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Guglielmo Ferrero
Grandezza e decadenza di Roma
Vol. III
Da Cesare ad Augusto
Indice generale
PREFAZIONE.
I.
TRE GIORNATE TEMPESTOSE
(15, 16, 17 marzo 44 a. C).
II.
I FUNERALI DI CESARE.
III.
DISSOLUZIONE UNIVERSALE.
IV.
IL FIGLIO DI CESARE.
V.
LA LEGGE AGRARIA DI LUCIO ANTONIO.
VI.
LA “LEX DE PERMUTATIONE”.
VII.
I VETERANI ALL’INCANTO.
VIII.
IL “DE OFFICIIS”.
IX.
LE FILIPPICHE E LA GUERRA DI MODENA.
X.
“TRIUMVIRI REIPUBLICAE COSTITUENDAE”.
XI.
LA STRAGE DEI RICCHI E FILIPPI.
XII.
FULVIA E LA GUERRA AGRARIA D’ITALIA.
XIII.
CLEOPATRA ED OTTAVIA.
XIV.
IL FIGLIO DI POMPEO.
XV.
IL DISASTRO DI SCILLA
E LA VENDETTA DI CRASSO.
XVI.
LE GEORGICHE.
XVII.
LE NOZZE DI CLEOPATRA E DI ANTONIO.
XVIII.
LA GRANDE SPEDIZIONE PARTICA.
XIX.
ANTONIO E CLEOPATRA
XX.
IL NUOVO IMPERO EGIZIANO.
XXI.
AZIO.
XXII.
LA CADUTA DELL’EGITTO.
XXIII.
LA RESTAURAZIONE DELLA REPUBBLICA.
INDICE.
1904
PREFAZIONE.
In questo volume, con lo stesso metodo adoperato nei due precedenti,
ho studiati e narrati gli eventi che dalla morte di Cesare vanno
alla seduta del Senato in cui Ottaviano ricevè il titolo di
Augustus. Sono diciassette anni di storia – dal 15 marzo del 44 a.
C. al 16 gennaio del 27 a. C. –: diciassette anni tra i più
importanti della storia di Roma, perchè in essi è la
ragione ultima di tutto il governo e di tutta l’opera augustea; tra
i più difficili, perchè, eccezion fatta della
primissima parte, i documenti sono molto frammentari, confusi,
lacunosi, guasti dalle falsificazioni dei partiti e dagli errori
degli storici, che narrarono nei secoli seguenti quegli eventi senza
comprenderli.
Ho quindi dovuto abbondare nelle analisi critiche, per spiegare
minutamente il procedimento con cui ho scomposto nei suoi elementi
la tradizione per poi ricomporla. Non bastando a questo scopo le
note poste a piè di pagina, pubblicherò tra qualche
mese un volumetto di appendici critiche, dove saranno minutamente
analizzati i documenti su quattordici punti tra i più gravi,
in cui mi sono maggiormente allontanato dalla tradizione.
La mia ricerca ha conchiuso in modo diverso dalla tradizione
sopratutto in due punti molto importanti. Io considero come una
leggenda, che non ha fondamento alcuno nei documenti, l’affermazione
tante volte ripetuta che Augusto fu l’esecutore dei disegni di
Cesare. Quali si fossero – e noi non lo sappiamo con precisione –
questi disegni, nei diciassette anni, la cui storia è narrata
in questo libro, avvenne un così grande sconvolgimento, le
condizioni dell’Italia e dell’Impero mutarono talmente, che Augusto
ebbe un compito del tutto diverso da quello che spettò a
Cesare. Un altro grande errore, che ha travisata tutta la storia
della prima parte dell’Impero, giudico poi l’altra idea, comunemente
accettata, che Augusto sia il fondatore della monarchia a Roma. Egli
fu invece l’autore di una restaurazione repubblicana, vera e non
formale.
Torino, 7 dicembre 1903.
Guglielmo Ferrero.
DA CESARE AD AUGUSTO
I.
TRE GIORNATE TEMPESTOSE1
(15, 16, 17 marzo 44 a. C).
[44 a. c. 15 marzo] Ma i congiurati, i principali personaggi di Roma
ed Antonio non tardarono a riaversi dallo stupore, in cui li aveva
gettati l’improvviso assassinio di Cesare. Necessitati, durante la
congiura, a passarsi le ambasciate furtivamente, trepidando, in
conciliaboli circospetti di tre o quattro, gli uccisori non avevano
potuto affiatarsi bene; si erano intesi sul modo di ammazzar Cesare,
ma eran rimasti nel vago su quello che farebbero poi, senza altro
proposito ben definito che di proporre subito al Senato la
restaurazione della repubblica. Perciò, fallito
inopinatamente questo disegno, essi si trovavano ora soli sul
Campidoglio deserto; snervati da quella stanchezza che segue alle
grandi commozioni; un po’ sgomenti dalla gran fuga e dal grande
spavento che avevano visto nelle vie di Roma, incerti sul giudizio
che darebbe la città dell’atto loro, sul contegno dei
veterani e del popolino, che potevano diventar tracotanti, se il
pubblico titubava o era avverso. Che risolvere? Non è
difficile a spiegarsi come, in quella condizione degli animi e delle
cose, sembrasse a tutti ottimo consiglio di non far nulla senza
essersi intesi prima con gli uomini più autorevoli del
partito conservatore; e che perciò deliberassero di mandare i
servi, da cui erano stati accompagnati lassù, alle case dei
loro amici più cospicui, per invitarli a venire sul
Campidoglio. Nel tempo stesso gli uomini eminenti del partito dei
grandi, riavutisi dal primo stupore, cercavano di saper notizie dei
congiurati; e già Cicerone, che straordinariamente commosso
dall’uccisione smaniava per l’impazienza, scriveva a Basilo un
laconico biglietto, congratulandosi e domandando che si facesse2.
Nè diverso era il primo pensiero di Antonio: aver notizie e
consigli. Da chi era stato ucciso Cesare? Chi poteva chiamare a
consiglio in quel frangente così periglioso? Cosicchè
nel pomeriggio cominciarono a incrociarsi per Roma gli spediti
messaggeri, che fiutavan notizie, portavano lettere ed ambasciate
per ogni dove.
Tanto malcontento si era addensato contro Cesare nel cupo segreto
degli animi, durante gli ultimi anni, che non fu difficile trovare
un certo numero di senatori, i quali osarono recarsi sul Campidoglio
nel pomeriggio; tra questi Cicerone, il quale arrivò quasi
fuori di sè per la gioia, in una concitazione d’animo
straordinaria, che l’aveva sbalzato fuori alla fine, repentinamente,
dall’erudito torpore e dalla stanca malavoglia in cui da tanto tempo
impigriva. E tutti insieme presero a deliberare. Che fosse
necessario convocare al più presto il Senato, era chiaro: ma
chi lo avrebbe convocato? Il console superstite, a cui spettava
costituzionalmente, proponevano alcuni; e meno stoltamente forse che
non pensino certi storici moderni, troppo dimentichi che giudicare
in mezzo agli eventi è cosa più difficile del
giudicare con il senno di poi. Antonio era stato sino a pochi mesi
innanzi uno dei cesariani moderati, come Bruto, Cassio, Trebonio,
incorrendo anzi nell’ira di Cesare per la crudele repressione dei
tumulti di Dolabella nel 47; era, sì, passato all’ultimo
nella fazione opposta; ma i debiti, l’oscurità a cui l’aveva
condannato il dittatore, le sollecitazioni di sua moglie Fulvia
potevan valergli di scusa, indurre gli antichi amici a sperare che,
morto Cesare, si ravvederebbe dal breve errore. Cicerone invece, che
si esaltava ancor maggiormente ritrovando sul Campidoglio tra tanto
numero di congiurati i suoi migliori amici e gli uomini più
insigni dei due partiti già così avversi, prese a
proporre un grande ardimento: non era prudente fidarsi di Antonio;
conveniva precipitar gli eventi a proprio favore con un ardito colpo
di stato; Bruto e Cassio, che erano pretori, convocassero il Senato,
usurpando i poteri di Antonio, chiamassero i cittadini alle armi,
come ai tempi di Catilina, si impadronissero subito dello Stato:
intanto restassero tutti sul Campidoglio, come un piccolo Senato, ad
aspettare che si convocasse il vero. In che modo si divisero, nella
discussione, i pareri? Noi non lo sappiamo; ma pare che Bruto e
Cassio inclinassero al primo partito; e certo è che la
proposta di Cicerone non fu accolta. Quegli uomini di guerra e di
spada ebbero allora maggior paura che lo scrittore; non si fidarono
che il popolo, o troppo amico di Cesare o troppo infingardo, si
leverebbe al loro grido; temettero fors’anco che potesse levarsi
contro loro; tutti si profusero in congratulazioni con gli uccisori,
ma nessuno volle poi restare, per partecipare alla esecuzione del
colpo di stato; si discusse a lungo, ma il tempo passava, le
giornate di marzo non sono lunghe, e la sera si avvicinava; si
conchiuse alla fine che, riuscita felicemente l’impresa di uccider
Cesare, non era prudente guastarla con un nuovo ardimento che poteva
fallire. Si deliberò quindi di avviar pratiche di pace con
Antonio, di invitarlo a venir sul Campidoglio a discutere sulla
convocazione del Senato e la restaurazione incruenta della
repubblica, ma a quali condizioni, in che modo nessuno sapeva
chiaramente, solo promettendo subito che nessuno onore concesso a
lui da Cesare sarebbe tolto; si deliberò inoltre di preparare
per il giorno dopo delle dimostrazioni popolari, per muovere a loro
favore l’opinione pubblica; e si incaricarono delle trattative con
Antonio parecchi senatori. Cicerone però non volle prendervi
parte.
Invece par che solo Lepido, il magister equitum di Cesare, osasse in
quel pomeriggio recarsi da Antonio; e che, quando giunse alla casa
del console, costui non possedesse ancora ragguagli precisi sui
congiurati. Le notizie raccolte da servi e apparitori, in quel
pomeriggio, non potevano essere che confuse ed incerte. Eppure come
giudicar della situazione, prima di sapere da chi Cesare era stato
spento? Non è quindi inverisimile che Lepido e Antonio,
ritrovatisi insieme, mentre i congiurati discutevano sul
Campidoglio, si ingegnassero di discerner qualche cosa in quel
crepuscolo di incerte notizie; sinchè verso sera,
all’improvviso, nella tenebra in cui brancolavano, arrivò
gente munita di fiaccole: gli ambasciatori dei tirannicidi. Costoro,
come è naturale, per avvalorare le proposte di pace,
incominciarono enumerando i congiurati; e allora Antonio potè
rendersi conto, ma con grande spavento, della vastità e
gravità della congiura, capire perchè solo Lepido
fosse venuto da lui. Cesare era stato ucciso, niente meno che dalla
parte più autorevole dei due partiti, cesariano e pompeiano,
unitisi insieme a formare un partito nuovo! Gli scrittori moderni
son tutti d’opinione che, appena spento Cesare, Antonio pensò
soltanto a occupare il luogo suo nello Stato; ma a me pare
più probabile che in quella sera almeno, quando, avute
definitive notizie della congiura, levò gli occhi a spiare i
segni del tempo, egli dovette scorgere sopra il suo capo, in tutto
il cielo, delle nuvole minacciose, ed essere agitato da ben diverse
ansietà! La morte di Cesare era per lui una sciagura
terribile, perchè non solo annullava, ma volgeva in danno
maggiore il passeggiero vantaggio della sua ultima conversione. I
conservatori e i cesariani moderati, incoraggiati ora e fatti
potenti dal successo della congiura, cercherebbero impadronirsi di
nuovo dello Stato; e che cosa avverrebbe di lui, che i congiurati
dovevano considerare come un transfuga, se ci riuscissero? È
vero che gli ambasciatori avevano portate proposte amichevoli; ma
queste, invece di rassicurare, mettevano in maggior sospetto
Antonio, il quale si immaginava i congiurati, non come erano,
incerti, esitanti, paurosi del popolo, ma baldanzosi e feroci.
Quelle proposte nascondevano indubbiamente una insidia! Andar sul
Campidoglio, in mezzo ai congiurati, il cui desiderio più
ardente doveva esser di ammazzar lui come Cesare? Antonio non era
così matto da gettarsi in bocca al lupo. Ma nel tempo stesso
non poteva respinger senz’altro le proposte di pace, precipitare una
rottura definitiva, inerme e assistito solo da Lepido. In quel gran
dubbio, egli ricorse all’espediente di tutti coloro che si trovano
sprovvisti di consiglio: domandò tempo a riflettere sino alla
sera dopo.
Con sua grande gioia, gli ambasciatori accettarono; onde, partiti
questi, Antonio e Lepido poteron riprendere il colloquio con maggior
conoscenza della situazione. Essi sapevano ora che gli avanzi del
partito conservatore erano a capo della congiura; non tardarono
perciò a concordare in questo: che ad essi conveniva,
mettendo in un fascio tutti i congiurati, cesariani e conservatori,
affrettarsi a denunciare al popolo la uccisione di Cesare come una
vendetta di Farsaglia perpetrata dal partito conservatore, per
togliere ai popolari il frutto delle loro vittorie; di ingrandire il
pericolo di una restaurazione aristocratica, per concitare
così a difesa loro il partito di Clodio e di Cesare.
Deliberaron quindi di chiamare subito a raccolta gli avanzi dei
collegia di Clodio, di rintracciare gli uomini più eminenti
del partito restati fedeli a Cesare, di far venire dalle vicinanze i
veterani e di raccogliere tra quelli una piccola milizia, di cui
Lepido avrebbe assunto il comando, e con la quale difendere, se
fosse necessario, se stessi e la loro autorità. [44 a. c.
Notte del 15 marzo]. Presi questi accordi, Lepido andò a
raccogliere i soldati; e Antonio, ricordandosi alla fine del morto
collega, si recò a notte calata, con una guardia di schiavi,
al Foro, nella domus publica, dove tre schiavi avevano portato su
una barella il corpo di Cesare, a far visita alla vedova. Spento e
immoto in un lettuccio vide allora il piccolo corpo di quell’uomo di
cui aveva da più di dieci anni osservata da vicino, quasi
ogni giorno, la prodigiosa alacrità; vide e parlò a
Calpurnia.... Non credo che faticasse molto a farsi consegnare le
carte di Cesare, una somma di 100 milioni di sesterzi e gli oggetti
preziosi che Cesare teneva in casa; anzi non è improbabile
che Calpurnia stessa glieli offerisse. Una modesta donnetta, come
Calpurnia, non poteva custodir queste cose, sotto gli occhi dei
congiurati accampati sul Campidoglio; quando forse così
Calpurnia come Antonio stupivano che i congiurati non avessero
ancora pensato a questa presa, per una dimenticanza che è
un’altra prova della fretta ansiosa con cui la congiura fu
abborracciata. Di prendere le carte poi Antonio aveva quasi diritto,
come console; tanto è vero che Cesare stesso, prima di
partire, gliene aveva consegnate molte, contenenti disposizioni per
il tempo in cui sarebbe assente. Comunque sia, Antonio portò
tutto a casa sua; dove tornato, attese con alacrità
meravigliosa a mandar schiavi, liberti, clienti in ogni parte: per
Roma a svegliare i capi dei collegia e i maneggioni elettorali; per
Roma e nelle città vicine a cercare i veterani e invitarli
alla casa di Lepido, a rintracciare gli amici più influenti
di Cesare, a scovare i suoi coloni e i suoi beneficati e a sparger
dappertutto la voce: accorressero a Roma; il partito conservatore
voleva annullare ogni atto di Cesare, riprendere i beni venduti, i
doni largiti, i diritti concessi.... Nel tempo stesso, dal
Campidoglio, i congiurati, che però non avevano ben capita la
risposta di Antonio, davano mano a preparare le dimostrazioni
popolari del giorno dopo, mandando in giro schiavi, liberti,
clienti, amici a sollecitare ogni sorta di persone e ad assoldare
mestatori elettorali. Cosicchè Roma, come tutte le
città antiche non illuminata, e perciò deserta e
silenziosa dopo il calare del sole, fu quella notte piena di clamore
e di gente.
Non era cosa agevole però, nè per l’uno nè per
l’altro partito, commuovere il pubblico. I pochi nemici spietati di
Cesare giubilavano, e i pochi amici devotissimi lacrimavano per la
sua morte; ma l’animo del maggior numero era sospeso. A non pochi
l’uccisione aveva fatto piacere, per gli antichi rancori, per gli
acerbi ricordi della guerra civile, per l’invidia che perseguita
sempre i potenti. Molti invece, come sempre avviene in tali
tragedie, giudicavano quel misfatto politico alla stregua della
comune morale personale e quindi compiangevano questo uomo, assalito
solo e sgozzato a tradimento da una turba inferocita, dimenticando
però che questa volta l’uomo assalito solo da sessanta era il
capo di un partito anzi di un impero e avrebbe sterminati i suoi
nemici in un’ora, sopravvivendo. Tuttavia su questa vaga compiacenza
e su questa pietà prevaleva in quel giorno, nei più,
una grande paura. Nessuno immaginava che e i congiurati e i
cesariani fossero allora egualmente disorientati perplessi discordi;
tutti credevano che i congiurati avessero preparato da lungo tempo
denari eserciti partigiani adeguati all’impresa, che l’altra parte
fosse pure animosamente pronta alla guerra civile.... Quindi i
più non sapevano risolversi nè per gli uni nè
per gli altri. A gran fatica i congiurati riuscirono nella notte ad
assoldare qualche banda di strilloni; e Lepido a reclutare un
piccolo corpo di soldati. [44 a. c. 16 marzo] Con questi però
egli potè all’alba del 16 occupare il Foro, e dar modo ad
Antonio di comparire ed esercitare, come in tempi consueti, le sue
funzioni di console, insieme con i pochi magistrati che non avevano
preso parte alla congiura. Non comparvero invece nè i due
pretori nè gli altri magistrati che erano sul Campidoglio;
cosicchè a chi passeggiava nel Foro, lo Stato pareva, quella
mattina, in potere dei Cesariani. Era un vantaggio: infatti, a veder
quelle armi e il console, molti veterani, capi di collegia e
partigiani di Cesare sino allora esitanti presero animo: e gli uni
corsero a casa a toglier le armi, altri andarono a sollecitare gli
amici e i membri del proprio collegium. In quella, ecco la prima
turba di dimostranti assoldata dai conservatori compare sul Foro, e
vi incontra le pattuglie dei veterani.... Ma a simil vista
l’entusiasmo mercenario gelò d’improvviso; nessuno
osò, presenti i suoi veterani, applaudire agli uccisori di
Cesare; solo il pretore Cinna ardì buttar via le insegne
dichiarando in un discorso che voleva averle dal popolo e non da un
tiranno, mentre la turba intimidita appena ardiva gridare: pace,
pace. Nè andò molto che, l’uno svoltando di qua,
l’altro di là, la turba si disperse. Eppure i veterani non
avevano osato far loro violenza.... Ricominciava intanto un grande
via vai di senatori tra il Campidoglio e la casa di Antonio. Nella
notte il console aveva riflettuto con maggior agio sulla situazione
e aveva conchiuso esser questa la cosa più perigliosa per il
suo partito: che uno dei congiurati più insigni, Decimo
Bruto, doveva, per le disposizioni di Cesare, governare in
quell’anno la Gallia Cisalpina, restar cioè alla testa di un
esercito nella valle del Po, a quindici giorni di marcia da Roma.
Egli argomentò facilmente che l’esercito di Gallia sarebbe la
colonna massima del nuovo governo, il gran spauracchio con cui i
congiurati avrebbero mantenuto docile ai loro voleri il Senato; onde
è verisimile che nella notte dal 15 al 16 si risolvesse a
tentar sopratutto di ottenere che Decimo Bruto rinunciasse a questo
comando. Senonchè se alla mattina del 16 i veterani e i
coloni di Cesare incominciavano ad arrivare dai paesi vicini, sembra
invece che dei cesariani eminenti fosse rintracciato solo Irzio: che
gli altri, Balbo, Pansa, Oppio, Caleno, Sallustio si fossero
appiattati nelle ville vicine. Come strappare, così solo,
questa rinuncia ai congiurati? Bisognava adoperare l’astuzia. Pare
infatti che in quella mattina Antonio avviasse trattative amichevoli
con i congiurati, per lusingarli che egli era disposto ad esser loro
di aiuto quanto poteva a restaurare la repubblica; e che nello
stesso tempo si sforzasse di indurre Decimo Bruto, chi sa con quali
imbrogli, a separarsi dai suoi compagni e a tornare dal Campidoglio
a casa sua. Egli sperava forse di poter più facilmente
spaventare Decimo e indurlo a rinunciare alla provincia, quando
fosse lontano dagli altri cospiratori. Così, in quelle acque
torbide, egli gettò l’amo di nuove trattative. Per sua
fortuna, sebbene sin dal mattino molti uomini considerevoli si
fossero recati sul Campidoglio a trovarli, i cospiratori erano
scoraggiti dall’insuccesso della prima dimostrazione e dalla
freddezza del pubblico, impensieriti dalle milizie di Lepido; tutti
incominciavano a spaventarsi per l’arrivo e l’agitazione dei coloni
e dei veterani, che, come sempre avviene ai conservatori,
immaginavano maggiore del vero; si discutevano molte proposte, tra
le altre di far scendere Bruto e Cassio nel Foro, a tenere un gran
discorso al popolo: ma l’esitazione era grande. Non correrebbero
pericolo di esser tutti fatti a pezzi? Antonio non si metterebbe in
sospetto? Gli incauti abboccarono quindi prontamente all’amo; e
nuove pratiche furono avviate. Nessuno dei due partiti aveva ancora
il coraggio di prender l’iniziativa delle offese; ambedue si
tenevano sulla difesa, aspettando che la nubilosa incertezza della
situazione si schiarisse.
Ma non era possibile che di queste esitazioni e discussioni non
trapelasse qualche notizia; cosicchè a mano a mano che le ore
della mattinata passavano, Antonio, il quale già forse si
meravigliava di trovare i congiurati e Decimo così
arrendevoli, dovè prima dubitare e poi confermarsi nel dubbio
che i suoi nemici avessero molta paura. Difatti, in mezzo a queste
incertezze, egli riuscì a separare dai suoi compagni Decimo,
che ritornò alla propria casa. Un evento improvviso
scompigliava però di lì a poco, nella mattina, ogni
cosa. Dolabella, il prediletto di Cesare, comparve a un tratto nel
Foro, seguito da una turba di veterani e strilloni, con le insegne
di console: tenne un discorso in lode degli uccisori del tiranno;
poi salì al Campidoglio a salutarli. Se Antonio non avesse
impedito il compimento di tutte le cerimonie liturgiche, richieste
per una elezione, egli sarebbe stato, morto Cesare, console; ma non
essendo uomo da rinunciare al consolato per una questione di forma,
aveva pensato nella notte di ratificarsi console da sè,
sperando di poter mantenersi nella carica con l’aiuto dei congiurati
e dei conservatori, ai quali, sarebbe di gran vantaggio avere
favorevole un console, anche se poco autentico, per intralciare
tutti i disegni dell’altro console. Difatti questo piccolo colpo di
stato commosse molto la città e parve incitare a maggiore
audacia i congiurati. I dimostranti falliti della mattina, ripreso
coraggio, tentarono una nuova dimostrazione sul Foro, chiamando a
gran voce Bruto, Cassio e i loro compagni; i congiurati si
rianimarono, deliberaron che Bruto e Cassio scenderebbero a parlare
al popolo, sospendendo così od almeno togliendo valore alle
trattative. Ma in che modo? In qual compagnia? Par che su questo
punto ricominciassero le discussioni e le esitazioni, forse
perchè il maggior numero dei congiurati cercava schermirsi.
Alla fine si deliberò che Bruto e Cassio scenderebbero soli;
ma che i più autorevoli senatori e cavalieri, che erano
allora sul Campidoglio, li accompagnerebbero solennemente, come
Cicerone ai tempi della congiura, per proteggerli se era necessario
contro le violenze della moltitudine. Nuove incertezze
ricominciarono in tutti, appena fu nota, sul Foro, questa
deliberazione, tutti ricordando quante volte il partito conservatore
aveva sgominato i popolari con una di queste teatrali dimostrazioni;
Antonio e Lepido, sebbene dovessero desiderare che la dimostrazione
fallisse, non osarono, specialmente dopo il tradimento di Dolabella,
preparare qualche violenza; ma preferirono aspettar a vedere che
cosa succederebbe. E finalmente, nel pomeriggio, il solenne corteo
si dispose sul Campidoglio, scese lento nel Foro, si aprì la
via nella moltitudine, che era accorsa ad aspettarlo; Marco Bruto,
giunto il corteo ai rostri, salì, si mostrò alla
folla; un gran silenzio si stese sul Foro. In quel silenzio Bruto
die’ principio al discorso e parlò, spiegando l’uccisione e i
suoi motivi, non disturbato. Il popolino, che odiava in pensiero i
grandi, li rispettava ancora in persona; Bruto godeva molta
considerazione; non tutti gli uditori erano cesariani e gli uni
avevano soggezione degli altri. Perciò alla fine non
scoppiarono nè fischi nè applausi, il pubblico
restò freddo, la radunanza finì in un modo incerto; e
i congiurati, con il corteo dei conservatori, ritornarono sul
Campidoglio un po’ delusi.
Ma allora l’incerta situazione tracollò. Non solo Antonio, ma
tutti capirono che i congiurati avevano paura. Mentre da un giorno
Roma aspettava d’ora in ora che compissero chi sa quali imprese, i
congiurati non avevano osato nemmeno discender tutti sul Foro, e
appena finito il discorso si affrettavan tutti di nuovo al rifugio.
Invece i coloni e i veterani continuavano ad arrivare; il popolino
di Clodio e di Cesare imbaldanziva; intorno ad Antonio non solo si
era già dimenticato il tradimento di Dolabella, ma si
cominciava a consigliare una gran vendetta del dittatore. Intanto si
avvicinava la sera e scadeva il termine fissato da Antonio per la
risposta. Incoraggiato dalla paura dei congiurati e dall’animoso
accorrere dei veterani e dei coloni, il console si risolvè
verso sera a troncar le trattative; a convocare il Senato per la
mattina seguente, non nella Curia troppo vicina al Campidoglio, ma
nel tempio di Tellure, vicino alla casa sua; a rimettere ogni
deliberazione al supremo consesso, invitandoci amichevolmente i
congiurati; a convocar pure, prima della seduta, una radunanza di
cesariani; a mandar Irzio da Decimo a dirgli che, considerando
quanto il popolo e i veterani erano sdegnati contro loro, egli non
poteva consentire che Decimo avesse la sua provincia; anzi doveva
consigliarli tutti, per il bene loro, a lasciar Roma. Egli sperava,
precipitando le cose, che i congiurati, spaventati, non
interverrebbero alla seduta del giorno dopo e che egli potrebbe far
approvare dal Senato quel che gli paresse più opportuno per
indebolirli, senza atteggiarsi a loro nemico, senza compiere
violenze e riparandosi comodamente dietro la autorità legale
dell’assemblea. E difatti la minaccia era avventata in un momento
così opportuno, che Decimo vacillò per un istante, e
considerando tutto perduto si dichiarò pronto a lasciar Roma,
purchè gli concedessero una legazione libera.
[44 a. c. Notte del 16 marzo] Cadeva la sera; l’aria si oscurava
nelle vie anguste e nei crocicchi; il fervore operoso del giorno
avrebbe dovuto, come al solito, spegnersi nel buio silenzioso e
solitario della città senza lumi, rotto solo di tempo in
tempo da qualche comitiva provvista di fiaccole, da qualche solingo
viandante munito di lanterna, da qualche sperduto vagante a tastoni
nella tenebra. Ma sul Campidoglio, dove nessuno si sentiva l’animo
di recarsi sino al tempio di Tellure, tutti avevan subito capito per
qual raggiro Antonio, invece di continuar le trattative con loro,
rimetteva a un tratto ogni cosa al Senato, dove essi non potrebbero
comparire a discutere; ed incitati a maggior risolutezza
dall’imminente pericolo, in fretta e furia avevan deliberato di
adoperarsi con ogni sforzo per mandare alla seduta del Senato una
maggioranza favorevole a loro. Nel tempo stesso Antonio e Lepido,
risoluti ad avere in Senato la maggioranza, si proponevano di
radunare intorno al tempio di Tellure quanti più veterani e
coloni potessero, a spavento dei conservatori. Perciò quella
notte Roma dovè continuare nella oscurità senza luna
la veglia e le opere del giorno. Il console fece accendere dei
grandi fuochi nelle piazze, nei crocicchi, nelle vie, per illuminare
alla meglio le tenebre, affinchè anche coloro che non avevano
servi per portare le lampade, potessero camminare; e alla luce
vacillante di questi grandi fuochi andavano e venivano frettolosi i
messi mandati dai congiurati alle case dei senatori a supplicarli di
non mancare il dì dopo alla seduta; passavano le frotte dei
veterani che giungevano dai paesi vicini a tarda ora, i magistrati e
i cittadini eminenti che si cercavano per consultarsi, le pattuglie
dei soldati, le brigate degli artigiani, dei liberti, dei plebei,
che i collegia movevano. Nella casa di Antonio, probabilmente, ebbe
luogo a notte inoltrata la radunanza dei cesariani. Par che tutti
gli uomini eminenti, tranne Irzio, Lepido e Antonio, mancassero; e
che la discussione sia stata lunga. Alcuni volevano che si desse ai
congiurati licenza di uscir di Roma, ma con la promessa che non
susciterebbero turbolenze; Irzio propose che si facesse pace e si
accogliesse l’invito dei congiurati di procedere unitamente e
d’accordo a restaurare il governo repubblicano, lasciando la
maggioranza del Senato decidere; Lepido invece, cui probabilmente
gli eventi favorevoli del giorno innanzi avevano troppo riscaldata
la testa, fece ai cesariani la proposta che Cicerone aveva fatta ai
conservatori: osare cioè il colpo di Stato, assaltare il
Campidoglio e uccidere, tra il plauso del popolo, i congiurati, tra
i quali pure era suo cognato. Antonio però, come Bruto e
Cassio non avevano voluto accogliere la proposta di Cicerone, non
approvò il simigliante consiglio di Lepido e fece prevalere
la proposta di Irzio. Egli sapeva che in tutta Italia le classi
agiate e ricche sarebbero favorevoli ai congiurati, e giudicava
imprudente una violenza, quando si poteva piegare ai loro voleri
l’organo legale, il Senato, con la folla vociante e minacciosa dei
veterani.
Così la risoluzione delle difficoltà era rimessa al
Senato, nel quale nessuno sapeva qual partito avrebbe la
maggioranza. Lepido e Antonio confidavano di poter signoreggiarla e
continuavano a mandar veterani e coloni nelle vicinanze del tempio
di Tellure; i congiurati temevano non sarebbe loro favorevole, per
paura se non per convincimento, e sollecitavano disperatamente tutti
gli amici di non mancare; tutti i partiti e tutti i senatori si
preparavano ad andare alla seduta, senza propositi ben definiti e
senza intese sicure. Che cosa risulterebbe da tante incertezze? Che
cosa si conchiuderebbe in quella seduta? [44 a. c. 17 marzo] Se lo
domandavano ansiosamente molti senatori, mentre si recavano al
tempio di Tellure, la mattina del 17, passando tra i soldati che
Antonio e Lepido avevano disposti per mantener l’ordine, e in mezzo
a una folla inquieta e tumultuante di ammiratori di Cesare.
Passavano i senatori, e il fermento della folla, le grida e i fischi
crescevano; dentro il tempio, i crocchi dei senatori parlavano tra
loro inquieti, tendendo le orecchie al muggito della tempesta che
imperversava di fuori, domandandosi se alla fine non succederebbe
qualche guaio; a un momento si udì un tumulto più
terribile. Facevano a pezzi qualcuno? Passava Cinna, il pretore che
aveva il giorno prima insultato Cesare sul Foro ed era salutato a
quel modo. Tuttavia la folla non aveva osato fargli violenza, e
Cinna arrivò incolume; sani e salvi vennero tutti i senatori;
venne Dolabella e arditamente occupò il seggio del console,
senza che Antonio si opponesse; arrivarono alla fine, tra grandi
applausi del popolo, Lepido e Antonio. Ma non comparve nessun
congiurato.
Sin dal principio però Antonio dovè riconoscere che si
era ingannato: non ostante i veterani e i soldati, non ostante
l’assenza dei congiurati, la maggioranza del Senato era così
apertamente favorevole agli uccisori di Cesare, che egli
giudicò subito impossibile far approvare provvedimenti
avversi a loro e specialmente a Decimo. Infatti la proposta di
invitare i congiurati a prender parte alla seduta, a seder
cioè tra i giudici della causa loro, fu subito approvata
senza discussione. Troppi odii si erano addensati contro Cesare;
troppo profonde e vive erano ancora le tradizioni repubblicane,
anche nel Senato plasmato e riplasmato dalla mano di Cesare; troppi
i parenti e gli amici di un così gran numero di tirannicidi!
Gli amici del dittatore pare non fossero nemmeno venuti e certo
nessuno di loro parlò. Ma quando si venne a trattare della
strage, la discussione si smarrì presto in una gran
confusione di dispareri. Alcuni, e tra questi Tiberio Claudio
Nerone, dissero che bisognava dichiarar quella strage un
tirannicidio, e quindi deliberare all’uso antico premi ai suoi
autori come agli uccisori dei Gracchi; altri, più prudenti,
ammisero che i congiurati avevano certamente compiuta una bella
impresa; ma che via, dopo tutto, decretar loro premi era forse
soverchio. Non bastava una lode? E nemmeno mancavan quelli i quali
cercavano metter d’accordo l’orrore dell’assassinio che pur
sentivano in cuor loro, e la soggezione della opinione dei
più cui non volevano contradire, dichiarando che anche una
lode era inopportuna, che l’impunità bastava. Ma i primi
replicarono, proponendo l’inevitabile dilemma: o Cesare era stato un
tiranno e allora gli uccisori meritavano premio; o aveva governato
legittimamente, e allora costoro meritavano pena. Sì
divagò molto su questi argomenti, segno evidente che le
proposte eroiche, se erano approvate, non soddisfacevano pienamente
l’assemblea; e a poco a poco la corrente della discussione
portò naturalmente i discorsi divaganti qua e là verso
la stretta di una questione essenziale, attraverso cui la
discussione doveva passare: Cesare era stato tiranno o no?
L’assemblea capì alla fine che era necessario scioglier prima
questo dubbio; e deliberò infatti di discutere la questione
serenamente, imparzialmente, considerando come nulli tutti i
giuramenti a cui Cesare aveva costretti i senatori.
Incominciò una nuova discussione; molti oratori parlarono; di
fuori giungeva sempre più forte il muggito della folla
tumultuante, che imprecava agli uccisori di Cesare; nessuna opinione
pareva poter conciliare la discorde assemblea; sinchè alla
fine Antonio, che sino allora, un po’ disorientato, aveva taciuto,
lasciando vagare a loro piacimento i discorsi, intervenne nella
controversia, richiamando tutti con molta abilità dalle
divagazioni al punto essenziale; e cioè che, se il Senato
dichiarava Cesare tiranno, badasse bene; necessariamente, a rigore
delle leggi, ne seguirebbe doversi il suo corpo gettare in Tevere e
annullare tutti gli atti compiuti da lui. In altre parole; non solo
tutte le terre vendute o donate da Cesare sarebbero riprese, ma
sarebbero annullate tutte le magistrature da lui assegnate, anche
quelle assegnate ai suoi uccisori; ma cesserebbero di far parte del
Senato tutti i senatori, ed eran tanti, scelti da Cesare. Questa
argomentazione non poteva non essere straordinariamente efficace,
perchè quasi tutti, amici e nemici, avevano arraffato in
quegli anni qualche cosa, cosicchè gli uccisori non dovevano
esser meno solleciti degli amici a conservare l’opera dell’ucciso, a
cominciar proprio da Bruto che era pretore e la cui madre aveva
avuto da Cesare una immensa tenuta in Campania. E intanto, quasi a
rinforzare l’argomentazione, arrivava di fuori il romore della folla
sempre più minaccioso. Stavan forse per dar l’assalto al
Senato? Alla fine Antonio e Lepido doverono uscire a tranquillar la
turba, e Antonio cominciò ad arringarla; ma la folla non
poteva udir bene; si cominciò a gridare al Foro, al Foro;
Antonio dovè smettere, avviarsi con Lepido al Foro e
là ricominciare il discorso, promettendo al popolo che i suoi
desideri sarebbero esauditi. Continuava intanto, sotto la presidenza
di Dolabella, la discussione in Senato; ma l’abile intervento di
Antonio aveva avuto questo effetto: di incoraggiare gli opportunisti
a mettere innanzi quelle osservazioni e proposte, sia pure assurde
ma atte a conciliare l’interesse con la passione, che sole potevan
soddisfare, invece delle proposte eroiche, questa assemblea. Gettare
nel Tevere il cadavere dell’uomo di cui la folla domandava con tante
grida la vendetta? L’aristocrazia romana aveva osato una simile
prodezza ai tempi dei Gracchi; ma a ottanta anni di distanza
trepidava ed esitava questo debole club di affaristi, di
politicanti, di dilettanti, di cui ciascuno aveva interessi e fini
suoi, e in cui Dolabella, per paura di riperdere il suo consolato,
minacciava di diventare nuovamente ammiratore di Cesare, se non se
ne convalidavano gli atti. Era così necessario rispettare i
diritti acquisiti, che, nel tempo stesso, i congiurati dal
Campidoglio, impazienti per la lunga seduta, facevano spargere
biglietti nel popolo, promettendo che tutte le concessioni di Cesare
sarebbero da loro rispettate. Invano qualche intransigente propose
di deporre le magistrature concesse dal tiranno per riaverle dal
popolo; ormai, vinta la prima vergogna, i concilianti si facevano
coraggio a vicenda e il partito degli arrabbiati perdeva terreno.
Antonio e Lepido intanto erano tornati; ma la discussione
durò ancora, sebbene ormai fossero quasi tutti d’accordo
sulla opportunità di non annullare gli atti di Cesare, senza
però dichiarare che l’assassinio era un delitto. Bisognava
trovare la formola legale per conciliare questa assurda
contradizione; e la cosa non era facile. Alla fine Cicerone, i cui
ardori rivoluzionari del 15 si erano frattanto un poco calmati, si
ricordò a tempo di una istituzione con cui gli Ateniesi
solevano di tempo in tempo porre una tregua alle loro guerre civili:
l’“amnistia” ossia la dimenticanza e il perdono reciproco di tutte
le azioni commesse contro la legge. Egli propose che si
dichiarassero validi, per considerazione di bene pubblico, tutti gli
atti del dittatore, non solo quelli già pubblicati, ma anche
quelli che si trovassero tra le carte di Cesare scritti in forma
ufficiale e in seguito alle facoltà concesse a lui dal Senato
o dai comizi; che si lasciasse ad Antonio l’incarico di scernere tra
le sue carte; che si proclamasse poi una “amnistia” alla greca, si
vietasse cioè ogni accusa per la morte di Cesare. La proposta
fu approvata con una speciale disposizione per le colonie ordinate
da Cesare, che il senatusconsulto pare espressamente dichiarasse
doversi tutte dedurre, per tranquillare i veterani. Dopo, il Senato
si sciolse; la deliberazione, spedita ai congiurati, fu da costoro,
dopo una breve discussione, accettata; e verso sera, allorchè
Antonio e Lepido ebbero mandati in ostaggio sul Campidoglio i loro
figli, Bruto, Cassio e gli altri scesero.... Cesare era sparito; ma
i congiurati, subito dopo distrutto l’uomo e compiuta la parte
dell’impresa che consideravano più ardua, avevano trovata la
via ingombra, come da una barricata, dalla opera sua, dalla
coalizione degli interessi costituiti durante la guerra civile e la
dittatura; e avevan dovuto volgersi intorno all’impedimento, ma con
quale artificio! La restaurazione della repubblica conservatrice
sulle rovine della monarchia rivoluzionaria incominciava a sua volta
con una misura rivoluzionaria quale l’amnistia; istituto greco,
straniero alle leggi e alle tradizioni giuridiche latine, che era
introdotto a un tratto, una bella mattina, per risolvere un impaccio
politico, da un colpo di maggioranza.
II.
I FUNERALI DI CESARE.
Gli scrittori moderni hanno quasi tutti fraintesa la gigantesca
convulsione che imprendiamo a narrare, specialmente perchè
giudicano non solo che nella età di Cesare la repubblica
romana era già esausta e morta, ma che i contemporanei
dovevano accorgersene. Perciò ogni atto inteso a ricostituire
la repubblica o anche solo a mostrar rispetto per le sue secolari
istituzioni e tradizioni è considerato come stoltezza o
follia. Invece io penso – e spero dimostrarlo con il seguito di
questa narrazione – che la repubblica era ancora più viva che
non si creda; ma pur volendo ammettere che fosse morta, bisogna
considerare che in ogni tempo e luogo gli uomini si avvedono dei
mutamenti nelle istituzioni, nei costumi, nelle idee, solo
generazioni e decenni dopochè sono compiuti; che sempre
inclinano a credere ogni cosa esistente come indispensabile, e che
perciò dovevano allora considerare quella antica repubblica,
che aveva avuto un così smisurato successo, quasi come
immortale. Chi sarebbe stato così ardito, allora, da pensare
che il Senato romano era ormai nello Stato un inutile ingombro,
simile al cadavere del padrone nella casa che gli eredi possono
mettere a sacco a loro talento? Il Senato romano aveva conquistato e
governato un immenso impero; spandeva tanto rispetto e timore sin
nelle terre più lontane; aveva ucciso anche Giulio Cesare,
perchè, pur dopo tante vittorie e solo negli ultimi tempi,
gli aveva mancato di rispetto. Poteva un uomo di senno non temerlo
come una istituzione formidabile, e, per quanto cimentoso, muovergli
guerra alla leggera, senza esser costretto dalla necessità?
Non è quindi da meravigliarsi se, dopo la seduta del 17
marzo, Antonio fosse in gran pensiero per il modo con cui si eran
risolte le incerte oscillazioni del 15 e del 16. Contro la sua
aspettazione, non ostante l’assenza dei congiurati, la maggioranza
dei senatori aveva resistito con fermezza alle minaccie dei veterani
e ratificata la uccisione di Cesare; onde, ora che i tirannicidi
potevano liberamente sedere in Senato, era da temersi che, unendosi
con i pompeiani superstiti in un solo partito, dominerebbero la
repubblica, avendo favorevoli le alte classi, un console, diversi
pretori, molti governatori e il Senato. Infatti dei pochi partigiani
illustri di Cesare rimasti fedeli, Dolabella aveva già
tradito e gli altri erano spariti, tranne Irzio. Nè Antonio
nè altri aveva capita la agitazione popolare di quei giorni;
che tutti credevano durerebbe, come al solito, quel che dura un
fuoco di aride stoppie. D’altra parte, in quella mattina del 17,
Antonio era riuscito a cattivarsi con i concilianti discorsi la
benevolenza dei conservatori, i quali, recatisi alla seduta in gran
sospetto di lui per i maneggi del giorno prima, avevano poi preso a
lodarlo enfaticamente3. Poteva Antonio, in tale condizione, rifar
prova ancora una volta della sua inesauribile audacia? Antonio era
certamente uno dei più possenti tra i politicians o
venturieri di famiglia nobile, che nel progressivo scetticismo
civico delle classi alte dell’Italia si buttavano allora alla
politica e alla guerra come a una gloriosa pirateria. Robustissimo
di corpo, pronto di animo, audace e generoso, ma sensuale,
imprevidente, orgoglioso, violento sino alla stravaganza;
intelligente ma poco astuto, di primo impeto, facile ad esser
trascinato a grossi errori dalla veemenza delle passioni e dalla
stessa innata temerità; egli non aveva cercato sino ad allora
nelle guerre e nella politica nè il potere, nè la
gloria, nè la ricchezza per sè stesse; bensì il
mezzo di appagare il piacere del lusso, del giuoco, del vino e delle
donne, lo spirito autoritario, la generosità profusa,
l’orgoglio insofferente di regole e di leggi. Perciò aveva
menata una vita randagia di ardimenti illegali, di tremendi perigli,
di straordinarie fortune e sventure, dalla spedizione clandestina di
Gabinio in Egitto all’assedio di Alesia, dal tribunato
rivoluzionario del 49 al passaggio dell’Adriatico nel 48, da
Farsaglia alla tempestosa vicedittatura del 47. Senonchè
anche gli uomini di indole più violenta e in apparenza
indomabile, sanno certe volte trattenersi, quasi di colpo,
perchè ci sono costretti da una suprema necessità di
conservazione, sull’orlo dell’abisso a cui la loro violenza li ha
tratti e per un certo tempo almeno signoreggiarsi. Ora Antonio non
poteva in quei torbidi giorni non sentirsi inquieto, osservando come
tanti suoi sforzi eran stati resi vani alla fine, come fatiche di
Sisifo, da una specie di geniale inconcludenza. Egli aveva
guadagnate immense ricchezze, ma le aveva dissipate tutte,
cosicchè alle Idi di marzo si era trovato con un patrimonio
costituito in gran parte da debiti; aveva rischiato più volte
la vita per il partito popolare, eppure aveva periodicamente
distrutto il proprio prestigio tra i suoi con qualche improvvisa
stravaganza o violenza, come quando nel 47, dopo la grande vittoria
del partito popolare, aveva repressi i disordini di Dolabella con la
energia di un console del tempo dei Gracchi; cosicchè egli si
trovava allora, a 39 anni4, nella precarietà di una fortuna
instabile, con pochi amici e molti nemici, con scarsa
popolarità, in una condizione di cose incerta, oscura,
perigliosissima.... Già infatti la ultima riconciliazione con
Cesare prova che gli anni e le traversie inducevano a poco a poco in
lui l’intenzione di badar meglio in avvenire al vantaggio suo; senza
più disperdere in un’ora i frutti delle fatiche di un anno.
[44 a. c. 18-19 marzo.] Ma la subitanea catastrofe delle Idi di
marzo e la condizione perigliosa in cui si vide per effetto dei suoi
errori precedenti, lo persuasero definitivamente in quei giorni a
studiarsi di esser prudente come non era mai stato in vita sua; a
spiare, tergiversando, egli l’uomo degli estremi propositi, che
piega prenderebbero gli eventi; a non rompere in guerra con il nuovo
partito conservatore, a trattarlo bene e a preparare la via per un
incontro o una intesa, se il partito popolare apparisse condannato a
soccombere, ma cautamente, senza irritar troppo nemmeno il partito
popolare, che poteva un giorno o l’altro ritornare in potenza. Si
eran viste tante inaspettate meraviglie in quegli ultimi anni!
Cosicchè quando, dopo i festeggiamenti del 18 (Antonio e
Lepido diedero un gran pranzo a Bruto e a Cassio), [44 a. C. 19
marzo.] il Senato si radunò nuovamente il 19, tra Antonio e
la maggioranza era, se non piena concordia, una mutua condiscendenza
benevola, che il Senato subito espresse, votando solenni
ringraziamenti ad Antonio per l’opera sua a pro’ della pace5. Il
Senato però non potè trattenersi molto su questi
complimenti; ma dovè procedere subito a regolare molte
questioni particolari, che si eran già presentate in quei due
giorni, come necessarie conseguenze della generica amnistia del 17.
Bisognava innanzi tutto convalidare, ad una ad una, le disposizioni
di Cesare sulle provincie e sulle magistrature, già
convalidate tutte insieme il 17, così quelle già
pubbliche come quelle contenute nelle carte consegnate da Cesare ad
Antonio, per rassicurare tutti coloro che erano già stati
scelti alle cariche. Inoltre i parenti di Cesare, e specialmente
Pisone, il suocero, che il 17 avevan taciuto, ripreso ora animo,
domandavano che si aprisse il testamento e si decretassero pubbliche
esequie6. La domanda era abile, perchè troncava il segreto
desiderio di molti conservatori di far confiscare il patrimonio del
dittatore, composto di spoglie delle guerre civili; nè poteva
facilmente esser respinta. Infatti: se Cesare non era dichiarato
tiranno, perchè sarebbe stato sepolto come un oscuro privato?
Se tutti i suoi atti erano convalidati, si poteva annullarne proprio
il testamento? Furono così confermati i proconsoli e i
propretori che già erano nelle provincie o che viaggiavano a
quella volta: Lucio Munazio Planco nella Gallia capelluta, Asinio
Pollione nella Spagna ulteriore, Manlio Acilio Glabrione in Acaia,
Quinto Ortensio in Macedonia, Publio Vatinio in Illiria e forse
Lucio Stazio Murco in Siria; furono confermati i comandi per l’anno
corrente ai governatori che erano ancora in Roma, e quindi anche ai
congiurati: la Gallia Cisalpina a Decimo Bruto, l’Africa a Quinto
Cornificio, la Bitinia a Tullio Cimbro, l’Asia a Trebonio, la Gallia
Narbonnese e la Spagna Ulteriore a Lepido; furono confermate infine
le magistrature e i comandi futuri assegnati da Cesare, e
cioè che Irzio e Pansa sarebbero consoli nel 43, Decimo Bruto
e Munazio Planco nel 42, parecchi altri, tra i quali il congiurato
Publio Servilio Casca, tribuni nel 43 o nel 42; che Antonio avrebbe
per provincia la Macedonia e Dolabella la Siria. A Bruto e a Cassio
Cesare non aveva disgraziatamente assegnata ancora nessuna
provincia, quando morì7. Poi si passò a discutere del
testamento e delle esequie. Nessuno osò proporre
l’annullamento del testamento; ma molti, tra gli altri Cassio, si
opposero alla proposta delle pubbliche esequie, ricordando con
sgomento il turbolento funerale di Clodio. Se la plebe di Roma aveva
commessi allora così selvaggi disordini, che cosa non farebbe
per l’assassinio di Cesare?8 Ma i parenti protestarono e Antonio
cercò anche questa volta di barcamenarsi, osservando che,
rifiutati i funerali pubblici, si potrebbe irritare ancor più
il popolino; onde alla fine anche Bruto, più debole di
Cassio, cedè; si deliberò che Antonio aprirebbe il
testamento consegnato da Cesare alla Vestale massima, che gli si
farebbero pubblici funerali9. E il giorno stesso, probabilmente,
presenti gli amici e i parenti di Cesare, Antonio aperse in casa sua
agli astanti stupefatti il più straordinario testamento che
fosse mai stato scritto in Roma: eredi di tutta la fortuna erano tre
nipoti di due sorelle del dittatore, Caio Ottavio, che già
conosciamo, per tre quarti, Lucio Pinario e Quinto Pedio per l’altro
quarto; parecchi dei congiurati erano nominati tutori del figlio suo
se gli nascesse; Decimo Bruto, Marco Antonio e qualche altro erano
messi tra i secondi eredi per il caso che qualcuno dei nipoti non
potesse raccogliere la eredità: seguiva infine un grandioso
legato alla plebe: 300 (120, secondo un’altra fonte) sesterzi a
testa e i grandiosi giardini posti oltre il Tevere, con le
collezioni artistiche in quelli raccolti. In un codicillo. Caio
Ottavio era adottato come figlio10.
Questo testamento commosse in modo indicibile il popolino di Roma11,
che il 17, il 18 e il 19 pareva essersi quetato, rinfocolando a un
tratto uno dei più antichi e tenaci rancori in quella
moltitudine di artigiani, di liberti, di piccoli mercanti, di
miserabili che vivevano in Roma alla giornata, senza famiglia i
più, senza sicurezza del pane e del giaciglio, senza
assistenza nei frangenti gravi della vita. Dare a questa plebe mezzo
di vivere e rallegrarne un poco con qualche sollazzo la dura
esistenza, era cosa ormai necessaria alla pace del mondo: e difatti
i capi del partito popolare, in special modo Cesare e Clodio,
avevano cercato di provvedere alla meglio questa assistenza, in
parte a spese proprie, in parte a spese dello Stato. Ma eran poi
trascesi, per appagare la plebe, a rovinare l’erario, a impegnar
Roma in guerre temerarie, a snaturare le istituzioni repubblicane in
un seguito di dittature rivoluzionarie; onde per paura di questi
pericoli e per odio dei loro autori il partito conservatore era a
sua volta trasceso ad avversare anche le forme più necessarie
di quella assistenza, come i collegia e le frumentazioni.
Così negli ultimi venti anni questa miserabile ciurma della
gran nave di Roma era stata incitata a desiderare dalle promesse
degli uni e delusa poi dalla opposizione degli altri; aveva ricevuto
una assistenza intermittente, ora prodiga e ora avara, che la aveva
irritata ancor più che il bisogno: si era avvezzata a
considerare la sorte sua come insidiata continuamente dalla
malvagità dei grandi e protetta dai capi popolari, da Clodio
da Crasso da Pompeo da Cesare in principio; poi dai superstiti, a
mano a mano che qualcuno di costoro spariva o la abbandonava; infine
da Cesare. E Cesare, con le distribuzioni di denaro, le feste, le
grandi promesse e la fiducia conquistata nella folla, aveva potuto
negli ultimi anni contenere da solo le impazienze e i malumori di
questa plebe piena d’odio contro i ricchi, bisognosa, irritata dalla
lunga miseria che la guerra civile aveva inasprita. Ma ora, sparito
l’uomo che essa considerava come il più sicuro protettore
suo, questa moltitudine si trovava abbandonata a sè stessa,
senza capi, senza una bene ordinata assistenza pubblica, senza altro
sussidio che le poche superstiti associazioni di Clodio, sconnesse e
decadenti. Non è quindi difficile immaginare quale
impressione ricevesse da questo testamento il popolino, che
già era stato commosso dalle mene di Antonio e di Lepido il
16; al quale si venivan mescolando e infondevano ardore i coloni e i
veterani accorsi a Roma a difendere i loro diritti. Non si era mai
visto un ricco profondere a quel modo le sue ricchezze tra il
popolo, lasciare a tante migliaia di persone non solo dei giardini
magnifici, ma nientemeno che 300 sesterzi a testa: un tesoretto, che
in quella scarsezza universale del denaro giungeva a tanti plebei
come un sussidio inviato proprio a tempo dalla Fortuna! Cesare
chiudeva la sua vita svergognando ancora una volta quella oligarchia
che il popolo accusava di esser così avara e feroce; che
aveva ucciso lui come Clodio ed i Gracchi, come aveva proscritto
Mario e perseguitato tutti i difensori dei poveri! L’agitazione che
Antonio e Lepido avevano sobillata il 16, continuò allora e
si allargò per forza propria, fomentata dai veterani, gente
ardita alle violenze: si commiserò Cesare atrocemente spento
da coloro che pur nel testamento egli aveva mostrato di amare tanto;
si imprecò agli uccisori; si cominciò a dire che
bisognava accorrere tutti ai funerali del grande benefattore dei
poveri e seppellirlo come Clodio, per far dispetto ai grandi12: [44
a. C. 20-30 marzo] si propagò nel popolino quella baldanza
della propria impunità, quella petulanza della propria forza,
quella vaga attesa di belle violenze da vedere e da compiere, che
precedono le grandi sommosse.
I conservatori cominciarono ad inquietarsi, e Antonio a trovarsi in
impiccio. Se gli animi si accendevano, se succedevano dei tumulti,
non sarebbe facile tergiversare tra i popolari e i conservatori!
Perciò egli cercò di tranquillare i conservatori con
buone parole e con atti di premuroso rispetto; e per ogni cosa
consultava gli uomini insigni dell’ordine senatorio; e non faceva
nulla senza aver domandata la approvazione del Senato; e rassicurava
i senatori che lo interrogavano sulle carte di Cesare. Non fossero
inquieti: in quelle carte non si conteneva nessuna disposizione
grave e nessuna immunità; uno solo era richiamato tra i molti
esuli che il partito conservatore aveva fatto condannare dopo i
funerali di Clodio13. Ma nel tempo stesso lasciava i parenti e gli
amici di Cesare, nei quali di quanto scemava la paura cresceva il
rancore, allestire il funerale in modo da convertirlo in una grande
dimostrazione di affetto all’ucciso e di odio agli uccisori. Il
cadavere sarebbe posto sopra un letto di avorio ricoperto di una
porpora ricamata d’oro; alla testa si porrebbe sopra un trofeo la
veste insanguinata in cui Cesare era stato ucciso; antichi
magistrati porterebbero il feretro dalla domus publica ai rostri,
per l’elogio; un immenso corteo, composto dagli amici, dai veterani,
dai liberti e da tutto il popolo, toglierebbe in mezzo il feretro e
lo porterebbe al Campo Marzio, dove il cadavere sarebbe cremato; si
avvierebbero prima alla spicciolata, al campo di Marte, per
accorciare il corteo, gli uomini portanti i trofei delle sue
campagne, affinchè si disponessero intorno al rogo e il corpo
del condottiero sparisse tra i trofei della sua fortuna e delle sue
vittorie mondiali14. Ma chi farebbe il discorso? Il figlio adottivo
era in Macedonia; gli altri eredi erano persone troppo oscure; dei
secondi eredi parecchi avevano preso parte alla congiura. Nè
era impresa facile commemorare Cesare, presenti i suoi uccisori e i
suoi veterani, dopo l’amnistia. Alla fine si giudicò che
Antonio, come console, amico e secondo erede, dovesse assumersi
questo ufficio pietoso; e Antonio, per quanto a malincuore,
dovè acconsentire, per non disgustare i popolari. Intanto la
baldanza del popolino, dei veterani cresceva; e la gente per bene
ormai si rassegnava ad abbandonare Roma alla canaglia il giorno dei
funerali. Purchè però non succedessero guai troppo
seri! Cosicchè per quel giorno, non si sa precisamente quale
fosse tra il 20 e il 23 di marzo15, aspettavan tutti qualche cosa di
bello o di terribile: una faticosa giornata Antonio, che doveva fare
quel difficilissimo elogio e che desiderava di impedire le violenze
troppo grandi, senza tuttavia incrudelire con la folla; qualche
selvaggia violenza, i congiurati più noti, che fortificavano
le case16; la rivoluzione, i conservatori; una turbolenza magnifica
e un grandioso falò simile a quello di Clodio, il popolino.
E il giorno temuto o desiderato spuntò alla fine. Ben presto
il Foro, le gradinate dei templi, i monumenti, le vie adiacenti,
furon gremite da una turba di popolo e di veterani, irrequieta,
disposta alla violenza, venuta senza nessuna intesa precisa, con il
proposito di bruciar Cesare come Clodio, in un edificio pubblico,
chi pensava nel tempio di Giove Capitolino, chi nella Curia di
Pompeo; mentre la domus publica si empiva a poco a poco di amici, e
fuori, dalla domus publica ai rostri, si andavan disponendo coloro
che dovevano formare il corteo, come potevano, in quello spazio
angusto. Par che Antonio avesse disposto nelle vicinanze, non
è chiaro dove, una piccola milizia. Alla fine il letto
d’avorio, portato a spalla dagli amici, uscì sul Foro; e
lentamente, tra una grande confusione, accompagnato dalle nenie dei
cantori che ripetevan tra gli altri un verso di Accio,
maliziosamente scelto dagli ordinatori del funerale, “Io ho salvato
coloro che mi hanno distrutto” fu portato sin sotto i rostri di cui
l’archeologo romano Boni crede di aver dissepolto pochi mesi fa gli
avanzi17. Toccava ora ad Antonio salire e parlare.... Ma il console
si trasse d’impaccio abilmente; e fece recitare da un banditore il
decreto del Senato del principio dell’anno, con cui erano stati
decretati al morto tanti onori e la formola del giuramento con cui i
senatori si erano obbligati verso di lui; poi aggiunse poche parole
e scese18. In questo modo, facendo cioè l’elogio dell’ucciso
con le parole del Senato, egli contentava i popolari, senza che i
conservatori, i quali pure avevano approvati pochi mesi prima quei
decreti, potessero lagnarsi. Il corteo doveva riordinarsi e muovere
verso il Campo di Marte; già i magistrati si disponevano a
riprendere il cadavere. Ma in quel momento alcune grida incerte e
solitarie partirono dagli spettatori più vicini: “Al tempio
di Giove Capitolino, alla Curia di Pompeo”; altre voci fecero coro
alle prime; le grida si propagarono e ben presto da tutte le parti
si vociò confusamente; qualcuno alla fine si mosse, molti si
mossero, si mosse la folla con una ondata vigorosa verso il feretro.
Coloro che circondavano il letto tentarono di resistere;
incominciò un gran tumulto; qualcuno ebbe l’idea di
incominciare un rogo lì vicino; si allontanò un po’ di
gente e si gettò nel mezzo qualche pezzo di legno. Tutti in
un baleno capirono, corsero per il Foro a cercar legna e diedero di
piglio a ogni cosa, alle sedie, ai banchi, alle tavole; di qua di
là, chi sa come e dove arraffate e da quali mani, furon
portate le cose necessarie a bruciare un cadavere; e in breve il
rogo fu fatto, in quel luogo del Foro che è ancora indicato
dagli avanzi del tempio del Divo Giulio. Molti di coloro che
attorniavano il feretro, vedendo il parapiglia infuriare, si
ritiravano; alla fine il cadavere cadde in potere della folla e fu
tratto dal letto sulla catasta; il fuoco fu appiccato; le fiamme
salirono; e allora il popolo, trasportato da una frenesia selvaggia,
incominciò a gettar sul fuoco ogni cosa, i veterani le armi,
i suonatori gli strumenti, la plebe i vestiti19. In breve il corpo
del conquistatore della Gallia sparve in un immenso vortice di
fiamme e di fumo, tra le grida della folla che gremiva le scalinate
dei templi, che si arrampicava sulle colonne, sui monumenti,
dappertutto, per veder la gran face. Ma la vittoria, il fuoco, i
moti violenti, le grida esaltarono la folla ancor più; il
rogo non bastava; alcune bande si cacciarono per le vie di Roma
verso le case dei congiurati; sul Foro il rogo fu attorniato da un
gran cerchio di frenetici che ora volevano, sul corpo di Cesare,
fare un grande incendio e continuavano a portar legna; i magistrati
e gli uomini autorevoli, inquieti della piega che pigliavan le cose,
se ne andavano in fretta; e il console restava solo, alla testa di
pochi soldati e alle prese con una rivolta che dal Foro pareva in
procinto di divampare in tutta Roma. Antonio non voleva ripetere ora
l’errore del 47; ma per impedire almeno che dessero fuoco a qualche
grande edificio del Foro, come nei funerali di Clodio, fece alla
fine prendere dai soldati qualcuno dei più scalmanati
fochisti, e, strappatili a forza di mezzo alla folla, li fece
portare di corsa alla Rupe Tarpeia e precipitare20. Questo esempio
sommario raffreddò un poco l’ardore delle torme intorno al
rogo, ma nel tempo stesso più bande furibonde precipitavano
alle case di Bruto e di Cassio per incendiarle, e ne tentavano
l’assalto, mentre gli inquilini delle case vicine uscivan fuori, si
mettevano nella folla, supplicavano di non appiccare il fuoco, per
non bruciare anche le case loro21. A stento si riescì a
tranquillare quei forsennati e a mandarli via. Senonchè, una
di queste bande incontrò per via un tribuno della plebe, che
per sua disgrazia si chiamava Cinna come il pretore del discorso sul
Foro, lo scambiò per costui, lo assaltò, lo fece a
pezzi, e inalberò la sua testa sopra una picca22. Tutta la
notte arse il rogo alimentato da una turba che non si mosse dal
Foro23; e tutta la notte il popolino infuriato imperversò per
Roma.
Il giorno dopo i liberti di Cesare poterono cercare in mezzo ai
tizzoni e alle ceneri del rogo gli avanzi mal bruciati del corpo24,
raccoglierli piamente, portarli al sepolcro di famiglia25, che non
sappiamo ove fosse. Così Cesare, dopo tanti perigli e
fatiche, dopo tanti errori e trionfi, dopo la finale turbolenza del
funerale rivoluzionario, ebbe pace e riposo per sempre. Ma non si
tranquillò il popolino; anzi, incitato dai disordini del
funerale e della notte, dalla impunità e sopratutto
dall’aiuto dei veterani, il cui furore per la morte cresceva ogni
giorno, rinfocolato dalla paura di perdere le ricompense, proruppe
il dì seguente in un’agitazione scomposta, senza capi, senza
intesa, senza scopi determinati. L’assalto alle case dei congiurati
fu ritentato26; una folla immensa trasse a vedere gli avanzi del
rogo; violenze e tumulti ebbero luogo in ogni parte; cosicchè
i congiurati giudicaron prudenza di restar in casa anche il giorno
seguente al funerale. Antonio, sempre fermo nel pensiero di
rassicurare i conservatori senza irritare i popolari, emanò
un editto vietando a tutti, fuori che ai soldati, di portare armi27;
ma non procedè a nessun atto di severità. Naturalmente
la sedizione continuò, anzi crebbe e si spandè
maggiormente nel terzo e nel quarto giorno; anche gli stranieri
vennero a torme sul luogo ove il rogo aveva arso per rendere omaggio
a Cesare al proprio modo: più numerosi di tutti gli Ebrei,
grati a Cesare di aver vinto il violatore del Tempio e di aver loro
concesso numerosi privilegi28. Invano i congiurati aspettavano nelle
loro case, di ora in ora, di poter uscir fuori sicuramente: quella
che sembrava una cautela provvisoria si mutava in clausura forzosa;
Bruto, Cassio e gli altri congiurati che avevano magistrature,
dovettero tralasciare di scendere al Foro, di venire al Senato e di
compiere le loro funzioni; molte pubbliche faccende furono
intralciate o sospese.... A poco a poco, durando i disordini oltre
la previsione di tutti, incominciò a nascere in tutti un
singolare impaccio. I cesariani più eminenti, tutti
arricchitisi oramai29 e perciò desiderosi di conservare
quanto avevano acquistato, paventavano ogni dì maggiormente
che questi disordini suscitassero alla fine nei conservatori un
furibondo vigore simile a quello dei tempi di Saturnino e di
Catilina; e avrebbero desiderato che nessuno si ricordasse essere
essi stati cesariani, ora che il partito di Cesare si confondeva
quasi interamente con le turbe rivoltose di Roma. Quasi tutti
continuavano a star lontani da Roma; i membri del collegio, composto
da Cesare per celebrare ogni anno i Giuochi della Vittoria, non
osavano incominciare i preparativi30; Oppio si raccomandava a
Cicerone31; anche Irzio pare ritornasse via presto32; anche Lepido
tentennava, ora aveva paura di essere ammazzato come Cesare, ora,
sollecitato dalla moglie Giunia, che era sorella di Bruto, scriveva
amichevolmente ai capi della congiura33, tanto che Antonio, per non
perdere il suo aiuto, gli promise di farlo eleggere pontefice
massimo in luogo di Cesare34. Abbandonato da tutti, Antonio, che non
voleva inferocire con il popolino, e non voleva nemmeno, come Mario
nell’anno 100, esser sopraffatto da una levata dei conservatori
esasperati, lasciava i rivoltosi e i veterani infuriati padroni di
Roma, ma si ingegnava di ingraziarsi i grandi, offrendo dei
mazzolini di fiori a chi aveva bisogno di una spada: e non solo
favorì in Senato una proposta di Servio Sulpicio, di
annullare tutte le immunità e benefici concessi da Cesare che
non avevano avuta esecuzione prima del 15 marzo35; ma propose egli
stesso un senatusconsulto che aboliva per sempre la dittatura, con
immenso giubilo dei conservatori, cui sembrava di uccidere una
seconda volta, in ispirito, Cesare36. Senonchè anche i
conservatori, che i cesariani tanto temevano, non erano meno
scompigliati da questi tumulti. La forzosa clausura e la lunga
inerzia avvilivano i congiurati e specialmente Bruto che, debole e
nervoso per natura, era probabilmente già caduto dalla
esaltazione delle Idi in quella prostrazione in cui lo vedremo di
qui a poco; i disordini spaventavano molti, rendevano difficili i
ritrovi e le intese, rade le sedute del Senato; tutti aspettavano
che i tumulti finissero, per prendere, con maggior pace, le
deliberazioni necessarie su tutte le cose e intanto i giorni
passavano e nessuno faceva nulla; Dolabella si nascondeva,
spaventato probabilmente dalla sorte di Cinna, che avrebbe potuto
toccare anche a lui, in pena del suo tradimento37; anche Cicerone,
passata la gran gioia delle Idi di marzo e le commozioni dei giorni
successivi, incominciava a impazientirsi per la neghittosità
di tutti, sebbene tutti i partiti lo corteggiassero. Non pochi
cesariani rifacevano persino i loro testamenti, per lasciargli dei
legati, e si ingegnavano di fargli aver notizia di ciò!38
Così gli uomini eminenti dei due partiti erano invasi da una
stanchezza, che si sfogava in una tetraggine di previsioni infauste
e da una egoistica sollecitudine del bene proprio, che si
dissimulava in un disgusto irritato di tutto. “Se Cesare, che aveva
tanto ingegno, non aveva saputo trovare una uscita, chi altri
potrebbe?”39 diceva un amico fedele del dittatore. E che tutto
dovesse precipitare era previsione universale! Dicerie paurose
correvano: che all’annunzio della morte di Cesare i Galli
insorgerebbero40; che i Geti si preparavano a invadere la
Macedonia41; che le legioni si rivolterebbero nelle provincie42.
Erano irritati e scontenti tutti; e intanto, nell’imminenza della
gran rovina, tutti badavano solo ad arraffare quello che potevano,
visitando, corteggiando, sollecitando quello stesso Antonio43, cui
nessuno dava aiuto a governare la repubblica. La morte di Cesare e
la convalidazione dei suoi atti aveva fatto piovere a Roma, e per
opposti motivi, un doppio ordine di innumerevoli sollecitatori:
quelli che avevan ricevuti danni per aver seguito Pompeo ed ora
brigavano, per essere indennizzati, tra il partito conservatore
ridiventato potente e presso il console che pareva benevolo; quelli
– ed eran tanti – che avevano ricevuta una promessa da Cesare, e a
cui Antonio doveva trovare nelle carte il documento. Attico
sollecitava affinchè si cercasse la revoca della colonia di
Butroto; gli agenti di Deiotaro re dei Galati e quelli dei
Marsigliesi domandavan la restituzione dei territori tolti loro da
Cesare per la amicizia con Pompeo; anche una ambasceria di
Siciliani, che già pare avesse ottenuto da Cesare il diritto
latino, ora voleva per l’isola la cittadinanza romana44; ogni giorno
aumentava la faraggine dei reclami, delle richieste, delle
rivendicazioni; e nel disordine universale i più, rimandati
dall’uno all’altro, cercavano alla fine rifugio da Antonio. Tutti
domandavano, ma nessuno voleva faticare o rischiare per la
repubblica; la macchina dello Stato, che alla mattina del 17 pareva
ricomposta, era di nuovo, cinque o sei giorni dopo, sgangherata;
Antonio solo lavorava, e infaticabilmente, da mane a sera45, ma non
poteva bastare a ogni bisogno, quando nessun uomo eminente prendeva
alcuna iniziativa in Senato e i provvedimenti più urgenti
eran negletti. Pare che non si pensasse nemmeno a partecipare a
tutti i governatori ufficialmente la morte di Cesare e il mutamento
del governo!46 Solo un momento il Senato parve inquietarsi per le
voci della invasione dei Geti in Macedonia; e non potendo lasciare
le legioni al comando di un propretore in simil frangente,
deliberò di mandare una commissione in Macedonia a esaminare
lo stato delle cose, mettendo intanto l’esercito sotto il comando
del console Antonio, che l’anno prossimo doveva essere proconsole di
Macedonia47. A questo modo, se l’invasione dei Geti avvenisse, il
console avrebbe potuto immediatamente provvedere alla difesa.
[44 a. C. 1-10 aprile.] Non andò molto che i più si
stancarono di queste tormentose incertezze; e verso la fine di marzo
Antonio incominciò a vedere i due partiti sbandarsi intorno a
lui. Uno dopo l’altro, un considerevole numero di congiurati
scapparono da Roma, non sentendosi più sicuri; Decimo Bruto e
Tullio Cimbro partirono per le loro provincie48, contenti di avere
un buon pretesto a lasciar Roma; ai primi di aprile molti senatori
si recarono alle loro ville nel Lazio e sul golfo di Napoli; il 6 o
il 7 partì per Pozzuoli anche l’uomo più autorevole
del Senato, Cicerone49. La reazione conservatrice contro i
disordini, che tutti aspettavano, non doveva avvenire questa volta.
Come la reazione contro Catilina era stata meno intensa che la
reazione contro Saturnino, e quella seguita ai funerali di Clodio
più debole di quella contro Catilina, ora ai disordini dei
funerali di Cesare non seguirebbe più nessuna reazione. Dopo
la guerra civile, in cui aveva perduto tanti uomini, tante
ricchezze, e, ricchezza più preziosa, la fiducia in
sè, il partito conservatore non aveva più vigore
vitale; ed esangue e prostrato non sentiva quasi più gli
stimoli che una volta lo avevan fatto balzare in piedi impetuoso e
feroce. Ma non meno disfatto era il partito cesariano, ridotto ormai
a una turba di rivoltosi e di veterani forsennati, che mettevano a
rumore Roma senza scopo e senza capi. Tanto è vero che Cesare
non aveva potuto fondar nulla di veramente durevole, e che,
sparendo, aveva lasciato lo Stato simile a una grande rovina sospesa
sopra un abisso! Per somma sventura, in mezzo a tanto disordine, l’8
o il 9, il popolino tumultuante a caso trovò alla fine un
capo. Erofilo, il falso nipote di Mario che Cesare aveva relegato,
rotto il bando, ricomparve a Roma; eresse sul luogo dove Cesare era
stato bruciato un’ara, e raccoltosi intorno un manipolo di bravi,
peregrinò da un quartiere all’altro alzando lo stendardo
della vendetta del dittatore, incitando il popolino ad ammazzare
Bruto e Cassio50. L’agitazione ridivampò con tal furore che
Bruto e Cassio dovettero munire la casa come una fortezza; e stanchi
alla fine di viver sempre come in una prigione, nell’ansia
ininterrotta di un assalto, flagellati senza tregua da tante
raffiche di odio, deliberarono di lasciar Roma, se Antonio almeno
prometteva di fare avere il congedo necessario a Bruto, che come
pretore urbano non poteva lasciar la città per più di
dieci giorni senza un permesso del Senato. Mandarono per ciò
a chiamare Antonio che si mostrò ben disposto verso i capi
della congiura e promise di contentarli51: ma, prima di lasciar
Roma, vollero fare ancora un tentativo per ingraziarsi i più
violenti dei rivoltosi, i veterani; e in un editto promisero ai
coloni di Cesare di liberarli dal vincolo di non vendere le terre
concesse prima di venti anni52. Uno zampillo d’acqua sopra un
torrente di lava! Scoppiava addirittura un fanatismo religioso per
la memoria di Cesare. Tra il popolo minuto di Roma erano molti
orientali avvezzi ad adorare i re e i potenti come Dei, dai quali
probabilmente, in quel fermento, la orribile superstizione si
diffuse per contagio ai plebei; cosicchè tutti i giorni
venivan folle all’ara a portar voti, a far sacrifici, a risolvere
contese, giurando per Cesare53: e Cesare si mutava in un Dio
protettore dei poveri e dei miserabili. Il disordine crebbe tanto,
la situazione diventò così pericolosa che, dopo
quattro o cinque giorni, l’11 o il 12 aprile probabilmente54,
Antonio, inquieto non avesse a nascere qualche guaio serio, fece
prendere e uccidere Erofilo.
III.
DISSOLUZIONE UNIVERSALE.
La severità di Antonio fu molto ammirata dai conservatori55,
e Bruto se ne rallegrò con il console56. Ma fu un respiro di
poche ore. Il giorno stesso il popolino proruppe in dimostrazioni
anche contro l’uccisore di Erofilo; e incendiò perfino la
bottega di uno statuario in cui si cambiava la testa alle statue di
Cesare. Antonio dovè usare nuovi rigori: crocifiggere gli
schiavi e precipitar dalla rupe Tarpea i liberi, che sorprese in
queste violenze57. Ma inutilmente: il dì seguente, il 13
aprile, Bruto e Cassio, stanchi di vivere in continuo timore,
tendendo l’orecchio dal fondo delle loro case a ogni romore che
giungesse di lontano, esasperati dall’inerzia e dalla solitudine cui
erano condannati, uscirono di Roma per recarsi a Lanuvio. Antonio,
vedendo crescere la perturbazione di Roma, si accostò ancor
più ai conservatori; propose al Senato di accordare a Bruto
il permesso di restar fuori di Roma più di dieci giorni58;
propose pure si incaricasse Lepido di trattare pace con Sesto
Pompeo, ancora forte in Spagna con sette legioni, e di proporgli il
ritorno59; diede un’altra soddisfazione al partito conservatore,
facendo sospendere da un senatusconsulto la elezione popolare del
pontefice massimo60. Dopodichè il collegio dei pontefici
riconobbe Lepido pontefice massimo. Ciò non ostante, quando
Bruto e Cassio furon partiti, l’esodo dei grandi si mutò in
fuga precipitosa; uno dopo l’altro, i congiurati che ancora
restavano si misero in salvo; si risolvè a partire per la sua
provincia Trebonio, ma di soppiatto, come un privato, per non subire
qualche violenza dal popolino61; fuggì di Roma anche
Cleopatra; anche Lepido, dopo l’elezione a pontefice massimo, prese
la via della Narbonese. Antonio rimaneva quasi solo nell’Urbe, in
quella specie di cratere in cui da ogni parte sprizzavan fughe di
fumo solfureo, prorompevan getti di acqua bollente, si udivan boati
sotterranei e scotimenti profondi.
[44 a. C. Seconda metà di aprile] Quanto oramai, e in che
maniera impensata, eran mutate le cose, in quel mese, dalle Idi di
marzo! La sperata conciliazione dei partiti in un ragionevole
governo repubblicano svaniva in una diffidenza e disgregazione
universali. Certamente, appena usciti di Roma, tutti i conservatori
fuggiaschi avevano provato il ristoro di chi, dopo una lunga afa,
sale a respirare un’aria più fresca e più limpida.
Nelle piccole città la plebe artigiana era scarsa, e non
aveva nè collegia, nè capi, nè la audacia
turbolenta che infondeva in quella di Roma il numero e la potenza;
predominava invece la “gente dabbene”, gli agiati possidenti, i
ricchi mercanti, moderatamente conservatori, repubblicani e,
specialmente allora che a Roma pareva minacciarsi una rivoluzione,
favorevoli al partito dell’ordine, ai conservatori e ai
congiurati62; i quali perciò, dopo l’odio ardente di Roma,
ritrovavano un rispetto sia pur prudente e una ammirazione sia pur
discreta. Così tra omaggi, visite e inviti, anche il vecchio
Cicerone – aveva allora 62 anni – era arrivato al mare, dopo un
comodo viaggio di otto giorni, e villeggiava “nei suoi regni di Cuma
e di Pozzuoli”, insieme con molti membri dell’alta società di
Roma e con quasi tutti i capi del partito di Cesare, Balbo, Irzio,
Pansa63; e sempre in faccende, riceveva e spediva un gran numero di
lettere; faceva visite, accoglieva amici e ammiratori, scriveva a
galoppo un libro sulla Divinazione e uno sulla Gloria; leggeva opere
greche e ne ordinava a Roma; prendeva note, dava disposizioni per i
suoi affari e andava pensando a scrivere un gran trattato sul
Dovere, che contenesse, in una cornice di dottrine greche, una
teoria sulla rigenerazione morale e politica della repubblica.
Eppure non poteva godersi nè il bel sole, il cielo vivido, i
primi fiori del golfo, nè gli omaggi dei suoi ammiratori,
irritato come era da una straordinaria agitazione, che lo faceva, a
quell’età, volubile, esagerato, violento come un giovinetto
inesperto. Lontano dai tumulti e dai veterani, era diventato oramai
un conservatore furibondo, intransigente, fanatico, il quale, pur
usando prudenza in pubblico, si sfogava nelle lettere e nei
discorsi: si rammaricava con frase cannibalesca di non essere stato
invitato al “magnifico banchetto delle Idi di marzo”, chiamava
sempre Bruto e Cassio alla greca gli “eroi”64; avrebbe voluto
sterminare tutto il popolino riottoso di Roma; vedeva in ogni parte
cesariani in agguato per nuovi macelli e rapine65; sospettava il
doppio gioco di Antonio che chiamava un giocatore arruffone66; si
doleva che l’uccisione di Cesare non avesse servito a nulla e che le
sue volontà valessero ancora; strepitava esser necessari armi
e denari; dava per spacciata la repubblica, con magistrati
così poltroni, con tanti veterani in movimento e con tanti
cesariani nelle cariche67; ingoiava veleno a vedere i nuovi
possidenti che avevano comprati i beni dei suoi amici o i centurioni
di Cesare arricchiti68; si arrabbiava per il mezzo esilio di Bruto e
di Cassio69; si stizziva sinanche – chi lo crederebbe? – per i
legati che gli lasciavano i cesariani70. E disgustato, scoraggito,
pensava di scapparsene in Grecia71. Ma bastava poi un nonnulla, una
notiziola, un fatterello a mutarne l’umore, a disporlo alle
previsioni più rosee; e allora tutto andava bene, le legioni
non insorgevano, la Gallia non si rivoltava72, Antonio era un
innocuo beone73. Bruto e Cassio invece, fuggendo da Roma, si erano
fermati a Lanuvio; e di lì si accingevano a invitare da tutti
i municipi del Lazio i giovani di famiglie legate a loro da
parentela, amicizia o clientela a raccogliersi in una specie di
guardia con cui tornare in Roma74. Trebonio, Decimo Bruto, Tullio
Cimbro erano in viaggio; gli altri congiurati e conservatori
cospicui, dispersi per le ville e le piccole città, non
facevano più nulla, avviliti dalla stessa dispersione, dallo
sbalordimento della inaspettata bufera che li aveva scacciati di
Roma, dall’ansietà dei pericoli nuovi che parevano
minacciare. E allora avvenne nella politica di Antonio un mutamento
risolutivo. Non è temerario supporre che già durante
le continue oscillazioni di quel mese, Antonio prendesse a dubitare
che nè l’uno nè l’altro partito fossero più in
grado di governar la repubblica: ma quando egli si trovò a
capo di uno Stato mutilo, a cui mancavan tanti magistrati e perfino
il pretore urbano, con il partito suo ai bagni, con un collega che
non osava comparir più in pubblico, con un Senato incerto,
esitante, che la primavera e la paura diradavano di giorno in
giorno; quasi padrone insomma della repubblica abbandonata da tutti,
questi dubbi precipitarono alla fine in un nuovo voltafaccia,
più audace dei molti con cui, nell’ultimo mese, aveva cercato
di volger sempre le spalle ai più deboli e il viso ai
più forti. Due persone, restate sino ad allora nell’ombra,
sembrano essersi adoperate questa volta a vincerne le ultime
titubanze: sua moglie Fulvia e suo fratello Lucio. È avvenuto
non poche volte a personaggi storici, anche più grandi di
Antonio, che, quando furono in procinto di osare il supremo
ardimento da cui dipese poi la loro potenza futura, esitassero e non
si risolvessero se non per gli incitamenti di persone più
oscure e spesso meno intelligenti, le quali, essendo meno note,
rischiando meno, discernendo i pericoli, per il minore intelletto,
più confusamente, avevano conservato maggior coraggio nel
momento critico. Così avvenne pure allora ad Antonio. Lucio
par che fosse un giovane molto somigliante per indole al fratello
maggiore; audace, ambizioso, arruffone, ma più spensierato,
forse per la minore esperienza: Fulvia invece, una di quelle rare
donne ambiziosissime, in cui la passione virile del potere par che
distrugga tutte le virtù ed esalti tutti i difetti femminili;
ostinata, intrigante, avida, crudele, prepotente e temeraria. Essa
era stata moglie prima di Clodio e poi di Curione, e quindi, con
quel carattere e a quella scuola, doveva essere diventata una specie
di Musa della rivoluzione; aveva poi sposato Antonio, come se fosse
suo destino di avere a marito tutti, uno dopo l’altro, i grandi
mestatori di Roma; e su Antonio aveva in breve acquistato il potere,
che le donne pari sue esercitano sempre sugli uomini violenti,
ineguali e sensuali. Non è perciò strano che, in mezzo
a quei tumulti, rivivesse in lei un poco l’anima di Clodio e che,
d’accordo con Lucio, prendesse a incitare Antonio: non si lasciasse
sfuggire quella occasione di conquistare una grandezza eminente
sopra il grado comune, come aveva fatto Cesare nel 59; dopo la fuga
di Cassio, di Bruto, dei congiurati, dei conservatori più
insigni, la repubblica era in sua balìa; se l’oscuro Erofilo
aveva potuto, solo perchè aveva lusingata quella ardente
passione dei veterani e del popolo per la vendetta di Cesare, far
quello che tutti giudicavano impossibile un mese prima, scacciar
cioè in pochi giorni il partito conservatore dalla
repubblica, di cui tutti lo credevano di nuovo solidamente padrone
dopo le Idi di marzo, non riuscirebbe un uomo insigne come Antonio
nell’impresa molto più facile, di invader la repubblica
sgombrata da chi già l’occupava? Per maggior fortuna, egli
aveva anche un fratello, Caio, pretore, e un altro, Lucio, tribuno.
Certo non era più possibile servirsi, per dominare la
repubblica, delle società artigiane, ormai troppo decadute,
che Cesare aveva adoperate nel 59; ma lo aiuterebbero efficacemente
i veterani numerosi, risoluti, esasperati contro gli uccisori del
loro generale, paurosi di perdere le ricompense, ai quali in fondo
erano dovuti per molta parte i tumulti del mese precedente, da cui
il partito conservatore era stato sgominato. Atteggiandosi a
continuatore e, occorrendo, a vendicatore di Cesare, Antonio li
avrebbe tutti per sè. È vero che Roma non era tutto
l’impero e che, signoreggiando la metropoli, non per questo si
avrebbero le provincie in propria balìa; ma incominciavano a
girar dicerie, le quali se spaventavano i conservatori, dovevano
incuorare Antonio e i suoi consiglieri: e cioè che gli
eserciti nelle provincie erano furibondi per la morte di Cesare e
tutti in procinto di rivoltarsi. In breve, sospinto da Fulvia, da
Lucio, dalle proprie ambizioni e dagli eventi, Antonio si risolvette
verso la metà di aprile, se non proprio a mutare apertamente
e interamente politica, a incominciare un seguito di maneggi, in
apparenza confusi ed opposti, ma che si spiegano invece molto
chiaramente, purchè si supponga che egli si proponeva, non
già di succedere a Cesare nella dittatura quasi monarchica
degli ultimi tempi, ma di imitarne nella misura del possibile il
primo consolato, e di provarsi a conquistare un potere più
vasto e durevole che quello ordinario di console; con una certa
circospezione, però, la quale dimostra come egli non
giudicasse i conservatori spacciati per sempre, così
sicuramente come i suoi consiglieri.
[44 a. C. 15-20 aprile.] Tra il 15 e il 20 aprile i primi segni del
mutamento apparvero a un tratto ai conservatori, prima con un
discorso tenuto al popolo dal console in cui Cesare era chiamato il
“grandissimo cittadino”75, poi con certi strani documenti, che si
sarebbero trovati, verso il 18, tra le carte di Cesare. Con uno di
questi si concedeva la cittadinanza romana ai Siciliani e con
l’altro si restituivano a Deiotaro i regni toltigli da Cesare. Non
era necessario un gran discernimento per giudicar falsi i due
documenti. A chi credeva Antonio di dare ad intendere che Cesare
volesse restituire a Deiotaro, al fedele amico di Pompeo, quel che
gli aveva tolto? Ma per ripetere il primo consolato di Cesare era
necessario molto denaro; e per procurarselo Antonio aveva finalmente
ceduto alle sollecitazioni di Fulvia e fatto falsificare da
Faberìo, il segretario di Cesare, i due documenti, ricevendo
in cambio dai Siciliani e dai rappresentanti del re di Galazia
grosse somme, da questi ultimi, a quanto pare, una syngrapha, una
tratta, diremmo noi, sopra il tesoro del re, di 10 milioni di
sesterzi76. Senonchè la frode era così audace che non
solo Cicerone a Pozzuoli balzò di sorpresa quando ne ebbe
notizia77; ma a Roma i senatori deliberarono subito che delle carte
di Cesare non giudicherebbe più Antonio solo, ma i due
consoli assistiti da una commissione e solo a cominciare dal 1°
giugno, quando il Senato ritornerebbe a radunarsi e potrebbe quindi
invigilare ogni giorno la commissione78. Durante le ferie non si
toccherebbero più le carte di Cesare. Sul golfo di Napoli
però, tra i villeggianti, l’impressione di queste notizie era
stata di lì a poco scemata dall’arrivo del figlio adottivo di
Cesare. Caio Ottavio era un giovinetto di non ancora 19 anni. Appena
ricevuta ad Apollonia la notizia delle Idi di marzo, egli era stato
un poco in forse se far ribellare le legioni macedoniche, ma poi,
non osando, era partito; [44 a. C. Aprile] era sbarcato, per maggior
prudenza, non a Brindisi ma a Lupiae, dove aveva avuto notizia del
testamento e della adozione; era subito andato a Brindisi, di dove
si avviava verso Roma, accompagnato da alcuni giovani amici che
Cesare aveva mandati con lui ad Apollonia; tra i quali un certo
Marco Vipsanio Agrippa e un certo Quinto Salvidieno Rufo, ambedue di
origine oscura79. Erano naturalmente tutti curiosi di vedere questo
erede e di saper quali intenzioni avesse. Diventando figlio di
Cesare, egli era obbligato dall’antico costume a perseguitare in
giudizio gli uccisori di suo padre e sarebbe senza dubbio incitato
alla vendetta da molti malvagi: viceversa era impedito di ciò
fare dalla amnistia del 17 marzo. Era il giovane disposto ad
accettare l’eredità e il nome del dittatore? Era consapevole
dei gravi obblighi che gli imponeva la amnistia? Ottavio, giunto a
Napoli il 18 aprile, aveva avuto un colloquio con Balbo e gli aveva
dichiarato di accettare l’eredità80; era stato a Pozzuoli a
far visita al suo padrigno Lucio Marcio Filippo e a Cicerone, che
aveva già visto qualche volta a Roma, mostrandosi con lui
molto gentile81. Dell’amnistia o si schermì di parlare o
parlò in modo da non offendere nessuno. Ma a Cicerone, se il
giovanotto non era spiaciuto, era spiaciuta moltissimo la mala
compagnia che già aveva raccattato nel viaggio: un codazzo di
veterani, di coloni, di liberti di Cesare, veri e d’occasione, i
quali imprecavano contro Antonio perchè trascurava di
vendicare il dittatore, lo incitavano a farsi valere, e intanto
ostentavano quasi di chiamarlo ad ogni occasione Cesare, Cesare,
come se la adozione già fosse perfetta. Cicerone e il
padrigno, per ripicco, si impuntarono a chiamarlo Ottavio82: il
padrigno anzi lo consigliò a non accettare la troppo
pericolosa eredità83. A ogni modo Ottavio si era fermato poco
sul golfo ed aveva proseguito per Roma, lasciando Cicerone ai suoi
libri, alla sua perenne vicenda del buono umore e del cattivo, alle
sorprese che gli venivan da Roma. Il 19 aprile Attico gli aveva
mandata una buona notizia, che l’aveva rallegrato moltissimo: e
cioè che Decimo Bruto, giunto nella Cisalpina, era stato
senza difficoltà riconosciuto come generale delle legioni.
