulterio postumo. La legge nuova obbligava brutalmente le vedove e le divorziate a ricevere un nuovo marito nel letto ancor caldo del predecessore: entro un anno le vedove, entro sei mesi le divorziate424. Sembra poi che Augusto proponesse di diminuire gli impedimenti della affinità, proibendo le nozze soltanto tra matrigna e figliastro, tra figliastra e patrigno, tra suocero e nuora, tra suocera e genero, là dove insomma fosse un rapporto che adombrava la paternità425. Più audacemente poi spinse egli la legge a intervenire nei testamenti e nei rapporti familiari, in un campo cioè i cui confini la legge aveva sino allora rispettati quasi con scrupolo religioso: proponendo che ogni erede o legatario fosse sciolto dall’obbligo del celibato e della vedovanza, se il testatore avesse posta tal condizione426; che se un padre o un tutore rifiutassero il consenso al matrimonio o la dote, il figlio o la figlia, il pupillo o la pupilla avessero il diritto di ricorrere al pretore, affinchè valutasse i motivi del rifiuto e trovandoli ingiusti obbligasse il padre o il tutore a dare il consenso o la dote427. Nè i premi proposti al matrimonio turbavano meno di queste disposizioni l’antico diritto pubblico o privato. Ce ne erano molti, e differenti, come è naturale, per i due sessi e per i vari ordini sociali. A favore dei senatori che avevano moglie e figli la legge sanciva parecchi privilegi dei quali tre ci sono noti: che dei consoli avesse il diritto di assumer primo i fasci quello che aveva più figli, o che aveva figli o che aveva moglie se l’altro era orbus (ammogliato senza prole) o celibe428; che i maritati e i padri di famiglia avessero certi vantaggi – non possiamo precisar quali – nella surrogazione dei magistrati morti in carica429 e nella spartizione delle Provincie430; che ogni cittadino potesse domandare le magistrature tanti anni prima del tempo legale, quanti figli aveva431. Con questa disposizione, Augusto non incoraggiava soltanto il matrimonio, ma trovava un altro modo di svecchiare lo Stato. Nel campo del diritto privato non solo la lex Julia fregiava la maternità tre volte feconda con una specie di decorazione, il diritto di portare la stola; ma la coronava con la eguaglianza civile, liberando la donna dagli ultimi resti di tutela432: bella riforma che affrettava la piena emancipazione della donna, ma che doveva far tanto più paurosa agli uomini la paternità, quanto alla maternità invogliava le donne. Se le donne erano dalla legge spinte a desiderare figliuoli, molti mariti dovevano temere il giorno in cui, avendo generati tre fanciulli, essi non avrebbero più alcun potere legale sulla loro compagna! A favore infine dei liberti la legge sanciva dei privilegi che indebolivano singolarmente quella autorità padronale che Augusto cercava di ristabihre con l’esempio nel costume. Autorizzava il liberto e la liberta, che avessero ricevuta la libertà a condizione di non maritarsi – come i padroni facevano di sovente per assicurarsi l’eredità – a contrarre matrimonio433; esentava i liberti che avessero due o più figli dall’obbligo delle operae, dei dona, dei munera434, e quelli che avessero avuto in tempi differenti due figli sotto la patria potestà o ne avessero uno solo di cinque anni, dall’obbligo delle operae435, annullando quindi i diritti economici più importanti del patronato. Escludeva però da questo privilegio i liberti che facessero i commedianti o i gladiatori436. La liberta invece era dispensata dall’obbligo delle operae quando era sposata con il consenso del padrone437. Toglieva infine alla moglie del liberto la facoltà di far divorzio, senza il consenso del marito438. Ma dopo il miele, l’aceto. Benigna con chi avesse adempiuti i doveri verso la specie, la legge si sforzava di tormentare la comoda solitudine degli scapoli con molte pene; delle quali due sono note a noi con precisione. La prima, grave in un tempo in cui divertimenti e spettacoli erano un servizio di Stato, escludeva dalle feste e dagli spettacoli pubblici gli scapoli439. Non volevano, gli egoisti, incorrere in crucci per il bene dello Stato? E lo Stato ricuserebbe di divertirli! Infine la legge proponeva di togliere ai celibi la facoltà di ricevere per testamento un legato da ogni persona che non fosse parente in sesto grado, lasciando in ogni altra parte valere il testamento440: grave proposta, la quale rovesciava uno dei principii fondamentali dell’antico diritto, facendo modificare dalla legge, per ragioni di pubblico interesse, le volontà dei defunti; e perchè, togliendo ai celibi le eredità degli estranei, toglieva un mezzo ormai consueto e universale nelle classi ricche per accrescere il patrimonio e per attenuare la disparità delle fortune.

Questa artificiosissima legge violava tanti principii di diritto secolari, che non poteva non esser l’oggetto di aspre critiche da parte dei giuristi più fedeli alla tradizione. Il Senato romano non era ancora una corte di servi; e in quello Antistio Labeone, il più insigne rappresentante del tradizionalismo nel giure, biasimò aspramente lo spirito rivoluzionario di una legislazione che, dicendo di restaurare la tradizione, si intrometteva così brutalmente tra il patrono e il liberto, tra il testatore e l’erede, tra il padre ed il figlio441. Ma se questi argomenti, prettamente giuridici, potevano poco sul pubblico che voleva le leggi, più gravi obiezioni mosse il partito puritano: e cioè, che la legge non curava il male dalla radice, anzi adoperava rimedi pericolosi, che potevano aggravarlo; tali, per esempio, le disposizioni, che emancipavano interamente la donna. Gli uomini giustificavano la universale inclinazione al celibato con la crescente indipendenza della donna, che ne aveva tanto aizzata l’imperiosa natura, le voglie smodate, il frivolo egoismo. Ed ora la legge invece di raffrenare, accresceva ancora quelle libertà! Tuttavia ad Augusto non fu difficile di far approvare la legge, prima dal Senato, come si faceva nei tempi aurei dell’aristocrazia, e poi dal popolo442. Gli animi erano troppo infatuati di queste leggi e troppo creduli alla loro meravigliosa bontà, perchè alcuno osasse opporsi con vigore; e la legge, se minacciava guai lontani a non pochi, prometteva pure pronti beneficî a molti: legittimava le convivenze con le liberte; migliorava la condizione di non pochi schiavi liberati; attribuiva privilegi e faceva nascere speranze in quanti avevano già figli; aveva infine con sè tutti i maritati ed i padri. Questi si imposero, con il favore del momento, agli scapoli. Quindi non ci fu seria opposizione, ma anzi un consentimento universale, che quella legge sola non bastava, che ce ne volevano altre, più fondamentali ancora, le quali strappassero la radice del male. Incoraggiato dalla facile approvazione di questa legge, il partito tradizionalista sùbito iniziò una agitazione per domandare una legge, la quale ristabilisse l’ordine nella famiglia. A che valeva crear con la lex de maritandis ordinibus tante famiglie, se ognuna di queste diventasse poi una serpaia orrenda di adulterii, di libidini, di discordie, di vergogne? Quale uomo serio e dabbene avrebbe acconsentito a fondare una famiglia, se in quella poi non avesse potuto nè costringere i figli ad obbedirlo, nè infrenare la matta prodigalità, il lusso capriccioso, la dissolutezza, il puntiglio di disobbedire al marito per non parer donna da poco; tutti i vizi insomma che in tante mogli fomentavano il matrimonio libero, la universale scostumatezza, il parentado, gli amici, la letteratura, la dote?443 E poichè la famiglia non aveva più in sè la forza di mantenere l’ordine, occorreva che i buoni mariti fossero aiutati dalle leggi. Leggi ci volevano: che raffrenassero il lusso, che reprimessero la dissolutezza dei giovani, che facessero dell’adulterio un delitto, punito dai codici pubblici. Dei senatori trattarono la questione in Senato; accesero vive discussioni; si rivolsero direttamente ad Augusto; misero innanzi diverse proposte444.

Ma Augusto non era punto incline ad assecondare questa nuova domanda445, a restringere la libertà della famiglia; per molti motivi, tra cui non è improbabile ce ne fossero anche di personali. Come supremo magistrato della repubblica, egli avrebbe dovuto dar l’esempio di osservare queste leggi, se non voleva meritare il biasimo del pubblico, sempre pronto a vituperare i grandi. Ora Augusto non aveva paura della sua legge de maritandis ordinibus. Egli era ammogliato e aveva una figlia; questa era già al secondo marito, aveva un figlio di tre anni, Caio, nato da Agrippa nel 20, e ne aveva allora allora partorito o stava per partorirne un altro, Lucio; Tiberio aveva già sposato Agrippina, la figlia di Agrippa e della sua prima moglie, che era figlia di Attico446; a Druso, il secondo figlio di Livia, che allora aveva 20 anni, si darebbe presto moglie. Invece una nuova legge contro il lusso poteva essergli cagione di qualche noia. Non per sè, tuttavia. Augusto viveva all’antica, conservando in mezzo alle immense ricchezze che passavano, ogni anno, come un fiume d’oro, attraverso la sua grande casa per spandersi poi per Roma, l’Italia e l’impero in mille rivi e rigagnoli, la parsimoniosa semplicità di quella borghesia italica, onde usciva: portava sempre delle toghe fatte in casa, dalle sue ancelle, sotto la vigilanza di Livia447; si faceva veder nella bottega del porporaio a mercanteggiare le pezze, che dovevano servirgli per gli abiti di cerimonia448; nel suo vasto ma non sontuoso palazzo, la sua camera era arredata con una semplicità arcaica, che doveva un giorno passare quasi in proverbio449; e nei pranzi che egli dava c’era quella cortesia e quella signorilità che non si separano mai dalla terza sorella, la semplicità: non più che tre portate, di solito; e sei nelle occasioni solennissime450. Anche Tiberio, in questo come in tante altre cose, si mostrava un tradizionalista coerente. Ma Giulia, invece, mostrava altre inclinazioni. Bella, intelligente, colta, gentile, fiorente di giovinezza – aveva 22 anni – essa pareva nata ad essere una principessa asiatica e non una matrona romana: amava la letteratura, le arti, l’eleganza, il lusso, le grandi ville, i bei palazzi, le vesti seriche, le comitive elette, le feste451: e l’autorità del padre e del marito, l’esempio di tutta la famiglia potevano meno su lei, a mano a mano che gli anni passavano. Era temerario sperare che essa obbedirebbe facilmente ad una nuova legge suntuaria. Ma più pericolosa ancora poteva sembrare una legge sui costumi e sull’adulterio. Profonder milioni, affaticarsi in mille opere diverse dall’alba al tramonto, sorridere a tutti, coprirsi il volto con tutte le maschere, a volta a volta, sì: ma assumersi anche l’ufficio di guardiano della pudicizia, con il suo passato, no. Ad Augusto il compito doveva parer troppo grave. Nè solo il passato, ma anche il presente lo spaventava, perchè la bella facciata arcaica di pudicizia e di decoro, che la sua famiglia presentava fuori al pubblico, era in parte almeno attaccaticcia e posticcia. Vera o falsa che fosse la diceria, si diceva intanto per Roma che Augusto se la intendesse troppo con Terenzia, la bellissima moglie di Mecenate452. Agrippa viaggiava molto per affari di Stato e durante le assenze di lui, Giulia praticava troppo liberamente con i giovani belli e piacenti dell’aristocrazia, cosicchè Augusto aveva dovuto qualche volta far delle rimostranze453; e già forse vedeva troppo sovente e con troppo vivo piacere, un giovane di grande famiglia, un Sempronio Gracco, discendente dei famosi tribuni454. Tiberio e Agrippina soli facevano una coppia esemplare, innamorata, appartata, di cui neppur le male lingue potevano dir nulla455.

Resistè Augusto da prima; fece dei discorsi in Senato per dimostrare che il marito ed il padre dovevano mantenere non con le leggi, ma con la propria autorità e con la propria saggezza, l’ordine nella famiglia, come nell’antico monarcato domestico; giunse perfino una volta a citare anche l’esempio suo. Si cercò allora dai puritani di metterlo nell’imbarazzo, approfittando dei disordini che pur turbavano la sua famiglia. Un giorno Augusto fu pregato di esporre al Senato come governava la sua famiglia: ciò ch’egli fece, svolgendo in un lungo discorso il suo pensiero sulla famiglia, e facendo della sua casa una descrizione immaginaria, che nessuno osò naturalmente dichiarar falsa. Si ricorse allora ad altri mezzi per intimorirlo: si denunciò a lui, come a censore, un giovane che durante le guerre civili aveva sposata una donna di cui era stato amante prima, proprio come aveva fatto egli stesso con Livia, coprendolo per questo misfatto delle più atroci ingiurie: velata minaccia, di ritornare a frugare nel suo terribile passato, se egli non accontentava il partito del rigore e del pudore456. E così finalmente, aizzando l’opinione pubblica, sollecitando il Senato, punzecchiando e copertamente minacciando Augusto, il partito puritano riusci a vincere anche questo punto. Augusto alla fine si risolvè a far compilare, senza dubbio da commissioni composte di puritani arrabbiati, due nuove leggi: una legge suntuaria457 e la famosa lex Julia de pudicitia et de coercendis adulteriis458. Della prima, di cui indoviniamo facilmente Io spirito, noi conosciamo soltanto alcune disposizioni: sappiamo che infrenava il lusso delle costruzioni, così ripetutamente lamentato nelle Odi da Orazio459; possiamo congetturare che, per le disposizioni sugli adornamenti muliebri, moderasse l’uso della seta, il lascivo tessuto che, al dire dei puritani, sotto pretesto di vestirle, denudava le donne460; sappiamo che conteneva infine disposizioni sul dispendio dei banchetti. Nei giorni comuni si poteva banchettare, spendendo non più che 200 sesterzi (50 fr.); nelle Calende, nelle Idi e nelle None e in alcuni altri giorni festivi, non più che 300 (75 fr.); nelle cerimonie nuziali, non più di 1000 (250 fr.)461. Alla maggioranza questa legge doveva piacere assai, perchè senza tanti discorsi, spicciativamente, sparecchiava sotto gli occhi di Roma i sontuosi festini con cui i Cresi della metropoli facevano sfigurare i modesti desinari dei senatori, dei cavalieri, dei plebei provvisti di scarsa fortuna; toglieva alle ricche matrone le vesti e i gioielli che ingelosivano le signore più povere; tentava di umiliare la mole sontuosa dei palazzi costruiti e adornati dagli architetti e dagli artisti di Alessandria, quasi a pari delle povere dimore latine dei più. Gli ingenui speravano anche che il denaro risparmiato in questa legge sarebbe speso ad allevare figlioli! La lex de adulteriis462 invece mirava non soltanto a punire l’adulterio, ma a purificare la famiglia da tutte le frodi e le turpitudini che l’avevano inquinata nei due secoli precedenti, usurpando per lo Stato un altro immenso territorio d’autorità sull’antico e disfatto monarcato domestico. La legge conservava al pater familias romano – ultimo vestigio dell’antica autorità – il diritto di uccidere la figlia e l’adultero subito dopo scoperta la colpa463; al marito conservava il diritto di uccidere l’adultero, quando lo sorprendesse in casa sua e fosse un commediante, o un cantante, o un danzatore, o un condannato, o un liberto della famiglia464, non mai la moglie, tranne l’avesse sorpresa nella sua casa. Scoperto l’adulterio, erano accordati sessanta giorni al marito e se il marito non agiva, al padre che fossero cittadini romani, per accusare l’adultera cittadina romana ed il complice al pretore e alla quaestio465 o giurì, che probabilmente fu istituita con la legge medesima. Se il marito o il padre non accusavano, per quattro mesi, oltre i sessanta giorni, qualunque persona poteva proporre l’accusa, dichiarandosi i processi per adulterio judicia pubblica non meno che i parricidi ed i falsi466. Le pene erano terribili: per l’adultero, la relegazione a vita e la confisca di metà dei beni; per l’adultera, la relegazione a vita, la perdita di metà della dote, di un terzo della sostanza, l’incapacità nuziale, per cui non poteva più vivere con un uomo se non come concubina467. Tutti gli aiuti dati a commettere adulterio, come il prestare la propria casa ai convegni degli amanti, o per il marito il lucrare sulla impudicizia della moglie, il tenerla in casa dopo averne scoperto l’adulterio, costituivano il reato di lenocinium ed erano puniti come l’adulterio468. Infine erano vietati dalla legge e puniti con le stesse pene che l’adulterio e il lenocinio, gli stupra; con la qual parola si intendevano semplicemente le relazioni illecite, che non si potevano supporre legittimate dalla maritalis affectio, per il modo stesso con cui avvenivano, per es. per la segretezza o per la saltuarietà, con una donna libera, di onesta famiglia, di fama rispettabile, che fosse nubile o vedova469. La moglie non poteva invece accusare d’adulterio il marito470, il quale poteva impunemente avere pratica con donne che non fossero maritate o ingenue o oneste, praticando le quali invece poteva esser condannato, ma non per essere stato infedele alla propria sposa, bensì per aver commesso o stuprum o adulterio con la moglie di un altro.

Insomma il regime del terrore era istituito nel regno di Afrodite; lo spirito di delazione e di calunnia, l’invidia della ricchezza, le crudeli ambizioni dell’oratoria, le cupidigie e le perfidie del ricatto, tutte le basse passioni motrici della accusa privata nel mondo antico, dell’ignobile giornalismo diffamatorio nel mondo moderno, erano lanciate da questa legge puritana, stormo di sucide arpie, a devastare i voluttuosi giardini di Citera. Sarebbe impossibile immaginare una legge di più fiera persecuzione delle alte classi, che questa. Poichè questa legge, compilata e promulgata soltanto per i cittadini romani, praticamente non minaccerebbe se non la aristocrazia senatoria ed equestre, le cui ricchezze e la cui rinomanza potevano invogliare gli accusatori privati a correre il rischio dell’accusa471; cosicchè essa stabilirebbe per la aristocrazia di Roma un privilegio a rovescio. Mentre i liberti o gli stranieri, anche in Roma, anche se ricchi, potrebbero, uomini e donne, commettere adulterio impunemente quante volte volessero, avere pratica con quanti uomini o donne piacesse loro, per amore o per lucro, i cittadini romani, specialmente nell’ordine senatorio ed equestre, sarebbero esposti, uscendo dai regni dell’Amore permesso, ai rigori terribili della lex Julia! Ma la lex de adulteriis come la lex sumptuaria, come la lex de maritandis ordinibus erano tre grandi e serii tentativi di restaurazione aristocratica; e quindi dovevano accanto ai privilegi sancire i doveri. Chi sogna un Augusto inteso a fondare con subdoli accorgimenti la monarchia, non ha sviscerate o non ha intese queste leggi, che furono uno dei fondamenti di tutta la opera sua. Con la lex sumptuaria, con la lex de maritandis ordinibus e con la lex de adulteriis Augusto non mirava nè solo nè precipuamente ad aumentare la popolazione dell’Italia, che non è certo decrescesse in ogni regione: egli mirava sopratutto a riordinare economicamente e moralmente la famiglia aristocratica, l’antico seminario della repubblica poi isterilitosi, l’antica scuola dei generali e dei diplomatici, che avevano conquistato l’impero, a poco a poco disfattasi. Se Augusto avesse voluto fondare una monarchia, avrebbe dovuto incoraggiare il lusso, il profuso spendere, la dissolutezza, il celibato della aristocrazia, non cercare di raffrenarli; perchè la monarchia non poteva costituirsi che sulle rovine di una aristocrazia, come quella dei tempi di Luigi XIV, tramutata dal bisogno e dai piaceri in una torma servile di cortigiani. Ma Augusto, il quale non poteva scegliere i suoi collaboratori che nelle famiglie aristocratiche, aveva bisogno di una aristocrazia vigorosa; e siccome voleva sul serio ricostituire a Roma una grande aristocrazia, così cercava di imporre alla nobiltà certi gravi e speciali doveri, senza i quali i suoi privilegi sarebbero stati insopportabilmente iniqui. Vano tentativo, senza dubbio, almeno in parte; perchè la dissoluzione dell’aristocrazia romana continuò: ma sarebbe ben presuntuoso chi volesse perciò affermare che il tentativo non fu fatto sul serio; o chi volesse dire che fu interamente inutile. Noi non sappiamo quello che sarebbe successo, se queste leggi non fossero state approvate: se la dissoluzione non sarebbe stata più rapida; se queste leggi non ritardarono almeno ciò che non ebbero forza di impedire. Augusto infatti compiè queste con altre leggi, che ne rischiarano singolarmente lo scopo e il carattere. Non solo nella stessa lex de adulteriis Augusto riformò il regime della dote, proibendo al marito, che sino allora aveva avuto il diritto di farne quell’uso che voleva, di venderla e di obbligarla, per consolidare quindi le fondamenta economiche della famiglia nelle classi ricche472; ma dopo aver stabiliti tanti privilegi a rovescio per l’aristocrazia, rinforzò il privilegio vero ed essenziale, proponendo una legge che restringeva il diritto di presentarsi candidato alle magistrature a coloro i quali avessero un censo di almeno 400 000 sesterzi. Lo Stato chiudeva dinanzi alle folle oscure i suoi cancelli, aperti da un secolo, scacciandone fuori i poveri; la antica costituzione timocratica ed aristocratica era ristabilita; le cariche delle repubbliche, a cui nella generazione precedente aveva potuto concorrere un povero mulattiere come Ventidio, erano dalla legge dichiarate privilegio delle classi censite; il governo ricascava in potere di una aristocrazia discorde, scadente, neghittosa sinchè si vuole, ma chiusa e legalmente privilegiata. Eppure questa serrata, che terminava un secolo di lotte immani, che poteva incominciare un nuovo ordine di cose, fu deliberata placidamente, tra l’indifferenza universale, cosicchè appena ce ne è pervenuta notizia, tra molti fatterelli, in due righe scritte disattentamente da uno storico tardivo!473 Ma il partito democratico, il grande partito di Caio Gracco e di Caio Cesare, era ormai morto. Proponendo quella legge, Augusto non uccideva neppure un moribondo; componeva nel sepolcro, un cadavere. Roma ritornava, dopo un lungo turbamento, alle origini sue di Stato aristocratico; rifaceva, per mano di Augusto, un codice di doveri e di privilegi alla nobiltà, con cui essa avrebbe potuto governare per secoli l’impero che aveva conquistato. Ne sarebbe essa capace? L’avvenire lo dirà. Insieme con questa legge è probabile Augusto ne proponesse un’altra sulla corruzione elettorale, de ambitu, in cui si puniva con l’esclusione dalle cariche per 5 anni chi avesse comprato i suffragi474. Infine fu permesso ai pretori di spendere, se volevano, anche tre volte la somma assegnata loro per i giuochi dal tesoro pubblico475. Se per la legge suntuaria era proibito ai ricchi di gozzovigliare nelle loro case, il pubblico invece aveva diritto di stare allegro nelle vie e nei teatri. Era questo il nuovo spirito popolare che alitava nella restaurata società aristocratica; e Augusto sapeva soddisfarlo.