Era dunque falsa la diceria che i soldati si rivolterebbero ai
congiurati! Se Sesto Pompeo non faceva pace, come egli sperava, i
conservatori potrebbero disporre di due validi eserciti!84 Ma nel
tempo stesso capitò una sorpresa: una lettera di Antonio che
gentilmente gli domandava il permesso di dare esecuzione a un atto
di Cesare, richiamante dall’esilio Sesto Clodio, il cliente di
Clodio condannato dopo i funerali di costui85. In verità
anche questa volta Antonio aveva ceduto a Fulvia che desiderava il
perdono dell’amico del suo primo marito; ma aveva pensato di
scrivere quella lettera per non inimicarsi il vecchio e potente
nemico di Clodio, per così piccola cosa. Cicerone
stupì di esser chiamato arbitro a questo modo di un atto di
Cesare, che, se vero, doveva valere senz’altro: ma sebbene gli fosse
stato facile di sapere da Irzio, da Balbo e da Pansa che Cesare non
aveva mai pensato a questo richiamo86, rispose gentilmente di esser
contento87. Attico era in grandi angustie, perchè Gneo
Planco, incaricato da Cesare di dedurre la colonia a Butroto,
già partiva; onde sollecitava Cicerone a intervenire presso
Antonio; nè Cicerone voleva guastarsi con costui e sciupar
così bella occasione di rendere alla fine un servigio a chi
gli era stato largo di tanti aiuti. Senonchè, verso il 27 di
aprile, Attico gli scrisse notizie più gravi: non solo
Antonio prendeva grandi somme sul tesoro pubblico deposto nel tempio
di Opi, sempre tirando fuori pretese carte del dittatore; ma correva
voce che il 1° giugno, riaprendosi il Senato, domanderebbe la
Gallia Cisalpina e la Chiomata in cambio della Macedonia e il
prolungamento del proconsolato per lui e per Dolabella88.
Cicerone lamentò un’altra volta che la uccisione di Cesare
fosse stata così sterile; si confermò nell’idea che
senza un esercito, con la sola forza delle finzioni legali, non si
poteva far nulla; dimenticò il proposito di andare in Grecia
e scrisse ad Attico che sarebbe a Roma il 1° giugno, se pure
Antonio non lo impedisse89. Egli credeva che costui porterebbe la
sua dimanda al Senato. Ben diversi disegni mulinavano invece Antonio
e Fulvia! Se la Macedonia per due anni gli sarebbe bastata, vivo
Cesare, egli ambiva ora, come Cesare nel primo consolato, un
più lungo comando di una provincia più vasta; e aveva
difatti posto gli occhi su quelle provincie galliche toccate a
Cesare allora, che egli conosceva per avervi guerreggiato tanti
anni: voleva in altre parole far approvare dal popolo una nuova lex
Vatinia de provincia Caesaris. Ma non subito: era necessario
organizzare prima, in qualche modo, i veterani, come Cesare aveva
organizzato nel 59 il popolino, per poter adoperarli sicuramente
nelle votazioni e nelle violenze; era anche necessario aumentarne il
numero, perchè quello dei venuti a Roma spontaneamente non
bastava: assoldare molti di quei veterani che Cesare voleva dedurre
in colonie nell’Italia meridionale e specialmente in Campania che
aspettavano le terre promesse; farli venire a Roma, dare a costoro e
a quelli che già erano venuti una specie di ordinamento
militare. Si risolvè anzi a andar nell’Italia meridionale
egli stesso e partì infatti, forse il 24 o il 25 aprile,
appena chiuso il Senato90.
Questo viaggio fu in principio cagione di molta perplessità a
tutti, anche a Cicerone.
Che mai macchinava Antonio? Qualche cosa buona e utile alla
repubblica91, no, di sicuro. Attico anzi scriveva addirittura che
ormai la saggezza non contava più nulla, che tutto dipendeva
dalla fortuna92, sebbene per le cose sue non si fidasse solo della
fortuna, e cercasse approfittare anche del viaggio di Antonio,
scrivendo a Cicerone di andar incontro al console a parlargli di
quella benedetta faccenda di Butroto. Tuttavia, tutti dimenticarono
di lì a poco, per un momento, Antonio e il suo viaggio,
quando Dolabella, approfittando della assenza di Antonio uscì
fuori un’altra volta a far del chiasso; e probabilmente il 26 o 27
aprile, andato sul Foro con una mano di armati, fece distruggere la
famosa ara di Erofilo, fece uccidere molti sediziosi e
appaltò la rilastricatura del luogo. I conservatori ne furon
contenti; Cicerone gongolò, si rasserenò, scrisse
subito una enfatica lettera di congratulazione al “meraviglioso”
Dolabella, dimenticando per un momento che anche questo portento di
uomo aveva poco prima rubato con un documento falso di Cesare una
somma considerevole nel tesoro dello Stato93 e che gli doveva ancora
la rata della dote di Tullia scaduta a gennaio. [44 a. C. 1-10
maggio] Scrisse anche, il 3 maggio, una lettera a Cassio, dicendo,
senza però nominare Antonio ed offenderlo, che la cosa
pubblica era in miglior stato; che essi dovevano riprender coraggio
e non lasciare a mezzo l’impresa, solo incominciata con le Idi di
marzo94. E intanto, mentre egli si rallegrava per questo piccolo
successo, Antonio, prima di cominciare il reclutamento dei suoi
veterani, scriveva una lettera a Bruto e a Cassio, pregandoli
gentilmente ma risolutamente di smettere il reclutamento di amici,
che avevano cominciato per tornare con quelli a Roma95. Antonio non
aveva fatto nulla per scacciare Bruto e Cassio da Roma, la cui
partenza anzi, al 13 aprile, prima di mutar politica, gli era senza
dubbio spiaciuta, perchè accresceva la responsabilità
sua; ma ora che la assenza loro favoriva i suoi nuovi disegni, non
voleva più che tornassero, come non voleva che tornasse a
Roma Cicerone. Poi incominciava a mandar messaggi ai veterani della
Campania, a radunarli, a spaventarli ammonendoli che, se non
vigilassero, gli atti di Cesare sarebbero stati annullati96; si
dichiarava pronto ad aiutarli affinchè tutte le promesse di
Cesare fossero mantenute; e per dar prova del suo zelo
incominciò le operazioni per fondare una nuova colonia a
Casilino dove già una ne aveva dedotta Cesare: operazioni che
Cicerone dichiarò contrarie al diritto augurale97, ma che
dovevano contentare subito o rassicurare molti di quei vecchi
soldati che ancora aspettavano la ricompensa. Infine a coloro a cui
non poteva dar subito terre in Campania offriva denaro, se si
obbligavano a venir con lui a Roma, per aiutarlo nella difesa degli
atti di Cesare, ma portandosi seco le armi, impegnandosi a tenerle
pronte e accettando che due ispettori ogni mese verificassero se
mantenevano l’impegno98.
Bruto e Cassio invece avevano ceduto alle esortazioni del console,
pubblicando un editto con cui dichiaravano di congedare gli amici
volontariamente99. In verità non avevano osato resistere ad
Antonio. Forse il reclutamento non procedeva bene, perchè la
borghesia italica era sì repubblicana e conservatrice, ma
politicamente molto infingarda; e poi essi formavano una coppia
così male appaiata! Se Cassio era intelligente, resoluto ed
energico, l’erudito amico suo, atto più a viver tra i libri
che nelle rivoluzioni, nervoso e debole, impacciava continuamente il
compagno, abbandonando scoraggito le imprese appena incominciate,
ricorrendo per consiglio a tutti, perfino a sua moglie e a sua
madre, a quest’ultima in special modo, con grande stizza di
Cicerone. Il sospettoso oratore si fidava poco di Servilia, che era
stata tanto amica di Cesare100. Cosicchè quasi in risposta
alla sua lettera a Cassio del 3 maggio, Cicerone ne ricevè
una di Bruto, in cui diceva sconsolatamente di voler andare in
esilio!101 Tanto maggiore fu lo sgomento in cui si volse, verso il 7
o l’8 di maggio102, la breve gioia dei conservatori per l’atto di
Dolabella, allorchè si riseppero le mene di Antonio in
Campania. [44 a. C. 10-20 maggio.] Era chiaro: se egli raccoglieva
tanti di quei veterani, che lo accusavano di trascurar la vendetta
di Cesare e che volevano morti gli uccisori di costui, doveva covar
disegni avversi ai conservatori. E un gran panico scoppiò in
Roma, si allargò nel Lazio, giunse sino a Napoli, con quella
notizia. Servio Sulpicio lasciò Roma, dicendo ad Attico che
lo stato delle cose era ormai disperato. Cicerone si
spaventò, si scoraggì, riprese a pensare al viaggio in
Grecia, diventò cautissimo nello scrivere le sue lettere, che
potevano essere aperte da estranei, non accennando che nebulosamente
alle mene di Antonio; ma non voleva vederlo e scriveva ad Attico di
non averlo mai potuto incontrare103. “La vecchiaia mi fa acerbo.
Tutto mi disgusta. Meno male chela mia vita è finita. Se la
sbrighino i giovani”104 – scriveva ad Attico. Dolabella rispondeva
ancora con violenza alle “orribili concioni” di Lucio Antonio105,
che preparava Roma alla nuova politica popolare del fratello; ma era
solo. Gli altri, e specialmente i cesariani più autorevoli,
che avevano sino allora lasciato Antonio in abbandono, ora si
destreggiavano tra lui e i conservatori con una agile doppiezza che
esacerbava Cicerone. Pansa disapprovava sì la condotta di
Antonio nella faccenda di Deiotaro e di Sesto Clodio, ma
disapprovava anche la distruzione dell’ara ordinata da Dolabella106;
Balbo era andato da Cicerone tutto inquieto, appena aveva saputo
degli arruolamenti di Antonio, a raccontarglieli, a lagnarsi
dell’odio così ingiusto che i conservatori nutrivan contro
lui, ma non aveva voluto disapprovare Antonio, almeno con quella
chiarezza che Cicerone desiderava107; Irzio, ridiventato cesariano
ardente, diceva che tutte queste cose eran necessarie perchè,
se i conservatori avessero ripreso forza, avrebbero annullato tutti
gli atti di Cesare108; ammetteva che i reclutamenti di Antonio erano
pericolosi alla pace pubblica, ma non più di quelli di Bruto
e di Cassio, e che tutti dovevano smettere109. Cicerone si
tratteneva a stento da liticare con tutti e dichiarava imminente la
guerra civile; ma intanto porgeva l’orecchio a certe voci
inquietanti: quei veterani andavano a Roma per ridrizzare l’ara
rovesciata da Dolabella, si guardassero bene, egli e i congiurati e
tutti i conservatori eminenti, di recarsi in Senato il 1°
giugno, se non volevano rischiar la vita110. Attico gli aveva
perfino scritto il 18 maggio che, per salvare la repubblica, era
necessario nientemeno che proclamare il senatusconsultum ultimum, lo
stato d’assedio, come si era fatto nel 49, prima della guerra
civile.111
Intanto Antonio, il 19 o il 20 maggio112 tornava a Roma portandosi
dietro, dopo le migliaia che aveva mandato innanzi, un’ultima torma
di veterani113. Ma a Roma egli trovava Caio Ottavio già
all’opera e che lo aspettava.
IV.
IL FIGLIO DI CESARE.
Caio Ottavio non aveva ancora diciannove anni. Quanta verità
contengano le frammentarie notizie pervenute a noi sulla indole e
sui costumi di lui in questi tempi, sarebbe difficile dire. Possiamo
invece supporre con verisimiglianza, dalla protezione di Cesare e
dagli atti suoi, che egli fosse un giovane di intelligenza vivace e
uno di quei neoteroi (νεώτεροι), come li chiamava Cicerone che li
aveva tanto in uggia, uno di quei giovani “moderni”, diremmo noi, i
quali affettavano in ogni cosa il disprezzo delle vecchie tradizioni
latine e l’ammirazione di tutte le cose straniere. Accarezzato
dall’uomo più potente di Roma, annoverato nel numero dei
patrizii, rivestito di cariche onorifiche e fatto perfino magister
equitum a quella età, il giovinetto doveva essersi scaldata
ancor più la testa, aver concepite grandi ambizioni ed
essersi avvezzo a considerare come facili, innocue e senza
importanza molte cose che solo la esperienza e il tempo
dimostrerebbero poi, a lui come a tanti giovani, quanto fossero
difficili o pericolose o degne di rispetto.
[44 a. C. Maggio.] Il giovane era giunto a Roma proprio a tempo.
Fuggiti i congiurati, partiti i senatori più cospicui, chiuso
il Senato, il partito conservatore era come sparito; i veterani e la
plebe spadroneggiavano nella città, rassicurati e soddisfatti
della loro vittoria, e perciò si tranquillavano alla fine,
sfogando ora liberamente in tutti i modi per Roma l’ammirazione di
Cesare. Invano Dolabella si era illuso di rianimare i conservatori
rovesciando l’ara di Cesare. Arrivando in questa breve pausa di
soddisfacimento e di tranquillità, il figlio di Cesare era
stato accolto festosamente da quanti avevan fatto le dimostrazioni
contro i congiurati, dai due fratelli di Antonio che miravano a
ingraziarsi veterani e plebe, dalla moltitudine la quale da un pezzo
aspettava l’erede del dittatore, che doveva pagare a ognuno i
trecento sesterzi i del legato. Finalmente si sarebbero avuti i
denari! Perciò i consigli del patrigno, sebbene ripetuti
dalla madre a Roma, non l’avevano smosso dalla risoluzione di
prender il nome e i beni di Cesare114. Infatti senza perdere tempo
Ottavio si era subito mostrato dovunque, chiassosamente, come il
figlio di Cesare; era andato una mattina con un gran codazzo di
amici dal pretore Caio Antonio a dichiarare che accettava la
eredità e la adozione115; si era chiamato subito, senza
aspettare che fossero compite le formalità della adozione,
Caio Giulio Cesare Ottaviano (noi lo chiameremo Ottaviano per non
far confusione con il padre adottivo) e aveva voluto parlare al
popolo. Non era un magistrato: ma siccome doveva pagare trecento
sesterzii ad ogni plebeo, Lucio Antonio aveva di buon grado
acconsentito a presentarlo, come tribuno, al popolo. E al popolo
Ottaviano aveva fatto un discorso, esaltando la memoria di Cesare,
dichiarando che avrebbe pagato il legato al più presto, e
senza indugio dato mano a preparare per luglio i giuochi della
vittoria di Cesare, come era suo dovere, quale membro del collegio
incaricato di celebrarli116; non aveva però fatto allusione
alcuna all’amnistia o ai suoi propositi per la vendetta del padre.
Ciò non ostante o appunto per questo il discorso non pare che
piacesse ad Attico e a Cicerone117; ma invece era piaciuto molto al
popolino. Arrivavano i trecento sesterzi!! Solamente, per pagare,
era necessario denaro contante. Ottaviano era ricco del suo, –
ricordiamo che suo nonno era stato un denaroso usuraio di Velletri,
– e con il testamento di Cesare entrava in possesso di tre parti su
quattro della immensa fortuna che il dittatore aveva accumulato
negli ultimi anni sulle spoglie delle guerre civili, e nella quale
erano probabilmente un gran numero di case in Roma, vaste terre in
Italia e – proprietà più preziosa – moltissimi schiavi
e liberti, i diritti di patronato sui quali passavano all’erede. Di
contante però Cesare non aveva lasciato che i cento milioni
di sesterzii consegnati da Calpurnia ad Antonio. Necessitava adunque
a Ottaviano aspettare il ritorno di Antonio e domandargli il suo
denaro.
Ma le festose accoglienze non potevano durare troppo a lungo. Se la
lotta tra conservatori e popolari si era assopita dopo la fuga dei
congiurati, i sospetti e i rancori inaspriti dai recenti tumulti
dovevano presto riaccenderla. L’arrivo di tanti veterani, il
passaggio di tante lettighe cariche d’armi118, le dilapidazioni
della moneta pubblica, convertivano in avversione il breve favore
che i conservatori avevano avuto per Antonio dopo il 17 marzo119;
quelle prime mene di Ottaviano irritavano molti, specialmente nella
numerosa parentela e clientela dei congiurati, già mal
disposta verso di lui, perchè temeva il giovane non volesse
rispettare l’amnistia. Un giorno Dolabella, comparso a teatro dopo
la distruzione dell’ara, fu salutato con entusiastiche ovazioni
dalla parte più eletta del pubblico120; e un altro giorno in
cui Ottaviano volle portare il seggio dorato di Cesare, a quanto
sembra, nei giuochi che l’edile Critonio dava con un ritardo di
più di un mese, per i disordini avvenuti in aprile, ne fu
impedito da alcuni tribuni, tra gli applausi dei senatori e dei
cavalieri121. La oligarchia signora del grande Impero si componeva
di due parti, fatte nemiche dopo la vittoriosa rapina dalla
divisione della preda: l’una malcontenta della porzione toccatale,
l’altra ansiosa di sentire la porzione sua continuamente adocchiata
dai malcontenti; ambedue irrequiete, sospettose, disposte alla
violenza e trattenute solo dalla paura reciproca, da una specie di
mutuo delirio di persecuzione, per cui si accusavano e si ritenevano
capaci a vicenda dei più biechi propositi. Comprendeva la
prima quel che restava dei piccolissimi possidenti che, come in
Apulia, lavoravano ancora la terra con le proprie braccia, al modo
del mitico Cincinnato, ultimi superstiti di una età
tramontata122; comprendeva i liberi braccianti di campagna, che si
assoldavano per la vendemmia, per la mietitura o per i lavori
malsani123, e i contadini liberi, i coloni o piccoli fittavoli che
qua e là prendevano a coltivare i fondi altrui con contratti
grossamente simili a quelli moderni della mezzadria124; comprendeva
quel popolino miserabile dei capite censi, vivente a Roma e nelle
città minori, di mestieri, di minuto commercio, di
mendicità, nel quale le più meschine e oscure vittime
della conquista romana, i liberti miserabili di ogni nazione e
lingua, si confondevano con la plebe dei conquistatori, quella che
aveva contribuito alla vittoria solo la forza dei soldati e le torme
venali dei comizi, e ne aveva tratto minor profitto. Questa plebe
era probabilmente più numerosa allora che trenta anni prima,
quando Cesare aveva incominciato a farsi conoscere, essendo
frattanto cresciuta per le importazioni di schiavi, per
l’allargamento della cittadinanza, per l’aumento naturale delle
classi povere, specialmente rustiche, che in ogni età sono
più prolifiche delle ricche; e si rodeva in una irrequietezza
di lagni e di desideri imprecisi, esasperata dal numero cresciuto,
dal naturale aumento progressivo dei bisogni, dal disordine e dalla
crisi della guerra civile. Quella contagiosa, quasi furente
ammirazione per Cesare non era che uno sfogo di questo spasmo
morboso; perchè le plebi povere ingenuamente si immaginavano
che, se Cesare fosse vissuto, la loro condizione sarebbe diventata
ben più felice: ma fortunato lui che i congiurati l’avevano
ucciso a tempo; se no, quanto e quanto presto l’avrebbe fatto odiar
vivo, la inevitabile delusione di quelle speranze chimeriche per cui
l’adoravano morto! Gli altri componevano la vera aristocrazia dei
conquistatori, che affittava in ogni parte dell’Impero i demani
pubblici o possedeva vaste zone di terreno provinciale; che aveva
prestato ingenti capitali a sovrani, a città, a privati di
tutte le provincie; che occupava le magistrature dello Stato ed
esercitava nelle legioni i comandi; che possedeva la maggior parte
della terra italica e la faceva lavorare da schiavi o da coloni; che
in parte almeno coltivava con zelo gli studi. Senonchè, per
quanti gradi anche in questa oligarchia si passava dai modesti
possidenti agli agiati cavalieri e mercanti, che vivevano nelle
città minori, ai grandi proprietari dell’ordine senatorio; ai
ricchissimi capitalisti, o cavalieri come Attico, o senatori come
Marco Crasso, o liberti, come molti di quegli ignoti ed opulenti
usurai, che sapevano aspettare a Roma, di ritorno dalle rapine, e
spogliare a loro volta gli spogliatori del mondo. E quanti per la
fretta di guadagnare e godere si erano poi irretiti in quel
groviglio indissolubile di debiti e crediti, che stringeva il corpo
dell’Italia! Le grandi famiglie aristocratiche possedevano vasti
poderi, ma scarseggiavano di denaro, cosicchè non solo
Ottaviano, ma anche Bruto, Cassio e i loro amici si trovavano in
gran penuria di numerario125; il capitale era quasi tutto in mano di
un piccolo gruppo di persone; oberatissima e in procinto di
sfasciarsi sotto il peso dei debiti, era gran parte dell’ordine dei
cavalieri e dei senatori, cioè quel ceto medio dei
possidenti, dei mercanti, degli uomini politici e di studio, che tra
la plutocrazia e la nobiltà da una parte, il popolino povero
dall’altra, avrebbe dovuto formare quella che è oggi la
borghesia agiata. Il patrimonio di Cicerone, è un prezioso
documento sulle condizioni della classe alta di quel tempo. Cicerone
aveva lucrato con tutti i mezzi meno illeciti allora usati; aveva
accettati cospicui doni dai sovrani, dalle città straniere,
dai clienti eloquentemente difesi nei tribunali; aveva contratti
matrimoni con donne ricche; aveva ricevute numerose eredità
di amici e di ammiratori sconosciuti; aveva anche speculato,
comprando e vendendo terre e fabbriche; e infine aveva prestato
qualche denaro, ma più per favore che per lucro, e se ne era
fatto prestar moltissimo, da amici come Attico e Publio Silla, che
non esigevano interessi, ed anche da cupidi strozzini126.
Cosicchè egli possedeva allora un considerevole patrimonio di
case in Roma, di poderi fruttiferi e di ville costose in Italia; ma
ciononostante si trovava implicato in una faraggine di debiti e
crediti nella quale egli non si raccapezzava più e poco si
raccapezzava il suo negligente computista, lo schiavo Erote. Costui
gli aveva presentato poco prima un nitido e roseo bilancio, secondo
il quale al 5 aprile, riscossi i crediti e pagati i debiti, avrebbe
dovuto restare un avanzo127; ma intanto, sia che i debitori non
pagassero, sia che il computista si fosse sbagliato, egli si trovava
allora scarsissimo di contante, con molti debiti da pagare, tra cui
parecchie rate scadute della dote di Terenzia, la pensione a suo
figlio che studiava ad Atene, un debito con gli Arpinati che gli
ridomandavano una somma prestatagli in un tempo in cui la
città aveva avuto denaro libero da collocare a frutto128. In
condizioni simiglianti, costretti come Cicerone a scervellarsi per
immaginare ripieghi, ma senza le risorse di cui disponeva Cicerone
per il nome e le amicizie, erano tanti in Italia, in quel ceto medio
che pur parteggiava per i congiurati, che avrebbe dovuto salvare la
repubblica, interponendosi tra i conservatori arrabbiati e la
demagogia rivoluzionaria. Infine questa classe probabilmente
più che crescere di numero, diminuiva, decimata dalle guerre
civili, isterilita dal celibato e dalla sollecitudine di aver pochi
figli – molti ne avevano uno solo –; onde era tratta dagli eventi
verso una crisi formidabile, discorde, disanimata, assottigliata,
scontenta del presente e incerta dell’avvenire.
[44 a. c. 20-30 maggio.] Il ritorno di Antonio accrebbe
l’agitazione. Mancavano dieci giorni al 1° giugno, e la gente
era curiosa di indovinare i veri propositi del console per la prima
seduta del Senato, su cui tante dicerie correvano; onde mille occhi
lo spiavano, osservandone ogni atto. Antonio invece sin dal suo
arrivo parve voler eludere questa curiosità: non compariva
più in pubblico se non circondato da veterani e da una
guardia di Arabi Iturei che aveva comperati sul mercato degli
schiavi; faceva ben vigilare le porte del suo palazzo, e non
ammetteva gli estranei se non con molta difficoltà129. Quali
potevano essere le ragioni di tante cautele? Grande era in tutti
l’incertezza, quando, passati appena due o tre giorni, una diceria
gravissima corse per Roma, sgomentando i conservatori, i parenti e
gli amici dei congiurati: che non solo Antonio voleva avere le
Gallie, ma averle subito, senza aspettare l’anno seguente; che
ritornava al suo proposito del 16 marzo di togliere la provincia a
Decimo Bruto, per abbattere la colonna massima del partito
conservatore130; che nonostante l’amnistia Lucio Antonio avrebbe
accusato Decimo Bruto per la morte di Cesare ed altri avrebbero
accusato Bruto e Cassio131. Da questo momento nacque nell’animo dei
conservatori e del pubblico il sospetto che doveva poi a poco a poco
perturbare tutta la repubblica: che Antonio volesse, per acquistar
popolarità, distruggere l’amnistia del 17 marzo. Altro che la
paura delle mene di Ottaviano, in tal caso! Pure queste dicerie
divulgavano allora, più che i veri propositi di Antonio, una
confusa notizia delle segrete discussioni che, al suo ritorno,
avvenivano nella casa del console. È probabile che,
imbaldanziti dal prospero successo degli arruolamenti, Lucio e
Fulvia spingessero ora Antonio a precipitosi e temerari consigli:
approfittasse del disordine in cui il partito dei grandi versava,
lacerasse l’amnistia, facesse perseguitare in giudizio i
tirannicidi, si atteggiasse apertamente a vendicatore di Cesare!
Quando tutti i congiurati fossero dispersi in esilio per opera di
lui, egli sarebbe, a capo dei veterani, più potente che
Cesare nel 59 a capo dei collegia di Clodio. Aveva le legioni di
Macedonia, poste dal Senato sotto i suoi ordini, potrebbe reclutare
quanti soldati volesse tra i veterani di Cesare, il giorno in cui li
chiamasse a vendicare il generale e a difenderne l’opera, se i
conservatori osassero resistere con l’esercito di Decimo Bruto! Ma
Antonio esitava; perchè troppo temeva ancora i conservatori.
Aveva per collega un nemico, e questo era già un grave
impedimento; fra i tribuni della plebe, Lucio Cassio, Tiberio
Cannuzio e perfino Carfuleno, un antico e valoroso soldato di
Cesare, si erano dichiarati contro lui132; anche Irzio tentennava di
nuovo impaurito dalle sue rapine nell’erario133; anche Fufio Caleno
che da un pezzo era nemico di Cicerone, gli scriveva domandandogli
di riconciliarsi con lui134. Inoltre correva voce che Bruto e Cassio
volevano partire dall’Italia per tentare una rivoluzione nelle
provincie135. Egli si sforzava di guadagnar Dolabella, per togliere
ai suoi nemici anche questo screditato campione; di far girare
dicerie paurose, per distogliere i senatori dal tornare a Roma: ma
quanti si sarebbero spaventati davvero? Sarebbe venuto Cicerone?
Potrebbe egli arrischiarsi a distruggere l’amnistia, cioè a
provocare la guerra civile, in sette od otto giorni, per il 1°
giugno che avvicinava? Un tempo non avrebbe forse esitato a
commettere anche questa follia; ma esitava allora. Quello
intorpidimento della sua audacia naturale seguito alla grande scossa
delle Idi di marzo, quella prudenza così nuova in lui, durava
e durerebbe un pezzo ancora; perchè troppo repentinamente
egli era passato dalla condizione di agente subordinato e di
esecutore degli altrui disegni a quella di capo, arbitro e
responsabile delle più gravi deliberazioni in mezzo alle
più dubbiose circostanze. Assistito dalla fiducia in Cesare e
nel suo partito, egli, temerario per natura, aveva osato molto,
troppo, a cuor leggero; ma trovatosi a un tratto solo, a capo
dell’impero, tra i pericoli e le responsabilità di una
situazione inaspettata, esposto agli occhi, alle critiche, agli odii
di tutti, si sentiva disorientato e intimidito; e perciò per
la prima volta in vita sua operava con senno e ponderazione.
In mezzo a queste perplessità Antonio ricevè da
Ottaviano la domanda di un colloquio: per qual fine non gli fu
difficile di sapere, anche se il giovane non lo dichiarò
apertamente. Che egli fosse disposto a restituire il denaro di
Cesare al legittimo erede, non è nemmeno da pensare; ma non
è nemmeno verisimile che, in quel momento, egli considerasse
la persona, le pretese e le mene di quel ragazzo come serie. Anzi
è probabile che la rivendicazione di Ottaviano gli facesse
nascere un’altra idea: siccome Cesare l’aveva nominato con Decimo
Bruto secondo erede in luogo di Ottavio, e siccome Decimo Bruto non
potrebbe mai reclamare i suoi diritti, indurre Ottaviano ad
abbandonare l’eredità e prendersene egli la parte sua136.
Egli pensò quindi di spaventare il giovinetto inesperto con
una improvvisa brutalità; e quando Ottaviano si
presentò al palazzo di Pompeo gli fece fare prima, per
avvilirlo, una lunga attesa; poi ammessolo finalmente alla sua
presenza lo lasciò appena pronunciar poche frasi e subito lo
interruppe, dicendogli che egli era pazzo se credeva, così
giovane, di poter accettare la eredità di Cesare. E se ne
andò, senza dargli tempo di rispondere, lasciandolo confuso e
avvilito137. Ben altre cure e più gravi che le domande di
quel ragazzo lo affaccendavano! I giorni passavano, maggio finiva:
Antonio era sì riuscito finalmente a far passare dalla parte
sua Dolabella dandogli una considerevole somma, presa nell’erario, e
promettendogli di far prolungare anche a lui il comando
proconsolare: ma non si risolveva ancora a nulla, sul tempo e sul
modo di incominciare la conquista del potere; cosicchè tutti
credevano egli proporrebbe la sua domanda al Senato il 1° di
giugno. Qualche giorno dopo, sul finire di maggio, Antonio
ricevè una lettera di Bruto e di Cassio che gli domandavano
per quale scopo reclutasse tanti veterani: il pretesto di assicurare
le ricompense promesse da Cesare era futile, perchè nessun
conservatore intendeva toglierle loro; badasse bene che, incitata,
quella moltitudine poteva trascorrere oltre il segno desiderato da
lui138. Antonio pensò allora di rabbonirli, facendo loro
sapere, per mezzo di Irzio e di Balbo, che, appena riaperto il
Senato, avrebbe fatto decretare le provincie, senza dir quali139.
Insomma non si risolveva a dichiarare guerra aperta agli uccisori di
Cesare! Eppure Cicerone, che era in grado di giudicarlo meglio di
lui, scriveva ad Attico che purtroppo il partito conservatore non
era più quello di cinque anni prima, che aveva mossa guerra a
Cesare con tanta baldanza140. La presenza dei veterani, le dicerie
paurose sulle violenze che seguirebbero il 1° giugno inducevano
molti rimasti ad andarsene; Irzio, che era tornato a Roma, ripartiva
di nuovo e se ne tornava nel Tusculano141, a scrivere, per consiglio
di Balbo, la continuazione dei ricordi di Cesare142; si diceva che i
consoli designati non sarebbero presenti alla seduta del 1°.143
Figurarsi se quelli che già si trovavano fuori erano
incoraggiati a tornare! Cicerone era avvisato da molte parti a non
rimettere piede nella città, e pur avvicinandosi a Roma (era
andato nell’Arpinate e poi, dopo il 25, nel Tusculano), scriveva ad
Attico che ad ogni modo voleva fiutar bene il vento144; ma nel
Tusculano aveva trovato Irzio, che lo scongiurava di fermarsi145.
Anche Bruto e Cassio erano combattuti, in quegli ultimi giorni di
maggio, da grandi incertezze, fra il flusso e il riflusso delle
opposte notizie: ora che Antonio farebbe assegnare loro le
provincie, ora che preparava insidie ed assalti; e domandavano
consiglio a tutti, chiamavano da Roma Servilia, scrivevano e
facevano scriver da amici, a Cicerone e ad Attico, affinchè
venissero a Lanuvio a colloquio con loro146; deliberavano infine
d’invitare Attico a iniziare tra i ricchi cavalieri di Roma un
prestito per provvedere a Bruto e a Cassio il nerbo della guerra: il
denaro. Un amico di Bruto, Caio Flavio, era andato a Roma a trattare
con il ricchissimo finanziere147. Cassio inoltre scriveva e
riscriveva148 a Cicerone di adoperarsi a loro favore presso Irzio e
Pansa, i due consoli dell’anno seguente. Cicerone, il quale pur non
sapeva che consigliare, si disponeva a trovarsi a Lanuvio il 29 o il
30149; benchè temesse di far chiacchierare molto la gente con
le sue gite150; acconsentiva pure Attico151, ma dopo aver rifiutato
di prendere l’iniziativa del prestito presso i cavalieri di Roma152.
Forse non aveva voluto troppo compromettersi; forse aveva disperato
di riescire nell’intento, perchè gli uomini denarosi, se
genericamente desideravano l’ordine, non volevano spendere per
mantenerlo. Cosicchè quando, probabilmente il 30 maggio,
Attico e Cicerone si ritrovarono a Lanuvio con Bruto e con Cassio
poterono solo, dopo lunghi discorsi, constatare che Antonio era
ormai arbitro della situazione, e in grado di far quello che voleva
ai danni loro153.
[44 a. C. 1-2 giugno.] E invece Antonio era così lontano dal
covare i biechi disegni da essi supposti, che non si accorse di
essere arbitro della situazione, come Bruto e Cassio avevan detto
qualche giorno prima, se non il 1° giugno, quando vide che
nè Cicerone, nè i consoli designati, nè gli
uomini più eminenti erano venuti in Senato154; ma solo una
torma di senatori oscuri che lo lasciarono dire e fare quello che
volle. Con gran sorpresa di tutti, il console trattò in
quella seduta soltanto di ordinarie faccende, senza fare nessuna
delle proposte aspettate; ma dopo la seduta, imbaldanzito
dall’assenza del partito conservatore, e come spesso avviene a chi
ha a lungo esitato, precipitò affrettatamente all’azione. In
quello stesso giorno deliberò di far convocare di sorpresa
una radunanza popolare per la mattina dopo, senza far correre tra la
promulgazione e l’approvazione il termine legale del trinum
nundinum155, in modo da impedire agli avversari di mandare i tribuni
avversi a lui con seguito sufficente e in grado di interporre il
veto; far proporre in quella da alcuni tribuni amici la legge che
prolungava a lui e a Dolabella per sei anni, compreso quello del
consolato, il comando proconsolare della Siria e della Macedonia.
Anche in questa precipitazione però egli non trascurava le
cautele e cercava di offrire ai conservatori qualche compenso per
questa votazione poco legale: tralasciava per il momento la domanda
molto più ostica delle Gallie, fissava per il 5 la seduta in
cui si sarebbero decretate le provincie a Bruto e a Cassio,
proponeva di far mutare in legge, per proposta degli stessi tribuni
e negli stessi comizi, il senatusconsulto che incaricava una
commissione di inquisire sulle carte di Cesare156. Così la
sera furono passati gli ordini ai veterani e agli amici; la mattina
il console, i magistrati favorevoli a lui, un certo numero di
cittadini, si trovaron sul foro a rappresentare le tribù; e
nella giornata molti, i quali non sapevan neppure che in quel giorno
ci fosse stata assemblea, appresero che la lex de provinciis e la
lex de actis Caesaris cum Consilio cognoscendis, erano state
approvate alla svelta157. Il giorno stesso, probabilmente, Balbo
ebbe notizia, non senza qualche stupore, che Antonio pensava di
mandare Bruto in Asia e Cassio in Sicilia a comprar grano158:
finissima astuzia, perchè, rifiutando, i due congiurati si
sarebbero esposti al rischio di essere accusati come cagione della
mezza carestia che travagliava Roma di continuo; accettando, dovevan
separarsi e interrompere, per trattare con i mercanti di grano, ogni
opera in difesa del partito conservatore. Difatti, se tra i
conservatori e i congiurati all’ansia degli ultimi giorni di maggio
era succeduta una relativa tranquillità, dopochè
avevano vista rispettata almeno l’amnistia, si riaccese ora la
rabbia. Grande fu lo sdegno non solo di Bruto e di Cassio159, ma
anche di Cicerone, che frattanto, appena tornato nel Tusculano, si
era affrettato a pregar Dolabella di sceglierlo come legato per il
proconsolato, ma con facoltà di tornare a Roma quando
volesse160. Viaggiare gli era parso definitivamente, dopo gli
inutili discorsi del colloquio con gli eroi, il miglior consiglio; e
cercava disporre le cose in modo da viaggiare a spese della
repubblica. Ma quando seppe di questa intenzione di Antonio si
infuriò. Una simile umilissima missione ai due liberatori
della patria! Ma era quello un esilio mascherato, non un comando.
Antonio voleva allontanarli d’Italia e poi togliere a Decimo la
provincia161. Bruto mandò a chiamare di nuovo la madre,
Cicerone, Attico, tutti gli amici, da tutte le parti, invitandoli ad
Anzio, a un nuovo consiglio. [44 a. C. 1-10 giugno.] Intanto a Roma
incominciavano nuove discordie: tra Antonio e Ottaviano, questa
volta. Ottaviano, irritato dall’affronto, si metteva ad agitare il
popolino, denunziando il console come un nemico della plebe,
ricordando le sue crudeli repressioni del 47162, accusandolo di
tradire la memoria e il partito di Cesare, di impedirgli di pagare
il legato; aggiungeva anche ai discorsi un bel gesto:
annunziò che venderebbe tutti i beni di Cesare, i suoi,
quelli della famiglia, pur di pagare prontamente i trecento
sesterzi163. Antonio, per rappresaglia, impediva di nascosto che
fosse approvata la lex curiata ratificante l’adozione164, favorito
dalla parentela dei congiurati, la quale desiderava che non ci fosse
in Roma nessun figlio di Cesare. Con tanto maggior furore Ottaviano
sobillò il popolino e, raccolta una banda di seguaci,
scorrazzò con quella, quasi nuovo Erofilo, Roma, facendo
dovunque dei discorsi contro Antonio, cercando di commuovere anche i
veterani, riagitando la fiaccola della vendetta di Cesare, accusando
Antonio di non voler vendicare il dittatore e di tradire il suo
partito165, scrivendo agli amici delle legioni di Macedonia, per far
loro conoscere il modo infame con cui Antonio trattava il figlio di
Cesare.
Cicerone frattanto, il 7 giugno166 aveva ricevuto, forse un poco in
ritardo, una lettera di Dolabella che gli diceva di averlo nominato
suo legato il 2 giugno, e cioè subito dopo l’approvazione
della lex de provinciis, ma per cinque anni e non per due, come
Cicerone si aspettava167. Dolabella avea subito soddisfatto il suo
antico suocero, perchè così lo impegnava a riconoscere
la legalità molto dubbia della legge. Infatti questa nomina
aveva disposto l’irrequieto Cicerone ad una certa filosofica
pacatezza e arrendevolezza, nella quale, il giorno dopo, l’8, era
andato ad Anzio, vinto dalle sollecitazioni di Bruto e di Cassio.
Alla bella spiaggia di Anzio trovò radunati Bruto e sua
moglie Porzia, Servilia, Tertulla, moglie di Cassio e sorella di
Bruto, Favonio, molti altri amici. Mancava Attico, che non si era
mosso da Roma. Innanzi a questo consesso di uomini e di matrone
dovè dire il parer suo, che era molto pacato: accettare
l’ambasceria. La legazione di Dolabella aveva per un momento
rabbonito anche l’iroso conservatore, che voleva sterminare il
popolino! Ma in quella entra Cassio, sbuffando, spiritato, con gli
occhi fuori della testa, e si mette a gridare che mai e poi mai egli
andrà in Sicilia, che se ne andrà piuttosto in esilio
in Acaia. Bruto invece manifestava un proposito disperato:
tornarsene a Roma, dove in luglio doveva dare al popolo come pretore
i giuochi Apollinari. Cicerone si spaventò, cercò di
dissuaderlo; Servilia, che voleva salvare non la Repubblica, ma il
figlio e il genero, consigliava di accettare intanto la legazione,
da cui avrebbe essa provveduto a far togliere il molesto incarico
del grano. Il discorso divagò; si ruminarono inutili
rammarichi su tante cose che si sarebbero dovute fare e a cui
nessuno aveva pensato; si lamentò che per consiglio di Decimo
Bruto non si fosse ammazzato anche Antonio alle Idi; la discussione
su questo punto pare anzi essersi inasprita, così che
Servilia e Cicerone avrebbero avuto tra loro un battibecco. Alla
fine Bruto si lasciò persuadere a non andare a Roma e a far
celebrare i suoi giuochi dal collega, che ne faceva le veci, Caio
Antonio; ma la questione della legazione restò sospesa,
perchè Cassio, se alla fine non protestava più con
tanta veemenza, non dichiarava nemmeno di voler partire. Bruto
invece parve a Cicerone più incline ad accettare, ma dopo
avere allestiti i giuochi168. Un viaggio inutile insomma, anche
questo. Cicerone si consolò pensando che, ad ogni modo, aveva
compiuto il suo dovere e definitivamente deliberò di partire
per la Grecia169.
V.
LA LEGGE AGRARIA DI LUCIO ANTONIO.
Incoraggiato dal primo successo della lex de provinciis, Antonio si
risolvè definitivamente a tentare due cose nuove: a
ricostituire alla fine il partito cesariano, disfatto dalle Idi di
Marzo; a imitare, come un buon scolaro di Cesare, l’esempio del
maestro, preparando l’approvazione della legge sulle Gallie con un
seguito di leggi popolari. L’una e l’altra cosa erano la necessaria
conseguenza della nuova politica, a cui Antonio si era volto dopo il
15 aprile. Per rassicurare e lusingare i coloni e i veterani egli
farebbe convertire dai comizi in due leggi il senatusconsulto del 17
marzo sugli atti di Cesare e la parte che confermava le colonie,
quasi a mostrare che, nelle cose importanti, non bastavano i decreti
del Senato; nel tempo stesso Lucio Antonio, che voleva mettersi in
vista, proporrebbe la solita grande legge agraria di tutti i capi
popolari, da Tiberio Gracco in poi170; si rispetterebbero, per
queste leggi, i termini legali. [44 a. C. Giugno.] Difatti, nella
prima metà di giugno furono tutte promulgate da lui e da
Lucio Antonio; insieme con un’altra però, che nell’intenzione
del console sempre prudente doveva rassicurare i timidi e
sbugiardare i conservatori i quali lo accusavano di ambire la
dittatura: una legge che ripetendo il suo senatusconsulto aboliva la
dittatura. Sventuratamente sulle disposizioni della legge agraria,
che non fu applicata, noi abbiamo solo le frammentarie notizie e le
generiche invettive di Cicerone; onde non ci è possibile
ricomporne il testo da questi rottami, ma dobbiamo restringerci a
dire che, per affrettare la distribuzione delle terre ai veterani,
ordinava il prosciugamento delle paludi pontine già ideato da
Cesare171, e nominava una commissione di sette membri172, incaricata
di dividere le terre pubbliche e di comprar terre private in Italia,
prendendo i denari nell’erario173.
Ma alla larga agitazione richiesta da queste leggi, allo sforzo
necessario per signoreggiare con vigore bastevole tutta la
repubblica, Antonio non bastava da solo, con i due fratelli e i
molti veterani; aveva bisogno di maggiori aiuti, di più
numerosi agenti, di nuovi collaboratori; per trovare i quali egli si
accinse – e non poteva far diversamente – a ricostituire non tanto
tutto il partito di Cesare, quanto la sua estrema ala sinistra,
popolare e rivoluzionaria. Sui cesariani eminenti, celebri, satolli
sino alla sazietà, come Irzio, Pansa, Balbo, Pisone,
Sallustio, Caleno, egli non poteva fare assegnamento; perchè
costoro, parte per diffidenza e parte per paura, si bilanciavano tra
i due partiti in attesa dell’esito, profondevano ambigui
consentimenti di parole ad ambedue, senza compromettersi con atti a
favore di alcuno. Sallustio anzi era sparito definitivamente.
Nè poteva Antonio sperare di trovar partigiani nuovi nelle
classi alte e istruite, da cui pure intorno al 70, dopo la morte di
Silla, erano usciti tanti insigni campioni del partito popolare. I
tempi erano troppo mutati: le alte classi, logore dalle grandi
fatiche delle età precedenti, decimate dalle guerre civili e
dalla sterilità, infiacchite dalla ricchezza dai vizî
dal potere, impaurite dalle calamità recenti, discordi,
orgogliose, malevole, non avevano più forza di combattere
neanche in loro difesa, non davano più uomini, nemmeno al
partito conservatore, lasciavano gli ultimi avanzi dell’età
di Cesare, stanchi di tante lotte, soli a combattere anche questa
suprema tenzone. Perfino i figli dei grandi uomini che avevano
primeggiato nel partito conservatore durante la generazione
precedente, come il figlio di Ortensio, il figlio di Lucullo, il
figlio di Catone, si appartavano, badando solo a sollazzi, a bagordi
od a studî. Figurarsi se davano uomini al partito popolare,
fattosi ora apertamente rivoluzionario! Egli si voltò quindi
alla parte meno signorile e più insoddisfatta del partito di
Cesare: a quegli uomini oscuri, a quegli artigiani, piccoli
possidenti e mercanti, a quei soldati e centurioni, a quegli italici
e stranieri, tra i quali Cesare negli ultimi anni, inasprendosi la
discordia con le grandi famiglie, aveva cercato di preferenza i suoi
ufficiali, magistrati e senatori. Costoro erano naturalmente avversi
ai congiurati, quasi tutti nobili, i quali li consideravano come
intrusi e usurpatori di dignità loro dovute; e per di
più temevano di vedersi tolti i gradi e i beni acquistati, o
almeno interrotte le speranze e le ambizioni future, mentre Antonio
aveva in mano due mezzi potenti per rinforzare la loro inclinazione:
le carte di Cesare e il tesoro dello Stato, in cui continuava ad
attingere largamente. Lusingando, promettendo, distribuendo con
falsi atti di Cesare denari, magistrature e nomine di senatore, egli
si accinse a raccogliere intorno a sè la parte più
capace di quei cesariani, che erano ancora troppo insoddisfatti da
adagiarsi tra i conservatori:Ventidio Basso, l’antico mulattiere e
impresario di trasporti; Decidio Sacsa, uno spagnuolo che Cesare
aveva fatto cittadino, metator castrorum – capo degli zappatori,
diremmo noi – e tribuno della plebe, in quell’anno174; Tullo Ostilio
e un certo Insteio, ambedue designati a tribuni della plebe per
l’anno prossimo, dei quali il secondo si diceva fosse stato bagnino
in certe terme di Pesaro175; un antico comico di nome Nucula e
Cesennio Lentone, un ufficiale di Cesare, segnalatosi nell’ultima
guerra di Spagna ma di umile origine – Cicerone dice che aveva fatto
il mimo176 –, Cassio Barba, Marco Barbazio Filippo177, Lucio Marcio
Censorino178, Tito Munazio Planco Bursa, esiliato quest’ultimo dopo
i funerali di Clodio, tornato poi in mezzo alle guerre civili e
quindi in grande timore di essere nuovamente scacciato179.
Aggiungeva a questi non pochi amici suoi e compagni di sollazzi.
Antonio era un sibarita: e allora tra l’una e l’altra faccenda –lo
racconta Cicerone, ed è credibile, sebbene esageri non poco –
si dava con i denari di Cesare e quelli dell’erario, a far baldoria,
a giuocare sfrenatamente, a dar feste e banchetti, raccogliendosi
intorno una corte di parassiti180, tra cui pure trovava qualche
collaboratore: certi Seio Mustela e Numisio Tirone, a cui, insieme
con Cassio Barba, diede il comando della sua piccola guardia di
veterani181; un certo Petusio di Urbino, che aveva scialacquato
tutto il suo182; un certo Publio Volumnio Eutrapelo, il padrone di
quella Citeride che era stata amante di Antonio sino alle sue nozze
con Fulvia e che era allora una delle etère più in
voga; l’ateniese Lisiade, figlio di Fedro183.
Intanto, dopo la promulgazione delle leggi era incominciata, in
numerose concioni, una nuova agitazione popolare, che incanalandosi
nel letto della precedente agitazione di Erofilo, ne travolse in
breve gli avanzi nel suo torrente precipitoso. Il popolino e i
veterani, che prima andavano in frotta ad assaltar le case dei
congiurati, accorrevano alle concioni per la legge agraria; le
quali, rinfocolate da grandi elogi di Cesare e da grandi invettive
contro i suoi uccisori, dovettero diventare ben presto assai
turbolente e suonare come intimazioni sommarie di approvare la
legge. E di nuovo le classi ricche, i conservatori, i congiurati si
insospettirono, si spaventarono, si costernarono. Era chiaro: anche
questa nuova agitazione corrodeva le fondamenta già tanto
guaste dell’amnistia; era un mezzo con cui i demagoghi ambiziosi
intendevano riuscire a scacciar dallo Stato gli uccisori di Cesare,
cioè il fiore del partito conservatore, per prendere poi i
beni dei ricchi. E pensare che per tre mesi i conservatori si erano
lusingati segretamente di metter le mani sulla somma accumulata da
Cesare nel tesoro pubblico per indennizzare – poichè render
le terre non si poteva – le famiglie dei grandi, che avevano perduta
parte dei beni nella guerra civile!184 Invece il partito di Cesare
che si ricostituiva intorno ad Antonio – il cosidetto partito dei
poveri – non solo si teneva quei beni, ma già attingeva
liberamente nel tesoro pubblico con la mano del console, e presto,
quando la legge agraria fosse approvata, avrebbe in sua balìa
legalmente l’erario; nè soddisfatto ancora, adocchiava
cupidamente i beni restati ai signori; mentre il partito di questi –
ironia delle cose! – versava in difficoltà più gravi
di giorno in giorno per la mancanza di denaro. Molti conservatori si
appartavano dalle lotte politiche, si rifugiavano in campagna non
solo per paura, ma perchè l’amicizia dei congiurati
minacciava di rovinare chi non possedesse la ricchezza di Attico.
Non solo Bruto e Cassio ma molti altri congiurati smungevano i loro
amici e ammiratori, per la difesa della buona causa; Decimo Bruto in
special modo, cui molti conservatori scrivevano denunciando le mene
di Antonio e incitandolo a rafforzar l’esercito e a raccoglier
denari185. E invece ormai egli doveva pagare i soldati con denaro
suo e domandava aiuto a tutti gli amici186. Come fare altrimenti?
Domandarne al Senato, sinchè Antonio signoreggiava, era
inutile; spremerne alla Gallia cisalpina, pericoloso, perchè
la Cisalpina non era più una provincia e la popolazione si
sarebbe fatta nemica. Grande era perciò lo sconforto delle
classi ricche. A Roma, nell’alta società, si diceva che la
Repubblica era spacciata187; Pansa e Irzio, vedendo il partito
cesariano ricostituirsi intorno ad Antonio, ricominciarono a
tergiversare, con grande ira di Cicerone188, che stanco e disgustato
si risolvette definitivamente a partir per la Grecia e pregò
Dolabella di dargli una missione pro forma189; Attico lasciava quasi
ogni speranza per le sue terre di Butroto, considerando impossibile,
allorchè il partito popolare trionfante prometteva tante
colonie, togliergli quel territorio che già aveva negli
artigli190. Si sapeva già infatti che Lucio Antonio era
avverso alla sua domanda191. “Siamo alla vigilia di un macello”
scriveva Cicerone192. In quella, corre una voce: che Carteia,
importante città marinara della Spagna (sul golfo di
Gibilterra), si era arresa a Sesto Pompeo. Il figlio di Pompeo aveva
dunque un porto e certo immediatamente imbarcherebbe il suo esercito
per venire in Italia, aprendo la guerra! Tanto più Cicerone
pensò di dover affrettarsi a partire193. Anche Bruto, si
diceva, era sulle mosse per andare in Asia a compir la sua missione
annonaria194; anche altri congiurati, come Domizio Enobarbo, figlio
del consolare morto a Farsaglia, si erano ritirati al mare e
preparavano navi, vicino a Pozzuoli, per esser pronti a lasciar
l’Italia come avevano lasciata Roma, se l’amnistia fosse abolita195.
Cicerone domandò ad Attico se doveva imbarcarsi a Pozzuoli o
a Brindisi; e Attico, che pare fosse molto irritato con Antonio per
le sue terre di Butroto, lo supplicò di non andare a
Brindisi: il console aveva fatto fermare sulla via Appia una
legione, la quinta o dell’Alodola, che era in viaggio per la
Macedonia196; e con tante torme di feroci veterani vaganti, le
strade non parevano sicure!197 Ma i giorni passavano: il trinum
nundinum stava per finire; i conservatori si lamentavano e non
facevano nulla; solo qualcuno incominciava a pensare se, aizzando
Ottaviano contro Antonio, non si potesse dividere il partito di
Cesare. Ottaviano continuava a cercare di screditare Antonio presso
il popolo, dimostrandone le molte contradizioni degli ultimi mesi;
rinfacciandogli di aver sino allora corteggiato e favorito
nascostamente conservatori e uccisori di Cesare, mentre poi osava
ora mettersi a capo del partito cesariano; supplicava di non fidarsi
di lui. Essendo però imparentato con le più nobili
famiglie di Roma, ogni sera, dopo aver fatto tutto il dì il
demagogo in piazza, ritrovava a casa la sua aristocratica parentela
e molti conservatori amici della famiglia, che gli tenevano certi
discorsi di una troppo melliflua amorevolezza: sì, Antonio
era un pericoloso arruffone; conveniva a tutti distruggerlo; se egli
non diffidasse dei conservatori e dei congiurati, troverebbe tra
costoro aiuti sicuri e leali contro il nemico comune. Tra questi
consiglieri il più zelante pare fosse Caio Claudio Marcello,
il fanatico conservatore che, console nell’anno 50, aveva provocata
la guerra civile, e che era o stava per diventare suo cognato,
sposandone la sorella Ottavia198. A Marcello pareva anzi che queste
considerazioni entrassero nello spirito del giovane199. Tuttavia,
sebbene questi intrighi infastidissero Antonio, passato il tempo
legale della promulgazione, la legge agraria e le altre leggi furono
approvate, probabilmente in giorni diversi, nella seconda
metà di giugno, senza opposizione e quindi senza violenze; fu
pure scelta la commissione, ma in che modo! Marco Antonio, Lucio
Antonio, Caio Antonio e Dolabella ne componevano la maggioranza; e
ad essi si aggiungevano Nucula, Cesennio Lentone e un settimo di cui
ci è ignoto il nome200. Questo potente arnese di dominazione
e di lucro era in balìa della famiglia di Antonio.
Con un fervido slancio Antonio aveva oltrepassato di gran lunga
Ottaviano, che ormai gli teneva dietro a fatica da lungi, e la
stanca torma dei conservatori che si sbandavano da tutte le parti.
Non restava più nulla da fare; e Cicerone, a cui Dolabella
aveva conferita la missione, poteva partire. Ma con la approvazione
delle leggi, la agitazione era finita; non era successo nè il
macello nè le altre violenze contro i congiurati, che i
conservatori avevano predette. Così Cicerone aveva
ricominciato ad esitare201, trattenuto dalla sollecitudine della
propria gloria, dalla paura di perdere l’occasione di qualche
magnifica azione simile alla repressione catilinaria, da un certo
rimordimento e da una certa vergogna. La sua partenza non sarebbe
considerata come una fuga? E aveva cominciato a domandar consiglio a
diverse persone, a studiar transazioni con la sua coscienza. Se
partisse per tornare al primo gennaio, quando Antonio non sarebbe
più console e il Senato potrebbe liberamente deliberare?202
Lo trattenevano anche le sue private faccende203, sempre intricate.
Poco prima aveva dovuto mandare il suo fido Tirone a Roma a cercar
di sbrogliare i conti arruffati di Erote204; e ora si raccomandava
ad Attico affinchè lo aiutasse a uscir da quel ginepraio,
sebbene non osasse più, per discrezione, domandargli nuovi
prestiti. Attico aveva spalle robuste: ma tanti altri ricorrevano a
lui! Anche alla spesa dei giuochi Apollinari di Bruto doveva
provvedere egli, per la parte maggiore205. Quasi a compenso
però di tante spese, premure e gentilezze, la commissione
senatoria per le carte di Cesare, verso la fine di giugno e proprio
quando Attico già disperava, giudicò giusti i suoi
reclami e mandò ordine a Cneo Planco di rispettare il
territorio di Butroto206. Attico doveva questa gradita sorpresa
all’intercessione di Marco Antonio, che aveva tanto bistrattato
nelle lettere del principio del mese. Lucio, più temerario e
violento, aveva mostrato quasi con ostentazione il proposito di
dividere tra i poveri i grandi beni epirotici del ricco cavaliere;
ma Marco, più prudente, se continuava e con successo a
raccogliere intorno a sè gli antichi cesariani e a farsi in
ogni parte degli amici, corrompendo e promettendo; se voleva
acquistare un gran potere nello stato, non voleva provocare un
estremo cimento, e perciò si studiava di rassicurare i
conservatori, di impedire che esasperati facessero compiere da
Decimo qualche colpo di mano. E infatti la sollecitudine del console
per Attico rallegrò le alte classi di Roma; fece sperare a
molti che anche questa legge agraria fosse una lustra e che Antonio
non facesse sul serio. Intanto Roma era diventata più
tranquilla; si avvicinava il luglio, un mese festoso, in cui si
sarebbero celebrati prima i giuochi Apollinari e poi i giuochi della
Vittoria di Cesare; il vento delle dicerie rotolò nei suoi
soffi voci di pace. Mentre alla metà del mese si credeva che
Sesto Pompeo assalterebbe l’Italia, alla fine si diceva che
intendeva deporre le armi, con qualche noia del volubile Cicerone,
cui non sarebbe ora spiaciuto che Sesto conservasse l’esercito suo
al partito conservatore207. Insomma, il grande spavento della
metà di giugno si era in pochi giorni mutato in una gran
pace; tutti si tranquillavano fuori che Cassio. Più energico
e intelligente di Bruto, e stanco ormai della interminabile inerte e
logorante aspettazione, mentre raccoglieva navi per andare in
Sicilia a comprar grano, risolutamente veniva macchinando più
vasti disegni e con quelli tormentava in segreto l’esitante amico
suo: bisognava pensare senza indugio a prepararsi nelle provincie
rifugi ed eserciti per l’assalto, forse imminente e in ogni caso
inevitabile, che Antonio moverebbe contro loro alla testa del
partito demagogico. In Italia non si poteva più far nulla; e
vana era la speranza di riconquistare il potere, con i nuovi
consoli, all’anno seguente. Nella Gallia Cisalpina invece era Decimo
Bruto, amico sicuro sebbene scarso di denari, che reclutava una
terza legione e si disponeva a tentare una spedizione in certe
vallate alpine per esercitar i soldati e far bottino; su Planco pure
si poteva forse fare assegnamento208; in Oriente erano anche
più numerosi gli amici e le opportunità di avviar
trattative. Trebonio governava l’Asia e radunava denari; Tullio
Cimbro in Bitinia comandava legioni e raccoglieva una flotta; in
Egitto erano stanziate quattro legioni, in cui abbondavano gli
antichi soldati di Pompeo, e che avevano presa poca parte alla
guerra civile; in Siria egli aveva rinomanza e amicizie dal tempo
della guerra di Crasso, e Cecilio Basso si reggeva ancora,
inutilmente assediato in Apamea con una legione. Se avviavano
segretamente e per tempo trattative, mostrando agli amici di Oriente
il pericolo in cui il loro partito poteva trovarsi, essi potrebbero
un giorno opporre alla trionfante rivoluzione popolare un esercito.
Ma Bruto esitava, considerando la difficoltà di mandar
messaggi sicuri e il pericolo che questi intrighi, se conosciuti o
appena sospettati, facessero precipitar Antonio ai loro danni;
disperando che il partito conservatore potesse indurre un esercito a
difendere la causa degli uccisori di Cesare. Tutti i soldati erano
troppo imbevuti di spirito cesariano! E questa sconfortata opinione
era universale, nel partito dei grandi209.
VI.
LA “LEX DE PERMUTATIONE”.
Cicerone aveva frattanto finito il libro sulla Gloria, quasi
terminato quello sulla Vecchiaia, e saputo da Attico che, per
assestare i suoi conti, gli era necessario prendere a prestito
200 000 sesterzi per cinque mesi, fino al 1° novembre. In
questo giorno appunto suo fratello Quinto gli doveva pagare una
somma eguale210. Per fortuna Attico si offriva di cercare qualcuno
che prestasse il denaro; onde egli si avviò di nuovo, negli
ultimi giorni di luglio, verso Pozzuoli, a piccole tappe: Anagni211,
Arpino212, Formia213. Da Pozzuoli intendeva partire per l’Oriente;
ma non era ancora sicuro di far bene, domandava a tutti il parer
loro, non sapeva se imbarcarsi subito o andare sino a Brindisi per
terra. Un momento aveva pensato di fare il viaggio con Bruto, che
pareva volesse partire tra poco, come Cassio, per andare a comprare
il grano, e che, recatosi alla bella isoletta di Nisida, sul golfo
di Napoli, nella gran villa di Lucullo, affittava dai mercanti di
Pozzuoli e di Napoli quante navi potevano dargli.
[44 a. C. Luglio] Intanto voci diverse giravano. Si confermava che
Sesto Pompeo era disposto a far pace; con che sembrava a Cicerone
perdersi l’ultima speranza di libertà214. Invece, di tempo in
tempo, correva nuovamente qualche diceria inquietante sulle
intenzioni di Antonio: tra le altre nientemeno che volesse chiamare
in Italia le legioni di Macedonia, poste in marzo dal Senato sotto
il suo imperium, facendole sbarcare a Brindisi215. Cicerone
giudicava la diceria poco probabile216, ma non si poteva mai sapere:
e se, andando a Brindisi, incappasse in queste legioni? Era meglio
partire per mare. Ma sul mare si annunziava un nuovo pericolo: i
pirati, che si diceva infestassero le coste217. Cicerone
ritornò all’idea di navigare più sicuramente con Bruto
in numerosa flottiglia. E andò infatti l’8 luglio a Nisida;
vide con piacere nei seni della bella isoletta le molte navi di
Bruto, di Cassio, di Domizio Enobarbo e degli altri conservatori e
congiurati, che si tenevano pronti a partire, se l’amnistia fosse
abolita; tentò di far capire a Bruto il suo desiderio di
andar con lui. Ma Bruto non capì o finse di non capire.
Combattuto dalle esortazioni di Cassio e dal desiderio di pace, non
sapeva che fare, e voleva intanto, prima di risolversi a salpare,
aspettar l’esito dei giuochi; i quali forse – così egli
sperava – potrebbero promuovere o almeno indicare un mutamento della
opinione pubblica, e quindi intimorire Antonio. Delle prime notizie
sui giuochi si parlò, naturalmente. Pur troppo alla commedia
greca era andato un pubblico scarso: ma Cicerone spiegava la cosa,
dicendo che quello spettacolo piaceva poco al popolino di Roma; la
commedia latina e la caccia alle bestie risolleverebbero le sorti
dei giuochi. In quella venne Scribonio Libone con le prime lettere
autentiche di Sesto Pompeo, che un liberto aveva portate allora
allora dalla Spagna e nelle quali il giovane si diceva pronto a
deporre le armi, se gli restituivano i beni del padre e se gli altri
capi di partito abbandonavano pure i comandi. Insomma, si confermava
definitivamente che era più incline a pace che a guerra218.
Cicerone tornò a Pozzuoli, dove restò il 9 e il 10
sempre pensando di partire ad ogni modo con Bruto, anche se Bruto
tardava219; il 10 ricevè una lettera di Attico in cui gli
diceva che a Roma tutti lodavano il suo viaggio, purchè
tornasse per il 1° gennaio220; e il giorno stesso fece una breve
gita a Nisida. Trovò tutti contenti perchè il Tereo di
Accio aveva attirato molto pubblico e avuto buon successo; e se ne
rallegrò anche egli, sebbene pensasse con stizza che il
popolo, per difendere la repubblica, avrebbe dovuto adoperar le mani
a brandire armi e non applaudire degli attori221; ma tornato poi a
Pozzuoli fu ripreso di nuovo dall’impazienza e deliberò di
non aspettar più Bruto, di partir subito, per la via di
terra, andando a Brindisi. Il rumore delle legioni dileguava; ma i
pirati erano veri222. L’11 luglio infatti aveva scritto ad Attico
incaricandolo della amministrazione generale dei suoi beni,
scongiurandolo di non farlo scomparire con nessuno dei numerosi
creditori, autorizzandolo a contrarre prestiti e anche a vendere
qualche proprietà, se era necessario, per pagare223. Attico
era un così buon amico! In quei giorni pensava persino a
pubblicare una collezione di lettere del grande oratore e gli aveva
chieste tutte quelle che possedeva224.
E partì per Pompei. A Roma intanto i Giuochi apollinari erano
terminati. Avevano avuto grande successo, dicevano i conservatori;
erano stati accolti male, dicevano gli amici di Antonio e gli
avversari dei congiurati225. Ormai si prognosticava il destino della
repubblica dal successo di qualche attore! Ma questa volta avevan
certamente ragione gli amici di Bruto, perchè al teatro e al
circo il popolo romano non conosceva partiti e applaudiva tutti gli
spettacoli, purchè fossero belli. Con tanto maggior zelo
Ottaviano attese ad allestire i giuochi della Vittoria di Cesare,
studiando di farsi fare in quelli delle grandi dimostrazioni dal
partito di Cesare, che indispettissero Antonio. Antonio però
non riposava; e indefessamente continuava a rafforzare il vecchio
partito di Cesare, prima di proporre la legge sulla Gallia; largendo
favori, corrompendo, inventando atti di Cesare, facendo entrare in
Senato i senatori di Caronte, come li chiamava il popolo, e
cioè oscure persone ligie a lui, centurioni di Cesare i
più, la cui nomina egli diceva di trovare nelle carte del
dittatore226. Così non solo aveva raccolti intorno a
sè quasi tutti i cesariani più capaci di origine
oscura, ma aveva guadagnato anche qualche cesariano più
ragguardevole e conservatore, tra gli altri quel Lucio Tremellio che
nel 47 aveva, come tribuno della plebe, combattuto con tanto vigore
la rivoluzione di Dolabella. I tempi erano duri; Tremellio si
trovava, come tanti altri, in strettezze: e perciò si era
indotto ad accostarsi ad Antonio, come l’ex-edile Lucio Vario
Cotila227. Inoltre tentava di corrompere il nipote di Cicerone228 e,
a quanto pare, anche Pisone, il suocero di Cesare229; avviava forse
allora trattative con Lepido per un fidanzamento tra il figlio di
lui e una figlia sua230, bambini ambedue. Con il decreto sulla
faccenda di Butroto, si era poi ingraziato talmente Attico, che il
ricco finanziere era andato apposta a Tivoli per ringraziarlo231.
Nel tempo stesso Lucio Antonio poneva mano alla esecuzione della
legge agraria, ricercava in tutta Italia agrimensori, prendeva
grandi somme nell’erario, faceva misurar terre pubbliche e cercava
terre private da comperare, a buoni o a cattivi prezzi secondo
appartenevano ad amici o a nemici; e diveniva in breve oggetto di
tante adulazioni, che qualcuno propose perfino di fargli erigere
dalle trentacinque tribù un monumento equestre sul Foro, e
trovò il denaro232. La potenza di Antonio pareva insomma
posare sopra una roccia granitica di grandi interessi; e a scuoterla
non basterebbero certo dimostrazioni e discorsi! Tuttavia Ottaviano
godeva di molte simpatie tra i veterani, la plebe, gli amici stessi
del console e in tutto il partito popolare ricostituito da Antonio;
perchè in quel fanatismo cesariano esasperato dalle Idi di
Marzo il nome solo lo avrebbe reso caro, se anche il giovane non
fosse stato – come era – furbo abbastanza da insinuarsi nelle grazie
della gente. Perciò non pochi lamentavano queste liti tra lui
e il console, giudicavano che costui era stato troppo duro. No, non
si poteva negare un posto nel partito di Cesare al figlio, il quale
anzi ne accrescerebbe la forza233.
Ma intanto gli spiriti si placavano e la politica sonnecchiava;
onde, quando il 17 luglio234 Cicerone dalla sua villa di Pompei
entrò definitivamente nel viaggio, potè tranquillare
gli scrupoli della sua coscienza persuadendo sè stesso che
non fuggiva: infatti non partiva forse quando tutto era tranquillo,
non tornerebbe il 1° gennaio, quando probabilmente i tumulti
ricomincierebbero?235 Aveva però mutato ancora una volta idea
sulla via: andrebbe per la via di mare, in tre navicelle a dieci
remi che aveva affittate a Pompei236; a Reggio poi delibererebbe se
salire sopra una grossa nave mercantile e con quella veleggiare a
Patrasso in mare aperto, o se costeggiare con i suoi navicelli sino
a Leucopetra dei Tarentini237 e di lì tagliar dritto su
Corcira238. Pure non era pienamente soddisfatto della sua
risoluzione; e in fondo si sentiva scontento. E così
finalmente si partì, ma come chi non è sicuro di far
bene e molto angustiato per le sue faccende private. Debiti e
crediti si pareggiavano nei conti rifatti prima della partenza,
sotto la vigilanza di Attico; ma nell’attivo figuravano anche certi
crediti – molto dubbii! – di Dolabella verso terze persone, che
Dolabella aveva ceduti invece di dare denaro contante, in pagamento
della dote di Tullia; cosicchè Cicerone temeva che, lui
partito, la bella ma fragile architettura del pareggio precipitasse.
Si era perciò raccomandato anche al ricchissimo Balbo di non
fargli fare una brutta figura239. Poco dopo la sua partenza, nella
terza decade di luglio, furono celebrati i Giuochi della Vittoria di
Cesare, preceduti però da una baruffa tra Antonio e
Ottaviano. Costui aveva voluto portare nel teatro il seggio dorato
di Cesare; alcuni tribuni sobillati da Antonio lo avevano impedito;
Ottaviano era ricorso al console, che non solo aveva approvato i
tribuni, ma aveva anche minacciato Ottaviano di metterlo in
prigione, se non stava quieto240. Ciò non ostante il popolino
e i veterani, che rammaricavano questi scandali, gli fecero grandi
dimostrazioni nei giuochi, che durarono tre o quattro giorni241. Per
caso in quei giorni apparve alla sera una grande cometa; e
Ottaviano, per rinfocolare quella esotica adorazione religiosa per
Cesare che fermentava nel popolino di Roma dalla mistione di tanti
influssi d’oriente, affermò che era l’anima di Cesare ascesa
in cielo tra gli Dei e nel tempio di Venere pose una statua di lui
con in capo una cometa d’oro242.
E finalmente, pochi giorni dopo, terminati i giuochi, prima della
fine del mese, la pace in cui Roma sonnecchiava fu rotta
all’improvviso da un rombo di terremoto. Antonio e Dolabella
promulgavano una lex de permutatione provinciarum243, con cui si
toglieva a Decimo Bruto, l’uccisore di Cesare, la Gallia Cisalpina,
e la si dava subito ad Antonio, con le legioni di stanza in
Macedonia, e con la Gallia Chiomata244 a cominciare dall’anno
seguente. Decimo aveva in cambio la Macedonia, per il resto
dell’anno. Dopochè Cicerone era partito e Decimo si era
avviato con l’esercito verso le Alpi, Antonio aveva trovato questo
mezzo di avere le Gallie sino a tutto l’anno 39 e di dare nel tempo
stesso una risposta alle accuse di Ottaviano e una soddisfazione ai
veterani, sdegnati per l’amnistia del 17 marzo, senza però –
così almeno sperava – provocare i conservatori a una
disperata nuova guerra civile. Infatti egli non proponeva di revocar
l’amnistia, ma solo di toglier la Gallia a Decimo, per quei pochi
mesi che restavano; e se intendeva magnificare innanzi ai veterani
questo atto come una grande umiliazione del partito dei congiurati,
d’altra parte sperava che, dato a Decimo il compenso della
Macedonia, i conservatori, per timore del peggio, si
rassegnerebbero; sperava forse anche – così sembra almeno –
di intendersi di nascosto con il suo vecchio amico di Gallia e di
indurre Decimo ad accettare la permuta245. Ma a queste rosee
previsioni corrispose male il principio, perchè all’annunzio
della legge una violenta agitazione sconvolse inaspettatamente le
alte classi di Roma: l’amnistia, la repubblica, la fortuna dei
ricchi, tutto parve in pericolo; le più bieche e spaventose
intenzioni furono attribuite ad Antonio. Un gran panico
scoppiò tra i capitalisti, considerandosi la guerra civile
come imminente, cosicchè non fu più possibile di
trovar denaro a prestito come ai tempi di Catilina246; i pochi
conservatori autorevoli che restavano a Roma, sdegnati, scossero di
dosso il lungo torpore, si intesero tra di loro e con Bruto e
Cassio; anche qualche cesariano eminente stette con i conservatori,
e tra questi Pisone, il suocero di Cesare, che si dichiarò
pronto a fare in Senato un discorso per sostenere una proposta che
pareva risolvere equamente e per sempre la questione della Gallia
Cisalpina: che essendo stata concessa ai Cisalpini la cittadinanza,
era tempo di equiparare in tutto la regione all’Italia e quindi non
mandarci più nè proconsole nè propretore. Si
deliberò infine di procurare che il 1° agosto il maggior
numero di senatori venisse alla seduta, di non dare l’auctoritas
alla proposta se Antonio la domandava, se non la domandava di
sollecitare i due o tre tribuni della plebe avversi ad Antonio ad
interporre il veto247. In mezzo a questi preparativi, l’opinione
pubblica, che intuiva quanto la partenza di Cicerone avesse
contribuito ad accrescere il coraggio del console, infuriò
contro di lui. Ma come mai aveva potuto andarsene in Grecia, proprio
allora, a vedere i giuochi olimpici? Giacchè si bucinava che
questo fosse lo scopo del viaggio. Era impazzito o imbecillito il
vecchio consolare, che abbandonava la repubblica in tanto frangente?
Attico, spaventato, gli scrisse una lettera supplicandolo a tornare
e gliela spedì in gran fretta a Leucopetra, con la speranza
di raggiungerlo a tempo248.
[44 a. C. Agosto.] E frattanto Cicerone, ignaro di tutto, navigava
continuando a scrivere pur nella nave i suoi libri, ricominciando a
ogni momento la discussione tormentosa con sè stesso,
l’altalena dei pentimenti e delle esitazioni, il contrasto tra la
vergogna di tornare indietro e la paura di far male andando innanzi.
Navigando così, combattuto da opposti pensieri, egli giunse
il 1° agosto a Siracusa e il 6 a Leucopetra; ma appena ripartito
da Leucopetra un gagliardo vento contrario lo costrinse a sbarcare
alla vicina villa di un suo amico, un certo Publio Valerio, ad
aspettare che il vento mutasse. Che Cicerone era in quella villa si
riseppe in un attimo nella vicinanza e subito dai luoghi vicini,
anche da Reggio, vennero persone di conto, membri di quella agiata
borghesia italica che tanto favoriva, sia pure platonicamente, il
partito conservatore e repubblicano contro la demagogia
rivoluzionaria; tra gli altri alcuni, tornati allora allora da Roma,
che avevano lasciata il 29 o il 30 luglio, e che gli raccontarono
quello che era successo dopo la sua partenza: la promulgazione della
legge, il panico scoppiato, quel che si diceva di lui e anche un
miglioramento seguito poi. Sembra che Antonio fosse stato per un
momento intimidito dalla agitazione dei conservatori, che forse non
prevedeva sì grande, e dall’intervento di Pisone: onde aveva
pronunciato un discorso più conciliante, dando a divedere che
assegnerebbe a Bruto e a Cassio provincie più importanti in
luogo della missione annonaria, facendo balenare che non era
impossibile intendersi sulle Gallie. Bruto e Cassio avevano allora
pubblicato un editto, in cui si dichiaravano pronti ad abbandonare
la magistratura e ad andare in esilio, se era necessario per la pace
della repubblica, mirando a impegnare Antonio e a sbugiardare i
popolari che sostenevano la legge, accusandoli di macchinare una
nuova guerra civile249. Ma speranze chimeriche erano nate da questi
fatti e i reggiani le raccontavano a Cicerone: Antonio era mal
consigliato, ma savio; si farebbe la pace; Bruto e Cassio
tornerebbero a Roma250. Cicerone aveva ricevuto frattanto anche le
lettere di Attico251; e subito si risolvè a volger la prora
al ritorno.
Ma mentre Cicerone era in viaggio, gli avvenimenti pigliavano a Roma
una piega ben diversa da quella che egli sperava. Le titubanze di
Antonio erano durate poco; perchè il console, questa volta,
era stato incitato non solo dalle solite sollecitazioni dei suoi
temerari consiglieri252, Fulvia e Lucio, ma dall’entusiasmo dei suoi
veterani. Costoro avevano interpretato la lex de permutatione a
seconda dei loro desideri ed interessi, molto al di là delle
intenzioni di Antonio: il proconsolato delle Gallie, da cui
dipendeva la signoria dell’Italia, era il miglior mezzo per
padroneggiare la repubblica; quando quella provincia fosse tolta ai
congiurati e data a un cesariano, i loro interessi sarebbero sicuri
e la vendetta di Cesare facile; Antonio, il fedele amico del
dittatore, voleva compire questa vendetta, per restaurare la potenza
dei vincitori di Farsaglia e di Munda! Era difficile al console, al
Senato, a tutti resistere a tanto slancio. Il 1° agosto Pisone
tenne un vigoroso discorso in Senato contro Antonio, facendo la
proposta della Cisalpina; ma il Senato incerto, pauroso e in parte
corrotto, ascoltò freddamente253, contentandosi di decretare
nuove provincie a Bruto e a Cassio, ma non meno meschine delle
precedenti: Creta e, a quanto pare, Cirene254. Antonio dovette
smettere i tergiversamenti, rompere in guerra aperta, darsi a
preparare la votazione adoperando tutti i mezzi, dalla violenza alla
corruzione; rispondere alle generose offerte di Bruto e di Cassio
con una lettera e un editto violenti, rimproverandoli per il loro
proposito di abbandonare la magistratura, ammonendoli a non tramare
una guerra civile. Bruto e Cassio risposero di buon inchiostro con
altrettante contumelie il 4 agosto: che essi non fomentavano una
guerra civile, ma non già per paura di lui, bensì per
amore della repubblica255. Ma fra queste baruffe la baldanza dei
veterani di Cesare, già rianimati dalla presentazione della
lex de permutatione, crebbe tanto, che generò un nuovo e
impensato impiccio ad Antonio. Dovendosi eleggere un tribuno della
plebe in luogo di quel Cinna ucciso il giorno del funerali di
Cesare, Ottaviano aveva pensato, incoraggiato dal successo dei
giuochi, di farsi proporre dal popolo, sebbene fosse patrizio. Ma
Antonio si oppose e alla fine rimandò le elezioni256.
Senonchè tra i veterani che, desiderando la concordia del
partito, avevano sempre lamentati i litigi di Antonio e Ottaviano,
qualcuno, in mezzo al fervore di speranze e all’esaltazione destate
dalla lex de permutatione, affermò che era tempo di por fine
a questa calamitosa discordia; che i veterani dovevano interporsi
come pacieri. Detto, fatto: la proposta, che giungeva in tempo
opportuno, fu universalmente approvata e posta subito in esecuzione.
Un giorno (siamo nella prima quindicina di agosto) si venne ad
annunziare ad Ottaviano che una torma di soldati muoveva verso la
sua casa. I servi e gli amici si spaventarono; le porte furono
chiuse precipitosamente; Ottaviano salì all’ultimo piano per
spiare senza esser visto dalla turba. Ma, la turba prorompendo in
acclamazioni, egli si fece ardito a mostrarsi e fu salutato da
grandi applausi: i soldati volevano la riconciliazione definitiva
tra lui e Antonio ed erano venuti a cercarlo, mentre altri erano
andati a cercare Antonio257.
Offerta a quel modo e da quei pacieri, nell’imminenza della
votazione della legge de permutatione, nè Ottaviano nè
Antonio osarono respingere la conciliazione. Così la pace fu
fatta. Antonio e Ottaviano si fecero visita e si scambiarono
discorsi gentili; Ottaviano anzi si dichiarò pronto a
favorire la legge, che di lì a poco, nella seconda
metà di agosto, fu approvata. Pare che i tribuni avversi si
lasciassero in parte corrompere258 e agli incorruttibili si provvide
munendo bene tutte le entrate del Foro, per non lasciar passare che
gli amici259. Di tutti questi eventi Cicerone ebbe notizie a Velia,
dove incontrò Bruto, che lentamente con la sua flotta
discendeva le coste dell’Italia, ormai risoluto a partire. Approvata
la lex de permutatione, la repubblica e la amnistia erano in
balìa degli amici di Cesare, se i congiurati e i conservatori
non ricorrevano allo estremo espediente di una nuova guerra civile.
Ma con quali armi ed eserciti? Con che capi e con quali mezzi, se
eran tutti sparsi per l’impero, lontani e discordi? Questo uomo di
studio, costretto ad essere contro natura un uomo d’azione, non
partecipava alle speranze e agli ardimentosi propositi di Cassio,
che poco prima, in luglio, a quanto pare d’accordo con Servilia,
aveva mandato segretamente a Trebonio, agli ufficiali delle legioni
di Egitto, a Cecilio Basso degli emissari, a proporre loro di
preparare in Oriente un grande esercito per la difesa della causa
conservatrice e a far loro sapere che era pronto a venire in Siria.
Bruto aveva consentito che Marco Scapzio, quel faccendiere di cui si
era servito per i suoi prestiti in Cipro e che aveva tante amicizie
e relazioni in Oriente, fosse incaricato di prender parte a queste
trattative; ma egli abbandonava la contesa, e poichè aveva
ricevuto, per il suo viaggio, 100 000 sesterzii da Attico260,
se ne andava in Grecia in volontario esilio, illudendosi di
immolarsi alla pace civile. Poichè però Cicerone
pareva disposto a tornare alle pubbliche faccende, non volle
distoglierlo, ma si rallegrò con lui del suo ritorno,
spiegandogli la cattiva impressione che aveva fatto il suo viaggio e
incitandolo ad andar subito a Roma, per mettersi a capo della
opposizione contro Antonio261. Senonchè lo slancio del
principio rallentava in Cicerone e i dubbii ricominciavano con la
paura. A che pro andare a Roma? Poteva egli, con un simile Senato,
tener testa ad Antonio?262 Dopo la legge sulla Gallia, verrebbe la
questione dell’amnistia; e non sarebbe piccola impresa opporsi su
questa ad Antonio e ai veterani. Inoltre, siccome le disgrazie non
vengono mai sole, in quei giorni Irzio, la cui salute era da lungo
tempo malferma, ammalò così gravemente263, che i
conservatori, temendo per la sua vita, ebbero un altro motivo di
inquietudine: se Irzio moriva, Antonio farebbe certamente eleggere
in luogo suo, per console dell’anno 43, qualche scalmanato
cesariano! Ma le lodi tributate a Pisone, il desiderio di far
dimenticare il suo recente viaggio, le esortazioni ampollose di
tutti quelli che dicevano egli solo poter salvare la repubblica lo
stimolavano; lo spingeva anche la sollecitudine delle sue faccende
private. Il panico per la presentazione della lex de permutatione
aveva sconvolto tutto il bel bilancio compilato sotto la vigilanza
di Attico, il quale gli aveva scritto poco prima che per pagare i
debiti era necessario riscuotere i crediti, perchè non era
possibile trovare denaro a prestito264. Ma in tempi così
difficili nemmeno i crediti si potrebbero esigere, se egli non
sollecitava personalmente i creditori. Cosicchè, vinti gli
ultimi dubbii, Cicerone ritornava in Roma il 31 agosto, festosamente
accolto da amici e da ammiratori265. Per fortuna, al suo arrivo.
Irzio era fuori di pericolo.
VII.
I VETERANI ALL’INCANTO.
Entrando in Roma, Cicerone trovava già promulgate da Antonio
due altre leggi: una lex de tertia decuria e una lex de vi et
majestate. Non trovò invece alcuna proposta sull’amnistia.
Approvata la legge della permuta, Antonio aveva mandato subito
ordine a quattro delle legioni di Macedonia – la seconda, la quarta,
la trentacinquesima e la legione di Marte – di passar l’Adriatico,
per aver pronta in Italia, unendole con la legione dell’Alodola, una
forza considerevole, se Decimo non si rassegnasse a riconoscere la
legge al suo ritorno dalle Alpi: aveva quindi ripreso a
temporeggiare, cercando di contentare i popolari, invece che con la
troppo perigliosa vendetta di Cesare, con queste due leggi. La prima
distruggeva la riforma aristocratica dei tribunali, fatta da Cesare
nel 46, disponendo che non più soltanto i membri dell’ordine
senatorio ed equestre, cioè le alte classi, ma anche i
centurioni, cioè gli ufficiali minori dell’esercito, fossero
inscritti senza considerazione di censo nell’albo dei cittadini da
cui si traevano a sorte i giudici delle quaestiones (i membri della
giuria, diremmo adesso). La seconda disponeva che ogni cittadino
condannato per majestas o per vis (tutti i reati che noi diciamo
contro l’ordine pubblico, erano compresi sotto questi due nomi)
avesse il diritto, abolito da Silla e da Cesare, della provocatio o
appello ai comizii266. In altre parole, con la seconda legge Antonio
faceva ammenda del supplizio di Erofilo e delle stragi del 47,
rendendo cosa quasi impossibile il reprimere rapidamente le
sedizioni; con la prima si procurava il mezzo di influire sui
giudizi, imitando in parte quello che aveva fatto Pompeo nel 52 e
nel 51; e adulava i soldati, equiparando il servizio militare al
censo e alla nobiltà come titolo ad esercitare una delle
maggiori funzioni civili. Ardimento maggiore per certo rispetto,
Antonio intendeva di proporre al Senato il giorno dopo, il 1°
settembre, che ai consueti onori funebri privati, tributati
annualmente a Cesare dalla famiglia, si unissero pubbliche
supplicazioni, come quelle che si facevano agli Dei: in altre parole
che si deificasse Cesare, annoverandolo quasi tra i numi267. Che
progresso aveva fatto questa superstizione orientale, orribile ad
ogni schietto romano! Dalle prime spontanee e ingenue offerte del
popolino ignaro sull’ara eretta da Erofilo, si era passati in un
mese alle declamazioni di Ottaviano sull’anima del dittatore
splendente nella cometa; ed ora, trascorso un altro mese, si voleva
instaurare ufficialmente il culto di Cesare!
Il partito popolare appariva vittorioso di nuovo come nel 59,
più che nel 59. Eppure mancava ad Antonio quell’impeto sicuro
e continuo, con cui Cesare aveva allora strappata al nemico e
sfruttata a fondo la vittoria, senza dargli tregua un momento. Aveva
sino allora proceduto con grandissima circospezione, esitando,
tergiversando, ritornando sui suoi passi: prendeva infinite
precauzioni per difendere la sua vita268; si inquietava di ogni
piccola opposizione: era diventato, per le fatiche, le
ansietà e gli stravizi, più irascibile ancora del
solito269. Non solo i due uomini erano diversi, ma i tempi e le cose
erano molto mutate dal primo consolato di Cesare e mutate a danno
dell’imitatore. Allora, lontani ormai i ricordi della guerra civile
di Silla e di Mario, affrontato da poco e felicemente il pericolo,
del resto ingrandito nell’immaginazione dei più, della
congiura di Catilina, recenti le vittorie di Lucullo e di Pompeo in
Oriente, fervido in ogni parte della penisola il rinnovamento
agrario, l’alacrità del commercio e lo zelo degli studii,
l’Italia era piena di fiducia nell’avvenire e non credeva
seriamente, sebbene fosse costume di lamentarsi senza tregua, al
pericolo di rovesci, di rivoluzioni e rovine; onde sosteneva senza
troppo inquietarsene tutte le difficoltà presenti; i debiti,
il disordine amministrativo, la corruzione e l’instabilità
politica. Così era avvenuto che la rivoluzione di Cesare
fosse allora o tollerata come innocua o addirittura ammirata anche
da quella industriosa borghesia, che rinnovava con tanta energia il
vivere italico. Ma ora invece! Tutti i ceti e tutti i partiti
avevano subito tanti amari disinganni e prove così terribili,
che dappertutto era diffusa quell’ansiosa incertezza del presente e
dell’avvenire, quella stanchezza disgustata e sfiduciata, che
è il maggior travaglio di tutte le grandi crisi sociali.