VIII.
I “LUDI SAECULARES”.

E finalmente, approvate anche le leggi sociali, il cielo nuvoloso di malcontento, che intristiva da tanto tempo l’Italia, si aprì; un raggio di gioia passò per quello, brillò, illuminò Roma. Tanti eventi felici seguitisi in brevi anni, l’accordo con i Parti, l’epurazione del Senato, lo sdoppiamento della autorità suprema tra Augusto ed Agrippa, la iniziata restaurazione del costume antico parvero alla fine infondere nell’esasperata nazione un senso ammolliente di universale compiacimento. E non senza ragione, del resto: chè, a petto dei miserabili tempi della rivoluzione, la condizione presente era quasi meravigliosa come un miracolo. Nessuno aveva divinato che in quindici anni Roma risalirebbe così rapidamente l’erta della gloria e della potenza. Se anche il pubblico aveva stranamente travisata a modo suo l’intesa con i Parti, era pur vero che la massa enorme dell’impero, nella gran pace diffusa dovunque, riprendeva ad esercitare la naturale forza sua di attrazione su tutti i piccoli Stati, alleati protetti indipendenti, i quali la attorniavano, come pianeti; che Roma incominciava a diventare la immensa metropoli del mondo mediterraneo, in cui, dalle selve della fredda Germania come dalla Corte del re dei Parti, si davano convegno e cercavano fondersi l’Oriente e l’Occidente, tutte le favelle, le razze, le nazioni, le genti disparatissime che Roma aveva raccolte sotto il suo imperio o con cui era venuta a contatto. Non solo Erode, ma tutti i sovrani dei piccoli Stati alleati o vassalli facevano educare i propri figli e successori a Roma, ora che Augusto incominciava ad ospitarli nella sua casa e a curarne la educazione senza avarizia; a mutare insomma la sua casa a sue spese in una specie di sontuoso collegio di istruzione per i futuri sovrani vassalli di Roma, creando all’impero un potente organo di romanizzazione degli Stati alleati, di cui esso aveva bisogno ma di cui la spensierata repubblica non si era data cura476. E a Roma venivano pure per istruirsi e conoscere la formidabile potenza che, dopo averli domati, incominciava ad affascinarli, molti giovani della nobiltà gallica; veniva pure di là del Reno qualche giovane appartenente a cospicue famiglie germaniche, come il marcomanno Marbod, spinto pur esso dalla vaga curiosità delle cose romane che incominciava a pungere e a muovere, tra le sue paludi e nelle sue selve, anche la torpida barbarie germanica477; venivano i nobili fuorusciti partici, che le guerre civili avevano scacciati, probabilmente per raggiungere Tiridate478, a cui Augusto aveva fatto assegnare una pensione479. Questa piccola cosmopoli si raccoglieva intorno alla casa di Augusto e dei suoi amici più ricchi; e raffigurava visibilmente ai Romani il rinnovato prestigio di Roma: l’Europa, l’Asia e l’Africa, che piegavano di nuovo le ginocchia innanzi alla grande repubblica; il mondo libero ancora oltre i confini dell’impero, che, compreso di ammirazione e di stupore, sollecitava anche esso di poter conoscere e adorare la meravigliosa città. Il sole non aveva ancora illuminato un impero più vasto, più potente, più duraturo: tale il compiacimento che ogni anno, ravvivato da qualche solenne ambasciata, da qualche piccola vittoria, dalle rassicuranti notizie delle provincie, si spandeva per tutta l’Italia. Ogni classe aveva poi particolari motivi di rallegrarsi. La nobiltà sarebbe stata pazza se si fosse lagnata seriamente del suo stato; essa che senza far nulla da dieci anni riacquistava ricchezze ed onori, essa che di nuovo si vedeva intorno le classi medie ed il popolino di Roma disposti all’ossequio, solo perchè ogni famiglia si degnava di far partecipare al godimento dei patrimoni rifatti a spese dell’impero un certo numero di letterati e di plebei. Ormai quei plebei poveri che avevano formato il codazzo dei demagoghi, contribuite le forze maggiori ai collegi di Clodio, si acconciavano a mendicare dai grandi quegli aiuti che in antico avevano loro dati i capi dei partiti; e cercavano di farsi accogliere nel numero dei clienti di qualche grande casa, che dava loro ogni tanti giorni o un pranzo o una somma di denaro o altri regali in altre occasioni: essi venivano a loro volta a far visita ogni mattino al patrono, ad accompagnarlo sul foro, nelle visite; ad applaudirlo quando arringava in un tribunale, a farglisi innanzi con volto ilare o con volto dimesso in ogni occasione lieta o triste della esistenza. Si veniva insomma formando quel corpo di obblighi artificiosi, che legherà per più secoli alle classi ricche di Roma uno sterminato codazzo di pezzenti, per il comune tormento dei protettori e dei protetti480. Costava denaro e noie questa usanza nuova, senza dubbio: ma intanto i nobili ritornavano a percorrere le vie di Roma con un lungo codazzo, riveriti da tutti come semidei; non avevano più crucci per l’esito delle elezioni o per le discussioni in Senato; assicuravano l’ordine di Roma più efficacemente che minacciando supplizi. Nè minore era l’ossequio nelle classi medie, nelle quali, specialmente i giovani che avevano studiato, non sognavano più che di piacere nella aristocrazia a un protettore potente, come Orazio, Virgilio, Tibullo, Properzio. Tutte le antiche ripugnanze romane a questa specie di domesticità letterata venivano meno; come dimostrano le Epistole di Orazio, che discutono a lungo della sua dignità. Orazio ammette, nella diciassettesima epistola del libro primo, che si può viver felici anche nella oscurità e nella povertà; ma aggiunge che chi voglia essere utile ai suoi e vivere discretamente, deve cercare l’amicizia dei potenti; ma perseguita con aspri sarcasmi i seguaci di Diogene, quanti affettano cioè un disprezzo sistematico della ricchezza. Dice anzi apertamente di giudicar meno ignobile chi adula la ricchezza, di chi piaggia la povertà, la sordidezza, la volgarità e quanto nell’ordine sociale è posto in basso: protesta che se l’uomo non deve vergognarsi di indossare il rude saio, non deve vergognarsi neppure di portar la porpora di Mileto; afferma risolutamente che

Principibus placuisse viris non ultima laus est;