Sebbene in tutta Italia fosse diffuso quanto mai lo spirito
conservatore, cioè lo spavento della rivoluzione, l’odio
della demagogia, il desiderio dell’ordine; il partito conservatore
non c’era più, tanto orrore le alte classi avevano della
politica. In una lettera scritta a Cicerone in questi tempi, Attico
esprimeva con brutale cinismo quello che era in fondo il pensiero
dei più: “se la repubblica è perduta, salviamo almeno
il patrimonio”270. Senonchè, con questa neghittosità,
non si rischiava di perdere e patrimonio e repubblica? Nessun
giovane osava più cimentarsi nella lotta contro la
rivoluzione; uomini nuovi non apparivano ad aiutare gli antichi che,
decimati e dispersi, non bastavano più a difendere gli
interessi delle classi ricche; solo qua e là qualcuno,
più ardito e tenace, si ingegnava per conto suo a preparare
qualche difesa. Ma, immaginate da gente solitaria e quasi disperata,
in una delle situazioni più incerte e difficili, queste
difese erano spesso temerarie, stravaganti, quasi pazzesche. Se
Cassio voleva muovere da solo e inerme, con poche barche, alla
conquista dell’Oriente qualcun altro in quel tempo – pur troppo non
sappiamo chi fosse – ideava un intrigo ancor più ardito e
difficile, d’accordo con pochi conservatori meno indolenti: seminar
zizzania tra le legioni di Macedonia e il loro generale, con tutti i
mezzi, anche a costo di accusare Antonio come un tepido e malfido
partigiano di Cesare, anche a costo di adoperare, non solo gli amici
che molti conservatori avevano tra gli ufficiali di quelle legioni,
ma Ottaviano e per suo mezzo gli amici di costui molto più
numerosi. I primi tentativi di aizzare Ottaviano contro Antonio
erano falliti, per l’interposizione dei veterani; ma nè
Marcello nè gli altri aristocratici amici della famiglia
avevano per questo smesso, dopo la riconciliazione, di mettere in
sospetto Ottaviano, cercando di persuaderlo che non doveva fidarsi,
non ostante la pace, di Antonio, ma aiutarli a rivoltare al troppo
audace console le sue milizie. Nel partito popolare la torma degli
avventurieri, il popolino, i veterani chiamavano a grandi grida
nuove Farsaglie e nuove Munde, offrendo in cambio ai loro capi quel
che volessero, anche l’impero del mondo; ma chi osava accettar con
cuore sicuro quella spada? Chi poteva dimenticare la tragica
viltà delle Idi di Marzo: Cesare, il conquistatore della
Gallia, il fondatore di tante colonie, il dittatore a vita, sgozzato
da amici e beneficati in Senato, di pieno giorno, sotto gli occhi di
altri amici e beneficati, senza che alcuno osasse slanciarsi in suo
aiuto? Nessun uomo delle classi alte e di fine coltura osava
più, tranne Ottaviano, accostarsi al partito di Mario e di
Cesare, che si mutava in una mobile e infida accozzaglia di oscuri
avventurieri. In tutti poi, l’illusione che le conquiste dovessero
sempre riescire, che la ricchezza crescerebbe indefinitamente, che i
debiti si pagherebbero senza stento, svaniva: anzi i debiti
irretivano più arruffatamente un gran numero di agiate
famiglie, in quel modo stesso che abbiam visto irretito Cicerone;
perchè da un pezzo rinvilivano, per la crisi, le derrate i
campi le case, aumentava la difficoltà di far rendere le
terre e di far pagare i fittavoli gli inquilini i debitori,
rincariva invece il denaro; nè si vedeva quando e come
spunterebbero annate migliori. E intanto giù la immensa torma
confusa dei veterani, dei coloni, dei mendicanti, dei soldati si
agitava, minacciando di invader come un’orda lo Stato e i beni delle
classi agiate. A che cosa aveva servito la guerra civile se non ad
inasprire tutti i mali? La grande proprietà era stata
danneggiata e molti ingenti patrimoni, come quelli di Pompeo e di
Labieno, confiscati e divisi; non pochi tribuni, centurioni e
soldati di Cesare erano diventati agiati o ricchi271; ma la
moltitudine restava, se non più povera, certo più
insoddisfatta di prima, ma il ceto medio non era meno oberato. Per
un momento una dittatura rivoluzionaria era stata instaurata
nell’antico disordine delle fazioni cozzanti; ma poche pugnalate
l’avevano atterrata in un baleno, una mattina, e l’Impero si era
trovato in condizioni ancor peggiori, senza più nessun
governo, nemmeno quello delle antiche fazioni cozzanti, in
balìa ora di Erofilo, ora di Fulvia. Da trent’anni l’Italia
non si estenuava forse in una fatica di Sisifo? In simile condizione
di tempo e di cose, Antonio non poteva cullarsi in troppo rosee
illusioni, anche se non solo le tribù, ma i cavalieri e gli
usurai di Roma si sbracciavano a far monumenti a Lucio272; se sua
moglie Fulvia poteva, anche in quei tempi di crisi, comprare
facilmente ingenti possessioni a credito da compiacenti
venditori273; se il Senato obbediva docilmente ai suoi comandi. Dopo
aver visto Cesare ucciso dai suoi amici più cari, e tanti, in
quei pochi mesi, dissimulare, mutar pensiero, tradire da un giorno
all’altro; costretto a salire un’erta ripida e sdrucciolevole, sopra
uno sfasciume di rottami che rotolavano giù sotto la spinta
del piede poggiante all’ascesa, egli doveva necessariamente
diffidare di tutti e di tutto.
L’improvviso ritorno di Cicerone e le liete accoglienze irritarono
perciò molto l’irritabilissimo console. L’opposizione
ritroverebbe un capo così autorevole? Bruto e Cassio
partivano e Cicerone tornava, apposta, per la seduta del giorno dopo
nel Tempio della Concordia? Invece Cicerone non comparve in Senato
il primo settembre, ma mandò un amico a dire ad Antonio che
restava a casa perchè stanco del viaggio274. È
più probabile, in verità, che Cicerone non osasse
parlare contro la deificazione di Cesare per paura dei veterani; e
che, non potendo nè parlare in favore, nè comparire in
Senato e tacere, avesse immaginata quella scusa. Ad ogni modo,
Antonio avrebbe dovuto rallegrarsene. Ma che cosa accadde invece
allora in lui? Cedette egli, uomo violento per natura e allora
più del solito irritabile, a un impeto subitaneo di rabbia?
Finse di andare in collera per spaventar Cicerone e farlo fuggire di
Roma? Ambedue le supposizioni sono verisimili. Certo è che
all’udire quell’ambasciata, Antonio proruppe in terribili smanie; si
mise a gridare in pieno Senato che Cicerone voleva far credere a
tutti di essere insidiato e in pericolo; che lo calunniava e gli
faceva un affronto; che egli, Antonio, userebbe i suoi poteri di
console e lo farebbe venire al Senato per forza, mandando soldati e
fabbri a rompergli le porte della casa, se resisteva275. Successe un
pandemonio: i senatori balzarono in piedi supplicandolo di calmarsi;
e sia che Antonio si accorgesse di aver trasceso, sia che simulasse,
alla fine sì calmò e annullò l’ordine276.
Furono poi approvati gli onori di Cesare277. Antonio aveva con
quelle parole e minaccie spaventato assai il timido Cicerone; ma
aveva anche oltraggiato, egli console giovane e novello, il
più illustre personaggio del Senato, e in tal modo, che
questi per quanto vecchio, stanco, debole, non poteva non
risentirsene fieramente. [44 a. C. 2 settembre.] E il vecchio
infatti, non ostante la gran paura che gli incutevano Antonio e i
suoi veterani, volle risponder subito nella seduta del giorno
dopo.... Chi però si slancia a sfogar la collera contro un
nemico potente, mentre le gambe gli tremano sotto per la paura che
non riesce a vincere, rischia di far ridere il pubblico: e questo
sarebbe successo a Cicerone, se ormai a quell’età e dopo
tanta pratica, non avesse conosciuto a fondo l’arte degli effetti e
saputo quindi dissimulare abilmente la sua paura in una bella
compostezza, scrivendo quel giorno stesso rapidamente un abile,
misurato, dignitoso discorso, il primo di quelli contro Antonio cui
poi, metà per scherzo metà sul serio278, egli diede il
nome demostenico, che conservarono sul serio, di Filippiche. In
questo discorso spiegava prima il suo viaggio e poi l’assenza del
dì precedente; si lagnava delle invettive di Antonio, ma
brevemente e con un certo sussiego, come chi è dolente di
dover trattenersi di cose così poco convenienti alla sua
dignità; passava quindi a considerare lo stato della
repubblica, biasimando la politica di Antonio, ma moderatamente e in
modo molto singolare, accusandolo cioè di non aver rispettati
gli atti e le leggi di Cesare e quasi dicendo ai veterani che egli
desiderava questa conservazione più sinceramente di Antonio.
Biasimava infine delle leggi di Antonio non il contenuto ma la
procedura irregolare; infine esortava Antonio e Dolabella a
ravvedersi, a non covare ambizioni parricide, a praticare la
classica teoria costituzionale di Aristotile da lui divulgata:
libertate esse parem ceteris, principem dignitate: essere il primo
cittadino in una Repubblica di eguali279. Insomma, con questo
discorso egli offriva quasi, senza dirlo, di accettare delle scuse,
se gli fossero fatte. Ma il 2 settembre Antonio non comparve in
Senato280: sia che ancor si rodesse dentro per quella mescolanza di
puntiglio, di vergogna e di ira che resta dopo ogni scoppio smodato
di collera e che è un così grave impedimento a tutte
le riconciliazioni; sia che avesse paura dei discorsi di Cicerone
come costui aveva paura dei suoi veterani e temesse di non saper
rispondere subito; sia che volesse davvero spaventarlo.
Senonchè questa assenza era un nuovo affronto per Cicerone,
il quale uscì dal Senato, ormai interamente nemico ad
Antonio; gli tolse il saluto nella via281; e incominciò a
chiamarlo, non in pubblico ma nelle lettere, pazzo, gladiatore e
uomo perduto282; ad accusarlo di preparare un macello di senatori e
di grandi, che doveva incominciare da lui283; a sospettar corrotti
tutti quelli che non si dichiaravano apertamente nemici di
Antonio284.
[44 a. C. Settembre.] La inclinazione ad attribuirsi vicendevolmente
intenzioni malevole, quella specie di reciproco delirio di
persecuzione tra gli uomini i partiti e le classi, che si propaga
nelle grandi crisi sociali, è una malattia molto pericolosa,
perchè chi esagera il numero e l’accanimento dei suoi nemici,
opera poi sovente in modo da mutare in nemici veri una parte dei
nemici immaginari. Così avvenne allora. Nessuno dei
congiurati immaginava le perplessità e le esitazioni di
Antonio; tutti pensavano che, giunte le legioni macedoniche in
Italia, egli lacererebbe l’amnistia e sgominerebbe il partito
conservatore; e nell’imminenza del pericolo che minacciava la
persona e i beni di quanti avevano avuto mano nella congiura, gli
intrighi tra le legioni di Macedonia e intorno ad Ottaviano
divennero più alacri. Si lasciò persuadere Ottaviano?
È probabile che no, sebbene sia molto incerto: ma quasi
sicuro è invece che, intorno a questo tempo, Antonio ebbe
sentore del grande lavorio di intrighi che si faceva nelle legioni
di Macedonia. Non si potrebbe spiegare altrimenti come a questo
momento, prorompendo a un tratto dalla sua titubante prudenza e
senza apparente ragione, Antonio si scagli furibondo ad aggredire
insieme i congiurati, i conservatori ed Ottaviano285. Una soverchia
e troppo frettolosa paura concitò la sua naturale violenza;
le sobillazioni di Fulvia e di Lucio ripresero forza;
inaspettatamente, dopo diciassette giorni di silenzio, quando tutti
credevano che non risponderebbe più a Cicerone, egli
convocò il Senato per il 19 e vi pronunziò un discorso
violento e bilioso contro il grande oratore, in cui lo accusava di
esser stato il primo autore della congiura contro Cesare286. Ma
Cicerone, nel cui animo il dispetto tenzonava con la paura di
Antonio, delle sue macchinazioni, dei veterani, rimase a casa287. In
quei giorni, nella seconda metà di settembre, giunse notizia
che Decimo Bruto tornava dalla sua spedizione alpina acclamato
imperatore dai soldati288. I conservatori avendo ripreso nuovo
animo, Antonio si sforzò di concitare nei suoi la passione
cesariana: fece iscrivere nel piedestallo di una statua di Cesare
sui Rostri “Parenti optime merito”289; non solo, ma il 2 ottobre
pronunciò in una concione popolare un discorso contro i
congiurati così violento, che i conservatori giudicaron
l’amnistia del 17 marzo già spacciata290. Infine qualche
giorno dopo, il 4 o il 5291 tese un’abile insidia a Ottaviano. Corse
voce a un tratto, in quei giorni, che Antonio aveva scoperto in casa
sua dei sicari mandati ad ucciderlo. Ottaviano inviò subito a
domandare notizie alla casa del console; ma ivi giunti, i messi sono
ricevuti in malo modo, e senton dire che i sicari aveano confessato
di essere stati sobillati da Ottaviano. [44 a. C. Ottobre.] La
diceria si divulgò per la città in un baleno, sebbene
fosse, a dir vero, creduta da pochi; Cicerone e i nemici arrabbiati
di Antonio lodarono l’autore presunto, rammaricandosi che il colpo
fosse fallito; ma la madre di Ottaviano si spaventò, corse
dal figlio, lo supplicò di abbandonar Roma per qualche tempo,
aspettando che la tempesta passasse. Ottaviano die’ prova in quel
frangente di molta fermezza; non soltanto non volle uscir di Roma,
ma ostentò sicurezza e tranquillità, ordinò che
le porte della casa fossero aperte a tutti, come al solito, nelle
ore della visita, e come di consueto ricevè i clienti, i
sollecitatori, i veterani. Antonio intanto, raccolto un sinedrio di
amici, raccontò la confessione dei sicari, chiedendo
consiglio. Seguì un silenzio penoso, perchè nessuno
osava rispondere quello che tutti sapevano essere domandato sotto
colore di consiglio e parteggiare la responsabilità di un
processo per un falso reato contro chi portava il nome di Cesare.
Alla fine uno dei presenti ruppe il silenzio, domandando che si
facessero venire i sicari e si interrogassero in presenza di tutti;
e allora Antonio, dopo aver risposto che ciò non era
necessario, sviò il discorso ad altri argomenti, intrattenne
un poco i suoi amici, che molto impacciati lo lasciavan
chiacchierare tacendo e dopo poco congedò tutti292. Dei
sicari nessuno udì più parlare.
Fallita l’insidia, crebbe tanto nella cricca del console la
inquietudine per le legioni di Macedonia, che Antonio e Fulvia293
deliberarono di andar loro incontro sino a Brindisi; e partirono
infatti il 9 ottobre294, in che disposizione di animo è
facile immaginare: disposti a veder dappertutto sobillatori e
rivoltosi. Ma questa volta tenne loro dietro, dopo qualche giorno,
anche Ottaviano. Il falso attentato non aveva solo persuaso
definitivamente Ottaviano e i suoi amici che i conservatori avevano
ragione e che Antonio intendeva invadere solo la successione di
Cesare; ma aveva disposto a una grande benevolenza verso Ottaviano i
conservatori nemici di Antonio295, molti di quei grandi che egli
vedeva così spesso nella sua famiglia, e a cui l’odio faceva
credere per vero che Ottaviano avesse voluto essere il nuovo Bruto
di Antonio. Infatti egli era stato ricolmo di congratulazioni e di
lodi da tutta questa cricca aristocratica, come un degno emulo dei
congiurati, per una ardita impresa che non aveva mai pensato di
compiere; e aveva udite le più violente invettive contro
Antonio: che un’altra volta non sfuggisse alla morte, che i soldati
non lo seguissero, che sarebbe stato necessario spodestarlo con un
ardito colpo di stato. Ora, se si considera che Ottaviano non era, e
lo vedremo meglio nel seguito di questa storia, un uomo precipitoso
a ogni rischio, ma piuttosto timido ed esitante per natura; se si
considera che difficilmente avrebbe osato tentare la audacissima
impresa, che tra poco narreremo, per propria iniziativa, senza
sapersi aiutato o almeno approvato da persone potenti, è
lecito supporre non solo che egli alla fine accettasse come dovute
queste lodi e si atteggiasse come chi davvero aveva tentato di
ammazzar Antonio; ma che i violenti discorsi dei conservatori e
specialmente quelli di suo cognato Caio Marcello gli suggerissero
l’idea di raccogliere nella Campania una guardia tra i veterani di
Cesare, come aveva fatto Antonio nell’aprile; che, avendo accennata
questa idea ai suoi amici conservatori, fosse calorosamente
approvato. Tutti pensavano esser vantaggioso, in quella disperata
condizione di cose, avere in Roma due corpi di veterani che, nemici,
si bilanciassero. Consigli dati per furore di parte, per odio di
Antonio e con la leggerezza di cui gli uomini fanno prova quando
consigliano senza responsabilità: ma il pericolo era
così grande, che sebbene tanta temerità non si fosse
ancora vista in Roma, alla fine Ottaviano e i suoi amici si
risolvettero; e raccolti servi e clienti, caricato sui muli tutto il
denaro che poterono radunare, partirono in grossa brigata per Capua,
per andare a vendere, aveva detto Ottaviano alla madre, certe
terre296. In torno a quel tempo uscì di Roma anche
Cicerone297. Aveva incominciato a scrivere una risposta al discorso
di Antonio, quella seconda Filippica che è una stupenda
caricatura, da troppi storici però scambiata per un ritratto;
ma scriveva per sfogare il rovello dell’affronto che lo rodeva,
senza il proposito di pubblicarla, perchè a furia di
attribuire al suo nemico disegni di macelli, alla fine si era
spaventato davvero per l’imminente arrivo delle legioni. E
perciò si avviava verso Pozzuoli per ridarsi agli studi e
metter mano al De Officiis.
Così, mentre Cicerone si accingeva a descrivere i perfetti
costumi di una repubblica ideale, nell’Italia meridionale gli agenti
di Ottaviano e di Antonio si disputavano, nella seconda metà
di ottobre, i veterani di Cesare e i soldati novelli. Antonio era
andato a Brindisi dove, tra le none e le Idi di ottobre, le quattro
legioni e molta cavalleria gallica e tracica, sbarcarono in due
riprese298, veramente mal disposte. Le lettere che Ottaviano aveva
scritte nei mesi precedenti ai suoi amici di Macedonia,
denunziandolo come traditore del partito di Cesare, non erano state
senza effetto, specialmente tra i vecchi soldati del dittatore,
numerosi nella quarta legione e nella legione di Marte; gli intrighi
degli ufficiali amici di Ottaviano e quelli degli ufficiali amici
dei conservatori avevano rinfocolato il malumore; infine i soldati
erano forse anche scontenti di essere distolti dalla guerra partica,
che tutti reputavano imminente e lucrosissima, per essere mandati a
oziare nella Gallia povera. Speravano perciò di avere almeno
il compenso di un donativo cospicuo. Per tutte queste ragioni
l’incontro del generale con i soldati non fu molto cordiale. Antonio
li raccolse per arringarli; ma al suo salire sul tribunale non fu
salutato da alcun applauso; irritato da questa accoglienza egli
commise il primo errore di lagnarsene, nell’esordio del discorso; a
questo ne aggiunse uno più grave, quello di manifestare e
forse anche di esagerare i sospetti, lamentando che essi
tollerassero fra loro invece di denunziarli gli emissari mandati da
Ottaviano a sobillare la rivolta; infine dopo l’amaro dei rimproveri
ammanì il miele di una bella promessa: 400 sesterzi. Ma i
soldati si aspettavano molto più; onde delusi proruppero alla
fine del discorso in risa ironiche e grida e invettive; e allora
l’irritabile Antonio sentì risvegliarsi gl’instinti
autoritari, fece fare una inchiesta e una scelta fra i centurioni
che nelle note caratteristiche (la parola è moderna ma la
cosa è antica e romana299) erano designati come sediziosi, li
fece condurre nella casa in cui era ospitato e li fece uccidere,
così almeno si disse, se non è esagerazione di nemico,
in presenza di Fulvia. La fiera donna avrebbe voluto godersi il
truce spettacolo e la sua veste sarebbe stata irrorata dal sangue
uscito dalla gola di un centurione300. Le legioni atterrite
ammutolirono; ma Antonio stesso aveva suggerita loro con i sospetti
suoi l’idea della rivolta, e quasi a rinforzare il suggerimento
rimutò poi tutti gli ufficiali e ordinò inferocito
severe inchieste per scoprire i sobillatori di Ottaviano, che
però non furon trovati, perchè non c’erano301.
Nè solo ai soldati l’aveva suggerita, ma, quel che era
peggio, anche ad Ottaviano, che ebbe notizia di questi fatti in
Campania, mentre intorno a Casilino e a Calazia riusciva a
raccogliere circa 3000 veterani302, con discorsi apologetici di
Cesare che egli diceva di voler vendicare e ancor più coi
muletti carichi d’oro, offrendo a ciascuno 2000 sesterzi. Era dunque
possibile, se Antonio ne aveva tanta paura, rivoltare le legioni di
Macedonia, ora non più vagamente malcontente, ma esasperate
addirittura contro lui, per il supplizio dei centurioni? L’impresa
era audacissima e pericolosissima: ma Antonio stesso colle sue
imprudenze lo incitava riluttante, ma lo stimolavano il buon
successo dei reclutamenti e gli incoraggiamenti di Roma. Alla fine
ruppe gli indugi; e, poichè Antonio aveva avviato tre legioni
lungo la costa adriatica, verso la Gallia Cisalpina303 per andare
egli poi a Roma con l’altra e con la legione dell’Alodola che
raccoglierebbe per via, mandò emissari a quelle tre,
promettendo anche a loro 2000 sesterzi a testa, se si dichiaravano
per lui. Lontane da Antonio, più facilmente avrebbero preso
coraggio a rivoltarsi304. Senonchè l’impresa, anche
così favorita dagli eventi, trascendeva le forze di pochi
giovani inesperti e senza autorità; onde Ottaviano e i suoi
amici, per quanto trascinati dalla forza delle cose, erano in quei
giorni agitati, incerti, irresoluti: non sapevano come adoperare i
3000 uomini arruolati, se lasciarli a Capua, se condurli a Roma; non
sapevano se Ottaviano dovesse andare nelle altre colonie di Cesare o
alle legioni di Macedonia in viaggio verso Rimini305; desideravano
consiglio e aiuto di persone potenti che, prendendosene una parte,
alleggerissero di sulle spalle loro il peso della
responsabilità. Avendo saputo che Cicerone era a Pozzuoli,
Ottaviano tentò di trarlo alla parte sua; egli mandò
una lettera in cui chiedeva un colloquio segreto, a Capua o in altro
luogo306.
VIII.
IL “DE OFFICIIS”.
[44 a. C. Novembre.] Cicerone, che ricevè questa lettera il
1° novembre307 a Pozzuoli, aveva saputo pochi giorni prima
segretamente, a quanto pare da Servilia, altre cose gravi: esser
giunto dall’Oriente Marco Scapzio e un servo di Cecilio Basso, con
la notizia che delle legioni di Egitto si poteva sperar bene, che in
Siria si aspettava Cassio308. Ricevute queste notizie, Cassio era
partito subito con una piccola flotta309, risoluto a togliere la
Siria a Dolabella310, per impedire almeno che, quando Antonio
dominerebbe dalle Gallie le provincie dell’Occidente, il suo collega
sovrastasse d’accordo con lui nell’Oriente. Ma se queste notizie
avevano rallegrato un poco il vecchio scrittore311, non avevano
potuto smuoverlo dallo scoramento profondo in cui giaceva da un
pezzo. Antonio gli pareva ormai invincibile e vana ogni speranza di
contrastargli. Perciò stanco e disgustato si rassegnava al
destino; non voleva più occuparsi di alcuna faccenda
pubblica; non intendeva nemmeno pubblicare la seconda filippica che
aveva finita e mandata ad Attico312; e mentre fuori il mondo pareva
precipitare, rotto in frammenti dalla cupidigia, dal lusso, dai
debiti, dalla rivalità delle classi, dalle discordie della
oligarchia signora di un impero troppo grande e troppo sicuro, egli,
nella sua solitaria villa sul golfo, nel freddo nubiloso e ventoso
novembre, attendeva fervidamente a costruire sulla carta la
repubblica ideale. Dell’opera sul dovere, che dopo qualche
esitazione aveva latinamente intitolata De officiis, erano terminati
i due primi libri e a buon punto il terzo313. Frettolosa
compilazione di Panezio e di Posidonio, infarcita di riminiscenze
aristoteliche e platoniche, di riflessioni e ricordi personali sulla
storia antica e contemporanea di Roma, il libro non può
essere molto ammirato come trattato dottrinale del bene e del male;
ma deve essere invece letto con grande attenzione dallo scrittore di
storie, come un lavoro di occasione che racchiude in mezzo alle
partizioni e disquisizioni dottrinali una importante teoria della
rigenerazione sociale e morale di Roma. Chi non tiene presente che
questo libro fu scritto nell’autunno del 44, in uno sforzo supremo
di celerità, concitato dalle lunghe amarezze della guerra
civile, dalla commozione delle Idi di marzo, dalla ansietà
delle imminenti catastrofi; chi non conosce la storia di questo anno
terribile e, giorno per giorno, la vita di Cicerone in quei mesi,
getterà alla rinfusa senza capirlo, tra i mediocri zibaldoni
di filosofia, questo documento capitale della storia politica e
sociale di Roma. Affannato, come tutti i grandi spiriti della sua
patria dopo la seconda guerra punica, dalla tragica contradizione
per cui l’Italia da quasi due secoli pareva nel tempo stesso
istruirsi e corrompersi, arricchirsi e divenire insaziabile, aver
bisogno di uomini e isterilirsi, provocar guerre e farsi imbelle,
conquistare la dominazione sulle altre nazioni e alienare la sua
libertà; Cicerone tentava ancora una volta di conciliare
l’imperialismo con la libertà, i progressi del benessere, del
lusso, della ricchezza con la disciplina familiare e politica, la
cultura con la morale. Ripigliava insomma a considerare la questione
già agitata nel De republica, non più sotto l’aspetto
politico, ma sotto l’aspetto morale e sociale, trattando cioè
delle virtù necessarie alla classe dominatrice nella perfetta
repubblica, di cui aveva già descritte le istituzioni. Ed era
venuto nella persuasione che, a pacificare il travagliato mondo,
occorreva capovolgere il principio morale della vita; considerare la
ricchezza e il potere, che così facilmente corrompono gli
uomini, non come i sommi beni della vita314 che debbano essere
ambiti e desiderati per sè stessi; ma come pesi gravi, cui
piegarsi per il bene di tutti e specialmente della umile plebe.
Quanti effetti benefici procederebbero da questo nuovo principio! I
nobili comprenderebbero alla fine di dover vivere con dignità
ma senza sfarzo315, di agricoltura e di qualche commercio non minuto
e indecoroso316; di dover concorrere alle pubbliche cariche non per
trarne ricchezze con cui corrompere il popolo, ma per servirsi del
potere e del patrimonio ad aiutare i poveri e il mezzo ceto317; per
costruire opere pubbliche produttive come mura, porti, acquedotti,
vie, anzichè monumenti di fasto, come teatri, portici e
templi318; per soccorrere il popolo nelle carestie senza rovinare
l’erario319; per sollevare i debitori innocenti senza rivoluzionarie
abolizioni di debiti320; per dar terre ai poveri senza toglierle ai
legittimi proprietari321. Insomma il bene di tutti diventerebbe lo
scopo delgoverno322; e mezzo, il rispetto scrupoloso delle leggi, la
liberalità intelligente dei grandi, l’osservanza delle
virtù austere come la fede, la veracità, la
parsimonia. Sventurate le Repubbliche in cui gli uomini che
governano sono pieni di debiti, menano vita dissipata, hanno le loro
faccende private in disordine323 – scriveva l’amico di Attico, che
pur continuava a dibattersi impigliato nella rete dei debiti suoi!
Nè questa perfetta repubblica aveva ad essere sciolta da ogni
obbligo verso i popoli da lei dominati; ma esercitar con giustizia
l’imperio, a vantaggio non di sè ma dei dominati324;
astenersi dalle guerre aggressive senza ragione, simili a quelle che
Cesare, Crasso e i capi popolari avevano fatte negli ultimi anni325;
non commettere ferocie inutili come la distruzione di Corinto;
giudicar nefande le perfidie e le slealtà anche contro i
nemici326. La guerra doveva essere crudele soltanto nella misura
necessaria alla vittoria, e non fine a se stessa ma mezzo per
ottenere il massimo bene della vita: la pace327. Quindi le arti
della pace dovevano essere ammirate più che quelle della
guerra; i grandi oratori, i giuristi e gli statisti, i cittadini
munifici e saggi, i dotti, i filosofi più che i guerrieri328;
purchè però l’amor degli studi non svogliasse il
cittadino dai doveri civici: obbietto supremo, eterno, inscindibile
di tutto il suo lavoro. Quella divisione del lavoro, per cui nel suo
tempo molti uomini si spartivano le varie opere che nella vecchia
Italia erano fatica unica di una sola persona; quella progrediente
varietà di attitudini e di inclinazioni per cui le vecchie
istituzioni politiche della repubblica decadevano, pareva a Cicerone
una corruzione, da cui bisognava ritornare all’antica unità
enciclopedica329. Così illudendosi di poter confondere
l’austero e il vigoroso dei tempi antichi con il raffinato e il
magnifico dei tempi nuovi, di poter togliere da quelli il rude, e il
corrotto da questi, egli immaginava di fondare una repubblica
aristocratica, nella quale non fossero nè demagoghi ambiziosi
nè conservatori violenti; nè nuovi Silla, nè
nuovi Cesari, nè nuovi Gracchi, tutti giudicati da lui con
eguale severità330.
Infervorato in questi sogni e disgustato dalle faccende pubbliche,
Cicerone rispose ad Ottaviano rifiutando il colloquio segreto331.
Ma, spedita appena la lettera, gli arrivò, forse il 2
novembre, un messaggiero di Ottaviano, un suo cliente, un certo
Cecina di Volterra, a raccontare che Antonio moveva su Roma con una
legione e che Ottaviano era in dubbio se andare a Roma con i 3000
veterani, se cercar di opporsi ad Antonio a Capua, se recarsi alle
legioni macedoniche. Il volubile vecchio, che già era stato
un po’ rincuorato dalle notizie, sentì rinascere qualche
illusione, esagerando, come tutti i conservatori, la potenza del
nome di Cesare sulla plebe: se, mentre Cassio muoveva alla conquista
dell’Oriente, Ottaviano potesse, con una leale opposizione ad
Antonio, trarsi dietro il popolino e le alte classi?332 Forse si
potrebbe ancora rovesciare Antonio, salvare l’amnistia.
Consigliò quindi Ottaviano di andare a Roma. Ma il 3 egli
ricevè altre due lettere, nelle quali Ottaviano lo invitava a
venire a Roma, dichiarava apertamente di mettersi a disposizione del
Senato con i soldati, prometteva di lasciarsi guidare in ogni cosa
docilmente da lui. Crebbero in Cicerone le speranze e con le
speranze l’interessamento alla pubblica cosa. Ed ecco il 4 e il 5
giungere altre lettere con le stesse offerte e le stesse
esortazioni. Ottaviano diceva perfino che bisognava subito convocare
il Senato333. Che cosa era avvenuto? Gli eventi precipitavano. Anche
Antonio aveva raccolti con le attente orecchie i bisbigli della fama
che sussurrava in giro tante strane notizie; onde non ignorava che
Cassio era partito, dopo aver ricevute lettere dall’Oriente,
probabilmente per conquistare la Siria334; che i conservatori
mandavano a Decimo lettere e messaggi, per esortarlo a non
riconoscere la lex de permutatione e che anche qualche cesariano,
Pansa per esempio, era propenso a questa politica335; che Ottaviano
sobillava, questa volta, davvero le legioni e intrigava con i
conservatori e specialmente con Cicerone. Perciò nei primi
giorni di novembre aveva sollecitato Dolabella a partir subito per
la Siria, consigliandolo a impadronirsi prima dell’Asia ricchissima;
e affrettava allora il suo ritorno a Roma, con due legioni – una
delle macedoniche e quella dell’Alodola – risoluto a sfondare nel
mezzo la rete di intrighi ordita dai suoi nemici, distruggendo
definitivamente Ottaviano. La cosa questa volta era facile,
perchè lo sciocco ragazzo aveva commesso, armando soldati
contro il console, un gravissimo delitto: egli proporrebbe al Senato
di dichiararlo hostis reipublicae, e il Senato non oserebbe non
condannare; cosicchè a Ottaviano non resterebbe altro campo
che di uccidersi. Inquieti per questa mossa repentina su Roma,
Ottaviano e i suoi amici avevano facilmente argomentate le
intenzioni di Antonio; e allora si erano risoluti ad andare a Roma
anche essi, con i 3000 veterani; si eran dati a cercare
affannosamente aiuto presso i conservatori per mutare i vaghi
incoraggiamenti del mese precedente in una aperta difesa.
Ma quando Ottaviano intorno al 10 novembre336 giunse a Roma, prima
di Antonio, con la sua torma di 3000 veterani, e l’accampò
presso il tempio di Marte, là dove più tardi sorsero
le terme di Caracalla337, non tardò ad accorgersi che gli
aiuti palesi non corrisponderebbero in nessun modo alle
congratulazioni e agli incoraggiamenti privati. Roma gli era tutta
avversa. La piccola cricca dei conservatori intransigenti approvava
sì Ottaviano nei colloqui privati ed inveiva contro Antonio,
accusandolo di voler mettere a ferro e a fuoco Roma; ma molti altri
conservatori più avveduti e prudenti, come Varrone,
Attico338, i parenti e gli amici dei congiurati, diffidavano di
Ottaviano, considerando che non si poteva lasciare la difesa
dell’amnistia proprio al figlio dell’ucciso; e in generale poi nel
Senato, tra i magistrati, nell’alta società il maggior
numero, più pauroso, pensava che Antonio con tante legioni
era arbitro della situazione e non poteva essere molto intimorito da
un ragazzo senza magistratura a capo di una banda di 3000 veterani;
onde giudicava severamente come insensati e criminosi i suoi
armamenti339. Inoltre la maggior parte dei cesariani, e non
più solo quella che aveva sino allora seguito Antonio, era
furente contro Ottaviano, che accusava – e non a torto – di tradire
il partito a vantaggio dei comuni nemici. Ottaviano pensò di
fare un discorso, per spiegare i suoi atti e dissipare le
prevenzioni del pubblico; e dopo molti colloquii e assicurazioni
indusse alla fine il tribuno Canuzio a convocare una concione nel
Foro. Ma l’impresa era molto difficile, perchè troppe e
troppo diverse erano queste prevenzioni negli uni e negli altri;
perchè Ottaviano si era ormai impigliato in una
contraddizione insolubile, denunciando Antonio come traditore della
causa cesariana per chiamare i veterani a difendere la memoria del
padre, e offrendo poi questi soldati al partito conservatore per
difendere gli uccisori di Cesare e annullarne gli atti. Per non
scontentare nè i popolari nè i conservatori, il
giovane parlò ambiguamente; fece un enfatico elogio di
Cesare, ma non osò affermare che aveva reclutato quei soldati
per compiere la vendetta del padre negletta da Antonio; non
osò neanche confessare le pratiche avviate con Cicerone; si
restrinse a dire che metteva i suoi soldati a disposizione della
patria; cosicchè il discorso lasciò incerti e freddi i
soldati e il popolino, e spiacque molto a quei conservatori di cui
implorava l’aiuto, a Cicerone in ispecial modo340. E intanto i primi
lampi forieri della tempesta folgorarono: Antonio si avvicinava, e
dal viaggio lanciava violentissimi editti contro Ottaviano
rinfacciandogli una discendenza sordida, insinuando che Cesare lo
aveva adottato perchè da ragazzo gli si era prostituito,
chiamandolo addirittura il nuovo Spartaco341; lanciava anche un
editto di convocazione del Senato, per il 24 novembre, per trattare
de summa republica, minacciando i senatori che non intervenissero di
ritenerli complici di Ottaviano342. La famiglia e gli amici di
Ottaviano, abbandonati da ogni parte, erano sgomenti; il cognato
Marcello e il patrigno Filippo cercavano di aiutarlo come potevano;
Cicerone era sollecitato a intervenire da ambedue343 e da Oppio, che
Ottaviano era riuscito a trarre dalla sua parte344. Ma dopo le prime
troppo ingenue speranze, Cicerone era stato nuovamente spaventato
dalle fiere minaccie di Antonio; si era sfiduciato un’altra volta di
tutto, anche di Ottaviano345, e pur avvicinandosi a Roma, allegava
scuse: non poter fare nulla fino all’anno nuovo, quando Antonio non
sarebbe più console; intanto voleva assicurarsi se Ottaviano
era veramente amico degli uccisori di Cesare, aspettandolo alla
prova del 10 dicembre, quando entrerebbero in carica i nuovi
tribuni, tra i quali Casca, il congiurato che aveva data a Cesare la
prima pugnalata. Invano Oppio assicurava Cicerone che Ottaviano era
veramente amico di Casca e di tutti gli uccisori di Cesare346:
Cicerone ritornava a pensare alla sua roba e al De Officiis. E
intanto i tentativi fatti da Ottaviano e dai suoi amici per incitare
il popolino contro Antonio avevano poco effetto; gli stessi veterani
vacillavano, spaventati dal pericolo di essere dichiarati nemici
pubblici, turbati dall’avversione di tanta parte del partito
cesariano347. Potevan essi, in tremila e con un ragazzo per capo,
rivoltarsi contro il console? Molti lo abbandonavano; la banda si
squagliava come ghiaccio al sole.
Antonio, mandate a Tivoli le due legioni, giunse finalmente, quando
Dolabella era già partito per l’Oriente. E così tra
varie alternative di speranze e timori passò il giorno 21,
passò il 22; spuntò il 23.... Quando, nella giornata
si seppe all’improvviso che la seduta era stata rimandata al 28348.
Antonio era partito per Tivoli a visitare la sua legione: per quali
ragioni non è chiaro a noi, e non era chiaro nemmeno ai
contemporanei349. Sembra che Antonio fosse da qualche tempo molto
inquieto per il sordo lavorìo che gli agenti di Ottaviano,
aiutati dai conservatori, facevano nelle sue legioni, e ricevesse
notizia che i soldati, già malcontenti e male informati sui
veri intendimenti del giovane, biasimavano la nuova persecuzione
contro Ottaviano. Era possibile che uno dei generali prediletti di
Cesare ne perseguitasse il figlio, perchè aveva reclutato un
manipolo di veterani ad affrettare la vendetta paterna?
Perciò forse si era tanto affrettato a venire a Roma a
distruggere Ottaviano. Probabilmente all’ultimo momento era stato
spaventato da qualche notizia più cattiva, e correva a
rabbonirli con nuove promesse, prima di avventare il colpo mortale
al figlio di Cesare. Ad ogni modo questo rinvio era una fortuna per
Ottaviano, perchè tante cose potevano avvenire in quattro
giorni! E infatti, prima ancora che Antonio tornasse, Ottaviano
ricevè la lieta notizia che le nuove persecuzioni contro di
lui, aggiunte all’ira per i supplizi e alla seduzione dei 2000
sesterzi promessi, avevano finalmente vinta la legione di Marte, che
si era dichiarata per lui e, abbandonando le altre due, andava a
rinchiudersi in Alba350. Egli troverebbe almeno, tra questi soldati,
un rifugio nel pericolo, ora che i suoi 3000 lo avevano tutti
abbandonato! Di più Cicerone, persuaso da Oppio, da Marcello
e da Filippo, sospinto dalla irrequietezza sua, si era risoluto
almeno a venire a Roma, dove arrivò il 27 novembre351. Ma in
quel giorno arrivò pure Antonio, che saputo a Tivoli della
rivolta era corso ad Alba, aveva tentato di farsi aprire le porte
della città per rabbonire i soldati, senza riuscire352; e
ritornava perciò ancor più furente contro Ottaviano e
risoluto a vendicarsi su lui il giorno dopo. La fortuna salvò
Ottaviano una seconda volta perchè, a quanto pare all’alba
del 28, arrivò ad Antonio la notizia che la quarta legione
aveva seguito l’esempio della legione di Marte, corrotta
principalmente per opera del questore Lucio Egnatuleio, che non
sappiamo per quali ragioni avesse preso con tanto ardore le parti di
Ottaviano353. In quella bizzarra confusione, mentre Ottaviano
dichiarava ai conservatori di essere amico degli uccisori di suo
padre, le due vecchie legioni di Cesare abbandonavano Antonio,
accusando chi pure si accingeva a scacciare Decimo, di essere troppo
tepido alla vendetta del grande ucciso!
Spaventato definitivamente da questa seconda rivolta, Antonio
gettò via l’arma che da tanti giorni appuntava alla gola di
Ottaviano. Ostinandosi nella persecuzione di Ottaviano, forse si
rivolterebbero anche le altre tre legioni; e allora non resterebbe
egli alla mercè del partito conservatore? Mutata prontamente
idea, andò in Senato, non parlò nè di Ottaviano
nè dei suoi armamenti, annunziò invece che Lepido era
finalmente riescito a conchiudere pace con Sesto Pompeo, a
condizione di dargli un indennizzo per i beni confiscati a suo
padre, propose una supplicazione in onore di Lepido354. Approvata
questa e l’indennizzo a Pompeo, congedò i senatori e
radunò in casa gli amici per discutere sulla situazione. Non
è improbabile che egli inclinasse allora a propositi di
conciliazione; ma a casa lo aspettavano la moglie e il fratello
furenti per la delusione, i quali lo incitavano a propositi
disperati. Bisognava che si impadronisse subito della Gallia
Cisalpina, così ricca e cosi popolosa, senza dar tempo al
partito conservatore di capire e di sfruttare il vantaggio del
momento. E Antonio, anche questa volta, cedè. Ma il Senato
non aveva estratto a sorte le provincie per l’anno 43, a cui Cesare
non aveva provvisto; e sarebbe stata stoltezza lasciare gli
avversari arbitri di assegnarle ai loro amici. Il giorno stesso i
senatori furono convocati d’urgenza a una seduta per la sera, in
un’ora insolita; e in questa, senza formalità e alla svelta,
la sortizione delle provincie fu fatta in modo che gli amici di
Antonio furono molto favoriti dalla sorte troppo giudiziosa. Tra gli
altri Caio Antonio ebbe la Macedonia e Calvisio Sabino l’Africa
antica355. Nella notte Antonio partì per Tivoli colla maggior
parte dei veterani che aveva raccolti, a prendervi il comando della
legione356.
IX.
LE FILIPPICHE E LA GUERRA DI MODENA.
[44 a. C. Dicembre.] Alla notizia della partenza di Antonio, molti
senatori, cavalieri e ricchi plebei di Roma, spaventati, si recarono
a Tivoli per intercedere presso lui e comporre la discordia357. In
cinque anni, dal 49, si erano combattute cinque guerre civili:
incominciava ora la sesta? Già si annunciava infatti che
Decimo Bruto aveva reclutate quattro nuove legioni, per accrescere a
sette l’esercito358, spacciando probabilmente per cosa già
compiuta quella che egli aveva solo incominciata in fretta e furia,
appena si era accorto che gli eventi precipitavano. E Antonio, che
la guerra civile spaventava non meno dei conservatori, quasi si
lasciava persuadere a ritornare a Roma. Disgraziatamente pare che
Lucio intervenisse persino con le minaccie359; onde nei primi giorni
di dicembre egli mosse verso la Gallia Cisalpina con le due legioni,
con la coorte pretoria, con la cavalleria, con i veterani che quasi
tutti lasciarono Roma per seguirlo e con gli avanzi del tesoro dello
Stato, che certo aveva vuotato.
Insieme con i veterani anche molti cesariani cospicui,
spontaneamente o invitati, raggiungevano Antonio che, dopo il
tradimento ormai manifesto di Ottaviano, era il solo capo del
partito; da Decidio Sacsa, da T. Munazio Planco, da Censorino a
Tremellio e a Volumnio, che Antonio voleva fare capo del genio.
Parecchi facevano il viaggio con denari prestati da Attico360, il
quale, se aiutava i conservatori, pagava anche ai popolari un premio
di assicurazione contro la rivoluzione. Del resto, ponti d’oro al
nemico che fugge. Il partito cesariano, come in aprile aveva
scacciati i conservatori da Roma con i tumulti della plebe e dei
veterani, era adesso costretto da un rivolgimento inaspettato della
fortuna a sgombrare in fretta e furia la metropoli dell’impero, dal
cui dominio tante cose dipendevano; e i conservatori potevano farci
ritorno liberamente. Il piccolo gruppo dei superstiti conservatori
intransigenti, i parenti di Pompeo e dei congiurati capirono subito
che quella era l’occasione propizia, trattando Antonio come
Catilina, di assestare un colpo mortale al partito cesariano e di
liberare la repubblica dai suoi uomini più pericolosi.
Disgraziatamente Bruto, Cassio e i più autorevoli congiurati
erano partiti, ahimè troppo presto; e la inetta e oscura
maggioranza del Senato, abbandonata a sè stessa, inclinava
alla indulgenza, non desiderava sterminare i cesariani, era disposta
a perdonare tutte le illegalità commesse da Antonio. In fine
dei conti il comando di Decimo finirebbe tra pochi giorni: anche se
Antonio governasse per cinque anni la Gallia, non cascherebbe il
mondo. Non era meglio cedere?361 E dei nemici di Antonio, nessuno
osava prender in Senato l’iniziativa della guerra. Cosicchè
la repubblica giaceva ai primi di dicembre abbandonata da tutti in
una confusione indescrivibile. Non c’erano più consoli,
mancavano parecchi pretori, i magistrati scadrebbero tutti tra poco:
onde erano tutti contenti di questo pretesto per rimettere ogni cosa
ai nuovi tribuni che entrerebbero in carica il 10 dicembre. Intanto
si vedrebbe che cosa faceva Decimo Bruto. Resisterebbe? Cederebbe? A
Decimo molti scrivevano privatamente di resistere, qualcuno partiva
per raggiungerlo; ma nessuno osava proporre di convocare il Senato e
di autorizzarlo legalmente a fare guerra ad Antonio; molti anzi
speravano segretamente che cederebbe. Un solo uomo si adoperava
alacremente a pro’ dei conservatori e degli uccisori di Cesare; e
proprio Ottaviano, il quale, lieto del miracoloso scampo, si era
affrettato ad andare al sicuro ad Alba tra le due legioni ribelli.
Abbandonato da quasi tutto il partito di Cesare, adulato come un
eroe dalla piccola cricca dei conservatori arrabbiati, esasperato
contro Antonio dal recente pericolo, l’ambizioso giovane pensava di
approfittare di quel disordine per conquistare un’autorità
ufficiale, facendo scoppiare con ogni mezzo la guerra: e mentre
mandava messaggi a Decimo, per offrirgli il suo aiuto e la sua
alleanza, se resisteva al console362; mentre lusingava i soldati e
si faceva offrire dalle legioni le insegne di propretore per
rifiutarle con simulata modestia363, avviava pratiche per mezzo dei
suoi amici e parenti con i conservatori più nemici di Antonio
e con i parenti dei congiurati: offriva cioè di preparare un
esercito per soccorrere Decimo, di reclutare una nuova legione
novizia, di andare con le due legioni ad Arezzo, città
abitata da veterani di suo padre, e ivi ricomporre la settima ed
ottava legione di Cesare con i pochi veterani reclutati in Campania
che lo avevano seguito e con soldati novizi, se gli conferivano la
necessaria autorità legale. Corrispondeva però a
questo zelo una certa freddezza svogliata nella parte dei
conservatori non acciecata dall’odio di Antonio, nella quale la
rivolta delle due legioni aveva accresciuta invece che spenta la
diffidenza e l’avversione per il figlio di Cesare. Inoltre mancava
un capo autorevole. Si tentò Cicerone: ma Cicerone esitava,
non si smuoveva dal proposito di non comparire in Senato prima del
1° gennaio364. Tuttavia a poco a poco, respirando quell’aria
più libera dopo la partenza dei veterani, i conservatori si
rianimavano, cominciavano a intendersi, a concertarsi, a intrigare;
e Cicerone si lasciava trarre quasi senza avvedersene alla lotta
contro Antonio dalla irritazione di tanti mesi, dai rovelli
ideologici, dalle ansietà patriottiche, dal rancore per
l’offesa del 1° settembre, sopito non spento, da un irrequieto
bisogno di fare, che si risvegliava a Roma dopo le lunghe
contemplazioni filosofiche. In quei giorni arrivò a Roma un
certo Lupo, mandato da Decimo a interrogare gli uomini più
autorevoli su ciò che gli consigliavano di fare; e un piccolo
consiglio, a cui presero parte anche Servio Sulpicio e Scribonio
Libone, il suocero di Pompeo, ebbe luogo proprio nella casa di
Cicerone, che certo già conosceva le proposte di Ottaviano.
Si deliberò di consigliare a Decimo che facesse di sua
iniziativa, senza aspettare gli ordini del Senato365. Un certo M.
Seio partì subito per portar la risposta: tuttavia la
situazione continuava ad essere così incerta nei primi dieci
giorni di dicembre; Cicerone dubitava ancora fortemente che Decimo
oserebbe assumersi quella responsabilità da cui tutti
rifuggivano in Roma, tanto che di lì a poco gli scrisse di
non considerare come una pazzia i reclutamenti di Ottaviano e la
rivolta delle due legioni, perchè tutti i cittadini dabbene
li approvavano366.
Finalmente il 10 dicembre i nuovi tribuni della plebe entrarono in
carica; e intorno a quel tempo Caio Antonio partì con la
coorte degli amici per la Macedonia, risoluto a far rapido viaggio.
Ma anche i nuovi tribuni lasciarono passare parecchi giorni senza
fare nulla; si risolvettero alla fine a convocare il Senato per il
20 dicembre, per trattare non di Antonio o di Decimo, bensì
delle misure da prendersi affinchè i nuovi consoli potessero
entrare in carica senza pericolo367, come se i veterani infestassero
ancora minacciosi Roma. Tanto stentavano tutti a credere che se ne
fossero andati per davvero! Ma in quel giorno stesso – forse il 14 o
il 15 – si seppe a Roma che Decimo aveva pubblicato un editto per
dichiarare che non riconosceva Antonio come governatore della Gallia
e che manterrebbe la provincia in potestà del Senato368.
Decimo intendeva dunque di far guerra! Questa notizia commosse molto
gli animi in Roma e agitò straordinariamente Cicerone. Doveva
egli persistere nel proposito di non rimettere il piede in Senato
fino al primo gennaio o andare alla seduta del 20? Gli amici e i
parenti di Ottaviano e dei congiurati incalzavano; non era cosa
difficile prevedere che la discussione dilagherebbe dal meschino
ordine del giorno dei tribuni sull’editto di Decimo. E allora? Si
sarebbe egli lasciata sfuggire l’occasione di compiere una grande
gesta, simile anzi più gloriosa che la repressione
catilinaria, sterminando il partito di Cesare, restaurando
definitivamente la repubblica? La parte più nobile della sua
ambizione, il sentimento dei suoi doveri verso la patria, l’amore
ideale della libertà repubblicana dei padri suoi, il rancore
contro Antonio, l’affetto per tanti amici periti o in pericolo, lo
incitavano a osare. Ma le difficoltà erano innumerevoli,
immensi i pericoli, e, quasi Cicerone presentisse che dall’attimo di
quella risoluzione dipendeva la vita o la morte, la naturale
timidezza dell’uomo si aombrava. Probabilmente anche le
sollecitazioni degli agenti, degli amici, dei parenti di Ottaviano
accrescevano le sue incertezze: se le proposte di alleanza fatte dal
giovane a Decimo avevano disposto meglio verso di lui anche i molti
che diffidavano369, se appariva imprudente respingere alla leggera,
quando la guerra era probabile, cinque legioni, era pure un grave
consiglio dare autorità di magistrato a un ragazzo di venti
anni, che portava il nome di Cesare! Ora in un pensiero ora in un
altro, Cicerone andò dubitando parecchi giorni, senza
risolversi, sinchè tra il sì e il no arrivò al
19. In questo giorno bisognava pure appigliarsi a un partito. E
invece alla sera del 19 egli non aveva presa ancora nessuna
deliberazione; all’alba del 20, quando si levò, non sapeva
ancora se andrebbe o no370. Batteva l’ora suprema della sua vita:
l’ora dell’ardimento finale, dell’ultimo sacrificio, della gloria
definitiva! Ma d’un subito alla fine si risolvè, quella
mattina; e a sessantadue anni, abile a maneggiare la penna
più che la spada, primo in quel mondo politico che da otto
mesi tergiversava e dissimulava, si slanciò nella voragine,
con un’audacia, che la sua incerta natura rende più bella e
quasi eroica per chi conosce le terribili incertezze dell’azione.
Andò in Senato371, dove però Irzio e Pansa non
comparvero372; e pronunziò la terza filippica, un discorso
temperato, il cui fine era di tastare il malfido terreno in Senato,
proponendo che si deliberasse una lode a Decimo Bruto per il suo
editto, ad Ottaviano per i suoi arruolamenti, alle due legioni
ribellatesi per la loro rivolta; che Pansa ed Irzio al 1°
gennaio riferissero sui premi da dare a quelli che avevano ben
meritato dalla repubblica, dai duci ai soldati, prima di ogni altra
faccenda; che si annullasse la sortizione delle provincie fatta il
20 novembre da Antonio e che tutti i governatori presenti durassero
in carica finchè il Senato non ne mandasse degli altri373. Il
discorso era abile perchè non proponeva apertamente la
alternativa della pace o della guerra; e fu ribattuto solo da Vario
Cotila, ma debolmente: onde la maggioranza, non temendo di
compromettersi troppo, approvò tutte le proposte374. Il
giorno medesimo Cicerone ripetè le stesse cose al popolo,
pronunziando la quarta filippica.
Intanto giungevano le prime notizie della guerra: della guerra per
modo di dire, perchè i due avversarî parevano schivarsi
a vicenda. Antonio e Bruto avevano incominciato a scambiarsi delle
lettere, in cui ciascuno era invitato dall’altro, per il bene suo, a
cedere: Bruto, a sgombrare in forza della lex de permutatione
provinciarum la Cisalpina; Antonio, a rispettare in nome del Senato
la provincia. Ma poi Antonio aveva posto il suo quartier generale e
la maggior parte dell’esercito a Bologna; lasciando Decimo Bruto
condurre l’esercito a Modena e disporre ogni cosa come per un lungo
assedio375. Decimo non si sentiva di affrontare le tre provette
legioni di Antonio con il suo esercito raccogliticcio, e
perciò si proponeva di tirare in lungo le cose per dare tempo
agli amici di Roma di mandargli rinforzi; Antonio, che forse avrebbe
potuto sorprendere e disfare Decimo376, voleva prima riparare le
perdite per la rivolta delle legioni, facendosi un esercito
numeroso, che gli sarebbe utile, sia che scoppiasse la guerra
civile, sia che si addivenisse a un componimento. Difatti, tanto per
intimorire i nemici mostrando che era pronto alla guerra,
mandò nella ultima decade di dicembre qualche milizia a
stringere Modena di una parvenza d’assedio377; ma poi, mentre
aspettava la primavera in Bologna, spedì un certo Lucio
Pisone in Macedonia a prendere la legione rimasta; e Ventidio Basso
con molto denaro nell’Italia meridionale a reclutare i veterani
della settima e ottava legione di Cesare, che avevano abbandonato
Ottaviano e quelli della nona: poi, più che a prendere
Modena, badò a non lasciare Roma interamente in balìa
dei suoi nemici. Le cose si mettevano in tal modo, che Antonio
rappresentava non solo le tradizioni, ma anche gli interessi
acquisiti dei cesariani, minacciati da una restaurazione, se egli
era vinto; onde il partito che egli aveva riordinato nel giugno e
nel luglio si stringeva fedele intorno a lui nel pericolo; e anche
Fufio Caleno, sebbene nei mesi precedenti a più riprese
avesse inclinato verso i nemici di Antonio, persuaso forse anche da
più sodi argomenti, parteggiava per lui. Aveva ospitato in
casa sua Fulvia378; e si accingeva a mettersi in Senato a capo degli
antichi cesariani e di tutti quelli che Antonio aveva nominato
senatori o in altro modo beneficati, i quali da una rovina di
Antonio dovevano temere la perdita dei loro beneficii. D’accordo con
Antonio, che scriveva di continuo a Caleno, questi cercherebbe di
illudere il Senato con speranze di pace, e così tirare in
lungo, impedire l’invio di rinforzi, per dare tempo ad Antonio di
intrigare presso Lepido, Planco e Pollione: poi si vedrebbe.
Senonchè a Roma queste notizie furono ingrandite dai
conservatori intransigenti, dai parenti dei congiurati, dagli amici
di Ottaviano, già incoraggiati dalla seduta del 20 dicembre,
come se già Decimo fosse stretto in un cerchio di ferro; il
pubblico fu commosso e spaventato; un gran rivolgimento a favore di
Ottaviano si fece nell’opinione dei più. Molti si persuasero
che Antonio avrebbe davvero messo a sacco Roma, se Ottaviano non
sobillava le legioni; Ottaviano incominciò a esser celebrato
come il salvatore di Roma; quegli atti suoi, che pochi giorni prima
Cicerone modestamente desiderava non fossero giudicati follie,
furono universalmente ammirati come sublimi ardimenti379. L’alleanza
tra Ottaviano e i conservatori per la rovina di Antonio fu alla fine
conchiusa: Ottaviano recluterebbe l’esercito; in compenso i
conservatori gli farebbero assegnare dal Senato le somme necessarie
e conferire la dignità di senatore e propretore a venti anni
con il privilegio di poter domandare il consolato diciotto anni
prima del tempo legale. Marcello, Filippo, i più arrabbiati
nemici di Antonio persuasero due vecchi e autorevoli personaggi,
Servio Sulpicio e Publio Servilio, a fare la proposta degli onori a
Ottaviano380, Cicerone a pronunciare un grande discorso per
sostenerla.
[43 a. C. 1° gennaio.] Al 1° gennaio dell’anno 43 a. C,
nella prima seduta del Senato, finiti i discorsi dei nuovi consoli
Irzio e Pansa, Fufio Caleno si levò primo a parlare; e con
molta moderazione cercò di rimpicciolire la gravità
degli eventi, assicurò che Antonio non voleva la guerra,
propose infine di mandare ambasciatori ad Antonio per trattare della
pace381. Parlarono quindi Servio Sulpicio e Publio Servilio, i quali
proposero che si desse a Ottaviano la dignità di propretore e
il comando dell’esercito con cui aveva impedite le stragi di
Antonio, che fosse considerato come un senatore di grado pretorio,
che potesse concorrere alle magistrature come se già avesse
esercitata la questura. Si levò poi Cicerone. Avviene talora
nelle rivoluzioni che uomini di penna timidi, dubitativi, pigri,
diventino per qualche tempo, nell’esaltazione della passione, abili,
impetuosi, infaticabili come eroi. Questo mutamento era avvenuto in
Cicerone, negli undici giorni dopo l’ultima seduta del Senato.
Dimenticate le sue ubbie costituzionali, smessa ogni paura ed
esitazione, il dottrinario autore del De republica aveva capito che
la causa conservatrice non si poteva difendere se non con mezzi
rivoluzionari; e difatti con la quinta filippica assalì
furiosamente Antonio, esagerando smisuratamente tutte le sue colpe,
dichiarando che non si trattava di far guerra al partito di Cesare
ma a una banda di briganti, facendo sue le proposte di Servio e di
Servilio e proponendo infine altre cose: che si ordinassero leve,
che si dichiarasse il tumultus e lo stato d’assedio, che si
decretasse una statua d’oro a Lepido per premiarlo dei suoi
sentimenti repubblicani; che Egnatuleio potesse concorrere alla
magistratura tre anni prima del tempo legale382, che si pagassero ai
soldati le somme promesse da Ottaviano e si promettessero loro altri
premii di terre, denaro e privilegi. E la lotta tra i due partiti
incominciò. Certamente gli amici dichiarati di Antonio in
Senato non erano numerosi; ma troppi erano i senatori, che non
osavano dichiararsi interamente contro Antonio; troppi gli uomini
autorevoli, come Pisone e i due consoli383, contrarii alla guerra;
onde a molti piaceva la proposta di Caleno. Perciò quel primo
giorno riuscì agli amici di Antonio di prolungare la
discussione e di far differire la risoluzione al giorno dopo384. Si
riprese il giorno dopo la discussione; ma nella notte i conservatori
estremi essendosi adoperati per ritornare in maggioranza alla nuova
seduta, gli amici di Antonio temettero di esser vinti, se si votava;
onde fecero rimandare la votazione da un tribuno385. La maggioranza,
sdegnata per questo ostruzionismo, si vendicò approvando
subito gli onori proposti ad Ottaviano, con qualche modificazione:
che fosse ammesso in Senato tra i senatori di rango consolare e non
di pretorio; che potesse domandare il consolato non diciotto ma
dieci anni prima del tempo legale. Diciotto anni parvero troppi386.
Gli antoniani non osarono porre il veto anche a questa proposta; ma
nella notte si adoperarono per il loro amico, mandando perfino la
vecchia madre di Antonio e Fulvia in giro per le case dei senatori
esitanti a raccomandarsi387. Il 3 gennaio si tornò a
discutere in una concitazione crescente; Cicerone parlò di
nuovo, applaudito violentemente dagli amici, che cercavano
così di travolgere gli incerti388; parlarono altri; ma anche
quel giorno, non sappiamo per quale ragione, non si potè
conchiudere389. Fu necessario radunarsi ancora una volta, il 4; e
allora alla fine, dopo un discorso di Pisone, si prese un partito
medio: si deliberò di mandare un’ambasceria composta di
Servio Sulpicio, di Pisone e di Lucio Marcio Filippo, ma non a
trattare pace, bensì a ingiungere ad Antonio di passar di qua
dal Rubicone; se non obbedisse si proclamerebbe il tumultus; intanto
si continuerebbero gli armamenti e uno dei consoli prenderebbe il
comando supremo dell’esercito che Ottaviano già preparava ad
Arezzo, portandolo verso la Gallia390. Fu anche, su proposta di
Lucio Cesare, revocata la legge agraria di Lucio Antonio391.
Il giorno stesso Cicerone pronunciò sul Foro gremito la sua
sesta Filippica, raccontando ciò che era avvenuto; ammonendo
che la guerra era certa e ripetendo ciò che già
Aristotele aveva scritto dei Greci ad Alessandro: gli altri popoli
poter vivere anche in servaggio, i Romani solo in libertà392.
Intervenne una pausa, nella quale Irzio, designato dalla sorte,
uscì di Roma, sebbene appena convalescente, per raggiungere
Ottaviano; Pansa restò a Roma a reclutare quattro nuove
legioni e a cercare danari; e Cicerone diventò, di fatto se
non legalmente, il capo della repubblica. Dopo i grandi discorsi del
20 dicembre e del 1° gennaio il vecchio oratore si elevava,
simile a un alto masso erratico di ardimento che tutti da ogni parte
vedevano, nella rasa e bassa pianura della universale incertezza;
onde da ogni parte si ricorreva a lui per denunciare pericoli, per
suggerire provvedimenti, per richiedere consigli; ed egli stesso era
tratto a intervenire in ogni faccenda pubblica, per vigilare
l’esecuzione dei suoi decreti che altrimenti sarebbero stati lettera
morta. Così sebbene il Senato avesse, per sua proposta,
annullata la sortizione delle provincie fatta il 27 novembre, Caio
Antonio era già partito per la Macedonia, Calvisio Sabino era
uscito di Roma e spediva i legati nella provincia. Cicerone, che
stava all’erta, a più riprese protestò in Senato
contro questa usurpazione di Calvisio, ma inutilmente, senza poter
far deliberare qualche misura rigorosa393. Inoltre scambiava con
Ottaviano un numeroso carteggio, comprendendo che la
responsabilità degli straordinari onori concessigli era sua
più che di Servilio e di Sulpicio, dopo il grande discorso
del 1° gennaio in cui aveva tanto lodato il giovinetto e se ne
era dichiarato garante; onde tentava di governarlo da lungi con
innumerevoli lettere piene di consigli, venendo così ad
assumere indirettamente una parte della direzione e della
responsabilità della guerra. Insomma egli doveva,
nell’universale disfacimento, supplire alle innumeri manchevolezze
di tutti gli organi dello Stato; e infervorandosi nel lavoro e nella
consapevolezza della nuova autorità, da mattina a sera
riceveva persone, confidenze, ambascerie, teneva consigli, leggeva e
scriveva lettere394, non tralasciando mai nessuna occasione di
rinfocolare l’ardore bellicoso. Così quando Pansa, nella
seconda metà di gennaio, convocò il Senato per
trattare alcune questioni amministrative sulla via Appia, sulle
zecche, sulle feste dei Lupercali, il vecchio oratore ne prese
argomento per incitare i senatori, con un discorso concitato – la
settima filippica – a provvedere non alle zecche, ma alla
inevitabile guerra. “A nessuna condizione – egli disse – voglio pace
con Antonio395.” “Se non possiamo vivere liberi, moriamo.396”
Invece.... I due consoli scrivevano intanto delle lettere amichevoli
ad Antonio, professandosi disposti a pace397; altrettanto facevano
in segreto molti senatori di Roma, che lodavano poi a voce alta il
coraggio di Cicerone; gli ambasciatori, che avevano accettata la
missione solo per terminare in qualche modo la lunghissima tenzone
in Senato, si accingevano a mutare per via l’ultimatum in una
occasione di trattative. Ucciso dal disagio e dal gelo398 il
più vecchio e malaticcio dei tre, Servo Sulpicio Rufo, nel
viaggio per il selvoso e nevoso Appennino, soli Pisone e Filippo
comparvero nel campo di Antonio, ove osservarono con gli occhi
propri che l’uomo, descritto a Roma da Cicerone come una belva
sitibonda di sangue romano, conduceva l’assedio in una maniera ben
singolare: con pochi soldati, lasciando scaglionate le sue piccole
forze da Claterna sino a Parma, stringendo a studio così
mollemente la città che le vettovaglie continuavano a
entrare399. Antonio aspettava la primavera e i rinforzi per far vera
guerra, se fosse necessario; e intanto, atteggiandosi a vendicatore
di Cesare e a difensore della causa dei suoi soldati, aveva mandato
emissari alle legioni di Asinio400 e forse a quella di Planco a
persuaderle con la promessa di 2000 sesterzi a passare a lui;
cercava indurre con lettere e con messaggi Lepido e Planco ad
unirglisi; faceva reclutare una legione novizia nella Cisalpina401
ed entrare in Modena emissarii a dire ai soldati di Decimo che egli
non voleva combattere contro loro, ma solo punir Decimo Bruto come
partecipe dell’assassinio del dittatore: lo abbandonassero,
facessero causa comune con tutti i veterani di Cesare e
riceverebbero grandi compensi402. Ma questi maneggi erano segreti,
aperto invece e visibile agli ambasciatori il dolce modo
dell’assedio: onde Filippo e Pisone non comparvero minacciosi e
intimando, ma si presentarono ad Antonio con tutto il rispetto
dovuto a si gran personaggio, discorsero amichevolmente con lui, e
se non ottennero il permesso di trasmettere a Decimo Bruto le
deliberazioni del Senato, ebbero però queste ragionevoli
proposte di pace403: Antonio cederebbe la Gallia Cisalpina,
purchè gli si lasciasse la Transalpina per cinque anni con le
tre legioni che aveva e le tre che Ventidio reclutava; non si
abolirebbero gli atti suoi e di Dolabella, non si abrogherebbe la
lex judiciaria, non si inquisirebbe sulle somme prese nel tesoro dai
membri della commissione per le terre, si assegnerebbero terre alle
sue sei legioni, alla sua cavalleria, alla sua coorte pretoria404.
Tanto è vero che Antonio non mirava se non ad ottenere una
pingue provincia! Pisone e Filippo se ne tornarono, lieti di queste
proposte, con Lucio Vario Cotila, che rappresenterebbe Antonio nelle
trattative seguenti. Frattanto Irzio e Ottaviano arrivavano da
Arezzo a Rimini valicando l’Appennino, e risalivano la via Emilia a
Forum Corneli, nelle vicinanze di Imola, dove posero l’accampamento
di inverno405. Irzio anzi, dopo qualche giorno scacciò da
Claterna gli avamposti di Antonio406.
[43 a. C. Febbraio] Gli ambasciatori giunsero ai primi di
febbraio407 e subito Pansa convocò il Senato. Naturalmente
Cicerone era andato su tutte le furie, quando seppe in che modo i
due ambasciatori avevano eluso il senatusconsulto del 4 gennaio, e
in lettere private li aveva trattati di miserabili408; si era un
poco consolato però, pensando che ormai il Senato
delibererebbe la guerra. Difatti nella seduta disse il suo parere
brevissimamente, non credendo necessario un discorso: dichiarare
hostis Antonio409. Ma il maggior numero dei consolari non
disperavano dopo quell’ambasceria di intendersi con Antonio410;
Fufio Caleno propose di mandare nuovi pacieri; Lucio Cesare, il
vecchio zio di Antonio e il fiero conservatore, vinto forse da
sollecitazioni di amici, propose un addolcimento alla proposta di
Cicerone: si dichiarasse non il bellum ma il tumultus, riconoscendo
cioè che l’ordine pubblico era turbato ma che non era ancora
scoppiata una vera guerra civile. Pansa, che pensava sempre a
corteggiare i cesariani e voleva perfino proporre una legge ai
comizi centuriati che confermasse gli atti di Cesare411,
parteggiò per la proposta di Lucio Cesare e diresse la
discussione in modo che questa fu approvata412. Esasperato, Cicerone
si preparò a un nuovo assalto più vigoroso per la
seduta del giorno seguente, in cui Pansa doveva comunicare la
lettera di Irzio sulla scaramuccia di Claterna e proporre finalmente
la restituzione ai Marsigliesi di quanto Cesare aveva loro tolto nel
49413, tante volte richiesta negli ultimi mesi. Senza tenersi
strettamente a questo argomento, Cicerone pronunciò la ottava
filippica, biasimando le deliberazioni del giorno prima, dimostrando
essere quella una guerra e non un tumultus, maltrattando aspramente
Caleno, i consolari, gli ambasciatori, predicendo confische e
stragi, se Antonio vinceva. Perchè raffreddare con una
neghittosità colpevole il fervore delle città italiche
e galliche, tutte favorevoli per il Senato? Conchiudendo, propose
che si desse tempo fino al 15 marzo ai soldati di Antonio di
abbandonarlo e dopo fosser trattati come ribelli. Il fiero discorso
riuscì efficace; e la proposta fu approvata. Dopo se ne
doveva discutere un’altra, messa innanzi da Pansa, il quale voleva
forse dare ai conservatori un compenso del suo tradimento del giorno
innanzi: decretare a Servio Sulpicio un sepolcreto a pubbliche spese
e una statua equestre sul Foro, come si soleva agli ambasciatori
uccisi in missione. Ma Servilio, che nelle cose piccole era un
meticoloso osservatore della legalità, obiettò che
Servio era morto di malattia e non di ferro. Allora l’infaticabile
vecchio pronunciò la nona filippica, per sostenere la
proposta di Pansa, dicendo, molto sofisticamente, che bisognava
badare alle cause e non al modo della morte. Su Marsiglia invece non
si deliberò nulla414.
In verità solo Cicerone voleva davvero la guerra. Tutti gli
altri parlavano con riserve mentite o agivano con il segreto
proposito di non spingere le cose all’estremo cimento; anche Irzio,
anche Ottaviano, il quale pure si era mosso in principio con una
grande impazienza di distruggere Antonio. Con tre legioni e una
coorte415 Antonio assediava due legioni veterane e cinque novizie e
doveva far fronte a un esercito di quattro legioni veterane ed una
novizia: se Irzio e Ottaviano, come la ragione militare consigliava,
lo assalivano, o sarebbe preso in mezzo tra loro e Decimo e
sicuramente distrutto, o avrebbe dovuto fuggire al nord416. Invece
dopo la scaramuccia di Claterna, Irzio e Ottaviano avevano
ricondotto i soldati nel campo senza fare più nulla;
perchè Antonio aveva paralizzato Ottaviano, Decimo e Irzio,
mostrando loro quella che era come la testa di Medusa di tutti gli
uomini politici di allora: la vendetta di Cesare. L’opinione dei
veterani inclinava di nuovo in tutta Italia a favore di Antonio,
tanto è vero che Ventidio era riuscito a richiamare sotto le
armi quasi tutti i congedati della settima, ottava, nona legione;
cosicchè adesso erano in arme due settime e due ottave
legioni di Cesare: quelle di Ventidio e quelle di Ottaviano417.
Quali delle quattro si dovevano considerare come le due vere antiche
legioni di Cesare? Decimo, inquieto per le sobillazioni segrete di
Antonio, affaccendato a vigilare i suoi soldati affinchè non
si rivoltassero418, non osava uscir fuori ad assalire; Irzio, che
era anche indebolito dalla malattia, non osava affrontare l’antico
amico, il quale assediava Decimo per vendicare il comune loro
benefattore; Ottaviano, spaventato egli pure dal vago pericolo di
una rivolta militare, impacciato dall’inerzia di Irzio, non sapeva
che fare; e per passare il tempo ripigliava i suoi favoriti esercizi
letterari, declamando e scrivendo ogni giorno419. Per fortuna
però di lì a pochi giorni sopravvenne all’improvviso
un accidente nuovo e favorevole a Cicerone. Un giorno – siamo verso
la metà di febbraio – i senatori inaspettatamente ricevono
l’avviso che Pansa riconvocava il Senato per il giorno seguente,
perchè erano arrivate tali lettere di Bruto, che non si
poteva frapporre indugio alcuno alla convocazione dell’Assemblea420.
[44 a. C. Novembre. – 43 a. C. Gennaio] Bruto, giunto in autunno ad
Atene, era sceso nella casa amica di un ospite e si era messo, come
un privato qualunque, a seguire i corsi di due filosofi, Teomnesto e
Cratippo, insieme con molti altri giovani studenti romani421, tra i
quali Gneo Domizio Enobarbo, il figlio di Cicerone e un giovinotto
ventenne di Venosa, che si chiamava Quinto Orazio Flacco. Il padre,
un liberto onesto, savio e molto amoroso del figlio, che aveva messo
in disparte qualche risparmio con la professione di esattore e
acquistato un piccolo bene in Apulia, lo aveva fatto studiare.
Appartenenti quasi tutti a famiglie cospicue, questi giovani avevano
fatte grandi accoglienze al tirannicida; grandi accoglienze aveva
fatte pure Atene, la antica e gloriosa repubblica decaduta a vile
città di forestieri, che prodigava onori a ogni ospite
cospicuo; gli animi si erano riscaldati, e tra i rammarichi, le
feste, le conversazioni, si era presto dato mano a ordire una
cospirazione rivoluzionaria. Chi ne ebbe primo l’idea? Pur troppo
non lo sappiamo, tanto sono frammentarie e oscure le notizie; ma
è probabile che Bruto non ne fosse l’autore422, ma
incoraggiasse gli altri con la sua autorità e senza volere a
prenderlo come capo, e fosse trascinato dagli amici, dalle
circostanze, da una prima occasione: l’arrivo, in novembre, di una
somma considerevole – 16 000 talenti423 – mandata da Trebonio a
Roma. Avendo saputo che la persona incaricata di portare il tributo
doveva toccare la Grecia, i giovani che attorniavano Bruto gli
dimostrarono esser necessario sequestrare per via questa somma, la
quale altrimenti, giunta in Italia, cadrebbe in potere dei loro
nemici; che lui solo aveva autorità bastevole a persuadere
l’inviato di Trebonio a consegnargli il tesoro. Bruto infatti
andò incontro all’inviato in Eubea, lo indusse a consegnargli
il denaro424; e allora si trovò costretto ad adoperare in
qualche modo la somma carpita a pro’ della causa conservatrice.
Intanto nel novembre del 44 passava attraverso la Macedonia, come un
turbine, Dolabella, che presa una legione e spedita innanzi una
parte della cavalleria continuava senza indugio il viaggio alla
volta dell’Asia, dando ordine alla cavalleria rimanente di seguirlo
in due corpi425. Ma, lui partito, i giovani amici di Bruto si
buttarono a intrigare tra i soldati con il denaro di Trebonio.
Domizio stornò dal suo cammino uno dei corpi di cavalleria:
qualche altro, forse un certo Cinna, riuscì a guadagnare a
Bruto l’altro corpo; il figlio di Cicerone indusse a ribellarsi a
favore di Bruto l’ultima legione di Macedonia, che il legato di
Marco Antonio era venuto a prendere426. Insomma Bruto in dicembre si
trovò a capo di un piccolo esercito e circondato da una
coorte di giovani ammiratori, tra i quali anche Orazio; e con tutti
questi andò a Tessalonica. Riconosciuto per suo successore
dal governatore della Macedonia Ortensio che non aveva più un
soldato, mandò a impadronirsi del deposito di armi accumulate
a Demetriade da Cesare; e si diè a reclutare, con l’aiuto di
Ortensio, una nuova legione tra i numerosi veterani di Pompeo
restati in Macedonia e in Tessaglia dopo Farsalo....427 Ma in mezzo
a questi preparativi, nei primi giorni di gennaio, gli giunse la
notizia che Caio Antonio, nominato governatore della Macedonia, era
sbarcato a Durazzo428. Bruto temè che Caio Antonio si
mettesse d’accordo con il governatore dell’Illirico, il cesariano
Vatinio, per fargli guerra; e subito con il suo piccolo esercito,
sfidando animosamente i rigori dell’inverno, percorse a marcie
forzate le 270 miglia che separano Tessalonica da Durazzo, giungendo
alle sponde dell’Adriatico nella terza decade di gennaio429. Per sua
fortuna Vatinio, ammalato, inetto, inviso ai soldati, non aveva
saputo impedire dopo la morte di Cesare la rivolta generale delle
popolazioni illiriche, le quali non pagavano più i tributi;
anzi aveva perdute cinque coorti in una imboscata; onde l’esercito,
che non riceveva più il soldo, era malcontento e irritato430.
[43 a. C. Febbraio] Dall’arrivo di Bruto, così provvisto di
denaro, procedè uno sfacelo: due delle tre legioni di Vatinio
passarono all’uccisore di Cesare; una seguì Caio Antonio;
Vatinio restò spodestato. Caio Antonio aveva cercato di
ritirarsi verso l’Epiro; ma per via aveva perduto tre coorti e alla
fine si era buttato con le ultime sette in Apollonia, dove Bruto lo
assediava. Tutte queste cose raccontavano le lettere di Bruto, il
quale desiderava che gli atti suoi fossero ufficialmente convalidati
dal Senato431.
Non è difficile immaginare che commozione suscitassero in
Roma queste notizie. Questa rivoluzione nell’ordine legale dei
comandi militari e dei governi, per opera di un uomo partito
dall’Italia come un fuggiasco, con poche navi, pochi amici e
100 000 sesterzi prestati da Attico, dimostrava che a torto i
conservatori avevano giudicati tutti gli eserciti come imbevuti
siffattamente di spirito cesariano, da non poter sperare mai di
averne alcuno ai propri servigi; e quindi valeva più che una
grande vittoria, rinfrancando in modo incredibile gli animi. Per
questa stessa ragione ne erano dolentissimi gli amici d’Antonio.
Perciò nella notte, in fretta e furia, costoro deliberarono
di fare un tentativo disperato, per impedire che il Senato
convalidasse gli atti di Bruto. Difatti il mattino dopo, recitate le
lettere di Macedonia, Caleno sorse a parlare; lodò molto lo
stile in cui erano scritte432, ma dimostrò che gli atti di
Bruto non si potevano approvare perchè illegali e
tentò di agitare ancora una volta lo spauracchio dei
veterani. I veterani non si fidavano di Marco Bruto; badasse il
Senato che, accogliendone le domande, se li alienerebbe tutti433. Ma
questa volta Cicerone, magnificando enfaticamente la rivoluzione di
Bruto con la decima filippica, fece approvare senza fatica la
proposta, che Bruto fosse investito di un alto comando proconsolare
sulla Macedonia, sull’Illirico e sulla Grecia, con la
raccomandazione di tenersi vicino all’Italia434. Tuttavia se,
incoraggiato da questo successo, il Senato annullò tutte le
leggi di Antonio435, nè Antonio a Modena nè i suoi
amici a Roma ne furono molto scoraggiti, perchè troppo in
costoro cresceva la baldanza, sentendo gli avversari tutti, tranne
Cicerone, dubitosi della fedeltà delle legioni, esitare.
Antonio anzi, che incominciava a perdere la speranza di far
ribellare le legioni di Decimo, sgombrò verso la fine di
febbraio Bologna, portò tutte le sue forze intorno a Modena
per bloccarla davvero, ordinò di affrettarsi a Ventidio Basso
che con le sue tre legioni si avviava verso Ancona; si
risolvè insomma a fare vera guerra per prendere Modena436.
Tanto più urgeva agli amici di Antonio trattenere a Roma
Pansa, che si preparava ma con grande lentezza a muovere al soccorso
di Modena. Ed ecco ai primi di marzo (forse l’1 o il 2) un altro
intralcio e opportunissimo agli amici di Antonio: giungere
cioè notizia che Dolabella, entrato in Asia con la legione e
il corpo di cavalleria, aveva preso a tradimento Trebonio a Smirne e
lo aveva ucciso, dopo averlo torturato due giorni per sapere dove
fossero i denari437. Così raccontavano le lettere, esagerando
forse ad arte la scelleraggine di Dolabella. [43 a. C. Marzo.] La
perdita della provincia d’Asia, grande miniera d’oro dell’impero,
era una disgrazia per il partito conservatore; ma la compensava
l’atrocità dell’uccisione, che commosse a sdegno vivissimo la
opinione pubblica e nocque di riflesso ad Antonio, che tutti
sapevano essere d’accordo e molti accusavano di avere incitato
Dolabella. Infatti, quando il Senato si radunò, Caleno
dovè dirsi pronto a dichiarare Dolabella nemico pubblico438;
ma propose nel tempo stesso di affidare la guerra contro lui ai due
consoli, dopochè avessero liberato Modena439; per far perdere
del tempo, mettendo loro sulle braccia i preparativi di una nuova
guerra. Altri propose invece di mandare contro Dolabella un generale
con imperio straordinario440. Ma Cicerone fece una proposta
più audace, prendendola a tema della undecima filippica:
affidare a Cassio la guerra contro Dolabella, con il proconsolato
della Siria e larghi poteri sull’Asia, sulla Bitinia e sul Ponto.
Egli non sapeva ancora nulla di preciso su Cassio; ma ora, nella
baldanza delle buone notizie di Bruto, non dubitava più che
anche Cassio fosse riuscito nel disegno con cui era partito
d’Italia; e per sostenere la sua proposta affermò sicuramente
che Cassio era già signore della Siria, che aveva già
recuperato l’Asia, che tra poco se ne riceverebbe notizia
ufficiale441. Questa volta però Pansa, che serviva i
conservatori ma non li voleva troppo potenti, si oppose con veemenza
e impedì la votazione. Cicerone allora tentò
violentare le esitanze del Senato suscitando un’agitazione popolare;
fece convocare una radunanza del popolo da un tribuno ed espose
un’altra volta la proposta tra grandi applausi; ma venne Pansa e si
oppose, dicendo che la proposta spiaceva alla madre di Cassio, alle
sorelle, a Servilia442. Alla fine, dopo molte dispute e molti
giorni, fu approvata la proposta di Caleno443; e Cicerone ebbe un
nuovo motivo di dispetto e di sospetto contro Pansa, il quale,
sempre diffidente dei conservatori e risoluto a non farli crescere
in soverchia potenza, ricusava da qualche tempo di mandare a Bruto
una parte delle reclute fatte in Italia, anzi cercava di impedire
che molti, specialmente tra i giovani delle classi alte e agiate, si
recassero sotto le bandiere di Bruto444. Molti però
partivano: tra gli altri Marco Valerio Messala Corvino, il figlio di
Lucullo, il figlio di Catone, il figlio di Ortensio, il figlio di
Bibulo.
Questo insuccesso scoraggì un poco il vecchio oratore;
stimolò invece gli amici d’Antonio, che non meno infaticabili
tentarono subito un nuovo inganno. Il 7 o l’8 di marzo si videro a
un tratto i partigiani più noti di Antonio uscire tristi e
accigliati; raccogliersi in conciliaboli, ricevere e spedire in gran
fretta messaggi dalle case loro; domandare privatamente a questo o a
quel senatore, che farebbe se Antonio levava l’assedio da Modena.
Tutti credettero che Antonio rinsavisse; Pansa si interpose
sollecito come paciere; anche Cicerone, cui la stanchezza
oscurò per un istante la consueta lucidità di
intuizione, vacillò; e allora il Senato deliberò di
mandare ad Antonio una nuova ambasceria composta di cinque
personaggi di tutti i partiti, tra i quali Cicerone stesso445.
Intanto Ottaviano, inquieto che Modena cadesse davvero, aveva
indotto Irzio, sempre incerto, a uscir dai quartieri d’inverno, a
occupare Bologna, ad avanzare sino al Panaro in vista della
città; e qui giunto tentò prima con fuochi e poi per
mezzo di palombari di avvisare Decimo della loro vicinanza per
dargli coraggio446, ma senza assalire Antonio. Gli avvenimenti di
Macedonia, l’annullamento degli atti di Antonio, le deliberazioni
del Senato su Marco Bruto confermavano luminosamente le accuse di
Antonio: che cioè Irzio e Ottaviano difendevano la causa
degli uccisori di Cesare contro quella dei veterani; onde
l’incertezza e l’impaccio dei due generali cresceva. Anzi Irzio, il
quale da Bologna poteva interrompere il carteggio tra Antonio e i
suoi amici di Roma, gentilmente mandava a Roma al loro recapito le
lettere di Antonio intercettate447; e Ottaviano, per far dimenticare
alle legioni veterane i nuovi scrupoli, decuplicò da due a
ventimila sesterzi la sua promessa448. La notizia della nuova
ambasceria giunse loro verso il 12 come una nuova speranza; e subito
scrissero ad Antonio una lettera mogia e dimessa, nella quale gli
raccontavano la morte di Trebonio e l’orrore che aveva destato; gli
partecipavano che in Senato si era decretata la nuova ambasceria; si
scusavano quasi di combatterlo, dicendo che essi non volevano
nuocere a lui o soccorrere Decimo, ma solo salvare i soldati di
Cesare chiusi in Modena; pregavano che non li obbligasse ad
assalirlo; essi non gli erano nemici, lo lascerebbero in pace se
liberava Decimo o anche solo se faceva entrare del grano in
Modena449. In altre parole essi che avrebbero potuto distruggerlo,
si raccomandavano che fosse ragionevole, che per piacere lasciasse
entrare delle vettovaglie in Modena, aspettando l’arrivo degli
ambasciatori. Ma Antonio, che indovinava le ragioni di questa
timidezza, abusò allora sino all’estrema misura di potersi
atteggiare innanzi ai soldati di Irzio e di Ottaviano come il vero e
il solo vendicatore di Cesare; e lanciò ai suoi nemici, egli
quasi inerme a loro confronto, una magnifica lettera provocatrice,
che ancora ci resta e che anche per lo stile, se fu scritta da lui,
è prova di un ingegno letterario considerevole. Esaltava in
questa lettera come una grande impresa l’assassinio di Trebonio,
dichiarava che, volendo perseguitare tutti gli uccisori di Cesare,
resterebbe fedele sino all’ultimo a Dolabella; rimproverava Irzio e
Ottaviano di tradire la causa cesariana, di combattere a difesa
degli uccisori e del partito che voleva spogliare i veterani delle
ricompense; si dichiarava pronto a lasciare uscire di Modena i
soldati se gli consegnavano Decimo; affermava che Lepido e Planco
erano d’accordo con lui; si diceva disposto a ricevere gli
ambasciatori se venivano perchè egli era sempre disposto alla
pace, ma aggiungeva di non credere che verrebbero. Irzio e Ottaviano
subirono rassegnati, senza far nulla, anche questo terribile
rabbuffo; e si contentarono di mandare la lettera a Roma, dove
giunse il 18 o il 19, quando una parte delle previsioni di Antonio
era già avverata. Probabilmente tra il 10 e il 14
l’ambasceria era stata annullata. Gli amici di Antonio si erano
affrettati troppo a mostrare una gioia sfrenata; Cicerone e gli
altri avevano capito subito che c’era stato inganno450; già
si parlava a Roma di tradimento; onde nella prima seduta che si
tenne, Cicerone aveva pronunciata la dodicesima filippica
confessando di essersi ingannato e il Senato aveva annullata la
deliberazione. Intanto con la buona stagione incominciavano a
giungere in maggior numero le lettere dalle provincie, e Pansa, non
avendo più pretesto di differire, dovè fissare la sua
partenza per il 19. In questo giorno stesso però presiedette
una seduta del Senato, in cui furon lette lettere di Cornificio, che
si lagnava delle difficoltà di cui gli erano cagione i legati
mandati da Calvisio. Il Senato ordinò che il governatore
della Numidia, T. Sestio, desse a Cornificio una legione per
ristabilire l’ordine e ne mandasse altre due in Italia, per la
guerra di Modena: ma avendo qualcuno proposto di punire i falsi
legati di Calvisio, Pansa si oppose451. Poi partì prendendo,
per schivare Ventidio, la via Cassia, che per Fiesole e l’Appennino
sboccava nella via Emilia sotto Bologna; portando con sè
quattro legioni novelle. Insieme con le tre di Ventidio Basso, con
le tre di Ottaviano e con le quattro di Decimo, già a
quattordici sommavano le legioni novelle reclutate o le antiche
richiamate in pochi mesi nell’Italia, che da tanto tempo non forniva
più soldati, come se le morenti attitudini guerresche delle
genti italiche rinascessero. Ma l’esempio dei soldati di Cesare
arricchiti, una smania contagiosa di desiderii e di speranze
chimeriche, la miseria inducevano a cambiare stato e mestiere con la
milizia molti artigiani che non trovavano più lavoro a Roma o
nelle città minori, molti figli di coloni stanchi della
faticosa povertà paterna, molti braccianti, indebitati,
disperati. Le rivalità politiche dell’oligarchia signora
dell’impero offrivano a costoro un compenso al ristagno universale
della ricchezza: ma intanto le 36 legioni lasciate da Cesare erano
accresciute a 50, e non solo non si sapeva come si pagherebbe il
cresciuto dispendio militare, ma si stentava perfino a trovare le
armi per tanti soldati. Antonio doveva tenere inermi e disciolte nel
campo le nuove reclute della Cisalpina, non potendo armarle; anzi
aveva pensato per un momento di far venire armi da Demetriade452; e
Pansa aveva dovuto a Roma reclutare armaioli da ogni parte453.