raccomanda però dignità e discrezione.... Non si reciti ad alta voce, come il mendicante, la sua filastrocca: “Mia sorella non ha dote; mia madre ha fame; il campicello avito non frutta....”. E mentre Augusto preparava l’accordo con i Parti, Orazio aveva scritta un’altra lettera poetica – la diciottesima del libro primo – ad un amico che, accolto nella alta clientela di un ricco ci si sentiva a disagio, ne aveva quasi vergogna: temendo di essere uno scroccone; l’aveva scritta per rassicurare questa coscienza inquieta tra due età e due morali, assicurandolo che “l’amico dista dallo scroccone quanto la signora rispettabile dalla meretrice”. Orazio che, amante della propria libertà, geloso della propria indipendenza, aveva per sè rifiutata questa ospitalità, consigliava, sia pur con una certa bonaria ironia, i propri amici e colleghi ad accettarla. Insomma se le leggi recentemente approvate arrecherebbero qualche noia ai grandi, la nobiltà sotto il governo di Augusto ridominava Roma e l’impero, più comodamente che non avesse mai fatto, senza pericolo e senza responsabilità, solo godendo. Nè la classe media aveva motivo di essere troppo scontenta. La sua agiatezza cresceva, parte per la protezione dei grandi, parte per il naturale riprosperare dell’agricoltura, delle arti, del commercio. Essa aveva avuta inoltre la soddisfazione anelata, quelle grandi leggi sociali, dalle quali si riprometteva il principio di una nuova età, più felice e più forte che quella trascorsa. L’amministrazione dell’impero era molto migliore; gli spaventosi saccheggi dell’età di Cesare non si ripetevano più; i governi erano dati di nuovo a persone ricche le quali, se talora non erano molto alacri e intelligenti, non avevano bisogno di depredare i sudditi per rimpinzare d’oro le loro clientele politiche a Roma. Anche l’ordinamento del potere supremo per i cinque anni futuri dovette accrescere la pubblica soddisfazione. L’Italia voleva godersi i vantaggi della monarchia – e cioè la continuità e la stabilità del potere – senza perdere i privilegi della repubblica: la eguaglianza giuridica di tutti i cittadini, la semplicità del cerimoniale, la libertà piena di insolentire gli uomini potenti, l’impersonalità dello Stato. La presidenza doppia per cinque anni, invece che la unica presidenza decennale, aveva due vantaggi: faceva sperare un governo anche più vigoroso perchè due presidenti, se concordi, potrebbero fare più che uno solo; si allontanava meno dalla tradizione repubblicana, per la minore durata e per il principio collegiale. Tutti coloro i quali volevano ammirare il nuovo regime come eccellente in ogni cosa, avevano dunque nuova ragione di persuadersi che la costituzione secolare della repubblica non era stata ritoccata se non in qualche particolare di poco momento. Anche se la Pace tardava a sciogliere gli innumerevoli lacci in cui la Povertà aveva stretta, durante la guerra civile, la infelice nazione, tutti si risentivano disposti a sperar bene dell’avvenire, come nel 21 a. C; e nelle masse ripigliavano forza quelle mistiche aspirazioni a una palingenesi universale, quelle ingenue aspettazioni del secolo nuovo, inteso come il principio di una vita più felice e più pura, che da venticinque anni fluttuavano nell’anima della nazione come un vapore, ora addensandosi, ora diradandosi sotto il soffio mutevole degli eventi, ma senza disperdersi mai interamente. In uno Stato malato di un pessimismo incurabile, questa onda vivida di fiducia sia pur mistica e vaga, era un sollievo troppo benefico, perchè ci sia difficile di spiegare come o ad Augusto o a qualcuno dei suoi amici venisse sul finire del 18 alla mente questo pensiero: non forse convenisse rinforzare la felice disposizione dello spirito pubblico con una grande cerimonia, che nel tempo stesso esprimesse in forme solenni la vaga idea popolare del secolo nuovo, inizio di nuova vita, e la ricongiungesse, nello spirito delle masse, con i principî morali e sociali formulati nella legislazione degli ultimi anni. Era chiaro che occorreva una cerimonia insolita e solennissima, la quale raccogliesse in una sintesi pittoresca tutti gli elementi della credenza popolare nel secolo nuovo, come tutte le concezioni sociali della oligarchia, che governava l’impero: e la dottrina etrusca dei dieci secoli, e la leggenda italica delle quattro età del mondo, e gli oracoli della Sibilla annunciante l’imminente regno di Apollo, e i ricordi della popolarissima egloga di Virgilio che aveva predetto il prossimo avvento dell’età dell’oro, e la dottrina pitagorea del ritorno delle anime sulla terra, e la dottrina secondo cui ogni 440 anni anima e corpo si ricongiungono e il mondo rivive nelle forme antiche, e la necessità di ritornare alle fonti storiche della tradizione nazionale, e l’urgenza di ricostituire la religione, la famiglia, le istituzioni, i costumi dello antico stato militare. Ma quale cerimonia poteva esprimere tante cose? Inventarne una nuova ripugnava a una generazione che, dopo aver con tanta fatica ritrovato alla meglio, mezzo scancellato e distrutto, il sentiero della tradizione, non voleva lasciarlo più, paurosa di smarrirsi di nuovo, come prima, nell’impervio avvenire. Si frugò quindi nel passato; e si trovò una antichissima cerimonia, coeva della repubblica, la quale doveva essere celebrata ogni secolo. Istituiti nell’anno stesso in cui la repubblica era stata fondata, nel 509 a. C, in onore delle Divinità infernali. Dite e Proserpina, per implorare la fine di una terribile pestilenza481, i ludi saeculares erano stati, a solenne garanzia della pubblica salute, ripetuti ogni secolo, sia pure con puntualità non perfettissima altre tre volte: nel 346482 a. C; nel 249483; nel 149 (o secondo altri nel 146 a. C.)484. I quinti giuochi secolari sarebbero quindi caduti intorno al 49, cioè nel tempo in cui incominciava la guerra civile di Cesare e di Pompeo. Ma allora gli uomini, più che di far sacrifici a Dite e a Proserpina, erano solleciti di non scendere nei loro regni sotterranei per qualche scorciatoia troppo ripida; onde nessuno aveva pensato a celebrare la quinta volta i giuochi secolari; i quali sfumavano ormai nella memoria di tutti, come cosa lontana lontana.... A disseppellire anche questa mummia dalla necropoli della storia romana, Augusto dovette indursi precipuamente per due ragioni. Era chiaro non esser facile trovar modo di commuovere più profondamente le moltitudini, che rinnovando una cerimonia così unica, che nessuno dei viventi aveva veduta, che si sapeva potersi vedere soltanto una volta nella vita. Inoltre in questa cerimonia era implicata l’idea del secolo, inteso – è vero – come divisione del tempo in periodi di cento anni, ma che poteva facilmente rinnovarsi nell’idea popolare del secolo mistico, poichè nessuno ricordava più quel che la cerimonia significasse in origine. Ripristinando i ludi saeculares Augusto quindi non intendeva soltanto di riparare un’altra omissione delle guerre civili nè di provvedere alla pubblica salute supplicando la deità dell’inferno; ma si proponeva di ordinare con nome antico una cerimonia nuova, trattando i ludi saeculares a quel modo, con cui Virgilio aveva trattati nell’Eneide le tradizioni e i miti latini. Sarei quasi tentato di dire che i ludi saeculares di Augusto sono uno squarcio dell’Eneide in azione, così profondamente virgiliana è la concezione, lo spirito, quello sforzo di fondere i principî tradizionali della società latina con riti e miti cosmopolitici, specialmente etruschi e greci; di ravvolgere in forme straniere, precipuamente elleniche, una sostanza schiettamente romana, quasi a simboleggiare la fusione che gli spiriti eletti di Roma vagheggiavano allora potesse compiersi tra il mondo latino ed il greco. Facendosi aiutare anche in questa impresa da un giovane giurista non meno versato nel diritto religioso che nel civile, Caio Ateio Capitone485, Augusto incominciò, affinchè le menti più facilmente si persuadessero che il secolo dei ludi significava il mistico principio di un’età nuova, ad accogliere nella sua cerimonia il concetto etrusco del secolo, considerato quale il massimo tempo della vita umana e computato perciò 110 anni; ricorrendo per giustificare questa novità a quegli oracoli greci della Sibilla486, con cui si era vinta tante volte la resistenza dei romani all’introduzione di cose straniere. Interrogato il collegio del quindecemviri, che era incaricato di conservare gli oracoli della Sibilla, e del quale Augusto stesso faceva parte, il collegio non stentò molto a trovare un oracolo, che sarebbe stato detto dalla Sibilla ai tempi dell’agitazione dei Gracchi, quando i primi fermenti della rivolta agraria incominciavano a diffondersi per l’Italia e cioè verso il 126 a. C: un oracolo che descrivendo minutamente i giuochi secolari imponeva di celebrarli ogni 110 anni. Ateio Capitone e il collegio dei quindecemviri riconobbero in questo oracolo la vera legge dei giuochi secolari; affermarono di aver trovato negli atti del collegio, che i giuochi erano infatti stati celebrati già quattro volte, a distanza di 110 anni ciascuna, a partire dal 126, tranne alcune piccole differenze487; che perciò un altro secolo di 110 anni stava per finire, e che i giuochi si potevano celebrare nel primo anno della nuova duplice presidenza488. Così i quinti giuochi secolari chiudendo un periodo di 440 anni, coloro i quali credevano nella dottrina esposta da Varrone sulla ricongiunzione dei corpi e delle anime, potevano sperare che con i giuochi secolari ricomincierebbe addirittura la ricostituzione corporea dell’antica Roma, che le generazioni della antica repubblica si reincarnerebbero, avendo finita la dimora degli Elisi! Quale incitamento ad obbedire con zelo alla legge de maritandis ordinibus! A coloro invece i quali fossero più sensibili al simbolismo dei riti o che più vivamente credessero negli oracoli della Sibilla, tanto diffusi nei decenni precedenti, si darebbe peculiarmente soddisfazione nelle cerimonie. Ateio e i quindecemviri, sempre sulla traccia dell’oracolo, disposero che le feste religiose consterebbero di sacrifici fatti in tre notti successive, la prima alle Moire (il nome greco delle Parche), la seconda alle Ilitie o dee della generazione, la terza alla Terra madre: alle divinità cioè da cui dipende l’esistenza fisica, la vita e la morte dei singoli uomini, la fecondità della razza così necessaria allo stato, la fertilità della terra che è la prima sorgente della ricchezza e della prosperità. Come invocar più chiaramente dagli dèi un’età senza scellerate distruzioni di vite, feconda di uomini, beata di una meritata abbondanza? Nei giorni invece si farebbero sacrifici agli dèi dell’empireo in questo ordine: Giove, il primo, Giunone, il secondo, Diana ed Apollo, l’ultimo, per modo che la festa culminasse e si riassumesse nella solennità del bel Dio greco di cui Augusto si affaticava tanto a diffondere il culto; del dio che, secondo l’oracolo della Sibilla e l’egloga di Virgilio, doveva presiedere al nuovo secolo; del dio che rappresentava il Sole e la Intelligenza, la luce e il calore da cui si origina la vita fisica, e lo splendore della mente umana, da cui nasce tutto l’infinito mondo dei fatti e delle idee. L’inno ad Apollo e a Diana, che doveva chiudere e ricapitolare le feste, sarebbe composto dal maggior poeta vivente: Orazio. Alle feste sarebbero invitati tutti gli uomini liberi, cittadini e non cittadini; e prenderebbero in quelle parte, come attori, i rappresentanti delle alte classi di Roma, uomini e matrone, avendo a capo i due presidenti: Agrippa ed Augusto.