Ma gli ondeggiamenti non erano ancora finiti. Il 20 marzo il pretore
Aulo Cornuto lesse in assenza dei consoli lettere di Lepido e di
Planco nelle quali esprimevano al Senato un generico desiderio di
pace. Planco in special modo aveva scritto con grande cautela,
incaricando C. Furnio, il quale portava le lettere, di aggiungere a
voce dichiarazioni più esplicite di devozione alla
costituzione454. Era noto a tutti che Lepido inclinava ad Antonio;
ma l’uno e l’altro miravano così a lusingare i due partiti in
modo da non compromettersi troppo nè con l’uno nè con
l’altro; Lepido anzi aveva fatto di più: richiamava sotto le
armi la decima e la sesta legione dedotte in colonie da Cesare a
Narbone e ad Arles, ne reclutava una terza, non sappiamo bene con
quali soldati455; aveva mandato a Modena rinforzi, dando
all’ufficiale Marco Giunio Silano, figlio di Servilia e quindi
cognato suo, ordini molto equivoci, in modo da poter sostenere che
egli lo aveva spedito contro Antonio456. Cicerone, molto irritato
per queste lettere che temeva scoraggissero il Senato già
così vacillante, pronunciò allora la tredicesima
filippica, un capolavoro di eloquenza furente e ruggente, incitando
i senatori alla guerra e proponendo onori per Sesto Pompeo, con cui
alcuni ambasciatori del Senato avevano poco prima parlato a
Marsiglia e che si dichiarava pronto a combattere per il Senato;
scrisse poi due lettere molto asciutte e stizzose a Planco e a
Lepido457. Non si tenterebbe ora di frapporre nuovi impedimenti? Ma
gli ultimi giorni di marzo e i primi di aprile corsero per tutti
pieni di inquietudine, di ansietà, di malessere. Che cosa
succedeva intorno a Modena? Che cosa macchinavano in Oriente
Dolabella e Cassio? A volte passavano su Roma ventate di sconforto,
che piegavano gli animi: Modena era agli estremi; i consoli
tradivano la causa del Senato; non si vincerebbe458. Cicerone doveva
mostrarsi in pubblico con faccia serena, far coraggio a tutti,
ostentare una fiducia che forse mancava anche a lui. Al 7 aprile459
furono lette in Senato nuove lettere di Planco460, il quale, avendo
saputo frattanto che i soccorsi di Pansa partivano davvero, si era
affrettato a scriver di avere sino allora dissimulata la sua
devozione repubblicana per esser sicuro delle legioni che Antonio
cercava di rivoltare. Ma avendo Cicerone proposto alcuni onori, due
giorni il Senato disputò con furore, perchè Servilio,
tenace nei suoi odi conservatori, non voleva onorare un antico
partigiano di Cesare461. [43 a. C. Aprile] Per fortuna il 9 aprile
gli spiriti furono distratti e confortati dalle notizie di Cassio
che arrivavano finalmente da più parti. Sbarcato nella
provincia di Asia prima di Dolabella, aveva ricevuto da Trebonio
denaro e dal questore Lentulo, che l’aveva adescato per via, il
corpo di cavalleria mandato innanzi da Dolabella; aveva poi
reclutati in Asia soldati, raccolti denari e quindi invasa la Siria,
dove le cinque legioni dei governatori della Siria e della Bitinia
che assediavano in Apamea Cecilio Basso, erano state persuase a
passare a lui, ben presto seguite dalla legione di Cecilio Basso. Un
nuovo e grande esercito aveva il partito conservatore in Oriente; e
Dolabella era sicuramente spacciato. A compenso però di
queste liete notizie Cicerone ricevè due giorni dopo una
singolarissima lettera di Bruto, in data del 1° aprile, piena di
strane paure e domande. La lettera diceva che, perduta l’Asia e i
suoi sussidi, egli si trovava senza denaro (i 16 000 talenti
erano già stati consumati), aggiungeva che, a parer suo, era
opportuno, prima di divulgare le notizie di Cassio, pensarci bene;
confessava infine di non saper come trattare Caio Antonio, che poco
prima gli si era arreso in Apollonia. Le sue preghiere lo avevano
“troppo commosso”462. In verità Bruto, come tutti gli uomini
di studio sperduti nella vita d’azione, era un uomo semplice; e
mentre coniava monete con il berretto frigio, i pugnali e
l’iscrizione EID-MAR (Idus Martiæ), l’astuto Caio Antonio
aveva preso ad abbindolarlo con mille moine, mirando nientemeno che
a metterlo in discordia con Cicerone: gli aveva detto che Cicerone
metterebbe alla disperazione i cesariani, con cui pure era possibile
intendersi; aveva insinuato che era stolto fidarsi di Ottaviano
invece che cercare di accordarsi con suo fratello; aveva infine
risvegliate le antiche diffidenze del congiurato contro il figlio di
Cesare. E così alla fine il debole Bruto era diventato suo
buon amico e aveva fatto una cosa che non osava raccontare a
Cicerone: lo aveva messo al posto di Vatinio, come governatore
dell’Illirico sotto i suoi ordini! Cicerone, irritato, gli rispose
seccamente il giorno dopo a volta di corriere: denari non essercene,
arruolamenti non potersene fare; tenesse Caio Antonio in ostaggio
sino alla liberazione di Decimo463; quanto alle notizie di Cassio,
si dovevano gridare in ogni parte e non nasconderle! Ma la mattina
dopo, il 13 aprile, a Cicerone toccò in Senato un’altra
sorpresa e più grossa: due messaggi, uno di Caio Antonio e
l’altro di Bruto, arrivati la mattina e portati direttamente al
Senato, senza essere prima dati a leggere, come si soleva, nè
a Cicerone nè ad altra persona di fiducia. In queste lettere
Caio Antonio domandava pace per sè e per il fratello; e Bruto
non solo raccomandava la domanda, ma lo aveva lasciato perfino
intestare la sua lettera con il titolo di proconsole. Cicerone
cascò dalle nuvole, ma lì per lì si contenne;
sciolta però la seduta, corse subito a consigliarsi con altri
senatori, e si deliberò di adoperare un espediente estremo.
Il giorno dopo il senatore Labeone dichiaro d’avere osservati con
cura i sigilli e di essersi persuaso che la lettera era falsa; e il
giorno stesso Cicerone scriveva a Bruto una lettera lunga cortese ma
risoluta, raccontandogli tutto, facendogli capire, senza dirglielo
chiaro, che bisognava che egli non smentisse Labeone, e
dichiarandogli che in una guerra in cui si trattava di morire se non
si vinceva, era necessaria energia implacabile, non molle
clemenza464. Ammonimento, di cui Bruto ebbe a sperimentare ben
presto la saviezza; perchè Caio lo compensò della sua
dolcezza, tramando contro lui una rivolta di soldati, che per
fortuna fu sventata a tempo465.
[43 a. C. 15 aprile.] Ma in quel giorno stesso del 14 aprile o nel
seguente – la data è incerta466 – i due eserciti si
azzuffavano nei dintorni di Castelfranco, che allora si chiamava
Forum Gallorum. Antonio, non ostante le sue piccole forze,
dopochè Silano gli aveva portati i suoi soldati, osava,
sicuro dell’aiuto di Lepido e confidando nel suo prestigio di
vendicatore di Cesare, prendere l’iniziativa dell’offesa. Già
da qualche tempo, lasciata una parte delle milizie ad assediare
Modena, aveva posto il suo campo vicino a quello di Irzio e di
Ottaviano e lo veniva tormentando di piccoli assalti; Ventidio si
avvicinava: avendo saputo che Pansa muoveva da Bologna, pensò
di assalirlo lungo la via e di macellare i suoi novizi, mentre suo
fratello Lucio avrebbe distratta l’attenzione di Irzio e di
Ottaviano simulando un assalto all’accampamento. Egli sperava
probabilmente che i suoi antichi soldati, riconoscendo ora in lui e
non in Ottaviano il vero difensore della causa cesariana, non
combatterebbero. Difatti non solo tre legioni veterane si
avvicinavano a soccorrerlo; ma alcuni squadroni di cavalleria
celtica, che avevano appartenuto all’esercito di Macedonia,
già avevano abbandonato Ottaviano per lui. Ma Irzio, che
aveva mandato incontro a Pansa un certo Galba a sollecitarlo,
dubitò di questo disegno e nella notte dal 13 al 14 gli
mandò incontro la legione di Marte e due coorti pretorie al
comando di Carfuleno. Carfuleno traversò nella notte Forum
Gallorum e continuò il suo cammino incontro a Pansa; e poche
ore dopo Antonio, ignaro di ciò, giungeva e appiattava in
Forum Gallorum due legioni e due coorti pretorie, mandando poi
incontro a Pansa, sulla via Emilia, cavalleria e fanteria leggera,
per attirare con scaramuccie i soldati sin sotto a Castelfranco. Il
disegno riuscì; solo che tratti avanti a combattere furono,
non come credeva Antonio, una o due legioni di novizi, ma le dodici
coorti di Carfuleno, che marciavano in capo all’esercito a una certa
distanza dalle legioni novelle. Per un certo tempo, siccome la via
Emilia correva stretta tra boschi e paludi e le dodici coorti
sfilavano su quella, non si potè fare nulla; ma appena,
avvicinandosi a Forum Gallorum, entrarono in terreno piano e
sgombro, le dodici coorti si spiegarono in ordine di battaglia e le
ventidue di Antonio uscite dal villaggio impegnarono una terribile
mischia con la legione di Marte; mentre Pansa ordinava a due delle
quattro legioni novelle di preparare in fretta l’accampamento,
mandava le altre due al soccorso, e spediva messi a domandare
rinforzi a Irzio, recandosi anche egli sul fronte della battaglia.
La zuffa fu aspra; ma le due legioni novelle non servirono a nulla,
la coorte pretoria di Cesare fu distrutta e Pansa ferito; onde alla
fine anche la legione di Marte ripiegò verso l’accampamento,
incalzata dal nemico, che fece una grande strage di veterani e
novizi. I soldati di Antonio credevano già di aver vinto; ma
quando nel pomeriggio, dopo avere costretto tutto il corpo nemico a
rifugiarsi nell’accampamento e averlo un po’ tormentato, si
ritiravano verso Modena stanchi, ecco a un tratto sopraggiungere
Irzio con due legioni veterane. Impegnare una nuova battaglia con
soldati freschi non era possibile: e le due legioni si dispersero in
disordine nelle selve e paludi vicine. Per fortuna il cader della
notte e la mancanza di cavalleria impedì a Irzio di inseguire
i fuggenti, che Antonio fece nella notte raccogliere dalla
cavalleria e ricondurre negli accampamenti di Modena. Ottaviano
aveva intanto difeso l’accampamento contro i finti assalti di Lucio,
compiendo la prima e non ardua sua impresa di guerra, che
però valse a lui come ai due consoli una ovazione
dell’esercito467. Nè l’uno nè l’altro avversario aveva
interamente vinto o interamente perduto. A Roma l’ansietà era
immensa. Verso il 17 e il 18 si sussurrava che l’esercito del Senato
fosse stato distrutto468; finchè giunsero le lettere di
Irzio. I partigiani di Antonio si chiusero in casa disperati; una
grande dimostrazione popolare trasse alla casa di Cicerone, lo
condusse al Campidoglio, lo obbligò a parlare tra immensi
applausi469; anche molta gente cauta e indifferente si lasciò
trascinare a mostrare odio per Antonio. Cicerone nella seduta del 21
aprile pronunciò la quattordicesima e ultima filippica,
proponendo una supplicazione di quaranta giorni, un monumento ai
soldati caduti, il pagamento ai loro parenti delle somme e la
concessione dei privilegi promessi ai soldati dell’esercito del
Senato. Tutti credevano che il partito conservatore avesse ottenuta
una grande vittoria. Antonio infatti, ridiventato più
prudente dopo la sua sorpresa fallita, aveva ricondotto l’esercito
nel campo e dietro le trincee, a stringere l’assedio abbandonando i
propositi di assalire; ma Ventidio si avvicinava sulla via Emilia
alle spalle di Irzio e Ottaviano, i quali, fatti più animosi
dopo aver visto che i veterani combattevano, si indussero il 21
aprile a tentar di rompere la linea di investimento, per mandare in
città un convoglio di viveri. Antonio spedì a
respingerli la cavalleria, poi, questa non bastando, due legioni.
Irzio approfittò del momento per piombare nel campo, difeso
dalla quinta legione, con la quarta legione; da Modena Decimo Bruto
osò alla fine mandar fuori alcune coorti sotto il comando di
Ponzio Aquila; nel campo e sulle trincee si impegnarono due
terribili mischie. Irzio e Ponzio Aquila furono uccisi; la quarta
legione già ripiegava, quando Ottaviano corse in aiuto; la
battaglia ricominciò così violenta che Ottaviano
stesso si trovò in mezzo alla mischia e dovè
combattere come un soldato. Egli salvò il corpo di Irzio ma
non potè o non seppe conservare il campo e terminò la
sua prima battaglia ordinando la ritirata. Anche i soldati di Decimo
ritornarono in Modena; e la linea di investimento non pareva alla
sera essere stata rotta. L’esercito di Antonio però aveva
molto sofferto. Antonio convocò nella notte un consiglio di
guerra, nel quale i più opinarono che si dovesse continuare
l’assedio. Se Antonio avesse saputo che Irzio era morto, il giorno
dopo avrebbe certo assalito l’esercito al comando del solo Ottaviano
e forse distrutta per sempre, con l’aiuto di Ventidio che ormai era
a Faenza, la discendenza di Cesare. Ma da fili ben tenui pende
spesso nelle rivoluzioni la sorte di un uomo: Antonio non sapeva
quello che era successo, temè di essere sopraffatto il giorno
dopo, prima che Ventidio arrivasse, da un nuovo assalto; si
ricordò di quello che aveva fatto Cesare sotto Gergovia e si
risolvè a ritirarsi nella Gallia Narbonese presso Lepido.
Nella notte egli mandò dei messaggeri a Ventidio Basso,
ordinandogli di valicare l’Appennino e di raggiungerlo nella
Narbonese; diede gli ordini per levare l’assedio e nella mattina
seguente partì470.
X.
“TRIUMVIRI REIPUBLICAE COSTITUENDAE”.
[43 a. C. Aprile] Le notizie degli eventi di Modena giunsero in
Roma, a quanto pare, il 25 di aprile, ma molto esagerate471. Il 26
il Senato si radunò; e naturalmente gli amici del vinto, che
si diceva fuggisse in rotta con i pochi avanzi della sua banda quasi
disfatta, non comparvero. Così finalmente il bando di Antonio
e dei suoi seguaci fu decretato senza opposizione472; e in onore di
Decimo Bruto, a cui in quel momento pareva essere dovuta la maggior
lode della vittoria per la ostinata difesa di Modena, furono
proposti i più stravaganti decreti, quasi avesse vinto un
nuovo Annibale: una supplicazione di cinquanta giorni, il trionfo,
perfino l’iscrizione del nome nel calendario, al giorno in cui la
notizia era giunta, che per caso era il natalizio di Bruto473. Tanto
facilmente ormai perdevano tutti la misura!474 Furono deliberati
onori anche ai caduti; fu proposto pure, non sappiamo da chi, di
dare anche ai soldati di Modena le ricompense promesse a quelli di
Ottaviano475; e da Cicerone, che intendeva essere necessario non
perdere tempo, di passare a Decimo, poichè Irzio era morto e
Pansa giaceva ferito a Bologna, il comando supremo dell’esercito476.
Non tutte queste proposte furono approvate, giacchè
l’iscrizione nel calendario fu contrastata477; e certo fu respinta
la proposta di Cicerone per riguardo a Pansa478. Nella giornata
però giunse notizia che Pansa era spirato nella notte dal 22
al 23479; e fu necessario riconvocare il Senato il 27, per
provvedere alle legioni e alla guerra contro Dolabella, che era
stata commessa ai consoli. In questa seduta Servilio fece sua e
ottenne fosse approvata la vecchia proposta di Cicerone, che si
affidasse la guerra contro Dolabella a Cassio con il proconsolato
della Siria e con un alto comando su tutti i governatori delle
provincie asiatiche480; si approvò di sciogliere Marco Bruto
dall’obbligo di tenersi vicino all’Italia, lasciandolo libero, se
così credeva meglio, di aiutare Cassio; si proscrisse anche
Ventidio, che il giorno prima, nella fretta e nella gioia, era stato
dimenticato481. L’Italia era sicura, ora che Antonio – così
tutti credevano – andava fuggiasco con poche bande stanche e
sfinite!482 Sembra pure che per il comando della guerra si
addivenisse a un mezzo termine: si ponessero le quattro legioni di
Pansa sotto il comando di Decimo, come propretore più anziano
di Ottaviano, lasciando però a costui il comando delle sue
cinque legioni483. Tutti del resto a Roma erano di opinione che
Decimo Bruto e Ottaviano si fossero già slanciati sulle orme
di Antonio484; nessuno dubitava che Antonio incorrerebbe in pochi
giorni con gli avanzi delle due bande nella sorte di Catilina; il
partito conservatore pareva di nuovo a tutti, come nei primi giorni
dopo la morte di Cesare, sicuramente vittorioso e signore dello
Stato; i tristi scoraggiamenti del luglio e dell’agosto precedente
erano dimenticati; gli amici, i parenti, la moglie del vinto si
videro perseguitati con ingiurie, minaccie e processi da nemici
ignoti fino allora, che pullulavano da ogni parte. Anzi Fulvia, che
in quei giorni doveva pagare un fondo comprato a credenza, non
avrebbe trovato più un sesterzio a credito, se l’amabile
Attico, sempre fermo nel suo proposito di dare denari a tutti, non
l’avesse aiutata485.
Nessuno immaginava ciò che succedeva in quel tempo a Modena e
sulla via della Narbonese. Nella giornata del 22 Decimo Bruto si era
recato al comando dell’esercito liberatore per salutare Irzio; aveva
invece trovato Ottaviano che gli aveva raccontata la morte del
console e lo aveva informato sulla situazione militare486. Decimo
Bruto, che era un esperto uomo di guerra, aveva subito intuito che
Ventidio Basso tenterebbe di raggiungere Antonio senza incappare nei
loro eserciti, valicando in fretta l’Appennino e scendendo in
Liguria; e quindi propose che Ottaviano passasse con le sue legioni
le montagne e ostruisse la via della Liguria, mentre egli
inseguirebbe Antonio, cercando di spingerlo nell’Appennino selvaggio
a morirvi di fame487. Ma Ottaviano si schermì con varii
pretesti. Gli storici suppongono che queste scuse coprissero segreti
e remoti disegni: ma a chi abbia seguita questa lunga vicenda, la
cagione del rifiuto apparirà essere molto più
semplice, quella stessa per cui Ottaviano ed Irzio avevano condotta
la guerra così mollemente: la paura che i soldati
disapprovassero questa guerra contro commilitoni. Se egli aveva
adoperate le legioni così timidamente, quando in parte almeno
era pur sostenuto dall’autorità di un cesariano insigne come
Irzio, avrebbe osato di condurle ora insieme con un uccisore di
Cesare alla definitiva distrazione di Antonio e dei suoi
veterani?488 Egli non voleva leggermente incorrere in nuovi rischi
per i conservatori. Invano Decimo si sforzò in quel giorno di
persuaderlo489; e già forse deliberava di partire solo il
dì dopo, quando nella notte ricevette un messaggio da Pansa
ferito, che lo chiamava a Bologna. Si avviò quindi, all’alba
del 23, verso Bologna. Ma per via avendo saputo che Pansa era morto,
ritornò; prese le ultime disposizioni; e il 24 mosse con le
legioni allo inseguimento di Antonio. Antonio però aveva due
giorni di vantaggio490; e non era nè disfatto nè
disposto a perire come Catilina, abbandonato da tutti e a capo di
poche milizie. In questo uomo così gagliardo e così
ineguale, che era stato tanto incerto negli ultimi mesi, proruppe
allora dalla rabbia della disfatta e dalla concitazione del pericolo
un impeto stupendo di immaginazione e di volontà, nel quale
ideò e pose subito ad esecuzione un disegno veramente
cesariano: prendere deliberatamente, per andare nella Narbonese,
quella via della Liguria; scalare di propria iniziativa e subito
quell’Appennino scosceso, selvaggio, deserto da Tortona a Vado, in
cui Decimo Bruto voleva spingerlo a perire come un cervo ferito. Era
impresa audace avventurare l’esercito, non disfatto, come si diceva
a Roma, ma certamente un poco turbato dagli ultimi scontri e senza
vettovaglie, in quel deserto scosceso in cui poteva perire per fame!
Ma l’uomo che aveva combattuto con Cesare contro Vercingetorice, non
esitò, discernendo tutti i vantaggi di questa via, che, se
più ripida e difficile, era anche più breve che quella
del piccolo San Bernardo e più spedita, perchè sgombra
di eserciti. E a lui urgeva di annullare senza indugio l’effetto
della ritirata di Modena con l’alleanza di Lepido. Inoltre dalla
congiunzione con Ventidio, a cui aveva ordinato di valicare
l’Appennino, dipendeva in gran parte l’esito di questa sua mossa
così audace, perchè con sette legioni egli sarebbe
sicuro, qualunque cosa avvenisse, di trarsi a salvamento: ora,
prendendo la via della Liguria egli andava incontro a Ventidio,
poteva ritrovarsi con lui a Vado, scorciava il cammino che il suo
generale avrebbe dovuto fare da solo, il più pericoloso
cioè, quello in cui i soldati e il generale, lontani da lui,
più facilmente si sarebbero scoraggiti. Quindi con le quattro
legioni e la cavalleria ancora in buon assetto, con le torme dei
soldati reclutati ma non ancora ordinati a legione ed armati, il 22
e il 23 percorse le trenta miglia che separano Modena da Parma: alla
sera del 23 piombò in Parma come un turbine, abbandonando la
città ai soldati che la maltrattarono un poco491; il 24 e il
25 percorse le quaranta miglia tra Parma e Piacenza; il 26
piegò sulla via Milvia per Clastidio verso Dertona (Tortona),
lontana circa cento chilometri, dove giunse probabilmente il 28, per
far riposare un giorno i soldati e intraprendere al 30 la scalata
delle montagne che lo separavano da Vada Sabazia (Vado). Invece
Decimo aveva presunto troppo dell’esercito suo, che era composto in
parte di novizî, esausto dalle privazioni dell’assedio e
sfornito di tutto, anche di muli e cavalli492 (erano stati mangiati
durante l’assedio)493; cosicchè nei primi giorni egli fece
poco e lento cammino494. Intanto Ottaviano andava con il suo
esercito a Bologna, a preparare il solenne trasporto delle salme di
Irzio e di Pansa.
[43 a. C. Maggio.] Queste cose furono note a Roma nei primi giorni
di maggio, proprio quando dalla fallace universale persuasione che
Antonio fosse spacciato una nuova confusione nasceva. La vittoria di
Modena – curiosa contradizione che è la maggiore prova della
dissoluzione politica delle alte classi di Roma – aveva nuociuto
proprio alla autorità dell’uomo che ne aveva il merito
più grande. Cicerone capiva essere necessario approfittare
subito del grande disordine in cui versava il partito cesariano e
percuoterlo a morte, incominciando a distruggere per davvero
Antonio; onde smaniava d’impazienza e tempestava Senato e senatori
affinchè non si assopissero nella beata illusione di una
vittoria che era precaria: ma, morti i consoli, il governo della
repubblica era commesso a un oscuro pretore, Aulo Cornuto,
cioè a nessuno; se durante l’assedio di Modena il pericolo
aveva incitato un poco il vigore della stanca assemblea, ora il
maggior numero, che era stato tratto recalcitrante alla guerra e
desiderava solo di illudersi che non c’era più motivo di
inquietudine, di sforzo, di lotta, non ascoltava più come
prima l’oratore delle Filippiche, e teneva i suoi discorsi per
smanie di un vecchio esaltato. Inoltre facevano di nuovo capolino i
discordi interessi privati, le sorde rivalità personali, i
meschini puntigli dei singoli; onde non sì poteva più
deliberare nessun provvedimento grave, perchè l’assemblea
interponeva sempre alla fine qualche lunghezza o differimento, e non
approvava che espedienti dilatori. Cicerone non si sentiva
più il Senato in mano, come nel mese precedente; e si
accorgeva che la morte di Pansa era stata una disgrazia anche per
lui, perchè, non ostante le sue tergiversazioni, l’autorevole
consolare era almeno un uomo di vigore e di senno495. Quelle prime
notizie dell’inseguimento aggiunsero una nuova difficoltà,
riaccendendo l’antica discordia tra i fautori di Ottaviano e i suoi
nemici, sopita nel partito conservatore durante la guerra. Molti
membri del Senato si sdegnarono contro Ottaviano, che restava
neghittoso a Bologna496; i parenti dei congiurati sempre in
sospetto, i nemici, gli invidiosi del giovane – ed erano tanti –
approfittarono di questo malcontento per nuocergli; due senatori
anzi, Lucio Emilio Paolo fratello di Lepido e Livio Druso, proposero
di dare a Decimo il comando delle legioni veterane reclutate da
Ottaviano497. Altri invece, tra i quali Cicerone, che capivano la
vittoria non essere ancora definitiva, raccomandavano prudenza,
consigliavano l’accorgimento di carezzare ancora Ottaviano per
servirsene almeno a presidiare l’Italia498. Questa idea era
così savia che nel lontano Oriente il più intelligente
dei congiurati, Cassio, pare non fosse alieno in quel tempo da
tenere pratiche per un accordo con lui499. Difatti la proposta di
Emilio e Livio fu giudicata troppo ardita; e il Senato non
l’approvò temendo che i soldati non obbedirebbero500. Tanto –
così probabilmente molti giustificavano questa debolezza
pericolosa – di quelle legioni non c’era bisogno; Decimo bastava da
solo con le sue! Anzi non gli si intimò nemmeno di inseguire
Antonio, i più illudendosi di nuocergli, togliendo a lui una
occasione di segnalarsi, che era invece riserbata tutta a Decimo.
Senonchè dei sospetti erano nati; i quali crebbero quando di
lì a qualche giorno giunsero a Roma lettere di Ottaviano
sollecitanti il Senato a dare ai suoi soldati le ricompense
promesse501. Non solo non combattevano, ma volevano denaro, e in
quale misura! non i 2000 sesterzi che il Senato aveva deliberato il
4 gennaio di dare alle due legioni ribellatesi; ma la somma
decuplicata poi da Ottaviano se si vinceva, 20 000 sesterzi per
ogni soldato, non solo alle due legioni ribellate, ma a tutte le
cinque legioni!502 Nè gli uni nè gli altri
immaginavano che il giovane tanto sospettato si trovava allora a
Bologna in un grande impiccio e non sapeva proprio che fare con il
suo esercito. Egli non poteva solo, alla testa di cinque legioni,
rivoltarsi contro il Senato; e quindi preparava, sia pur lentamente,
le quattro legioni di Pansa, per mandarle a Decimo503: ma lasciava a
Ventidio libero il passo dell’Appennino e restava in una piccola
città della Gallia ozioso capo di un esercito inutile, senza
osare di ribellarsi a quel Senato che a sua volta non osava
comandargli, studiandosi solo di mostrare ai soldati il proprio zelo
per la loro sorte con quelle sollecitazioni al Senato. Tuttavia a
queste sollecitazioni non si poteva non rispondere; cosicchè,
azzuffandosi nel Senato senza volontà gli avversari e gli
amici di Ottaviano, coloro che volevano concedere poco alle legioni
e quelli che inclinavano a largheggiare, si approvarono alla fine
deliberazioni intermedie e discordi: si deliberò che solo le
due legioni ribellate, secondo la lettera del senatusconsulto,
riceverebbero le ricompense e non 20 ma 10 000 sesterzi; si
deliberò poi che questa risposta sarebbe comunicata ai
soldati direttamente da una ambasceria del Senato, quasi a
dimostrare che essi dipendevan da questo e non da Ottaviano504; si
deliberò infine e quasi a compenso, su proposta di Cicerone
che non voleva irritare i soldati, di nominare una commissione di
dieci membri, tra i quali Cicerone, per pagare subito il donativo e
cercare terre a quattro legioni. Due erano certamente le legioni
ribellate, le altre due non sappiamo: forse le veterane di Decimo
Bruto505. Forse anche, per mostrare il proprio zelo ai veterani, si
incaricò in questa seduta Lepido e Planco di fondare alla
confluenza del Rodano e della Saona quella colonia, che poi divenne
Lione. Insomma il Senato rispondeva ai soldati con equivoche
deliberazioni che insospettirebbero il generale, e con nuove
promesse, che non era in grado di mantenere; perchè le terre
in Italia che si potevano distribuire eran pochissime, tranne che si
volessero comprare a carissimo prezzo; e perchè l’erario era
vuoto, i tributi delle ricche provincie d’Oriente essendo
sequestrati per via da Bruto, da Cassio, da Dolabella. Cicerone
pensava con spavento che per mantenere le promesse ai soldati
bisognerebbe imporre all’Italia, che oramai da tanto tempo non
pagava più imposte tranne la vigesima sul prezzo degli
schiavi e la gabella sulle cose importate, il tributum o prestito
forzoso di guerra; imporre questo prestito forzoso, proprio quando
in Italia l’oro e l’argento non correvano più e
difficilissimo diveniva il credito; quando tanti, anche nella classe
agiata, erano costretti a vendere a prezzi di disperazione case,
ville, campi, oggetti d’arte, crediti, per procurarsi il contante.
Mentre il Senato deliberava queste cose a Roma, l’infaticabile
Antonio aveva scalate il 30 aprile le montagne liguri; per sei
giorni aveva camminato sulla via da Acquae Statiellae a Vado per
monti selvaggi e deserti, domandandosi se Ventidio non si fermerebbe
o non sarebbe disfatto o non tradirebbe per via; sottoponendosi, per
incoraggiare le legioni, a tutti i disagi come un soldato semplice,
mangiando come i soldati le radici e gli animali immondi che si
potevano trovare in quella desolazione506, arrivando infine il 5
maggio a Vada Sabatia (Vado). A Vado non trovò Ventidio507,
che dovendo percorrere cinquanta miglia più di lui non poteva
ancora essere giunto; ma trovò probabilmente notizie di lui,
mandate avanti. Perciò, spedito innanzi Lucio con un corpo di
cavalleria508 e qualche coorte, si fermò ad aspettarlo per
impedire che l’esercito inseguitore, giungendo a Vado prima che
Ventidio, si interponesse tra loro. Ma giungerebbe Ventidio prima di
Decimo? Decimo Bruto riordinandolo alla meglio e allenandolo per
via, aveva potuto dopo i primi giorni affrettare un poco il passo
del suo esercito ed il 5 maggio, poco dopo l’arrivo di Antonio a
Vado, giungeva a Tortona, dove gli era stata riferita la falsa
notizia, non si sa se nata per caso o sparsa ad arte, che Ventidio
si era già unito a Vado con Antonio509. L’inseguitore
credè un momento alla voce; scrisse una lettera desolata a
Cicerone; lo pregò anche di fargli mandare denaro,
perchè ne scarseggiava510. Ma nella notte dovè
persuadersi che la notizia non era vera, se la mattina seguente
trasse l’esercito nei monti verso Acqui; e se il 6, il 7, l’8 maggio
camminò indefesso, giungendo nella giornata del 9 a trenta
miglia da Vado511. Qui egli ebbe finalmente notizie più
veraci su Antonio. Ventidio era arrivato forse il 7, e Antonio per
un momento aveva potuto credersi in salvo. Ma poche ore dopo gli era
toccata una amara delusione: le tre legioni erano stanchissime; e
quando Antonio il giorno 8 le aveva arringate dichiarando di voler
raggiungere Lepido, spaventate dalla proposta di camminare
più che cento miglia ancora in quelle aspre regioni, si erano
rifiutate, gridando di voler tornare in Italia anche a costo di
morirvi. Antonio aveva dovuto promettere loro di avviarle il
dì dopo su Pollenzo, mentre egli con i suoi sarebbe andato
nella Gallia Narbonese512. Decimo Bruto, sapute queste notizie,
mutò cammino e si avviò in gran fretta verso Pollenzo,
giungendovi infatti un’ora prima dell’avanguardia di Ventidio e
rendendo con ciò un grande servigio ad Antonio513;
perchè, respinte da Pollenzo, le tre legioni si rassegnarono
a tornare sulla via della Gallia e seguirono, a due giorni di
distanza, Antonio514.
A Roma, quando si seppero queste cose nella terza decade di maggio,
Cicerone si confermò nella persuasione che bisognava non
disgustare Ottaviano; ma i nemici di Antonio e i molti invidiosi di
Decimo accusarono invece costui di essersi lasciato scappare il
fuggiasco per imperizia515; e tanto più si irritarono, quando
di lì a qualche giorno giunsero altre lettere sue in cui
raccomandava, come Cicerone, di carezzare Ottaviano e di chiamare in
Italia Marco Bruto516. Questa proposta era stata messa innanzi anche
a Roma in quei giorni, per calmare l’inquietudine delle notizie di
Antonio, insieme con quella di far venire in Italia la legione di
stanza in Sardegna e di affrettare il viaggio di quelle d’Africa517.
Si seppe intanto che Lucio Antonio era giunto l’8 maggio a Forum
Julii518. Ma ad accrescere la irritazione a Roma, ritornarono di
lì a poco, verso la fine di maggio, gli ambasciatori andati
al campo di Ottaviano a parlare ai soldati, ai quali il figlio di
Cesare aveva preparata una ben strana accoglienza. Entrati i messi
nel campo e raccolti i soldati, questi si erano rifiutati di
ascoltare l’ambasceria se Ottaviano non era presente, e quei
meschini avevan dovuto acconciarsi; Ottaviano era venuto e gli
ambasciatori avevano esposte le deliberazioni del Senato: ma il
sentimento che noi chiameremmo spirito di corpo o solidarietà
tra commilitoni, era così esaltato in quei tempi, che tutti,
i premiati e i delusi, avevano protestato, quelli anzi con maggior
furore di questi519. Neanche della commissione agraria erano
contenti; ma si lagnavano che Ottaviano non fosse stato scelto a
farne parte520. Chi mai potrebbe soddisfare quegli insaziabili? Era
questo un primo segno del pericolo che minacciava dalla parte di
Ottaviano, il quale, non ostante le illusioni di molti a Roma, non
potrebbe restare a lungo in quella oziosa neghittosità. A
muoverlo, se non bastava la forza delle cose, provvederebbero quelli
che gli stavano dattorno, che non erano conservatori ma antichi
ufficiali e soldati di Cesare; i quali, se avevano impugnate le armi
contro Antonio, avevano tutti troppo grande e vecchio odio contro i
conservatori, troppa paura che avvenisse una restaurazione
conservatrice sulle rovine del partito cesariano. Perciò
molti mettevano male tra lui e Cicerone, raccontandogli perfino che
Cicerone avrebbe detto che bisognava farlo uccidere521, lo
incitavano a procedere audacemente522: i conservatori lo avevano
fatto propretore, ma avrebbero cercato di distruggerlo, come
già cercavano di screditarlo chiamandolo il ragazzo; ora che
Antonio sembrava per metà rovinato dalla disgrazia, si
affrettasse a mettersi a capo del partito cesariano, che non aveva
più duce. Non aveva egli, sia pure sull’esempio di Erofilo,
dato principio a quella agitazione per la vendetta di Cesare, che
Antonio aveva poi imitata con tanta fortuna? E non era egli, figlio
adottivo ed erede, in grado di continuare questo movimento con
maggiore efficacia che ogni altro? I due posti di console erano
vacanti; e parte per difficoltà legali, parte per la ressa
degli ambiziosi, non si erano ancora fatte le elezioni: si
proponesse dunque candidato al consolato, presentandosi alla plebe
come il figlio di Cesare, pronto a compiere per la plebe e pei
soldati tutti i disegni che al padre erano stati troncati dalla
congiura. In Roma non si era ancora visto un console di diciannove
anni; ma i tempi erano così strani! Egli sarebbe eletto
sicuramente; ed eletto sarebbe il capo del partito cesariano.
Ottaviano, lusingato da queste adulazioni, tratteneva una delle
legioni di Pansa e si accingeva a reclutarne altre due523, ma
esitava: era molto inquieto per l’intenzione ormai chiara di
togliergli l’esercito, che mostrava una parte del partito
conservatore524; ma poteva egli solo mettersi a capo del partito di
Cesare, senza almeno l’aiuto di qualcuno tra i più potenti
governatori delle provincie vicine all’Italia? Di tempo in tempo
egli pensava se non potesse riconciliarsi con Antonio; e trattava
bene i soldati di lui prigionieri; e ne rimandava libero qualche
ufficiale, dopo avergli fatto balenare con mezze parole che non era
alieno da venire ad accordi!525 Ma a Roma ben pochi sospettavano
queste cose; molti si compiacevano che il giovane fosse costretto a
restare ozioso a Bologna; e tutti di lì a poco, verso la fine
di maggio, perderono la speranza che Antonio avrebbe avuta per mano
di Decimo la sorte di Catilina. Fallito il disegno di impedire la
unione di Antonio e di Ventidio, Decimo non aveva osato avventurare
le sue legioni novizie nella selvaggia Liguria; ma considerando che
se i fuggiaschi fossero accolti da Lepido sarebbe necessario fare
guerra anche a Lepido, aveva deliberato di andare a raggiungere
Planco nelle Gallie, tornando nella Cisalpina e attraversando quella
regione che ora si chiama Piemonte. Planco doveva essere console con
lui l’anno prossimo; potevano quindi considerarsi a vicenda
già quasi come colleghi e operare unitamente. Aveva scritto
perciò subito a Planco e riposato qualche giorno a Pollenzo
l’esercito che soffriva di dissenteria526; poi, intorno al 17 di
maggio, voltate le spalle alla Liguria, si era incamminato verso la
valle del Po. Ormai era dunque certo che Antonio giungerebbe sano e
salvo sino a Lepido; onde tutti a Roma incominciarono a domandarsi
ansiosamente che cosa farebbe Lepido. Tratterebbe Antonio da nemico,
come diceva nelle lettere?527 O era già d’accordo con lui,
come affermavano molti maligni?528 Era difficile davvero argomentare
le intenzioni del proconsole dagli atti suoi. All’avvicinarsi di
Lucio Antonio, il suo ufficiale Culleone, che guardava il confine
della provincia, si era unito a lui, invece di contrastargli il
passo529; ma nel tempo stesso Lepido scriveva a Planco dicendosi
risoluto a combattere Antonio, domandandogli rinforzi di cavalleria;
e si muoveva davvero contro di lui. Che cosa intendeva dunque di
fare? Planco invece pareva amico sicuro dei conservatori: aveva
disceso il corso dell’Isère sino a Cularo (Grenoble); aveva
fatto un ponte e passato il 12 maggio l’esercito, spedendo poi in
avanti 4000 cavalieri in fretta al comando del fratello, appena
avuta notizia dell’arrivo di Lucio a Forum Julii530. E intanto,
mentre a Roma tutti badavano a Lepido, Ottaviano, comprendendo
essere pericoloso perdere ancora del tempo e non sentendosi l’animo
di un partito risoluto, tentava di nuovo un giuoco doppio: da una
parte scriveva a Lepido e ad Asinio, per indagare se sarebbero
disposti a riconoscerlo come capo del partito di Cesare531;
dall’altra scriveva a Cicerone di proporsi a console prendendo lui a
collega: egli così giovane si lascerebbe guidare in ogni cosa
da lui, lo aiuterebbe a salvare la repubblica532. E a Cicerone la
proposta non dispiaceva; ma era ormai quasi esautorato e paralizzato
dalla crescente e dispettosa avversione dei conservatori per il
giovane; onde non osava dichiararsi.
Degli altri nessuno sapeva più quel che si volesse, nella
confusione universale. Solo Antonio correva diritto e risoluto al
fine suo. Mentre Decimo Bruto, raggiunto da tre delle quattro
legioni di Pansa, lentamente si avviava per Vercelli ed Ivrea verso
la Valle d’Aosta e il Piccolo San Bernardo533 (usiamo i nomi
moderni); Antonio, giunto il 15 maggio a Forum Julii534
(Fréjus), si avanzava arditamente verso l’esercito di Lepido
composto di sette vecchie legioni di Cesare, che era a Forum Voconii
ventiquattro miglia distante535. Il momento critico avvicinava.
Potevano queste legioni impugnare le armi contro un loro antico
generale, il quale giungeva alla testa di tanti vecchi commilitoni
come il perseguitato vendicatore di Cesare, a domandare aiuto per
sè, per il partito che voleva mantenute le antiche promesse e
ne aggiungeva di nuove, in un tempo in cui tanto si esaltava lo
spirito di solidarietà tra gli antichi eserciti del
dittatore? In verità il proconsole della Narbonese disperava
di poter resistere alla inclinazione dei soldati per Antonio; ma,
uomo debole e mediocre, voleva farsi far violenza dai soldati,
illudere gli altri e sè stesso di essere stato costretto. E
Antonio secondò abilmente questo segreto desiderio del
collega, dando principio a una commedia ben bizzarra, non appena tra
il 15 e il 20 maggio i due eserciti si alloggiarono sulle due sponde
del piccolo fiume Argenteus536: Antonio, senza far drizzare
l’accampamento e quasi offrendo il petto al nemico, se aveva cuore
di colpire; Lepido, fortificando e guardando il campo come se avesse
innanzi un nuovo Annibale537. Quando Silano e Culleone comparvero
nel campo, Lepido li rimproverò aspramente per aver aiutato
Antonio e poi.... li punì lasciandoli in ozio, per
misericordia, come egli scrisse al Senato538; mandò a
sollecitare Planco, il quale dopo aver ricevuta la lettera di Decimo
si era fermato ad aspettarlo a Grenoble, ma nel tempo stesso
lasciava unire i due campi con un ponte di barche539; accoglieva un
gran numero di falsi disertori, che sotto colore di abbandonare
Antonio venivano invece nel suo campo a intrigare per lui, fingendo
di crederli disertori veri e scriveva perfino al Senato che
l’esercito di Antonio diminuiva a vista d’occhio540; rassicurava il
Senato che le sue legioni non sarebbero venute meno al dovere541, e
poi lasciava che fossero senza tregua tentate alla ribellione dagli
ufficiali, specialmente da due che si chiamavano Canidio e
Rufreno542, dai messaggi di Antonio, portati non si sapeva da chi,
mormorati e ingranditi da orecchio ad orecchio543. Un giorno
Antonio, forse credendo il frutto maturo, andò con i capelli
scarmigliati, la barba lunga, una veste nera, sulle rive
dell’Argenteo, là dove il ruscello era più piccolo; e
incominciò ad arringare di là dal fiume i soldati di
Lepido.... Trassero questi in gran folla e il campo fu messo a
romore; ma Lepido ebbe paura di un tradimento così palese,
accorse con i trombettieri e assordò i soldati in modo da non
far loro intendere una sillaba di quello che Antonio diceva544.
Ricominciarono tra i due campi il via vai e gli intrighi; i soldati
della decima legione si sbracciavano a persuadere i compagni545; il
solo ufficiale che fosse sinceramente, fermamente devoto alla causa
conservatrice, un certo Juvenzio Laterense546, ammoniva
continuamente Lepido sul pericolo di una rivolta, lo consigliava di
prendere questo o quel provvedimento547: Lepido faceva sembiante di
spaventarsi, ringraziava, assicurava che farebbe; e poi non faceva
nulla. Anzi scriveva a Planco, il quale era partito il 21 lasciando
intatto il ponte per Decimo, di non venir più al soccorso548;
e lasciava impunemente i soldati fare dimostrazioni in favore di
Antonio anche in sua presenza549. In breve, qualche giorno dopo,
all’alba del 29 maggio550, il frutto maturo si spiccò dal
ramo. Antonio guadò con un piccolo gruppo di soldati il
ruscello; dal campo i soldati di Lepido ruppero la palizzata, gli
vennero incontro, lo presero in mezzo e lo portarono acclamando alla
tenda di Lepido, che era ancora in letto e che uscì fuori
discinto ad abbracciare e baciare Antonio551. In mezzo al tripudio
del campo, Laterense si uccise sotto gli occhi dei soldati552. Il
dì seguente Lepido scrisse una breve lettera al Senato, che
si direbbe canzonatoria: raccontando che la pietà aveva vinto
i soldati e anche lui; che sperava non apporrebbero a delitto la
misericordia sua e delle legioni!553
[43 a. C. Giugno.] A Roma, quando verso l’8 di giugno si ebbe
notizia di questo evento, grande fu lo sdegno e lo sgomento. Il
Senato deliberò alla fine precipitosamente tante cose che
erano invano proposte da tanto tempo: che Marco Bruto e Cassio
venissero con l’esercito in Italia; che si affrettasse l’arrivo
delle legioni africane; che Sesto Pompeo fosse posto a capo della
flotta con il titolo di praefectus classis et orae maritimae e con i
poteri che suo padre aveva avuto durante la guerra contro i
pirati554; che si imponesse il tributum o prestito forzoso di
guerra. Infine si affidò a Ottaviano il comando della guerra
contro Antonio, credendo così di placarlo555. Ma una nuova
difficoltà nacque: la proscrizione di Lepido. Cicerone,
sempre pronto ai propositi risoluti, la aveva subito proposta; ma
Lepido aveva troppi parenti e troppi amici a Roma; ma sua suocera,
la potente Servilia, si affannava tanto a salvarlo!556 Si
riuscì a far differire la deliberazione; e si perdè
così l’effetto della prontezza, che nelle rivoluzioni
è il maggiore. Qualche notizia migliore giunse di lì a
poco: Planco, ricevuta notizia di quel che era avvenuto il 29 maggio
sull’Argenteo, era tornato indietro557; Decimo aveva, per Vercelli e
Ivrea, risalita la valle d’Aosta, dove gli astuti Salassi,
minacciando di chiudergli la via, gli avevano fatta pagare una
dramma per soldato558; e, valicato il Piccolo San Bernardo, si era
unito con Planco a Grenoble nella prima metà di giugno. Ma
poi scoppiò all’improvviso uno scandalo. Ottaviano commetteva
in quel momento supremo un errore gravissimo: volgeva di nuovo il
pensiero all’accordo con i conservatori e pensando di potere in
quello sgomento indurre il Senato a concedergli la dispensa per il
consolato, incitò di nuovo Cicerone a fare la proposta559. E
Cicerone questa volta, sedotto dall’ambizione di essere console la
seconda volta, si risolvè.... Ma la nuova ambizione di
Ottaviano fu questa volta giudicata così male, non solo dagli
irosi conservatori, ma da tutto il pubblico imparziale, che nessun
magistrato osò prendere parte per lui; e Cicerone dovè
deporre l’idea, cercare di dissuaderlo560. Anzi gli animi di molti
già avversi a lui si inasprirono ancora di più; si
disse che aveva fatto assassinare Irzio nella battaglia e avvelenare
Pansa ferito per l’ambizione del consolato561. Cosicchè ben
presto tutti ricaddero nella consueta incertezza, e verso la fine di
giugno nessuno faceva più nulla: Planco e Decimo aspettavano
Ottaviano; Ottaviano, ormai certo che la speranza del consolato era
vana, scriveva che verrebbe subito, ma non si muoveva562; Antonio
riordinava le sue legioni con l’aiuto di Lepido, ma restava nella
Narbonese; molti si immaginavano che Bruto e Cassio arriverebbero da
un giorno all’altro, e invece non si riceveva alcuna lettera. Cassio
era lontano, in gran travaglio per combattere Dolabella; e quanto a
Bruto.... Il debole e nervoso cospiratore era ricascato in una
grande prostrazione fisica e morale, soffriva di stomaco563, si
lasciava menare per il naso dall’astuto Caio Antonio, invece di
applicare anche a lui il decreto di proscrizione contro i seguaci
del fratello fatto il 26 aprile; biasimava aspramente, abbindolato
da costui, la benevolenza di Cicerone per Ottaviano564; si ostinava
nell’idea di venire piuttosto a ragionamenti d’accordo con Antonio;
si angustiava molto per la imminente proscrizione di Lepido e
scriveva agli amici di Roma raccomandando loro la sorella e i nipoti
che la proscrizione rovinerebbe565; non faceva nessun apparato per
passare il mare e venire in Italia, anzi pensava a una spedizione
contro i Bessi. A Cicerone toccava insomma il supremo dolore delle
rivoluzioni: azzuffarsi con gli amici più cari, venire in
discordia anche con Bruto! Alla fine il 30 giugno Lepido fu
dichiarato nemico pubblico; ma si interpose un nuovo differimento
tra la minaccia e il castigo: si diè tempo ai soldati di
ottenere il perdono sino al 1° settembre, abbandonando il
proconsole566.
[43 a. C. Luglio.] Senonchè le cose erano ormai in
così veemente movimento che dovevano precipitare, non ostante
le paure, le esitazioni, le incertezze, gli sforzi di tanti per
trattenerle. Antonio e Lepido non indugiavano senza ragione nella
Gallia Narbonese. I congiurati e i conservatori, non ostante la
paura di cui erano pieni, avevano riconquistato quasi tutto
l’impero, di cui Antonio pareva nel luglio e nell’agosto precedente
avere loro tolta la signoria: avevano in Europa le dieci legioni di
Decimo che era sicuro, le cinque di Planco e le tre di Asinio, che
parevano fedeli; forse anche le otto di Ottaviano, che nessuno
capiva bene quel che volesse fare: avevano inoltre conquistato
l’Oriente, dove Bruto aveva accresciuto a sette il numero delle
legioni con nuovi reclutamenti e dove Cassio con le sue dieci
legioni vincerebbe presto Dolabella. Inoltre Sesto Pompeo da
Marsiglia veniva raccogliendo in tutti i porti del Mediterraneo
navi, comprava e arruolava marinai in Africa, preparava una armata.
Che cosa potrebbero essi fare contro tanti nemici con sole
quattordici legioni? Era necessario ricomporre un grande esercito
cesariano in Occidente, inducendo il maggior numero dei generali di
Europa a unirsi a loro o portando loro via le legioni se ricusavano;
non era più possibile ostinarsi nella inimicizia con
Ottaviano. Per fortuna a riconciliare i due rivali era pronto il
necessario paciere, l’onesto sensale di questo grande mercato
politico: Lepido567, il più anziano dei tre, il vecchio amico
di Cesare, che era rimasto in disparte dalla contesa. Pratiche
furono avviate con Planco ed Asinio, che erano stati amici di
Cesare; e messaggi furon mandati ai loro eserciti a spandere inviti,
sospetti, promesse, per ripetere il doppio gioco di trarre i soldati
per mezzo dei generali e i generali per mezzo dei soldati: pratiche
di riconciliazione furono pure avviate con Ottaviano da Lepido. Il
momento era opportuno. Ottaviano, ormai deluso nelle speranze poste
per il consolato sui conservatori e il Senato, spaventato di vedere
rinata a un tratto la forza del nome di Pompeo e il giovane Sesto
già investito di una autorità maggiore che la sua, si
ricordava nuovamente sui primi giorni di luglio di essere il figlio
di Cesare; e abbandonata l’idea di accordarsi con i conservatori,
riprendeva a gareggiare con Antonio come agitatore della causa
cesariana. Fece naturalmente buon viso alle offerte di Lepido; e
incoraggiato da queste, indusse copertamente i soldati a fare delle
dimostrazioni in cui gridarono che non avrebbero mai combattuto
contro soldati di Cesare568; si finse, come Lepido, violentato dalle
legioni; tenne loro degli ardenti discorsi in lode del padre,
promettendo che, eletto console, provvederebbe a dare loro le
ricompense; e così alla fine li persuase a mandare a Roma una
deputazione di centurioni e soldati a domandare queste ricompense,
la elezione di Ottaviano a console e l’annullamento della
proscrizione di Antonio569. L’ambasciata giunse a Roma verso il
15570 di luglio, proprio quando i conservatori erano inquieti, non
ricevendo notizia che Bruto venisse in Italia; quando Cicerone era
quasi interamente screditato dalle mene sempre più sospette
di Ottaviano; quando da tutta Italia giungevano notizie sul grande
scontento di cui era cagione anche nelle classi ricche il
tributum571. Comparvero invece baldanzosi i centurioni nell’aula del
Senato! Ma la loro insolenza irritò talmente, che alla fine
il Senato li mandò via in malo modo572. Nella terza decade di
luglio Ottaviano conobbe questa risposta; e allora, sempre
incoraggiato dalle speranze dell’accordo con Antonio e Lepido, si
risolvè a tentare il supremo ardimento: quando i soldati si
recarono da lui a offrirgli le insegne consolari, fingendo di esser
costretto accettò e si mise in cammino con le otto legioni.
Se le prime mene di Lepido e Antonio avevano indotto Ottaviano ad
atteggiarsi nuovamente a cesariano e a demagogo, questa audace mossa
di Ottaviano a sua volta incitò Antonio e Lepido a sobillare
con indefessa alacrità gli eserciti di Planco e di Asinio, a
tentare anche quelli di Decimo. Era necessario che essi non si
lasciassero superare dall’antico rivale e nuovissimo amico! Uno
sfrenato turbine di promesse infuriò attraverso le milizie
mentre Ottaviano marciava su Roma, e facendo tremare la
fedeltà delle legioni alle sue basi scosse la volontà
già esitante dei generali: ancora una piccola spinta e gli
eventi precipiterebbero nella china fatale. La spinta la darebbe
Ottaviano, se la sua spedizione riuscisse, risollevando dappertutto
gli spiriti della parte cesariana, dando coraggio agli incerti. A
Roma all’avvicinarsi dell’esercito scoppiò un panico immenso;
le donne e i bambini furon riparati nelle ville vicine e le case
barricate573; il Senato spedì alle legioni messi con il
denaro promesso per fermarle; Servilia convocò il 25 luglio a
casa sua Casca, Labeone, Scapzio e Cicerone, che si disperava
pensando essere egli stato il primo autore della potenza di
Ottaviano574. Deliberarono insieme un nuovo invito a Bruto
affinchè venisse in Italia575. Servilia, Niobe dell’ultima
rivoluzione di Roma, simboleggiante con la sua famiglia la tragica
discordia di quell’aristocrazia troppo potente, aveva un genero a
capo e un figlio nell’esercito che innalzava lo stendardo della
vendetta del suo grande amico, contro i due capi della congiura che
erano un figlio ed un genero suo! Ma Ottaviano indusse i messi del
Senato a tornare indietro, facendo loro credere che lungo la via
fossero appostati molti sicari576; e allora la maggioranza del
Senato spaventata si rivoltò contro i Pompeiani, non
sentì che la propria paura e in un eccesso di vigliaccheria
cedè in ogni cosa: deliberò che si dessero i
20 000 sesterzi, non alla sola legione di Marte e alla quarta,
ma a tutte; che Ottaviano fosse nella commissione per l’assegnazione
delle terre; che potesse domandare in assenza il consolato. E
inviò messi velocissimi ad annunciare ogni cosa al giovane
generale577. Ma i messi erano appena partiti che si seppe essere
giunte ad Ostia le legioni dell’Africa – quella di Sardegna sembra
fosse già in Roma da qualche tempo –; i pompeiani, i parenti
dei congiurati, Cicerone ripresero potere sulla maggioranza
indifferente, la indussero con una nuova paura ad annullare le
deliberazioni, indissero la leva, fortificarono la città;
cercarono anche la madre e la sorella di Ottaviano per tenerle in
ostaggio578. Cosicchè i messi del Senato, arrivati appena
all’esercito, furono raggiunti da altri che disdissero tutto quello
che avevano detto, irritando ancora più i soldati579.
Ottaviano allora mandò innanzi emissari che si mescolassero
al popolo nelle taverne, sul Foro, nelle viuzze dei quartieri plebei
per tranquillarlo, assicurandolo che egli veniva senza malvagie
intenzioni, e che persuadessero con promesse le legioni d’Africa
(erano antiche legioni di Cesare) a ribellarsi. Al suo arrivo a
Roma, quando le legioni d’Africa e di Sardegna si dichiararono per
lui580, tutti furono trascinati; la città si arrese e dei
conservatori, pochi giorni prima così potenti ed ora
annichilati, i più arrabbiati fuggirono. Il giorno dopo il
figlio di Cesare entrò in Roma con una scorta;
abbracciò sul Foro la sorella e la madre, che erano state
nascoste dalle Vestali nel tempio; fece un sacrificio a Giove
capitolino; ricevè molti senatori e Cicerone, con il quale
pare avesse un colloquio piuttosto freddo; poi ritornò fuori
all’esercito, mentre il Senato preparava l’elezione. Il 19 agosto,
compiute rapidamente le formalità, egli e il suo parente
Quinto Pedio erano eletti consoli581.
[43 a. C. Agosto.] E allora quello che i conservatori avevano temuto
da un anno, avvenne: dopo aver fatta convalidare dai comizi curiati
la sua adozione; dopo avere sborsata con denari pubblici ai soldati
una parte del premio e al popolo una parte del legato di Cesare,
Ottaviano fece a pieno ciò che Antonio aveva osato soltanto a
metà: fece proporre da Q. Pedio e facilmente approvare dai
comizi una legge contro tutti gli autori e i consapevoli della
uccisione di Cesare, perchè fossero condannati
all’interdictio aqua et igni e alla confisca da un tribunale
speciale582. Un’altra volta la capricciosa fortuna aveva rovesciate
le sorti dei partiti. L’amnistia del 17 marzo 44, il capolavoro di
Cicerone, era annullata; Erofilo, l’oscuro veterinario della Magna
Grecia che primo aveva incitato il popolino a vendicare il dittatore
trucidato, vinceva; avevano avuto ragione coloro i quali non si
erano mai fidati di Ottaviano. E difatti in pochi giorni gli amici
di Ottaviano, allettati dalla parte dei beni del condannato che
spettava all’accusatore, si spartirono i congiurati come una preda e
ciascuno accusò questo o quello; cosicchè in breve
furon tutti condannati in contumacia: anche Casca, che era tribuno;
anche Bruto, che allora combatteva contro i Bessi; anche Cassio, di
cui Agrippa fu l’accusatore; anche Decimo, che unitosi con Planco
aspettava i soccorsi di Ottaviano per combattere Antonio; anche
Sesto Pompeo, che dell’uccisione di Cesare non aveva colpa alcuna,
ma che – delitto maggiore – aveva ricevuti i poteri straordinari di
suo padre nella guerra dei pirati583. Il partito cesariano era
padrone in Roma, nella repubblica e in Italia, con Ottaviano a capo
di un esercito di undici legioni; nella Gallia Narbonese, con le
quattordici legioni di Lepido e Antonio: l’effetto di questo
successo non tardò molto. Asinio Pollione, i cui soldati
già da tempo vacillavano, che era ben disposto verso
Ottaviano per gratitudine a Cesare, e che solo al fondo della Spagna
con tre legioni non poteva far nulla, si risolvè alla fine e
in settembre divise le sue legioni tra Antonio e Lepido, dandone due
al primo, una al secondo584. Restavano i due eserciti di Bruto e di
Planco: ma Planco, se per la paura di perdere il consolato dell’anno
prossimo, era stato sino allora così fedele al Senato, non
poteva non abbandonare Decimo Bruto dopo la sua condanna, se non
voleva cimentarsi nel tempo stesso con Antonio, Lepido, Ottaviano ed
Asinio585. Egli e Decimo avevano quindici legioni; gli altri insieme
ventotto: poteva egli, mediocre capitano, osare tanto? E anche
Planco tradì. Delle sue cinque legioni tre furono prese da
Antonio, due da Lepido586. Decimo, abbandonato da Planco e
proscritto, tentò di raggiungere per via di terra Bruto sino
in Macedonia con il suo esercito e si pose in cammino; ma le
promesse che avevano già vinto tanti eserciti, l’esempio, una
specie di furore cesariano che pervadeva le milizie travolsero nel
vortice comune anche queste legioni, che la lunghezza e asprezza del
viaggio spaventava. Per la strada i soldati, alla spicciolata, in
piccoli drappelli, in coorti cominciarono ad abbandonarli per
passare ad Antonio e ad Ottaviano; alla fine l’esercito si
sbandò, le quattro legioni vecchie e migliori si avviarono
per raggiungere Antonio e Lepido; le altre sei per andare da
Ottaviano; sinchè Decimo, ridotto a ramingare fuggiasco con
pochi uomini, fu preso da un capo di barbari nelle Alpi, che per
ordine di Antonio, a cui pure Decimo aveva salvato la vita nella
congiura, lo uccise587. Ma egli doveva ormai atteggiarsi a
vendicatore di Cesare per competere efficacemente con Ottaviano! [43
a. C. Settembre – Ottobre.] Il partito conservatore aveva perduto
l’ultimo esercito e l’ultimo generale che gli restasse in occidente;
aveva perduta l’Italia e le provincie d’Europa, senza speranza per
il momento, almeno se tra i capi della nuova rivoluzione cesariana
non scoppiava qualche nuova discordia.
Ma anche questa speranza, se pur qualcuno ancora si illudeva,
svanì presto. La concordia era imposta ormai da un fatto
più forte della volontà e dei capricci di ognuno:
l’esercito di Bruto e di Cassio in Oriente. Cassio aveva vinto in
giugno a Laodicea Dolabella che si era ucciso; gli aveva preso due
legioni portando a dodici il numero delle sue; cosicchè tra
l’uno e l’altro possedevano tutto l’Oriente, cioè la parte
ricca dell’impero, con diciannove legioni. In tutto il mese di
settembre un gran numero di messaggi dovettero esser scambiati tra
Lepido, Antonio e Ottaviano; e a poco a poco il disegno dell’accordo
cominciò ad essere tracciato nelle linee generali. Si
convenne facilmente a distanza nel pensiero di ristabilire la
dittatura di Cesare, spartendola tra loro tre, facendosi nominare
dal popolo triumviri reipublicae costituendae, con i pieni poteri
che Cesare aveva avuto negli ultimi anni. Ma se l’accordo nel
disegno generico era facile, bisognava anzi tutto rassicurarsi a
vicenda con arre di pace, era necessario risolvere tante questioni
secondarie e pur gravi, venire a un convegno: e le due cose erano
piene di difficoltà, tanta era la diffidenza tra Ottaviano ed
Antonio. Dove e come i due rivali si sarebbero ritrovati? Intanto
bisognava avvicinarsi. Ottaviano partì da Roma con le undici
legioni, dicendo che andava a combattere Antonio e Lepido, secondo
gli ordini del Senato588; Lepido e Antonio, lasciato Vario Cotila
nella Gallia transalpina con cinque legioni, scendevano in Italia,
con diciassette legioni e 10 000 cavalli589; mentre erano in
viaggio, Ottaviano fece da Q. Pedio proporre e approvare al Senato
di togliere la proscrizione contro Antonio e Lepido590. Era una
considerevole caparra: ma era pur sempre difficile stabilire un
convegno in modo che non ci fosse luogo a sospetto o a paura! Pure
alla fine si trovò il luogo, ma così singolare, che
basta solo a dimostrare quale opinione avessero l’uno dell’altro i
due politicanti che si accingevano a stringere una alleanza. Si
convenne cioè di ritrovarsi in un isolotto formato presso la
via Emilia e Bologna, alla confluenza del Reno e del Lavino, che
pare sboccasse allora non nel Samoggia ma nel Reno; isolotto che era
collegato alle due rive da due ponti591. In questo luogo tutti e tre
avrebbero potuto passare nell’isola, lasciando ciascuno i soldati al
di là dei due ponti, e parlare sotto gli occhi delle legioni,
senza essere in grado di tentare nessuna violenza o sorpresa. Verso
la fine di ottobre i due eserciti giunsero l’uno in vista dell’altro
al di qua e al di là dell’acqua; si accamparono a una certa
distanza; una tenda fu preparata sulla isola o penisola; e una
mattina Ottaviano da una parte, Lepido e Antonio dall’altra, si
avvicinarono con una scorta ai due ponti che davano sulla piccola
terra. Lepido entrò per primo e solo, osservò che
tutto fosse senza sospetto, fece cenno all’uno e all’altro con la
veste di avanzarsi. Ottaviano e Antonio si avvicinarono, si
salutarono, si frugarono a vicenda per assicurarsi che non avevano
armi; e con Lepido si ridussero sotto la tenda592.
XI.
LA STRAGE DEI RICCHI E FILIPPI.
[43 a. C. Ottobre – Novembre] Quel che si dissero sotto quella tenda
i tre uomini nei due o tre giorni593 che la discussione durò,
non seppero i contemporanei e naturalmente non sappiamo noi;
perchè informazioni autentiche non potevano essere date che
dall’uno o dall’altro dei tre personaggi, ciascuno dei quali ebbe
poi troppe ragioni di buttare la colpa di quel che seguì
sugli altri due. È necessario quindi restringersi a narrare i
risultati, questi pur troppo ben noti, del colloquio. La situazione
doveva apparire ai tre generali – ed era infatti – terribile. Essi
erano costretti a risolvere il “problema di Archimede”, come
dicevano gli antichi; la quadratura del circolo, diremmo noi. Dopo
la lex Pedia e la rivolta di tante legioni, la guerra con Bruto e
Cassio, cioè con l’ultimo esercito del partito conservatore,
era inevitabile; e quindi essi non potevano congedare neppure una
delle 43 legioni di cui erano a capo, non potevano mancare alle
stravaganti promesse fatte a questi 120 000 uomini nel furore
della lotta, dovevano mantenere gli altri 30 o 40 000 uomini,
tra ausiliari e cavalleria, che seguivano il loro esercito. Avevano
fatto il conto all’ingrosso, che per fare la guerra a Bruto e a
Cassio erano necessari più che 800 milioni di sesterzi –
circa 200 milioni di franchi594. Ma i triumviri non avevano denaro;
l’erario, che Ottaviano aveva saccheggiato in agosto per pagare
soldati e plebe, era vuoto; cadute le provincie più ricche
dell’Oriente e specialmente l’Asia in potere dei nemici, non
bastavano più a tanto dispendio le povere provincie d’Europa
e l’Italia disavvezza da più di un secolo a pagare imposte e
anche allora così restia e dura al tributum ristabilito dal
Senato. Insomma questa grande rivoluzione nei comandi militari delle
provincie europee era riuscita, perchè i tre amici avevano
profuso promesse che non potevano mantenere con i modi ordinari. E
allora il sentimento che nella vita spinge a compiere il maggior
numero degli atti temerari, e cioè la paura: la paura di
essere abbandonati dai soldati nella ultima guerra contro i
conservatori, insieme con la fatale necessità in cui
così spesso si trovano i capi delle rivoluzioni di andare
innanzi precipitosamente non essendo più in grado di tornare
indietro, li spinse a prendere risoluzioni terribili, che qualche
mese prima probabilmente avrebbero spaventati tutti e tre. Si
deliberò che tutti e tre d’accordo si sarebbero impadroniti,
spartendoselo, del potere assoluto; che avrebbero con quello fatta
una grande confisca delle classi ricche e appagato alla meglio i
soldati con i loro beni; che poi si sarebbero affrettati a muover
guerra a Bruto e a Cassio in Oriente, non essendo da sperare che
essi venissero ad assalirli in Italia ed urgendo far presto. Le tre
cose erano unite tra loro indissolubilmente: senza il potere
dittatoriale non era possibile fare così grande confisca;
senza la confisca non era possibile intraprendere la guerra.
Ottaviano dunque deporrebbe il consolato; e con legge approvata dai
comizi, non però con il nome di dittatori595 ma di triumviri
reipublicae costituendae, sarebbe loro stata attribuita per cinque
anni oltre il tempo dell’anno in corso, e cioè sino al 1°
gennaio del 37596, una potestà costituente simile a quella di
Silla e di Cesare, che comprenderebbe: la facoltà di fare
leggi597, la giurisdizione criminale senza restrizione, appello e
procedura598, i poteri sovrani dei consoli su tutto lo Stato599, il
diritto di imporre tasse, di indire leve, di nominare i senatori, i
magistrati di Roma e delle città, i governatori delle
provincie600; il diritto di espropriare, assegnare terre, fondare
colonie601, di far coniare le proprie imagini sulle monete602. Le
provincie sarebbero spartite, mentre tutti e tre si accordavano di
provvedere in comune a Roma e all’Italia; Ottaviano, che tra tutti
aveva minor numero di soldati e minore autorità per la sua
giovinezza, avrebbe la parte peggiore603: l’Africa, la Numidia, le
isole; Antonio, la Gallia capelluta e la Cisalpina; Lepido, la
Gallia Narbonese e le due Spagne604. Alla guerra però contro
i due congiurati Lepido, che era cognato di Bruto e di Cassio, non
poteva partecipare: andrebbero perciò Antonio e Ottaviano,
prendendo il comando di 40 delle 43 legioni di cui disponevano, 20
per ciascuno, mentre Lepido resterebbe con tre legioni alla guardia
dell’Italia. Si fece poi una lista di un centinaio tra i più
opulenti senatori e di circa 2000 tra i ricchi cavalieri, alieni
dalla politica e dati ai traffici605, condannando gli uni e gli
altri alla morte e alla confisca dei beni; ai quali si aggiunse un
certo numero di avversari politici, per togliere al partito
conservatore i pochi uomini restati in Italia che avevano vigore e
abilità, per spaventare quelli che volessero ripetere la
congiura delle Idi di Marzo contro i nuovi capi del partito
popolare, per far ciascuno le proprie vendette. Sembra che su questo
punto avessero luogo molte dispute, ciascuno volendo salvare amici e
parenti: ma Antonio era pieno di odio contro i suoi persecutori.
Lepido e Ottaviano pieni di paura; cosicchè alla fine fu
compilata una lista, da cui si scelsero, chi dice dodici e chi
diciassette606 vittime privilegiate, le quali dovevano sicuramente
morire: Cicerone tra questi, da Ottaviano abbandonato alla vendetta
di Antonio. Anzi si mandò ordine a Quinto Pedio di uccidere
subito costoro, prima ancora che la legge sul triumvirato desse loro
facoltà di condannare a morte i cittadini. Deliberarono anche
di promettere solennemente a guerra finita di dare subito ai
veterani di Cesare, che non avevano ricevuto nulla, le terre
promesse dal dittatore607; ma dubito assai che si deliberasse
già allora questa distribuzione nel modo in cui avvenne. Si
nominarono i magistrati per l’anno prossimo – tutti amici,
naturalmente: per quell’anno console, in luogo di Ottaviano,
Ventidio Basso, a ricompensa della fedeltà mostrata ad
Antonio dopo la ritirata da Modena608; e per l’anno prossimo Planco
e Lepido. Si convenne anche, pare a richiesta dei soldati, che
Ottaviano sposerebbe la figliastra di Antonio, la figlia di Clodio e
di Fulvia609.
[43 a. C. Novembre – Dicembre.] Così il dispotismo militare,
che due anni prima era esercitato da un uomo di grande intelletto,
era di nuovo stabilito e, quel che è peggio, spartito fra tre
persone: un uomo ragguardevole, non ostante i suoi difetti; un
ragazzo di venti anni; un uomo mediocre ed oscuro. Chi avrebbe
predetto a Lepido, un anno prima, tanta fortuna? Ma nelle
rivoluzioni avviene sovente che un uomo qualunque, non importa se
mediocre o grande, possa, nella breve stretta di un frangente
supremo, conquistare una condizione eminente in compenso di servigi
per il momento importantissimi e per qualche tempo godersela: quando
poi l’occasione fugace della fortuna si ritrarrà, simile
all’onda altissima della tempesta che cade, riporterà
giù con sè l’uomo salito a altezze immeritate, se
costui non ha saputo aggrapparvisi saldamente in quel breve istante.
Per riconciliare Antonio con Ottaviano e ricomporre la unità
del partito cesariano, era stato necessario un mediatore; Lepido
solo aveva potuto rendere questo servigio; e la partecipazione al
triumvirato ne era il compenso. Quanto durerebbe Lepido in quella
condizione così grande? Non si era già lasciato
indurre a non tenere per sè che tre legioni? Ma di questo
deciderebbe l’avvenire. Intanto era degno di nota – e deve
considerarsi come un altro effetto delle Idi di Marzo – che i tre
complici non osarono chiamarsi dittatori ma riordinatori dello
Stato; che fissarono al loro potere il termine di cinque anni, a
significare che il loro dispotismo era solo una breve parentesi
nella lunga storia costituzionale di Roma. In altre parole essi non
osavano affrontare come Cesare la superstizione repubblicana, il
bigottismo costituzionale delle alte e medie classi, rinvigorito
dopo la strage del dittatore; e nell’atto di distruggere la
repubblica, cercavano di nascondersi, rendendo un platonico omaggio
ai principii repubblicani, rispettando la recente legge di Antonio
che aboliva la dittatura. Ma il pubblico non ebbe lì per
lì tempo e modo di ammirare queste sottigliezze formali. Si
scherzò in principio un po’ rabbiosamente sulla nomina a
console di Ventidio Basso, l’antico conducente e mulattiere, il
primo che di sì basso luogo fosse asceso così alto,
offendendo tutti i pregiudizi aristocratici e irritando tutte le
invidie democratiche; anzi di lì a poco, quando Ventidio
eresse in un tempio una statua ai Dioscuri, un bello spirito scrisse
contro di lui una mordace parodia della celebre poesia di Catullo:
Phaselus ille quem videtis, hospites....610
Ma non si scherzò più, quando verso il 15 novembre,
poco dopo giunta la notizia della costituzione del triumvirato,
Quinto Pedio, inorridito egli per primo da un ordine così
crudele, dovè mandare i sicari a uccidere i dodici
condannati, e quattro ne furono trovati ed uccisi. Un folle terrore
invase la città a questo primo boato foriero del terremoto da
tanto tempo temuto; Pedio dovè uscire, percorrere
disperatamente la città tutta la notte, per tranquillare la
popolazione; e infine alla mattina dopo, non sapendo che altro fare,
pubblicò di sua testa un editto, in cui assicurava che solo
dodici erano condannati. Ma quasi ad accrescer l’orrore il giorno
dopo Quinto Pedio morì improvvisamente611. Ed ecco al primo
boato seguir la scossa, terribile. Il 24, il 25, il 26 novembre, uno
dopo l’altro, Ottaviano, Antonio, Lepido entrarono in Roma, ciascuno
con una legione e la coorte pretoria; fecero approvare il dì
dopo, il 27, su proposta di L. Tizio e senza promulgazione la lex
Titia, che stabiliva il triumvirato sino al 31 dicembre del 38612;
nominarono Caio Carrinate, un vecchio ufficiale di Cesare, console
in luogo di Pedio; poi incominciarono a pubblicare le liste dei
proscritti, promettendo premi vistosi a coloro che, liberi o
schiavi, li denunciassero o uccidessero; lanciando i soldati alla
caccia delle teste per tutta Roma e l’Italia; minacciando la morte e
la confisca a chiunque, fosse pure il più stretto parente, li
nascondesse o li aiutasse a fuggire; sciogliendo insomma tutti ad un
tratto dagli obblighi convenzionali e legali di fedeltà, di
reverenza e di affetto: il signore dal servo, il patrono dal
cliente, l’amico dall’amico, il marito dalla moglie, il padre dai
figli. Terribile fu lo scompiglio che ne nacque. Ognuno, buttati via
subitamente gli abiti inveterati dell’educazione, le ipocrisie quasi
inconsapevoli, le studiate simulazioni, seguì l’istinto suo
vero; onde, come nella tenebra notturna si discernono netti, al
chiarore improvviso di un immenso lampo che incendia il cielo, il
tronco e i rami dei grandi alberi, così a questo colpo di
folgore si videro nettamente i molteplici rami dei nuovi vizi e
delle nuove virtù cresciuti sul tronco poderoso della antica
vita romana con la ricchezza, il potere, la cultura613. Negli uni
l’egoismo, la mollezza nervosa, l’isterica fame di vivere che genera
la civiltà con l’abbondanza dei godimenti intellettuali e
sensuali proruppero a un tratto in ferocie o viltà senza
esempio. Superbi senatori che avevan vestito il paludamento
consolare e governato simili a re provincie immense, si travestirono
da vuotacessi o da schiavi; abbracciarono le ginocchia dei loro
servi supplicandoli di non tradirli; si appiattarono nei solai,
nelle fogne, nei solitari sepolcreti delle campagne. Altri
smarritisi e indugiando tra sospiri, pianti e lai si lasciarono
cogliere; altri corsero incontro ai loro carnefici per esser presto
liberati dalla aspettazione della morte, più dolorosa assai
della morte. Dei servi uccisero con le proprie mani il padrone;
delle mogli ottennero di far inscrivere sulle liste di morte il
marito detestato, oppure, dandogli a intendere di salvarlo, lo
trassero nelle mani dei carnefici; molti figli denunciarono il
nascondiglio del padre. I giovani sopratutto si mostrarono vili in
questo cimento terribile614; segno che la nuova generazione dei nati
intorno al 60, a cui apparteneva Ottaviano, era ancora più
eccitabile, paurosa della morte e della povertà, feroce e
vile nello spavento che i vecchi coetanei di Cesare. Altri invece
dalla morte imminente sentirono esaltato in sè quanto restava
della antica ferocia romana; si asserragliarono in casa, armarono i
servi, fecero una carneficina prima di essere uccisi; un vecchio
sannite, un avanzo della guerra sociale proscritto a ottant’anni per
le sue ricchezze, fece gettare dai servi nella via ai passanti
l’oro, l’argento e la suppellettile preziosa che possedeva, per
derubare i suoi carnefici; poi diede fuoco alla casa e si
gettò nelle fiamme. In altri invece rifulsero la
bontà, la generosità, la abnegazione, le virtù
belle della specie umana, che la civiltà esalta in certuni,
rendendo gli spiriti eletti più consapevoli dei loro doveri;
onde si videro umili servi, giovini figli inesperti, timide donne
contender d’astuzia con i carnefici; nascondere il padrone, il
padre, il marito a rischio della propria testa, preparargli la fuga,
impetrargli perdono dall’uno o dall’altro dei triumviri, talora
immolarsi per lui. Qualche servo fedelissimo prese financo le vesti
e il luogo del padrone, per farsi uccidere in vece sua dai carnefici
frettolosi. I più tentarono di fuggire al mare, per trovar
qualche nave che li portasse in Oriente o da Sesto Pompeo, che alla
notizia degli eventi di Roma era accorso con la flotta in Sicilia,
vi era sbarcato e tentava di persuadere il riluttante governatore a
riconoscere come legittimo l’alto comando sulle coste attribuitogli
dal Senato615. Egli cercò di venire in aiuto ai perseguitati,
pubblicando editti nelle città dell’Italia, in cui prometteva
per ogni proscritto salvato una ricompensa doppia di quella promessa
per l’uccisione; mandando lungo le coste dell’Italia molte navi a
raccogliere i fuggiaschi o a mostrare la via ai legni che navigavano
con piloti inesperti616. Ma molti erano presi per via; ogni giorno
arrivavano da tutte le parti d’Italia frotte di soldati recanti nei
sacchi le teste recise dei nobili senatori o dei ricchi finanzieri
proscritti, che erano poi ostentate sul Foro, orribile trofeo di
questa tremenda guerra civile; coloro i quali riuscivano a scampare
attraverso diverse avventure, con qual cuore riparavano in Oriente o
in Sicilia! Essi sapevano che le loro terre erano confiscate, le
loro case invase da usurpatori e saccheggiate, le loro famiglie
disperse; che non potrebbero più ritornare se non vincendo
un’altra guerra civile!
La grande proprietà e l’alta plutocrazia erano sterminate
quasi interamente, perchè tutti i senatori e cavalieri molto
ricchi, tranne pochi, erano iscritti nelle liste di morte; e tutto
era tolto ai proscritti, lasciandosi solo la dote alle vedove, la
decima ai figli, la ventesima alle figlie617. I beni delle classi
ricche d’Italia, questa parte così cospicua delle spoglie
mondiali di Roma, passavano in potere della vittoriosa rivoluzione
popolare. Da ogni parte di Roma e d’Italia i triumviri raccoglievano
un immenso, molteplice, ingombrante bottino: tutto l’oro e l’argento
trovato nelle case dei ricchi cavalieri, di cui molti erano anche
usurai; le altre supellettili di valore, il vasellame, le statue, i
vasi, i mobili, i tappeti, gli schiavi che adornavano le case
eleganti; un gran numero di case di affitto e di palazzi in Roma; le
più belle ville del Lazio e della Campania; un infinito
numero di poderi coltivati da coloni per tutta Italia; i grandi
latifondi dell’Italia meridionale e della Sicilia interna, che erano
per molta parte posseduti da ricchi cavalieri di Roma; vaste terre
possedute da senatori e cavalieri nella Cisalpina e fuori d’Italia,
specialmente in Africa; strumenti vivi e strumenti inerti di lavoro,
buoi, carri, cavalli, schiavi abili in arti e mestieri; infine i
crediti che molti di questi cavalieri avevano verso terzi e che
erano pur confiscati. Tutta questa roba doveva a poco a poco essere
messa in vendita; ma primi a servirsi furono i triumviri, ciascuno
dei quali volle farsi in pochi giorni un gran patrimonio; onde si
presero con la forza per quasi nulla, allontanando dalle aste i
concorrenti, tutti i beni che più loro piacquero618. Avrebbe
quindi dovuto incominciare la vendita seria al pubblico; ma
l’esempio fu imitato; e dopo i triumviri si fecero avanti gli
ufficiali, i Rufreni e i Canidii che avevano rischiato la vita per
ribellare le legioni, i quali mandarono a tutte le aste dei soldati
a cacciar via con minaccie e brutalità i compratori estranei;
se qualche malcapitato si ostinava, subito si facevano salire i
prezzi rovinosamente, obbligandolo a comprare qualche cosa619. Pur
essendo assai malcontenti di questa rapina, i triumviri dovettero
rassegnarsi, per non scontentare i soldati620, sperando che, saziati
anche costoro, si sarebbe proceduto alle vendite; onde in breve, in
mezzo a turbe allegre e insolenti di soldati venuti da ogni parte
d’Italia, dalle piccole ma fiorenti città della Gallia
cisalpina, dalle montagne della Apulia o della Lucania, dalle
decadenti città dell’Italia meridionale, i banditori
gridarono in tutti i quartieri di Roma e in molte città
d’Italia l’incanto delle spoglie di quella aristocrazia e di quella
finanza che aveva saccheggiato con le armi e l’usura l’Impero. Gli
spogliatori del mondo erano a loro volta spogliati; e mentre
l’antico mulattiero esercitava il consolato, ostentando la vittoria
politica delle classi povere sulle ricche, gli immensi patrimoni
edificati da queste entro la cerchia di Roma con le macerie di tante
civiltà spietatamente distrutte, erano messi a sacco da una
orda raccogliticcia. Tuttavia, anche in mezzo a tante rapine, molti
dei senatori proscritti riuscirono a fuggire. Le famiglie della
aristocrazia di Roma erano legate tra loro da tante amicizie e
parentele, che a molti non fu impossibile trovare protettori occulti
presso quelli che parevano esserne, in faccia al pubblico ingenuo, i
più feroci nemici. Così Caleno salvò
Varrone621; così pare che Ottavia, la sorella di Ottaviano e
la moglie di Marcello, una dolce, bella e intelligente matrona,
intercedesse presso il fratello a favore di molti. Attico,
l’imperturbabile amico di tutti, non fu molestato, per volere di
Antonio, riconoscente dell’aiuto dato nella sventura alla moglie e
agli amici622. Non poterono invece scampare nè Verre,
nè Cicerone, ritrovatisi dopo ventisette anni ambedue,
accusatore e accusato, sull’orlo del medesimo abisso; proscritto il
primo per le sue ricchezze, benchè vecchio e da tanti anni
appartato dalla cosa pubblica, a godere in pace il frutto delle
antiche rapine623; proscritto il secondo, non ostante la gloria del
nome, per l’odio di Antonio e insieme con il fratello, il figlio, il
nipote. Se il figlio non fosse stato allora in Grecia, la famiglia
era schiantata dalle radici d’un colpo. Così morì – e
a tempo, perchè l’opera e l’eta sua erano finite – il
più grande uomo, insieme con Cesare e a pari di Cesare, di
questa grande età della storia di Roma. Certamente è
facile ai numerosi professori moderni, che giudicano a sproposito
con il pretenzioso e sciocchissimo senno di poi, deriderne le
piccole debolezze, sopratutto quelle incertezze, contradizioni ed
esitazioni che del resto furono comuni a tutti gli uomini del suo
tempo in misura maggiore o minore, Cesare non escluso, e che di lui
ci sono note minutamente solo perchè egli stesso ce le ha
raccontate. Ma la importanza storica di Cicerone è ben altra
e sta essenzialmente in questo fatto: che nella società
romana, in cui per tanti secoli nessuno aveva potuto partecipare al
governo se non fosse o un nobile di gran lignaggio o un opulento
signore o un guerriero, egli per primo, senza esser nè nobile
nè ricco nè soldato entrò a far parte, e tra i
primi, della classe dominatrice, governò la repubblica
insieme con i nobili, i milionari e i generali, perchè
parlava e scriveva stupendamente, perchè sapeva divulgare al
gran pubblico in chiaro stile gli astrusi pensieri e le difficili
dottrine della filosofia greca. Nella storia di Roma e quindi nella
civiltà europea che procede da Roma, egli fu il primo
letterato e pubblicista che partecipò al governo; fu il
capostipite di una dinastia innumere, corrotta, piena di vizi, ma
che durò – e lo storico, anche se la detesta, deve
riconoscerlo – più che quella dei Cesari, perchè da
lui a noi non ha mai cessato di dominare l’Europa per venti secoli;
il capostipite degli uomini di penna, che in tutta la storia della
civiltà nostra sono stati a volta a volta i sostegni degli
stati e gli artefici delle rivoluzioni, in tutte le forme loro:
retori, giureconsulti, poligrafi nell’impero pagano; apologisti e
padri della Chiesa poi; chierici, legisti, teologi, dottori, lettori
nel medio evo; umanisti nel rinascimento; enciclopedisti nella
Francia del secolo XVIII; avvocati, giornalisti, pubblicisti e
professori adesso. Abbia pur commessi quanti errori politici si
vuole nel tempo suo! La importanza storica di Cicerone non solo
eguaglia quella di Cesare, ma è di poco inferiore a quella di
Gesù, di Paolo, di Agostino. Giova inoltre osservare che il
capostipite ebbe tutte le grandi qualità e solo i vizi
più lievi della sua dinastia. Egli era uno di quegli uomini
rari anche tra la gente di studio e di penna, che non sentono
nè l’ambizione del comandare nè la cupidigia delle
ricchezze, ma solo il desiderio di essere ammirati: ciò che
è diverso ed è più nobile e puro, anche se
talora è cagione di una certa vanità. Difatti egli
solo fra tutti gli uomini che ressero allora l’impero di Roma, non
fu pervertito interamente dalle orrende arti di governo usate ai
tempi suoi; solo, salvò dalla depravazione comune a tutti i
politicians contemporanei, Cesare non escluso, quella coscienza
elementare del bene e del male, che se non impedisce sempre i
piccoli falli di debolezza, sempre però trattiene l’uomo
dalle vere nequizie verso gli altri come dalle oscene abiezioni di
sè; solo tentò di governare il mondo non con la matta
caparbietà di Catone nè con il disgustoso opportunismo
degli altri, ma secondo una certa meditata ideologia, sforzandosi di
continuare nel disordine dei suoi tempi le istituzioni repubblicane
e l’orrore della monarchia asiatica, di conciliare le austere
virtù latine con la arte e la sapienza ellenica, di addolcire
tutte le dominazioni, quella del padrone sui servi, dei ricchi sui
poveri, dei nobili sugli uomini nuovi, degli italiani sui sudditi,
temperando con spirito di equità e di dolcezza a un
più umano esercizio il cieco e ferreo diritto dei forti.
Ridono molto e molto scioccamente i moderni di queste ubbie del buon
Cicerone: non ne risero invece i contemporanei, che ne videro tanta
parte trionfare quasi per un miracolo inaspettato da tutti, quindici
anni dopo.