Il 17 febbraio489 il Senato decretava, non sappiamo su proposta di chi, che in quell’anno si celebrassero i ludi secolari; deliberava la spesa e l’appalto dei lavori occorrenti per le cerimonie, i giuochi e le feste; incaricava Augusto, che era uno dei magistri o presidenti del collegio dei quindecemviri, di ordinare la cerimonia490. Augusto sottopose allora il programma preparato da Ateio Capitone al collegio dei quindecemviri; lo fece non solo approvare ma pubblicare da questi, come dal collegio fece pubblicare in editti o in decreti tutte le norme necessarie alla festa, che via via si chiarivano necessarie; per modo che il Collegio dei quindecemviri, e non Augusto, sembrasse ordinare e prendere la direzione della festa. Fu così stabilito che si darebbe principio a questa nella notte del 31 maggio, con il sacrificio alle Moerae (Μοῖραι), e si seguiterebbe poi, nell’ordine già detto, sino al 3 giugno, collegando le cerimonie religiose l’una all’altra con una ininterrotta catena di divertimenti popolari. Si mandarono poi degli araldi in ogni parte d’Italia, sino nei più lontani villaggi, ad annunciare la grande cerimonia che doveva celebrarsi in Roma; la cerimonia che nessuno aveva vista e che nessuno rivedrebbe più491; si scelsero a partecipare alla cerimonia le persone più rispettabili delle alte classi; si prepararono le processioni e gli spettacoli, si incominciarono ad istruire i cori.... Tra questi preparativi il Collegio dei quindecemviri fu chiamato a considerare se si dovessero anche in questa cerimonia, come nella precedente, far fare prima al popolo i suffimenta o suffumigi o purificazioni nei vapori di zolfo o di bitume, e accettare dal popolo offerte di commestibili (orzo, grano, fave), da distribuirsi poi a quanti assisterebbero alla festa492. Non dimentichiamo che i ludi saeculares erano in origine una cerimonia etrusca intesa a implorar dagli dèi la fine delle pestilenze; che quindi in principio essa dovette celebrarsi in tempo di morìa; e che non è perciò improbabile avesse la saggezza etrusca intravisto esser necessario prima di radunare folle in tempi di epidemia, rischiando di centuplicare la forza del contagio, purificare i singoli spettatori con questi mezzi, a cui anche la scienza moderna riconoscerebbe qualche efficacia. L’offerta delle fruges si ricollegava probabilmente, per qualche idea religiosa, ai suffimenta. E il collegio deliberò che il 28 maggio493, davanti al tempio di Giove Ottimo Massimo e al tempio di Giove tonante sul Campidoglio, negli spaziosi portici del tempio di Apollo sul Palatino, e del tempio di Diana sull’Aventino, i membri del collegio dei quindecemviri si trovassero a ricevere dal popolo le fruges offerte in dono e negli stessi luoghi, fuorchè nel tempio di Diana, a dargli lo zolfo e il bitume, nei cui vapori ciascuno a casa doveva purificare sè e la propria famiglia, prima di venire alla festa494. A mano a mano che si preparava la grande festa, le dicerie si rincorrevano per tutta l’Italia; e l’aspettazione cresceva; cosicchè ben presto l’Italia tutta si raccolse, dimenticata ogni altra cura o interesse, nella attesa della solennità unica; da Augusto, da Agrippa, dai Consoli, che volevano riuscisse mirabile, ai piccoli possidenti delle remote città, che si preparavano a far per questa occasione unica il viaggio lontano della metropoli; dalla aristocrazia romana, che doveva figurar nella festa con gli uomini suoi più rispettabili, con le sue donne più belle e più caste, con i suoi giovinetti più promettenti, ad Orazio, che pur essendo più misantropo e malcontento che mai, pur credendo poco alla sincerità della festa e di chi la faceva, non aveva saputo rinunciare a scrivere una bella poesia, che il pubblico nemico dovrebbe per forza ascoltare, questa volta. Senonchè in quale misura le masse capirebbero e sentirebbero l’idea cardinale della festa: la necessità di rigenerar Roma, non aspettando dagli dèi la favolosa età dell’oro, ma praticando le severe virtù, di cui le leggi approvate l’anno precedente imponevano l’osservanza; vivendo semplicemente, virtuosamente, austeramente nella famiglia feconda? Intanto si avvicinava il 1.° giugno; turbe immense giungevano a Roma. Ma una difficoltà si presentò. La lex de maritandis ordinibus interdiceva gli spettacoli pubblici ai celibi. Un grande numero di persone avrebbe quindi dovuto essere escluso: e tra queste, singolare esclusione, anche Orazio, il poeta che componeva l’inno ufficiale della grande cerimonia. Il 23 maggio, cedendo a molteplici sollecitazioni, il Senato sospendeva per queste feste il divieto della lex de maritandis ordinibus e ordinava che un commentarium dei ludi fosse scritto sopra una colonna di bronzo ed un altro sopra una colonna di marmo495; due giorni dopo i quindecemviri, considerato il grande numero degli intervenuti, deliberavano che la distribuzione del suffimenta si facesse non in uno, ma in tre giorni: il 26, il 27, il 28 maggio496.

Purificati gli uomini liberi, le cerimonie incominciarono nell’ultima notte di maggio. Nel Campo Marzio sulla riva del Tevere, nel luogo, indicato dall’Oracolo, in cui il Tevere è più stretto e profondo497, cioè nella parte oggi adiacente al Ponte Vittorio Emanuele, erano state costruite tre are e vicino una scena, ma senza annesso il teatro, e quindi senza sedili, affinchè gli spettatori assistessero allo spettacolo in piedi, e la cerimonia fosse improntata ad una maschia solennità arcaica, ricordante i tempi in cui non si conoscevano nè comodi sedili, nè provvidi tendoni per riparare dal sole498. Nella notte dunque il popolo si pigiò nel Tarentum verso la seconda ora, nella oscurità illuminata soltanto dalle stelle nel cielo e dalle tre are fumanti in fondo, al buio, sulla riva del Tevere; tra quelle faci comparve Augusto seguìto da tutto il Collegio dei quindecemviri499; e immolò 9 agnelle e 9 capre sulle tre are500 achivo ritu, alla greca501: poi nel gran silenzio, sotto la notte, rivolse per tutti i cittadini e i liberi, presenti ed assenti, alle dee che volgono e rompono con le loro dita i tenui fili della vita, una preghiera esplicita e asciutta come un contratto, e di cui sarebbe impossibile rendere in una traduzione tutta la incredibile arcaica aridità, e la celerità mercantile. La riporto quindi nel testo, come gli eruditi l’hanno ricomposta dai rotti avanzi: “Moerae, uti vobis in illeis libreis scriptum est, quarum rerum ergo, quodque melius siet p. R. Quiritibus, vobis VIIII agnis feminis et IX capris feminis sacrum fiat; vos quaeso praecorque uti imperium maiestamque P. R.... Quiritium duelli domique auxitis utique semper nomen Latinum tuaeamini,... incolumitatem sempiternam victoriam valetudinem populo romano Quiritibus tribuatis faveatisque populo Romano Quiritium legionibusque populi R. Quiritium remque p. populi Romani Quiritium salvam servetis,... uti sitis volentes propitiae p. R. Quiritibus quindecivirum collegio mihi domo familiae et uti huius... sacrificii acceptrices sitis VIIII agnarum feminarum et VIIII caprarum feminarum propriarum immolandarum; harum rerum ergo macte hac agna femina immolanda estate fitote volentes propitiae p. R. Quiribus quindecemvirorum collegio mihi domo familiae”502. Cioè non a me Augusto, alla famiglia e alla casa di Augusto; ma a me presente, cittadino, uomo libero, recitando Augusto la formola della preghiera, che in quel momento doveva esser sulle labbra di tutti i presenti, di tutta l’Italia; e che chiaramente, senza circonlocuzioni, proponeva alla deità il contratto; da una parte 9 agnelle e 9 capre, offerte alle dee, dall’altra la felicità dello Stato e dei privati data in cambio dei sacrifici dalle dee; una preghiera antica per la lingua, per la elocuzione, per le formole. Non si parla che di populus romanus e di Quiriti, in una cerimonia a cui erano invitati tutti i liberi! Compiuto il sacrificio, si accesero i lumi sulla scena e grandi fuochi, e sulla scena si rappresentarono vari spettacoli503 che il pubblico guardò in piedi, mentre 110 matrone, tante quanti gli anni del secolo, offrivano a Diana e a Giunone un sellisternio o banchetto sacro504. Il giorno seguente, solennità in Campidoglio: Agrippa e Augusto, i due colleghi, sacrificarono ciascuno un bue a Giove Ottimo Massimo, ripetendo a Giove la monotona filastrocca con cui nella notte Augusto aveva già pregate le Moire505: poi in un teatro di legno costruito sul Campo Marzio presso il Tevere e provvisto, questa volta, dei necessari sedili, si rappresentarono i ludi latini, mentre continuavano sulla scena costruita nel Tarento i ludi incominciati la notte innanzi506. Ci fu in questo giorno un nuovo sellisternio, offerto dalle madri di famiglia507, e i quindecemviri sospesero i lutti privati delle donne508. Alla notte, nuovo sacrificio nella oscurità del Tarento, in riva al Tevere, alle Ilitie, le dee della fecondità: sacrificio incruento di 27 focaccie, in tre volte e di tre specie diverse, accompagnato dalla consueta preghiera a cui Augusto mutò solo il nome della dea509. Il 2 giugno era riserbato ad un grande sacrificio a Giunone sul Campidoglio, e alle matrone, per simboleggiare l’ufficio religioso che nello Stato e nella famiglia ha la donna, la quale, se non deve attendere alle pubbliche cose, può unire efficacemente le sue preghiere a quelle degli uomini per implorare la protezione degli dèi. 110 madri di famiglia, tante quante gli anni del secolo, scelte dai quindecemviri tra le più nobili e rispettate di Roma, ricevevano l’ordine di trovarsi sul Campidoglio al sacrificio; e dopochè Agrippa e Augusto ebbero immolato ciascuno una vacca510, dopochè Augusto ebbe ripetuto a Giunone quello che già aveva detto alle Parche, a Giove, alle Ilitie, si inginocchiarono tutte e recitarono una lunga preghiera un poco, ma non molto diversa dalla solita per domandare a Giunone, genibus nixae, che proteggesse la repubblica e la famiglia, desse ai Romani eternamente la vittoria e la forza511. Nuovi giuochi poi per tutta Roma512. E alla notte, nel Tarento, il terzo sacrificio notturno alla Terra madre, con la quinta ripetizione della consueta preghiera e seguita dal solito sellisternio513. Il 3 giugno infine si compiè l’ultima e maggiore solennità: il sacrificio delle 27 focaccie già offerte alle Ilitie, in onore di Apollo, nel suo tempio sul Palatino514. Ma quando il sacrificio fu compiuto, quando Augusto ebbe per la sesta volta recitata la sua monotona prece, quando il seguito così poco variato di cerimonie durate tre giorni fu per finire, allora finalmente l’ode di Orazio, cantata da 27 fanciulli e da 27 fanciulle, spiccò il volo, si librò, come un’allodola sulle ali, sulle strofe vigorose, sparse la sua melodia nell’immenso cielo di Roma, che non aveva ancora udito tra i sette colli labbra umane rivolgere agli dèi così dolci, così molli, così armoniose preghiere. Che diversità tra le preghiere protocollari, recitate da Augusto e dalle 110 matrone, grevi di pronomi relativi e di gerundi strascicanti la lunga terminazione, e queste strofe alate, leggere e robuste, volteggianti nell’aria come uno stormo di uccelli leggiadri e canori; questa poesia che riassume, ma con ben altra dignità di forme, i complessi significati della lunga cerimonia: la mescolanza mitologica dei simboli astronomici e morali, la commemorazione delle recenti leggi sociali, la glorificazione delle grandi tradizioni di Roma, le aspirazioni alla pace, alla potenza, alla gloria, alla prosperità e alla virtù, che è la condizione suprema di tutti i beni agognati dall’uomo. In un proodo di due strofe, i fanciulli e le fanciulle invocano Apollo e Diana515:

Febo e Dïana che le selve regni,

lucido onor del ciel, sempre adorandi

e adorati, ciò date che nel sacro

tempo preghiamo,

quando, ammonendo i sibillini versi,

vergini elette e giovinetti casti

agli Dèi ch’ebber cari i sette colli

dicono un carme.

Poi i fanciulli si rivolgono ad Apollo, al Dio della luce, al Sole; e gli cantano la strofa che nessun figlio di Roma potrà leggere mai, neppur venti secoli dopo, senza commozione:

Almo Sol, che col nitido tuo carro

dài, togli il giorno, e un altro ed ognor quello

rinasci, oh nulla tu maggior di Roma

possa vedere!

Seguono le fanciulle, confondendo Diana con Ilitia e Lucina, le dee della Generazione:

Tu proteggi le madri, Ilitia, ch’usi

trar blanda in luce i maturati germi,

Lucina ti piaccia esser chiamata

o Genitale.

E continuano i fanciulli, invocando il favore della dea sulle leggi approvate l’anno innanzi:

Diva, e tu cresci i figli, ed i decreti

de’ Padri afforza su le donne a nozze

pronte e la legge marital di nova

prole ferace.

Sarà così possibile – ripigliano le fanciulle – celebrare ogni 110 anni, per tre dì e per tre notti, i ludi saeculares.

sì che il certo rotar de l’anno cento

decimo e canti riconduca e ludi

al chiaro dì tre volte e tre a l’amica

notte frequenti.

E alternandosi i fanciulli e le fanciulle invocano poi le Parche, le dee del destino; poi la Terra madre della fertilità e della prosperità; quindi Apollo di nuovo, come dio della Salute, che mite e pacato ripone il dardo; e Diana, questa volta sotto la forma astronomica della luna falcata:

E voi, Parche ricantanti il vero

che fu detto una volta e stabilito

ne l’ordine del mondo, ai corsi or buoni

fati aggiungete.

D’armenti e messi fertile la Terra

doni a Cerere spicëa corona,

nutrano i frutti le salubri acque,

l’aure di Giove.

Mite e placido tu, deposto il dardo,

ascolta, Apollo, i supplici garzoni;

bicorne donna de le stelle, ascolta

tu le fanciulle.

Invocati così partitamente il Sole, la Fecondità, il Destino, la Prosperità, la Luna, i fanciulli e le fanciulle, continuando probabilmente ad alternare le strofe, unitamente si rivolgono a tutti gli dèi dell’Olimpo, per innalzare loro in poche strofe stupende il voto universale di Roma e dell’Italia; il voto che riassumeva tutti i rimpianti, tutti i rammarici, tutte le aspirazioni, tutte le speranze, tutti i sogni fluttuanti come un oceano di mobili vapori entro l’anima della nazione, in quel primo ristoro dell’immensa catastrofe.

Se vostr’opera è Roma, e de le teucre

torme una parte il lido etrusco tenne,

mutar costretta in salvatrice corsa

patria e penati,

(e a lei per Troia in fiamme il casto Enea

libera via senza perigli aperse,

a la patria superstite, per darle

più del perduto)

Dèi, a la docil gioventù il costume.

Dèi, quiete a la placida vecchiezza,

date al romuleo seme, averi, prole,

tutte le glorie,

e il buon sangue di Venere e d’Anchise

ciò che vi prega con i bianchi bovi

consegua, primo in guerreggiar, ma mite

sovra il giacente.

Ecco già il Medo in terra e in mar possenti

teme le mani e le latine scuri,

chiedon comandi già, testè superbi,

gli Indi e gli Sciti.

Già Fede, Pace, Onor, Virtù negletta

Pudore antico osano far ritorno,

e beata apparir col corno pieno

ecco la Copia.

L’augure Apollo per il fulgid’arco

bello e gradito da le nove Muse,

che l’egre membra con la salutare

arte ristora,

se guarda amico il palatino colle,

spinge il poter di Roma ed il felice

Lazio ad un altro secolo ed a tempi

sempre migliori.

E una ultima invocazione, sommesso e discreto congedo di devoti che si sentono l’anima pia dopo avere pregato, chiude il coro:

Le preghiere dei quindici Dïana

cura d’Algido in vetta e d’Aventino,

ed ai voti dei giovini benigno

porge l’orecchio.

Certa e buona speranza a casa porto

che questo piace a Giove e a tutti i Numi,

io Coro, in glorïar Febo e Dïana

fatto maestro.

Bella poesia; mirabile inno alla vita nelle sue forme molteplici, al Sole, alla Fecondità, all’Abbondanza, alla Virtù, alla Potenza, mitologicamente stilizzate alla greca. Poesia troppo bella, anzi. Chi confronta questa stupenda preghiera con le asciutte formole recitate da Augusto, intende a fondo il disagio e l’incertezza e la contradizione di quell’età. Da una parte sta una vecchia religione politica mummificata nel suo materialismo barbarico e nel suo secolare ritualismo: dall’altra dei tentativi di ravvivarla con l’arte, la mitologia e la filosofia greca, eleganti ma puramente intellettuali, che non scaturiscono da una nuova pietà. Il carme secolare era una bella opera d’arte, come una bella opera d’arte era il tempio di Apollo, costruito da Augusto, tra le cui colonne era stato recitato: ma era una grande lirica umana, non un fervido carme religioso; e poteva essere scritto anche da un grande artista, il quale considerasse quei numi come puri simboli intellettuali, atti a personificare artisticamente certe astrazioni. Senza dubbio il rozzo contadino o l’ignaro plebeo di Roma potevano ancora credere di ottenere dalle Parche o da Apollo quello che desideravano, ripetendo le formole dette da Augusto: ma come poteva servire per governare l’impero quella vecchia religione, ora che della religione la aristocrazia non sapeva servirsi più per disciplinare le masse? E quanta virtù avrebbero i bei versi di Orazio di rinforzare la conscienza dei doveri nella corrotta e frivola nobiltà, che li ripeteva perchè suonavano bene? Insomma i ludi secolari provano che i tentativi fatti per rinnovare con l’ellenismo la vecchia religione romana generavano piuttosto della confusione che un qualche ringiovanimento. Potè quindi il coro dei 27 fanciulli e delle 27 fanciulle recarsi a ripetere il carme sul Campidoglio516; potè il popolo quel giorno godersi, oltre i consueti ludi, anche una corsa di quadrighe517; poterono i quindecemviri, per compiacere all’universale allegrezza, aggiungere 7 giorni di ludi honorarii ai tre di ludi solemnes, imponendo solo un giorno di riposo, il 3 giugno518; ma la buona e certa speme che il coro di Orazio diceva di aver portato a casa, era una bella menzogna poetica. Mentre l’Italia si baloccava in Roma con questi riti, con queste cerimonie, con queste cantate, le provincie europee dell’impero si apprestavano a commentare con una vasta rivolta i Giuochi secolari e il loro Carme. Il lungo disordine dell’ultimo secolo aveva in tutto l’impero invertito a tal segno, da un luogo all’altro, il corso naturale delle cause e degli effetti, che la Pace, proprio la Pace, attizzava allora un gran fuoco di guerra nelle Alpi e nelle provincie europee. Se l’Italia e le ricche Provincie di Oriente avevano ricevuto indicibil ristoro dalla Pace, le rozze genti che obbedivano a Roma nelle Alpi, nella Gallia transalpina, nella Spagna, nella Pannonia non avevano troppo gradito i doni che essa aveva serbato in fondo al grembo per loro: le leve più frequenti e rigorose degli ausiliari, la rafforzata autorità dei proconsoli e dei propretori; sopratutto le nuove imposte deliberate da Augusto e percepite con vigore dai suoi procuratori, per rifare il disfatto tesoro della repubblica. In quelle regioni, avvezze da lungo tempo a tributare all’autorità romana un omaggio formale, tirava da un pezzo vento di rivolta; anche in Gallia, dove il censo ordinato e i nuovi tributi imposti da Augusto avevano in quei dieci anni rotta a mezzo la pacificazione della nazione e ricacciata questa indietro nelle discordie e nelle torbide macchinazioni di un tempo519. Licino, il famoso liberto di Augusto incaricato di curare la riscossione dei tributi, impersonava agli occhi dei Galli questo improvviso e detestato rivolgimento della politica romana. Primo forse dei Romani, Licino – che per l’ufficio suo viaggiava la Gallia, conosceva possidenti, mercanti, artigiani, spiava la ricchezza di tutte le classi – aveva veduto apparir qua e là, nella fredda, brumosa, barbara Gallia, i segni di un prossimo meraviglioso arricchimento; primo forse aveva intravista la prosperità e la grandezza a cui era destinata quella terra520: ma per servirsene intanto a mostrare al suo signore che egli era maestro nell’arte di spremere oro ed argento. In nessuna parte dell’impero nessun governatore o questore o legato o procuratore di Augusto aveva data opera a ricostituire il tesoro della repubblica con tanto zelo come Licino in Gallia, ma nessuno neppur con così pochi scrupoli; e cioè seguendo in ogni parte della Gallia gli ufficiali incaricati di fare il censo, interpretando le istruzioni di Augusto a modo suo, mettendo innanzi la sua persona più che non convenisse a un liberto del princeps, il quale in Gallia era soltanto un aiuto privato del legatus, imponendosi infine anche a costui, e non trascurando di empire, insieme con la cassa dell’erario, la cassa sua. Egli sapeva che a Roma nessuno sofisticherebbe troppo sui mezzi, in tanta strettezza dell’erario, se i frutti fossero copiosi. Senonchè un grave malcontento era rinato in Gallia; e nella nobiltà si ricostituiva un partito antiromano: grave pericolo in sè, accresciuto da un pericolo nuovo, o meglio da un pericolo antico che rinasceva; il pericolo germanico. Con la vittoria su Ariovisto, Cesare aveva ributtati i Germani fuori di Gallia, e chiuse loro alle spalle saldamente le porte della nuova provincia romana: ma quaranta anni erano passati dalla disfatta del re degli Svevi, e durante quelli, mentre il prestigio di Roma scemava, nuove generazioni erano cresciute, al di là del Reno, le quali non avevano visto Cesare in armi in Gallia; le quali ritornavano a vagheggiare le belle terre fertili della Gallia, antichissima aspirazione delle loro genti, il vasto campo di emigrazione, di conquista e di preda – la colonia diremmo adesso – a cui prima dell’invasione romana i Germani avevano adito così facile, e che non erano difese che da cinque legioni. Agrippa sembra essersi per il primo accorto che Roma doveva stare all’erta, non ricominciasse una parte della nobiltà gallica ad occhieggiare ai Germani, non tornasse ai Germani la speranza di riconquistarla; e nell’ultima sua dimora in Gallia aveva immaginato due grandi accorgimenti politici per integrare in Gallia la insufficiente forza militare: uno dei quali era inteso a placare il risentimento dei Galli per le contribuzioni accresciute; l’altro, a prevenire una invasione germanica pacificamente. A una grande moltitudine di Ubii, che abitavano lungo la sponda germanica del Reno, permise di passare il fiume e di occupare al di qua vaste terre incolte521, sperando così di amicarsi le popolazioni rivierasche e di confine, e di convertire in sudditi laboriosi, quelli che altrimenti sarebbe stato forse un giorno costretto a distruggere come bestie selvaggie. Per la Gallia invece Agrippa, con la sua mente larga e possente, aveva visto che Roma, non essendo più forte abbastanza da imporla senza mormorazioni, doveva giustificare agli occhi stessi dei Galli l’esazione dei gravi tributi, rendendo loro qualche servizio, facendo anche in Gallia, ciò che Augusto aveva incominciato a fare in Asia: curando cioè la coordinazione degli interessi tra le parti diverse della nazione, in antico e diuturno contrasto. La pace riconfondeva nel comune desiderio di imitare la civiltà greco-latina e di trarre partito dal nuovo ordine di cose, le aristocrazie locali che la guerra aveva nei secoli precedenti scagliate furibonde l’una contro l’altra; crescendo le città ed il commercio, sia quello interiore, sia quello con la Germania e con l’Italia, cresceva pure di numero e di importanza il ceto degli artigiani e dei mercanti, i quali avevano bisogno, proprio come in Asia, che la pace, l’ordine, la sicurezza, regnassero oltre i confini dello staterello a cui appartenevano. Chi poteva assicurare questa pace, in Gallia come in Asia, se non Roma? Agrippa aveva visto che doveva incominciare dal rifare alla nazione una ossatura di strade; e aveva in quegli anni disegnato e incominciato a costruire il grande quadrivio della Gallia: le quattro strade che da Lione andavano una a Nord, sino all’Oceano, probabilmente al villaggio a cui metteva capo la navigazione per la Bretagna; una a Sud, sino a Marsiglia; una ad Est sino al Reno; una ad Ovest, attraverso l’Aquitania, sino alla Saintonge522, naturalmente adoperando nel tracciato ed allargando le strade galliche già esistenti. Così i denari spremuti da Licino alla Gallia erano in parte spesi in Gallia a vantaggio della Gallia.