Ma allora il grande scrittore, scannato dai sicari dei triumviri
presso Formia, fu arso in fretta e pianto da pochi in segreto. In
mezzo a quella spaventosa bufera ciascuno pensava a salvare
sè, nessuno poteva badare al naufragio del vicino. Lo
spavento ingrandiva a tutti il pericolo pur così grande e le
dicerie più atroci erano subito credute. I tre tiranni
volevano tutto rubare, specialmente Ottaviano, odiato più
degli altri, perchè salito in fama e potere con una
celerità senza esempio nella storia di Roma, che esasperava
la invidia di tutti! Di un generale anziano e provetto come Antonio,
di un gran signore come Lepido si poteva ancora tollerar la
signoria: ma questo ragazzo di ventun’anni, questo figlio di un
usuraio (nel furore dell’odio confondevano il padre con il nonno)
come aveva meritato di dominare Roma? Si attaccavano per Roma
iscrizioni ingiuriose per i suoi antenati624; si diceva che dettasse
le sentenze di morte a tavola, gozzovigliando625; che impediva la
fine delle stragi, voluta dagli altri due626; che aveva iscritto
nelle tavole di proscrizione dei disgraziati solo per rubare loro
certi magnifici vasi greci627. Esagerazioni probabilmente, ma
intanto i più ci credevano; e anche molti di coloro che non
erano stati proscritti e avevano un nome o dei beni fuggivano
d’Italia. Fuggì Livio Druso, fuggirono Favonio e molti altri,
scacciati dalla paura che le violenze perpetrate sino allora fossero
il principio di altre e maggiori: non irragionevole paura pur
troppo, perchè i triumviri non solo non potevano trattenere i
soldati inferociti, ma dovevano seguirli nei loro saccheggi, portati
da quella forza degli eventi, che nella storia e specialmente nelle
rivoluzioni fa riuscire tante cose ad effetti ben maggiori delle
intenzioni di coloro a cui poi gli uomini ne attribuiscono, come
agli autori, l’infamia e la gloria. Quando i triumviri si accinsero
a vendere al pubblico le case, le terre, le masserizie, si accorsero
presto che le confische non rendevano quanto denaro occorreva loro
per la guerra; che il valore venale di questa immensa preda era
quasi nullo. Forse molti dei capitalisti uccisi erano meno ricchi
che il pubblico non credesse e nel supremo sgomento avevano
nascosti, confidati a clienti sicuri, deposti nelle mani delle
Vestali i loro capitali628; molto denaro fu forse disperso e
trafugato dai servi, dai liberti, dai parenti, dai sicari; pochi
potevano comperare per la scarsezza del denaro i beni messi in
vendita; di quei pochi, pochissimi osavano, per il timore di essere
poi spogliati ed uccisi o per paura dell’odio pubblico, mentre i
beni posti in vendita crescevano con le confische di giorno in
giorno629. La camorra degli ufficiali spaventava gli altri,
cosicchè poca gente andava alle aste e offriva prezzi
vilissimi. Non andò molto che i triumviri doverono sospendere
la vendita, tanto poco rendeva, lasciare giacente quella
proprietà immensa in attesa di tempi migliori, e costretti
dal bisogno di denaro, procedere a nuove spoliazioni al principio
del 42. [42 a. C] Non solo ordinarono la confisca delle somme
depositate dai privati nel tempio di Vesta630, ma aggravarono la
misura del tributum già imposto dal Senato: tutti i
cittadini, gli stranieri, i liberti che possedevano più di
400 000 sesterzi doverono dichiarare il loro patrimonio e
prestare allo Stato una somma eguale al due per cento della loro
sostanza e il reddito di un anno, che fu calcolato, a quanto pare,
nei casi dubbi al decimo del capitale, non escludendo nemmeno le
case abitate dai proprietari, di cui benignamente si volle contare
solo il reddito probabile di sei mesi631; quelli che possedevano
meno di 400 000 sesterzi doverono contribuire la metà
del reddito di un anno632; lo stesso invito di dichiarare il valore
delle loro doti fu fatto a 1300 tra le più ricche matrone
d’Italia633. Bisognava torchiare l’Italia senza misericordia, per
spremere tutti i metalli preziosi che conteneva. Fu anche deliberata
la confisca dei beni di quelli che, pur non essendo proscritti,
fuggivano, degli “emigrati” del tempo, nella speranza di porre fine
alla grande fuga634. Tra tante rapine uccisioni e maledizioni,
Rufreno, quell’ufficiale che aveva fatto ribellare le legioni di
Lepido, propose ai comizi una legge con cui si dichiarava Giulio
Cesare divus e si deliberava non solo di ridrizzare l’ara di
Erofilo635, ma di richiudere la Curia di Pompeo e di erigergli un
tempio nel Foro, sul luogo dove era stato bruciato. Così dal
partito vittorioso soddisfazione era data alle confuse aspirazioni
del popolino che aveva preso a venerare dopo la morte il luogo del
rogo, introducendo nello Stato questa novità rivoluzionaria,
il culto di un cittadino che tutti avevano visto vivo, come si usava
in Oriente con i re636.
Gli eventi insomma erano precipitati in modo imprevisto; e dalla
proscrizione procedeva un immenso disordine, in mezzo al quale
Antonio, esaltato dal successo, dalla vendetta, dalle ricchezze,
profondeva il denaro delle confische in un furore di orgie e di
feste, tra mimi, cantanti, cortigiane; Fulvia si compensava delle
umiliazioni subite con rapine e prepotenze; Lepido invece apparisce
in un documento contemporaneo iroso e brutale, come un uomo
fastidito da troppe brighe e spaventato637; Ottaviano, terrificato
dall’improvviso precipitar degli eventi, sembra oscillare in una
continua altalena di clemenza e di ferocia. I suoi nervi non erano
temprati a queste bufere! Sin dai primi anni egli era stato uno di
quei ragazzi nevrotici, che nascono nelle civiltà raffinate,
corrotte e affaticate; di complessione infermiccia debole e pigra,
di intelligenza precoce, che la madre e la nonna avevano allevato
nella bambagia. A tredici anni aveva fatti prodigi nei primi studi,
pronunciando perfino un discorso pubblico; ed era poi diventato un
giovane precocemente riflessivo e molto studioso, che curava la sua
salute, che beveva poco vino638, che lasciava meno che potesse i
suoi libri e i suoi diletti maestri, Atenodoro di Tarso e Didimo
Areo. Ma a un tratto questo cucco delle donne di casa, questo
giovane malaticcio e nevrotico, era stato tratto dal caso in mezzo a
una rivoluzione; e allora all’improvviso si era mostrato un feroce
“arrivista”, diremmo adesso, impaziente di riuscire e squilibrato;
uno di quei giovani – se ne trovano tanti nelle civiltà
raffinate e ricche – che la fretta e la paura fanno perfidi,
violenti e spietati. Aveva infatti intrigato, mentito, tradito come
un compìto briccone. Ma se gli scrupoli non lo impacciavano,
aveva per natura poca fermezza e pochissimo coraggio, nè
poteva averlo acquistato con la pratica del pericolo in così
breve tempo e tra tanta confusione; onde non è inverisimile
che, facile a sgomentarsi, debole ed eccitabile, si conducesse in
modo da fornire materia di racconti contradditorî agli
storici, credibili gli uni e gli altri appunto perchè
contradditorî: che, sorpreso dalla sua buona e diletta sorella
in momenti di maggior pacatezza, si adoperasse a salvare i
proscritti; che nelle ore torbide, quando aveva paura, incrudelisse
e fosse persino sospettato di aver fatto uccidere varie persone che
dubitava volessero attentare alla sua vita639.
Ma a tutti e tre i capi della repubblica la situazione pareva
così incerta ed instabile, che per consolidare il loro potere
impegnando con l’interesse la fedeltà di molti seguaci,
aggiunsero ai molti già compiuti un nuovo atto tirannico, che
nemmeno Cesare aveva osato: confiscarono interamente i diritti
elettorali dei comizi, designarono sin da allora i magistrati per i
cinque anni del triumvirato640. Necessità non ha legge; o ben
seria era la guerra imminente! Al principio del 42, Antonio aveva
mandato a Brindisi otto legioni sotto il comando di L. Decidio Sacsa
e di C. Norbano Flacco, perchè subito, a primavera,
invadessero la Macedonia che Bruto sul finire dell’anno aveva
sgombrata641, dopo aver fatto uccidere per rappresaglia Caio
Antonio, andando con tutto l’esercito in Asia, con lo scopo forse di
raccogliere denaro e di far svernare l’esercito in un paese
più ricco e più lontano dall’Italia. Ma a questa prima
mossa succede una pausa. Intorno allo stesso tempo in cui Decidio e
Norbano sbarcavano in Macedonia, Bruto e Cassio si ritrovavano a
Smirne con i loro eserciti. Bruto, che più vicino all’Italia
aveva più sicure notizie di quello che succedeva, aveva preso
l’iniziativa di questo incontro, scrivendo a Cassio di unire i loro
eserciti e di combattere insieme i triumviri, come ne davano loro
facoltà i decreti del Senato642. Cassio, il quale allora
pensava di muovere contro l’Egitto per castigare Cleopatra,
ostinatasi a favorire il partito di Cesare, aveva acconsentito; e
lasciata in Siria una piccola guarnigione al comando di suo nipote,
mandato in Cappadocia un forte nerbo di cavalleria a uccidere il re
malfido e a raccogliere metalli preziosi643, era andato con il
grosso dell’esercito incontro a Bruto sino a Smirne644; ove si tenne
un consiglio di guerra. Bruto pensava si dovesse tornare insieme in
Macedonia a distruggere le otto legioni di avanguardia e a impedire
lo sbarco delle altre645: Cassio invece propose un piano più
vasto, più lento e più abile, che Bruto alla fine
accettò. Essi non possedevano ancora sicuramente l’Oriente,
perchè Rodi, la Licia, altre città erano dubbie; e si
doveva sempre temere la invasione dei Parti in Siria e gli intrighi
dell’Egitto: ora, se mentre essi combattevano in Macedonia,
avvenissero grandi torbidi in Oriente, se il nemico, tanto
più provvisto di soldati, tentasse qualche sorpresa alle loro
spalle con l’aiuto dell’Egitto, essi potrebbero trovarsi a mal
partito. Era meglio abbandonare al nemico la Macedonia; assicurarsi
con trattative la neutralità dei Parti e con le armi la piena
signoria del mare e dell’Oriente, radunare una grande flotta,
sottomettere Rodi e la Licia; raccogliere in Oriente le maggiori
quantità di denaro che potessero; e poi, quando signori del
mare fossero in grado di tagliare le comunicazioni tra l’Italia e la
Macedonia, invadere la Macedonia. I triumviri non avrebbero potuto
portarvi quaranta legioni, ma solo una parte; quella che, non avendo
sicure le vie del mare alle spalle e grandi mezzi, si poteva nutrire
con le vettovaglie della Macedonia e della Tessaglia: paesi sterili,
spopolati, impoveriti dalle guerre recenti. Inoltre la guerra
prolungandosi, le angustie di denaro, la esasperazione dell’Italia,
il malcontento degli insoddisfatti soldati sarebbero cresciuti646.
Cassio diede una parte del suo tesoro a Bruto; Labieno, il figlio
dell’antico generale di Cesare, fu mandato alla corte del re dei
Parti647: si convenne che Bruto conquisterebbe la Licia, mentre
Cassio muoverebbe ad assoggettare Rodi.
Queste spedizioni del nemico indussero Antonio a ritardare un poco
la guerra contro Bruto e Cassio, e a sbrigare prima un’altra
guerricciola648: mandare Ottaviano con una parte della flotta a
ripigliare la Sicilia. Sesto Pompeo, che sul principio del 42 aveva
ucciso il governatore dell’isola e se ne era impadronito
interamente, incominciava a divenire molesto: raccoglieva navi,
reclutava marinai, ordinava legioni; prendeva a devastare le coste
dell’Italia e a intercettare sul mare i convogli di grano per Roma;
potrebbe aiutare le flotte di Bruto e di Cassio e impedire
nell’Adriatico il trasporto di milizie e di vettovaglie in
Macedonia. Così nella primavera del 42 la guerra
incominciò in Sicilia e in Oriente: con prospero successo
qui, là con incerto. Tra la primavera e il principio
dell’estate Cassio conquistò Rodi649, confiscandovi tutti i
tesori pubblici e privati per la somma di 8500 talenti650; fece
pagare alle città dell’Asia nientemeno che il tributo di
dieci anni651; raccolse navi da ogni parte, dispose un numero
considerevole di presidî navali e terrestri in tutto
l’Oriente; mandò Murco con sessanta navi al promontorio
Tenaro per impedire che i soccorsi allestiti da Cleopatra
giungessero ai triumviri652. Nel tempo stesso Bruto sottometteva
felicemente la Licia, ponendo a contribuzione le principali
città. Perciò al principio dell’estate essi poterono
ritrovarsi a Sardi e prendere le disposizioni per invadere la
Macedonia. Ma non era invece stata ancora conquistata, al principio
dell’estate, la Sicilia; anzi la guerra non vi aveva fatto alcun
progresso. Tuttavia Antonio non poteva lasciare le otto legioni di
Norbano e Decidio sole in Macedonia, alla mercè di Bruto e di
Cassio; onde, sempre sperando che la guerra di Sicilia finirebbe da
un momento all’altro, mentre Bruto e Cassio avviavano l’esercito ad
Abido, per fargli traversare il Bosforo e imboccare a Sesto la via
Egnazia che conduceva nel cuore della Macedonia, Antonio si
disponeva a far passare l’Adriatico a dodici legioni653, per
sbarcare a Durazzo e imboccare l’altro capo della via Egnazia.
Ottaviano, finita l’impresa di Sicilia, lo raggiungerebbe. I due
eserciti si venivano lentamente incontro; ma in quali condizioni
diverse! Essi rappresentavano ormai dopo tanto disordine, in cui
tutte le cose si erano mescolate e confuse, non solo il partito
cesariano e popolare contro il partito aristocratico e conservatore,
ma anche le due parti del mondo antico, l’Oriente e l’Occidente, in
cui i due eserciti si erano formati. Bruto e Cassio avevano minor
numero di soldati che Antonio e Ottaviano, perchè ne nutriva
meno l’Oriente civile, industrioso, capitalista, pacifico,
politicamente disfatto; ma erano accompagnati dagli ultimi avanzi
della nobiltà di Roma e molto più abbondantemente
provvisti di ogni altra cosa atta alla guerra, specialmente di
denaro. L’Oriente ripigliava e accumulava di nuovo gran parte
dell’oro e dell’argento portato via dagli italiani in cambio dei
prodotti di lusso agricoli e industriali esportati in Italia; onde
nei quarant’anni di pace e di mediocre ordine seguiti alla grande
guerra mitridatica aveva, non ostante le angherie dei publicani e
dei governatori, nuovamente deposta nei templi o nei sepolcri,
chiusa nelle cantine del ricchi, nascosta sotto il focolare delle
case artigiane, seppellita nella terra o nei pozzi dei contadini una
grande ricchezza di metalli preziosi654. Già in parte
intaccata dalla prima guerra civile di Cesare e Pompeo, questa nuova
accumulazione quarantenne era adesso arraffata via quasi tutta da
Bruto e da Cassio; e chiusa in grandi anfore seguiva, portata su
carri, l’esercito vagabondo. L’Italia invece, sebbene da due secoli
traesse a sè da tutte le parti del mondo i beni più
utili della civiltà antica e specialmente i metalli preziosi,
era sempre in bisogno di tutto, tante ricchezze essa profondeva nel
lusso pubblico e privato, nel rinnovare l’agricoltura,
nell’ingrandire il tenor di vita di tutte le classi, nel tentare
speculazioni temerarie, nel fare una politica di affarismo e di
clientela all’interno, di rapina e di conquista fuori. Perciò
essa abbondava di legionari induriti nei campi, di uomini pronti a
fare il mestiere della guerra; e poteva mandare contro l’Oriente
migliori soldati; ma cacciandoli disperatamente oltre il mare, quasi
in cenci, poveri, senza denaro, senza i necessari apparecchi, senza
flotta sufficiente che ne difendesse le spalle o portasse loro il
nutrimento, ad affrontare non solo le armi dei nemici, ma il mare,
il deserto, la fame.
E tutto pareva allora volger bene per le milizie che venivano
dall’Oriente, mentre aspro era il principio dell’impresa a coloro
che partivano dall’Occidente. Bruto e Cassio fecero passare ai loro
eserciti senza impedimento il Bosforo; e li avviarono poi lungo la
costa verso il promontorio Serrheion, dove le montagne si avvicinano
al mare in un passaggio angusto, che Norbano occupava. Ma una
minaccia della armata, comandata da Tullio Cimbro, alle retrovie,
costrinse Norbano a ritirarsi alle gole di Burun Calessi, ritenute
come il solo passaggio di un grosso esercito tra l’Asia e l’Europa,
e che fortemente munito non poteva essere espugnato di fronte655.
Antonio invece non poteva muoversi da Brindisi, impedito dalle 60
navi al comando di Murco, che, dispersi gli aiuti di Cleopatra da
una tempesta sulle coste dell’Africa, si era volto a impedire ad
Antonio il passaggio dell’Adriatico. Antonio tentò più
volte, ma invano, di passare, e alla fine si risolvè a
chiamare in aiuto Ottaviano, facendogli interrompere l’impresa della
Sicilia che non era ancora terminata656. Lasciarsi dietro Sesto
forte nell’isola era male; ma come fare altrimenti? Ottaviano
infatti, comparendo nell’Adriatico alle spalle di Murco, lo
costrinse a ritrarsi657, lasciando libero il passo ai due triumviri,
che uniti poterono giungere insieme felicemente a Durazzo con le
dodici legioni. Ma da Durazzo incominciò la parte più
perigliosa e dura della spedizione. Ben presto giunsero corrieri
d’urgenza da Nerbano e Decidio, ad annunciare che essi avevano
dovuto abbandonare le inespugnabili posizioni occupate. Un capo
trace aveva svelato a Bruto e a Cassio un altro passo più
stretto e dirupato attraverso la montagna, dove, pur di portarsi
l’acqua, l’esercito avrebbe potuto passare in tre giorni; onde a un
tratto Nerbano, che si aspettava di essere assalito di fronte, aveva
saputo che i nemici sbucavano alle sue spalle nella pianura di
Filippi, e si era tratto indietro in gran fretta ad Anfipoli per non
essere circondato. Le porte della Macedonia e le comunicazioni con
la Tracia erano cadute in potere del nemico; Anfipoli, difesa da
sole otto legioni contro un esercito più che doppio, era in
pericolo. Per maggiore disgrazia proprio in quei giorni Ottaviano,
per le fatiche e le commozioni, ammalò a Durazzo! Antonio
dovè lasciare Ottaviano a Durazzo, marciare rapidamente con
le legioni su Anfipoli. Ma qui giunto, trovò ogni cosa
tranquilla, lontano il nemico, poco probabile il pericolo di
sorprese. Bruto e Cassio non avevano inseguito Norbano e Decidio; si
erano accampati sotto Filippi in una posizione formidabile,
piantando a cavaliere della via Egnazia due campi fortemente muniti.
Bruto a nord, ai piedi delle colline Panaghirdagh, Cassio a sud,
verso il mare, da cui lo separava una vasta e difficil palude, ai
piedi della collina di Madiartopé658. I due campi erano
riuniti da uno steccato, dietro il quale scorreva un’acqua limpida e
abbondante, il Gangas; e comunicavano per la via Egnazia con il
vicino porto di Neapolis, dove le navi portavano dall’Asia e da
Taso, scelta a magazzino generale dell’esercito dei congiurati,
vettovaglie, armi, denaro. Alloggiati in una posizione così
forte, Bruto e Cassio intendevano di aspettare l’assalto dei nemici
e di prolungare la guerra, sinchè la fame disperdesse
l’esercito nemico, chiuso ormai in una regione angusta e sterile, le
cui comunicazioni per mare essi provvedevano a minacciare ancora
più, mandando Domizio Enobarbo in aiuto a Murco con una
flotta. Antonio lasciò ad Anfipoli una sola legione,
marciò con le altre verso Filippi e pose il campo suo davanti
al campo loro nella pianura, aspettando Ottaviano che,
convalescente, giunse di lì a poco facendosi portare in
lettiga. Cassio allora, per impedire che Antonio tentasse di
rompergli le comunicazioni con il mare, congiunse con uno steccato
anche l’accampamento e la palude.
E allora incominciò per i due eserciti accampati di fronte
nella pianura di Filippi, in quel grigio, piovoso, ventoso ottobre
dell’anno 42, un seguito di lunghe torbide incerte giornate, durante
le quali anche questi eserciti incominciarono a dissolversi659 nella
dissoluzione universale delle leggi, delle tradizioni, dello Stato,
della famiglia, della proprietà, della morale che essi
avevano tanto affrettata negli ultimi anni con le loro rapine. La
discordia, la fretta, la stanchezza dei capi, la petulanza e
l’indisciplina dei soldati precipitarono gli avvenimenti in tanta
confusione e disordine, che nessuna volontà potè
dirigere più nulla. Bruto e Cassio erano pieni di un grande
spirito di concordia e di fiducia reciproca: ma l’accordo dei
propositi non escludeva i dispareri. Tra l’uno e l’altro anzi le
parti si erano scambiate dall’anno 44. Bruto, allora così
fiacco e pigro, era diventato consigliere di audacie, aveva fretta
di finire la guerra dando subito battaglia, mentre Cassio voleva
logorare il nemico con una inerzia sapiente, tirando in lungo660. Il
pacato uomo di studio, l’indolente aristocratico che un destino
bizzarro aveva tratto in mezzo all’azione, era stanco di tante
brighe faccende e responsabilità, stanco della lotta che
doveva sostenere con le sue ubbie ideologiche, costretto com’era
ogni momento a tralasciare cose che credeva di dover fare o a farne
di indebite: onde era diventato eccitabile e facile al pianto,
soffriva di insonnia, vedeva di notte comparire nella sua tenda, al
chiarore della lucerna, delle vaghe ombre, in cui credeva
raffigurare la sua vittima e che risvegliavano i vaghi spaventi
superstiziosi latenti in ogni antico. Cassio, che era un fervente
seguace delle dottrine di Epicuro, cercava persuadergli essere
quelli scherzi dei sensi affaticati, allucinazioni....661 Ma il suo
scarso vigore era ormai spento; un solo desiderio restava ancora:
quello di finir presto, di deporre il gran peso, senza però
commettere una viltà o fuggire, pronto a pagare questa
liberazione con il massimo sacrificio. Si desse battaglia; se si
perdeva, non restava il rifugio ultimo della morte in cui tutto
sarebbe finito? E come Bruto, l’esercito non approvava la strategia
della attesa; voleva finire la guerra prima dell’inverno, per non
rimandar a un altro anno quella vittoria che tutti consideravano
sicura, per tornare a casa con i denari guadagnati nelle lunghe
depredazioni dell’Oriente. Non era facile mantenerlo
nell’obbedienza, ora che la battaglia definitiva avvicinava. Antonio
e Ottaviano avevano milizie più sicure: ma Ottaviano,
indebolito dalla malattia, scoraggito dalle difficoltà,
spaventato da questa guerra disperata a tanta distanza dall’Italia,
passava il tempo, con il pretesto di ristorare le forze, in lunghe
escursioni fuori del campo, abbandonando l’esercito agli ufficiali;
cosicchè era per Antonio più che un collega un
ingombro. Antonio doveva far da sè, assumersi tutta la
responsabilità della guerra; e offriva di continuo battaglia,
e cercava di costringere il nemico, temendo, se le cose si
prolungassero troppo, di mancare di vettovaglie662. Ma Cassio
rifiutava ostinato, riuscendo a trattenere Bruto e i soldati: onde
ben presto nella inerzia la volontà di quasi tutti parve
languire nello snervamento di un rassegnato abbandono al fato, che
il giovane Orazio, il quale aveva un grado nell’esercito, descrisse
mirabilmente in una poesia, probabilmente pensata negli ozi di
queste giornate e scritta più tardi: “Una orrenda tempesta ha
chiuso il cielo; l’etra si scioglie su noi in pioggie ed in nevi; or
sul mare ora nei boschi mugge il vento della Tracia. Rubiamo, o
amici, l’occasione di questo dì e sinchè i garretti
sono saldi e ci è lecito, spianiamo sulla fronte le precoci
rughe senili. Tu smuovi un’anfora di vino chiusa nell’anno in cui
nacqui; e non ti curar d’altro; un Dio forse ricomporrà con
fausta vicenda ogni cosa ad ordine....663” Alla fine Antonio
pensò di fare una via con fascine, terra, graticci attraverso
la palude che separava il campo di Cassio dal mare, per arrivare con
quella alla via Egnazia, minacciare le retrovie del nemico e
costringerlo a combattere: e potè infatti, schierando ogni
giorno una gran parte dei suoi soldati e quelli di Ottaviano nel
piano, come per offrirsi alla battaglia, distogliere l’attenzione
dei nemici e per dieci giorni far lavorare i suoi soldati nascosti
nelle alte erbe della palude senza disturbo664. Ottaviano intanto
curava con lunghe passeggiate la sua salute. Quando, l’undecimo
giorno, a un tratto gli eserciti di Bruto e di Cassio furono tratti
fuori; e quello di Bruto che era all’ala destra si buttò
sulle legioni di Ottaviano. Probabilmente negli ultimi giorni
Cassio, accortosi dell’opera e dell’intenzione di Antonio, si arrese
ai consigli di Bruto e assalì il nemico665. Che cosa
succedesse allora non è ben chiaro. Pare che Ottaviano
facesse in quell’ora una passeggiata per salute nelle vicinanze del
campo; e che quindi le legioni di Bruto, piombando sulle legioni di
Ottaviano i cui ufficiali non avevano ordini, le disfacessero, solo
resistendo con vigore la quarta legione. Antonio invece, che stava
all’erta, si buttò con furore contro l’ala sinistra comandata
da Cassio, la fece indietreggiare, l’inseguì verso il campo,
impegnando sotto gli steccati una mischia terribile. Se Bruto, che
aveva frattanto sopraffatta e quasi annientata la quarta legione666,
tornava indietro al soccorso del collega e assaliva Antonio sul
fianco, la battaglia era vinta. Ma Bruto non potè
padroneggiare le sue legioni, che, traendosi nel loro impeto gli
ufficiali, invasero il campo dei triumviri, vi entrarono incalzando
i fuggiaschi; una carneficina e un tumulto immenso incominciarono,
il cui rumore giunse forse a Ottaviano, che passeggiava a qualche
distanza e che spaventato scappò a nascondersi in una vicina
palude667. Frattanto Antonio disperdeva le legioni di Cassio e
entrava nel suo campo: ma i suoi soldati, come quelli di Bruto,
appena furono nel campo nemico, non sentirono più i comandi e
si dispersero come bande di predoni a saccheggiare le tende;
cosicchè affrettandosi ciascuno a portar via nel proprio
accampamento le cose rubate, la battaglia sì converti presto
in un gran numero di scaramucce tra le piccole bande di soldati che
tornavano al loro accampamento carichi come facchini, e finì
in una grandissima confusione, in cui nessuno capì più
nulla e Cassio morì. La tradizione racconta che, non potendo
discernere bene dall’altura su cui era salito ciò che
avveniva nel piano, per l’immenso polverone che si era levato, egli
credè che Bruto fosse stato sconfitto e che un drappello di
cavalleria il quale si avvicinava, mandato da Bruto a annunciargli
la sua vittoria, fosse invece di nemici e che perciò egli
diede ordine al liberto di ucciderlo. Altri dubitando che un uomo di
guerra così esperto avesse così facilmente perduta la
testa, sospettarono un suo liberto di averlo ucciso nella
confusione, perchè corrotto dai triumviri. Così in
modo poco chiaro morì l’uomo più intelligente dei
congiurati668. Egli solo aveva resistito allo scoramento da cui il
partito conservatore era stato prostrato nel 44; egli solo aveva
avuto fiducia – e i fatti gli diedero ragione – di poter reclutare
un esercito contro il partito di Cesare; egli perciò ebbe il
merito di aver prolungato per due anni ancora la estrema difesa del
suo partito. Questa difesa fu bella; e se non riuscì,
l’insuccesso non deve far dimenticare che quest’uomo, il quale
avrebbe potuto essere uno dei servitori meglio ricompensati di
Cesare, preferì morire in difesa di quella libertà
repubblicana, che, per quanto in parte ridotta a un principio ideale
e sebbene coprisse anche interessi di casta, era pur sempre una
grande tradizione, degna di sacrificio e di sangue.
Antonio aveva sofferto perdite doppie che quelle del nemico e il
saccheggio di tutto l’accampamento a cui non era compenso adeguato
il saccheggio del solo campo di Cassio669; l’esercito di Bruto aveva
inflitto danni terribili al nemico, ma aveva esso stesso sofferto
una perdita irreparabile: Cassio. Questa battaglia, in cui la
sapienza ebbe così poca parte, decise della guerra
perchè in essa Cassio perì. Ricominciarono i giorni
ansiosi d’attesa per gli eserciti nella pianura di Filippi. Bruto,
ora unico generale in capo, ridusse in un solo accampamento, fornito
a profusione di ogni cosa, le sue milizie e i suoi molti
prigionieri; e essendo divenuto dopo la sanguinosa battaglia meno
impaziente di combattere, cercò di trattenerle con grandi
regali di denaro; mentre la carestia cominciava a tormentare il
campo dei triumviri e un inverno precoce, irto di gelidi venti,
faceva intirizzire nei bassi accampamenti i soldati di cui molti
avevano perduto tutto nel saccheggio e a cui i generali non avevano
potuto risarcire il danno, tanto erano scarsi di denaro670. Di
lì a poco giunse ancora una cattiva notizia, che i triumviri
si studiarono di tenere nascosta a Bruto: gli approvvigionamenti e i
rinforzi che dovevano venire dall’Italia erano stati assaliti e
colati a fondo nell’Adriatico dalle flotte di Murco e di Domizio
Enobarbo. Due legioni, tra cui quella di Marte, erano andate a
dormire il sonno eterno in fondo al mare671. Quanto tempo avrebbe
potuto durare questa guerra con la fame e l’inverno, se Bruto
continuava tenacemente la strategia della attesa e del rinvio? Per
fortuna dei triumviri Bruto non sapeva mantenere la disciplina come
Cassio672; era troppo arrendevole; discuteva troppo cortesemente con
i soldati invece di comandare; cosicchè i soldati lo amavano
assai ma gli ubbidivano poco. Subito, nell’esercito non più
governato con fermo vigore, la disciplina si rallentò;
nacquero gelosie e discordie tra gli antichi soldati di Cassio e
quelli di Bruto; passata l’impressione della prima battaglia,
rinacque la fretta di finire la guerra, la petulante confidenza
nella vittoria, il fastidio della attesa, che fomentavano gli
inesperti ufficiali, i capi degli alleati d’Oriente, desiderosi di
tornare a casa673. Bruto non seppe far tacere questi mormorii,
comprimere queste inquietudini. Sebbene mostrasse fuori la sua
consueta aristocratica serenità, egli era esausto: dalle
commozioni, dalle ansietà, dallo straordinario sforzo di
volontà necessario per compiere ogni giorno un così
immenso lavoro, dalla brevità dei sonni, dalle allucinazioni
che avevano ripreso a tormentarlo. Egli andava inducendosi in quel
fatalismo rassegnato che è l’ultima paralisi della
volontà negli spiriti troppo sensitivi ed esausti da troppe
commozioni e fatiche; già da tempo aveva scritto ad Attico di
essere felice, perchè vincendo avrebbe salvata la repubblica,
perdendo si sarebbe ucciso e avrebbe lasciata una vita
intollerabile674; e così preparato alla morte, se restava con
il corpo in mezzo alla mischia, se pareva ancora dirigere gli ultimi
atti della guerra, in verità già aveva abbandonato il
cimento, rimettendosi alla fortuna, pronto a pagare con la vita la
disfatta. Ma Antonio invece si esasperava in un furore di estreme
provocazioni; mandava i soldati suoi fuori del vallo a chiamar vili
e poltroni i nemici; e faceva loro gettare biglietti eccitanti alla
ribellione. Bruto cercava di persuadere con bei ragionamenti i
soldati furiosi ad avere pazienza; ma il malcontento per l’inerzia
del generale crebbe invece, come sempre avviene quando si vuol
placare con le ragioni la passione di una folla eccitata; gli stessi
sfoghi del malcontento che Bruto non aveva forza a reprimere lo
alimentavano; gli ufficiali erano sempre intorno a Bruto, per
persuaderlo a dar battaglia; qualche defezione avvenne davvero!
Bruto capiva ora che era un errore; che aveva avuto ragione Cassio
di consigliare la pazienza: ma egli era esausto; e alla fine si
lasciò strappare l’ordine di dar battaglia, a malincuore. E
Antonio con le sue milizie più solide e con la sua energia di
generale lo disfece675. Riparatosi in una valletta dei colli vicini
con qualche amico, l’uccisore di Cesare si uccise senza un lamento,
con la consueta aristocratica serenità, facendosi aiutare da
un retore greco, Stratone, che era stato suo maestro d’eloquenza676.
Egli non fu nè uno stolto nè un genio, nè uno
scellerato nè un eroe, come lo hanno giudicato secondo la
passione di parte i più; ma un uomo di studio e un
aristocratico, che i tempi indussero a agire come un eroe e ad
assumersi un’impresa alla quale non gli bastavano le forze. Per
orgoglio egli sostenne il peso della sua responsabilità sino
alla morte; ma ci cadde sotto. Il suo sacrificio non fu invano
però. Certo egli pensò nell’istante supremo che la
grande idea classica della repubblica per cui moriva sarebbe perita
nel mondo ormai troppo corrotto. Bruto non poteva sospettare chi
avrebbe ripresa l’idea e l’avrebbe adattata alle condizioni mutate
del mondo. Eppur quell’uomo non era lontano da lui e aveva
combattuto a Filippi: ma nell’altro campo.
XII.
FULVIA E LA GUERRA AGRARIA D’ITALIA.
[42 a. C.] Sul campo di Filippi perirono parecchie illustri prosapie
romane. Oltre Bruto, che non aveva prole, morirono l’unico figlio di
Catone, l’unico figlio di Lucullo, l’unico figlio di Ortensio.
Morì pure un nipote di Cassio, Lucio. Un certo numero di
proscritti e di congiurati, presi prigionieri, furono trucidati: tra
questi Favonio677. Ottaviano, inferocito dal tremendo pericolo
corso, sembra aver mostrato in questa occasione la crudeltà
della paura che è la più terribile, insultando i
prigionieri più insigni prima di farli uccidere678.
Dell’esercito disfatto la maggior parte si ritirò con i suoi
ufficiali al mare, montò sulle navi, si rifugiò a
Taso, dove poteva stare per qualche tempo al sicuro a rinfrancare
gli spiriti abbattuti. Ma dopo tanta sventura non era più
possibile vincere l’universale scoraggiamento: molti uomini insigni
si uccisero: Livio Druso, che lasciava a Roma solo una figlia;
Quintilio Varo, Labeone e molti altri679; e ben presto ciascuno
pensò ai casi suoi; l’esercito si disfece. Non pochi tra i
nobili, i conservatori, i proscritti, i congiurati si salvarono in
varie parti: Gneo Domizio si impadronì a Taso di un certo
numero di navi, indusse a salirle molti soldati del disfatto
esercito e aprì le vele, risoluto, se non c’era altro scampo,
a fare il pirata680; il figlio di Cicerone scappò in Asia,
dove erano ancora alcuni distaccamenti di milizie e riparti di
flotte dell’esercito del due congiurati: uno sotto il comando di
Cassio Parmense sulle coste dell’Asia: uno sotto il comando di un
certo Clodio e di Turullio in Rodi; uno sotto il comando di un certo
Manio Lepido a Creta681. Lucio Valerio Messala Corvino e Lucio
Bibulo, il figliastro di Bruto, restati a Taso, dopo aver rifiutato
di assumere il comando offerto loro dai soldati che erano ancora
nell’isola, patteggiarono con Antonio e cedendogli il tesoro e i
magazzini dell’esercito ebbero salva la vita682. Gli ufficiali
più oscuri furono perdonati più facilmente, come
Quinto Orazio Flacco, che se ne tornò mogio mogio in Italia.
Dei soldati, i più si arresero o si dispersero.
Dopo questa vittoria la opposizione al governo popolare e cesariano
parve a quasi tutti vinta per sempre; nessuno osò più
sperare che i pochi disperati buttatisi al mare o il signore della
piccola Sicilia potessero mutare le sorti della guerra. Filippi
aveva confermato definitivamente Farsaglia. La libertà era
morta; gli eserciti riconoscerebbero ormai per capi i triumviri, i
quali parevano perciò a tutti sicuri per l’eternità
del potere, Antonio in special modo. Dopo la battaglia, quando i
senatori presi prigionieri erano stati condotti innanzi ai
triumviri, tutti avevano salutato rispettosamente Antonio; ma
parecchi avevano inveito contro Ottaviano acerbamente683. Sul punto
di morire costoro anticipavano il giudizio universale. I soldati
sapevano che Antonio aveva vinta la guerra, mentre Ottaviano non
aveva fatto nulla; tutti giudicavano che Antonio avesse conquistata
la sua grandezza, a quarantun anni, con uno sforzo pari per
lunghezza e fatica all’effetto, mentre Ottaviano pareva esser
piuttosto un detestabile intruso, un ambizioso crudele e perverso,
che una immeritata fortuna aveva favorito. Quanto a Lepido, si era
troppo screditato, lasciando nei mesi della guerra Fulvia prepotente
e intrigante usurpare quasi i suoi poteri triumvirali e consolari,
governare l’Italia in sua vece, imporsi al Senato e ai
magistrati684. Quindi annichilato davvero il partito conservatore,
vinta l’ultima battaglia, Antonio era ora l’arbitro supremo di un
potere maggiore e più sicuro che quello di Cesare dopo Tapso,
perchè, se pur doveva ancora darne una parte allo screditato
collega, poteva imporre a questo ogni suo volere685. Perciò
egli fu senza dubbio il principale autore delle molte e gravi
deliberazioni prese dopo Filippi dai due triumviri. Non ostante la
vittoria le difficoltà erano molte. Bisognava pagare ai
soldati i 20 000 sesterzi promessi e gli arretrati del soldo, –
e i denari mancavano; bisognava congedare una parte dell’esercito,
non potendosi continuare il dispendio enorme di quarantatre legioni;
era necessario mantenere alla fine a quella parte dei veterani di
Cesare, i quali alle Idi di marzo non avevano ancora ricevuto nulla,
le annose promesse del dittatore, che i triumviri si erano assunte
come continuatori della tradizione cesariana; urgeva quindi
ristabilire la autorità romana nella parte dell’impero da cui
si poteva spremere denaro, nell’Oriente, che la guerra civile aveva
messo tutto sottosopra. I principotti siriaci e fenici spodestati da
Pompeo erano ricomparsi negli ultimi due anni, e più
numerosi, favoriti alcuni da Cassio, altri di propria iniziativa,
approfittando dello scompiglio; cosicchè le principali
città formavano ora altrettanti staterelli in guerra tra
loro. Uno di questi principi, quello di Tiro, aveva mosso guerra
alla Palestina, prendendo una parte del territorio d’accordo con
Tolomeo, principe di Calcide, e con l’aiuto di Antigono, figlio di
quell’Aristobulo cui Pompeo aveva tolto il potere in Palestina per
darlo a Ircano: in Palestina la guerra civile era scoppiata di nuovo
in apparenza tra i partigiani di due pretendenti, in verità
tra il partito nazionale e quello romano: più tranquilla era
l’Asia, ma in gran disordine per le ultime guerre e rapine:
discordie di caste, rivalità di famiglie e di cricche
infierivano in quasi tutte le monarchie e nei principati vassalli:
qua e là era scoppiata anche qualche piccola rivoluzione. Non
si poteva quindi addormentarsi sugli allori. Si deliberò
innanzi tutto di porre in disparte Lepido, che, mentre essi
vincevano la guerra di Filippi, non aveva fatto se non sciocchezze
in Italia, e che a ogni modo, avendo solo tre legioni, non poteva
lusingarsi di resistere a loro. Il fugace soffio di
opportunità che aveva innalzato la sua fortuna come una
foglia, era passato; quindi la sua fortuna cascava. Quanto
all’esercito che, perite nella guerra tre intere legioni, era
ridotto a 40, si deliberò naturalmente di congedare le 8
legioni di veterani di Cesare richiamate sotto le armi – le 3 di
Ventidio, le 3 di Lepido, le 2 di Ottaviano – e i veterani
distribuiti alla spicciolata in questa o in quella legione,
riducendo così l’esercito a 32 legioni686. Di queste le 11
che avevano combattuto a Filippi e che restavano in Macedonia sotto
le armi, dopo il congedo delle altre 8, sarebbero rinvigorite con
soldati di Bruto e di Cassio e divise tra i due generali – 6 ad
Antonio 5 ad Ottaviano: Ottaviano avrebbe anche le 3 legioni di
Lepido; cosicchè Antonio comanderebbe a 17 legioni, le 11
lasciate in Italia e le 6 di Macedonia; Ottaviano a 15, le 7
d’Italia, le 3 di Lepido, le 5 di Macedonia. Quanto alle provincie
di Lepido, Antonio si prenderebbe la Narbonese, Ottaviano le Spagne,
cedendo in cambio la provincia di Africa ad Antonio687, dove, mentre
i triumviri combattevano a Filippi, era scoppiata una piccola guerra
civile. Cornificio non aveva voluto riconoscere il potere dei
triumviri; Sestio, governatore dell’Africa Nova, si era dichiarato
per Antonio: e ne era nata una guerra in cui il primo era stato
vinto ed ucciso. Si stabilì anche che, se la intera
spoliazione di Lepido sembrasse generare qualche pericolo, Ottaviano
gli cederebbe la Numidia e Antonio l’Africa688. Deliberarono poi che
Antonio si recherebbe nell’Oriente a cercarvi denaro con il pretesto
di pacificarlo e che Ottaviano andrebbe in Italia a fare guerra a
Sesto e a dare finalmente le terre ai veterani di suo padre. Questo
impegno non era leggero. I veterani di Gallia ancora insoddisfatti
non erano probabilmente più numerosi di 7 od 8000689 dopo le
nuove guerre; ma siccome dovevano ricevere ciascuno la misura
maggiore delle assegnazioni – 200 iugeri (circa 50 ettari) –
bisognava trovare da 3 a 400 000 ettari di buona terra italica:
impresa quasi impossibile con i mezzi ordinari. Non aveva il partito
popolare promesso ripetute volte e sempre invano, di dare ai seguaci
della parte popolare una porzione del suolo d’Italia? Ma tante leggi
agrarie approvate nel 64, nel 60, nel 59, erano state invano incise
in marmo e in bronzo, perchè il partito popolare, signore
dello Stato solo di tempo in tempo e non mai pienamente e sempre
alle prese con un partito conservatore ancora potente, aveva dovuto
rispettare tutte le finzioni della legalità, proporre
soltanto di distribuire le reliquie dell’ager publicus e di comprare
a prezzi equi le terre, sine iniuria privatorum690. Ora togliere di
buon accordo e senza violenze a chi la possedeva tanta parte del
privilegiato suolo d’Italia che non pagava imposte, non si poteva;
cosicchè era sempre avvenuto che, l’ager publicus essendo
scarso, quando si era tentato poi di comprare le terre dei privati
nessuno aveva voluto vendere se non a prezzi troppo alti, e le
raccomandazioni, le preghiere, gli intrighi dei possidenti avevano
incatenate di invisibili lacci le braccia ai deduttori di colonie,
Cesare non escluso. D’altra parte i triumviri non avevano denaro, e
quindi, anche avessero voluto, non potevano comperare le terre:
viceversa dopo avere interamente annientato a Filippi il partito
conservatore, e alla testa delle legioni unite nel concorde
proposito di procacciarsi una larga agiatezza, potevano usare i
procedimenti spediti e violenti, a cui Cesare dopo Tapso non aveva
osato ricorrere contro i conservatori sconfitti ma non distrutti, e
con i quali soltanto si potevano vincere le occulte, ma tenaci
resistenze degli interessi privati. Antonio e Ottaviano deliberarono
quindi di dare a quei 7 od 8000 soldati delle terre nel territorio
di diciotto tra le più belle e ricche città
italiche691, prendendo in ciascuna subito a ogni possidente una
parte del bene suo e promettendo un indennizzo a loro arbitrio che
sarebbe pagato poi, quando potrebbero. Queste colonie sarebbero
tutte dedotte da Ottaviano e riceverebbero il nome di Juliae,
essendo composte tutte di veterani del vecchio Cesare ed in
adempimento delle sue promesse692. Si deliberò infine di
porre in esecuzione la legge di Cesare che concedeva la cittadinanza
ai Cisalpini693. Questo trattato, conchiuso tra loro segretamente,
non sarebbe sottoposto all’approvazione nè del Senato
nè del popolo694, perchè dopo Filippi le ipocrisie
costituzionali usate alla fondazione del triumvirato non parevano
più necessarie; e si poteva fare più apertamente
violenza alle tradizioni repubblicane con il potere personale.
Infine Antonio si fece dare da Ottaviano altre due legioni che erano
in Macedonia, promettendo di fargli cedere due legioni sue di stanza
in Italia695.
Molti storici moderni hanno creduto che Antonio scegliesse di andare
in Oriente per stolto desiderio di facili voluttà; ma molto
più probabile mi pare che deliberatamente egli si assumesse
di riordinare quella che a lui come a tutti i contemporanei, Cesare
non escluso, pareva la parte migliore dell’Impero. Che cosa valevano
le provincie di Europa, povere, poco popolate, semibarbare, in
confronto all’immenso, ricchissimo, civilissimo Oriente, dove erano
le grandi metropoli industriali, le grandi vie del commercio, le
sedi degli studi, le terre meglio coltivate? L’Italia stessa era
tormentata da una crisi economica e politica così intensa,
lunga, molteplice, che ormai i più disperavano non potesse
ricomporsi mai in ordine e pace. Anche Cesare si era volto ad
ingrandire la dominazione romana verso il Reno quasi per caso,
perchè nessun’altra occasione di conquiste si era offerta
alla fine del suo consolato; ma egli pure aveva considerato sempre
l’Oriente come la vera preda dell’Italia; e nel 65 aveva tentato di
far conquistare l’Egitto, nel 56 di far conquistare la Persia; ed
era morto mentre preparava una nuova spedizione contro la Persia,
mentre meditava certe composizioni e alleanze tra Roma e l’Egitto,
che non sono ben chiare. Del resto i progressi del mercantilismo
disponevano naturalmente gli spiriti a ingrandire la importanza
della ricchezza nelle cose umane; e quindi a considerare i paesi
più ricchi come i migliori e i più perfetti. Non
avevano i triumviri corso rischio di fallire nella guerra per
mancanza di denaro? Non aveva Cesare detto che il mondo si governa
con i soldati e con l’oro? Antonio, che giudicava come il maestro,
voleva sottoporre alla sua dominazione, ora che aveva un esercito, i
paesi più ricchi; sicuro che, quando fosse signore di immensi
tesori, dominerebbe l’Impero. Insomma in questa, come in ogni altra
parte dell’accordo di Filippi, Ottaviano dovè subire le
condizioni che piacque ad Antonio di imporgli696.
Così, verso la fine dell’anno 42, Antonio partiva con otto
legioni per la Grecia e Ottaviano veniva con tre legioni in Italia,
preceduto e seguito dal torrente dei veterani congedati, che
facevano ritorno alle loro case. In Italia la notizia della vittoria
di Filippi era stata ricevuta dalle classi agiate con grande dolore.
L’ultima speranza era perduta; l’Italia era alla mercè dei
triumviri, cioè dei veterani di Cesare e dell’esercito; e i
danni già ricevuti dalla rivoluzione militante facevano
temere terribili cose dalla rivoluzione trionfante. I triumviri,
esigendo tante imposte in denaro in un tempo di crisi in cui i
metalli preziosi erano così scarsi, precipitavano brutalmente
nei burroni del fallimento molti possidenti, specialmente molti
piccoli possidenti, i quali non potevano più questa volta
neanche cercare di aggrapparsi nella caduta precipitosa ai rovi
dell’usura. Uccisi molti dei più ricchi capitalisti,
spaventati gli altri e dispersi tra i soldati i capitali accumulati
dagli usurai, nessuno prestava più; e i possidenti, che non
potevano pagare nè con proprio nè con denaro altrui,
erano senz’altro spogliati delle loro terre. Poco giovava loro la
concessione fatta dai triumviri di avere una terza parte del denaro
ricavato dalla vendita dei loro beni; perchè non era
possibile venderli se non a vilissimo prezzo697. Così anche
gran parte di quella piccolissima possidenza che, a furia di stenti,
era riuscita a crescere tra i grandi patrimoni pubblici e privati
nel mezzo secolo antecedente, era di nuovo rovinata. Si aggiungeva
ai tanti rammarichi la muliebre dominazione di Fulvia. Anche questo
scandalo aveva dovuto tollerare l’afflitta Italia, così
tenacemente memore ancora e con tanto idilliaco rimpianto dei tempi
in cui le donne si chiudevano obbedienti e modeste nella casta vita
casalinga! Ma ora che la intera distruzione della vecchia
nobiltà aveva annientata interamente la classe, che
più di ogni altra sosteneva con il suo influsso la tradizione
in ogni cosa, lo spirito rivoluzionario divampava dai partiti negli
studii, nelle lettere, nella vita privata. Fulvia era un mostro; ma
l’ambizione e la prepotenza di lei molti uomini ritrovavano, sia
pure in misura minore, nelle proprie donne e nelle proprie figliuole
che, educate ormai nella società alta con coltura letteraria
e ad abitudini di libertà e di piacere, non si contentavano
più di restare in casa ad allevare i figli e a sorvegliare
gli schiavi, ma volevano uscir fuori a godere e ad essere ammirate,
mentre gli uomini, infiacchiti dai vizii, dagli studii, dalla
irrequietezza nervosa, dalle fisime filosofiche, ne diventavano
assai spesso i servi o le vittime. Come nello Stato, anche nella
famiglia la autorità si infiacchiva; l’antico e dispotico
pater familias si mutava nel rassegnato partecipe di una signoria
slegata e discorde, come sempre avviene quando nelle civiltà
raffinate e voluttuose l’uomo depone la fiera autorità
paterna dei regimi agricoli e aristocratici, e si lascia mollemente
strappare di mano il più efficace strumento della dominazione
mascolina: il bastone. E come nelle famiglie e nello Stato, la lotta
tra il nuovo e l’antico ferveva nella letteratura. La smania di
studiare, già così diffusa fra le classi alte e medie
nella generazione precedente, si diffondeva ancora più nella
generazione nuova. Ormai Cicerone aveva fondata in Italia la
dinastia degli uomini di penna; il sapere era considerato abbastanza
a lato della ricchezza e del potere; e più sarebbe, a mano a
mano che la aristocrazia spariva e il potere e la ricchezza cadevano
in signoria di gente oscura. La politica invece era diventata un
gioco cieco di fortuna, in cui si diventava potente e ricco in
un’ora, ma il dì dopo si poteva perdere vita e beni con
eguale facilità. Perciò molti padri nelle classi
agiate pensavano non essere prudente rischiare i figli tra i
famelici avventurieri che si disputavano le magistrature, e
preferivano impartire loro una raffinata istruzione. A questa
sollecitudine dei padri corrispondeva in molti giovani una debolezza
di membra, una timidezza, una pigrizia, un fastidio delle
inquietudini e delle responsabilità che li faceva inclini
agli studi; cosicchè, se in quegli anni di crisi molti
mestieri o professioni languirono, non scarseggiarono agli
insegnanti e alle scuole gli studenti: figli di agiati possidenti
delle piccole città, figli liberti o schiavi dei cavalieri
che avevano conquistata una discreta agiatezza nella età di
Cesare con la agricoltura e la mercatura. Roma era piena di poeti,
che leggevano le loro poesie al pubblico, volente o nolente, sino
nei bagni698. In questi anni studiava Tito Livio, il figlio di un
ricco signore di Padova, che aveva sul finire del 42 diciassette
anni; studiava Tibullo, figlio di un agiato possidente e cavaliere,
che aveva allora circa dodici anni; era già destinato agli
studi Properzio, il figlio di un agiato possidente dell’Umbria,
fanciullo ancora di sette anni; incominciavano a studiare tutti i
numerosi poeti e scrittori minori, i liberti che vedremo
nell’età di Augusto insegnare retorica e grammatica. Si
formava così di liberi e di schiavi e di liberti un ceto
latino di “intellettuali”, come si direbbe adesso, i quali
contenderebbero ben presto i lucri e la considerazione delle
professioni intellettuali ai retori e ai filosofi orientali, fino
allora quasi assoluti dominatori della coltura in Roma: ma li
contenderebbero, aiutando al trionfo della coltura dei loro rivali
su quella nazionale. La vecchia letteratura classica romana era
sprezzata e negletta; l’ellenismo trionfava dappertutto. Intorno ad
Asinio Pollione, che governava in quell’anno 42 la Gallia Cisalpina,
e che, giovane, ricchissimo, colto, scriveva egli stesso carmina
nova699, poesie cioè di stil nuovo, si raccoglieva un
crocchio di giovani poeti fieramente nemici dei tardi imitatori di
Ennio, vaghi delle più audaci innovazioni elleniche. Tra
questi il ventottenne Virgilio, incoraggiato da Asinio, meditava
un’audacia ben maggiore dei piccoli componimenti poetici in cui si
era provato sino allora: scrivere cioè in esametri delle
egloghe a imitazione di Teocrito, ma raffigurando in pastori siculi
uomini, in scene bucoliche eventi del tempo suo; interponendo tra i
convenzionali paesaggi della bucolica greca qualche bella pittura
del dolce paesaggio valpadano, che egli, contadino allevato sulle
rive del gran Mincio dai lenti meandri, tanto sentiva ed amava.
Già sul finire del 42 egli era intento a comporre l’egloga
seconda – la prima da lui scritta – sugli amori del pastore Coridone
per il leggiadro Alessi, vestendo così di versi bucolici,
secondo almeno dissero gli antichi, la ammirazione sua per un
giovane schiavo che Asinio gli aveva regalato; e l’egloga terza in
cui, imitando il quarto Idillio di Teocrito, introduce due pastori
che prima si bisticciano, poi si sfidano al canto e nei canti amebei
lanciano invettive ai poeti della vecchia scuola latina, celebrano
Pollione come cultore del nuovo stile700. Le polemiche letterarie
contemporanee nei canti dei pastori d’Arcadia! Nel tempo medesimo il
fervido ingegno di Sallustio, concitato dalla bile, infrangeva
un’altra antichità secolare: l’annalistica. Rifatta nella
guerra civile di Cesare la sua fortuna rubando molto in Numidia,
Sallustio aveva potuto sfoggiare al suo ritorno gran lusso e
fabbricarsi ville e palazzi, compiacersi nel pensiero del sicuro
potere di cui ora godrebbe per l’amicizia di Cesare.... Le Idi di
Marzo avevano abbattuta all’improvviso questa sicurezza e lo avevano
fatto fuggire precipitosamente dalla vita politica, ridiventata
troppo perigliosa per un uomo così ricco: ma non per questo
Sallustio si era riconciliato con i conservatori; e appena dopo
Filippi il pericolo di una restaurazione conservatrice sparì
interamente, si diè a sfogare il suo rancore con la penna,
incominciando un seguito di storie che dovevano tutte mostrare la
vergogna e le colpe del partito conservatore. La prima, quella a cui
attendeva in questi tempi, aiutato da un liberto greco di nome
Atteio, retore e grammatico di professione701, era una storia
paradossale della congiura di Catilina, in cui tentava una
audacissima ritorsione contro i conservatori, accusanti ad ogni
momento i popolari di essere stati complici del terribile
facinoroso: dimostrare che quella congiura era stata tramata dalla
nobiltà devota a Silla, impoveritasi per avere dissipate
troppo presto le prede sanguinose della guerra civile; che era
quindi una onta del partito conservatore, a cui aveva preso parte
perfino la madre di un loro eroe e di un uccisore di Cesare, Decimo
Bruto. Ma pur confondendo e alterando i fatti per passione, egli
rendeva un grande servigio alla cultura latina, rinnovando nella
storia artistica, psicologica e razionale quella sparuta
annalistica, a cui si era ridotta da secoli in Roma la narrazione
degli eventi, e che era una convenzione non meno arida e stupida
della cosidetta storia critica e scientifica, a cui certi pedanti
vorrebbero oggi ridurla. Neanche Attico e Cornelio Nepote avevano
osato raccontare i grandi fatti di Roma se non, come facevano tutti
da secoli, anno per anno, asciuttamente, senza arte, quasichè
i personaggi della storia fossero ombre e gli eventi un semplice
oggetto di monotone enumerazioni. Sallustio scrisse invece,
sull’esempio dei greci e specialmente di Tucidide, una storia
psicologica ed artistica, in cui le passioni degli uomini erano
analizzate, le figure rappresentate con vivacità, gli eventi
narrati secondo un ordine razionale e fatti oggetto di
considerazioni filosofiche e morali702.
[41 a. C.] Ma tanti contrasti ideali e politici, aggiunti all’ansia
delle classi possidenti per l’insicurezza dei beni, generavano in
tutta Italia un atroce malessere, una universale asprezza di
risentimenti e rancori. Quando sulla fine del 42 si seppe che
Ottaviano nel viaggio di ritorno si era ammalato di nuovo e
così gravemente da essere creduto in pericolo di vita703,
molti in Italia ne sentirono grande allegrezza. Volessero gli Dei
che morisse! Tanto era certo che ritornava per compiere qualche
nuova ribalderia a danno dei ricchi e dei cittadini dabbene704. Ma
il giovane triumviro non morì, e discretamente rimesso in
salute, ritornò sul principio dell’anno 41 a Roma, dove
l’aspettavano Fulvia, risoluta a governare, presente il suo giovane
genero, come aveva governato con Lepido; e l’ambizioso e turbolento
Lucio Antonio, il quale in quell’anno era console con Publio
Servilio e pensava come Fulvia che questo giovane screditato,
malaticcio, i cui giorni parevano contati, non oserebbe contrastare
al fratello e alla moglie di Antonio. E difatti Ottaviano, che era
indebolito dalla recente malattia e in gran pensiero per la grave
missione di dividere le terre, non ritornava con propositi
litigiosi. Diede ordine a Salvidieno di andare in Spagna nella
provincia di Lepido con sei legioni, ma non avendo potuto persuadere
Lepido a dargli le sue tre legioni, si rassegnò ad esserne
privo per il momento; mostrò le lettere di Antonio ed ottenne
la promessa che Caleno gli cederebbe le due legioni705, ma non
insistè più, appena si frapposero dilazioni a
mantenere la promessa; senza dar motivo alcuno di briga a Lucio e a
Fulvia, incominciò le operazioni per la divisione delle
terre, nominando per ogni parte dell’Italia i commissari incaricati
di distribuirle e reclutando agrimensori. Tuttavia era troppo
intelligente e anche troppo ambizioso da lasciarsi governare da
Fulvia e da non far valere i suoi diritti di triumviro; onde ben
presto nacquero dei malumori e Lucio prese ad accusarlo di violare i
suoi diritti di console706. Ottaviano avrebbe avuto più
ragione di lagnarsi, che non gli davano le due legioni707; pure
tollerò in principio con pazienza anche questa molestia,
sollecito come era di distribuire le terre ai veterani. In breve in
molte città dell’Italia, tra le quali noi possiamo enumerare
con sicurezza Ancona, Aquino, Benevento, Bologna, Capua, Cremona,
Fermo, Firenze, Lucca, Pesaro, Rimini e Venosa, arrivarono i
commissari che dovevano determinare in ciascuna quanta terra fosse
necessaria a dedurvi i veterani destinati a quella come coloni,
cercare la lista dei possidenti, ripartire tra questi la
contribuzione, probabilmente in proporzione dei beni, e non della
terra solo, ma del bestiame, degli schiavi e della suppellettile
agricola; determinare per ogni espropriazione le indennità
che non sarebbero pagate708: aiutati poi dagli agrimensori,
assegnare le terre, spartire gli schiavi e il bestiame. Nella
primavera si diè dovunque principio alle misurazioni delle
terre; le famiglie agiate, come quella degli Albii Tibulli o dei
Properzi in Umbria, perdevano una parte del loro patrimonio; i
piccoli possidenti, che possedevano un campo più piccolo
della misura minore stabilita, perdevano tutto; il ceto possidente,
quella agiata borghesia italica che aveva così platonicamente
favorito il partito dei congiurati, dovè cedere ai veterani
una parte delle terre in cui negli ultimi anni essa aveva piantato
le vigne e gli uliveti con tanto travaglio e prendendo a prestito il
capitale a così alte usure; spartire con i reduci di Filippi
gli armenti, di cui aveva migliorate le razze, gli schiavi che aveva
comperati con tanto dispendio, allevati e istruiti con tanta fatica.
I veterani non volevano come i soldati del buon tempo antico terre
selvaggie da dissodare, ma campi già fruttificanti per il
lavoro degli altri, provvisti di attrezzi, di armenti e di schiavi,
possedendo i quali finire comodamente la vita come agiati rentiers e
membri onorati di un senato municipale709.
Ma un’agitazione in apparenza terribile scoppiò in Italia al
principio di queste assegnazioni. Da ogni parte, nei primi mesi del
41, le città minacciate mandarono deputazioni a Roma a
intrigare, a supplicare, a protestare sopratutto perchè solo
diciotto città italiane erano spogliate. Se l’Italia doveva
sostenere pur questo danno, non era giusto che fosse diviso tra
tutti?710 Questa agitazione, questi lamenti, questi intrighi non
potevano non inquietare Ottaviano, giovane, screditato, malato;
quando una difficoltà ben più grave, inaspettata,
quasi inverisimile, sopravvenne. Irritati che il giovane non fosse
così docile come essi volevano, Fulvia e Lucio presero
d’accordo a intralciargli con vari pretesti le assegnazioni.
Incominciarono a dire che si doveva aspettare a dividere le terre
quando Antonio fosse tornato dall’Asia; poi pretesero che, se si
dovevano dividere subito, i veterani di Cesare, i quali nella guerra
di Filippi avevano militato sotto gli ordini di Antonio, avevano ad
essere dedotti o da Antonio in persona o da rappresentanti suoi,
affinchè ad Antonio e non ad Ottaviano si sentissero
riconoscenti711. Ottaviano mostrò il testo dell’accordo
conchiuso a Filippi; ma Fulvia e Lucio non cedettero; Fulvia anzi
pare supplicasse e intrigasse tanto fra i veterani presenti a Roma,
che alla fine Ottaviano cedè712, incaricò Asinio
Pollione di dirigere le commissioni per la Gallia Cisalpina713 e
mise nelle altre parecchi amici di Antonio, come Planco in quella
per Benevento714. Ma le difficoltà crescevano naturalmente,
anche senza la malizia dei nemici. I veterani, fatti insolenti dalla
loro potenza, prendevano anche terre non assegnate715; nella classe
agiata l’ammirazione di Bruto e di Cassio, l’odio contro il
dispotico triumvirato, il desiderio delle libere istituzioni era
rinfocolato dalla rabbia dei beni perduti e degli indennizzi non
pagati; i piccoli possidenti che perdevano tutto, non di rado davano
piglio alle armi e facevano tumulti e uccisioni716, o andavano ad
arruolarsi nell’esercito di Sesto Pompeo717, si buttavano al
brigantaggio, o caricati sopra un rozzo plaustro i figli e i penati,
traevano a Roma con la speranza di campare ivi in qualche modo la
vita. In breve Roma, già piena di veterani che aspettavano di
essere dedotti nelle colonie, fu invasa dalle torme cenciose e
fameliche delle loro vittime che si rifugiavano e gemevano nei
templi718. Grave era poi, ogni dì più, la mancanza del
denaro: Antonio non mandava nulla719; eppure Ottaviano doveva pagare
ai veterani i premi e fornire i soldati più poveri di qualche
contante, di schiavi e di attrezzi là dove le confische dei
possidenti non bastavano; era anche senza tregua sollecitato dai
possidenti espropriati a pagare gli indennizzi. Egli
ricominciò a vendere i beni dei proscritti e quelli dei
ricchi caduti a Filippi, di Lucullo e di Ortensio; e potè
cavarne qualche denaro720, perchè molti veterani e ufficiali,
così dell’esercito dei triumviri come dell’esercito di Bruto
e di Cassio, erano tornati da Filippi con un bel gruzzolo e certo
non pochi erano lieti di investirlo in beni venduti a vile prezzo.
Inoltre impose una contribuzione alle città esenti dalla
confisca delle terre. Ma di somme ben maggiori avrebbe avuto
bisogno. Per ultima sventura a primavera Sesto Pompeo incominciava
ad affamare Roma, dando sul mare la caccia alle navi che portavano
il grano, mentre Domizio dominava l’Adriatico. Tutti i congiurati
superstiti, gli avanzi della flotta e dell’esercito di Bruto e di
Cassio, Staio Murco, Cassio Parmense, Clodio avevano raggiunto o
Sesto o Domizio; cosicchè al primo ancora più che al
secondo erano cresciute molto le forze e il coraggio721.
Ottaviano non poteva non essere, in simile frangente, arrendevole.
Disgraziatamente l’arrendevolezza irrita i violenti più di
ogni provocazione, onde non solo le molestie di Lucio e di Fulvia
non furono interrotte, ma crebbero: le due legioni promesse non
furono consegnate; Caleno e Asinio Pollione, istigati dalla fiera
donna che si imponeva anche a loro, rifiutarono di dare il passo a
sei legioni che il triumviro voleva mandare in Ispagna al comando di
Salvidieno722. Alla fine anzi Lucio lo assalì, per dir
così, alle spalle con un tradimento audacissimo, tentando di
sfruttare l’odio delle classi possidenti contro Ottaviano senza
scontentare i veterani; e prese a sostenere in molti discorsi che
non era più necessario procedere a nuove confische,
perchè c’erano ancora tanti beni dei proscritti disponibili,
con cui si poteva accontentare i veterani723. La avversione
universale contro Ottaviano, la paura o il dolore delle confische,
il malcontento facevano tutti creduli; tutti dissero che Lucio
Antonio aveva ragione, che Ottaviano continuava le confische per la
smania di amicarsi i soldati arricchendoli724; immenso e forse
maggiore di quello che Lucio aspettava fu il movimento fatto in
tutta Italia da questi discorsi, che nell’intenzione di Lucio erano
solo finte per disorientare e turbare l’avversario. L’agiata
borghesia italica si illuse che Lucio fosse d’accordo con Marco nel
disapprovare Ottaviano; quel che restava del partito conservatore si
dispose a una inaspettata e quasi incredibile benevolenza verso
Lucio; i possidenti minacciati, credendosi protetti dal console,
presero coraggio a resistere colle armi. Le zuffe si moltiplicarono
dappertutto, nelle campagne, nelle piccole città725, anche in
Roma; dove notte e giorno un infinito numero di malandrini sbucati
da ogni parte rubavano e ammazzavano, e la miseria, la carestia, il
pericolo crescevano a tal segno che un grande numero di artigiani,
liberti e stranieri, non trovando più lavoro, non sentendosi
sicuri, soffrendo per il caro dei viveri, chiudevano le botteghe, se
ne andavano alla ventura in altre città726. Molti nel partito
di Antonio e sulle prime anche Fulvia si spaventarono, vedendo tanta
agitazione e temendo di alienarsi i veterani727: ma Lucio,
trascinato dal movimento che in principio era proceduto da lui,
illuso anche egli dalle apparenze di quella agitazione,
procedè oltre, si atteggiò apertamente a difensore dei
possidenti spogliati, parve in breve diventar l’uomo più
popolare in Italia fuori che fra i veterani; e con i suoi discorsi e
le sue agitazioni cacciò nel più tremendo impiccio
Ottaviano. Lucio ormai sosteneva apertamente che le terre dovevano
essere date solo a quei veterani di Cesare i quali dopo le Idi di
Marzo si erano arruolati di nuovo e avevano combattuto a Filippi:
quelli che erano rimasti a casa non dovevano avere nulla728. Tutta
Italia approvava: e sgomento, l’inesperto giovane di ventidue anni
che si vedeva investito da tanta bufera, pochi mesi dopochè
credeva di avere superata la prova ultima e affrontati i supremi
pericoli, cede, cercò di placare il pubblico esasperato;
rinnovò la legge di Cesare che per un anno condonava gli
affitti fino a 500 sesterzi nelle altre città dell’Italia e
fino a 2000 in Roma; deliberò non si toccassero nelle
assegnazioni i beni dei senatori, i beni dotali, le terre minori
della misura assegnata ai veterani, per salvare i piccoli possidenti
dalla intera rovina729. Virgilio allora, che sentiva l’afflizione
dei piccoli possidenti, piccolo possidente egli pure, osò per
la prima volta trattare anche la politica, come diremmo adesso
“d’attualità”, in poesia bucolica; e lieto e commosso
espresse con la egloga prima la gratitudine sua e dei piccoli
possidenti italici al giovane triumviro che ancora non conosceva,
mescolandoci un poco di quella enfasi semi-religiosa che dopo
l’apoteosi di Cesare accennava a diffondersi dai morti ai vivi, dal
fondatore ucciso ai nuovi capi del vittorioso partito popolare:
O Meliboee, Deus nobis haec otia fecit:
Namque erit ille mihi semper
Deus; illius aram
Saepe tener nostris ab ovilibus imbuet agnus730
e terminava con una dolce descrizione della agreste pace serale:
Et iam summa procul villarum culmina fumant
Maioresqne cadunt altis
de montibus umbrae.
Ma a Ottaviano il culto dei pastori di Virgilio era scarso compenso
al malcontento, che queste concessioni fecero nascere fra i veterani
presenti a Roma; i quali già prima poco rispettosi di lui e
ora furibondi addirittura, proruppero in insolenti dimostrazioni e
uccisero anche degli ufficiali che avevano osato rimproverarli731.
Per calmare a loro volta i soldati, Ottaviano, che non aveva osato
punire gli uccisori degli ufficiali, sembra promettesse di aumentare
il numero delle città su i cui territori dedurre le colonie;
deliberò inoltre che anche ai parenti dei veterani non si
potessero togliere i campi732; e per pagare più presto i
soldati, prese a prestito, come egli diceva, in realtà si
prese puramente e semplicemente le somme deposte nei templi d’Italia
come tesori sacri733.
Così al principio dell’estate del 41 pareva non esservi
scampo per Ottaviano, perchè se schivava un pericolo
necessariamente incorreva nell’altro: o soddisfare le cupidigie dei
veterani senza paura e misericordia, esasperando le classi agiate, o
provocare la collera dei veterani senza amicarsi nessuno, se tentava
di accontentare in parte gli uni, in parte gli altri. Intanto
Antonio aveva condotto l’esercito in Grecia e ci si era trattenuto
fino al principio della primavera; poi, giudicando non avere bisogno
di molte milizie per la sua missione, aveva nominato Lucio Marcio
Censorino governatore della Grecia e della Macedonia734, ed era
andato in Oriente, ma non a sciupare il tempo in una sconclusionata
gozzoviglia, come dicono molti storici moderni, seguendo troppo
ciecamente i superficiali racconti antichi. Appena giunto in
Bitinia, era stato assediato da un infinito numero di deputazioni
mandate dalle città e dagli stati di tutto l’Oriente o a
giustificarsi o a domandare il premio della fedeltà o a
lagnarsi di qualche torto ricevuto; ed egli aveva dovuto
sprofondarsi nella selva selvaggia degli intrighi dinastici, delle
rivalità municipali, delle camorre politiche dell’Oriente;
favorire gli uni e perseguitare gli altri per crearsi un partito
politico, per ristabilire l’ordine, per spremere denaro a tutti735.
Ma nel maneggio di questa politica orientale che tanto affaticava
Roma da due secoli, egli non imitò nè la metodica e
spicciativa prepotenza dei primi proconsoli e ambasciatori mandati
alle corti dell’Asia: nè la lucida percezione e risolutezza
di Silla; nè la fretta e l’audacia immaginosa di Lucullo;
nè la dignitosa, sebbene spesso solo apparente,
autorità di Pompeo; nè l’abilità, sicurezza e
prontezza di Cesare. Dopo la definitiva vittoria di Filippi,
l’antico luogotenente di Cesare smetteva nuovamente quella prudenza,
in cui le repentine responsabilità del potere l’avevano
indotto dopo le Idi di Marzo; e trovandosi pienamente a suo agio
nella condizione di capo supremo e di nuovo Cesare, non solo
riprendeva ma esagerava, per la baldanza del successo, la sua antica
natura ineguale, spensierata, gaudente di uomo intelligente ma poco
tenace, pronto nel capire e nel risolvere, ma facile a esagerare, a
dimenticare, a far confusione. Sono frequenti negli uomini
appassionati e veementi questi periodici mutamenti di indole. Quindi
egli si precipitava nei piaceri e nelle imprese, facendo e
disfacendo faragginosamente, lasciandosi abbindolare da numerosi
intriganti, maschi e femmine, mescolando i favori personali con gli
atti politici, subordinando spesso l’interesse politico ai capricci
del suo bizzarro temperamento. C’è una disciplina del potere
non solo per chi ubbidisce, ma anche per chi comanda; che era ben
nota ai vecchi Romani e che consiste principalmente nell’obbligo di
astenersi da atti, in sè innocenti o anche piacevoli, i quali
però scemano il prestigio di chi deve imperare sugli altri.
Ma questo aristocratico sregolato e geniale, vissuto tra i bordelli,
i bagordi e i campi militari, ora che si trovava supremo signore
dell’Oriente come Alessandro, buttava all’aria allegramente anche
questa tradizione e disciplina; non voleva intorno a sè
l’ossequio discreto di una corte che ascolta in silenzio a schiena
curva ma la famigliarità incanaglita di una baldoria; non
cercava di incutere rispetto alla sua gente, di premiare gli
obbedienti, di reprimere gli indocili; ma predilegeva, cercava,
incoraggiva gli impertinenti e gli sfacciati, che osassero
motteggiare salacemente e trascorrere con lui a una licenza di modi
e di parole come si usa tra eguali. Gli orientali, che avevano visto
pochi proconsoli di così buona pasta, non tardarono ad
approfittarne; e una torma di imbroglioni e di avventurieri indigeni
si insinuava nelle sue grazie736. A ogni modo, anche in mezzo a
questa confusione, Antonio conchiuse qualche cosa. Per una gran
somma di denaro si lasciò persuadere da Erode, il figlio di
Antipatro, primo ministro di Ircano Etnarca di Palestina, a intimare
a Tiro di restituire le regioni conquistate737; diede le
disposizioni per raccogliere una flotta di 200 navi; andò ad
Efeso, dove impose alla provincia di Asia un tributo di dieci anni
da pagarsi in due; perdonò parecchi profughi insigni di
Filippi, tra gli altri il fratello di Cassio, ma fece uccidere tutti
i congiurati che prese; risolvè altre questioni di politica
orientale738; e accompagnato da una corte di buffoni, ballerini,
musicanti a cui prodigava il denaro, incominciò un viaggio
attraverso la Frigia, la Galizia, la Cappadocia, sollazzandosi in
feste e banchetti, cercando dappertutto denaro, rimaneggiando la
carta politica dell’Oriente739, godendosi le più belle mogli
e le più belle concubine dei sovrani740. Ma raccoglieva molti
omaggi e pochi denari, perchè Bruto e Cassio avevano portato
via la maggior parte dei capitali accumulati, i quali erano ormai
passati in potere dei soldati e o giacevano nelle casse dei
questori, nel bagaglio dei militi, nelle case dei soldati congedati,
o erano portati a casa dai Traci, dai Macedoni, dai Galli assoldati
come cavalieri e rinviati ai loro paesi741. Cosicchè per
questa parte così importante la sua missione falliva. Infine
giunto a Tarso in Cilicia, gli avvenne uno dei fatti più
importanti della sua vita e disgraziatamente anche uno dei
più oscuri: si incontrò con Cleopatra. Gli scrittori
antichi, che hanno riassunto la storia degli ultimi dodici anni di
Antonio quasi soltanto in un romanzo d’amore, raccontano
drammaticamente che il quarantenne triumviro mandò alla
regina di Egitto l’ordine di venire a Tarso a scolparsi dall’accusa
d’aver favorito Cassio e che la donna fatale recatasi al giudizio
sedusse e fece perdere il senno al vincitore di Filippi. Ma non
è, innanzi tutto, ben chiaro se Antonio intimasse a Cleopatra
divenire a Tarso a scolparsi; o se Cleopatra si recasse, sia
spontaneamente sia per consiglio di amici del triumviro, da
Antonio742. Anche questa seconda versione potrebbe essere vera. A
ogni modo è certo che essa gli andò incontro a Tarso,
con una pompa che gli antichi descrivono molto romanticamente; e non
solo ottenne il perdono, ma ottenne pure che Antonio la aiutasse a
consolidare il suo dominio in Egitto, che gli ultimi eventi avevano
in parte sconnesso; e con molta premura lo invitò a passare
l’inverno ad Alessandria743.
In mezzo a tante faccende e disegni e piaceri non è strano
che Antonio badasse poco alle notizie d’Italia, forse giudicando da
lontano le cose meno gravi e difficili che in realtà non
fossero; certo non rammaricando che Ottaviano ricevesse qualche
molestia dai suoi. Perciò egli se ne andava invece in Siria,
dove in poco tempo e con poca fatica spodestò i principotti
usurpatori, e ricevè la resa delle piccole guarnigioni
lasciate da Cassio. Fulvia, quando si accorse che il marito
dimenticava l’Italia come una piccola terra lontana, tra le feste e
in compagnia delle regine dell’Oriente, che il suo viaggio in
Oriente durava molto più del previsto, temè che anche
la sua potenza a Roma si svigorisse, e incitata non dalla gelosia ma
dalla ambizione, dimenticò il disaccordo per la difesa dei
possidenti assunta da Lucio e si unì a lui con piena intesa,
per suscitare tanto disordine che il marito fosse costretto a
voltarsi di nuovo alle cose d’Italia744. L’uno e l’altra dotati del
temperamento che meglio si conviene ad uomini di azione nelle
rivoluzioni; sconsiderati, arruffoni, precipitosi ad ogni rischio
ambedue, testardi negli odi e agili nel mutare e rimutare offese, i
due cognati erano maggiormente incitati alla violenza e alla audacia
dalle incertezze di Ottaviano, che palesava troppo di volere la
pace. Già infatti, forse sul principio dell’estate, egli
aveva fatto proporre a Lucio da deputazioni di veterani un accordo
concluso poi a Teano, in cui accettava perfino di restringere le
assegnazioni ai soli combattenti di Filippi745. Ma Lucio e Fulvia ne
avevano invece tratto nuovo ardire746 e non solo non avevano
mantenuti gli impegni747 con vari pretesti, ma simulando di temere
insidie in Roma se ne erano andati coi loro amici a Preneste748,
avevano scritto ad Antonio che la sua grandezza era in pericolo749 e
ripreso il disegno fallito nel 44: distruggere Ottaviano e fondare
sulle rovine della fortuna di lui la potenza unica di Marco Antonio
e della sua famiglia. Certo a questo fine essi speravano di potersi
servire delle undici legioni del fratello e marito, di stanza nella
valle del Po e nella Gallia al comando di Caleno, di Ventidio Basso,
di Asinio Pollione. Ottaviano non aveva da opporre a queste che
dieci legioni, incluse le sei che aveva mandate in Spagna al comando
di Salvidieno750, non potendo, in mezzo a tante minaccie,
costringere Lepido a concedergli le sue tre. Anzi si era
riconciliato con lui promettendogli l’Africa751. Tuttavia non si
può dubitare che e da Caleno e da Ventidio e da Asinio fosse
risposto a Lucio e a Fulvia ammonendo ad essere cauti752. Tutta
quella agitazione aveva di sicuro generato molta incertezza nei
deduttori delle colonie e fatte rallentare le assegnazioni; non solo
i veterani già congedati, ma anche i soldati sotto le armi
volevano che la pace tra i due triumviri durasse; era dunque cosa
imprudente provocare una guerra civile a difesa dei possidenti e
contro i veterani, ora che il partito popolare si era mutato in un
esercito. Qualche amico di Antonio, come Barbazio, era anzi
apertamente contrario753. Infatti ad Ottaviano, il quale voleva la
pace e frattanto esplorava le intenzioni dei generali di Antonio, fu
facile di indurre di nuovo i veterani ad interporsi. Segretamente
sollecitate da lui, due vecchie legioni di Antonio, che avevano
ricevuto terre intorno ad Ancona, mandarono un’ambasceria a Lucio e
ad Ottaviano per manifestar loro il comune desiderio degli eserciti
che la pace non fosse turbata: Ottaviano naturalmente si
dichiarò pronto a sottoporre la discordia al giudizio degli
eserciti, aggiungendo che egli era amico di Marco Antonio; le
deputazioni costituirono quello che noi chiameremmo un giurì
e invitarono Ottaviano e Lucio a trovarsi il tal giorno per esporre
le proprie ragioni ed ascoltare il giudizio, a Gabi, la piccola
città a mezzo cammino tra Preneste e Roma, in riva al
laghetto, che, ora sepolta sotto i campi di frumento, emerge solo
ancora con il rudere di un tempio. Una grande torma di veterani si
trovò infatti a Gabi per il giorno fissato; sul Foro furono
posti i seggi dei giudici e due seggi, uno per Ottaviano, uno per
Lucio. Ottaviano comparve754.
Ma non comparve Lucio, allegando che Ottaviano gli aveva tese
insidie sulla via di Gabi755. Ormai egli e Fulvia non badavano
più nè ai generali di Antonio nè ai veterani. A
Preneste convenivano i conservatori superstiti del Senato e
dell’ordine equestre, ora subitamente fatti amici ai due turbolenti
cognati; onde incoraggiati da queste adesioni e dal gran favore
delle città italiane, illusi che le riluttanze dei soldati
sarebbero vinte facilmente con promesse, deliberarono di reclutare
un esercito, di preparare una rivolta tra le città italiane e
di far danno in ogni modo a Ottaviano. Reclutare un nuovo esercito
sarebbe cosa facile, perchè i giovani abbondavano e molti
degli artigiani fuggiti di Roma, dei piccoli possidenti che avevano
perduto tutto, non sapendo come vivere, si sarebbero volentieri
arruolati. Perciò incitarono il vecchio governatore
dell’Africa, Sestio, a preparare una rivolta contro il nuovo
governatore di Ottaviano, Fangone, un antico centurione di
Cesare756; par che sollecitassero Bocco, re di Mauritania, a tentare
un assalto alle provincie spagnuole di Ottaviano757; mandarono
emissari a reclutare sei legioni in ogni parte dell’Italia;
indussero diversi personaggi a recarsi in varie regioni per
incoraggiare le leve, per persuadere i municipi a dare a Lucio il
denaro deposto nei templi, per preparare la rivolta dei possidenti.
Noi sappiamo che per la Campania questo incarico fu accettato da
quel Tiberio Claudio Nerone il quale, dopo aver servito sotto
Cesare, aveva proposto in Senato il 17 marzo 44 di dichiararlo
tiranno; e che si mise d’accordo con un certo Caio Velleio, un
agiato possidente della Campania, antico ufficiale ed amico di
Pompeo758. Lucio e Fulvia insomma intendevano di far scoppiare una
grande rivolta in Italia e di iniziare una guerra civile contro
Ottaviano, per costringere gli esitanti generali di Antonio a
intervenire e a distruggere il comune nemico, anche senza ordini del
capo lontano. In breve i ricordi della guerra sociale si ravvivarono
in tutte le menti. L’Italia stava per insorgere di nuovo come
allora, non per conquistare la cittadinanza, ma per difendere la
terra sua contro l’ingordigia dei veterani e per restaurare la
libera repubblica dei padri? Tutti, giudicando il futuro dal
passato, credevano che anche quel terribile episodio potesse
rinnovarsi; lo temeva certo Ottaviano e non osava reprimere
risolutamente gli aperti preparativi della rivolta e le mene del
console; si restringeva a ripudiare Clodia, a richiamare indietro
Salvidieno, a reclutare anche egli uomini e a levare denari dai
templi delle città italiane759; solo di tempo in tempo
sfogando l’ira che gli gonfiava il cuore, con violentissimi
epigrammi contro Fulvia, di cui pare ne sia rimasto uno, molto
spiritoso ma di una oscenità così brutale che non
potrebbe essere qui tradotto760. Così sul finire dell’estate
gli agenti di Lucio e quelli di Ottaviano si disputavano per le
città d’Italia i giovani, i veterani e i denari dei
templi761; il beneficio della recente riduzione di undici legioni
era annullato dai nuovi reclutamenti; dei veterani il maggior
numero, anche quelli di Antonio, accorreva sotto le bandiere di
Ottaviano762; ma i possidenti spogliati sotto quelle di Lucio, per
il quale le popolazioni parteggiavano apertamente763; spesso tra i
partigiani degli uni e degli altri avvenivano risse sanguinose764.
La situazione diventò presto così minacciosa che i
veterani di molte colonie inviarono ambasciatori ad Antonio in
Oriente per invitarlo a venire sollecitamente e a ristabilire la
pace765. Ma Ottaviano esitava ancora, e tentava un’ultima pratica di
accordo, mandando a Preneste una deputazione di senatori e di
cavalieri766. Anche questa fu vana.
Allora finalmente Ottaviano, incuorato dalle dubbiezze in cui
versavano i generali di Antonio, si risolvè a operare:
volgendosi contro una delle tante città in cui gli emissari
del nemico intrigavano di più, per dare un esempio767. A
questo punto comparisce per la prima volta il suo giovane amico
Agrippa, del quale sinora non sapevamo se non che lo aveva
accompagnato da Apollonia e che era stato tra gli accusatori dei
congiurati. Ad Agrippa, che l’anno prossimo doveva essere pretore,
Ottaviano diede il comando di un esercito; poi nell’autunno,
lasciato a Roma a capo di due legioni Lepido, tentò di
prendere Norcia di sorpresa. Ma fallita la sorpresa, fu costretto a
porre l’assedio; e anche l’assedio andando per le lunghe, si volse
ad assaltare Sentino; ma anche contro Sentino non fu fortunato.
Incoraggiato a sua volta da questi insuccessi del nemico, Lucio
prese animo a tentare l’offesa e a compiere un’audacia che doveva
probabilmente essere il segnale della rivolta in tutta Italia:
intesosi con i suoi partigiani di Roma piombò con poche
milizie e all’improvviso nell’Urbe, senza che Lepido o per debolezza
o per malumore contro Ottaviano cercasse impedirlo768; e andato sul
Foro fece un grande discorso, dichiarandosi apertamente campione
delle idee repubblicane così care alle classi agiate
d’Italia: disse cioè che egli combatteva per distruggere il
triumvirato, di cui, vinti Bruto e Cassio, era finito lo scopo, e
per restaurare la repubblica; che suo fratello Antonio era pronto a
deporre il potere, contentandosi di essere nominato console. Fece
poi dichiarare nemico pubblico Ottaviano769. Alla notizia di questa
sorpresa Ottaviano marciò con forze notevoli su Roma, donde
Lucio, che non poteva resistere, uscì, ritornando al suo
esercito che non sappiamo dove fosse raccolto770; e in questa
maniera bizzarra e confusa incominciò la guerra il cui
racconto è negli antichi così monco e oscuro che non
mi è riuscito di ricomporre una narrazione comprensibile.
Solo si intravede che a un certo momento Lucio Antonio uscì
in campo con sei legioni novizie sulla via Cassia, per andare
incontro a Salvidieno che lentamente tornava dalla Gallia seguito da
Asinio e da Ventidio, per prenderlo in mezzo; e che Agrippa gli fece
perdere tempo con abili mosse, il cui racconto però è
molto confuso, cosicchè Salvidieno potè liberarsi
dall’inseguimento, accorrere pronto e minacciare, d’accordo con
Agrippa, di catturare Lucio771. Fu questa la prima rivelazione del
genio militare di Agrippa. Certo è infine che, per liberarsi
dalle persecuzioni di Salvidieno e di Agrippa, Lucio andò a
chiudersi sul finire dell’autunno in Perugia, dove fu assediato da
Ottaviano; mentre Fulvia, rimasta a Preneste, sollecitava Ventidio,
Asinio e Caleno a venire con le undici legioni al soccorso, invitava
Planco ad armare nel Piceno tre nuove legioni, incitava gli amici ad
affrettare la rivolta nelle città italiche. Ormai il dado era
tratto: se Lucio e Fulvia avevano giudicato giustamente, le
città dell’Italia insorgendo e i generali di Antonio rompendo
gli indugi, precipiterebbero a rovina il fato di Ottaviano.
[41-40 a. C.] Ma nè l’Italia insorse, nè i generali di
Antonio si mossero al soccorso. Invano Tiberio Claudio Nerone
incitò in Campania i possidenti a prendere le armi e invano
tentò perfino di sollevare gli schiavi772; invano in Campania
e altrove si cercò da Fulvia e dagli amici di Antonio di
mutare le flebili proteste dei possidenti confiscati e le platoniche
aspirazioni repubblicane del ceto agiato in furore guerresco. I
tempi erano mutati da quelli della guerra sociale; l’agiatezza, la
cultura, quella che si chiama la civiltà avevano raffinate ma
infiacchite queste classi, che disavvezze dalle armi, use ai
commerci e agli studi più che alle guerre, divise dalla
sollecitudine egoistica d’ogni famiglia per il proprio benessere
singolo, non osarono affrontare quella che pareva la formidabile
potenza del partito popolare mutato in esercito; e dopo essersi
così a lungo lamentate per le violenze subite, preferirono
nel momento supremo di salvare ciò che loro era rimasto
rassegnandosi, anzichè rischiare anche questo773. Sulla vetta
di Perugia Lucio Antonio restò, in mezzo alla vasta nazione
tranquilla, solitario campione di una causa che non trovava soldati;
la face accesa lassù, per segnalare all’Italia il tempo di
insorgere, arse lentamente, si consumò, si spense senza che i
fuochi delle rivolte rispondessero pronti di colle in colle, di
pianura in pianura. Agrippa, cui dopo il successo delle mosse contro
Lucio era stato assegnato il supremo comando, potè costruire
nel dicembre e nel gennaio dei grandi valli intorno a Perugia,
serrare d’ogni parte la città nonostante le vigorose e
continue sortite di Lucio, lentamente affamarla, senza che la
rivolta tanto temuta divampasse alle spalle. La guerra di Perugia fu
una meschina parodia della guerra sociale. Ma se l’Italia non si
muoveva a soccorrere il turbolento demagogo convertitosi troppo
presto in capo dei conservatori, i generali di Antonio lascierebbero
con quattordici legioni ai loro comandi – le undici antiche e le tre
nuove di Planco – distruggere il fratello del loro capo da un
piccolo esercito di sette legioni? Eppure, sebbene la condizione di
Perugia si facesse nel mese di gennaio e febbraio ogni giorno
più dura e difficile, Caleno non si mosse dalla Gallia,
Asinio, Ventidio e Planco si avvicinarono a Perugia, ma senza far
mai nessuno sforzo vigoroso per liberare l’assediato774. Essi si
trovavano nella stessa condizione in cui si eran trovati Ottaviano
ed Irzio sotto Modena, quando andavano a liberare Decimo Bruto:
malsicuri dei loro soldati, inquieti per il giudizio che essi
darebbero della guerra, contrari alla pazzesca politica di Lucio e
di Fulvia, che, quando il potere di tutti riposava sulla
fedeltà delle legioni, incominciavano una guerra per togliere
ai veterani le ricompense. In simile condizione nemmeno Fulvia
poteva muoverli; sarebbe stato necessario il comando o forse
addirittura la presenza del vincitore di Filippi. Ma Antonio
nè mandò quel comando nè venne in persona; e
mentre suo fratello pativa con l’esercito la fame tra le mura di
Perugia, andatosene in quello stesso inverno ad Alessandria dopo
aver scacciati senza fatica i principotti della Siria, si sollazzava
in feste e in divertimenti nel palazzo reale, senza le insegne di
proconsole, vestito alla greca, come un privato, ospite e amante
della regina d’Egitto775. Perciò il gran pericolo si disperse
in modo inaspettato da tutti. Ai primi di marzo Lucio, costretto
dalla fame, si arrese; Ottaviano, che non voleva irritare Marco
Antonio, lo trattò bene, lo lasciò libero,
perdonò anche ai soldati e li invitò a passare sotto
le sue bandiere. Ma egli era troppo esasperato dallo spavento avuto
e dal pericolo corso; ma i veterani erano stati troppo irritati da
questa guerra che un momento pareva avere messo in pericolo la
distribuzione delle terre: per soddisfare questi, per spaventare
l’Italia e indurla definitivamente a rassegnarsi alle confische e
alla dominazione dei triumviri, per vendicarsi, egli fece uccidere i
decurioni di Perugia e una parte dei senatori e cavalieri presi
prigionieri. Qualche altra famiglia insigne fu spenta: Caio Flavio
l’amico di Bruto, Clodio Bitinico. La città che doveva essere
saccheggiata dai soldati, bruciò prima del sacco, a quanto
pare per accidente776.
E frattanto – ironia delle cose – tra la fine del 41 e il principio
del 40, il buon Virgilio componeva la sua egloga quarta “sul
rinnovamento del mondo”, in onore dell’amico Pollione, che doveva
essere console nel 40 e a cui frattanto era nato un figlio. In tutti
i tempi agitati in cui la cultura si divulga, si diffondono insieme
con il desiderio di conoscere il reale, le aspirazioni mistiche, le
vaghe speranze trascendenti: e difatti allora erano di moda certe
idee stoiche e accademiche, che parevano corrispondere con
superstizioni etrusche da lungo tempo note a Roma e con tradizioni
religiose accolte nei libri sibillini, per cui il mondo doveva
periodicamente rinnovarsi. Il “rinnovamento del mondo” era un tema
di conversazione; e un aruspice, Volcazio, ne aveva veduto un
annuncio nella cometa apparsa ai giuochi della Vittoria di Cesare
nel 44. Virgilio, che si faceva ardito a trattare soggetti
“d’attualità”, colse l’occasione della nascita di quel
fanciullo e del consolato di Pollione, per poetare in versi
melodiosi questo pasticcio filosofico e religioso, per predire che
con il consolato di Pollione incomincierebbe l’era della pace,
dell’ordine, della giustizia nella quale il fanciullo vivrebbe.
Insomma il poeta raccomandava abilmente di sperare nel governo
triumvirale, che aveva uomini così valenti; e ahimè
rispondevano al vaticinio le stragi e il fuoco di Perugia!
XIII.
CLEOPATRA ED OTTAVIA.
Molti storici hanno biasimata severamente la indifferenza con cui
Antonio lasciò da Alessandria rovinare la catastrofe di
Perugia: e giudicano che, se fosse allora venuto in Italia a
prendere il comando degli eserciti suoi, avrebbe potuto facilmente
distruggere Ottaviano777. Tutti poi, continuando l’amoroso romanzo
di Cleopatra e di Antonio cui danno principio con l’incontro di
Tarso, descrivono il soggiorno d’Alessandria come una lunga festa
spensierata, nella quale Antonio si abbandonò perdutamente
alla voluttà, ogni altra cosa obliando778. Chi però
non dimentichi che a nessuno è difficile essere savio dopo il
fatto, giudicherà forse Antonio in modo meno severo. Non
è improbabile che, l’assedio di Perugia essendo cominciato
sul finire dell’autunno del 41, quando la navigazione del
Mediterraneo era sospesa, egli ne avesse notizia solo nella
primavera del 40, allorchè l’assedio già era finito; e
che dalle ultime notizie ricevute egli continuasse a giudicare il
disordine dell’Italia come poco grave e tale che si comporrebbe da
sè. Inoltre giova considerare che egli non poteva approvare
la stravagante politica del fratello e della moglie, i quali
parevano non avvedersi che il partito popolare era ormai tutto
nell’esercito, era anzi lo stesso esercito; ma non poteva nemmeno
abbandonarli o tentare di raffrenarli, senza mutare in nemici i suoi
parenti più stretti. Infine, se non è dubbio che Marco
Antonio fece gran festa quell’inverno nella immensa, sontuosa,
ricchissima reggia dei Tolomei, è pur sicuro che in mezzo
all’orgia invernale egli dovè sostenere un cimento meno
visibile eppure non meno grave e risolutivo di tanti affrontati
prima: le sollecitazioni di Cleopatra, che offriva a lui sè
stessa in moglie e l’Egitto per regno, come lo aveva offerto a
Cesare ritornando apposta a Roma sul finire del 45. Le dicerie corse
in quei giorni che Cesare sposerebbe la regina dell’Egitto e
porterebbe la sede dell’impero ad Alessandria inducono a supporre
che in qualche momento Cesare avesse esitato e Cleopatra si fosse
illusa di spostare l’asse della storia del mondo dalle foci del
Tevere alle foci del Nilo. Ora la grande offerta era posta di nuovo
da Cleopatra innanzi ad Antonio; ed era posta, come è facile
intendere, non per un nuovo amore che avesse preso Cleopatra del
bello e forte Antonio, ma per astuto accorgimento politico. L’Egitto
si potrebbe forse definire la Francia del mondo antico: fertilissimo
e mirabilmente coltivato, raccoglieva ogni anno quasi tutto il lino,
di cui si tessevano le vele aperte ai venti su tutto il
Mediterraneo, e tanto grano da sfamare non solo le sue fitte genti
ma da venderne agli stranieri; industrioso più che ogni altro
paese, nutriva in Alessandria un numeroso popolino di abili
artigiani, che nelle case loro, nel fornello o sul telaio proprio,
tessevano i finissimi lini, fabbricavano i profumi, i vetri e i
papiri e i mille altri oggetti esportati poi in ogni paese dai
ricchi mercanti; maestro di eleganza e di sfarzo, forniva gli
stuccatori, i pittori, i decoratori e il modello del lusso a molti
paesi e in parte anche all’Italia; sede di studii famosissima,
richiamava gli studenti dai più lontani paesi e sin dalla
Grecia nelle scuole di medicina, di astronomia e di letteratura,
mantenute ad Alessandria dalla corte; grande emporio mondiale, non
solo esportava in ogni parte i suoi prodotti industriali in cambio
dei metalli preziosi che accumulava, ma aveva in suo potere la
maggior parte del commercio con l’Estremo Oriente, con l’India
gemmifera e la mitica terra dei Seri. Senonchè, a differenza
della Francia moderna, questo popolo troppo pingue non aveva spina
dorsale e sembrava uno di quei corpi malati, che non si reggono
più in piedi senza sostegno. Dalla divisione del lavoro che
è effetto della civiltà ma che in Egitto era divenuta
troppo grande, tutta la nazione era stata disarticolata in una
estrema dissoluzione di ceti, di gruppi, di arti, di professioni, di
famiglie, di singoli uomini, intenti ciascuno solo al proprio
interesse e piacere: tutta la nazione, dai coloni dei grandi poderi,
della mano morta, dei regi demani viventi umilmente in soggezione
quasi come servi; dal contadiname libero, laborioso ma intento solo
ad accumulare risparmi; dalla plebe artigiana e cosmopolita di
Alessandria, industre, ingegnosa ma eccitabile, turbolenta,
sanguinaria; salendo su su per gradi all’opulento ceto dei mercanti
appostati in Egitto come sul migliore crocicchio delle grandi strade
del mondo; ai ricchi possidenti che sfoggiavano un lusso
meraviglioso, che consideravano la corte come la sede suprema
dell’eleganza e dello sfarzo, ma non formavano una aristocrazia
politica e militare e si lasciavano cacciar via dalle alte cariche,
per indolenza e superbia, da eunuchi, liberti, avventurieri,
stranieri; alla casta sacerdotale avida solo di accrescere le sue
ricchezze e il suo potere; alla burocrazia, numerosa, bene ordinata
in teoria ma corrotta, rapace, sollecita di spremere denari,
negligente dei suoi doveri; arrivando infine alla corte, piovra
insaziabile di denaro, gora immensa di metalli preziosi, caotica
fucina d’intrighi, di delitti, di piccole e feroci rivolte
dinastiche, compiute da fazioni minime con una infinita
ingegnosità di scelleraggini nella indifferenza
universale.... Questo regno decrepito viveva in una specie di
inerzia agitata: aveva una amministrazione grandiosa e lasciava
deperire tutto, anche i canali del Nilo; mutava re ogni pochi anni
con qualche rivoluzione di palazzo e non sapeva portare rimedio
nemmeno ai suoi più piccoli malanni politici; aveva infinite
ricchezze e non possedeva un esercito, ma doveva reclutare gli
schiavi fuggiti degli altri paesi per fare qualche milizia;
possedeva la scienza e l’arte, ma si reggeva a stento contro Roma a
furia di incredibili intrighi779; giungendo infine – ultima
invenzione della decrepita diplomazia egiziana – a offrire la regina
sua come una prostituta a un proconsole romano. Il donnesco governo
di Cleopatra aveva molti avversari, specialmente nella parte
migliore delle alte classi, per quali ragioni non sappiamo; forse
per la vergogna di queste tresche con Cesare e con Antonio, per la
avidità insaziabile, la crudeltà capricciosa, il
disordine del suo governo di favoriti780: onde essa aveva bisogno
dell’aiuto di Roma per reggersi sicura sul trono. Morto troppo
presto Cesare, Cleopatra si ingegnava di adescare Antonio, non con
la sola offerta di sè che sapeva non bastare, ma con
l’offerta del regno.
[40 a. C.] Non è temerario supporre che le feste, le
adulazioni, le meraviglie dell’Egitto, gli ardenti piaceri e i
brillanti sofismi di Cleopatra infervorassero in quell’inverno lo
spirito semplice e poco profondo di Antonio, il quale, ripresa la
sua natura gaudente, dissipatrice, spensierata, inclinava di nuovo
alle grandiosità sfarzose781; e che deve considerarsi, assai
più che Ottaviano, come il discepolo e l’erede politico di
Cesare. Negli ultimi sei mesi in cui Cesare mutò tante idee e
tanti nuovi disegni immaginò, Ottaviano era ad Apollonia; a
Roma invece presso il dittatore viveva Antonio, che ne era diventato
subitamente il confidente più intimo, ne aveva conosciuto
ogni pensiero, aveva in parte ricevute da lui prima delle Idi, in
parte aveva prese dopo la morte, tutte le carte del dittatore, in
cui erano anche i piani della guerra di Persia: lo aveva quindi
anche veduto negli ultimi mesi agitato dalle ambizioni monarchiche e
asiatiche. L’idea di ripigliare i grandi disegni balenati al
dittatore nel corrusco e tempestoso crepuscolo della sua vita e noti
nei particolari forse a lui solo, l’ambizione di diventare il nuovo
Cesare vestendo le spoglie del morto, dovevano rinforzare
naturalmente le seduzioni di Cleopatra e della corte. Se egli
compisse la conquista della Persia non diventerebbe l’uomo
più grande e celebre dell’impero? Il principale impedimento
era la scarsezza del denaro; e l’Egitto poteva fornirgliene.... Ma
nella primavera del 40 un evento improvviso disturbò tutti i
disegni suoi e di Cleopatra. Se nel 41 si era avuta in Italia una
parodia della guerra sociale, nel 40 incominciava in Asia una
parodia di Mitridate. I principotti della Siria scacciati da
Antonio782 e Antigono, il pretendente non favorito di Palestina783,
avevano nell’inverno sollecitato i Parti a invadere le provincie
romane, dicendo che la Siria e l’Asia, spaventate dalle enormi
contribuzioni imposte da Antonio, accoglierebbero volentieri gli
invasori; alla corte di Ctesifonte il figlio di Labieno che vi si
era trattenuto dopo Filippi, si offriva a condurre una parte
dell’esercito partico come i profughi italiani della guerra civile
avevano guidato l’esercito di Mitridate784; Antonio era ad
Alessandria; in Siria e in Asia, governata la prima da Decidio Sacsa
e la seconda da Tito Munazio Planco785, non c’erano che le piccole
antiche guarnigioni di Cassio, le quali avevano riconosciuto il
nuovo signore. Una sorpresa riuscirebbe. E infatti a primavera,
forse in febbraio, Antonio ricevè notizia che un esercito al
comando di Labieno e di Pacoro, figlio del re dei Parti, invadeva la
Siria per la via di Ctesifonte e Apamea786. Abbandonate allora per
il momento le trattative con Cleopatra, le incertezze e i sogni e le
illusioni dell’impero asiatico, Antonio partì da Alessandria
al principio di marzo con una piccola flotta e veleggiò verso
Tiro, dove pare si persuadesse che per respingere l’invasione
bisognava far venire notevoli rinforzi dalla Macedonia e
dall’Italia. Mandò quindi subito a raccogliere navi in tutti
i porti, per mettere assieme una flotta con cui trasportare le
legioni; e rassegnandosi ad abbandonare al nemico per poco la Siria,
deliberò di andare per Cipro e Rodi in Asia e di là in
Grecia, a raccogliere un forte esercito, per tornare poi subito in
Oriente a respingere i Parti. Lui partito, le piccole guarnigioni
delle città, sorprese da forze superiori, furono facilmente
indotte ad arrendersi; Decidio tentò di resistere in Apamea,
ma Labieno avendo incominciato a sobillare i soldati, tutti antichi
legionari di Bruto e di Cassio, fuggì ad Antiochia; presa
Apamea e trucidata quasi tutta la piccola guarnigione, Labieno lo
inseguì ad Antiochia, che assediò e prese,
costringendo ancora una volta Decidio a fuggire in Cilicia. La Siria
e la Fenicia erano già quasi in potere dei Parti, tranne
Tiro, dove si erano rifugiati in ogni parte i residenti romani, come
nel 74 a Calcedonia, quando Mitridate aveva invasa la Bitinia.
Intanto Pacoro andava in Palestina con una parte dell’esercito,
Labieno si volgeva con l’altra a conquistare la Cilicia787.
Ad Efeso Antonio trovò i corrieri dell’Italia ed ebbe notizia
dell’assedio di Perugia non solo, ma del nuovo disordine e della
spaventevole confusione scoppiata nel partito suo dopo la resa della
città: nuova e gravissima difficoltà per il triumviro
che già si trovava impegnato in una guerra contro i Parti.
L’edificio eretto con tanta fatica a Filippi, che pochi mesi prima
pareva sfidare i secoli, stava forse per precipitare a un tratto? La
terribile strage compiuta da Ottaviano a Perugia aveva tanto
spaventati i suoi amici e parenti, che erano tutti in fuga. Fulvia,
accompagnata da una scorta di 3000 cavalieri mandata dai suoi
generali, era andata a Brindisi e viaggiava alla volta della Grecia,
dove lo aspetterebbe ad Atene788; Planco aveva abbandonato il
comando delle sue tre legioni e fuggiva con Fulvia; sua madre Giulia
era fuggita da Sesto Pompeo, che l’aveva accolta con molta
cortesia789; Asinio Pollione si era buttato con l’esercito nel delta
del Po, in attitudine di difesa790; Ventidio Basso – a quanto pare –
si era avviato verso Brindisi791, tutti cercando di avvicinarsi alla
costa per essere sicuramente in comunicazione con Antonio; molti dei
partigiani di Fulvia e di Lucio erano fuggiti, quali a Sesto Pompeo,
quali per cercare rifugio presso di lui. Tra costoro erano pure il
figlio di Servilia Marco Giunio Silano, e Tiberio Claudio Nerone,
che si imbarcò a Napoli furtivamente con la moglie, figlia di
quel Livio Druso che si era ucciso a Filippi, e con un fanciulletto
di poco più di un anno, che doveva un giorno – capricci della
fortuna – diventare l’imperatore Tiberio792. Ottaviano restava solo
signore dell’Italia, vuota ormai di tutti gli uomini più
insigni, o spenti o fuggiaschi, a sfogare sui deboli in prepotenti
lascivie e in crudeltà irose l’impeto maligno di una
giovinezza malaticcia, corrotta dalla potenza, esasperata dalle
inquietudini, dall’odio, dalla paura; non signore allegro e beato,
bensì pieno di spavento per la sua stessa vittoria, pieno di
rabbia contro Antonio e di ansietà per le incerte intenzioni
di lui, pieno di ostinazione e di superbia e di bile per l’odio
universale di cui si sentiva bersaglio. A questo tempo paiono
appartenere i fatti più ignominiosi della sua vita privata.
Anche dopo il terribile macello di Perugia, come non fosse satollo
ancora di violenze, aveva infierito: aveva confiscato quasi tutto il
territorio di Norcia perchè i cittadini avevano eretto un
monumento ai caduti nella difesa della città con
un’iscrizione che li diceva morti per la libertà, a
significare il tenace rimpianto della agiata borghesia italiana per
la vecchia repubblica793; aveva accelerate le deduzioni delle
colonie, largheggiando con tutti i veterani di Cesare; aveva
sostituito nella Cisalpina Alfeno Varo ad Asinio Pollione e
abbandonata l’Italia ai vecchi soldati. Violenze e ruberie
desolavano di nuovo ogni regione. Ma la stessa violenza sfogava
nella vita giornaliera e nelle piccole cose: fulminava alla cieca
nei processi sui plebei, sui liberti, sugli stranieri sentenze di
tortura, di morte, di crocifissione, cosicchè il popolo gli
aveva appiccicato il nomignolo di carnefice794; si dava alla crapula
e al giuoco sfrenatamente795; empieva Roma con lo scandalo delle sue
prepotenti dissolutezze, mandando ora a casa di questa, ora di
quella bella matrona di Roma che gli fosse piaciuta la sua
lettiga.... E la matrona doveva arrendersi subito all’invito796. Era
anche, sebbene in così grande potenza, ombroso e invidioso in
tutti gli altri, perfino nei suoi collaboratori, delle
qualità che non aveva; e Agrippa, di cui pure incominciava a
stimare l’ingegno e che aveva fatto giovanissimo in quell’anno
pretore, se ne lagnava qualche volta e stava all’erta, badando a non
ingelosirlo troppo797. Superbo e pauroso nello stesso tempo,
puntiglioso e debole non voleva umiliarsi a domandare per primo la
pace, ma temeva la guerra; non dubitava che Fulvia, di cui esagerava
come tutti il potere sullo spirito del marito, inciterebbe costui
alla vendetta, e arruffava perfidi e strani intrighi. Agrippa era
riuscito a far passare sotto le proprie bandiere due delle legioni
abbandonate da Planco; ma la cavalleria era andata a Sesto Pompeo e
la terza legione aveva raggiunto Ventidio798. Un momento Ottaviano
sembra avere cercato di corrompere Caleno, Ventidio e Asinio,
dissimulando la tentazione in pratiche di pace799; invano
però, che nessuno si fidava di lui e il prestigio di Antonio
era troppo grande! E intanto Antonio si avvicinava alla Grecia e
Fulvia gli andava incontro. Un altro pericolo sovrastava: se Sesto
Pompeo e Antonio si unissero? Le gentilezze prodigate da Sesto
Pompeo alla madre di Antonio e il rapido viaggio di questi, che
ormai era quasi in Grecia, lo avevano impensierito a tal segno, che
nel mese di maggio ricorse, affinchè intercedesse per lui
presso il figlio, alla madre di Sesto; a quella Mucia che Pompeo
Magno aveva ripudiata al ritorno dall’Oriente sospettandola di
adulterio con Cesare800. Si accorderebbe con Pompeo, piuttosto che
umiliarsi ad Antonio ed a Fulvia! Faceva insomma orrore all’Italia,
brutto come era di tutti i vizi del tiranno: violenza, superbia,
lascivia, perfidia. Tuttavia – cosa strana per un tiranno – aveva
qualche amico vero; il suo maestro Atenodoro di Tarso, un certo
Mecenate, un cavaliere discendente da una antica famiglia reale di
Etruria imborghesitasi, che non sappiamo come avesse conosciuto.
Costoro gli eran sempre vicini, lo sorvegliavano e lo ammonivano; ed
egli – cosa più aliena ancora dalla natura di un vero tiranno
– ascoltava con pazienza i sermoni, talora riconosceva il suo torto,
prometteva di emendarsi801. Era questa perversità lo sfogo di
una natura incorreggibilmente malvagia, o il furore breve di un
giovane, traviato dalla potenza ed esasperato dalla paura?
Non che volesse la guerra; ma non voleva umiliarsi a Fulvia e ad
Antonio, mostrarsi debole innanzi all’Italia; ma per apprestare
tempestive difese, precipitava la guerra. Nella seconda metà
di giugno aveva saputo che Muzia non era riuscita a conciliargli il
figlio; che Sesto Pompeo, imbaldanzito dalle forze crescenti e
incitato dai profughi, si disponeva a devastare le coste
dell’Italia802; aveva saputo nel tempo stesso che Caleno era morto
in Gallia e che il comando delle undici legioni era stato preso dal
suo giovane figlio. Allora, non trovando altro scampo, si era
appigliato a un partito temerario: incaricare Agrippa di difendere
l’Italia contro Sesto e partire per la Gallia a sobillare le legioni
di Caleno803, sperando di poter facilmente adescarle all’inesperto
comandante e di bilanciare con questo vantaggio la probabile
alleanza di Sesto e di Antonio. Intorno a questo tempo, poco dopo la
partenza di Ottaviano da Roma, Antonio giungeva ad Atene e vi
trovava Fulvia: infausto incontro da cui temevano tutti dovesse
nascere la guerra! Ma nemmeno Antonio voleva la guerra. Altro che
l’impero di Cleopatra! Labieno aveva frattanto invasa la Cilicia e
l’Asia, aveva ucciso Decidio Sacsa, si era impadronito senza
contrasto di tutte le città tranne di Stratonicea, di Milassa
e di Alabauda804, fugando nelle isole il governatore805; onde, anche
avesse odiato a morte Ottaviano, Antonio doveva ora, prima che a
ogni altra cosa, provvedere alle provincie di Oriente perdute. Egli
pare infatti aver rimproverate acerbamente a Fulvia le sue
pazzie806; e si diè poi, aspettando il ritorno di Ottaviano
dalla Gallia807, ad apparecchiare forze per essere pronto agli
eventi, ma resistendo agli incitamenti di Fulvia e dei numerosi
nemici del suo collega. In luglio probabilmente giunse da Atene la
sua vecchia madre, mandata da Sesto con una onorifica ambasceria di
cospicui personaggi, tra gli altri del proscritto Caio Senzio
Saturnino e di Lucio Scribonio Libone, i quali venivano a proporgli
esplicitamente la alleanza di Sesto Pompeo contro Ottaviano. Ma
Antonio, fermo nei propositi di non provocare la guerra e di non
lasciarsi sorprendere impreparato, rispose che della proposta era
grato a Sesto, che se Ottaviano non manteneva gli impegni di Filippi
acconsentirebbe a unirsi a lui, se agli impegni non mancava si
sforzerebbe di riconciliarlo con il collega808. Si spiavano
così a vicenda sospettosamente Antonio e Ottaviano, pur senza
volere nè l’uno nè l’altro la guerra, ma senza voler
nè l’uno nè l’altro prendere l’iniziativa della pace.
Senonchè questa vigilanza inerte non poteva durare a lungo.
Ottaviano in Gallia era riuscito ad adescare le legioni di Caleno,
ne aveva subito mutato gli ufficiali, le aveva poste sotto il
comando di Salvidieno; e probabilmente verso la fine di luglio o al
principio di agosto tornava a Roma, ma sempre pieno di incertezza e
di paura. Era la rivolta delle legioni di Antonio un vantaggio
definitivo e sicuro? Non provocherebbe il collega ad odio e a guerra
mortale? E resterebbero poi fedeli? Giunto a Roma potè
raccogliere maggiori notizie sulle trattative tra Antonio e Sesto,
senza però sapere con sicurezza se l’alleanza era stata
conchiusa o no. Sesto aveva preso a molestare le coste dell’Italia,
ma non era chiaro se per propria iniziativa o d’accordo con Antonio.
A ogni modo, per intralciare anche questa alleanza, Ottaviano
studiò un intrigo singolare; mandò Mecenate da Lucio
Scribonio Libone, il suocero di Sesto e il suo consigliere
più autorevole per la vecchia amicizia del padre, a
persuaderlo di dargli in moglie la sua sorella Scribonia; una
matrona molto più vecchia di lui, mal famata a quanto pare,
che era già andata sposa a due consolari809. Scribonio,
lietissimo, scrisse subito a Roma di fare senza indugio il
maritaggio; e il triumviro, sicuro di un assalto di Antonio dopo il
tradimento delle legioni, affrettò le nozze, celebrandole
forse in agosto tra le risa di tutta Roma. Si ingegnò nel
tempo stesso di spargere tra i veterani il sospetto che Marco
Antonio si alleasse con Sesto per ridare ai vecchi possidenti le
terre assegnate loro810; cercò di conciliarsi perfino con
Lucio, a cui diede il governo della Spagna811. Costui
l’accettò, e dopo non se ne ha più notizia.
Probabilmente morì di lì a poco: di morte naturale,
speriamo....
Ottaviano questa volta non si ingannava. In Grecia, quando si seppe
che il figlio di Cesare aveva tolto il migliore esercito al collega,
Fulvia e il partito della guerra prevalsero812; Antonio si volse
immediatamente alle offese, imbarcò sulle navi raccolte in
Asia una parte delle legioni di Macedonia, si accinse ad assalire
l’Italia. In quel frangente ricevè pure un aiuto. Dal suo
rifugio in mezzo alle foci del Po, Asinio Pollione aveva avviate
trattative con Domizio Enobarbo, l’errante signore dell’Adriatico e
di un regno mobile racchiuso nelle tavole delle sue navi, e lo aveva
persuaso a tentare la pace con Antonio; questi aveva accettato
dimenticando che Domizio era uno dei congiurati condannato per la
Lex Pedia813; e ricevuto quindi il rinforzo delle navi e delle due
legioni a cui Domizio comandava, comparve nell’Adriatico in
settembre, lasciando Fulvia a Sidone; prese Siponto e assediò
Brindisi; scrivendo frattanto a Sesto Pompeo che accettava
l’alleanza e ordinandogli di assalire Ottaviano. Asinio aveva poi
seguito Domizio ed Antonio. Di lì a poco Sesto sbarcava sulla
costa lucana un corpo che assediava Cosenza, un altro ne inviava nel
golfo di Taranto contro Turio; e mandava una flotta con quattro
legioni al comando del suo liberto Menodoro o Mena ad assaltare la
Sardegna814. Ottaviano corse alle difese; spedì Agrippa a
riprender Siponto; andò egli stesso al soccorso di Brindisi;
diede ordine a P. Servilio Rullo di raccogliere altre forze e di
seguirlo815. Ma non stette molto ad accorgersi che anche in questa
guerra, come in quella di Modena e di Perugia, la maggiore
difficoltà nasceva dalla malavoglia dei soldati che, sempre
ostinati nel volere la concordia tra Ottaviano ed Antonio,
impugnavano a malincuore le armi contro il vincitore di Filippi.
Agrippa aveva tentato invano di chiamare sotto le armi i veterani
dedotti nell’Italia meridionale; Ottaviano nel suo viaggio a
Brindisi aveva persuasi molti veterani a seguirlo, ma tutti con il
proposito di indurlo poi alla pace816; Siponto era stata liberata da
Agrippa, ma Servilio, sorpreso da Antonio presso Brindisi, era stato
disfatto e abbandonato da quasi tutti i soldati817; sotto Brindisi i
soldati di Cesare erano senza tregua sollecitati e rimproverati da
quelli di Antonio818. Peggio ancora, pare che Salvidieno
incominciasse pratiche con Antonio per ridargli l’esercito rubatogli
da Ottaviano, giudicando impresa disperata di mantenerlo in
fedeltà del nuovo signore. Come poteva Ottaviano operare
vigorosamente con un esercito così svogliato, quando i
triumviri erano i signori dell’impero e i servitori delle legioni?
D’altra parte Antonio si disponeva a far venire rinforzi dalla
Macedonia; Sesto Pompeo era felicemente riuscito nella spedizione
contro la Sardegna, aveva presa l’isola e fatte passare sotto i suoi
vessilli le due legioni di Ottaviano in quella di stanza819; le cose
si mettevano male. Ottaviano avrebbe desiderato trattare di pace; ma
non voleva essere il primo, come non voleva Antonio. Era necessario
un paciere; ma nessuno osava, perchè Fulvia spaventava tutti.
Per un accidente singolare giunse in mezzo a queste
difficoltà la notizia che Fulvia era morta a Sicione820;
molto, troppo opportunamente forse; e allora finalmente un paciere
prese coraggio a farsi avanti: Lucio Cocceio. Costui, che era con
Antonio, fece una prima visita a Ottaviano, ritornò da
Antonio, di nuovo si recò presso Ottaviano, strappando a poco
a poco all’uno e all’altro giustificazioni, proposte, risposte:
assicurò Antonio, per incarico di Ottaviano, che questi aveva
inteso di rendergli un servigio, prendendo le legioni di Caleno per
non lasciarle in balìa di un giovinetto, esposte alle
seduzioni di Sesto Pompeo821; assicurò Ottaviano, per
incarico di Antonio, che costui riconosceva il torto di Fulvia822. I
soldati frattanto facevano grandi dimostrazioni per la pace823. Si
poteva contrastare ai soldati? Antonio mandò Domizio in
Bitinia e scrisse a Pompeo di ritrarsi in Sicilia824;
cosicchè in breve si potè conchiudere che un nuovo
accordo sarebbe discusso non direttamente tra i due triumviri, ma da
Asinio Pollione e da Mecenate, rappresentando il primo Antonio e il
secondo Ottaviano825. Così nell’autunno dell’anno 40 fu
conchiuso a Brindisi un accordo interamente nuovo, con il quale fu
ridiviso l’impero, comprendendo nella nuova divisione le provincie
di Oriente che a Filippi non erano state considerate. Ottaviano ebbe
tutte le provincie di Europa, compresa la Dalmazia e l’Illirico,
quindi anche la Gallia Narbonese e la Transalpina, prima in potere
di Antonio; Antonio invece tutte le provincie dell’Oriente, la
Macedonia, la Grecia, la Bitinia, l’Asia, la Siria, la Cirenaica. A
Lepido fu data l’Africa826. Ottaviano restituì ad Antonio le
legioni di Caleno827 ma ricevè le due legioni che Antonio gli
doveva, le tre che Lepido non gli aveva ancora date e si tenne le
tre novelle reclutate da Planco, cosicchè ebbe un esercito di
16 legioni – due gli erano state tolte da Sesto –; Antonio si tenne
le due legioni di Domizio, accrescendo il suo esercito a 19 legioni
e si riserbò il diritto di far leve in Italia828; a Lepido
furono date le sei nuove legioni reclutate da Lucio Antonio829.
Sesto Pompeo fu abbandonato da Antonio. Ottaviano potrebbe fargli
subito guerra.
In questo accordo, la cui importanza è stata singolarmente
misconosciuta dagli storici, appariscono probabilmente i primi
effetti degli intrighi di Cleopatra. Mentre un anno prima, dopo la
battaglia di Filippi, Antonio mostrava di voler partecipare al
governo dell’Italia ed avere un pezzo dell’Europa, in quell’anno
mutata idea abbandonava al collega l’Italia e tutto l’occidente
barbaro e povero, si teneva la parte dell’impero, di cui l’Egitto
poteva considerarsi come centro, tutte le provincie del ricco e
civile Oriente, e la migliore provincia dell’Africa, la Cirenaica.
Questo mutamento fu certamente effetto delle discussioni avvenute
alla corte di Alessandria. In mezzo agli apparenti splendori del
decrepito Egitto, Antonio, come Cesare negli ultimi anni, si era
persuaso che l’Europa – l’Italia non esclusa – era un continente
barbaro e povero, che non diventerebbe mai ricco; che dell’impero di
Roma, chi non potesse averlo tutto, doveva prendersi l’Oriente, e di
questo considerare come parte vitale l’Egitto. Con i soldati
d’Italia, l’oro dell’Oriente e il dominio dell’Egitto, egli farebbe
la conquista della Persia, diventerebbe l’uomo più potente
tra tutti. Dovè però rinunciare, per il momento, a una
parte di questo disegno: al regno dei Tolomei, alla signoria del
Nilo, al matrimonio con Cleopatra, da cui pure gli era nato
frattanto un figlio. Fulvia era morta a tempo; ma i soldati
credevano pur sempre alla meravigliosa efficacia dei matrimoni come
garanzia di concordia e per confermare la pace gli prepararono
un’altra moglie. Antonio dovè acconsentire a sposare Ottavia,
la sorella di Ottaviano, che da pochi mesi era rimasta vedova con un
piccolo figlio830; e obbligarsi a vivere nella famiglia almeno, non
come un monarca asiatico, con il corteo delle concubine e degli
eunuchi, ma come un pater familias latino e come il marito di una
semplice matrona romana, che avrebbe badato ad allevare i figlioli
di lui al modo italico. Senonchè nel seguito di Antonio
Cleopatra aveva insinuato molti egiziani abili e astuti, i quali non
solo informerebbero di ogni atto e pensiero di lui la regina
dell’Egitto, ma lavorerebbero pazientemente lo spirito inquieto del
triumviro, a favore della loro Signora e dei suoi disegni831. Da
lontano Cleopatra si sforzerebbe senza tregua di mutare il marito di
Ottavia nel monarca di una corte asiatica.
A ogni modo questo matrimonio dimostra che Antonio era stato
trattenuto l’inverno precedente ad Alessandria non dall’amore di
Cleopatra, ma dalla ambizione di un impero. Non del temperamento
amoroso di Antonio sono documento queste deliberazioni, ma
dell’immenso disordine rivoluzionario dei tempi, per cui, obliterate
tutte le tradizioni e tutte le leggi, confuse le classi gl’interessi
le idee, snaturata ogni istituzione, un uomo come Antonio, pronto,
immaginoso, spensierato, sicuro di sè dopo tanti successi,
poteva alla leggera e per consiglio di una donna, da un mese
all’altro, prendere una risoluzione gravissima; anticipare di tre
secoli quella divisione dell’impero d’Oriente e d’Occidente, che fu
definitiva ai tempi di Diocleziano; spogliare l’Italia dell’impero
conquistato in due secoli con pochi tratti di penna. Sta in questo
l’immensa gravità delle deliberazioni di Brindisi. L’Italia
viveva e progrediva da due secoli sfruttando l’Oriente,
impadronendosi degli uomini, dei capitali, delle merci asiatiche con
mezzi politici e con mezzi finanziari sussidiati dai mezzi politici,
e degli interrotti tributi orientali aveva sofferto e soffriva
allora un grande travaglio. Che cosa avverrebbe se quei tributi non
fossero mai più portati a Roma, ma ad Atene, dove Antonio
pensava di stabilire la sua residenza, aspettando di poter portarsi
ad Alessandria? Se quei tributi fossero spesi non più in
Italia e in Europa ma in Oriente? L’ordine economico stabilito da
più di un secolo sarebbe sconvolto da capo a fondo. Inoltre
Antonio si riserbava il diritto di reclutare soldati in Italia: ma
era possibile che l’Italia si acconciasse, dopo essere stata il capo
di un impero, a diventarne il braccio? a sostenere con i suoi uomini
una signoria, di cui si toglievano a lei i frutti migliori? Antonio
sempre più infervorato nel pensiero della guerra di Persia,
trascinato dal successo, dalla sua audacia naturale, dalla
facoltà di abusare del potere in quella grande confusione,
non aveva dubbi, e si avventurava ciecamente nell’oscuro avvenire.
L’Italia lasciava fare, distratta dalla pioggia di sventure, che non
risparmiavano nessuno, nemmeno il poeta del rinnovamento del mondo.
Virgilio, come chi vuol togliersi alla vista dell’orrendo reale
nella contemplazione poetica di un mondo ideale, aveva fatto seguire
in questo anno al fallito vaticinio l’egloga quinta, un puro carme
bucolico, fervoroso, immaginoso, pieno di squisite immagini
campestri e di slanci mistici, ma profondamente triste; il canto dei
due pastori che piangono la morte di Dafni, l’eroe bucolico, e
celebrano la sua assunzione in cielo. Ma la realtà
ghermì di nuovo il poeta giù dal suoi sogni. Alfeno
Varo, non potendo resistere alle cupidigie dei veterani, aveva
dovuto dividere loro oltre le terre di Cremona quelle di Mantova; e
il campo avito di Virgilio era stato confiscato. Il poeta aveva
ricorso ad Alfeno, che gli era amico e voleva essere celebrato da
lui in versi come Pollione; ma invano. I veterani erano padroni
dell’Italia. Virgilio aveva dovuto scappare a Roma, dove si era
rifugiato in casa del suo antico maestro di filosofia, Sirone.
XIV.
IL FIGLIO DI POMPEO.
Appena conclusa la pace, Antonio provvide alle sue provincie invase
dai Parti; nominò Gneo Domizio Enobarbo governatore della
Bitinia, L. Munazio Planco governatore dell’Asia, P. Ventidio Basso
governatore della Siria; a questi diede anche le forze militari
allora disponibili a Brindisi e in Macedonia e l’ordine di
accingersi subito a liberare le provincie invase832. Provvide infine
a trasportare in Oriente le legioni che aveva in Europa, incaricando
Asinio Pollione di raccoglierle nella valle del Po e di portarle per
la Venezia, l’Istria, la Dalmazia, l’Illirico e l’Epiro in
Macedonia, di cui Asinio doveva essere il governatore nel 39833. Si
celebrarono poi grandi feste, nelle quali fu da tutti osservato che
in quei due anni Antonio era quasi divenuto un asiatico nei modi,
nei gusti, negli acconciamenti834. Ma subito nacquero dei guai in
mezzo alle feste, quando i soldati giudicarono di poter chiedere
finalmente ad Antonio, tornato dall’Oriente, essi pensavano, onusto
di tesori, il denaro promesso prima di Filippi e gli arretrati del
soldo. Antonio però aveva raccolto poco denaro l’anno prima
nell’Oriente già spremuto da Bruto e da Cassio; onde si
scusò di non potere. Ma gli ignoranti soldati non gli
credettero; e ne nacque una rivolta, che Antonio e Ottaviano
poterono sedare solo con nuove promesse e congedando i soldati
più anziani, a cui furono date terre in Italia835.
Questa sedizione dimostrava di nuovo quanto friabile e labile fosse,
in così universale dissoluzione di ogni tradizione e
autorità, la fedeltà degli eserciti. Eppure su questo
solo fondamento posava ormai il potere dei triumviri. In tre anni il
triumvirato aveva scontentate tutte le classi, anche le medie e le
infime, sebbene questa ultima guerra civile, pur sciupando e
rovinando molte cose, generasse un grande beneficio, già
incominciato dal naturale svolgimento delle cose nei trenta anni
innanzi e accelerato dalla guerra civile di Cesare: scemasse
cioè il numero delle grandi fortune, accrescendo invece le
medie. Certamente i triumviri e i più autorevoli e destri tra
i loro amici, come Mecenate ed Agrippa, un certo numero di oscuri
liberti, di sordidi usurai, di mercanti ignobili ben provvisti di
denaro in tempi di tanta scarsezza, avevano potuto acquistare quasi
per nulla terre, case, gioie di famiglie indebitate o rovinate e
fare grandi fortune. Ma in misura molto maggiore quella guerra
civile, come tante altre rivoluzioni della storia antica, serviva
alla classe media e povera ad invadere e spartirsi i beni della
aristocrazia e della plutocrazia. A pagare i soldati, gli ufficiali,
gli spioni, i mestatori, gli agenti dei partiti, che appartenevano
quasi tutti alla classe povera e media, era stata consumata la
fortuna lasciata da Cesare e i patrimoni di tutti i capi della
rivoluzione nei due partiti, da Decimo e Marco Bruto a Ottaviano; i
patrimoni più ingenti di Roma, tranne pochissimi, da quello
di Pompeo a quello di Lucullo, di Varrone, dei duemila più
ricchi cavalieri d’Italia erano stati confiscati interamente o in
parte e divisi tra tribuni militum, centurioni, soldati,
avventurieri; i fabbri che forgiavano le armi, i mercanti di metalli
o di vesti militari, i possidenti che tenevano tabernae devorsoriae,
le fumose e rozze osterie delle grandi strade allora tanto percorse
da soldati, da messaggeri, da corrieri, da ambasciatori, da
possidenti scacciati, da postulanti e avventurieri che si recavano a
Roma; coloro che su queste stesse vie faciebant velaturam,
affittavano cioè vetture, cocchieri e cavalli ai viandanti,
tutti guadagnavano molto836. Inoltre con la proscrizione di tanti
usurai e con la confisca di tante terre, un gran numero di debiti e
di ipoteche era stato annullato, di fatto se non di diritto:
perchè la repubblica, cioè i triumviri, erano entrati
nel luogo dei creditori e non avevano certo tempo e modo di cercare
e di esigere quella foraggine di syngraphae; perchè le terre
confiscate erano vendute o assegnate ai nuovi possidenti libere da
debiti e pesi! Mentre l’ordine senatorio e l’ordine equestre erano
così impoveriti, che dei cavalieri e dei senatori si
buttavano al mestiere di gladiatori per vivere837, quella borghesia
municipale di Italia che da quaranta anni cresceva di numero, di
agiatezza, di potere, era rinforzata dai veterani congedati e da
tutti coloro che, in mezzo al gran rivolgimento, riuscivano a fare
un gruzzolo, a pigliarsi una terra, a comperare qualche schiavo.
Senonchè questo rivolgimento di fortune perturbava troppo,
lì per lì, l’antico ordine di cose a cui i più
erano acconciati. Se tutto il popolino povero dell’Italia e di Roma,
esaltato da uno strano furore di vendetta per la uccisione di
Cesare, illuso da speranze chimeriche, aveva favorito nel 44 e nel
43 il partito popolare, soltanto i soldati avevano guadagnato dalla
vittoria, come corpo: mentre dei liberti poveri, degli artigiani,
dei minuti mercanti, dei piccoli possidenti, se i più destri
avevano saputo approfittare del grande disordine, la maggior parte
era stata amaramente delusa. Per pagare i soldati non si erano
soltanto imposte tasse gravose sull’Italia, ma si erano sospesi i
lavori pubblici, trascurando sin la conservazione dei più
venerabili edifici sacri e profani che cascavano in rovina838, sin
la riparazione delle grandi strade dell’Italia, che il via vai degli
eserciti guastava in modo orribile, cosicchè il lavoro
scarseggiava al popolino; a molti mercanti erano state prese le
navi, per formare le flotte di Sesto e dei triumviri; la distruzione
di tante ricche famiglie inaridiva i commerci e i mestieri di lusso
prima fiorenti, faceva stentare o fallire gli stuccatori, gli
scultori, i pittori, i venditori di porpora, i profumieri, gli
antiquari; le gravi imposte estorte dai triumviri avevano distrutto
in ogni parte d’Italia un grande numero di piccoli possidenti, che
non potendo pagare e non trovando denaro a prestito, erano stati
spogliati delle loro terre. Cosicchè alla avidità
della classe media che si formava, della “borghesia” italica, non
erano immolate soltanto l’aristocrazia e la plutocrazia, ma anche la
piccola possidenza. Concorrevano nelle città e specialmente a
Roma i piccoli possidenti rovinati, gli artigiani e i liberti senza
lavoro, i mercanti falliti, che non avevano potuto arruolarsi o che
non osavano darsi al brigantaggio, da cui tutta Italia era
infestata; concorrevano i liberti eruditi delle grandi famiglie
distrutte – numerosi in special modo quelli di Pompeo – che sciolti
dai legami di patronato con i nuovi compratori del patrimonio, di
cui nessuno sapeva come adoperare le loro facoltà troppo
elette, erano ridotti a vivere oscuramente con quello che si erano
risparmiato nei tempi felici; si aggiungevano infine molti giovani
delle famiglie possidenti d’Italia, che avevano studiato filosofia
ed eloquenza e che venivano a Roma, tentando invano in quel
disordine le vie della fortuna, troppo anguste e troppo affollate.
Infine la grande carestia del denaro, l’universale rinvilìo
di tutte le cose tribolava il maggior numero; anche coloro che si
arruolavano o che riuscivano a rendere servigi ai triumviri, erano
spesso insoddisfatti, non ricevendo che piccoli acconti del soldo e
delle ricompense promesse; anche quelli che avevano arraffato
qualche cosa nella rivoluzione, possedevano sì campi e case,
ma poca moneta, e non potevano procurarsi dei lussi, dovevano vivere
semplicemente. Tutti infine si sentivano malsicuri del proprio. Che
cosa avevano fatto invece i triumviri in tre anni, non ostante i
loro immensi poteri? Avevano distribuite terre a qualche migliaio di
veterani; non avevano fatto altro, nè arrecato nessun vero
beneficio al popolo.
In tutta Italia covava dunque negli animi una grande rabbia; ma
sordamente, come brace sotto la cenere di una grande paura. Antonio
pareva potentissimo; di Ottaviano si raccontava che avesse fatto
uccidere o terribilmente maltrattate persone sospette di
avversarlo839; il terrore scoraggiva tutti; e quel poco vigore che
ancora restava era in molti distrutto dal bisogno! Di quanto
cresceva la baldanza dei soldati, di tanto le classi medie e colte,
quelle che, pur malcontente dello stato loro, possedevano qualche
cosa, si avvilivano, per la paura di perdere anche il poco, in una
mollezza servile verso i ricchi e i potenti, che faceva loro
trangugiare in silenzio i rammarichi e che riduceva l’aristocrazia
dominatrice del mondo ad un volgo di servitori. Perfino la
spartizione dell’impero, che spogliava l’Italia della parte migliore
della sua conquista, sembra non aver suscitata la indignazione
pubblica, essere stata giudicata come cosa di poca importanza; tanto
è vero che non se ne discerne alcun effetto negli eventi,
alcuna traccia nella letteratura. La cricca di soldati che si era
impadronita della repubblica pareva alle inermi classi possidenti
così formidabile, così salda ed eternamente sicura al
potere! Perfino Virgilio, che pure era uno spirito eletto, non aveva
saputo resistere alle sollecitazioni di Alfeno Varo, che, dopo
avergli tolti i beni, voleva essere celebrato nei suoi carmi; e
siccome nella casa del suo vecchio maestro si era risvegliata in lui
la passione filosofica dei primi anni e l’ammirazione per Lucrezio,
gli dedicava una egloga filosofica che componeva in questo tempo, la
sesta, in cui riassumeva in breve, ripigliando una vecchia favola
greca di Sileno, la dottrina epicurea sull’origine del mondo. Un
soffio del grande vento lucreziano passato nelle canne di una
zampogna teocritea, e convertito in dolce musica! Ognuno badava a
sè, rodendosi dentro e cercando di vivere per proprio conto
meglio che potesse; la gente osava appena raccogliersi in piccoli
crocchi, pareva sbandarsi per tutte le opposte vie della vita! Gli
uni si buttavano nel brago dei piaceri grossolani, cacciando i
pranzi dei signori, cercando etère e fanciulli; altri si
davano agli studi o alla filosofia; molti alla religione o alla
superstizione. Dall’Oriente, scacciati fuori dei loro paesi dalla
povertà e dalle rovine di tante guerre, venivano a Roma a
raccattare qualche tozzo di pane nell’immenso immondezzaio del mondo
tutti i parassiti della civiltà antica: gli astrologi, i
maghi, le fattucchiere, i predicatori di religioni o di dottrine
bizzarre840; le storie di magie debbono avere fornito abbondante
materia ai discorsi della società ignorante e della colta, se
un poeta come Orazio si occuperà tanto di Canidia, la strega
più in voga; Roma era piena di filosofi da strapazzo, che non
trovando albergo nelle case dei grandi chiuse e deserte, andavano
predicando per le strade, spesso in veste bizzarra, stravaganti
dottrine nichiliste, per dirla alla moderna, contro la ricchezza, il
lusso, il potere, il piacere841. Nei tempi magri fiorisce sempre la
filosofia dell’astinenza. Erano insomma anni incerti e dolorosi; e
nessuno forse sentì tanto il torbido malessere di questo
tempo, quanto il giovane Orazio. Tornato dopo Filippi in Italia,
egli aveva perduta la terra avita di Venosa, compresa nelle
città date ai veterani di Cesare; e non aveva salvato dal
naufragio che qualche schiavo – tre giovinetti, a quanto sembra842 –
e un piccolo capitale, con cui a Roma aveva comprato, verisimilmente
per poco, una carica di scriba questorio, di segretario del
tesoro843. Questa carica – una delle poche retribuite e riserbate ai
liberi nella repubblica – si commerciava, come tante cariche
dell’ancien régime; e in quella malsicura condizione di tutto
parve al giovane impiego migliore del suo capitaletto che una terra
e una casa. Avrebbe del resto minori crucci, così! Ma
orgoglioso e timido nello stesso tempo, pigro e dotato di
inclinazioni raffinate, questo figlio unico di liberto, allevato
più signorilmente che non comportasse il suo rango e la sua
ricchezza da un padre troppo amoroso, si era trovato presto a
disagio. Aveva conosciuto Plozio, Vario, Virgilio e i giovani
letterati; ma tranne questi pochi non aveva relazione che con gente
di nessun conto, attori, parassiti, filosofucci, usurai, mercanti844
che spiacevano ai suoi istinti signorili: nè d’altra parte
osava farsi innanzi tra i grandi, trattenuto dalla sua timidezza e
dal suo passato politico, che l’orgoglio gli impediva di rinnegare.
Aveva avuto qualche amorazzo con delle etère; ma era troppo
delicato di salute e troppo povero da poter darsi alla vita galante
e gaudente, almeno se non acconsentiva a diventare un parassita,
ciò che la sua fierezza impediva845. Amava gli studi e le
lettere; ma era pigro a scrivere e nel grande disordine non sapeva
che cosa fare; si era disanimato dal comporre poesie greche846;
qualche volta volgeva in mente di ringiovanire il genere di Lucilio,
la satira mordace dei latini: ma per non essere indegno del suo
grande predecessore, egli avrebbe dovuto assalire i grandi, i loro
vizî, le loro colpe, le colpe e i vizî del tempo. Ora ad
assumere questo ministerio della rampogna morale di fronte al
partito popolare trionfante e al triumvirato, mancava il coraggio al
timido figlio del liberto, il quale si sgomentava al solo pensiero
di leggere in pubblico o di vendere qualche suo scritto. E
perciò allora veniva componendo la sua prima satira – la
seconda del libro primo – ma molto modesta e prudente, in cui
canzonava parecchi dei suoi umili amici, trattando non qualche
grande questione morale con veemenza di sdegno, ma risolvendo con
molto cinismo questo dubbio: se ad un giovane convenga meglio
corteggiare le donne maritate o frequentare le meretrici. E il
sapiente moralista giudicherà a favore di queste! Di
simiglianti argomenti trattava il successore di Lucilio, mentre in
così tragica condizione versava l’impero. Tanta era la paura
di tutti!
Perciò la pace di Brindisi era stata cagione di grandissima
letizia in Italia; e il popolo aveva visto con gioia, al principio
di ottobre847, i due triumviri rientrare amicamente in Roma,
celebrando l’ovatio deliberata dal Senato; e Antonio sposare
Ottavia848. Si avrebbe un respiro, alla fine! Ma la speranza fu
breve. Ottaviano superbo, puntiglioso, noncurante dell’Italia,
ubriacato dopo l’accordo da una vana opinione della propria potenza,
pieno d’odio contro Pompeo, voleva riavere senza indugio la Sardegna
e aveva già mandato il liberto Eleno a riconquistare l’isola;
e siccome Eleno era stato vinto da Menodoro849, pose subito mano
alla guerra, imponendo nuovi balzelli: una tassa sulle
eredità e una imposta di cinquanta sesterzi per ogni capo di
schiavo850. Era troppo: si incominciava dunque una nuova guerra
civile per odio privato, perchè Ottaviano voleva sterminare
sino al seme la famiglia di Pompeo851. E allora una folata di vento
soffiò sulle ceneri della brace; le fiamme divamparono; da
quella nazione così paurosa e così sottomessa proruppe
a un tratto uno di quei terribili, improvvisi scoppi di collera, con
cui tutti gli esseri deboli compensano di tempo in tempo la loro
neghittosità consueta. A Roma il popolo si volse furibondo a
lacerare gli editti che intimavano il pagamento dei nuovi balzelli,
proruppe in tumultuose dimostrazioni per la pace852; in tutta Italia
il sentimento repubblicano ancora così profondo si riebbe per
sussulto dal suo languore; nella opinione pubblica esasperata
avvenne un improvviso, violento mutamento a favore di Sesto
Pompeo853. Si rinnovò in tutte le menti una pietosa ed
esagerata ammirazione del padre, del grande guerriero e legislatore,
che aveva perduta la vita per difendere la repubblica e la
proprietà contro la turbolenta ambizione di Cesare e della
sua cricca; si commiserò il tragico fato della famiglia,
così crudelmente spenta; si ammirò il figlio
superstite, come un salvatore854. Il salvatore intanto, padrone
della Sardegna e del mare, affamava Roma, dove in novembre la
carestia divenne terribile855. Ma il pubblico non gliene
serbò rancore, si invelenì anzi di più contro
Ottaviano; sinchè il 15 novembre856, al primo giorno dei
Circensi che si celebravano alla fine dei Ludi Plebei, quando
comparve la statua di Nettuno (Sesto si diceva suo figlio), la folla
proruppe a un tratto in un immenso, fragoroso, interminabile
applauso, rinnovato più volte in mezzo a un entusiasmo
frenetico. Antonio e Ottaviano il dì dopo non fecero
più portare la statua di Nettuno: ma il popolo gridò
che voleva il simulacro, corse alle statue dei triumviri e le
rovesciò857. L’altezzoso Ottaviano volle fare il gradasso,
comparire sul Foro e parlare; ma il popolo inferocito
minacciò di squartarlo; Antonio dovette accorrere e fu
anch’egli mal ricevuto. Ne seguirono dei disordini, per reprimere i
quali fu necessario far venire nell’urbe i soldati858.
L’ordine fu ristabilito facilmente, sebbene non senza sangue: ma
questa diarchia militare era così debole, i due triumviri
furono tanto spaventati da quella improvvisa esplosione di odio, che
non solo sospesero i preparativi della guerra, ma cercarono di dare
qualche soddisfazione al sentimento repubblicano. Il pubblico
osservò con sorpresa che i tumulti e le minaccie avevano
efficacia ben maggiore dei lamenti e dei pianti! Difatti i
triumviri, sino allora così altezzosi, incominciarono a
cercare nuovi amici; e siccome tutte le cariche sino alla fine del
triumvirato erano già assegnate, deliberarono di scorciare il
tempo delle magistrature, in modo da poter nominare i magistrati
almeno due volte, ed anche più, ogni anno859. Essi dividevano
così tra la classe media bisognosa e ambiziosa la
eredità politica della distrutta aristocrazia, quelle
magistrature repubblicane, che nella età di Cesare erano
state ancora occupate quasi tutte dai discendenti, sia pur degeneri,
delle grandi famiglie, e che conservavano ancora tanto fascino per
il ceto medio avvezzo da secoli ad ammirare di lontano i consoli, i
pretori, gli edili, i senatori, quasi come semidei! Anzi, per
incominciare senza indugio, sebbene già fossero alla fine
dell’anno, i triumviri invitarono consoli e pretori a dimettersi e
ne nominarono degli altri860: a consoli quel P. Canidio che si era
tanto industriato per far ribellare ad Antonio le legioni di Lepido,
e lo spagnuolo Cornelio Balbo, il primo che, nato di famiglia
straniera, salì alla suprema magistratura di Roma. Nel tempo
stesso in cui si dava agli amici affidamento di rapide carriere,
bisognava spaventare i malfidi. Antonio aveva svelate a Ottaviano le
pratiche di Salvidieno per cedergli le legioni; e Ottaviano,
inferocito e impaurito da tanti contrasti, voleva farlo perire, ma
non osava ordinarne egli la morte dopo quella collera pubblica; onde
si deliberò alla fine di sottoporre Salvidieno al giudizio
del Senato, che giudicava i delitti di alto tradimento; ottenendo
così il doppio intento di mostrare rispetto alla costituzione
repubblicana e di scaricarsi dell’odio dell’uccisione861. Il Senato,
naturalmente, giudicò Salvidieno reo di perduellio e lo
condannò a morte. Ad Agrippa invece, per incoraggiarlo nella
fedeltà, Antonio ottenne in moglie da Attico la sua figlia
unica862, che educata dal padre più all’antica che non
piacesse ad Agrippa, fu affidata per una nuova educazione a un
liberto del padre, A. Cecilio Epirota863. Altro dei tanti fenomeni
rivoluzionari di quella età, queste rapidissime fortune dei
giovani! A ventiquattro anni – tanti ne aveva allora – Agrippa, nato
di oscura e povera famiglia, era già ricchissimo, aveva
esercitata la pretura, sposava la più ricca ereditiera di
Roma! Senonchè la pubblica esasperazione non si calmava per
queste concessioni e per la sospensione della guerra, ma si ostinava
a volere la pace con Sesto che porrebbe fine alla carestia: le
dimostrazioni infuriavano più frequenti e più
fragorose; nè Antonio nè Ottaviano osavano lasciare
Roma, mentre in Oriente le faccende si aggrovigliavano. Verso la
fine dell’anno era giunto a Roma Erode, fuggito dalla Giudea davanti
all’invasione dei Parti, con l’ambizioso disegno di indurre i
triumviri a farlo re di Giudea864.
[39 a. C.] Così l’anno 39, in cui Lucio Marcio Censorino e
Caio Calvisio Sabino formarono la prima coppia di consoli,
cominciò in mezzo a grande perturbazione e incertezza.
Vedendo che l’opinione pubblica non si placava, Ottaviano e Antonio
si mostrarono ancora più condiscendenti: proposero
all’approvazione del Senato tutti gli atti da loro compiuti come
triumviri865; par che facessero decretare dal Senato, ma
addolcendole, le nuove imposte866; invitarono il Senato a decidere
la questione della Giudea. Erode aveva persuaso Antonio con grandi
doni; e il Senato, per incitamento dei triumviri, di Messala, di L.
Sempronio Atratino e di altri grandi, deliberò che la Giudea
fosse regno ed Erode re867. Insomma i due cognati smaniavano di
farsi credere dei buoni repubblicani di stampo antico, rispettosi
della autorità del Senato; e nel tempo stesso promettevano
sin d’allora la maggior parte delle magistrature per i quattro anni
seguenti868; nominavano un gran numero di senatori, scegliendo
all’onore del laticlavio ufficiali e partigiani di modesti natali e
di poca considerazione: centurioni, vecchi soldati e perfino
liberti869; prendevano a corteggiare nei giovani letterati la
dinastia degli uomini di penna fondata da Cicerone. Il dispotismo
militare incominciava a cedere; quella che oggi chiameremmo la
piccola borghesia invadeva il Senato vuoto ormai di grandi lignaggi,
correva a pigiarsi in folla oscura sui banchi, dove avevano seduto a
loro agio e Lucullo e Pompeo e Cicerone e Catone e Cesare; il
pubblico tra tante rivoluzioni, incominciò a vedere stupito
fortune di genere nuovo, come quella di Virgilio. Da qualche tempo
il nome del poeta dai piccoli crocchi dei neoteroi (νεώτεροι) e dei
giovani letterati si spandeva nel gran pubblico, dopochè
degli attori e perfino Citeride, la famosa liberta di Volumnio, la
antica amante di Antonio, la celebre attrice ed etera, avevano
cominciato a declamare pei teatri le sue Bucoliche!870 Ma da questo
successo letterario nacque allora e a un tratto una specie di
potenza politica non ambita; Virgilio, che pure era da poco tempo a
Roma, diventò, in mezzo a questi torbidi, un personaggio
potente; si vide corteggiato da Mecenate, presentato a Ottaviano, e
insieme compensato da costoro del danno della confisca con certe
terre della Campania. Il poeta continuava a scrivere; e componeva in
questi tempi due imitazioni teocritee, la egloga settima e la
ottava: la prima, una graziosa gara di brevi carmi tra due pastori;
la seconda, una contaminazione della prima e della seconda egloga di
Teocrito, raffiguranti due troppo raffinati pastori, i quali
all’alba si incontrano e cantano in versi melodiosi e immaginosi,
l’uno l’amore infelice di un giovane, l’altro gli appassionati
sortilegi di una donna che vuol richiamare l’amato dalla
città. Ma il poeta si ingegnava anche di mettere la sua nuova
autorità a profitto dei confratelli poveri, degli amici, dei
concittadini. Per un momento aveva sperato di indurre Alfeno Varo
con la seduzione delle muse sicule a revocare la confisca delle
terre mantovane; e allora, sul principio del 39, presentava a
Mecenate Orazio, sperando così di aiutarlo a migliorare la
sua condizione. Il momento era propizio; le porte degli spaventati
triumviri e dei loro amici erano aperte ai sollecitatori! Ma
Mecenate, pur ricevendo cortesemente in una breve udienza il giovane
che impacciato, vergognoso, riuscì a balbettare appena poche
parole871, non potè lì per lì occuparsi di lui.
Ben altre cure distraevano il consigliere di Ottaviano! Invano i
triumviri avevano sperato che, facendo qualche nuova concessione,
lasciando passare un po’ di tempo, l’opinione pubblica muterebbe:
durava invece la carestia e cresceva, rinfocolata dalle loro
esitanze, l’esaltazione del popolo, delle dimostrazioni si erano
recate perfino da Mucia, la madre di Sesto, per supplicarla di
intercedere, minacciando di bruciarle la casa, se non
acconsentiva872. Che fare? L’iroso e squilibrato Ottaviano voleva
ostinarsi; ma Antonio capì che, per il momento, bisognava
cedere; e pregò Libone, il suocero di Sesto e il cognato di
Ottaviano, di mettersi di mezzo873.
Ora è curioso che, mentre Ottaviano e Antonio non riuscivano
a placare la sdegnata nazione neppure con tante e così
smaccate cortigianerie repubblicane, il giovane in cui l’Italia
raffigurava il difensore della repubblica e della libertà,
aveva stabilito in mezzo al mare, sulle tre isole, una dispotia di
liberti all’uso asiatico, che egli reggeva come monarca, avendo a
ministri alcuni intelligenti liberti orientali di suo padre,
Menodoro, Menecrate, Apollofane, mutatisi in ammiragli e
governatori; una dispotia nella quale i molti nobili rifugiatisi
presso lui, tra i quali il figlio di Cicerone, si trovavano a
disagio. Ne seguivano malumori, discordie, sospetti, che a volte
incitavano Sesto a crudeltà ed a violenze e che in quel tempo
lo avevano indotto a fare uccidere Staio Murco874. Inoltre Sesto
aveva reclutate nove legioni, in gran parte con gli schiavi dei
latifondi siciliani appartenenti ai cavalieri di Roma e confiscati
dai triumviri, di cui si era impadronito; aveva anche aperto il suo
piccolo impero insulare, come un rifugio, a tutti gli schiavi che
volessero arruolarsi sotto le sue bandiere; onde era cagione di
grave pericolo alla classe agiata d’Italia, i cui schiavi erano di
continuo tentati alla fuga dalla libertà che troverebbero
facilmente oltre il mare. Eppure l’Italia odiava tanto i triumviri e
specialmente il figlio e il nome di Cesare, riponeva nel figlio di
Pompeo tante e così ardenti speranze, da far supporre a
qualche moderno, che se Sesto avesse osato sbarcare l’esercito in
Italia invece di molestarne le coste, avrebbe potuto forse vendicare
Farsaglia e deviare per sempre il corso degli eventi875.
Senonchè nella primavera del 39 erano trascorsi dieci anni, e
quali anni, dal passaggio del Rubicone! L’ardimento e la timidezza
dei capi, nelle grandi contese storiche, non sono mai soltanto
l’effetto delle loro qualità innate o acquistate e quindi
loro merito o colpa intera: ma sono anche l’effetto di un contagio
di baldanza o di scoramento, che il successo o le sventure a volta a
volta diffondono in tutti. Cesare aveva potuto dieci anni prima
varcare con piede sicuro il Rubicone, non soltanto perchè era
un uomo ardito, ma perchè, partecipando alla sicura
confidenza di tutta la nazione rassicurata da venticinque anni di
pace, non credeva possibile un immenso rivolgimento; non immaginava
di scatenare una terribile guerra civile tra i ricchi e i poveri; si
illudeva di costringere i suoi avversari a transigere una
puntigliosa discordia di politicanti. Ma ora gli immani disastri
subiti e l’universale perigliosa incertezza delle cose presenti
sgomentavano tutti, anche Antonio e i capi del partito vittorioso,
temendo ne nascerebbero chi sa quali guai imprevisti; tutti
aspettavano passivamente che gli eventi precipitassero per forza
propria. Poteva osare tanto ardimento Sesto Pompeo, che non era
certo un uomo di grande genio, che doveva necessariamente essere
disanimato dal tragico fato a cui la sua famiglia avea soggiaciuto?
Tuttavia, se non poteva imitare gli ardimenti di Cesare, Sesto
Pompeo non era così sciocco da non capire che in quel momento
Ottaviano e Antonio avevano più di lui bisogno di pace; e
l’intelligente Menodoro lo incitava a resistere, a tirare in lungo,
a rendere con la carestia e le minaccie più perigliosa ancora
la condizione dei due rivali876. D’altra parte però Libone,
Muzia, i più autorevoli romani rifugiati presso di lui
facevano opera efficace in contrario, ammonendolo che altrimenti
l’Italia potrebbe voltarglisi contro in nemica877. Così le
trattative furono lunghe; ma si venne alla fine a questo accordo: a
Sesto Pompeo sarebbero riconosciute la Sicilia e la Sardegna, e dato
il Peloponneso per cinque anni, cioè sino al 34 a. C.;
nell’anno 33 egli sarebbe console; entrerebbe a far parte del
collegio dei pontefici; riceverebbe per indennizzo dei beni
confiscati a suo padre settanta milioni di sesterzi; in cambio non
molesterebbe più le coste d’Italia; non darebbe rifugio a
schiavi fuggiti; lascerebbe libera la navigazione; concorrerebbe
alla repressione dei pirati. Inoltre si prenderebbe l’occasione
della pace di Miseno per perdonare tutti i fuggiaschi e tutti i
proscritti superstiti, tranne i condannati per l’uccisione di
Cesare; restituendo a quelli tutti i beni immobili e a questi la
quarta parte; sarebbero anche riconosciuti liberi tutti gli schiavi
che avevano militato sotto Sesto; si prometterebbero ai soldati di
costui le medesime ricompense che a quelli di Ottaviano e di
Antonio878. Dopo questo accordo, nell’estate, i due triumviri si
recarono con un esercito a Miseno, a Miseno venne Sesto con la
flotta; e nel bel golfo, in cospetto dell’esercito che gremiva le
coste del promontorio, in cospetto della flotta che copriva di vele
il largo del mare, il figlio di Cesare e il figlio di Pompeo si
ritrovarono con Antonio sopra una nave, ratificarono la pace, si
invitarono a solenne banchetto, fidanzarono una piccola figlia di
Sesto con il piccolo Marcello, figlio di Ottavia. Per consolidare
maggiormente la pace, furono anche compilate le liste dei consoli
per altri quattro anni e cioè sino al 31 a. C.879. Poi Sesto
andò in Sicilia, Antonio e Ottaviano a Roma, insieme con un
considerevole numero di illustri proscritti o di fuggiaschi dopo la
caduta di Perugia, i quali approfittavano del perdono per
abbandonare Sesto e i suoi liberti e tornare a Roma a riprendere
quello che restava dei loro beni: Lucio Arrunzio, Marco Giunio
Silano, Caio Senzio Saturnino, Marco Tizio, il figlio di
Cicerone880. La pace era dunque ristabilita, con grande giubilo di
tutta Italia; e quasi a consolidarla, la Fortuna pareva fare nuovi
nodi ai legami di parentela, che univano i tre autori del trattato
di Miseno. Ad Ottaviano era già da poco nata da Scribonia (o
stava per nascere) una bambina, Giulia; Ottavia era incinta di
Antonio.
Conchiudendo la pace di Miseno, il triumvirato aveva fatta la prima
grande capitolazione davanti alla forza invisibile della opinione
pubblica. In questo ne consiste la grande importanza. Da questo
momento incomincia una lotta sorda e continua tra le inermi classi
agiate e la dittatura militare della rivoluzione; in cui gli inermi
a poco a poco si imporranno agli armati. Incoraggiato intanto dalla
pace di Miseno, Virgilio osava mettere mano a una nuova egloga
politica, la nona, in cui farebbe apertamente lamentare da pastori
la confisca del suo podere e delle terre dei mantovani, ricordando,
quasi a rimprovero, che egli aveva salutato l’astro di Cesare e che
del suo affetto al dittatore aveva ricevuta una ben amara
ricompensa!
XV.
IL DISASTRO DI SCILLA
E LA VENDETTA DI CRASSO.
Dopo la nascita di una bambina881, in settembre882, Antonio
partì per Atene. Non ostante il matrimonio con Ottavia egli
non aveva smessa, anzi si era vieppiù confermato nell’idea di
porre le fondamenta della sua grandezza in Oriente e di fare la
guerra alla Persia. Tutti i vizii delle troppo anticate istituzioni
latine. l’instabilità, la venalità, l’inettitudine, il
disordine, a cui Cesare si era illuso di porre riparo, crescerebbero
ora che i triumviri avevano aperta la repubblica alla folla innumere
degli oscuri ambiziosi, riducendo a sei o a tre mesi il tempo delle
magistrature e riempiendo alla rinfusa il Senato. Come adoperare per
opere gravi e difficili magistrati che uscivano di carica appena
entrati e che erano scelti a casaccio, per amicizia o clientela, tra
gente spesso ignara, di sordida origine, quasi sempre impreparata al
difficile cómpito di comandare e sprovvista perfino di
quell’ultimo aiuto che non manca nemmeno ai più degeneri
discendenti dei grandi lignaggi: il prestigio del nome? Cesare aveva
tentato di restringere i diritti e i privilegi superstiti
dell’aristocrazia, e le grandi famiglie lo avevano ucciso; il
partito di Cesare aveva a sua volta sterminato gli uccisori, ma non
aveva potuto distruggere quei diritti e privilegi, era anzi
costretto ad allargarli a una classe più numerosa, più
ignorante, più inetta. Le persone sole erano mutate. Mentre
prima un italiano di Forum Julii o di Venosa difficilmente avrebbe
potuto competere con le grandi famiglie romane per la conquista
delle magistrature, poteva ora più facilmente. Inoltre la
capitolazione di Miseno, a cui i tumulti di Roma avevano costretto
lui e il suo collega, dimostrava quanto il triumvirato fosse debole;
e della debolezza appariva chiaro che la ragione principale era la
pochezza delle cose compiute dai triumviri. Costoro non avevano
nemmeno saputo ristabilire l’ordine in tutto l’impero, avevano
soltanto divise delle terre tra quattro o cinquemila veterani di
Cesare: troppo piccola cosa per tante stragi, guerre,
illegalità e violenze commesse; per una così
straordinaria grandezza di poteri a loro conferita. Bisognava
giustificarla con grandi imprese. Anche per questa ragione la guerra
di Persia era necessaria. Ma l’Italia era esausta; anche in
quell’anno le spese della repubblica erano cresciute e le entrate
scemate, cosicchè i triumviri avevano dovuto dare ai soldati,
agli ufficiali, agli appaltatori, molte promesse e poco denaro,
accrescendo il disavanzo già grosso e i debiti già
numerosi883.
Allorchè Antonio nella seconda metà del 39 si recava
ad Atene, lasciando a Roma in ufficio la seconda coppia dei “piccoli
Consoli” come li chiamava spiritosamente il popolo, L. Cocceio e P.
Alfeno, questa evidente necessità, aggiunta ai motivi
personali, non poteva non sospingere le sue determinazioni a quella
parte, cui già erano inclinate dai consigli di Cleopatra. Le
notizie ricevute dall’Asia poco dopo il suo arrivo in Grecia884
ancora più lo incoraggiarono. Ventidio Basso, forse in
agosto, aveva sorpreso con felice accorgimento e ardimento Labieno
ai piedi del Tauro in un luogo che non ci è noto, e lo aveva
disfatto e costretto a fuggire con pochi compagni; poi era calato
nella Cilicia, si era fatto innanzi risolutamente verso la catena
dell’Amano e i passi che conducono in Siria; aveva qui incontrato un
nuovo esercito partico, condotto da un generale, il cui nome non
è sicuro, e lo aveva sconfitto885. I Parti, così
valorosi nel difendere il proprio, così inetti a conquistare
l’altrui, battevano in ritirata verso l’Eufrate; la Siria era aperta
ai Romani; solo in Palestina Antigono resisteva, sperando che i
Parti tornassero. Allegrissimo per queste notizie886, Antonio si
infervorò ancora più nei molti e diversi disegni che
volgeva nel pensiero; e senza por tempo in mezzo, prese in quegli
ultimi mesi del 39 a rimaneggiare la carta politica dell’Oriente, in
un modo che dimostra luminosamente la sua crescente sfiducia nei
governatori di Roma e nelle forze dell’Italia, la sua inclinazione
alle istituzioni burocratiche delle monarchie orientali. Non solo
infatti confermò Erode a re di Giudea, ma nella persona di
Dario, figlio di Farnace e nipote di Mitridate887, ristabilì
la dinastia nazionale nel Ponto, dove Pompeo aveva organizzate
grandi comunità elleniche; volendo domare i Pisidi, valorosi
montanari che potevano fornire stupendi soldati e briganti
terribili, non ci mandò un generale suo, ma scelse Aminta, un
segretario di Dejotaro, che fece re dei Pisidi888; volendo
ricompensare un certo Polemone, figlio di un retore di Laodicea che
improvvisatosi soldato aveva difeso bene la città contro i
Parti, lo fece re della Licaonia889. Tutti ebbero incarico di
raccogliere denari e soldati890, anche Dario che doveva ricostituire
l’antico esercito del regno del Ponto891; di prepararsi insomma ad
aiutarlo con oro e con milizie nella guerra di Persia. Divise
inoltre in tre parti l’esercito che Pollione aveva portato,
riprendendo lungo il viaggio Salona ribellata e vincendo i
Partini892: una la mandò a svernare in Epiro, altre due le
adoperò in piccole spedizioni contro i barbari893.
Incominciò poi a condursi come un vero monarca orientale,
sottoponendo a dure contribuzioni tutta la Grecia e specialmente il
Peloponneso, destinato a Sesto Pompeo894, e in questo facendo
tagliare la testa per togliergli i beni – era uno dei procedimenti
democratici usati dalle antiche monarchie – al più ricco
possidente, un certo Lachares895; sperimentando perfino il culto
divino che si attribuiva in Asia ai re. Se Ottaviano si contentava
di essere chiamato “figlio del divino”, Antonio si faceva chiamare
addirittura divino in persona896 e il nuovo Dionysos: e compariva
nelle cerimonie nel luogo del simulacro del Dio; e celebrava una
specie di mistico maritaggio con Minerva, costringendo la
disgraziata Atene a pagargli mille talenti per dote897. Poi, giunto
il tempo in cui la navigazione era sospesa, si diede nella celebre e
bella città alle feste, ai giuochi, alle conversazioni con i
retori e i filosofi, per corteggiare in Atene l’ellenismo, quasi
volesse esercitarsi ad essere in ogni cosa, anche nella protezione
delle arti e delle scienze, un buon successore di Alessandro898.
Ottaviano invece era partito per la Gallia, dove gli Aquitani erano
insorti899; ma dopo un breve soggiorno se ne tornava lasciando
Agrippa a domare l’ultima – almeno così si sperava – nella
lunga serie delle rivolte galliche900. Frattanto il 25 di ottobre
Asinio entrava in Roma, trionfando dei Partini901; e Mecenate, verso
la fine dell’anno, in una tregua delle sue faccende, potè
rammentarsi del giovane poeta che gli era stato presentato nove mesi
prima e mandargli a dire che il suo palazzo gli era aperto902.
Orazio credè di toccare il cielo con il dito e non ostante la
sua pigrizia scrisse la terza satira, in cui celebrò
l’amicizia e tutte le virtù che la mantengono, specialmente
la indulgenza, con un intenerimento, che parecchi critici hanno
considerato come effetto della riconoscenza a Virgilio per tanto
servizio903. Eppure non sembra che nel principio Orazio traesse da
questa amicizia alcun lucro e nemmeno un incoraggiamento morale per
i suoi poemi; perchè scriveva così poco e quel poco
non osava pubblicarlo o leggerlo a molti, onde Mecenate pare
l’avesse in concetto piuttosto di un futuro uomo politico che di un
grande poeta. E poi era così timido, conosceva così
poco l’arte del domandare, era così impacciato quando si
recava da Mecenate, aveva tanta paura di essere importuno!904 Non
riusciva a smettere la timidezza del povero che entra nelle grandi
case. Ma la classe di letterati poveri, che si formava nel medio
ceto romano, si disponeva a tanta soggezione verso i ricchi e i
potenti, della cui protezione doveva pur vivere, che anche i
migliori, i meno avidi e servili, erano beati di frequentare le case
signorili, pur senza trarne vantaggio diretto. Che farci del resto?
Non erano tutti gran signori, padroni del proprio tempo, del proprio
corpo, del proprio cervello, come Sallustio, il quale continuava la
sua implacabile vendetta letteraria contro i conservatori,
scrivendo, ma con maggior veracità e perfezione che il primo
libro, la stupenda Guerra di Giugurta, la storia cioè del
maggiore scandalo aristocratico; raccontando poi lungamente nelle
Historiae il malgoverno, gli scandali e la caduta della consorteria
sillana, dalla morte di Silla al 67, senza tralasciare, quando gli
capitava, di tartassar Pompeo. Orazio invece era così timido
che si spaventava perfino dei lamenti mossi dalle oscure persone
nominate nella seconda satira; e scriveva la quarta per difendersi;
e si difendeva un po’ invocando la autorità di Lucilio, ma un
po’ anche protestando che alla fin fine egli non metteva in vendita
i suoi versi e non li leggeva in pubblico905. Giustificazione, come
si vede, poco eroica! E nemmeno erano tutti fortunati come Virgilio,
che libero ormai dai crucci della povertà, protetto dai
grandi, ammirato dal popolo, aveva agio tra la fine del 39 e il
principio dell’anno seguente di compire la decade delle bucoliche,
scrivendo la decima ed ultima, in cui cercava di lenir le pene
amorose di un suo amico; letterato pur egli e guerriero e politico,
Caio Cornelio Gallo906, un cisalpino di oscura famiglia equestre che
faceva parte della cricca di Ottaviano e uno dei tanti italiani che
concorrevano a prendere il posto lasciato vuoto dalla distrutta
aristocrazia romana. Cornelio, che era un giovane impaziente di
riuscire, ambizioso di tutte le glorie, smanioso di far parlare di
sè in ogni modo, aveva avuta per amante quella Citeride che
declamava le egloghe di Virgilio e ne era stato allora lasciato:
onde aveva chiesta a Virgilio una egloga sul caso suo, che, oltre
consolarlo, avrebbe fatto sapere a mezza Italia essere egli stato
l’amante della più famosa etera del tempo907. E il buon
Virgilio raffigurò sè come un pastore d’Arcadia,
descrisse dolcemente i monti, le selve, i lauri, le tamarici, le
greggi e sin gli Dei afflitti per il dolore di Gallo; alle quali
consolazioni Gallo rispondeva dichiarando di voler ritrarsi tra i
pastori d’Arcadia, nei boschi e nelle spelonche, a cantare carmi
bucolici, a cacciare fiere, a scrivere sulle corteccie il nome della
bella.... Le dieci egloghe del poeta mantovano erano con questa
finite; e lette o ascoltate con ammirazione, si divulgavano per
l’Italia, perchè corrispondevano ai desideri del nuovo
pubblico tra cui si diffondeva il gusto della letteratura, ora che
la aristocrazia, l’antica classe depositaria della cultura, era
sparita. Ciascuno di questi componimenti era breve, si poteva
leggere o ascoltare in poco tempo e facilmente imparare a memoria; e
conveniva perciò molto a quel pubblico nuovo, numeroso, poco
ricco, superficiale, di avventurieri politici, di affaccendati
speculatori, di centurioni e tribuni militari in via di arricchire,
di giovani discendenti di ricche ma oscure famiglie mandati agli
studi, di studenti di filosofia e di retorica, di liberti
côlti che non avevano tempo, modo e voglia di procurarsi e
leggere i poemi interminabili di Ennio o di Pacuvio. Tutti poi,
questi poemetti, con la maniera pastorale dei bucolici greci e di
Teocrito allora in voga, esprimevano per bocca di finti pastori e di
ninfe e di fauni e di dei i sentimenti nuovi che fermentavano nello
spirito italiano dalla mescolanza di tante culture, in mezzo a
eventi così calamitosi e imprevisti: il desiderio della pace,
le speranze di un migliore futuro, il piacere malinconico della
campagna, la curiosità filosofica dell’immenso passato che ci
sta alle spalle dalle origini più lontane del mondo, i primi
fremiti del nuovo misticismo che incominciava a invadere la vita e
la politica, la sensualità più sottile e immaginativa
in cui si raffinava nella letteratura (e anche nella vita, sebbene
forse in misura minore) la antica grossolana lascivia.
[38 a. C.] Un guerriero desolato dall’abbandono di una etera, che
per consolarsi avesse fatto divulgare il suo nome e la sua avventura
in tutta l’Italia dal poeta in voga, sarebbe stato disprezzato dai
vecchi romani. Ma ormai scompariva nella confusione universale
quella specie di vergogna dignitosa, per cui gli uomini destinati a
governare gli altri dovevano nei tempi antichi trattenersi dal
mostrare in pubblico le bizzarrie e i trasporti delle passioni
più umane; il dio Eros faceva capolino sfacciatamente
dappertutto, anche nelle tende dei generali e nella curia del
Senato; l’opinione pubblica diventava indulgente per queste come per
tante altre debolezze. Sul principio del 38 Roma vide a un tratto il
lascivo e iroso Ottaviano essere preso da una furia d’amore
così subitanea e impetuosa per la moglie di Tiberio Claudio
Nerone, che subito divorziò da Scribonia, subito fece
divorziare Livia – così si chiamava la bella – e subito la
sposò, senza nemmeno aspettare che Livia, incinta da sei
mesi, si sgravasse, come prescriveva il vecchio diritto sacerdotale
di Roma908. Grande fu la sorpresa, molto il riso e lo scandalo in
Roma, quando i compiacenti pontefici giudicarono che le vecchie
prescrizioni religiose non si applicavano a quel caso; quando si
seppe che il marito aveva dotato Livia come un padre e assistito al
banchetto nuziale!909 E non è dubbio che in questa furia
debba riconoscersi un’altra di quelle periodiche alternative di
violenza e di abbattimento in cui Ottaviano oscillava. Scribonia fu
certo ripudiata anche per motivi politici; ma Livia non fu per
motivi politici sposata. Ottaviano era un uomo poco audace, poco
pronto, molto impressionabile, che facilmente si sbigottiva e
smarriva in mezzo ai pericoli, nell’urgenza di prendere subite
risoluzioni; ma possedeva invece quello che si potrebbe chiamare il
vigore lento: la capacità di vedere bene, quando avesse agio
e tempo a riflettere, e senza illudersi come fanno i timidi, le
imprese lunghe e difficili che gli era necessario di compiere; la
forza di prepararsi a eseguirle vincendo le proprie esitazioni e
incertezze a poco a poco, con sforzi successivi e continuati per
lungo tempo. In mezzo alle oscillazioni degli ultimi mesi anche
egli, come Antonio, si era persuaso che la capitolazione innanzi
alla pubblica opinione fatta a Miseno lo aveva screditato; che egli
doveva cercare di rifarsi di quell’insuccesso con qualche impresa:
ma non era in grado di tentare, come Antonio, una diversione in
terre lontane; doveva per necessità sforzarsi di annientare
il figlio di Pompeo e di impedire che con il tempo e il favore del
pubblico la stirpe rivale della sua ricrescesse di nuovo all’antica
potenza. Ottaviano aveva perciò, già negli ultimi mesi
del 38 e nei primi del 37910, cercato pretesti di discordia,
scrivendo a Pompeo lettere in cui lo rimproverava di accogliere
schiavi fuggiaschi, di non reprimere i pirati, di continuare gli
armamenti e di violare diversi patti del trattato di Miseno911 Far
divorzio da Scribonia era dunque un mezzo per accelerare la rottura
con il signore delle isole. Ma nè questo nè altro
scopo politico potrebbero spiegare la fretta con cui Ottaviano volle
sposare Livia, offendendo gli scrupoli superstiziosi della
moltitudine. Livia Drusilla era la figlia dell’aristocratico Livio
Druso uccisosi a Filippi e una giovine donna di meravigliosa
bellezza, di molto ingegno, di umore sereno. Non è
inverosimile che questo giovane intelligente ma nevrotico, ora
esitante ora precipitoso, ora puntiglioso ora debole, si invaghisse
di questa donna non solo per lo splendore della bellezza, ma per il
fascino della sua intelligenza acuta e precisa, della sua
ragionevolezza solida e sicura, quali si trovano spesso nelle donne
intelligenti ed equilibrate; e fosse, eccitabile e violento come
era, preso dall’impazienza di sposarla, indovinando di trovare in
lei una donna ricca di buoni consigli, che l’avrebbe aiutato a
vincere le sue oscillazioni e incertezze continue.
Intorno al tempo in cui Ottaviano celebrava questo bizzarro
matrimonio, succedeva un caso che precipitò la rottura con
Sesto. Menodoro, nominato da Sesto governatore della Sardegna, per
dispetti e sospetti avuti con Pompeo e i suoi amici era passato al
nemico, consegnando a Ottaviano l’isola, una flotta di sessanta navi
e tre legioni912. Ottaviano, lietissimo di riavere la Sardegna, lo
accolse a braccia aperte: ma Sesto, appena avuta notizia del
tradimento913, mandò una flotta a molestare di nuovo le coste
dell’Italia. Al principio della primavera del 38 la guerra era
dunque di nuovo scoppiata; e Ottaviano scrisse senza indugio ad
Antonio di venire a Brindisi per un certo giorno a concertarsi914;
invitò Lepido ad aiutarlo915, prese le prime disposizioni:
ordinò che la flotta ancorata a Ravenna andasse a Brindisi ad
aspettare Antonio916, che la flotta di Menodoro si raccogliesse con
le altre navi sue sulle spiaggie dell’Etruria917, che a Ravenna e a
Roma si costruissero nuove triremi918; fece venire legioni dalla
Gallia e dall’Illirico e le avviò parte su Brindisi e parte
su Napoli919, per assalire la Sicilia da due lati, se Antonio
approvasse il suo disegno920. Senonchè le notizie e l’invito
venuto dall’Italia furono ricevuti dal collega in Grecia con grande
malumore. Antonio aveva passato ad Atene l’inverno, consumando il
tempo libero dalle cure politiche in feste: ma al finire
dell’inverno aveva ripreso alacremente l’esecuzione dei suoi disegni
e allora attendeva a far passare l’esercito che aveva svernato in
Epiro e ai confini della Macedonia in Asia, dove egli intendeva
seguirlo921. Ed ecco Ottaviano lo richiamava in Italia per una nuova
guerra contro Sesto Pompeo! Antonio non intendeva affatto
interrompere i suoi disegni orientali e differire la sua rivincita
della capitolazione di Miseno per favorire quella di Ottaviano; e su
poche navi, con poco seguito922 si imbarcò per Brindisi,
risoluto a costringere alla pace il turbolento Ottaviano, che egli,
più anziano, più autorevole, più ammirato,
considerava come un collega minore e subordinato. Giunse infatti a
Brindisi per il giorno fissato, ma non vi trovò, non sappiamo
per quale ragione, Ottaviano: non indugiò ad aspettarlo e se
ne tornò via subito dopo avere scritto imperiosamente ad
Ottaviano che rispettasse il trattato di Miseno, e a Menodoro che,
se non stava tranquillo, avrebbe reclamati i suoi diritti di
patronato su lui, come compratore del patrimonio di Pompeo923.
Ottaviano dovè trangugiare questa amara umiliazione; e per un
momento parve esitare. Lepido, sdegnato che la pace di Miseno fosse
stata fatta senza intervento suo, non si moveva; l’opinione pubblica
era più che mai inviperita contro lui e avversa alla guerra;
Agrippa combatteva felicemente contro gli Aquitani. Arrischiarsi
solo contro Sesto Pompeo era temerario. Ma Ottaviano si accorse che,
dopo le intimazioni di Antonio e le provocazioni di Sesto Pompeo,
egli si screditerebbe interamente se mostrasse di aver paura del suo
collega e del signore delle Isole; sentì che non potrebbe far
rilucere il prestigio offuscato del nome di Cesare, offuscare il
rilucente prestigio del nome di Pompeo, se non vincendo sul mare o
sulla terra una nuova, sia pur piccola, Farsaglia; e si illuse di
potere da solo comandare la guerra. Avviene non di rado agli uomini
poco audaci e molto intelligenti i quali abbracciano bene tutta una
larga situazione, vedendo ciò che conviene fare ma poi non
sanno scegliere il tempo o il modo di fare, che talora sono troppo
prudenti per paura, e qualche volta invece temerari perchè si
illudono ingenuamente. Così allora Ottaviano, certo
incoraggiato dalla notizia che i Parti invadevano di nuovo la Siria,
giudicò troppo temerariamente che Antonio, trattenuto in
Oriente, non potrebbe intervenire in Italia: se frattanto egli
distruggesse Pompeo, il successo giustificherebbe la guerra.