Ma Agrippa aveva dovuto interrompere a mezzo la vasta sua opera, per venire a Roma a far con Augusto le leggi sociali, e a celebrare i ludi saeculares. Così la tempesta che si accumulava da un pezzo verso la frontiera settentrionale, scoppiò al principio dell’anno 16. Nel tempo stesso, o quasi, i Bessi si ribellarono in Tracia contro il re Rimetalce, imposto dai Romani: la Macedonia fa invasa da Denteleti dagli Scordisci e pare anche dai Sauromati; i Pannoni insorsero, traendosi dietro nella rivolta anche il regno del Norico, che era soltanto protetto e invasero l’Istria; nelle Alpi presero le armi i Vennoneti e i Camunni523. Abitavano i primi nella Valtellina, forse anche in una parte della Valle dell’Adige e nell’alta valle dell’Inn524; i secondi nella valle Camonica, che ancora ne serba il nome. Sul principio dell’anno 16 un fragoroso strepito d’armi giunse quindi da ogni parte a Roma, donde Augusto si trovava a disagio in mezzo ai primi effetti delle sue leggi sociali. L’albero piantato con tanta fatica aveva dato dei frutti molto singolari. Intanto era ormai chiaro che la epurazione del Senato, richiesta dal partito della nobiltà come una misura di salvezza suprema, non aveva altro effetto che di vuotare anche più di prima le sedute del Senato; e di mostrare quindi a tutto il popolo la negligenza civica di quella aristocrazia, che con tanta arroganza si atteggiava di nuovo a privilegiata signora dello Stato525. E gli esclusi ripigliavano coraggio, stringevano intorno ad Augusto l’assedio delle sollecitazioni, ritornavano all’assalto della sua severità censoria, battendola in breccia con la catapulta di questo argomento inconfutabile: perchè infliggere a tanti senatori modesti l’affronto di essere scacciati, se i rimasti, gli uomini insigni, i nobiloni, non valevano di più? E uno dopo l’altro, alla spicciolata, gli esclusi rientravano526. Ma difficoltà più gravi generavano leggi sul matrimonio e sull’adulterio. Augusto si era affrettato ad adottare i due figli di Agrippa e di Giulia, Caio e Lucio, dei quali il primo aveva tre anni e il secondo pochi mesi, per dare il buono esempio, mettersi in regola con la lex de maritandis ordinibus, e poter dire di avere anche esso, come la legge prescriveva ad ogni buon cittadino, allevato alla repubblica tre figli: Giulia e questi due527. Agrippa aveva una figlia, generata da Pomponia, la moglie di Tiberio; ed era ancor vigoroso, quanto bastava per avere da Giulia altri due bambini; adottando due fanciulli in tenera età, Augusto non potrebbe essere accusato di eluder lo spirito della legge e di sfuggire ai carichi e ai doveri della lunga educazione. Ma se, come sempre, Augusto aveva saputo ingegnosamente risolvere la difficoltà sua, di cui gli era cagione la sterilità di Livia, non tutti invece potevano così facilmente, come egli, mettersi in regola con la legge. Inoltre i primi processi pubblici di adulterio avevano sùbito dato a divedere che lo Spionaggio, il Ricatto, la Delazione, introdotti tra gli dèi Lari a vegliare sulla purità del focolare domestico, purificavano sì le case, ma gettando le sozzure accumulate nella famiglia in mezzo alla via, anche a rischio di imbrattare i passanti ancor mondi. Il pubblico correva ai processi per adulterio come ad uno scandaloso divertimento, tanto facilmente le parti si accapigliavano con ingiurie immonde, turpi accuse, sucide rivelazioni528; e pigliava tanto gusto a curiosar nelle altrui faccende, che ormai teneva gli occhi addosso anche a Terenzia e ad Augusto nel modo più molesto. Erano tutti curiosi di sapere se davvero anche in questa materia l’autore della legge darebbe l’esempio dell’osservanza529. Infine se si poteva dubitare che queste leggi rigenerassero Roma, era certo che accrescerebbero i piati e i processi: cosa pericolosa, ora che, mentre la vecchia lex Cintia sonnecchiava, molti senatori, cavalieri, plebei, cercavano di guadagnare denaro con l’avvocatura. I processi si moltiplicano, ingrossano, si allungano interminabilmente quando l’avvocatura è rimunerata.... Per tutte queste ragioni Augusto aveva voluto rinfrescar a tutti nella memoria i divieti della lex Cintia, facendo riconfermar dal Senato, con una speciale deliberazione, le disposizioni che riguardavano gli onorari dei processi; e aveva fatto deliberare, pur dal Senato, una multa per i senatori che mancassero senza ragione alle sedute530. Ma da un pezzo egli pensava a metter mano al consueto espediente dei momenti difficili: sparire; uscir di nuovo di Roma, dove gli era altrettanto spinoso il fare eseguire le sue leggi, quanto pericoloso il lasciarle a poco a poco logorare dalla inosservanza impunita531.... Tante rivolte offrivano già un pretesto decoroso alla fuga da lungo divisata. Notizie anche più gravi seguirono di lì a poco, e diedero l’ultima spinta alla sua intenzione: i Germani tentavano di riaprir le porte delle Gallie, chiuse loro da Cesare. Partito Agrippa, era rimasto a governare la Gallia un uomo in cui Augusto aveva molta fiducia e che per certe qualità la meritava: Marco Lollio, che era stato il primo governatore della Galazia dopo l’annessione e console nel 21. Lollio era un uomo alacre, intelligente, ma avidissimo; che accumulava un gigantesco patrimonio all’ombra dell’amicizia di Augusto, con grande abilità, senza compromettersi, e che allora spremeva, d’accordo con Licino, i Galli per arricchire l’erario e sè medesimo. Non poteva quindi esser molto amato dai Galli. Parte per questa ragione, parte per la repentinità dell’assalto, parte forse per qualche errore suo, Lollio non seppe ricacciare gli invasori al di là del Reno, fu battuto in parecchi scontri, perdette un’aquila della V legione; e alla fine, spaventato, mandò a domandare aiuto ad Augusto. Venisse subito il figlio di Cesare a disperdere il rinascente pericolo germanico, a infrenare le Gallie turbolente532.