Perciò si risolvè a dirigere da solo l’esecuzione di
un ingegnoso ma difficile piano di guerra doppia, sulla terra e sul
mare. Pose Cornificio a capo della flotta che aveva già
raccolta a Brindisi e gli ordinò di portarsi a Taranto. Pose
Calvisio Sabino a capo della rimanente armata nelle acque
dell’Etruria con Menodoro come vice-ammiraglio e ordinò loro
di veleggiare verso la Sicilia. Egli stesso condusse sulla costa di
Reggio l’esercito che sarebbe sbarcato nell’isola, quando le due
flotte avessero distrutta quella di Pompeo924. Per rassicurarlo
dalle minacele di Antonio, aveva ascritto Menodoro all’ordine dei
cavalieri.
Probabilmente verso la fine di luglio la guerra incominciò.
Ma Pompeo aveva nominato nel luogo di Menodoro un altro liberto
greco e non meno intelligente, Menecrate, il quale seppe
approfittare abilmente della divisione delle forze nemiche e si
accinse a distruggere le due parti della flotta di Ottaviano prima
che si riunissero. Lasciando infatti Pompeo con sole quaranta navi o
poco più in Messina925, egli veleggiò con il grosso
della armata verso Napoli; e incontrati nelle acque di Cuma Calvisio
e Menodoro che venivano dall’Etruria, diede loro battaglia. La
flotta di Ottaviano, comandata dal poco esperto Calvisio, e forse
meno numerosa, ricevè gravissimi danni; ma per compenso
Menecrate morì nella battaglia e Democare, il comandante in
seconda, non avendo osato sfruttare a fondo la vittoria, si
ritirò lentamente verso la Sicilia, lasciando Calvisio e
Menodoro nel golfo di Napoli a riparare i guasti926. Intanto
Ottaviano, giunto a Reggio e disposto lungo la costa l’esercito,
aveva preso il comando dell’armata di Cornificio e da Reggio spiava
Pompeo; ma pavido, agitato, irresoluto, guardava, esplorava,
indagava, almanaccava da mane a sera possibili e impossibili offese;
e intanto si lasciava scappare, sempre aspettando Calvisio, tutte le
occasioni, che nella guerra son così veloci: anche quella di
sorprendere Sesto nello stretto con le sue sole quaranta navi927. Ma
quando Calvisio e Menodoro, riparati i loro guasti, veleggiarono
verso la Sicilia, questo ammiraglio così esitante commise una
imprudenza tanto grande, che vien fatto di supporre gli scrittori
antichi abbiano trascurato di narrarci qualche fatto che aiuterebbe
a scusarlo: uscì cioè di Reggio per andargli incontro,
ma lasciando dietro in Messina non più le quaranta navi di
Sesto, ma tutta la flotta ritornata da Cuma. Democare e Apollofane
infatti uscirono prontamente dietro a Ottaviano, lo inseguirono e lo
assalirono alle spalle nelle acque di Scilla, costringendo il
venticinquenne ammiraglio a comandare la sua prima battaglia
navale928. Ottaviano tentò in principio di resistere in alto
mare, raccogliendo le sue navi che erano più grosse e pesanti
e cariche di soldati migliori; ma assalito da Apollofane, si
smarrì presto, temè di esser colato a fondo o preso
prigioniero, si ritirò vicino alla costa e fece gettare
l’áncora. Il nemico non ristette però dall’incalzare
le pesanti navi che all’áncora erano ancora più
impacciate929; gli ordini del nervoso ammiraglio diventarono confusi
e contradditori; molti soldati cominciarono a gettarsi in mare per
fuggire a terra. Alla fine anche egli perdè la testa e, unico
dei generali romani, si rese reo di codardia; scese a terra,
abbandonando il comando nel fervore della mischia930. La codardia
del generale salvò del resto la flotta dall’intera rovina;
perchè, libero dal pauroso ammiraglio, Cornificiò fece
levare le áncore, tentò un ritorno offensivo, riprese
a combattere, finchè questa riscossa, il cadere della sera,
l’arrivo di Calvisio che essi scorsero primi, indussero i nemici a
tornare a Messina931. Il sole calò prima che Cornificio si
accorgesse della vicinanza della flotta venuta da Napoli; onde nella
notte, mentre Ottaviano era a terra in mezzo a una torma di
fuggiaschi famelici e di feriti, l’ammiraglio ormeggiò con le
sue navi senza saper nulla del suo generale, di Calvisio, di quel
che succederebbe il dì dopo. L’alba desiderata parve portare
a tutti inaspettato conforto: delle coorti venute da Reggio
ritrovarono sulla costa Ottaviano, non meno affamato e stanco dei
soldati comuni; Cornificio e Calvisio si videro; tra gli ammiragli e
il generale fuggiasco cominciarono a correre domande ansiose e
risposte rassicuranti932. Quando, mentre la fiducia rinasceva,
incominciò un terribile fortunale, che durando tutto il
giorno e tutta la notte distrusse la maggiore e la miglior parte
della sua armata933. Le onde avevano compiuta l’opera degli
ammiragli di Pompeo; Ottaviano non aveva più flotta;
l’impresa di Sicilia era finita miserabilmente in un disastro.
Disastro tanto più grave, perchè ad esso facevano
riscontro i successi splendidi delle armi di Antonio in Oriente. I
Parti avevano invaso di nuovo a primavera la provincia romana sotto
il comando di Pacoro, il figlio prediletto del re, quando Antonio
era ancora in Grecia; ma Ventidio, con una prontezza e una
abilità veramente ammirabili, era riuscito a raccogliere
tutte le forze romane di stanza in Siria e in Cilicia; e andatogli
incontro, gli aveva inflitta a Gindaro una memorabile disfatta, in
cui anche Pacoro era morto, a quanto pare il 9 giugno e cioè
nel sedicesimo annuale della strage di Crasso934. Crasso era dunque
vendicato alla fine; un principe partico aveva espiato con la sua la
morte del proconsole romano!935 L’entusiasmo a Roma fu così
grande, che il Senato decretò il trionfo non solo ad Antonio
come a generale di Ventidio, ma anche a Ventidio936 con procedimento
insolito, per soddisfare l’opinione pubblica. Giunto in Asia qualche
tempo dopo la vittoria di Gindaro, quando Ventidio già aveva
incominciata la guerra contro il re di Commagene gran partigiano dei
Parti e assediava Samosata, Antonio aveva preso il comando
dell’esercito ed era allora occupato a continuare l’assedio
incominciato dal suo generale937. A questi trionfi invece Ottaviano
non poteva contrapporre se non i prosperi successi di Agrippa in
Aquitania, non bastevoli a bilanciare le sue disgrazie siciliane,
che avevano rallegrata tutta l’Italia. E il denaro gli scarseggiava;
imporre nuove tasse in quella condizione dello spirito pubblico era
impossibile938; Antonio doveva essere sdegnato contro di lui; e per
maggiore sventura alla fine di quell’anno 38 scadeva il quinquennio
del triumvirato, che non era possibile di rinnovare se non dopo una
intesa con il collega. Poco poteva giovargli in tante
difficoltà il profondere le magistrature, sebbene non
trascurasse nemmeno questo espediente: nientemeno che sessantasette
furono i pretori nominati in questo anno939. Per un momento egli
aveva sperato che Antonio resterebbe in Siria, trattenuto dalle
faccende dei Parti; ma verso la fine di settembre egli dovè
sapere che, fatta pace con il re di Commagene per un compenso in
denaro, Antonio si disponeva a tornare in Grecia940, certo per
intervenire a suo modo nelle faccende dell’Italia. Lasciava in Siria
governatore con dieci legioni Caio Sossio, un altro uomo oscuro che
al seguito di Antonio faceva fortuna, incaricandolo di conquistare
definitivamente la Giudea ad Erode e di prendere Gerusalemme, dove
Antigono ostinatamente resisteva941.
Allora Ottaviano si risolvè a mandare ad Antonio in Atene
Mecenate942, con Lucio Cocceio e Caio Fonteio Capitone943, a cercar
di placarlo e di conchiudere con lui amichevolmente un accordo per
il rinnovamento del triumvirato. Orazio, che fu invitato ad
accompagnare Mecenate sino a Brindisi, ci ha descritto questo
viaggio stupendamente nella quinta satira del libro primo. Partito
in vettura da Roma, probabilmente nella seconda metà di
settembre, con la sola compagnia di un piacevole retore greco,
Eliodoro, Orazio giunse a sera ad Ariccia, dove passò con il
compagno la notte in una modesta osteria; rimessisi in viaggio il
mattino seguente, erano la sera a Foro di Appio, al confine della
palude pontina, donde un canale navigabile li avrebbe nella notte
condotti a Terracina. Orazio, che per un male d’occhi non poteva
bevere vino e che aveva a schifo l’acqua cattiva del villaggio, si
rassegnò a non mangiare quella sera; e mentre gli altri
viaggiatori cenavano all’osteria, se ne andò a vedere i
nocchieri e i loro giovani schiavi allestire la nave e caricare i
bagagli. Scintillavano in cielo le prime stelle. Alla sera la nave,
tirata da una mula che camminava sull’argine del canale, si
avviò, accompagnata dai canti del nocchiere e dei passeggeri;
a una a una le voci si spensero, i passeggieri furon vinti dal
sonno, restò solo a cantare il nocchiero, che alla fine
s’addormentò egli pure.... All’alba un viaggiatore svegliato
dalla nuova luce vede con stupore la barca ferma e il nocchiero
dormente; e lo desta in malo modo.... Insomma il terzo dì
alle dieci del mattino i due viandanti si lavavano la faccia e le
mani all’osteria della Fontana Feronia, donde partivano per
Terracina, distante tre miglia. Qui trovarono Mecenate, Cocceio,
Capitone; e Orazio potè farsi spruzzare di collirio gli occhi
malati. Il quarto giorno tutti insieme ripresero in vettura la via
di Capua, passarono per Fondi dove il praetor (il sindaco diremmo
noi), un antico scriba, venne loro incontro in gran pompa, facendoli
ridere assai; giunsero a Formia, dove passaron la notte, ospiti
nella villa di Lucio Licinio Murena. Alla mattina dopo ecco arrivare
da Napoli Plozio, Vario e Virgilio, venuto forse dai poderi campani,
donatigli da Ottaviano; e la cresciuta brigata partire in vettura,
per fermarsi alla sera del quinto giorno in una piccola osteria del
Ponte Campano. Il dì dopo, il sesto del viaggio, si fermarono
a Capua, dove Mecenate, appassionato dilettante di esercizi
corporei, andò a giuocare una partita di palla. Nel settimo
giorno giunsero alle Forche Caudine e si recarono nella splendida
villa di Cocceio, trattenendosi sino alle ore piccine a una cena,
rallegrata perfino da una stramba contesa di buffoni. Il dì
seguente erano a Benevento, dove per poco non bruciarono con
l’osteria, per la gran fiammata su cui il padrone tentò di
far loro cuocere un arrosto di tordi. Dovettero tutti aiutare a
spegnere l’incendio. Dopo Benevento, al nono giorno, Orazio
incominciò a vedere i monti ben noti della sua Apulia: ma la
sera bisognò pernottare a Trevico, in una fumosa taverna,
nella quale il nostro poeta tentò invano di sedurre la pur
facile fantesca. Dopo due giorni erano a Canosa, dove Vario li
lasciò; il dodicesimo giorno giunsero a Ruvo, ma per vie
guaste dalla pioggia; e il tredicesimo, con tempo migliore ma per
strade ancor più cattive, a Bari. Il quattordicesimo giorno
erano a Egnazia, dove si divertirono a vedere il finto miracolo del
tempio in cui l’incenso bruciava senza fuoco, facendoci sopra le
più grasse risate. “Certe cose, le diano a bere a un Ebreo,
non a me: gli Dei non badano a queste sciocchezze.” Il quindicesimo
giorno, dopo avere percorse da Roma quasi tutte in vettura 360
miglia (530 chilometri) giunsero a Brindisi, donde Mecenate si
imbarcò.
Il racconto di questo viaggio è un documento interessante,
anche perchè ci mostra Mecenate, uno dei più insigni
cittadini dell’Italia, costretto più volte nel breve viaggio
da Roma a Brindisi ad alloggiare in orribili osterie. Ciò
dimostra che sulla grande via erano pochi i ricchi possidenti che
potevano ospitare la insigne brigata; che molte ville deserte e
vuote si seguivano ancora sulla antica strada di Appio, come lugubri
monumenti funebri della distrutta plutocrazia ed aristocrazia di
Roma.
XVI.
LE GEORGICHE.
Il 27 novembre di quello stesso anno 38 a. C. Ventidio entrava in
Roma, tra gli applausi del popolo, trionfando dei Parti944; e
qualche tempo dopo – non si possono, disgraziatamente, citare date
precise – Mecenate tornava dalla Grecia e Agrippa dalla Gallia945.
Ottaviano aveva pensato di far decretare il trionfo anche ad
Agrippa, per pareggiare il trionfo di Ventidio e mostrare che non
soltanto i generali di Antonio vincevano battaglie, ma anche i suoi.
Agrippa però, da quell’uomo serio che era, capì che il
suo trionfo, decretato per volontà di Ottaviano dopo le poco
importanti vittorie di Gallia, sarebbe stato meschino in confronto a
quello di Ventidio, decretato dalla gran voce del pubblico per la
insigne battaglia di Gindaro; temè forse anche di dare motivi
di rancore e di invidia a Ottaviano; e si schermì, dicendo di
non voler trionfare, quando cosi recente era ancora la
calamità di Scilla946. Del resto cure ben più gravi
sopravvenivano. Noi non sappiamo per testimonianze dirette quale
ambasciata portasse Mecenate ad Ottaviano; possiamo però dai
fatti seguiti argomentare che fosse a un dipresso la seguente.
Antonio si dichiarava pronto ad aiutare Ottaviano nella guerra
contro Pompeo, cedendogli una parte della sua flotta, ma domandava
in cambio un contingente di soldati per la conquista della Persia;
un contingente, così almeno pare, molto grande, non di
reclute nuove – queste Antonio poteva assoldare in Italia senza il
permesso di Ottaviano – ma di soldati agguerriti tolti dall’esercito
del collega; tale insomma che Ottaviano e i suoi amici considerarono
la proposta come gravosissima. Antonio era ormai risoluto a tentare
nel prossimo anno 37 la guerra di Persia; ma siccome una parte
dell’esercito suo assediava allora Gerusalemme; siccome per la
conquista della Persia la sua flotta era inutile e i denari gli
scarseggiavano, aveva immaginato questo cambio per risparmiare sul
dispendio navale947. Quanto al rinnovamento del triumvirato, egli
rimandava l’accordo alla primavera, allorchè verrebbe in
Italia a conchiudere il baratto: nuovo espediente per costringere
Ottaviano ad essere arrendevole. Infatti, non rinnovando il
triumvirato nello scorcio dell’anno, Ottaviano, se non voleva o
ritornare a vita privata o violare la legalità, sarebbe
obbligato il primo gennaio del 37 a uscire di Roma, perchè
per un principio fondamentale del diritto costituzionale romano ogni
comandante di milizia conservava il comando come promagistrato
(interinalmente, diremmo adesso) oltre il termine assegnato,
sinchè non era nominato o non giungeva il successore,
purchè però non entrasse nel pomerium. Così i
triumviri conserverebbero l’imperium sugli eserciti e sulle
provincie, e cioè la parte essenziale dell’autorità,
sinchè non fossero designati i successori, a condizione
però di restar fuori di Roma948: condizione poco fastidiosa
per Lepido e per Antonio, che vivevano in Africa e in Grecia;
fastidiosissima per Ottaviano, che doveva governare l’Italia.
Insomma Antonio voleva far sopportare alle milizie del collega una
parte delle perdite della conquista persiana, che doveva poi
fruttare gloria e potenza a lui solo. È quindi naturale che
le proposte di Antonio fossero per Ottaviano e per i suoi amici
oggetto di molte considerazioni e discussioni. Occorreva cedere o
resistere? E se resistere, come resistere senza provocare una guerra
civile? Alla fine, certo per consiglio di Agrippa e di Mecenate, si
immaginò di dare subito mano a costruire una nuova flotta, di
imporre senza paura nuove imposte e una contribuzione di schiavi su
tutti i possidenti949, in modo da potere, quando Antonio verrebbe a
primavera, rispondergli che non si aveva più bisogno dei suoi
legni; cercar così di fare meno gravoso il baratto
mercanteggiando. Senza indugio l’operoso e versatile Agrippa si
accinse ad essere l’architetto della nuova flotta; e, andato a
Napoli, arruolò lavoranti, fece prendere la zappa e l’ascia
ai soldati, immaginò di scavare tra Pozzuoli e Miseno un
canale che facesse comunicare il lago di Averno con quello di
Lucrino, di mutare in un molo aperto da passaggi la sottile striscia
di terra che separava il Lucrino dal mare950. Così il lago
d’Averno era convertito in un retroporto, il Lucrino in un porto
militare. Al principio del 37 il bel golfo tra Pozzuoli e Miseno
ferveva per l’affaccendato tumulto dei manovali, dei muratori, dei
fabbri, dei calafati che fabbricavano e il porto e la flotta.
[37 a. C.] Intanto alla fine del 38 Ottaviano era uscito dal
pomerio951; e il 1° gennaio del 37 il potere triumvirale finiva,
Roma era di nuovo nel governo degli antichi magistrati repubblicani
già nominati, ma accresciuti di numero ed esautorati ancora
più che nell’anno precedente. Per questo anno non si era
nominato soltanto un gran numero di pretori, ma anche un insolito
numero di questori952. Siccome però Ottaviano non poteva
intraprendere la guerra contro Sesto, sinchè non si fosse
posto d’accordo con Antonio, così nulla avvenne sino a
maggio, quando Antonio comparve nel porto di Taranto con trecento
navi953, senza trovarci Ottaviano. È facile immaginare con
che stizza egli dovesse perdere tanti giorni ad aspettare in Taranto
risposta ai messaggi da lui spediti; e quanto dovette sdegnarsi
allorchè Ottaviano gli mandò, ma senza fretta, a dire
di non aver bisogno delle sue navi perchè già si era
costruita una armata. Pur immaginando facilmente che questa era una
finta dell’astuto cognato per mercanteggiare nel baratto, la
spedizione contro la Persia era di nuovo intralciata; nè
d’altra parte egli poteva usare la forza, incominciare una nuova
guerra civile per costringere il collega ad accettare una parte
delle sue navi, per quanto fosse stolto il proposito di Ottaviano di
fabbricare una nuova flotta, mentre la sua marcirebbe nelle acque
della Grecia, accrescendo le spese militari già troppo
gravose ad ambedue. Bisognava dunque pazientare e costringere
Ottaviano a smettere le sue finte. Egli spaventò la dolce
Ottavia, minacciando di fare la guerra al fratello; la indusse
così a mettersi di mezzo; mandò nuove ambascerie.... A
queste si opposero dall’altra parte studiate lentezze, facendo
passare inutilmente il giugno ed il luglio. Finalmente, come pare,
solo in agosto Ottaviano si risolvè ad andare a Taranto con
Agrippa e con Mecenate. Ottavia venne loro incontro,
scongiurò Ottaviano di non mutare lei felicissima nella
più sventurata delle donne, provocando una guerra, in cui
essa perderebbe o il fratello o il marito954; sinchè il
fratello si lasciò commuovere. Così almeno credette il
pubblico ingenuo, ormai avvezzo a vedere le donne reggere a modo
loro le faccende politiche. In verità Ottaviano, Agrippa e
Mecenate intendevano che bisognava accontentare in parte almeno
Antonio e fare il baratto delle navi, le quali del resto non sarebbe
inutile aggiungere a quelle fabbricate da Agrippa; che irritandolo
troppo si spingerebbe il triumviro a allearsi con Sesto e con
Lepido; e perciò a Taranto si misero d’accordo. Antonio fu
più discreto nelle domande e Ottaviano acconsentì a
soddisfarle; si convenne di proporre al popolo una legge che
rinnovasse per cinque anni, a cominciare dal 1° gennaio 37, il
triumvirato955; Antonio cedè a Ottaviano 130 navi e ne ebbe
in cambio 21 000 uomini956. Si convenne inoltre di fidanzare
Giulia, la figlia di Ottaviano, con il figlio maggiore di Antonio; e
la figlia di Antonio e di Ottavia a Domizio957. Il trattato di
Miseno era annullato. Antonio partì subito per la Siria,
lasciando a Taranto le 130 navi.
Ma il pubblico non si rallegrò per questa pace, come per
quella di Brindisi. Sbollito quel subito furore dell’anno 39 e
cessati i tumulti, il pubblico pareva essere ricaduto nel suo sordo
malcontento di tutto e di tutti, nella ostile e sfiduciata
indifferenza per ogni cosa. I triumviri facevano quello che
volevano; l’opinione pubblica non contava più nulla;
l’egoismo politico, questa malattia costituzionale della repubblica,
invadeva tutti i ceti, cosicchè fuori dei concorrenti alle
cariche non pareva esserci più alcuno che si occupasse di
politica. Nessuno immaginava quanto i triumviri si sentissero
malsicuri del loro potere. Eppure questo malcontento vago, questa
indifferenza universale, questa diffusione dell’egoismo politico
nascondevano il principio di un rinnovamento salutare, il primo e
timido sforzo tentato dalla nazione, dopo lo sconvolgimento della
rivoluzione, per adattarsi al nuovo ordine di cose e per cavare
anche da questa rovina la maggiore somma di bene, come l’aveva
cavata dalla prosperità dei tempi felici di Cesare e di
Pompeo. È questa l’eterna legge della vita, per cui il male
si volge in bene e il bene in male con vicenda perenne. A poco a
poco tutti i flagelli della rivoluzione si mutavano in
beneficî. La divisione delle terre e dei capitali, che
procedeva dalla rivoluzione, incominciava a operare i suoi effetti
salutari; rotti tanti latifondi e grossi poderi, diviso tra molti il
denaro che si era potuto arraffare qua e là nella
rivoluzione, così i possidenti nuovi, che nelle guerre civili
avevano acquistate terre per poco o per nulla, come i possidenti
vecchi, che trangugiavano gli amari rammarichi per la parte dei beni
perduti, erano incitati dalla crisi economica, dai bisogni
cresciuti, dalle imposte, dal desiderio di riparare alla meglio i
danni subiti, a compiere definitivamente la trasformazione
incominciata da un secolo della antica e rozza agricoltura italica,
nella nuova, sapiente, capitalistica e a schiavi. Certo se la terra
non scarseggiava, scarseggiava il capitale dopochè l’impero
già devastato dalle guerre civili era stato diviso in due
parti da Antonio e l’Italia pareva rassegnarsi a non ricevere
più i tributi dell’Oriente, per quanto scemati.
Senonchè anche questa scarsezza di capitali era salutare per
il momento. La spensierata facilità del credito era stato uno
dei peggiori mali dell’età di Cesare; perchè tutti ne
avevano abusato, tentando temerarie speculazioni ed imprese,
spendendo più del ragionevole: ora invece che era quasi
impossibile trovare denaro a prestito, nessuno si sforzava di fare
il passo più lungo della gamba; tutti si ingegnavano di far
bastare ai loro fini quello che avevano; tentavano coltivazioni e
traffici con maggiore giudizio, operavano con minore grandigia e
vivevano più modestamente, fondando un ordine di cose
più sano e più solido. Naturalmente anche la
disposizione dello spirito pubblico mutava. Come parevano lontani i
tempi, in cui tutta l’Italia ferveva di ammirazione per le grandi
conquiste di Cesare e di Crasso, per le immense profusioni di
Pompeo; e l’arricchimento rapido, il lusso pubblico e privato, la
ambizione senza scrupoli, i debiti smisurati, la violenza e la frode
fortunata erano tollerati o anche ammirati da questa nazione, che
cercava nel saccheggio di un impero i mezzi per adornare le sue
città a comune e gaio ritrovo di tutti i liberi, mantenuti
dal lavoro degli schiavi e dai tributi dei vinti! Ora invece, nello
sconforto di tante rovine, questa classe agiata e colta che aveva a
sua volta subita nella rivoluzione la violenza esercitata per tanto
tempo sugli altri, andava rammentando i piccoli principî del
grande impero e con sentimentale rimpianto rammaricava le
virtù della antica età agricola sciupate dai vizi
della età mercantile. La tradizione, dopo tanta baldanza
dello spirito rivoluzionario, ritornava in grande onore; ritornava
in onore nelle cose di cui la rivoluzione non aveva tolto alla
nazione il dominio: nel costume privato e nella amministrazione
domestica. Come prima era moda sfoggiare il lusso, era adesso moda
ostentare povertà e semplicità. A Mecenate che
sollecitava Orazio a diventare un uomo politico e a concorrere alle
magistrature, Orazio rispondeva intorno a questo tempo scrivendo la
sesta satira del libro primo, in cui si schermiva, vantandosi di
aver avuto per padre un liberto, ma così buono, onesto e
amoroso; dichiarando di essere contento della sua povertà e
dei suoi umili natali, di non desiderare altro958. Ritornare alla
terra, alla grande madre sana e feconda, pareva a tutti il segreto
della salute. Anche Sallustio, il quale pure aveva servito con la
parola, la penna, la spada Cesare, il partito cioè che aveva
fomentate tutte le forze rivoluzionarie dell’era mercantile, poneva
allora a fondamento di tutta la sua concezione storica la dottrina
che la ricchezza, il lusso e i piaceri corrompono le nazioni,
macerando le forti virtù della età rustica. Tra una
notizia e l’altra sulle discordie dei triumviri, sui pericoli di
nuove guerre civili e di nuove confische, dappertutto, così
nelle classi alte come nel ceto medio, così a Roma come nelle
piccole città d’Italia, nel palazzo di Mecenate e nella casa
che il veterano di Cesare aveva rubata al suo possidente, si
discuteva fervidamente di agricoltura, di coltivazioni nuove, di
lucri che si potesse cavarne; dappertutto si cercavano libri,
ammaestramenti, consigli. Uno dei tanti senatori romani, che in
tutta la vita aveva atteso a coltivare i suoi campi più che a
governare lo Stato, Gneo Tremellio Scrofa, aveva già
pubblicato in questi anni un trattato di agricoltura959. In quel
ceto di intellettuali di professione che si formava tra i liberti
istruiti delle grandi famiglie e la classe media libera, pronto
allora come sempre a scrivere di tutto, non mancò chi, senza
essere agricoltore, ne imitò l’esempio e si die’ a compilare,
scartabellando i georgici greci, degli zibaldoni destinati ai nuovi
e ai vecchi possidenti. Fu costui un certo Caio Giulio Igino, uno
schiavo che Cesare, a quanto pare, aveva preso giovinetto ad
Alessandria, poi liberato e lasciato come liberto in eredità
ad Ottaviano960; il quale probabilmente in questo anno 37 scrisse un
libro De agri cultura e un trattato, il primo scritto in latino, di
apicultura961. Ma la umile fatica erudita del liberto corrispondeva
siffattamente a un bisogno dei tempi, che in questo stesso anno due
insigni latini si volgevano a comporre l’uno un grande trattato
tecnico ed economico sull’agricoltura, l’altro un grande poema
georgico.
Varrone, salvatosi dalle proscrizioni perdendo una parte del suo
grande patrimonio962, imprendeva a ottant’anni sul finire del 37963
a riassumere le innumeri esperienze sue di agricoltore e di uomo
politico, tutte le riflessioni e le nozioni di erudito e di
studioso964, in uno dei libri più importanti per la storia
dell’antica Italia, che gli storici hanno fatto male a non leggere.
Nessun altro scrittore contemporaneo, di cui noi possediamo le
opere, nemmeno Cicerone, fece uno sforzo più vigoroso che
Varrone nel suo dialogo De re rustica, per orientarsi nel disordine
degli eventi che allora sconvolgevano la sua nazione. Progrediva o
decadeva l’Italia? Dovea farsi innanzi nell’avvenire animosamente o
tornare in dietro spaurita verso il passato? Varrone si sforza di
signoreggiare, dall’altezza di una dottrina generale, tutte le
contradizioni che nel suo tempo nascevano dal contrasto tra le
antiche tradizioni agricole e lo spirito mercantile della nuova
età, penetrato anche nella agricoltura; dalla lotta sorda e
tenace tra la grande possidenza latifondista che tanti colpi avea
ricevuto negli ultimi anni, e la media borghesia che tentava con
tutti i mezzi, anche con la rivoluzione e la violenza, di dividere
l’Italia in tanti poderi di media grandezza – trenta, quaranta,
cinquanta ettari – i quali, coltivati da schiavi, potessero
mantenere i loro signori ai piaceri, agli uffici, agli onori della
vita municipale nelle numerose città dell’Italia. Varrone
professa la teoria che oggi diremmo del progresso; non si accorda
con quei filosofi e poeti greci i quali consideravano la storia del
mondo come una decadenza dell’antica età dell’oro; pensa che
il genere umano è sospinto a mutare in meglio, prima vivendo
dei frutti naturali della terra, poi inventando la barbarica
pastorizia primeva, trapassando in seguito all’agricoltura nella
solitaria dispersione della campagna; raccogliendosi infine nelle
città, ricche di arti e di mestieri più fini, di
piaceri e di studi più eletti, di vizi più raffinati e
funesti965. Egli vuol quindi filosoficamente studiare i fatti del
tempo suo come momenti di una trasformazione necessaria: ma quando i
suoi personaggi, che sono tutti dei ricchi possidenti, considerano i
singoli fenomeni di questa trasformazione, in quante contradizioni
si impigliano; in quante si impiglia nei proemi dei libri e nei
discorsi del dialogo lo stesso Varrone! Il suocero di Varrone, C.
Fundanio, il cavalier Agrio, il pubblicano Agrasio guardano insieme
una carta dell’Italia dipinta sulla parete del tempio di Tellure e
gridano che l’Italia è il paese meglio coltivato del
mondo966, che è ormai tutta quasi un immenso pometo967.
Altrove Gneo Tremellio Scrofa riconosce più modestamente, ma
con compiacenza, che ai suoi tempi l’Italia è meglio
coltivata che nei secoli precedenti968. Eppure più lungi
Varrone ripete, facendolo suo, il melanconico giudizio di tanti
contemporanei, secondo il quale gli uomini si erano troppo
infingarditi, e desiderosi piuttosto di applaudire nelle
città gli attori, anzichè di vangare la terra,
lasciavano decadere tanto l’arte di Cerere, che l’Italia non mieteva
più come un tempo tutto il suo nutrimento, e Roma viveva col
grano importato da lungi969. Le coltivazioni mutavano, ma la
disparità delle prime riuscite generava in tutti – e ne
risente anche Varrone – una grande incertezza nel giudicare quali
delle nuove culture fossero buone e quali no, per la
difficoltà di discernere quando l’insuccesso era effetto
della inesperienza degli agricoltori, quando invece di insuperabili
difficoltà insite nelle cose. Così anche Varrone cita,
senza osare contradirla apertamente, l’opinione di molti che le
vigne non potessero coltivarsi in Italia con profitto970. I suoi
personaggi sanno per pratica che un ricco poteva guadagnare molto
allevando asini per i coltivatori, cavalli per le vetture, per i
carri e per l’esercito; pascolando grandi greggi di pecore e di
capre nelle solitudini dell’Italia meridionale o dell’Epiro,
affidando ogni cento od ottanta capi a uno schiavo gallico o
illirico – i più pregiati come pastori – e tutto l’armento a
un capo schiavo di maggiore istruzione e intelligenza. Il pelo delle
capre era ricercato per le macchine da guerra e la pelle per
fabbricare gli otri; la lana delle pecore si vendeva con profitto, a
mano a mano che crescevano il popolino e il medio ceto viventi nelle
città, che non potevano farsi le vesti in casa con la lana
delle proprie pecore. Eppure neanche Varrone è del tutto
sgombro dai tenaci rancori degli antichi piccoli possidenti che un
secolo prima avevano temuto di essere tutti scacciati dai campi
aviti, per far posto alle pecore e alle capre; e a certi momenti
lamenta che le antiche leggi restrittive della pastorizia siano
cadute in oblio971. Fedele alle grandi tradizioni romane, Varrone
detesta le città come scuole di corruzione, di ozio, di lusso
insensato; celebrala austera purezza della vita rustica, che
conserva la salute del corpo senza gli artificiali esercizi della
ginnastica, le virtù del carattere senza i faticosi
insegnamenti della filosofia: rammarica i tempi in cui i grandi
vivevano quasi tutto l’anno in campagna e trattenevano,
proteggendola con amore, la minuta plebe dei coltivatori liberi
intorno a sè, a respirar l’aere vivido e puro dei campi
invece della pestilente afa dei vicoli e dei crocicchi della
città972. Ciò non ostante egli scrive un libro della
sua opera, il terzo, per insegnare agli agricoltori come sfruttare i
vizi, le orgie, le crapule delle grandi città e specialmente
di Roma; per dimostrare quanto poteva rendere vicino a Roma, per la
frequenza dei grandi banchetti pubblici e per la universale
inclinazione alle crapule, l’allevamento dei tordi, delle oche, dei
piccioni, delle lumache, delle galline, dei pavoni, dei caprioli,
dei cignali: di tutti gli animali la cui carne servisse a variare la
monotonia del porco, dell’agnello e del capretto, i soli animali
mangiati comunemente in quel tempo, in cui il bue serviva quasi
soltanto al lavoro. Così la enumerazione di questi lucri
è lunga e l’analisi di ciascuno minuta. Un interlocutore
racconta con compiacenza di aver udito dal liberto computista di una
villa di Marco Seio presso Ostia, in cui si allevavano ogni sorta di
animali per rivenderli ai mercanti di Roma, che Seio guadagnava
50 000 sesterzi netti all’anno973. Varrone aggiunge che la sua
zia materna, allevando tordi in un podere della Sabina posto al
24° miglio sulla via Salaria, aveva guadagnato 60 000
sesterzi in un solo anno in cui ne aveva venduti 5000, al prezzo
medio di 12 sesterzi l’uno (circa 3 franchi), mentre un eccellente
podere di Varrone a Rieti, vasto 200 iugeri (80 ettari) non rendeva
che 30 000 sesterzi (7500 fr.) ogni anno974. Il primo
interlocutore interviene di nuovo, e narra, citando ancora l’esempio
di Marco Seio, che da un branco di 100 pavoni, a cui bastava un
intelligente procurator, schiavo o liberto, si poteva ricavare sui
40 000 sesterzi all’anno, con la vendita delle ova e dei
piccini975. Prorompono in esclamazioni di stupore e fremono di
cupidigia gli interlocutori; onde il vecchio scrittore deve
dimenticare le sue dottrine di austerità e sforzarsi di
insegnar loro con minuziosa diligenza il mezzo migliore di pescare
nella torbida fiumana dei vizi e delle profusioni cittadine questi
pingui e saporitissimi pesci! Eppure l’ammirazione per la
semplicità delle vecchie generazioni, spesso ingenua e
anacronistica, era in parte un sentimento vero, perchè quelle
virtù erano ancora, sia pure in forme diverse e meno rudi
delle antiche, necessarie alla classe media possidente d’Italia.
Varrone ha intravista la cagione ultima delle irrequietezze e delle
difficoltà in mezzo a cui si dibatteva questa classe.
L’antica piccola possidenza, in cui il capo della famiglia, aiutato
dalla protezione dei ricchi, coltivava con le sue braccia e con
quelle dei figli il campo, poteva mantenere numerose famiglie,
purchè queste fossero laboriose e si contentassero di poco;
la grande possidenza a schiavi poteva dare una piccola rendita in
denaro al proprietario, purchè la terra fosse abbondante e
gli schiavi a buon mercato. Ma la media possidenza a schiavi, intesa
a procurare una considerevole agiatezza al padrone sdegnoso di
fatiche manuali, stentava a prosperare per una ragione che Varrone
intravede già e che certi professori non vedono nemmeno
adesso, dopo venti secoli di nuove esperienze economiche: il grande
dispendio del lavoro servile, che poteva facilmente, per il suo caro
prezzo, consumare tutti i frutti di un fondo non molto vasto. Egli
cita infatti il conto di Catone, secondo il quale erano necessari
per un oliveto di 240 iugeri tredici schiavi, un fattore con la
moglie, cinque manovali, tre bifolchi, un asinaro, un porcaro, un
pecoraio; e per un vigneto di 100 iugeri, il fattore e la
fattoressa, dieci manovali, un bifolco, un porcaio, un asinaio, in
tutto quindici schiavi. Ma osserva poi che questi numeri valgono per
vigneti e per oliveti già grandi, che per terre più
piccole la spesa è in proporzione maggiore, perchè il
fattore e la fattoressa sono pur necessari, nè è
facile ridurre adeguatamente gli schiavi; cosicchè il lavoro
degli schiavi diventa per sè stesso tanto più
dispendioso quanto più il fondo è piccolo976. Inoltre
egli osserva quanto sia più dannoso al medio che al grande
possidente quell’altro inconveniente della schiavitù, per cui
le malattie e la morte dello schiavo sono a rischio, non del
lavoratore come nel lavoro libero, ma del capitalista. La morte di
un solo schiavo può a volte annullare tutto il reddito di un
anno, se il fondo è piccolo977. Un’altra, difficoltà
della stessa natura egli scopre infine, quando prende a considerare
l’acquisto degli oggetti industriali necessari al fondo. Nei tempi
antichi la maggior parte di questi oggetti era fabbricata in casa
dall’uno dall’altro membro della famiglia: senonchè Varrone
si accorge che ciò è più difficile a fare
adoperando i servi che non i figli, perchè in generale gli
schiavi essendo poco versatili, bisognerebbe avere sul fondo per
opere tanto diverse molti servi artigiani, ognuno abile nell’arte
sua. Ma un podere medio non potrebbe sopportare la spesa di tanti
schiavi ed il rischio per le loro malattie o per le morti. Quindi
egli raccomanda di comprare terre vicine a città in cui si
possano trovare artigiani liberi o vicine a grandi poderi abitati da
numerose e molteplici familiae di servi, così da poter
affittare uno di questi al bisogno, per il poco tempo necessario978.
Infine egli suggerisce di servirsi quanto più è
possibile di operai liberi, specialmente per i lavori insalubri e
per quelli temporanei come la messe e la vendemmia979; consiglia di
mettere a capo dei servi, come fattore, uno schiavo abile, esperto e
fedele, senza il quale il fondo costerà invece di rendere980;
raccomanda con speciale sollecitudine di essere parsimoniosi e
modesti, di seguire nella amministrazione dei fondi non gli esempi
recenti, ma la tradizione secolare, di non lasciarsi vincere dalla
smania del grandioso, di non imitar Lucullo ma i vecchi nel
costruire la fattoria; perchè se no i frutti del fondo
saranno consumati dagli interessi del capitale necessario a queste
fabbriche981. In altre parole egli combatte quella spensierata
prodigalità che aveva visto profondersi per l’Italia durante
l’età di Cesare, e rimette in onore la vecchia parsimonia
intravedendo, sia pure nebbiosamente, la principale
difficoltà dello sforzo in cui si consumava l’Italia per
stabilire intorno a ogni città una borghesia di agiati
possidenti di terre coltivate da schiavi: e cioè che questa
classe non poteva sostenere le grandi spese della coltivazione a
schiavi se non in terre di molto reddito, quando fosse in grado di
vendere bene le derrate, se non aveva molta saviezza nello spendere
e se non era aiutata da una plebe libera di artigiani nelle
città, che provvedessero con minore dispendio gli oggetti
industriali. Durante l’età di Cesare, i temporanei rincari
determinati dalle importazioni delle prede, dalla facilità
del credito, dalla prodigalità ed esaltazione di tutti,
avevano portato brevi periodi di una fittizia età dell’oro,
cui erano seguite crisi rovinose: con maggior prudenza e cautela
bisognava ora ristabilire una più costante proporzione tra le
spese e i guadagni, tra il prezzo delle derrate e il costo della
coltivazione, rinnovando certi sani principî dell’antica
amministrazione casalinga, troppo spregiati dalla generazione
precedente.
Virgilio invece non intendeva logorare il suo spirito in simili e
troppo sottili ragionamenti: ma chi si domandasse come mai, dopo
aver scritte le dieci bucoliche, egli si accingesse proprio in
questo anno 37 a scrivere una opera così diversa per materia
e per forma come le Georgiche, ponga mente che intorno allo stesso
tempo erano pubblicati o scritti i libri di Tremellio, di Iginio, di
Varrone. Il poeta non scelse per il suo nuovo lavoro, come aveva
fatto per le Bucoliche, tanti piccoli e diversi soggetti tra gli
argomenti allora in voga, ma il più grave di quegli argomenti
e quello che aveva voga maggiore; e lo scelse non tanto per i
consigli di Mecenate, quanto per la inclinazione sua di artista
avido di gloria a cercare soggetti vivi, che convenissero alle sue
attitudini e soddisfacessero a qualche sentimento del tempo. La
letteratura viveva ormai non più della protezione di poche
grandi case signorili, ma della lode popolare; e il successo delle
Bucoliche lo incoraggiava a cercar di piacere al grande pubblico.
Quale soggetto conveniva più che un poema sulla agricoltura a
Virgilio, che era figlio di un agricoltore, che aveva passata la sua
fanciullezza in campagna, che sentiva profondamente il paesaggio, a
cui piaceva quella rinascenza delle grandi tradizioni agricole, che
era nello stesso tempo un poeta e un filosofo, imbevuto delle
dottrine di Epicuro? Egli potrebbe facilmente, studiando un poco i
georgici greci ed Iginio982, esprimere con precisione scientifica le
molte nozioni di agronomia imparate empiricamente sul campo paterno;
e potrebbe non enumerare aridamente quei precetti, ma quasi direi
pittorescamente descriverli in un seguito di piccoli e grandi quadri
della campagna e della vita rustica; ma animarli, collocando la
faticosa opera delle generazioni che coltivano la terra sullo sfondo
immenso della vita universa della natura, rinascente e rimorente
senza tregua, che egli aveva appreso a contemplare nelle scuole di
filosofia; idealizzando in una dolce poesia quelle virtù e
quei pregi della vita campagnuola, la cui ammirazione era quasi una
moda. Le Georgiche non sono una accademica imitazione di poemi
didascalici greci; sono il poema nazionale di quel rinnovamento
agrario dell’Italia, che fu l’opera massima del secolo e mezzo
seguito ai Gracchi; sono la celebrazione poetica di quella grande
opera del tempo suo, di cui Varrone studiava come agronomo ed
economista le contradizioni, simile all’inno alle macchine, che un
poeta scrivesse oggi in mezzo al fervore dell’industria moderna;
sono la vibrazione di una cetra armoniosa, investita dal vento di
una gagliarda passione popolare.
XVII.
LE NOZZE DI CLEOPATRA E DI ANTONIO.
[37 a. C.] Frattanto, nel luglio del 37 a quanto pare, Gerusalemme
era caduta in potere di Erode e di Sossio983, e la fine di questa
guerra mutava la situazione, rendeva inutili in parte le laboriose
trattative di Taranto. L’esercito che aveva assediata la
città, era libero; e Antonio, che già aveva scaricata
sul collega una parte della sua spesa navale, fu contento di
risparmiare il soldo e il vitto dei 21 000 soldati di
Ottaviano, di cui non aveva più bisogno. Egli correva infatti
pericolo di essere intralciato nell’impresa dalla scarsezza non
degli uomini, ma dei denari; occorrendo una grossissima spesa per
eseguire il piano di Cesare, che era una geniale amplificazione del
consiglio dato inutilmente a Crasso dal re di Armenia, nel 55. Per
conquistare la Persia era necessano distruggere l’esercito dei
Parti, e specialmente quella loro cavalleria così
mirabilmente addestrata a trarre il nemico lontano dalla base di
operazione fuggendogli innanzi, a passargli a tergo, ad assalirlo di
fronte, a molestarlo sui fianchi, schivando i cimenti risolutivi.
Come eluderne la tattica? Come costringere i Parti a battaglia
campale, poco lontano dalla base di operazione, in luogo e in tempo
favorevoli? Ricalcando la via di Crasso e minacciando Seleucia, no.
Ai Parti non importava di perdere per qualche tempo le città
mesopotamiche; e quanto a minacciare la capitale, Seleucia era
così distante dall’Eufrate, che il nemico potrebbe seguire e
molestare i romani per lungo spazio e per lunghissimo tempo.
Perciò Cesare aveva deliberato di invadere la Persia per una
via più lunga ma più acconcia, non da Oriente, ma da
Settentrione; di raccogliere nell’Armenia minore, sul piano ora
detto di Erzerum, circa 100 000 uomini tra legionari e
contingenti orientali, grandi provviste di vettovaglie e un immenso
parco di assedio; di muovere di là tra paesi ricchi, popolosi
ed amici sino all’Arasse, che era il confine di un grande Stato
vassallo dei Parti, la Media Atropatene; di marciare sulla metropoli
della Media, che distava poco più di 400 chilometri dal
confine984. Se i Parti accorressero al soccorso del re vassallo,
l’esercito romano combatterebbe la battaglia o le battaglie
risolutrici in luogo acconcio, con le spalle sicure; se i Parti lo
abbandonassero al suo destino, la Media sarebbe la prima tappa della
conquista, la base di operazione da cui ripartire per invadere la
Persia. Che Antonio si sentisse l’animo di eseguire tanta impresa,
prova che egli non era così ammollito dai godimenti come i
suoi biografi dicono: ma per tanti soldati che si stavano armando,
per gli approvvigionamenti che si raccoglievano, per le molte
macchine che si costruivano, occorrevano immense somme, e a
provvedergliele non bastavano nè i nuovi sovrani da lui
creati in Oriente nel 39, nè le copiose miscele di rame e di
ferro nell’argento con cui coniava i denarii per le legioni985,
nè le piccole spedizioni o razzie ordinate a questa o a
quella parte dell’esercito. Così intorno a quel tempo
incaricava Canidio di portare sei legioni nel Caucaso a guerreggiare
gli Iberi e gli Albani, già visitati da Pompeo, per
mantenerle a spese di questi barbari e per far loro passare
l’inverno non lontano dall’altipiano di Erzerum, dove a primavera si
radunerebbe l’esercito986.
Insomma Ottaviano non poteva più giovare in nessun modo ad
Antonio; il quale perciò tanto più doveva esser
profondamente sdegnato per la diffidenza e la doppiezza con cui il
collega aveva trattato il baratto; sentire il bruciore dell’affronto
che il cognato gli aveva inflitto a Taranto, costringendolo a
implorare un accordo che era molto più vantaggioso ad
Ottaviano che a lui. Egli era per natura proprio l’opposto di
Ottaviano: vigoroso, orgoglioso, violento; ma semplice, e se talora
pronto a ingannare con qualche facile e rapida astuzia, poco
paziente e poco abile nell’ordire lunghi intrighi. Sospinto dallo
sdegno e dal bisogno di denaro, Antonio prese rapidamente, nel breve
viaggio da Taranto a Corfù, una grave risoluzione: accettare
finalmente l’offerta di Cleopatra, sposarla e diventare, di fatto se
non di nome, re di Egitto, per attingere a piene mani nel tesoro dei
Lagidi. Giunto infatti a Corfù, rimandò in Italia
Ottavia con i bambini987; e spedì Fonteio Capitone ad
Alessandria a dire a Cleopatra di venirgli incontro in Siria988,
senza perciò dar principio a un nuovo episodio di un lungo
romanzo di amore. Antonio era stato lontano da Cleopatra quasi tre
anni senza dimagrire, e sinchè ciò gli conveniva:
tornava a lei di nuovo, regina del solo paese ancora non rovinato
dalle guerre civili che fosse in Oriente, quando si accingeva a una
impresa dispendiosissima, in tal bisogno di denaro da dover cedere
una parte della flotta al collega. Sposando Cleopatra egli ambiva
solo aggiungere agli altri paesi da lui governati l’Egitto,
scansando il passo pericoloso della conquista, con un espediente
usato ed abusato dalle monarchie asiatiche, ma inconciliabile con la
natura dello stato romano e dell’autorità proconsolare: un
matrimonio dinastico. Egli compiva perciò un atto
rivoluzionario gravissimo, e all’improvviso, senza prepararlo, come
si trattasse di un nonnulla; dando prova non di un romantico amore
per la regina d’Egitto, ma della facile spensieratezza con cui
affrontava l’ignoto e si appigliava all’insolito che tanto spaventa
i più. Colpa in parte del suo temperamento geniale ma poco
ponderato; in parte della soverchia fortuna goduta negli ultimi anni
e della confusione dei tempi, in cui era facile scambiare
l’impossibile per reale e la stravaganza per saggezza.
In Italia intanto, in quegli ultimi mesi dell’anno 37, Ottaviano
dava esecuzione all’accordo di Taranto, facendo approvare dai comizi
una legge che prolungava i poteri triumvirali fino al 1° gennaio
del 32 a. C.; e continuava alacremente i preparativi della guerra
contro Sesto, ormai definitivamente deliberata per l’anno prossimo.
Certamente l’opinione pubblica era sempre contraria all’impresa; si
ostinava nella ammirazione del vecchio Pompeo; si compiaceva di
interpretare i disastri del 38 come vendette della collera divina,
come una protezione dei numi sull’ultimo discendente della nobile e
infelice famiglia. E Ottaviano che, arrobustendo con gli anni e con
l’esperienza l’ingegno e il volere, incominciava a moderare la sua
squilibrata violenza, a subire l’influsso benefico di Livia, del suo
maestro Didimo Areo, degli amici più savi, Ottaviano temeva
di irritare troppo l’opinione pubblica, e forse le avrebbe dato,
potendo, soddisfazione. Ma capiva che non avrebbe distrutta la
popolarità del nome di Pompeo, così pericolosa per il
figlio di Cesare, se non distruggendo Sesto; e perciò si
risolveva a fare violenza allo spirito pubblico: ma la grandezza dei
preparativi dimostra quanto temesse una nuova esplosione di Roma e
dell’Italia simile a quella del 39, come non intendesse accingersi
all’impresa se non essendo sicuro di riuscire. Il successo era il
solo mezzo di convertire il pubblico incaponito; mentre un nuovo
insuccesso poteva rovinarlo. Cercava infatti di indurre Lepido ad
aiutarlo con le sue navi e le sue sedici legioni; faceva terminare
la flotta e il porto di Agrippa; studiava forse la storia della
prima guerra punica, nella quale pure si era combattuto per terra e
per mare contro la Sicilia; e preparava un piano di guerra, al quale
i nuovi Cartaginesi dovevano senza fallo soggiacere. Il maggior
numero possibile di legioni sarebbero avviate verso l’estrema punta
dell’Italia, per passare in Sicilia; in uno stesso giorno Lepido
muoverebbe dall’Africa, Agrippa con la sua nuova flotta da Pozzuoli;
da Taranto, con le navi di Antonio, Statilio Tauro, un homo novus,
uno dei tanti giovani di oscura origine che era riuscito a
introdursi nella clientela di Antonio e si era segnalato in modo da
essere posto da lui a capo della armata lasciata in Italia.
Cosicchè quando, sul finire dell’autunno dell’anno 37, la
navigazione e lo scambio delle notizie tra le due parti dell’impero
furono sospesi, Antonio in Siria e Ottaviano in Italia erano in gran
faccenda. Antonio, mentre aspettava Cleopatra, preparava alacremente
la spedizione dell’anno venturo; spediva ai sovrani di Asia l’ordine
di mandare sull’altipiano dell’Armenia minore gli uomini, il
materiale, le provvigioni per la primavera seguente; mutava re al
Ponto, sostituendo, non sappiamo per quale ragione, Polemone a
Dario989; arruffava frettolosamente un intrigo diplomatico, di cui
il caso gli aveva messo in mano i fili, per avere aiutatori
all’impresa sua anche nella aristocrazia partica, malcontenta del
nuovo re Fraate successo ad Orode, che aveva abdicato per il dolore
della morte di Pacoro990. Ottaviano invece riusciva, non sappiamo
con quali promesse, a persuadere Lepido; preparava con grande
minuzia e alacrità la sua spedizione, si accingeva a muovere
l’Africa e l’Europa contro la Sicilia, cercava di incuorare i
soldati e le ciurme, maldisposte dalle precedenti disgrazie e dalla
universale riprovazione, persuadendo loro che questa guerra era la
conclusione necessaria della vendetta di Cesare, da lui impresa otto
anni prima come un sacro dovere di figlio, tra il favore
popolare991. Ma una disdetta implacabile pareva accanirsi contro di
lui. In quell’inverno una epidemia decimò le ciurme di
Antonio a Taranto, cosicchè ventotto navi non poterono esser
più adoperate992. Inoltre Menodoro, capitato a Roma tra gli
antichi suoi compagni di servitù nella casa del Magno, tra i
numerosi liberti di Pompeo tutti fedeli alla memoria del morto, era
stato così aspramente rimbrottato pel suo tradimento che
aveva ritradito, fuggendo di nuovo in Sicilia all’antico signore993.
[36 a. C.] Ma tra queste cure Ottaviano non immaginava che, dopo
tante successe in Italia, un’altra rivoluzione avveniva in Oriente
in quell’ inverno dal 37 al 36, e non meno grave delle precedenti,
sebbene senza guerra e senza sangue, con un semplice matrimonio. Al
principio del 36 Cleopatra e Antonio avevano celebrato tra grandi
feste le loro nozze in Antiochia994. Antonio aveva date alla sposa,
come dono nuziale e a compenso delle somme che prenderebbe nel
tesoro di Alessandria, alcune particelle dell’antico regno di
Egitto, tolte a sovrani vassalli e a provincie romane: Cipro, una
parte della costa della Fenicia, i ricchi palmeti di Gerico, certe
parti della Cilicia e di Creta molto fruttuose, perchè folte
di boschi995. Cleopatra, secondo il costume seguito dai re di Egitto
quando contraevano un nuovo maritaggio, aveva inaugurato una nuova
era, incominciando dal primo settembre del 37 – il principio
dell’anno egiziano – a numerare da capo gli anni del regno suo996.
Cleopatra aveva vinto; ma solo a metà, perchè Antonio,
se aveva acconsentito a confondere la sua persona con la
autorità proconsolare compiendo questo matrimonio dinastico,
non voleva rinunciare al vantaggio di poter presentarsi dappertutto
come un proconsole romano, che era titolo ben più formidabile
che non re di Egitto; onde si ingolfò con la consueta
temerità in uno strano ginepraio di contradizioni. Sulle
monete di Egitto fece coniare la effigie sua e quella di Cleopatra,
ma chiamò sè stesso triumviro e autocrator
(αὐτοκράτωρ) – la traduzione greca di imperator – non re di
Egitto997; non ripudiò Ottavia, la matrona che egli aveva
sposato con i riti sacri della monogamia latina e che a Roma gli
educava amorosamente i figlioli, dandosi a vivere in poligamia come
un re dell’Oriente998 e arrogandosi quella facoltà di aver
più mogli legittime, che secondo una diceria Cesare voleva
farsi concedere negli ultimi anni. A questo bizzarro matrimonio
insomma ognuno dei due sposi si era indotto per fini propri e con
l’intento di servirsi dell’altro per questi, ricambiandogli il meno
che potesse: Cleopatra, per ingrandire fuori il regno di Egitto e
per conculcare più facilmente le interne opposizioni al suo
governo; Antonio, per avere i mezzi alla spedizione partica.
Incominciava tra Antonio e Cleopatra una alleanza per aiutarsi e nel
tempo stesso una lotta, per decidere chi sarebbe lo strumento e la
vittima dell’altro. Cleopatra, che certamente desiderava sin dal
principio il divorzio di Ottavia e che era avversa alla spedizione
di Persia, si acconciò in principio a subire e Ottavia e la
spedizione; ma subito dopo le nozze sollecitò il dono di
nuove signorie, prese a intrigare contro Erode, che voleva far
deporre per aver la Giudea999, ambiva l’Arabia, Tiro e Sidone1000.
Ma Antonio, che allora era ancora saldo contro i fascini della
astuta egiziana, non le concedè nulla, anzi l’ammonì a
non intromettersi troppo nelle faccende degli stati vassalli1001.
Affrettò invece i preparativi suoi.
Ottaviano fu molto malcontento di questo bizzarro matrimonio
politico, perchè dopo avere aggiunto il ricco Egitto alle sue
provincie Antonio sovrasterebbe senza confronto a lui e a tutti, se
anche la spedizione di Persia gli riuscisse prosperamente. Ma per il
momento che altro poteva egli fare, se non affrettarsi alla guerra
di Sicilia e terminarla prima che Antonio tornasse dalla Persia?
L’Italia invece non si commosse molto, sebbene questo matrimonio
fosse un nuovo passo sulla via della separazione tra le provincie di
Oriente e quelle di Occidente, che doveva rovinare la metropoli! La
nazione pareva accasciarsi definitivamente nel suo malumore
sconfortato; l’accesso di furore che aveva sollevato Roma nel 39 non
si ripeterebbe; l’egoismo e il dissolvimento politico facevano
troppi progressi; e se dagli avanzi degli antichi partiti, dal
principio delle nuove classi fermentavano opinioni e sentimenti
comuni, questi si volatilizzavano ormai in un malcontento cronico ma
poco preciso contro tutte le cose presenti, in una vaga e non
motivata simpatia per il lontano Sesto, in un generico rimpianto del
buon tempo antico, che dai costumi incominciava ad allargarsi alle
istituzioni politiche. Quanto ai mali e ai rimedi presenti, nessuno
aveva idee sicure e precise; nè era più possibile alle
classi agiate che avevano perduto il potere una intesa e una azione
comuni contro la cricca sia pur screditata che lo aveva conquistato.
Ottaviano potrebbe prendersi la rivincita della capitolazione del
39. Predominava in tutta l’Italia una inerzia agitata, nella quale
continuava ad ondeggiare, come una povera alga in balìa di un
mare in tempesta, il giovane Orazio. Virgilio, solido figlio di
contadini duro alle fatiche della penna, come i suoi antenati alle
fatiche della vanga, continuava pertinace il poema senza risparmiare
travagli, leggendo, consultando, trascrivendo dai libri georgici,
facendo e disfacendo un infinito numero di versi per finirne pochi
perfetti.1002 Orazio invece, sempre incerto, sempre pauroso, sempre
in soggezione di Mecenate, continuava a scrivere piccole cose e
disparate, senza una idea preconcetta, sopra quisquilie personali e
soggetti poco pericolosi, non su grandi argomenti. Si arrischiava
allora a tentare alcuni metri di Archiloco – i giambi – non ancora
usati a Roma: ma solo per verseggiare qualche ricordo della guerra
civile1003, per insolentire qualche nemico letterario di
Virgilio1004, per raccontare un intriguccio galante vecchio di tre
anni1005, per trattare anche qualcuno di quei motivi turpemente
comici, che tanto piacevano alla triviale oscenità degli
antichi, come l’amore delle vecchie. Su questo scrisse anzi due
poesie1006, che sono tra le più oscene della letteratura
universale e che inclino a credere non raccontino avventure vere del
poeta, ma turpitudini non infrequenti, che il poeta, indulgendo al
cinismo dei giovani, assume in propria persona. La forma, concisa e
espressiva, è bellissima, e mostra già quell’arte
sovrana di maneggiare lingua e stile, dicendo e dipingendo ogni cosa
in poche parole, in cui Orazio supererà tutti i poeti
antichi: ma la materia è tenue. E tenue era anche nelle nuove
satire; nelle quali verseggiava un altro ricordo – comico questo –
della guerra civile1007, o raccontava una sconcia avventura capitata
alla celebre fattucchiera, Canidia1008, o si compiaceva di
descrivere quanto era invidiato e sollecitato per la sua amicizia
con Mecenate1009. Infine riscriveva un’altra difesa delle sue
satire, contro coloro che lo accusavano di offendere le persone,
facendo sapere che Virgilio, Plozio, Vario, Mecenate, Pollione,
Messala lo approvavano1010. Neanche avesse assalito, invece di gente
umile e oscura, tutta la cricca di Ottaviano, un altro avrebbe
sentito il bisogno di tanto giustificarsi innanzi al pubblico! Solo
una volta fece una piccola incursione nella politica, inveendo con i
giambi archilochei contro un liberto diventato tribuno militare
nell’esercito di Ottaviano1011 e dimenticando che aveva scritto poco
prima una satira per gloriarsi di essere figlio di un liberto. Egli
insomma non si orientava in tanta incertezza degli spiriti, in
quella universale dubbiezza, che lasciava coloro i quali avevano il
potere, liberi di osare ogni ardimento, ma a loro rischio e
pericolo. Le cose più temerarie potevano essere tentate: ma
guai a colui che non riuscisse!
XVIII.
LA GRANDE SPEDIZIONE PARTICA.
[36 a. C.] E dei triumviri, Antonio era quello che osava le cose
maggiori. Nel marzo del 36 egli muoveva con l’esercito e con
Cleopatra verso Zeugma1012, dove si separò dalla regina;
simulò di forzare il passaggio del fiume1013, lasciò
forse qualche legione a minacciare l’Eufrate, e con dieci legioni e
10 000 cavalieri1014 incominciò verso la metà di
aprile le prime tappe di un immenso cammino a semicerchio, lungo
quasi mille e novecento chilometri1015, al cui termine sarebbe
giunto poco prima di cinque mesi. Valicato il Tauro, egli giungeva
ai primi di maggio a Melitene e si avviava verso Satala, dove era ai
primi di giugno; di là ripigliava la lunga via verso
l’altipiano di Erzerum, dove in giugno trovava tutto il suo grande
esercito già radunato: le sei legioni di Caninio ritornate
dal Caucaso, il nuovo re del Ponto Polemone, il re d’Armenia
Artabaze (o Artavasde) venutogli incontro con una parte del suo
contingente – 6000 cavalieri e 7000 fanti –; i minori contingenti
orientali, il meraviglioso parco d’assedio, l’infinita turba dei
valletti e delle bestie1016. La rimanente parte del contingente
armeno era già collocata ai confini del regno, sulla via
della Media1017, Le sedici legioni dovevano numerare circa
50 000 uomini; ai quali si aggiungeva la cavalleria di Antonio,
i contingenti alleati presenti che sommavano a circa
30 0001018, quello del re di Armenia che numerava 16 000
cavalli: in tutto quasi 100 000 uomini, e cioè uno dei
più grandi eserciti del tempo antico. Antonio, prima di
muoverlo, lo passò tutto in rivista. Lo accompagnavano molti
insigni romani, tra gli altri Domizio Enobarbo e Quinto Dellio, un
antico ufficiale di Cassio, passato poi ai servizi di Antonio.
In quel tempo stesso il governo triumvirale riconquistava in Italia,
nella lotta contro l’opinione pubblica, una parte del terreno
perduto nel 39: incominciava la guerra di Ottaviano contro Sesto
Pompeo, senza che l’Italia si movesse in alcun modo, come si temeva,
a impedirla. Al l° luglio del 36 Lepido muoveva dall’Africa con
settanta navi da guerra, con dodici legioni e 5000 cavalieri numidi
caricati su mille navi da trasporto; Tauro da Taranto con 102 navi;
Ottaviano con Agrippa da Pozzuoli, dopo avere fatta dalla nave
ammiraglia una solenne libazione ai Venti, a Nettuno, alla Calma,
scongiurandoli di assisterlo nella paterna vendetta1019.
Senonchè Nettuno, ostinatamente pompeiano, sconcertò
subito lo studiato accordo dei tre assalti convergenti a un tempo
sull’isola, scatenando un gran vento e muovendo le onde. Tauro, dopo
aver cercato invano di contrastare al vento avverso, se ne
tornò a Taranto; Ottaviano, che volle continuare la rotta,
perdè al capo Palinuro ventisei navi pesanti e molte leggere
ed ebbe guasta la flotta in modo da dovere rifugiarsi in una
rada1020; Lepido, dopo aver perduta qualche nave, giunse alla fine
del terzo giorno in vista di Lilibeo (Marsala), ma al 4 luglio,
quando si accinse a sbarcare, si trovò da solo alle prese con
il nemico. Tuttavia Sesto, possedendo solo otto legioni e circa 200
navi, non poteva parare a un tempo tutti e tre gli assalti; e
perciò aveva sì cercato di intralciare la via a tutti
e tre gli assalitori, presidiando Pantellaria e le Egadi, munendo
molti luoghi della costa, mandando una legione a Lilibeo; ma aveva
raccolte le forze maggiori nel triangolo formato da Milae (Milazzo),
il capo e Messina, dove era tutta la armata1021; contro Ottaviano
insomma, il nemico più provvisto di armi, più
implacabile e inesorabile. Se egli fosse riuscito a vincere
Ottaviano, non gli sarebbe stato difficile venire a composizione con
Lepido. Perciò Lepido soverchiò facilmente la legione
di stanza a Lilibeo, sbarcando; e se Sesto Pompeo, appena seppe del
caso toccato a Ottaviano, prontamente mandò un certo Papia
con una parte della armata contro Lepido, questa giunse a sbarco
compiuto1022.
Ma Sesto non osò assalire Ottaviano; e solo una piccola
scaramuccia avvenne per mare, allorchè Papia affrontò
le ultime quattro legioni di Lepido che erano partite più
tardi, e ne seppellì nel mare due intere, insieme con molte
navi da trasporto, cariche di materiale e di vettovaglie1023. Pochi
giorni dopo il teatrale principio di questa grande guerra, tutti
erano fermi di nuovo come in piena pace: Sesto vigilava in Messina,
Statilio Tauro indugiava in Taranto, Ottaviano e Agrippa riparavano
la flotta presso Palinuro; e anche Lepido aspettava ozioso a
Lilibeo, che i suoi alleati fossero in grado di riprendere il
mare1024. Pare anzi che Sesto, forse illuso da esagerati racconti
sui danni di Ottaviano, sperasse che il suo nemico rimanderebbe la
guerra all’anno prossimo1025. Ma il tenace Ottaviano era troppo
fermo nel proposito di finire in quell’anno l’interminabile duello.
L’Italia, inerte sino ad allora, si era mossa non appena aveva
saputo che la grande spedizione preparata con tanta cura falliva
ancora prima di cominciare; a Roma si erano fatte grandi
dimostrazioni contro Ottaviano ed erano scoppiati dei disordini!1026
Se non tornava a Roma vittorioso, egli era spacciato. Aiutato da
Agrippa, provvide a riparare alla meglio la flotta sconquassata;
mandò a Taranto le ciurme superstiti delle navi affondate per
imbarcarle sui 28 legni di Antonio restati vuoti nel porto;
spedì Mecenate a Roma a mantenere l’ordine1027; mandò
a dire a Lepido di avviarsi sulla via che da Lilibeo conduceva a
Messina lungo la costa meridionale e orientale dell’isola, per
Agrigento, Catania, Taormina, dove si fermerebbe ad aspettare uno
sbarco di milizie caricate sulla flotta di Taranto1028. Egli invece
tenterebbe di impadronirsi delle isole Lipari, di Milazzo e di
Tindaride, per sbarcare un altro esercito sulla costa settentrionale
e chiudere Pompeo nell’estrema punta dell’isola. Tra questi
preparativi sopravviene con poche navi Menodoro per passare di nuovo
alle parti di Ottaviano, tanto lo avevano irritato le non
irragionevoli diffidenze di Sesto, che gli aveva preferito l’oscuro
Papia per la spedizione contro Lepido! E Ottaviano lo accolse
amicamente, restringendosi solo a non dargli più alcuno
incarico di fiducia1029: unico castigo per i tre tradimenti di
questo liberto, le cui infedeltà ripetute e impunite
dimostrano meglio di cento ragionamenti quanto la autorità si
fosse infiacchita in mezzo alle guerre civili. Anche con i propri
liberti, nella casa loro, dovevano in certi casi transigere i
signori del mondo! Così verso la fine di luglio Ottaviano si
muoveva di nuovo con le navi riparate alla meglio, Tauro andava ad
ancorare nel golfo di Squillace, le milizie di terra si addensavano
nell’estrema punta d’Italia1030. Ma l’accordo dei movimenti fu anche
questa volta turbato, non più dal vento e dal mare, ma dalla
superbia di Lepido. Amareggiato dalla trascuranza dei due colleghi,
pieno di rancore contro Ottaviano che, più giovane di lui, lo
trattava con tanta superbia, per ripicco, per mostrare che faceva di
testa sua ed era pari al collega, egli si avviava verso Messina, ma
non per la via indicata da Ottaviano, bensì per l’altra, che
segue la costa settentrionale dell’isola per Trapani, Partinico,
Palermo, Cefalù. La congiunzione a Taormina era perciò
cosa ormai impossibile. Ottaviano allora, quando fu giunto a Vibo
(Bivona), concertò con Agrippa un nuovo disegno: Agrippa si
impadronirebbe delle isole Lipari e cercherebbe, minacciando tra
Milazzo e Tindaride, di dar travaglio a tutta la flotta nemica,
cosicchè Sesto non potesse da Messina vigilare la costa sino
a Taormina; Ottaviano approfitterebbe del mare sgombro per sbarcare
a Taormina le legioni che stavano sulla riva del golfo di Squillace
e che non sappiamo precisamente quante fossero: cinque o sei
forse1031.
Il disegno era bello; ma tra il dire e il fare questa volta c’era di
mezzo proprio il mare, alla lettera e non in metafora. Ottaviano
andò a Squillace e prese il comando della armata, mentre
Agrippa s’impadroniva facilmente delle isole Lipari1032 e faceva
esplorare da leggeri navicelli il mare. Sesto era a Messina con il
grosso della flotta; Democare a Milazzo con 30 navi1033. Per
distrarre l’attenzione di Sesto dall’altro fianco, Agrippa
incominciò a tormentare il nemico con ricognizioni, finte e
scaramuccie1034, sinchè uscì un mattino con mezza
flotta dall’isola Vulcano, per sorprendere nelle acque di Milazzo
Democare solo. Ma con sua grande sorpresa trovò che Democare
aveva già ricevuto un primo rinforzo di 40 navi e un secondo
di 70, al comando di Sesto in persona1035. Sesto commetteva dunque
quasi spontaneamente l’errore a cui egli voleva costringerlo,
abbandonando Messina! Accortosene, Agrippa spedì un navicello
ad Ottaviano per avvertirlo che Messina era sgombra; fece venire il
resto della sua armata e, risoluto a occupare più che potesse
l’ammiraglio nemico per dar tempo a Ottaviano di fare lo sbarco,
assalì risolutamente il nemico1036. Le navi di Agrippa,
costruite apposta per la guerra, erano quasi tutte grosse, pesanti,
munite di grandi torri e provviste di potenti macchine di getto;
corazzate, diremmo adesso; mentre Sesto Pompeo comandava, per usare
una parola moderna, una flotta di incrociatori, di navi mercantili
quasi tutte convertite ad uso di guerra, più leggere,
più corte, meno protette e meno armate, ma più snelle
e veloci. Le navi di Pompeo si gettarono attraverso i lunghissimi
remi dei legni nemici, tentarono di romperne i timoni, di urtarle a
prora o a poppa; mentre le navi di Agrippa cercavano o di afferrare
con gli arpioni questi mordenti levrieri del mare o di scacciarli
con una pioggia di grevi sassi1037. La sveltezza lottò a
lungo contro la forza; sinchè alla sera Sesto Pompeo, che
aveva perduto una trentina delle sue piccole navi, si ritirò
verso i porti di Milazzo in buon ordine, con animo franco, come al
cadere di una giornata in cui si è pugnato con esito incerto
dalle due parti1038. Poco prima Ottaviano che, ricevuto l’avviso di
Agrippa, aveva caricato in fretta sulle navi tre legioni, 1000 fanti
leggeri, 500 cavalli, 2000 veterani congedati, a cui si erano
promesse terre in Sicilia1039, giungeva verso sera a Leucopetra
(Capo dell’armi)1040: ma qui fu assalito da molti dubbi che lo
fermarono, come gli succedeva così spesso quando doveva
eseguire nei particolari qualche impresa bene immaginata nel suo
disegno generale. Doveva continuare la rotta per Taormina e sbarcare
di notte, o aspettare il dì dopo? Mentre Ottaviano dubitava a
Leucopetra, Agrippa, il quale aveva perdute cinque navi grandi, non
si sentiva rassicurato dallo strano contegno del nemico, che troppo
opportunamente per lui aveva abbandonato Messina e troppo facilmente
gli lasciava la palma della vittoria; onde dubitando di uno
stratagemma, voleva inseguire Sesto, non lasciargli respiro, anche
dovesse passare la notte all’ancora in mare aperto o continuare
nella notte la battaglia del giorno, temendo il nemico si proponesse
di recarsi a disturbare Ottaviano1041. Disgraziatamente gli amici
gli descrissero così vivamente la stanchezza dei soldati, il
pericolo di passare la notte in mare aperto, che Agrippa
cedè, vinto dal vero che si conteneva in queste osservazioni,
e tornò all’isola Vulcano1042, proponendosi di ricomparire il
dì dopo a minacciare Milazzo e Tindaride, per distrarre
Pompeo, forse argomentando che Ottaviano già fosse sbarcato.
Ottaviano invece aveva alla fine rimandato lo sbarco al dì
seguente1043.
Agrippa aveva avuto ragione di dubitare. La comparsa di Sesto Pompeo
nelle acque di Milazzo, la battaglia, la ritirata, erano tutte finte
per trarre in un tranello Ottaviano: indurlo cioè a sbarcare
a Taormina, facendogli credere che Sesto non vigilava e
sorprenderlo, appena sbarcato, per terra e per mare, con il
proposito di catturare e di uccidere proprio Ottaviano, che era il
più accanito nemico. Lui sparito, egli potrebbe, aiutato dal
favore dell’Italia, accordarsi con Antonio e con gli altri. Difatti
Sesto aveva già mandato notevoli forze di fanti e di cavalli
su Taormina; e alla sera si ritirava, fingendosi vinto, per
appostare Ottaviano e piombar di sorpresa il dì dopo a
Taormina, in mezzo alle operazioni di sbarco1044. Distolto Agrippa
dall’inseguirlo, l’insidia riuscì pienamente. Nella notte
probabilmente Ottaviano ricevè notizia della battaglia; e
credendo a una vittoria di Agrippa, all’alba veleggiò sicuro
verso Taormina e sul mezzogiorno incominciò a sbarcare i
soldati in un golfo vicino alla città, mentre Agrippa tentava
un assalto sopra Tindaride.... Ma nel pomeriggio, quando i soldati
di Ottaviano incominciavano a fare il campo, comparve a un tratto al
largo la fiotta di Sesto e da più parti sbucò sul
campo la sua cavalleria e la sua fanteria1045. A quell’improvvisa
apparizione il debole e nervoso Ottaviano perdè la testa e
non seppe più provvedere a nulla. Il suo esercito sarebbe
forse stato sterminato, se il nemico assaliva con audacia maggiore o
se il giorno fosse stato più lungo. Per fortuna la tenebra
calò a interrompere la mischia; ma non a portare consiglio
allo sgomento del generale. Fuori di sè per lo spavento,
credendosi circondato, dubitando della sorte di Agrippa,
comprendendo che Sesto mirava non tanto a distruggere l’esercito
quanto a pigliare proprio lui, Ottaviano cedette alla folle
concitazione della sua natura imbelle e pavida, non pensò che
a salvare sè, abbandonando l’esercito. Questo e non altro
significava il disperato proposito di dare battaglia alla flotta
nemica subito il giorno dopo, per liberarsi dalla parte del mare.
Nella notte, mentre i soldati lavoravano a finire l’accampamento,
Ottaviano cedè il comando dell’esercito a un ufficiale di
nome Cornificio, ordinò alla flotta di prepararsi a salpare;
e prima dell’alba, ammainata sulla sua nave l’insegna del comando,
precipitò a dar di cozzo come un cavallo adombrato, nella
flotta pompeiana1046. Questa, meglio comandata, sebbene molto meno
numerosa, resistè salda all’urto; cosicchè la sua si
sfasciò. Una sessantina di navi furono prese e catturate1047;
le altre fuggirono nel disordine, ciascuna da sè. Tuttavia
Ottaviano, sia pure per miracolo, scampò alla sera con una
sola nave in un piccolo golfo solitario, dove fu raccolto e soccorso
da Messala, che vigilava le coste1048; e sebbene il suo piano fosse
di nuovo fallito, riuscì a far fallire a sua volta quello di
Sesto. Soltanto la morte di Ottaviano poteva salvare il figlio di
Pompeo, che in guerra regolare doveva soccombere, non ostante tutti
gli errori degli avversari, avendo forze troppo minori. Infatti
Agrippa aveva potuto nei due giorni in cui Pompeo combatteva a
Taormina prendere non Milazzo, ma Tindaride1049, e incominciava
allora sotto gli occhi dei pompeiani il trasporto delle milizie in
Sicilia, mentre Lepido, sia pure a passi di tartaruga, si avvicinava
con il suo esercito a Tindaride; e Cornificio. per non morir di fame
nell’accampamento presso Taormina, osava porsi in cammino verso
Milazzo, che credeva in potere di Agrippa. Ottaviano si riebbe
presto dalla sua paura, capì che, se si poteva salvare
Cornificio, lo spavento sarebbe stato maggiore del pericolo; e
mandò ordine ad Agrippa di spedire da Tindaride soccorsi
incontro a Cornificio. Per quattro giorni Cornificio camminò,
combattendo senza tregua, soffrendo penuria di viveri, ignorando che
si cercasse soccorrerlo, perseguitato accanitamente dal nemico, con
le milizie di giorno in giorno più stanche, sinchè al
quarto giorno, addirittura esausto, era in procinto di
soccombere.... Quando il nemico a un tratto prese a fuggire. Erano
giunte le tre legioni spedite da Agrippa al comando di un certo
Laronio, un’altra delle tante oscure persone salite in quel
disordine agli alti comandi1050.
Così, non ostante le disgrazie e gli errori, se era fallito
il disegno di assalire Pompeo sui due fianchi, Ottaviano era
riuscito a sbarcare in Sicilia un esercito. Da quel momento la forza
del numero riprese i suoi diritti. Ogni giorno nuovi soldati
toccavano terra a Tindaride e l’esercito ingrossava. Sesto Pompeo,
raccolte insieme tutte le sue forze di terra, cercò in ogni
modo di intralciare gli sbarchi e le operazioni del nemico1051; ma
si accorse presto, specialmente dopochè Lepido ebbe raggiunto
con il suo esercito le milizie sbarcate a Tindaride, che egli
potrebbe a questo modo ritardare di qualche giorno, non mutare il
destino. Egli poteva impedire questo continuo arrivo di legionari in
Sicilia soltanto con una nuova battaglia sul mare, se gli riuscisse
di distruggere o catturare la flotta nemica; onde appigliandosi alla
fine a questo disperato consiglio – il solo che gli restasse –
uscì fuori negli ultimi giorni di agosto1052 con circa 180
navi a dare battaglia nelle acque di Nauloco a un nemico più
numeroso, imbaldanzito dalla sicurezza della vittoria. Naturalmente
fu vinto, perdè 160 delle sue navi, che furono o distrutte o
catturate, e fuggì con sole 17 a Messina; donde, imbarcati i
tesori e la figlia, fece vela verso l’Oriente. Democare perì
nella battaglia; Apollofane si arrese1053. A stento, con immane
fatica, con poca gloria: ma alla fine Sesto Pompeo era vinto.
Mentre si combatteva in Sicilia, Antonio, passate in rivista le sue
forze sul’altipiano di Erzerum, aveva avviato l’esercito verso il
confine della Media per due strade1054; i contingenti armeni e
pontici, il parco d’assedio, due legioni al comando di Oppio
Staziano, per la via più comoda e più lunga della
valle dell’Arasse; il resto dell’esercito al suo comando per una
scorciatoia più aspra. Così verso la fine di luglio
egli giungeva al confine della Media. Gli eventi seguiti dimostrano
che Antonio avrebbe dovuto aspettare qui l’altra parte
dell’esercito, per invadere con forze unite il paese nemico: ma
ingannato, a quanto pare, da false notizie che facevano credere
lontani il re dei Medi e il re dei Parti, facile una sorpresa nella
capitale1055, si avviò senza indugio per assediarla, seguito
a qualche giorno di distanza dal parco di assedio e dal resto
dell’esercito. Giunse infatti alla metropoli verso la fine di
agosto, senza incontrare il nemico e senza molestia. Ma nella Media
collinosa, se era difficile ai Parti di adoperare la cavalleria, era
facile nascondere un grosso esercito agli esploratori di un nemico,
che non poteva fare grande assegnamento sulle informazioni degli
abitanti: e difatti, mentre Antonio sicuramente incominciava le
opere d’assedio, il re Fraate gli sgusciava vicino a sua insaputa
con grandi orde di cavalleria, e gli passava alle spalle andando ad
assalire il secondo esercito che scortava più lentamente a
Gazaca il parco di assedio. Che cosa avvenne allora è poco
chiaro. Il re di Armenia faceva doppio giuoco, come tante volte in
queste guerre i re di Oriente? L’esercito raccogliticcio del nuovo
re del Ponto valeva poco? Certo è che il parco d’assedio fu
preso e distrutto, le milizie di Oppio annientate, Polemone
catturato; e il re di Armenia, sia che si spaventasse davvero, sia
che fingesse di spaventarsi, tornò in patria, conducendo seco
la maggior parte della cavalleria e la più esercitata alla
tattica nemica1056. Antonio tuttavia non si scoraggì e si
dispose a proseguire l’assedio anche senza le macchine, sperando di
provocare a battaglia le mobili schiere dei cavalieri parti, che,
ritornati sulla metropoli, comparivano ora e scomparivano di
continuo, con la solita tattica, sempre presenti, sempre molesti,
sempre inafferrabili. La legione era un arnese di guerra vigoroso
come una clava; ma una clava massiccia avrebbe servito a sterminare
quegli sciami volanti di vespe? Antonio tentò in vari modi di
tirare il nemico a battaglia; una volta si allontanò perfino
con tutta la cavalleria, dieci legioni e tre coorti pretorie a un
giorno di cammino dalla città, a raccogliere immense
quantità di vettovaglie, a saccheggiare e a bruciare;
simulò anche con finte espressive la paura e la timidezza,
per provocarli. E i Parti alla fine ingannati assalirono, sperando
in una nuova battaglia di Carre! Ma non appena si accorsero che le
legioni balzavano pronte all’attacco, si diedero alla fuga e invano
la fanteria li rincorse per circa dieci e la cavalleria per circa
trenta chilometri; non si potò ucciderne o catturarne che un
piccolo numero1057. Bisognò tornare all’assedio, sperando
che, ridotta la città agli estremi per fame, i Parti si
precipiterebbero sulle schiere romane. Ma frattanto era passato il
settembre1058. Gli assediati facevano frequenti sortite1059,
mostrando di essere animosi e ben provvisti; la mancanza del grande
parco d’assedio rendeva più deboli le operazioni;
incominciavano le pioggie e le nebbie dell’ottobre; esauste le
regioni vicine, i distaccamenti dovevano andar più lontano a
fare vettovaglia1060; l’esercito si stancava, diventava
impressionabile, facile al panico. Non si smuoveva però
Antonio e manteneva con straordinario vigore la disciplina1061,
risoluto a mettere a estrema prova la pazienza dei nemici, che
agili, forti, valorosi, non erano però avvezzi alla
disciplina romana e non volevano restare in campo d’inverno. Se
l’esercito romano si stancava, anche Fraate era inquieto, vedendo le
giornate scorciarsi e Antonio non dar segno di voler levare
l’assedio1062. Alla fine, non intendendo rischiare una battaglia, si
risolvè a imitare la perfida astuzia già adoperata dal
Surena e prese a far spargere tra le stanche legioni la voce che il
re dei Parti era disposto a conchiudere una pace onorevole, se
Antonio non si ostinasse a prolungare la guerra. I distaccamenti che
uscivano a foraggiare non incontrarono più torme di feroci
nemici pronti a slanciarsi su loro, ma drappelli di cavalieri che si
avvicinavano in atteggiamento amichevole, i cui ufficiali cercavano
di attaccare discorso e dicevano che i Parti volevano la pace; la
notizia di queste proferte si diffuse tra i soldati, ingrossando per
via, e fu loro cagione di grande gioia e di vive speranze; sorprese
anche Antonio nelle prime incertezze. I triumviri erano i servitori
dei propri soldati e non potevano opporsi ai loro desideri oltre una
certa misura. A ogni modo egli verificò prima con
un’inchiesta se queste dicerie erano vere; e poi mandò a
proporre a Fraate di fare la pace se gli restituiva le insegne e i
prigionieri di Crasso; quanto cioè bastava per dare ad
intendere ai Romani che egli aveva riportata una straordinaria
vittoria. Ma Fraate rispose che, se Antonio voleva ritirarsi subito,
egli era pronto a lasciarlo partire senza molestie; di più
non poteva concedere1063. Che fare? La città resisteva
caparbiamente; i soldati erano stanchi e volevano ritirarsi; la
carestia vicina. Antonio era orgoglioso e ostinato, ma non
pazzamente, così da non capire che egli doveva cedere alla
volontà delle legioni. Negli ultimi giorni di ottobre,
accettate le proposte di Fraate, Antonio ordinò la ritirata.
Senonchè Fraate intendeva ripetere in ogni sua parte la
perfidia del Surena incalzando spietatamente il nemico nella
ritirata; e forse sarebbe riuscito, se Antonio prima di partire non
fosse venuto in sospetto, non è ben chiaro in qual modo,
dell’intenzione del nemico. Egli risolvè allora di mutare via
e di non ritornare più per la via seguita venendo, ma per
un’altra più collinosa e ineguale, e perciò più
aspra ai cavalli, che alcuni credono di riconoscere in quella
moderna che per Tabriz giunge all’Arasse ad Julfa. Tuttavia Fraate
non rinunciò all’inseguimento; e si slanciò a
tribolare il nemico in una avventurosa ritirata di ventiquattro
giorni, nella quale Antonio fece la sua ultima e più
splendida prova di generale. Infaticabile, sempre pronto ad
accorrere là dove la lunghissima colonna dell’esercito fosse
minacciata, a confortare i soldati con le parole e l’esempio,
partecipe dei pericoli e delle privazioni, egli confortò,
animò, tenne insieme l’esercito, alimentandone la fiducia con
uno sforzo eroico; cosicchè per merito suo questa grande
moltitudine, pur consumando tutte le sue provvigioni, pur cibandosi
a certi momenti di radici e dissetandosi con acqua putrida, pur
perdendo molti uomini e abbandonando per via quasi tutta la preda
fatta, camminò unita combattendo senza tregua; e non solo
resistè agli assalti e alle insidiose proferte di pace con
cui il nemico tentava di trarla dalla via arida e faticosa della
montagna nella pianura abbondante d’acqua; ma osò di tempo in
tempo, pur ritirandosi, slanciarsi ad assalire il nemico; e
portò in salvo oltre l’Arasse le aquile delle legioni.
Ventimila tra legionari e ausiliari e 4000 cavalieri erano periti
nella spedizione. Antonio non era riuscito a conquistar la Media, ma
Fraate non aveva potuto ripetere la strage di Crasso1064.
Antonio, scolaro di Cesare anche in questo, scrisse al Senato un
racconto della sua impresa a modo suo, in cui naturalmente narrava
che tutto era andato a meraviglia1065. Tuttavia, se Antonio
falsificava allora il racconto, il giudizio degli antichi e dei
moderni su questa spedizione è stato troppo severo1066.
Antonio commise un solo vero errore: lasciar sorprendere da Fraate
il suo parco di assedio. Nel resto, grandioso ed eccellente
(nè fa meraviglia, era di Cesare) deve essere giudicato il
piano della guerra, audace il proposito di eseguirlo, accurata e
minuziosa la preparazione, vigoroso e spedito il maneggio di un
così numeroso esercito: tanto è vero che fece con
prestezza e senza inconvenienti una delle marcie più
gigantesche e si pose in salvo dopo una ritirata faticosa, aspra,
difficile di quasi 500 chilometri. È vero che Antonio non
riuscì a prendere la capitale della Media o a costringere i
Parti a battaglia; ma ci sarebbe riuscito un altro? Cesare per
esempio? Se a questa domanda non si può rispondere
sicuramente di no, è anche lecito esitare a rispondere di
sì; quando si considera, ad esempio, che Cesare
rischiò di perdere la guerra contro Vercingetorice
perchè non riuscì nemmeno egli, neanche con gli
assedi, a costringere il nemico a battaglia; e fu salvo solo
perchè alla fine il nemico fu obbligato, non da lui ma dalle
condizioni in cui si trovava, ad affrontarlo. A ogni modo non
è dubbio che se Antonio commise errori, la cagione principale
della mala riuscita deve cercarsi nelle difficoltà
dell’impresa che era impossibile prevedere. La milizia partica era
molto più forte che tutti gli altri eserciti orientali,
distrutti da Lucullo e da Pompeo; e la distanza aggiungeva a questa
una nuova difesa; onde era impresa più ardua conquistare la
Persia che non il Ponto o la Siria. Roma non poteva compiere questa
impresa nel disordine politico e sociale in cui allora versava.
Antonio avrebbe forse messo insieme un esercito sufficiente, se
avesse avuta maggiore lunghezza di tempo e se non avesse temuto, per
motivi politici, di scontentare i soldati; se avesse riposato per
quell’anno le milizie in Armenia, conquistata la Media alla
primavera prossima, rimandata all’anno dopo la invasione della
Persia. Ma egli precipitò l’invasione prima e poi la
ritirata, non perchè, come favoleggiano gli antichi, avesse
fretta di tornare da Cleopatra, ma perchè, malsicuro signore
di un potere conquistato rivoluzionariamente, sprovvisto di
strumenti di dominazione saldi, costretto a badare nel tempo stesso
alle cose d’Italia e d’Oriente, ridotto a procurarsi una qualche
abbondanza di denaro con il periglioso espediente del matrimonio
egiziano, era incalzato a far presto, come già Cesare in
Gallia, e a badare troppo ai desideri dei soldati. La precipua
cagione dell’insuccesso non deve essere cercata già nella sua
inettitudine strategica, ma nelle difficili condizioni politiche
dell’impero. Il programma di Cesare non poteva più essere
attuato.