Queste notizie dovettero in Roma e in Italia sviare per un momento lo spirito pubblico dalle interne questioni e dagli scandalosi processi per adulterio. La contemporaneità di tante rivolte, come induce lo storico moderno a domandarsi se in realtà non ci fu tra questi popoli qualche intesa, doveva esser cagione di viva inquietudine al governo ed al pubblico. E se ricomparisse in Gallia un Vercingetorice, quando metà delle provincie europee erano minacciate di guerra? D’altra parte Augusto, tutto fresco e ancor raggiante della gloria dell’accordo con i Parti, doveva domandarsi quali sarebbero le ripercussioni di questa crisi europea in Oriente, dove pure ogni cosa si reggeva in bilico per miracolo. Se Fraate approfittasse della congiuntura favorevole e dei suoi imbarazzi, per far pari con lui e ripigliare l’Armenia? Insomma gli dèi parevano dare con i fatti una risposta ironica alle poetiche invocazioni del Carmen saeculare. Per fortuna accanto ad Augusto c’era Agrippa; e i due principes poterono prendere rapidamente i necessari provvedimenti. Si riconobbe che in Gallia doveva, in un momento così pericoloso, andare il figlio di Cesare, il cui nome solo, per l’impressione che nelle guerre può tanto, valeva parecchie legioni. Agrippa invece andrebbe in Oriente, per tener ferme laggiù le cose con la presenza, e, se la presenza non bastasse, con il braccio, mentre Augusto ricomporrebbe l’ordine in Europa. Roma e l’Italia sarebbero affidate a Statilio Tauro, nominato dal Senato praefectus urbi all’antica533; Publio Silio, il governatore dell’Illiria, che era già partito contro i Pannoni ed il Norico, per respingerli dall’Istria, piegherebbe, liberata l’Istria, nella Valle del Po e si recherebbe a combattere i popoli ribellati delle Alpi534.

Così fu fatto. Il Senato approvò tutto. Agrippa partì per l’Oriente, portando seco, non ostante gli antichi divieti rinnovati da Augusto, Giulia535. Non si giudicò prudente, dopo l’approvazione della lex de adulteriis, di lasciarla a Roma, lontana dal marito e dal padre, e pienamente libera di ricevere gli omaggi, e di ascoltare gli sdolcinati discorsi dell’inutile ed elegantissimo Sempronio Gracco? Agrippa aveva fretta di colmare il vuoto fatto nella sua famiglia dalle adozioni di Augusto? Augusto invece, dopo aver inaugurato il tempio del Dio Quirino536, si condusse seco Tiberio, che in quell’anno era pretore, facendo autorizzare dal Senato il fratello Druso a compierne in sua vece le funzioni, per aver seco un giovane nel cui ingegno e nella cui serietà riponeva piena fiducia537. Ma quando giunse in Gallia, il nome di Cesare aveva già ricacciato al di là del Reno i Germani. Egli trovò la Gallia vuota di invasori e all’opera, ma più terribile degli invasori, il solo Licino538.

FINE DEL QUARTO VOLUME.

INDICE.

I.
Il mito di Augusto.
(Pag. 1 a 53)539.

Illusioni e aspirazioni dell’Italia. – Augusto e il grande impero. – Accordo apparente tra Augusto e l’Italia. – La politica orientale, secondo l’opinione pubblica. – La politica orientale, secondo Augusto. – Le conseguenze di questo primo malinteso. – Altri disaccordi tra Augusto e l’opinione pubblica. – La riforma dei costumi. – Augusto e la riforma dei costumi. – “Nec vitia nostra nec remedia pati possumus”. – La restaurazione delle finanze imperiali. – Nuove miniere e nuove imposte. – Principî e procedimenti del governo augusteo. – Come Augusto riordinò i conti dello Stato. – Il nuovo governo e Roma. – Il nuovo governo e l’aristocrazia. – Il primo viaggio di Augusto: suoi pretesti e ragioni. – Il “praefectus urbi”. – Il vicerè di Egitto. – Prime difficoltà egiziane. – La partenza di Augusto.

II.
I primi effetti della conquista dell’Egitto e il capolavoro di Orazio.
(Pag. 54 a 123).

La famiglia di Augusto. – La nuova repubblica e i giovani. – Il “conventus” di Narbona. – La Gallia nel 27 a. C. – Venticinque anni dopo Alesia. – La cultura del lino in Gallia. – I principî del romanesimo in Gallia. – Il primo scandalo del nuovo regime. – Le accuse contro Cornelio Gallo. – Augusto e lo scandalo. – Messala si dimette dalla “praefectura urbis”. – La guerra di Spagna. – L’edilità di Marco Egnazio Rufo. – La candidatura di Rufo a pretore. – Il secondo “praefectus Ægypti”. – I difetti della nuova costituzione. – Le istituzioni repubblicane e i nuovi costumi. – L’arte alessandrina. – Gli artisti alessandrini a Roma. – L’amore, la famiglia e la donna. – La corruzione dei costumi. – La decadenza morale della nobiltà. – La poesia erotica: Tibullo e Properzio. – La pace e la guerra nelle elegie di Tibullo. – Cinzia e Properzio. – La contradizione fondamentale della società romana. – Orazio e le odi. – Orazio e la tradizione. – La composizione delle odi. – L’unità ideale delle odi. – Le odi civili e le odi erotiche. – L’ideale della vita, secondo Orazio. – Contradizioni e incertezze. – La paura della morte.

III.
La rinascenza religiosa e l’“Eneide”.
(Pag. 124 a 163).

Disordine e confusione. – La fondazione di Augusta Praetoria Salassorum. – Ambasciate a Roma. – Nuovi orientamenti dello spirito pubblico. – I progressi del movimento puritano. – La setta dei Sestii. – Ragioni del movimento puritano. – L’“Eneide”. – Il concetto fondamentale dell’“Eneide”. – Il protagonista del poema. – L’inferno dell’“Eneide”. – Orazio e Virgilio. – Complicazioni in Oriente. – Il ritorno di Augusto in Italia. – La prima magistratura di Marcello e di Tiberio. – Le occupazioni di Augusto a Roma. – La spedizione nello Yemen. – La malattia di Augusto. – Antonio Musa e i medici di Roma.

IV.
Una nuova riforma costituzionale.
(Pag. 164 a 200).

Le nuove dimissioni di Augusto. – Augusto e la nobiltà. – La discordia tra Marcello e Agrippa. – Agrippa in Oriente. – Nuovi progressi del partito puritano. – La riforma costituzionale del 23 a. C. – Il processo di Marco Primo. – L’ambasciata del re dei Parti a Roma. – Il Senato rimanda gli ambasciatori ad Augusto. – Il vero principio della monarchia a Roma. – La carestia: il popolo acclama Augusto dittatore. – La semi-dittatura. – L’insuccesso della censura di Planco e di Paolo. – La congiura di Cepione e di Murena. – La partenza di Augusto per l’Oriente. – Nuovi disordini a Roma.

V.
L’Oriente.
(Pag. 201 a 245).

La Grecia, prima della conquista romana. – La Grecia e la conquista romana. – La Grecia nell’ultimo secolo della repubblica. – Impotenza di Roma a curare i mali della Grecia. – La politica di Augusto in Grecia. – Dispute teatrali a Roma. – Le pantomime siriache. – Pilade di Cilicia. – Il tempio di Roma e di Augusto a Pergamo. – L’Asia Minore. – Le città industriali e le repubbliche greche della costa. – Le monarchie agricole dell’altipiano. – Il culto di Mitra e il culto di Cibele. – L’unità dell’Asia Minore. – L’ellenismo asiatico e le religioni asiatiche. – Le repubbliche greche e la monarchia asiatica. – L’Asia Minore dopo un secolo di dominio romano. – Indebolimento, crisi, disordine universale. – La crisi dell’ellenismo e gli Ebrei. – L’espansione ebraica in Oriente. – Il culto di Roma e di Augusto nell’Asia Minore. – La rinascita dell’ellenismo.

VI.
“Armenia capta, signis receptis”.
(Pag. 246 a 273).

Augusto e la monarchia ellenizzante. – L’accordo con i Parti e la politica asiatica. – Il protettorato romano in Oriente. – Le riforme asiatiche di Augusto. – La pace con l’impero dei Parti. – Importanza storica di questa pace. – La Siria. – L’impero siriaco delle voluttà. – Difficoltà interne nel regno di Giudea. – Augusto ed Erode. – La pubblicazione delle odi di Orazio. – La candidatura di Egnazio Rufo al consolato. – Nuovi intrighi della nobiltà. – Il ritorno di Augusto a Roma.

VII.
Le grandi leggi sociali dell’anno 18 a. C.
(Pag. 274 a 326).

La morte di Virgilio. – Orazio scrive le “Epistulae”. – Nuovi onori deliberati ad Augusto. – Si ridomanda la riforma dei costumi. – Orazio e il movimento puritano. – La morale e le leggi. – Augusto e il movimento puritano. – La fine del primo decennio di presidenza. – Difficoltà di una legislazione dei costumi. – Agrippa e Augusto presidenti della repubblica. – L’epurazione del Senato. – Augusto si accinge alla legislazione dei costumi. – La “lex de maritandis ordinibus”. – I matrimoni tra cittadini e liberte. – Gli incoraggiamenti al matrimonio. – Le pene del celibato. – La legge è approvata. – Nuova agitazione del partito puritano. – Giulia. – Esitanze di Augusto. – La “lex Julia de adulteriis”. – L’adulterio “judicium publicum”. – “Adulterium, lenocinium, stuprum”. – Scopi e caratteri di queste leggi. – La riforma timocratica della costituzione.

VIII.
I “ludi saeculares”.
(Pag. 327 a 373).

La città universale. – La nobiltà e la plebe. – Gli intellettuali e le grandi famiglie. – Rinascente fiducia. – I “ludi saeculares” nei secoli precedenti. – I “ludi saeculares” di Augusto. – Molteplici significati dei “ludi”. – L’ordine delle cerimonie. – I “suffimenta” e le “fruges”. – Gli ultimi preparativi della festa. – La preghiera alle “Moerae”. – La cerimonia del 1.° e del 2 giugno. – Il “Carmen saeculare”. – Nuovi pericoli nelle provincie europee. – Licino e la Gallia. – La politica gallica di Agrippa. – Agrippa e la rete stradale della Gallia. – Augusto adotta i due figli di Agrippa. – I primi effetti delle leggi sociali. – Una invasione germanica in Gallia. – Agrippa in Oriente e Augusto in Gallia.