XIX.
ANTONIO E CLEOPATRA
Congedati i contingenti asiatici, lasciata la maggior parte dei
soldati in Armenia, Antonio tornò velocemente in Siria; e
seppe per via i gravi avvenimenti successi in Italia dopo la fuga di
Sesto Pompeo. Ottaviano aveva ottenuto un inaspettato compenso
all’acquisto dell’Egitto fatto da Antonio: aveva cioè
spodestato Lepido, prendendosi non solo la Sicilia, ma le provincie
africane e le legioni del terzo triumviro. La catastrofe era stata
repentina e singolare. Dopo la fuga di Pompeo, le sue otto legioni,
assediate in Messina da Agrippa e da Lepido, avevano avviate
pratiche con ambedue per la resa; ma mentre Agrippa aveva domandato
tempo a consultare Ottaviano che era a Nauloco, Lepido aveva
accettata la resa per conto suo il 3 settembre e indotte le otto
legioni a passare sotto le proprie bandiere, permettendo loro di
saccheggiare insieme con i soldati suoi Messina1067. Allora alla
testa di ventidue legioni aveva creduto di poter rifarsi alla fine
di tutte le umiliazioni subite, imponendo a Ottaviano di lasciargli
la Sicilia e di restituirgli le provincie possedute al principio del
triumvirato. Così per un momento tutti avevano temuto che una
nuova guerra civile nascerebbe in Sicilia. Ottaviano però con
abili intrighi era riuscito a ribellare le milizie di Lepido, che
stimavano poco il loro capo e speravano ricompense migliori
dall’altro; e Lepido, abbandonato dai soldati, aveva dovuto
accontentarsi di non essere ucciso e di tornare a vita privata in
Roma, a godersi le grandi ricchezze ammucchiate nel triumvirato1068.
Era Pontefice Massimo e Ottaviano non osò fargli violenza.
Così alla fine dopo molte vicende era ristabilita la
proporzione tra la grandezza di Lepido e la sua capacità,
tanto e sì stranamente perturbata negli ultimi anni dai
capricci della rivoluzione. Anche la sua armata si era arresa;
Statilio Tauro aveva poi senza fatica sottomessa la Sicilia1069, a
cui fu imposta una contribuzione di 1600 talenti1070; e Ottaviano
era entrato in possesso dell’ultimo avanzo delle confische: i
latifondi dell’interna Sicilia, appartenenti ai cavalieri proscritti
nel 43.
È vero che subito dopo era scoppiata una grossa rivolta nelle
legioni, esasperate dagli arretrati del soldo che si ammucchiavano,
dalle cupidigie che si acuivano, quanto più i questori erano
costretti a contentare i soldati con magri acconti e con buone
parole. Ma Ottaviano era riuscito a rabbonirli, promettendo, insieme
con molte altre cose, di congedare una parte dell’esercito1071. Non
senza ragione poteva dunque oramai il figlio di Cesare considerare
sè stesso come l’uomo che in tutti i tempi aveva goduto
maggiore fortuna dopo Alesandro; perchè nessun altro era
stato a ventisette anni capo di quarantatrè legioni, di
immense torme di cavalleria e di una flotta di seicento navi1072;
signore di un impero che comprendeva gran parte dell’Africa
settentrionale, la Spagna, la Gallia, l’Illiria e l’Italia; arbitro
di un potere quasi assoluto in una repubblica ormai rovinata. Non
è difficile capire, considerando ciò, come appena
giunte le notizie di Sicilia, tutto il mondo politico di Roma,
così numeroso e così scadente, si affrettasse a
mostrare ammirazione, devozione, entusiasmo per il figlio di Cesare;
non apparirà strano che il Senato gli decretasse i più
grandi onori. Anzi alla fine, non sapendo più in che altra
maniera adularlo, approvò che potesse ornarsi da sè di
tutti gli onori che gli piacesse avere1073: accorgimento ingegnoso
per esaudire sicuramente tutti i desideri del vincitore; ma smaccata
adulazione e prosternazione, che offendeva quella parte della
nazione italica, ahimè purtroppo impotente, la quale non
viveva ogni giorno di mendicità e di rapina politica.
Ottaviano era stato sino ad allora un tiranno ambizioso, sospettoso,
perfido e falso, implacabile con i nemici; e sebbene da qualche
tempo, dopo il matrimonio con Livia e sinchè durava la paura
di Pompeo, fosse un poco migliorato, non era da aspettarsi che la
crudeltà e la violenza di lui si esalterebbero ora
nuovamente, per la cresciuta sicurezza e potenza? Affrettarsi a
corteggiare il prepotente e crudel vincitore era il consiglio
più savio, per la torma di ambiziosi e di bisognosi che aveva
invasa la repubblica.
E invece l’Italia, che aspettava qualche nuova violenza simile a
quelle subite dopo Filippi e dopo Perugia, udì allora e vide
il violento figlio di Cesare parlare e operare quasi come il vecchio
e sempre rammaricato Pompeo! Prima di entrare in Roma, Ottaviano
radunò il popolo fuori del pomerio e rese conto con un
discorso dei suoi atti come si faceva ai bei tempi della
repubblica1074;entrò poi in città il 13 di
novembre1075 e subito proclamò una amnistia fiscale – come si
direbbe adesso – che condonava gli arretrati delle imposte e degli
affitti pubblici: gli arretrati cioè che non si potevano
più riscuotere, ma il cui condono, se non faceva grande
beneficio, almeno rincuorava l’Italia alla speranza che l’êra
delle crudeli estorsioni fosse finita1076. Abolì anche alcune
imposte minori1077; diffuse nel popolo un racconto delle sue imprese
in cui dimostrava di aver compiuta la conquista della Sicilia,
soltanto per chiudere definitivamente l’êra delle guerre
civili1078; nominò augure fuori numero l’antico proscritto
Valerio Messala Corvino1079; emanò una legge contro l’abuso
invalso tra i ricchi di vestire la porpora dei senatori1080.
Astuzia? Finzione? Cabale politiche? In parte sì, certamente;
ma in parte principio di un vero ravvedimento interiore e di un
grande mutamento politico che, se allora sorprese i più come
un prodigio quasi incredibile, si preparava da un pezzo in lui e
nelle cose; ed è il fatto più importante della vita di
questo uomo, uno anzi dei fenomeni più singolari di tutta la
storia del mondo. Bisogna quindi comprenderne bene i complicati
motivi interiori ed esterni. Ottaviano non era uno di quegli uomini
di azione, dotati dalla natura di passioni veementi come Alessandro,
Cesare, Napoleone, nei quali con il successo crescono l’ambizione,
l’avidità di godere, la baldanza, la spensierata fiducia di
vincere sempre, la inettitudine a frenare gli impeti della passione
e della fantasia, le violenze dell’orgoglio, gli appetiti della
sensualità. Cagionevole di salute, debole di membra e
maldestro negli esercizii corporei, dotato di poco coraggio e
impressionabile, egli rassomigliava a Cicerone più che a
Cesare, era piuttosto un uomo di studio e di scrittoio, una di
quelle persone dotate per natura di fiacche passioni e di
complessione poco forte, che riescono bene, nella misura delle loro
forze, in tutti i lavori sedentari, pacati, di pertinacia; che
difficilmente trasmodano e se spesso sono poco eroici nella cattiva
fortuna, sanno conservarsi equanimi nella buona, diventando, ad ogni
ingrandimento di ricchezza o di potere, più solleciti di
conservare con la prudenza l’acquistato, anzichè temerari a
rischiarlo per avere di più.
Certamente è più difficile trovare tra costoro uomini
di grande intelligenza, perchè il genio è quasi sempre
agitato e veemente; ma Ottaviano, che univa a questa fiacchezza di
passioni un ingegno potente, avrebbe potuto diventare, in tempi e in
condizioni simili a quelli del grande oratore di Arpino, un insigne
letterato e un forte dilettante di filosofia: implicato invece dalla
fortuna, ancora giovinetto, nelle gare civili, aveva dovuto
affrontare pericoli, esercitar poteri, godere di fortune
straordinarie, smisuratamente sproporzionate al suo coraggio, alla
sua forza, al suo merito: onde l’ambizione, la vendetta, la
sensualità, la cupidigia si erano esaltate; ed egli era stato
sino ad allora ambizioso, violento, sensuale, cupido, vendicativo,
invidioso dei meriti altrui. Ma erano questi i traviamenti
passeggeri di un uomo di carattere debole, a volta a volta
sbigottito da spaventi terribili e inebriato da fortune
inverosimili. Per indole egli inclinava invece a quelle idee
ragionevolmente conservatrici sui funesti effetti del lusso, della
cupidigia, delle ambizioni politiche, della corruzione, che dai
libri di Cicerone si spandevano nelle alte classi dell’Italia. Era
sobrio, non amava il lusso e lo sperpero, sapeva amministrare il suo
con una parsimonia, nella quale sarei tentato di riconoscere il
nipote dell’usuraio di Velletri: onde più che ad accumulare
nuove ricchezze, incominciava invece a sospirare il giorno in cui,
sedate le guerre, potrebbe pagare tutti i debiti del triumvirato. Il
pensiero di questi tormentava troppo le notti del degenere figlio di
quel Cesare, che aveva così placidamente dormito sopra i
tanti suoi debiti! Aveva ormai ricevuto tutte le magistrature e
tutti gli onori, sino il trionfo e le statue dorate sul Foro;
avrebbe potuto avere, con un solo cenno del capo, il pontificato
massimo, che il popolo voleva togliere a Lepido per darlo a lui1081:
ma questo giovane freddo, poco vanitoso, che se non amava obbedire
non provava nemmeno grande diletto a comandare, avrebbe desiderato,
anzichè nuovi onori, la fine di quei continui spaventi che lo
tenevano in orgasmo da dieci anni: rivolte in Italia, sedizioni
militari, tradimenti di amici, guerre civili e straniere. Egli aveva
lette le opere di Cicerone, di cui era ammiratore fervente1082, per
quanto avesse contribuito a farlo ammazzare; e non è dubbio
che la lettura del De Officiis affrettasse, schiarendo la percezione
dei motivi, questo ravvedimento interiore, come l’aiutavano i
consigli del suo maestro Didimo Areo, che era membro di quella setta
neo-pitagorica, i cui seguaci predicavano nello sconvolto mondo
romano una morale di moderazione e di astinenza.
Anche nella prosperità piena e vera un uomo dotato di questa
indole, invece di dimenticare, inebriandosi, gli immensi pericoli
che aveva felicemente scampati con il favore della fortuna, si
sarebbe allora fatto cauto a non cimentare di nuovo i capricci della
volubile dea. Ma tanto più facile ci riesce di spiegare il
mutamento avvenuto in quell’uomo, quando noi consideriamo che egli
non si trovava nella prosperità piena e vera, e che,
nonostante la sua stentata vittoria di Sicilia, doveva sentire
malsicuro, piccolo, vacillante, insidiato il suo potere immenso in
apparenza. Vincendo Sesto, egli aveva fugato un pericoloso rivale,
ma aveva anche accresciuto, se pur era possibile, l’odio della
pubblica opinione contro il triumvirato; odio profondo che nasceva
da un fatto, la cui evidenza ormai si imponeva a tutti, anche a
Ottaviano. La prova era fatta ormai definitivamente; non era
più possibile illudersi: il triumvirato non era riuscito a
nulla. Una sola cosa grande era tentata allora da Antonio: la
conquista della Persia; ma nonostante gli ampollosi bollettini del
generale già si incominciava a sussurrare che le cose
volgevano male. Quanto a Ottaviano, egli aveva consumato dopo
Filippi nientemeno che sei anni, sei lunghi anni, per conquistare la
Sicilia, e vincere il suo nemico di famiglia. Nessuno dei due aveva
fatta altra cosa, che potesse essere ammirata dal pubblico; non una
riforma, non una grande opera pubblica, non una conquista. Ma che
riforme e conquiste! Il triumvirato non era nemmeno riuscito a
continuare i più semplici servizi pubblici di Roma,
così mediocremente come la cadente repubblica. Mentre si
erano moltiplicate tutte le altre magistrature, mentre si era empito
il Senato nientemeno che di 1200 senatori, non si trovava più
alcuno che volesse in quell’anno esercitare l’edilità: la
carica da cui dipendeva il benessere materiale del popolo di Roma,
ma nella quale bisognava spendere molto e non si poteva guadagnare
nulla1083. Tanto l’egoismo civico era cresciuto e così poche
erano ormai le grandi fortune! L’Italia era stata messa a ferro e a
fuoco e separata dall’Oriente, l’impero sconvolto da capo a fondo,
lo Stato ridotto al fallimento, la costituzione secolare della
repubblica rovesciata; tutte le faccende pubbliche erano state
insomma arruffate in uno spaventoso e cruento disordine dalla
rivoluzione, per dare un po’ di terra a 5 o 6000 veterani, per fare
posto in Senato e nella repubblica a qualche migliaio di oscuri
plebei. La sproporzione tra l’incostituzionale grandezza dei poteri
triumvirali, conquistata per il breve pazzo furore dei veterani e
degli eserciti nel 43, e la meschinità degli effetti era
troppo grande: tragica e risibile nel tempo stesso. Certamente se la
spedizione di Antonio riuscisse prosperamente, se la Persia fosse
conquistata, questa sproporzione apparirebbe a molti più
tollerabile: ma della gloria che ridonderebbe al governo triumvirale
profitterebbe anche egli o soltanto Antonio? Quali erano i propositi
del collega? Ottaviano doveva domandarsi se al matrimonio di Antonio
e di Cleopatra non seguirebbe il divorzio di Ottavia, e se questo
non fosse il segno che Antonio si volgeva contro di lui, per
vendicare la offesa di Taranto. Tante volte già erano stati
per azzuffarsi! Nè gli eventi della Sicilia potevano
rasserenarlo, se già era maldisposto. Ottaviano faceva fare
dei sacrifici agli Dei per il prospero successo della spedizione,
volendo salvare le apparenze e nascondere al pubblico la scandalosa
latente discordia1084; ma doveva domandarsi se a lui nuocerebbe
più l’insuccesso della spedizione o la riuscita. A ogni modo
Ottaviano capiva che, sinchè la Persia non fosse conquistata,
nè egli nè il suo collega potrebbero illudersi di
essere ammirati dall’Italia. Potevano almeno sperare di essere
temuti come capi di tante legioni? Ma il fervore cesariano dei
soldati, che nel 43 aveva aiutato tanto la rivoluzione a vincere, si
era raffreddato da un pezzo in un sordo malcontento per le speranze
deluse, per il soldo stentato, per le gravi fatiche. Nemmeno i
denari promessi alle nuove reclute della guerra di Modena erano
stati ancora interamente pagati!1085 Cosicchè neanche i
soldati, per i quali pure i triumviri avevano tanto malmenata
l’Italia e l’impero, erano contenti; e l’equilibrio psicologico
delle legioni vacillava di continuo per una instabilità
pericolosissima, come dimostrava la recente rivolta; e mantenere i
soldati era impresa non meno difficile che pensionarli. Anche allora
Ottaviano aveva acconsentito volentieri a congedare otto legioni,
tra le quali anche quelle reclutate nel 43 da lui e da Decimo, che
avevano solo nove anni di servizio, perchè egli non poteva
mantenere 43 legioni e nemmeno 35; ma doveva dar loro la pensione
delle terre nè osava fare una nuova confisca, come nel 42;
onde dovrebbe affaticarsi non poco per trovar queste terre! E le
notizie della spedizione partica suonavano di corriere in corriere
più infauste sul finire dell’anno; e peggiori ancora – almeno
per Ottaviano – quelle di Sesto, che fuggendo nell’autunno del 36
dalla Sicilia, si era fermato al promontorio Lacinio e vi aveva
saccheggiato il tempio di Giunone; provvedutosi così di
denaro si era recato a Lesbo e stabilito a Mitilene, nella
città dichiarata libera da suo padre, che lo aveva accolto
con rispetto e dove era stato lasciato in pace dai governatori di
Antonio. Gli animi di tutti erano così sospesi ed incerti,
che nemmeno i personaggi più autorevoli nel seguito del suo
cognato e collega osavano molestare senza ordini quel suo mortale
nemico, che il nome faceva così popolare e rispettato1086.
Inoltre, dopo la violenta deposizione di Lepido, il triumvirato non
aveva più nemmeno un sicuro fondamento giuridico, essendo
stato mutato arbitrariamente in un duumvirato: difetto innocuo, per
un potere ammirato e popolare; difetto pericoloso, per un governo
discreditato e discorde.
Ottaviano aveva quindi capito esser necessario, dopo la vittoria,
fare qualche cosa che, piacendo all’Italia, rifacesse popolare il
nome quasi odioso di Cesare; e perciò aveva cercato di dare
qualche soddisfazione al nuovo sentimento conservatore delle classi
agiate. Nè si restrinse a quello che aveva fatto subito dopo
il ritorno; ma procedè a una mezza restaurazione
repubblicana, restituendo ai singoli magistrati molte facoltà
prima usurpate dai triumviri1087; cercò anche di favorire gli
interessi della classe possidente sino allora così malmenati,
provvedendo innanzi tutto senza confische ai 20 000 soldati
congedati. Trattandosi non di soldati di Cesare invecchiati in
Gallia, ma di soldati che avevano militato minor tempo e che o
avevano appena o non avevano conosciuto il dittatore, non era
necessario dare loro duecento iugeri a testa, ma bastavano campi
più piccoli e non posti nella parte più bella
d’Italia. Perciò assegnò loro terre a poco a poco
fuori d’Italia, nella Gallia Narbonese, a Beterrae (Beziers)1088, in
altre provincie1089; ad alcuni anche in Italia, ma terre comprate,
tra le quali il vasto demanio municipale di Capua, con i cui redditi
la città provvedeva alle spese pubbliche. Egli persuase i
Capuani a barattare il loro demanio con un ricco territorio
posseduto dalla repubblica a Creta presso Gnosso, di cui la
città diventerebbe proprietaria e i cui redditi, contati a
1 200 000 sesterzi, provvederebbero alle spese
pubbliche1090. Fece inoltre restituire ai loro padroni le numerose
navi mercantili requisite da lui o da Sesto durante la guerra1091; e
siccome non ostante questi congedi l’esercito era pur sempre troppo
numeroso e dispendioso, deliberò di sbarazzarsi di altre otto
legioni, quelle di Sesto Pompeo, in un modo molto perfido ma poco
costoso e graditissimo alla borghesia italiana. Abbiamo visto che
queste legioni erano in gran parte composte di schiavi dei latifondi
siciliani e di schiavi fuggiti dall’Italia, a cui per il trattato di
Miseno era stata data la libertà. Oblivioso di questa
promessa, Ottaviano sciolse le legioni, fece cercare gli antichi
schiavi fuggiti e ordinò di restituirli, forse con quelli che
furono trovati nelle flotte – circa 30 000 in tutto – ai
padroni1092. Così risparmiava il soldo e la pensione di
questi soldati, faceva un bel presente alla classe agiata d’Italia,
restituiva ai latifondi siciliani confiscati i loro schiavi,
aumentandone il valore. Si propose poi di reprimere il brigantaggio
in tutta Italia e la delinquenza a Roma; di istituire una specie di
gendarmeria, le cohortes vigilum, probabilmente imitate
dall’Egitto1093; di innalzare sul Palatino un gran tempio ad Apollo
con un grande porticato1094, per dare lavoro al negletto
proletariato dell’Urbe. Veramente i vecchi templi cadevano in
rovina, e i nuovi a cui si era posto mano, il tempio di Cesare e
quello di Marte Vendicatore sul Campidoglio, procedevano a rilento,
per la scarsezza del denaro e il disordine dei tempi: ma
tant’è, per occupare nuove braccia e accontentare il
pubblico, si incomincierebbe a edificarne un altro! Inoltre, per
dimostrare che le legioni non servivano solo a sostenere la tirannia
dei triumviri, deliberava di intraprendere un seguito di spedizioni
contro i barbari delle Alpi e della Illiria, sempre indipendenti a
metà e sempre molesti alle popolazioni del piano e della
costa. Infine – e fu la cagione della maggiore sorpresa – fece un
discorso in cui si dichiarò pronto a deporre il potere
triumvirale e restaurare la repubblica appena si fosse inteso con
Antonio; non dubitava egli che Antonio consentirebbe, perchè,
finite le guerre civili, era finita la ragione del triumvirato1095.
Migliorava insomma la sua politica e migliorava sè stesso,
comprimendo in sè la superbia, l’ira, la vendetta, la gelosia
e tutti gli altri suoi vizi degli anni cattivi; ricompensava questa
volta Agrippa splendidamente per le sue vittorie, facendogli
decretare onori inusitati e dandogli grandi beni in Sicilia, tra
quelli appartenenti ai cavalieri proscritti nel 431096; si proponeva
di scandagliare cautamente le intenzioni di Antonio, senza
provocarlo, con un ingegnoso espediente: mandargli, sul principio
del 35, 2000 uomini scelti e molto materiale da guerra, a compenso
delle sue navi distrutte nelle acque di Sicilia, che non poteva
rendergli; e mandarglieli per mezzo di Ottavia.... Non si poteva
immaginare un mezzo migliore e più abile, per far capire ad
Antonio che egli desiderava non fossero rotti i vincoli di parentela
e durasse la pace. Tanta moderazione ebbe subito un premio:
l’inviolabilità e gli altri privilegi onorifici dei tribuni,
che gli furono conferiti poco dopo il suo ritorno a Roma1097.
[36-35 a. C.] L’accorgimento era felice e propizia l’occasione.
Antonio, non avendo ottenuto nella spedizione persiana quello
splendido successo che avrebbe giustificato ogni atto suo,
incominciava a sentire in molteplici difficoltà gli effetti
dei temerari espedienti di cui si era servito. L’insuccesso,
ingrandito dalla voce pubblica, aveva per un momento tanto
sconquassato nel mutevole Oriente il suo sistema di nuovi regni e
principati, che nell’inverno dal 36 al 35 Sesto Pompeo veniva nella
speranza nientemeno che di rovesciare Antonio, facendo assegnamento
sulla fama del suo nome in Oriente. Incominciò infatti di
soppiatto pratiche con i re di Armenia, del Ponto e dei Parti; si
die’ a raccogliere navi e a reclutare soldati, sinchè
accozzato un certo numero di legni e di uomini, sbarcò sul
continente; andò a Lampsaco e – tanto poteva ancora il nome
di Pompeo – trovò soldati perfino tra i coloni che Cesare
aveva dedotti. Tentò allora di prendere Cizico e
incominciò una vera guerra in Bitinia. In Oriente insomma
Antonio si trovava alle prese con una piccola guerra civile, che lo
costringeva a mandar contro Sesto il governatore della Siria, Tizio,
con flotta e legioni1098. In Italia invece, dove già
l’insuccesso della spedizione faceva apparire più incresciosa
la straordinaria grandezza del suo potere, egli ritrovava Ottaviano
messo in sospetto dal suo matrimonio con Cleopatra e accresciuto di
forze. Per tutte queste ragioni Antonio era disposto a far buon viso
alle profferte amiche di Ottaviano, tollerando anche, almeno per il
momento, il rivoluzionario sconvolgimento del triumvirato, che il
collega aveva fatto a suo vantaggio. Anzi pensò di mandargli
L. Bibulo, il figlio del famoso console collega di Cesare, con
ambascerie d’amicizia a proporgli di aiutarlo nella spedizione
illirica1099. Ma nel tempo stesso, irritato e scontento, pensava di
cancellare questa incertezza dagli spiriti di tutti, ritentando la
prova; e infatti deliberava subito, mentre attendeva a far reprimere
la rivolta di Sesto, di aumentare il numero delle legioni e mandava
agenti in Italia e in Asia a reclutare soldati1100. Senonchè
la seconda prova era più difficile dopo il primo insuccesso.
Era possibile far ripetere alle legioni o ai principi orientali lo
sforzo immane del lungo cammino? Possibile spremere all’Egitto il
denaro necessario alla seconda impresa, dopo la prima che aveva
costato tanto e non aveva reso nulla? L’Egitto, sebbene retto da una
monarchia assoluta, non era uno strumento inanimato, che potesse
adoperarsi da chi l’impugnava per qualunque lavoro. La avversione
delle alte classi contro Cleopatra e il suo governo doveva essere
accresciuta dagli eventi degli ultimi anni; perchè quel
matrimonio con un proconsole romano era uno espediente troppo
insolito e bizzarro anche per la politica dinastica dell’Oriente;
perchè il vecchio e industrioso Egitto badava soltanto alle
ricchezze, alle arti, alle scienze e ai piaceri; voleva che i denari
fossero spesi a pagare artisti e scienziati, a costruire templi e
palazzi, a scavare canali, a dar feste, ad aumentare il numero dei
funzionari, non a conquistare un impero così lontano e di cui
nessuno si interessava. Perciò Cleopatra voleva, ora che la
spedizione di Persia, bene o male, era stata fatta, distogliere
Antonio da nuovi tentativi e adoperarlo per i fini suoi: indurlo a
chiarire l’equivoca doppiezza della sua condizione, a non essere
più un re d’Egitto nascosto sotto il paludamento di
proconsole romano, a divorziare da Ottavia, a dichiararsi
apertamente suo marito e sovrano, a ingrandire l’impero dell’Egitto.
Essa giustificherebbe così davanti al suo popolo la propria
politica e il matrimonio con Antonio. Il decrepito Egitto, se non
amava le guerre, amava le apparenze non dispendiose e non laboriose
della potenza e della grandezza; e quindi avrebbe ammirato un
ingrandimento dell’impero ottenuto senza altre fatiche, che quelle
muliebri della sua bella regina1101.
[35 a. C.] Nella primavera del 35, la dolce e buona Ottavia, che si
sarebbe così volentieri appartata nella sua casa ad allevare
i bambini, si accingeva a partire per l’Oriente, come una
generalessa, alla testa di 2000 uomini1102; e in Illiria
incominciava la guerra. Una flotta, a quanto pare al comando di
Agrippa, risalendo l’Adriatico dal sud, snidava i pirati e le genti
barbare dalle piccole isole della costa dalmatica e pannonica,
catturava le navi dei Liburni e gli uomini validi, per venderli come
schiavi1103 – erano molto stimati come pastori –; mentre dall’Italia
del nord un esercito marciava su Trieste e di qui in parte si
avviava a nord contro i barbari Carni e Taurischi, in parte piegava
a sud-est verso Senia (Segna). A Senia probabilmente l’esercito e la
armata si incontrarono1104; e da Senia Ottaviano, a capo di forze
considerevoli, si internò nella moderna Croazia, in un vasto
territorio popolato da varie popolazioni chiamate con il nome comune
di Japidi, sottomettendo prima i Mentini (Modrush) (?), poi gli
Avendeati, poi gli Arupini (Otochacz)1105, poi gli altri Japidi
delle regioni più interne, a cui prese due città
chiamate Terpone e Metuno, che non si sa dove fossero1106. Infine
entrò in quella parte ultima della moderna Croazia, che gli
antichi chiamavano Pannonia; e mettendo tutto a ferro e a fuoco
giunse sino al più grosso villaggio, Siscia (Siszeg) posto
sulla confluenza della Culpa e della Sava; lo assediò e lo
prese dopo trenta giorni, perdendo in questo assedio quel bravo uomo
di Menodoro, che lo aveva accompagnato e che restò ucciso in
uno scontro1107. L’impresa dunque riusciva bene e fruttava una
considerevole preda di schiavi, di denari, di navi. Nel crocchio
degli amici di Ottaviano questi successi accesero tante speranze
che, mentre egli nell’autunno lasciava l’Illirico per svernare in
Gallia, si discutevano proposte molto più grandiose:
conquistare il vasto regno indipendente dei Daci, posto oltre il
Danubio nella moderna Ungheria; conquistare la Britannia, che Cesare
aveva appena toccata; eseguire insomma tutti i disegni, che a torto
o a ragione si attribuivano al dittatore1108. Invece Antonio, nei
mesi in cui Ottaviano combatteva nella selvaggia Illiria, aveva
vinto Sesto e lo aveva fatto uccidere, in modo però da far
apparire la sua uccisione come l’effetto di un fatale errore nella
trasmissione degli ordini. Così sperava di non incorrere
nell’odio che l’Italia avrebbe conservato all’ultimo sterminatore
della stirpe di Pompeo1109. Si era poi prese e aveva fatte passare
sotto i suoi vessilli le tre legioni di lui, riparando così
largamente i danni ricevuti nella campagna di Persia. Ma passato
questo pericolo, subito nacquero difficoltà maggiori e
più intricate, perchè il desiderio di restare amico di
Ottaviano e quello di ritentare la prova in Persia contrastavano
inconciliabilmente tra loro. La notizia che Ottavia veniva in
Oriente con i doni del fratello aveva inquietato vivissimamente
Cleopatra; e ancora più la inquietò una ambasciata del
re del Ponto, il quale nella primavera del 35 trasmise ad
Alessandria una proposta ben singolare del re di Media: nientemeno
che la proposta di una alleanza contro il re dei Parti!1110 I due
alleati, venuti in discordia per la preda fatta ai Romani,
affilavano ora le armi l’uno contro l’altro. Antonio era stato
lietissimo di questa offerta, che in maniera impensata pareva
accorciargli e spianargli di tanto la via della Persia; e si era di
nuovo scaldato straordinariamente all’impresa partica, disponendo di
andare subito in Armenia a conchiudere la alleanza e a preparare la
guerra1111. Le speranze di Cleopatra erano dunque in estremo
pericolo, se Antonio si impegnava di nuovo nella guerra contro la
Persia, se Ottavia poteva rivederlo e parlare con lui. Non potendo
tuttavia subito trattenerlo, la regina domandò di
accompagnarlo e Antonio acconsentì: grave errore,
perchè in quel viaggio essa seppe usare tutti gli
accorgimenti con cui una donna astuta può ammollire la
risoluzione di un uomo più violento che forte. Smesso il suo
solito portamento di altera, sicura, lieta compagna di feste e di
dominio, si mostrò afflitta, si studiò di dimagrire e
di impallidire, si atteggiò a malata; non disse lamento, ma
procurò copertamente che Antonio fosse di continuo avvisato
da questo o da quello dei cortigiani, che la regina era così
afflitta ed inferma, perchè temeva di essere abbandonata; che
era risoluta ad uccidersi, se egli davvero la abbandonasse1112. Un
certo Alessi di Laoclicea sembra averla molto aiutata in questo
lungo maneggio1113. Antonio, nella cui natura violenta era insita
una certa bonarietà e molta debolezza, che era infiacchito
dal lungo abuso dei piaceri, che incominciava ad abituarsi alle
delizie e al lusso della corte egiziana e a subire l’influsso della
astuta e intelligente regina, come già aveva subito quello di
Fulvia, cedette alla fine, sebbene Ottaviano gli avesse date
frattanto nuove arre di amicizie, e avesse mostrato quanto aveva a
cuore la concordia tra il cognato ed Ottavia, facendo votare ad
ambedue grandi onori dopo la morte di Sesto1114. Mandò a dire
a Ottavia, ad Atene, di non venirgli incontro, perchè
intendeva tornare in Persia1115; ma alla guerra di Persia non
andò poi, e tornò invece ad Alessandria, rimandando
tutto all’anno seguente1116.
[35-34 a. C.] Cosicchè l’anno 34 avrebbe dovuto andar insigne
per grandi conquiste, di tante si parlava in Italia e in Oriente sul
finire del 35: la Persia, la Britannia, la Dacia. Ma nell’inverno
questi grandiosi propositi impicciolirono come turgide vesciche
bucate. Ottaviano pensava piuttosto esser tempo, dopo tanto
dispendio militare, di provvedere in qualche modo ai trascurati
servizi civili, soddisfacendo anche in questo il giusto malcontento
del pubblico; e difatti proprio allora poneva mente al modo di
terminare la scandalosa vacanza dell’edilità, nominando edile
Agrippa, appena fosse libero dalle cure della guerra illirica e
sebbene già fosse stato console. Dopo il dono delle terre
siciliane, Agrippa, che viveva con semplicità romana, ben
diversa dal lusso sfondolato di Mecenate, era ricchissimo, e poteva
fare assegnamento sulla non lontana eredità di Attico, ormai
decrepito; egli dunque così operoso e versatile era in grado
di far da solo e con il suo denaro le veci di tutti gli edili
mancati negli ultimi anni, provvedendo ai grandi bisogni della
città e del popolo, il quale avrebbe ammirato questo
consolare acconciatosi a occupare una magistratura di grado
inferiore, pur di spendere una parte del suo patrimonio in mezzo al
popolo.... Si aggiunsero nell’inverno dal 35 al 34 vaghe dicerie,
secondo le quali i Pannoni sarebbero insorti di nuovo. Ottaviano
deliberò quindi di confermare nell’anno prossimo la signoria
romana nella Pannonia, se la rivolta era scoppiata; e di domare poi
definitivamente la Dalmazia, sempre a metà indipendente, se
restava tempo. In quello stesso inverno Cleopatra si sforzava con
astuzia indefessa di far abbandonare interamente la spedizione
persiana, sino allora solo rinviata, e di convertire del tutto
Antonio a quel suo strano imperialismo donnesco. Essa cercava di
persuaderlo non essere possibile imporre all’Egitto le spese di
un’impresa così lunga ed ingente come la conquista della
Persia, senza correre il rischio di suscitare torbidi e rivoluzioni;
esser necessario arrivare alla meta per una via più lunga ma
più sicura: conquistasse l’anno prossimo l’Armenia,
più vicina e più facile, il cui re aveva meritato
questa sorte per il tradimento del 36, i cui tesori ingenti
sarebbero compenso adeguato alle perdite della prima spedizione
imputabili al suo re e mezzo efficace a tutte le grandi imprese
future; ripudiasse Ottavia e, se non si risolveva a divenire re di
Egitto per soggezione dei Romani, prendesse un partito di mezzo.
Ricostituisse intorno all’Egitto l’antico impero dei Faraoni,
spartendolo tra i figli loro, costituendo per la propria discendenza
una grande monarchia ellenizzante, simile a quelle fondate da
Alessandro. Inebriato dalla nuova grandezza di imperio, il popolo
egiziano contribuirebbe volentieri i suoi tesori alla conquista
della Persia1117. Consigli arditi, ardentemente inculcati da una
donna ambiziosissima e ingegnosissima! Ma il triumviro esitava. E
allora Cleopatra ad adoperare tutti i mezzi di persuasione, di cui
disponeva come regina e come donna: inebriarlo con feste di
meraviglioso splendore; variargli senza fine i sollazzi; metterlo a
capo della società degli inimitabili, una specie di jeunesse
dorée della corte, che affettava di sola conoscere e
praticare le supreme raffinatezze della sensualità
orientale1118; studiarsi di vincere l’opposizione degli amici romani
che Antonio aveva condotto con sè ad Alessandria. Era questa
una difficoltà nuova, che si aggrovigliava a mano a mano che
le intenzioni di Cleopatra si schiarivano. Tutti i romani insigni
che attorniavano Antonio, da Domizio Enobarbo a L. Bibulo e a T.
Munazio Planco, avevano la roba, la famiglia, gli amici, il cuore in
Italia; ambivano le magistrature latine che erano conferite e si
esercitavano in Italia: onde se si acconciavano a dimorare in
Oriente quanto bastava per fare fortuna, non ci volevano mettere
radice, sdegnavano di vivere sempre in una corte di liberti e di
eunuchi, non desideravano che Antonio ripudiasse Ottavia e venisse
in discordia con il cognato, temendo di dover essere essi a
rimetterci tra i due litiganti. Per il solo fatto che Ottaviano
viveva in Italia, già parecchi amici di Antonio, come
Statilio Tauro, erano entrati a far parte del seguito di lui,
preferendo restare vicino a Roma. Cleopatra si studiava di fissarne
quanti più potesse in Egitto con l’interesse; ad alcuni dava
denari, ad altri cariche nella corte – uno di costoro, un certo
Ovinio, uno dei tanti senatori dozzinali creati in quegli anni,
accettò di esser capo delle tessiture della regina1119 –: ma
i più resistevano; onde essa si studiava di disgustarli in
tutti i modi, maltrattandoli, insultandoli, calunniandoli presso
Antonio, cercando di spaventarli anche con vaghe minaccie1120.
Infuriavano perciò le discordie e le sorde guerre tra gli
amici di Antonio, divisi in due partiti, fautori e avversari della
regina. Ma non ostante lo zelo di questi Antonio cedeva, cedeva,
cedeva; gli ultimi avanzi della sua forza di mente e di volere,
già dissipata in una vita di tante avventure, evaporavano
nell’ardore di quella ebbrezza continua di adulazioni, di feste, di
piaceri. Cleopatra potè in quell’inverno indurlo a tentare
prima, nell’anno 34, la conquista dell’Armenia.
[34 a. C. ] Perciò la primavera e l’estate dell’anno 34
furono consumate, così in Oriente come in Occidente, a fare
piccole guerre. Ottaviano mandò Messala Corvino a domare i
Salassi, abitanti in quella che oggi si chiama la valle d’Aosta, ed
egli ritornò nell’Illirico con un esercito per liberare Fufio
Gemino che veramente era assediato in Siscia dagli insorti pannoni:
ma ancora in via seppe che Fufio era libero, perchè i barbari
stanchi avevano abbandonato l’assedio; onde portò l’esercito
nella stretta lingua di terra compresa tra il mare e le alpi
Dinariche, a combattere le barbare e valorose popolazioni
dalmatiche1121. Forse anche spedì qualche suo generale nella
valle della Sava e da questa per le valli degli affluenti in quelle
regioni che ora son dette Bosnia e Serbia occidentale a far rapide
scorrerie e a ricevere dedizioni formali1122. Antonio nella
primavera era partito da Alessandria, aveva raggiunto il suo
esercito che non doveva essere di stanza molto lungi dall’Armenia,
aveva mandato al re d’Armenia Dellio a domandare in sposa la figlia
di lui per Alessandro, figlio suo e di Cleopatra. Egli voleva
nascondergli le sue vere intenzioni, per riuscire più
facilmente e sicuramente nell’impresa; onde, giunto a Nicopoli nella
piccola Armenia, invitò il re a venire da lui per consultarlo
sulla guerra di Persia. Il re d’Armenia, che era in sospetto, si
scusò con vari pretesti; ma il generale romano, avanzandosi
rapidamente con le legioni verso Artassata, ripetè l’invito.
L’Armeno dovè rassegnarsi ed andò nel campo di
Antonio, dove fu ricevuto con onore ma trattenuto in
cattività: dopodichè l’Armenia fu dichiarata conquista
romana e i ministri riceverono l’intimazione di consegnare i tesori
reali. Tentarono costoro di resistere; l’erede della corona
cercò di difendere il regno paterno; ne nacque una guerra,
che non durò molto ma finì con la vittoria del Romani
e nella quale le legioni saccheggiarono tutto il paese e tra gli
altri l’antico venerato ricchissimo santuario di Anaitide
nell’Acelisene, nel quale era una statua della dea di oro massiccio,
che fu fatta a pezzi e divisa tra i soldati1123. Tra questi eventi
Antonio aveva avviate pratiche con il re di Media per maritare
Alessandro alla figlia di lui Jotape, e conchiuso il fidanzamento,
se ne tornò nell’estate ad Alessandria, portando seco il re
di Armenia, la sua famiglia, i suoi ingenti tesori, e cioè
una grande quantità di oro e di argento1124. Ottaviano
continuava intanto a combattere le guerriglie dei Dalmati1125.
XX.
IL NUOVO IMPERO EGIZIANO.
[34 a. C.] La spedizione d’Armenia non era stata una vera conquista,
ma una fortunata rapina di metalli preziosi. Con quell’oro e con
quell’argento Antonio potrebbe ormai coniare immense somme, pagare
soldati, far guerre, corrompere senatori, anche senza ricorrere al
sussidio delle finanze dell’Egitto. Infatti tornava dall’Armenia
lieto e superbo della conquista1126, ma non perchè, meno
bisognoso degli aiuti egiziani, potesse rompere la pericolosa
alleanza con la regina, bensì pienamente risoluto a stabilire
in Oriente un nuovo regno e una nuova dinastia per i figli suoi e di
Cleopatra, e a riprender poi subito, con grandi mezzi, la conquista
della Persia, che farebbe di lui l’arbitro di tutto l’impero. Dopo
il prospero evento di Armenia, che in parte era l’effetto dei suoi
consigli, Cleopatra acquistò un grande imperio sopra di lui,
prevalse su gli altri consiglieri romani, potè persuaderlo a
fare quasi tutto quello che desiderava da tanto tempo. Antonio non
solo entrò in Alessandria celebrando il trionfo, come si
usava a Roma1127; ma subito dopo, nell’autunno del 34, con pochi
tratti di penna trasferì dall’Italia ai figli suoi e di
Cleopatra una considerevole parte dell’eredità di Alessandro
Magno. La grande cerimonia ebbe luogo nel Ginnasio, una specie di
immenso parco, pieno di edifici e di portici, che era posto vicino
al Museo e al mausoleo del conquistatore macedone. Antonio e
Cleopatra, i loro figli, e cioè i due gemelli di sei anni,
Cleopatra e Alessandro, e Tolomeo che ne aveva due1128, comparvero
con Cesarione, tra la immensa folla del popolo, salirono sopra un
palco d’argento innalzato nel mezzo e si sedettero sui seggi d’oro,
due grandi per Antonio e Cleopatra, più piccoli gli altri per
i fanciulli: e allora Antonio proclamò Cleopatra regina dei
re, dichiarò Cesarione figlio di Cesare e partecipe con la
madre del regno di Egitto, ingrandito agli antichi confini con
l’aggiunta di Cipro e della Celesiria1129, proclamò Tolomeo
ed Alessandro re dei re; diede al primo la Fenicia, la Siria, la
Cilicia; al secondo l’Armenia, la Media, che doveva toccargli per
eredità come futuro genero del re dei Medi, e la Persia,
quando sarebbe conquistata1130; a Cleopatra la Libia, compresa la
Cirenaica, probabilmente sino alla grande Sirti1131.
Così Cleopatra poteva illudersi di avere finalmente
risollevato il suo regno dalla prostrazione in cui da due secoli lo
conculcava la politica romana, ricostituendo l’antico impero di
Egitto, senza che la nazione avesse dovuto sostenere il più
piccolo travaglio! È facile immaginare di quanta ammirazione
diventasse idolo per un momento Cleopatra in quella nazione
così mobile; con che tripudio essa dovesse lusingarsi di aver
vinte per sempre tutte le opposizioni al suo governo, tutte le
avversioni alla sua persona; esaltarsi, tra le adulazioni e il
rinnovato fervore del culto tributato a lei come a Iside1132,
nell’orgoglio di essere diventata la sovrana più potente del
Mediterraneo. Soltanto due cose non aveva potuto ottenere: che
Antonio divorziasse da Ottavia e che smettesse di essere un uomo a
doppia faccia, come il Dio Giano; di atteggiarsi ad Alessandria come
re dell’Egitto, mentre a Roma scriveva e operava come un proconsole
romano. Antonio non solo non osava fare una così aperta
violenza alle tradizioni latine, al sentimento e agli interessi dei
suoi amici romani; ma con la consueta audacia continuava ad
adoperare Ottavia come strumento per maneggiare le faccende di
Italia, mandava a lei gli amici suoi che si recavano a Roma a
brigare cariche e favori, la faceva intercedere presso il fratello
tutte le volte che ne aveva bisogno. E la dolce Ottavia si prestava,
continuava ad allevare con amore anche i figli di Fulvia!1133
Intanto egli ad Alessandria faceva impartire ai suoi figli una
educazione da principi orientali, scegliendo a loro precettore un
dotto insigne, Nicola di Damasco1134, e intorno a loro, sebbene
ancora bambini, istituiva il cerimoniale dei re1135; esercitava con
Cleopatra l’autorità reale, giudicando le cause con lei,
accompagnandola nei viaggi; accettava la carica di gimnasiarca;
adottava abiti, foggie, pompe orientali e si faceva adorare come
Osiride e come il nuovo Dionysos1136; permetteva si cominciasse a
costruire in Alessandria un tempio in suo onore1137; e perfino dava
a Cleopatra una guardia di legionari1138. Ma nella donazione di
Alessandria, non aveva attribuito a sè alcun titolo o carica,
cosicchè nessuno avrebbe potuto definire chi e che cosa egli
fosse ad Alessandria. Forse il marito privato della regina? Inoltre,
sebbene tutti i suoi atti fossero stati ratificati in precedenza,
voleva far approvare dal Senato le donazioni di Alessandria con una
deliberazione speciale; per far credere a Roma che anche quelle
erano soltanto uno dei consueti rimutamenti di principati, una nuova
applicazione della tradizionale politica romana che senza tregua
aveva fatti e disfatti e rifatti i regni nelle provincie asiatiche.
Perciò scrisse una relazione sulla guerra di Armenia e sul
riordinamento di Alessandria, che sul finire dell’anno mandò
al suo fedele Enobarbo e al suo devoto Sossio, affinchè la
leggessero in Senato a tempo opportuno e la facessero approvare1139.
Infatti la notizia degli eventi di Alessandria non appena si
diffuse, prima della comunicazione ufficiale, per il veicolo della
voce pubblica, pare fosse accolta in Italia con molto stupore e
malumore1140. Per la prima volta la irritazione accumulata da lungo
tempo nell’Italia per la strana politica orientale di Antonio
osò mostrarsi un pochino. Il pubblico, rispettando Antonio
più che Ottaviano, aveva per lungo tempo tollerato con
rassegnazione ogni atto suo: ma troppo si facevano sentire gli
impacci finanziari allo stato e ai privati, la gravezza delle
imposte che i più imputavano anche in misura maggiore del
vero ai cessati contributi delle provincie orientali; troppo
cresceva la suscettibilità dell’orgoglio nazionale in quella
rinascenza delle antiche tradizioni.... Se Antonio avesse
conquistata la Persia, avrebbe potuto forse imporre ancora il
silenzio; ma era invece fallito a metà, non aveva compiuta
neppur lui la grande impresa; e l’Italia, a mano a mano che il
triumvirato si disgregava, riacquistava l’ardire, perdeva la lunga
pazienza, mormorava contro tutti, anche contro Antonio! Quelle
stesse notizie furono invece cagione di grande inquietudine nel
crocchio degli amici di Ottaviano. Tra tutte le cose compiute da
Antonio ad Alessandria, una doveva offendere e inquietare
maggiormente Ottaviano: il riconoscimento di Cesarione come figlio
legittimo di Cesare. Con questo atto Antonio, come già con
l’abbandono di Ottavia e dei suoi figli d’Italia, provava di non
curare più in nessun modo l’amicizia di Ottaviano, lo
dichiarava quasi un usurpatore del nome e dei beni del dittatore. Se
tante discordie erano nate tra Ottaviano e Antonio allorchè
Ottavia era la dolce amica e consigliera del triumviro, quanto
più facilmente e quanto più aspre nascerebbero ora che
Antonio pareva diventare schiavo della regina che doveva considerare
Ottaviano come un molesto rivale del suo Cesarione! Inoltre Antonio
aveva allora deliberato di crescere a trenta per la guerra di Persia
il numero delle legioni, e molti agenti suoi erano già
all’opera in Italia e in Asia: alla testa di trenta legioni, dei
contingenti asiatici, della flotta sua e dell’Egitto, disponendo del
tesoro del re di Armenia e di quello dei Tolomei, Antonio
disporrebbe di una potenza formidabile, specialmente se riuscisse a
conquistare la Persia. Se nel 36 poteva dubitarsi che il vantaggio
della conquista persiana soverchiasse per Ottaviano il danno, ora
era chiaro che Ottaviano doveva ingegnarsi di impedire in tutti i
modi l’impresa, perchè egli sarebbe alla mercè del
rivale, se questi, come era probabile con tante forze, riusciva.
C’era un mezzo di intralciargli l’impresa, che poteva riuscire di
qualche efficacia: opporsi alla domanda fatta da Antonio al Senato
di approvare le donazioni di Alessandria. Dal rifiuto del Senato
nascerebbero certo ad Antonio gravi difficoltà in Oriente,
che lo distoglierebbero dalla conquista. Ma non si provocherebbe
anche una guerra civile e qualche grande guaio?
Indotto non solo dal desiderio di assumere in persona al 1°
gennaio il suo secondo consolato, ma forse anche da queste nuove
difficoltà, Ottaviano era tornato sul cadere del 34 a Roma,
lasciando in Dalmazia a finire la guerra Statilio Tauro1141. Egli
voleva consultarsi con i suoi consiglieri più fidi. La
deliberazione era grave perchè potevano procedere da quella
grossi eventi: onde importerebbe assai di conoscere per documenti
diretti le considerazioni con cui Ottaviano e i suoi amici si
governarono in frangente sì difficile: ma mancando notizie,
siamo necessitati a fare congetture, desumendole dalla condizione
dei tempi. Quel movimento che sospingeva tanti spiriti, spaventati
dalle turbinose correnti in cui precipitava la rivoluzione, a
risalire alle sorgenti storiche della nazione, a ritornare ai
piccoli principi del grande impero, si era diffuso ancora
più, dopochè Ottaviano aveva mutato metro e stile di
governo alla fine del 36, mostrando di inclinare a quelle idee; e
diventava un largo movimento conservatore delle classi colte ed
agiate, dal quale a poco a poco erano vinti anche i vecchi
rivoluzionari. Molti avevano preso a professare quelle idee;
dappertutto si discuteva della vera e sana morale necessaria a
guarire i mali del tempo; la letteratura ne era piena; non solo
Virgilio scioglieva nel secondo libro delle Georgiche il grande inno
al contadino laborioso, religioso, parco, austero, modesto, che non
empie di guerre civili lo Stato per “bevere in coppe preziose o per
vestirsi di porpora”; ma anche Orazio prendeva finalmente coraggio
ad abbandonare i soggettini trattati sino allora per maggiori
argomenti. Si era alla fine risoluto a pubblicare le diverse satire
sino allora lette a pochi amici, ma aveva premessa alla raccolta una
satira scritta per ultima, che è la prima delle grandi satire
morali da lui composta; perchè non racconta fatterelli ed
inezie, ma studia una tormentosa malattia della civiltà, che
in verso o in prosa, con mistica solennità o con leggere
ironie, fu spietatamente analizzata da tanti grandi spiriti, da
Gesù Cristo sino allo Spencer e al Tolstoi: la ricchezza
mutatasi da mezzo di godimento in fine a sè stessa; la smania
del possedere infuriata sino al punto di togliere la facoltà
di gioirne1142. Nè ebbe a pentirsi di aver vinte le sue
ritrosie; perchè intorno a questo tempo, e probabilmente in
seguito alla pubblicazione del libro primo delle satire,
ricevè da Mecenate in dono un buon podere nella Sabina, con
otto servi che lo coltivavano e con un bel pezzo di bosco1143; uno
di quei medi poderi di cui Varrone aveva studiata l’economia e sui
quali tanta parte della classe media in Italia desiderava campare di
rendita. Rinfrancato da questo dono, rassicurato dal mutamento di
Ottaviano, incoraggiato dal crescente favore pubblico per le idee
conservatrici, egli era allora occupato a scrivere il secondo libro
delle satire: infinitamente superiore al primo non solo per l’arte
della composizione, dei dialoghi, degli aneddoti, delle descrizioni,
delle ironie, ma per l’importanza degli argomenti, che pur senza
toccar mai le scabrose questioni politiche, svolgono in briose
conversazioni e in piccole scene della vita comune quella morale di
moderazione, di semplicità, di schiettezza, che Cicerone
aveva esposta con togata solennità derivandola dalle
tradizioni dei padri e dalla filosofia greca; che Didimo Areo
inculcava ad Ottaviano in nome di Pitagora, e nella quale venivano a
poco a poco riassumendosi le aspirazioni conservatrici di quanti
volevano godere in pace quello che avevano salvato o quello che
avevano arraffato in mezzo alla rivoluzione. Certo l’ardita veemenza
di Lucilio era una qualità di altri tempi, non di questi
nipoti rammolliti, e Orazio, che era un uomo prudente, parlerebbe
dei vizi anonimamente, o nominando solo persone di poco conto, non
viziosi potenti. Egli introdurrebbe Ofello, un piccolo possidente di
Venosa spogliato con lui nel 41 e che si era acconciato a diventare
il colonus o mezzadro o fittavolo del suo spogliatore, a rampognare
quelle numerose e vane e sterili spese di apparenza, per cui in
tutte le civiltà tanti uomini diventano schiavi dell’oro; a
raccomandare la semplicità della vita e la sobrietà,
come il mezzo di conservare sano il corpo, di schivare quei catarri
gastrici, che ad Orazio, debole di stomaco, incutevano tanto terrore
e che guastano a tanti nelle civiltà troppo raffinate la
salute e la gioia di vivere; a inveire contro i ricchi che non
spendono nulla per la patria. Seguirebbe un mercante fallito di
antichità, Damasippo, a raccontare come uno dei tanti
bizzarri filosofi da trivio, Stertinio, lo distogliesse da buttarsi
in Tevere e ad esporne la dottrina, una balzana esagerazione dello
stoicismo. Sono tutti pazzi a questo mondo; pazzi i cupidi, pazzi
gli avari, pazzi i prodighi, gli ambiziosi, gli innamorati; pazzo
infine Orazio.... “Meno di te, in ogni caso”, finge di conchiudere
alla fine il poeta: ma quante aspre verità sui vizi degli
uomini intanto non ha messo in bocca al matto! Ed ecco Cazio fare
con solennità, come trattasse il più serio argomento,
una lunga dissertazione sull’arte di cucinare e di imbandire:
caricatura della grossolana gozzoviglia e ghiottoneria, che si era
diffusa, tra lo scompiglio della rivoluzione, nell’Urbe piena di
tanti villani rifatti. Il bravo maestro ammonisce fra le altre cose
che non è necessario dare pranzi sontuosissimi, ma è
bene badare che i piatti siano puliti e le sale bene spazzate! In
un’altra satira la avidità del denaro “senza cui i natali, la
virtù, l’onore non valgono un fuscello di paglia” è
assalita in una delle sue forme più luride: la caccia dei
testamenti. La villetta di Mecenate inspirerà infine al poeta
molte saggie considerazioni sulla tranquilla vita rustica, gli
farà detestare le pestilenti città, gli
ricorderà la favoletta del topo di campagna e del topo di
città.... Timido, desideroso di poco, delicato di salute, non
ambizioso, questa dottrina della vita conveniva al suo temperamento.
Anche questo secondo libro delle satire è un segno dei tempi,
una prova della crescente diffusione delle idee politiche e morali
di Cicerone e di Varrone, del rinascere in forma nuova che facevano
i sentimenti e le idee tradizionali, tra cui pure l’ideale
repubblicano, a mano a mano che la potestà triumvirale si
indeboliva e si raffreddava con la soddisfazione dei maggiori
appetiti il fervore rivoluzionario. Gli innumerevoli sovvertitori
pullulati da ogni parte nel 44 o erano periti o si erano
rimpannucciati con i beni dei proscritti, i doni di denaro, le
assegnazioni e le ruberie; i veterani di Cesare, i principali
agitatori della guerra civile, vivevano ormai per l’Italia come
agiati rentiers; si formava una classe di parvenus satolli della
rivoluzione, che incominciavano a diventare conservatori, a
desiderare il ristabilimento di un ordine sicuro e, non temendo
più una restaurazione conservatrice, a disinteressarsi del
triumvirato, a consentire volentieri con quel movimento degli
spiriti che invocava la restaurazione dei costumi e delle
istituzioni tradizionali. La rivoluzione trionfante si ammansava
dopo il pasto; gli odi, i rancori, i rammarichi vicendevoli, tutti
gli strascichi dolorosi delle grandi crisi sociali cadevano in
oblio! Ora a secondare questo movimento Ottaviano era già
spinto parte dalla simpatia, parte dall’interesse, perchè se
dopo la riforma del 35 non era più così detestato come
un tempo, troppo vivi erano ancora i ricordi del passato, i rancori,
la diffidenza. Ciò è così vero che se Virgilio,
il quale lo conosceva da un pezzo, parlava di lui in più
luoghi delle Georgighe e con grandi lodi, Orazio manteneva ancora un
grande riserbo con il vincitore di Filippi, non ostante l’amicizia
con Mecenate, sebbene forse già Ottaviano gli avesse fatto
sapere che approvava la propaganda morale da lui intrapresa con le
satire e lo incitasse a continuarla. Ma il sospetto che Antonio si
preparasse nel tempo stesso a distruggere lui e a far violenza alle
grandi tradizioni e ai grandi interessi nazionali con la fondazione
di una dinastia in Oriente, lo persuase ad atteggiarsi anche per
difesa propria addirittura a campione della causa e della tradizione
nazionale opponendosi alla approvazione dei doni di Alessandria.
Risoluzione ardita, giudichiamo noi che conosciamo quello che
avvenne poi; mezzo di acquistar popolarità con poca fatica e
pericolo, pensava forse Ottaviano. L’impero e l’Italia erano
esausti; Antonio non provocherebbe alla leggera una guerra, che lo
costringerebbe a desistere in ogni caso dall’impresa di Persia; si
acconcierebbe a rinunciare al suo grande disegno, che del resto non
era senza pericoli, e ad accordarsi con il collega. In ogni caso
l’opinione pubblica era questa volta per lui. Difatti Domizio e
Sossio, impressionati dalla disapprovazione pubblica e forse anche
informati delle intenzioni di Ottaviano, non comunicarono al Senato
nè la relazione, nè la domanda di Antonio.
Senonchè a questo modo Ottaviano correva il rischio di
perdere una bella occasione di atteggiarsi a difensore della causa
nazionale, solo perchè nessuno leggerebbe in Senato le
lettere e riferirebbe sugli atti del collega. Sollecitò
quindi gli agenti di Antonio a dar lettura di ogni cosa nella seduta
del 1° gennaio 33; ma costoro si schermirono; Ottaviano
insistè; gli altri acconsentirono a leggere solo la relazione
della guerra di Armenia1144. La fine dell’anno era vicina.
Disperando di persuaderli, Ottaviano si appigliò a un partito
più risoluto e spedito: il 1° gennaio del 33, presiedendo
il Senato come nuovo console, fece un discorso de summa repubblica,
nel quale narrò egli le donazioni di Alessandria biasimandole
severamente1145.
Il dado era tratto. Ottaviano, per cattivarsi il favore della
malevola Italia, si atteggiava a oppositore della politica orientale
di Antonio. Ma nessuno immaginava allora i terribili effetti che
nascerebbero da quella opposizione: nè Ottaviano, che di
lì a poco, abdicato il consolato per far posto ad un amico,
ritornò in Dalmazia1146; nè Agrippa, che in quell’anno
prendeva a esercitare la edilità, provvedendo alla fine
lavoro al popolino degli artigiani, così negletto dai potenti
dopo la morte di Clodio e di Cesare, con una profusione quasi
mostruosa in quella neghittosità mediocre in cui tutto
affogava. Assoldò del suo un gran numero di lavoranti a
riparare le strade e a racconciare gli edificii pubblici più
guasti, a ripulire le cloache, a restaurare l’acquedotto dell’acqua
Marcia, ridotto quasi inservibile1147; intraprese con denaro proprio
la continuazione dei Saepta Julia, incominciati da Cesare durante le
guerre galliche1148; distribuì olio e sale ai poveri1149;
concepì e incominciò ad eseguire un disegno anche
più vasto. Il popolo minuto di Roma aveva imparato ad amare i
bagni, non i semplici bagni freddi che gli antichi scendevano a
prendere alla buona nel Tevere per salute o per nettezza, ma i bagni
per piacere, tepidi o caldi, seguiti da frizioni d’olio, che quanti
non avevano il bagno in casa prendevano in umili e sudici
stabilimenti, tenuti da privati speculatori e serviti da schiavi. Ce
ne erano di tutti i prezzi e per tutte le borse; anche per chi non
voleva spendere più di un quadrante1150. Agrippa non solo
dispose affinchè in quell’anno i poveri potessero lavarsi nei
bagni privati a sue spese1151; ma pensò di costruire nella
parte più bassa del Campo di Marte nella palude Caprea, che
egli probabilmente colmò, risparmiando così il denaro
per comperare il terreno, un elegante sudatorio o bagno a vapore –
un laconico, dicevano gli antichi – nel quale un gran numero di
modesti plebei potessero bagnarsi1152: a questo sarebbe unito il
Gran Sacrario, il Pantheum, che doveva essere non il tempio di tutti
gli Dei (così molti hanno male tradotto il nome, che
significa solo “divinissimo”1153) ma probabilmente un tempio di
Marte e di Venere, le divinità tutrici della famiglia
Giulia1154. Si studiò inoltre di rallegrare i giuochi
pubblici, da troppo tempo fatti meschini; e già fin dai primi
che diede assoldò tutti i barbieri di Roma, affinchè
radessero gratis i poveri1155. In tanta miseria anche questa piccola
spesa era grave a molti; e i barbieri, numerosi allora a Roma come
ora a Napoli e a Londra, guadagnavano poco: cosicchè Agrippa
beneficava a un tempo barbieri e clienti.
Nella primavera del 33 dunque, mentre Ottaviano si affrettava a
conchiudere la pace con le popolazioni dalmate1156, Antonio
impartiva gli ordini per raccogliere di nuovo in Armenia dalle varie
parti dell’Oriente sedici e forse più legioni (un certo
numero vi erano state lasciate l’anno innanzi); ed egli stesso si
avviava per tempo da Alessandria alla volta dell’Armenia, per
conchiudere definitivamente la alleanza con il re di Media. Egli era
così lontano dal supporre che nascerebbero difficoltà
in Italia per la approvazione dei doni di Alessandria, che voltava
l’animo sicuramente all’impresa di Persia. Egli fu quindi molto
sorpreso quando in viaggio, probabilmente in marzo, ricevè da
Roma notizia del discorso di Ottaviano. Per qual ragione il suo
collega che negli ultimi tempi pareva desideroso di vivere in buon
accordo con lui, si opponeva ora alla approvazione dei suoi atti di
Alessandria, mettendo così a rischio il suo prestigio di
triumviro in tutto l’Oriente? La diffidenza è il sentimento
che più si acuisce in mezzo ai pericoli; onde Antonio
spedì subito a Roma agenti i quali spiassero la cricca di
Ottaviano meglio dei sonnecchianti agenti ordinarii, e rispondessero
in Senato e nelle concioni al discorso di Ottaviano ritorcendo le
accuse. Ottaviano si era presa la Sicilia e le provincie di Lepido;
aveva preferito i suoi veterani nella divisione delle terre; non
aveva spartito lealmente con lui i soldati arruolati in Italia;
facesse dunque, invece di accusare, il dover suo e gli desse di
tutto la parte che gli spettava1157. Scrisse anche una letteraccia
ad Ottaviano, nella quale rispose alle allusioni da lui fatte a
Cleopatra dicendo francamente che Cleopatra era sua moglie, come
Ottavia non esistesse, e con una oscenità di forma che mi
impedisce di tradurre il frammento conservato1158; ed è
peccato, perchè mostrerebbe i due principali personaggi
dell’impero alle prese con un turpiloquio da beceri o da studenti
ubriachi. Tanto gli antichi ignoravano quel sentimento che noi
chiamiamo decenza! Tuttavia, non giudicando la difficoltà
così grave da abbandonare l’impresa partica, egli
continuò il suo viaggio verso l’Armenia.
Al suo ritorno dalla Dalmazia, in giugno o in luglio probabilmente,
Ottaviano ricevè a Roma la lettera di Antonio e seppe delle
spie e dei messaggi mandati a sorvegliare, a intrigare e a
rispondergli. La ritorsione di Antonio era abile e non poteva non
essere giudicata giusta dal pubblico imparziale, che, se non
approvava gli atti compiuti da Antonio ad Alessandria, non si
muoveva però a quello sdegno, che sarebbe tanto piaciuto agli
avversari di Antonio. Ancora più riservato del pubblico e
più circospetto era il mondo politico. In teoria, quando la
gente chiacchierava sul foro o nei crocchi, tutti ammiravano la
repubblica, adoravano le gloriose tradizioni latine, invocavano una
politica veramente romana: ma allorchè si trattava di passare
dalle chiacchiere private alle opere palesi, nessuno era così
devoto alla integrità e maestà dell’impero di Roma da
affrontare per quelle la collera di un uomo in tanta potenza. Si
pensi: Antonio aveva non solo un formidabile esercito, ma un tesoro
ricchissimo, del quale qualche rivoletto scendeva pure in Italia a
confortare questo o quel senatore in strettezze! I più
quindi, se non approvavano apertamente Antonio, non incoraggiavano
nemmeno la opposizione di Ottaviano. Senonchè, Antonio
avverso, incerto il mondo politico, freddo e svogliato il pubblico,
che cosa avrebbe fatto alla fine dell’anno Ottaviano? La scadenza
della legge triumvirale accresceva in modo terribile la
difficoltà del presente. Rinnovare il triumvirato, come nel
37, era cosa ormai impossibile in quell’universale insoddisfacimento
di ogni classe: lo capivano tutti, per quanto non sarebbe stato
difficile far approvare dal popolo la legge. Il triumvirato si era
troppo infiacchito e screditato, aveva perduta ogni ragione; gli
stessi veterani, gli stessi magistrati e senatori degli ultimi anni,
gli stessi compratori dei beni confiscati, per assicurare i cui
diritti il triumvirato era stato costituito, sentendosi ormai
sicuri, diventavano avversi a quel regime disordinato e illegale
durato tanti anni. D’altra parte, a ritirarsi a vita privata,
restaurando senz’altro le vecchie istituzioni, nè i suoi
principali amici nè Ottaviano stesso pensava, non ostante che
le sue ambizioni fossero di molto sbollite: perchè Ottaviano
non aveva il terribile prestigio di Silla, da potersi concedere il
riposo della vita privata! I rancori e gli odi della guerra civile
si sarebbero avventati subito su lui e i suoi amici. Insomma non era
possibile assestare la repubblica senza andarne di mezzo essi, se
non si intendevano con Antonio, con Antonio il quale si mostrava
adirato e metteva innanzi assurde pretese. Per indurlo a smettere
non c’era altro mezzo: opporre alle sue accuse altre accuse, alle
sue domande altre domande. Ed ecco Ottaviano – è l’eterna
legge di tutte le lotte – costretto a impegnarsi di più nella
mischia, scegliendo a oggetto di invettive e di accuse non Antonio,
troppo rispettato e potente, ma Cleopatra, odiosa per tante ragioni
ai romani. Alle recriminazioni di Antonio egli rispose e fece
rispondere da amici con discorsi in Senato e nelle concioni
popolari, nei quali rimproverava ad Antonio di vivere con Cleopatra,
di considerare come figli i bastardi avuti da lei, di aver fatto
alla regina immensi doni a spese di Roma, di aver riconosciuto come
figlio di Cesare il piccolo Cesarione; gli consigliava di dare ai
suoi veterani le terre conquistate in Armenia e in Persia; biasimava
la perfidia usata contro il re di Armenia; dichiarava che avrebbe
spartito con lui le provincie di Lepido, quando Antonio gli avrebbe
dato la parte sua dell’Armenia e – si noti – dell’Egitto1159.
Quest’ultima era la provocazione più ardita; perchè
ciò dicendo Ottaviano veniva quasi a dichiarare che l’Egitto
doveva già considerarsi come una provincia romana.
Le faccende si intorbidavano, e molti a Roma incominciavano ad
essere inquieti. Troppe volte già da piccole e miserabili
discordie erano nate guerre micidiali tra cittadini! Ma ben maggiore
doveva essere la commozione nella corte di Alessandria. Cleopatra
vedeva formarsi a Roma, intorno ad Ottaviano, un partito avverso
alla ricostituzione del regno di Egitto; che ne nascerebbe presto o
tardi una guerra, era cosa probabilissima. Fece Cleopatra conoscere
per messaggi questi suoi timori ad Antonio e agì anche a
distanza sull’animo suo? o Antonio mentre viaggiava verso l’Armenia
si persuase da sè, che quell’opposizione, come già le
trattative di Taranto, mirava a intralciargli l’impresa di Persia;
che era opportuno perciò di assestare prima della guerra –
definitivamente questa volta – le faccende d’Italia, annientando la
opposizione alla sua politica orientale? L’una e l’altra
supposizione sono verosimili. Certo è che nell’estate del 33,
mentre si avvicinava con una parte dell’esercito all’Arasse per
incontrare il re di Media, Antonio mutò i suoi propositi e si
risolvè a impiegare l’anno prossimo, invece che a conquistare
la Persia, a ordire un intrigo politico con cui togliere di mezzo il
suo rivale ed oppositore. Egli si restringerebbe per il momento ad
offrire al re di Media solo un contingente di soldati romani per
aiutarlo nella guerra contro il re di Persia, domandando in cambio
aiuti di cavalleria; avvierebbe un grosso esercito e una flotta
numerosa nell’Asia Minore, ad Efeso e, nella scadenza del
triumvirato, ripeterebbe i maneggi di Cesare nel 50: manderebbe al
Senato la proposta di rinunciare al comando se anche Ottaviano
rinunciava. Delle due, una: o Ottaviano acconsentiva e allora
Antonio, approfittando del tempo necessario a trasmettergli la
deliberazione, si farebbe con qualche abile pretesto prolungare il
comando, quando l’altro già lo avesse deposto; o non
acconsentiva, e allora egli potrebbe incominciare una guerra
atteggiandosi a restauratore della libertà conculcata, a
distruttore della tirannide triumvirale contro Ottaviano1160;
continuare quindi l’obliqua e doppia politica sino allora seguita,
di fondare in Oriente una dinastia, dando ad intendere di servire
gli interessi dell’Italia. La presenza di un grande esercito ad
Efeso rinforzerebbe gli argomenti diplomatici. Più fortunato
di Cesare, egli poteva fare assegnamento per questo intrigo sui due
consoli del 33, Domizio Enobarbo e Sossio. Egli diede loro ad
intendere che voleva abolire il triumvirato e restaurare la
libertà; e così li persuase a proporre, appena al
principio del 32 ripiglierebbero il governo della repubblica come
magistrati supremi, di nominare subito i successori di Ottaviano al
comando degli eserciti, se Ottaviano, come era probabile, uscendo di
Roma continuasse ad esercitarlo in qualità di promagistrato.
Nel tempo stesso si accordava con Cleopatra, affinchè si
preparassero armi, denari e materie in Egitto.
Così al ritrovo con il re di Media Antonio mutò le sue
proposte. Il re di Media accettò le nuove, ma
mercanteggiò astutamente e domandò anche una parte
dell’Armenia1161. Antonio cedè e nel tempo stesso, per
ingraziarsi anche più Polemone, diè a costui la
piccola Armenia1162. Poi in agosto o settembre scrisse a Cleopatra
di venire ad Efeso, e si rimise in viaggio alla volta di Efeso,
verso cui già camminava una parte dell’esercito. La marcia
era lunga: 1500 miglia1163. In Italia intanto Ottaviano si sforzava
di ben disporre a suo favore la opinione pubblica, corteggiando in
tutti i modi il nuovo movimento conservatore. In mezzo a tanta
rinnovata ammirazione per le vecchie cose di Roma, accadde che
proprio uno dei più antichi templi dell’Urbe, quello di Giove
Feretrio, che si diceva eretto da Romolo e che era pieno di
vecchissimi trofei delle prime guerre, rovinò, quasi a
mostrare quanta cura si avesse degli avanzi che ricordavano i
piccoli principii del grande impero. Vivo fu il dolore di tutti gli
ammiratori dell’antico tempo; Attico, il grande dilettante di
archeologia, scrisse a Ottaviano di riparare il tempio; e Ottaviano
fu felice di mostrare ancora una volta la sua pietà zelante
per i grandi morti della patria1164. Agrippa invece pensava ai vivi
e continuava a beneficare e a divertire il popolino, aggiungendo in
settembre alle corse dei Ludi romani una rozza lotteria, facendo
gettare nel pubblico delle tessere su cui era scritto il nome di un
oggetto – chi arraffava la tessera, aveva diritto alla cosa1165. –
Dispose anche nel mezzo del circo delle tavole ingombre di doni, che
dovevano essere saccheggiate dal popolo, dopo lo spettacolo.
Immaginarsi il furibondo assalto, il divincolarsi frenetico della
mischia, i pugni, i calci, i morsi! Ma il più spedito mezzo
di signoreggiare le moltitudini fu sempre il corromperle. Nel tempo
stesso si continuava a incitare il pubblico all’odio di Cleopatra, a
cui si incominciava ad attribuire l’intenzione di conquistare
l’Italia e di regnare su Roma, diffondendo le più strane
invenzioni pur di atteggiarsi a campioni del partito nazionale. A
ogni modo se l’odio di Cleopatra era meno pericoloso che quello di
Antonio, non era però senza pericolo. Cleopatra non ambiva
conquistare l’Italia e regnare su Roma, come favoleggiavano i suoi
nemici di Italia; ma vedendo che il partito di Ottaviano cercava,
per conservare il potere, aizzare l’Italia contro il suo regno, si
accingeva con la consueta risolutezza a difendere il ricostituito
impero egiziano; faceva raccogliere in tutto il suo regno grano,
vesti, metalli e ogni altra specie di cose necessarie alla guerra;
prendeva dal tesoro dei Lagidi 20 000 talenti – circa 100
milioni –; raccoglieva la flotta egiziana composta di circa 200
navi; e con tutto questo apparecchio veleggiava verso Efeso incontro
ad Antonio1166. Essa si proponeva con ardito consiglio di mettersi a
fianco di Antonio e di accompagnarlo nella guerra, il cui oggetto
sarebbe la conservazione o la distruzione del nuovo impero egiziano;
così per aiutare Antonio a vincere, come per impedire che i
due triumviri si mettessero d’accordo, immolando il suo regno.
Così verso la fine del 33 Cleopatra muoveva incontro ad
Antonio dall’Egitto; Antonio si avvicinava ad Efeso e, per
spaventare gli avversari con un apparecchio di guerra veramente
insolito, ordinava ai principi dell’Oriente di mandare nell’inverno
milizie e navi ad Efeso, e alla sua flotta di venire in quelle
acque; Ottaviano a Roma spiava i segni del tempo. La fine del
triumvirato si avvicinava: che cosa succederebbe allora? Ed ecco,
sul finire dell’anno, giungere la lettera in cui Antonio dichiarava
di rimettere al popolo e al Senato i suoi poteri, se Ottaviano
faceva altrettanto1167. Naturalmente, se gli uomini esperti dei
maneggi politici sorrisero di questa finta, il gran pubblico ingenuo
ne fu invece molto commosso, credè Antonio sincero e riprese
ad ammirarlo, persuadendosi che le accuse mossegli negli ultimi
tempi erano calunnie dei suoi nemici. In fondo, siccome Antonio era
sempre stato rispettato più di Ottaviano, il pubblico si
fidava più di lui che dell’altro, avrebbe preferito che egli
e non il collega si accingesse a restaurare la repubblica.
Perciò alla fine dell’anno, per non ridiventare uomo privato,
Ottaviano dovè usare lo stesso espediente dell’anno 37:
uscire di Roma alla sera del 31 dicembre e conservare come
promagistrato il comando degli eserciti1168. Finalmente il
triumvirato era finito – pensarono tutti con gioia! [32 a. C.
Gennaio.] Il giorno dopo infatti, il 1° gennaio del 32, il
Senato si radunò sotto la presidenza dei consoli che erano
diventati di nuovo i primi magistrati della Repubblica; e Caio
Sossio diede subito esecuzione al disegno concertato con Antonio;
ricordò cioè le dichiarazioni di costui sul ritiro a
vita privata, concludendo, dice l’antico scrittore, con una proposta
contro Ottaviano1169. Probabilmente propose di nominargli i
successori nel comando dell’esercito. Che cosa pensassero i senatori
di questa proposta, non ci dicono gli storici; ma è
verosimile che i più ne fossero spaventati. Ritornavano forse
i tempi di Cesare e di Pompeo, allorchè prima di sguainare le
spade si erano fatte tante finte simili da una parte e dall’altra,
proponendo a vicenda di ritirarsi a vita privata, ma ambedue insieme
o nessuno? E difatti, come tante volte era successo allora, uno dei
tribuni della plebe, appostato in precedenza da Ottaviano,
ritrovò la voce della potestà tribunizia fioca da
dieci anni, e si levò a porre il veto1170. Così in
quella seduta non si conchiuse nulla. La repubblica era proprio
restaurata, tanto è vero che ricominciava quel leggiadro
vicendevole ostruzionismo, con cui i partiti avevano un tempo usato
paralizzarsi a vicenda! Ma ahimè per poco. Ottaviano non
tardò ad accorgersi che, continuando così, si sarebbe
impigliato in una confusa e inestricabile lotta di ripieghi
parlamentari senza venire a capo di nulla; temè che, se non
avviliva i suoi avversari con un atto di vigore, questi
prenderebbero coraggio a togliergli il comando con qualche
provvedimento, che farebbe vacillare la fedeltà dei soldati,
paurosi non di Domizio o di Sossio, ma di Antonio; e si
risolvè a un colpo di stato. Il 10 o l’11 gennaio1171
rientrò in Roma a capo di una piccola schiera di soldati; con
questi e con un manipolo di amici armati di pugnale sotto la toga,
entrò in Senato e vi tenne un discorso, riassumendo, ma con
moderazione, i suoi lagni contro Antonio e biasimando gli atti di
Sossio. Nè Sossio nè altri osarono rispondergli; e
allora egli fissò una seduta, probabilmente al 15, nella
quale promise di dimostrare con documenti le sue accuse contro
Antonio1172.
Costretto a smettere per un momento la moderazione mostrata da tre
anni, Ottaviano aveva cercato di compiere il suo colpo di stato con
la minore violenza possibile. Eppure l’atto suo fu mal giudicato dal
pubblico sospettoso, il quale, credendo alla sincerità delle
dichiarazioni di Antonio, inclinò a considerarlo come una
nuova illegalità intesa a prolungare la tirannide
triumvirale1173. Ricominciava forse Ottaviano, il cui passato era
dimenticato solo per metà, a incrudelire dopo il breve
ravvedimento? Quindi ebbero tutti paura, anche i due consoli,
sconcertati nei loro piani da questa violenza che probabilmente non
aspettavano. Antonio era troppo lontano; che cosa potevano osare
essi contro chi comandava tutti gli eserciti allora di stanza in
Italia? Non sapendo a che altro risolversi, non volendo ricomparire
in Senato solamente per tacere, come avevano fatto nella seduta
ultima, prima del giorno 15 ambedue abbandonarono segretamente Roma
con l’intenzione di andare da Antonio1174. La fuga dei consoli,
altro segno dei prossimi cataclismi politici, commosse ancor
maggiormente il pubblico già inquieto; molti senatori, che
erano o si credevano in sospetto di Ottaviano, partirono per
raggiungere Antonio; Orazio osò per la prima volta
verseggiare di cose politiche, ed espresse rudemente in giambi
veementi la opinione degli imparziali, trattando gli uni e gli altri
di scellerati:
Quo, quo scelesti ruitis?1175
Ben indebolita doveva essere la autorità triumvirale, se uno
scrittorello che viveva per la protezione di Mecenate, osava
giudicare con tanta imparzialità il capo del suo protettore!
Infatti Ottaviano, inquieto per la riprovazione del suo colpo di
Stato e per queste fughe, capì che i rigori avrebbero
esasperato ancora più l’Italia, a cui pure tra poco
bisognerebbe domandare uomini e denari; e non sentendosi la forza di
incrudelire, con felice ardimento dichiarò che lascierebbe
partire senza molestia tutti coloro che volessero recarsi da
Antonio1176. Queste dichiarazioni tranquillarono un poco gli animi;
ma pure circa 400 senatori partirono. Ne restarono fra 7 ed 800.
[32 a. C.] A Efeso intanto era giunto Antonio, e a poco a poco
arrivavano da ogni parte dell’Oriente e dell’Occidente,
dall’Illirico come dalla Siria, dall’Armenia come dal Mar Nero, le
navi cariche di grano, di stoffe, di ferro, di legno e di tutte le
cose necessarie alla guerra1177; arrivavano i soldati e i cavalieri
dalle foggie più strane, i re, i dinasti, i tetrarchi
dell’Asia e dell’Africa: Bocco re di Mauritania, Tarcondimoto
dinasta della Cilicia superiore, Archelao re di Cappadocia,
Filadelfo re di Paflagonia, Mitridate re di Commagene, Sadala re di
Tracia, Aminta re di Galazia1178. Giunse alla fine con la flotta
egiziana, con il tesoro di 2000 talenti, con tutto il gran codazzo
dei suoi servi anche Cleopatra. Si mescolavano nelle viuzze e nelle
osterie di Efeso i soldati delle diciannove legioni romane accampate
vicino, i cavalieri armeni, i forti e barbari Galli dell’Asia, i
guerrieri mauri, i soldati cappadoci e paflagoni, i marinai
egiziani; per ogni dove risuonavano per i trivii le più
diverse favelle; accorrevano da ogni parte dell’Oriente non solo gli
uomini d’arme, ma gli artigiani del piacere, le etère, i
giocolieri, i citaredi, i commedianti, le danzatrici, le mime ed i
mimi, a sollazzare i soldati e i loro sovrani. La antica
città asiatica non aveva albergato mai nei suoi maestosi
palazzi e nei pubblici edifici tanti grandi della terra; che si
invitavano di continuo a feste e gareggiavano tra loro di splendore
e di fasto, cosicchè ogni giorno si seguivano banchetti,
processioni, spettacoli: più magnifica e fastosa di tutti
Cleopatra, che pareva voler animare alla guerra imminente questa
torma così disparata di umani, inebriandola di sollazzi1179.
Tutto l’impero era in angoscia e in dolore; l’Italia trepidava
nell’ansia di una nuova profusione di sangue romano; eppure in mezzo
a tanto dolore e a tanta ansietà, nell’imminenza della caduta
del più antico, del più operoso colto e civile stato
di Oriente, Efeso risuonava dì e notte di allegri canti e di
liete brigate; nella confusione delle armi, delle favelle, delle
razze pareva si celebrasse – ahi troppo presto – una grande orgia
trionfale, come se la vittoria fosse già stata conquisa.
Spietata con i vinti, la storia ha giudicate turpi e pazze queste
orgie efesine alla vigilia del gran cimento: ma a chi intende meglio
e più a fondo gli eventi, la eco lontana di questi sollazzi
risuona roca e dolorosa come un rantolo di agonia. La lotta che
stava per incominciare non era il duello decisivo per la conquista
del potere monarchico in Roma, come hanno detto tutti gli storici,
ma la guerra di fondazione e consolidazione del nuovo impero
egiziano; non era la guerra di Ottaviano contro Antonio, ma la
guerra di Cleopatra contro Roma, l’ultimo e disperato tentativo
della unica dinastia superstite tra i discendenti di Alessandro per
riacquistare la potenza rovinata in due secoli dall’espandersi della
forza fatale di Roma nel mondo. La cultura, il mercantilismo, il
lusso, i piaceri, quel che si suol dire la civiltà, avevano
siffattamente snervata e sconnessa la politica dell’Egitto che, dopo
tanti inventori di strani e complicati raggiri diplomatici, era
comparsa sul trono dei Tolomei una donna a osare questa suprema
riscossa con raggiri più strani e complicati ancora che
quelli dei suoi predecessori, e a fare almeno perire il regno dei
Lagidi non così sonnolentemente come quello degli Attalidi,
con la firma di un protocollo reale, ma in una bizzarra e rumorosa e
commovente catastrofe, che gli uomini non hanno potuto dimenticare
mai più. Con tutte le arti che poteva adoperare una donna e
una regina egiziana, Cleopatra aveva cercato di sfruttare a
beneficio dell’Egitto il gran disordine politico in cui pareva
disfarsi Roma, tentando di rubare alla grande città
dell’Italia due di quei potenti condottieri nella cui signoria
pareva ridursi ormai la repubblica; era riuscita così a
raccogliere intorno a sè, per servire alla sua ambizione,
trenta legioni, ottocento navi, i più potenti sovrani
dell’Oriente, sotto il duce più valente e l’uomo più
celebre del tempo suo. Ma si disponeva a fare di più, una
cosa davvero inaudita nella storia del mondo: ad accompagnare
l’esercito alla guerra, trasportando nei campi e in mezzo alla
soldatesca il sontuoso apparato della reggia, le sue donne, i suoi
schiavi, i suoi eunuchi, i suoi tappeti, il suo vasellame d’oro, le
sue suppellettili preziose; a passare tra gli uomini coperti di
ferro ravvolta nel “turpe conopio” nel fine velo delle zanzariere
che difendevano la sua pelle dalle punture delle zanzare. Non un
capriccio femmineo, ma una suprema necessità la costringeva a
compiere questa audacia inaudita. I sovrani dell’Oriente seguivano
Antonio per rispetto e paura, non per l’ambizione di ricostituire la
potenza dell’Egitto; Antonio era fermo ormai nel proposito di
consolidare il nuovo ordine di cose stabilito in Oriente, ma era
costretto a fingere di difendere la repubblica, per non alienarsi
una parte considerevole degli amici romani; questi si disponevano ad
aiutarlo, ma si sforzerebbero di trattenerlo quando lo scopo della
guerra apparirebbe ben chiaro. La apparente concordia del campo
nascondeva i semi di infiniti dissensi e tradimenti. Persisterebbe
Antonio in ogni frangente? La assurdità dello scopo che
Cleopatra si era proposto, volendo risolvere un conflitto di forza
con un prodigioso sforzo di astuti ripieghi, e la stravaganza
singolare dei mezzi troppo muliebri sino allora adoperati, la
costringevano di bizzarria in bizzarria a questa suprema stranezza:
a farsi innanzi arditamente tra i generali, a seguire gli eserciti,
a sedersi nei consigli di guerra, a discutere i piani strategici,
per vigilare che la guerra non deviasse dallo scopo che solo premeva
a lei: la difesa del nuovo impero egiziano contro Roma.
XXI.
AZIO1180.
Infatti i senatori romani che in marzo e aprile arrivavano ad Efeso
a raccontare il colpo di stato di Ottaviano, stupivano di trovarci
anche Cleopatra; e non confusa tra gli altri principi ma
inframmettente in ogni faccenda, a fianco e a pari, in vista di
tutti, di Antonio. Per quale ragione la regina dell’Egitto prendeva
parte e contribuiva denaro e consigli a una guerra, che doveva
restaurare la repubblica in Roma e abolire il triumvirato? Le accuse
di Ottaviano erano dunque meno immaginarie, che non si giudicasse in
Italia? Ma nessuno osava fare aperte rimostranze ad Antonio. Per
fortuna tra tanti oscuri politicanti c’era uno dei pochi grandi
signori di Roma ancora superstiti, che solo non riconosceva nessuna
delle leggi d’etichetta a cui Cleopatra avrebbe voluto piegare anche
i Romani, ostinandosi ad esempio a non chiamarla mai la regina, ma
per nome1181: Domizio Enobarbo. Domizio, che si sentiva pari suo,
non ebbe soggezione di Antonio, ma gli disse apertamente quello che
i più pensavano: esser necessario rimandare Cleopatra in
Egitto1182.
Con che feroce lotta di intrighi Cleopatra e il partito romano si
disputarono allora ad Efeso Antonio! Il momento era favorevole al
partito romano. Ottaviano pareva accettare la sfida e con il suo
colpo di stato costringeva Antonio, poichè la radunata
dell’esercito ad Efeso non aveva servito, ad una nuova e più
efficace minaccia; ma questa nuova minaccia non sarebbe riuscita
efficace davvero, se non era il segno chiaro, non equivoco,
inoppugnabile dell’intenzione di far guerra, non per distruggere
solo un rivale, ma per restaurare la repubblica. La presenza di
Cleopatra offriva troppo il destro di calunnie, di ritorsioni, di
malignazioni agli avversari. Perciò alla fine, aiutato da
Dellio, da Planco, da Tizio, da Silano, da tutti i più
autorevoli romani, Domizio era quasi riuscito a persuadere il
triumviro; ma l’ostinata regina corruppe con una grossissima somma
Publio Canidio, in cui Antonio aveva grande fiducia, e lo persuase a
perorar la sua causa1183. La gioia di Domizio e dei suoi amici
durò poco: quando si aspettavano di vedere Cleopatra salpar
per Alessandria, seppero che la regina restava, perchè
Antonio si era disdetto. Da quel momento la sorda inimicizia, che da
un pezzo covava tra Cleopatra e i Romani più riguardevoli del
seguito di Antonio, divampò in aperta discordia; e nel
piccolo senato dei sopraggiunti da Roma si formò
definitivamente un partito egiziano della guerra e un partito romano
della pace. I più autorevoli amici di Antonio venuti ad
Efeso, se si erano dichiarati per lui al momento della rottura, non
erano però nemici di Ottaviano e non volevano la guerra senza
quartiere: anzi solleciti di tornar presto in Italia a rigodere
tranquillamente le grandezze acquisite, desideravano e speravano una
terza conciliazione dei due rivali, simile a quella di Brindisi e di
Taranto, pronti a immolare alla pace Cleopatra e le sue ambizioni.
Perciò Cleopatra, che non tardò ad accorgersi di
queste intenzioni, si adoperò con ogni mezzo a precipitare la
guerra. Antonio aveva già deliberato di rispondere al colpo
di stato di Ottaviano, avvicinando le sue minaccie e portando
l’esercito in Grecia; ma immaginandosi che il ripudio di Ottavia
invelenirebbe mortalmente la inimicizia dei due cognati, la regina
prese a sollecitare Antonio affinchè spedisse le lettere di
divorzio alla sua moglie d’Italia; e si studiò di dividere il
partito romano, corrompendone con grandi somme il maggior numero per
mutarli in partigiani suoi e della guerra1184. Naturalmente, quando
si seppe che Cleopatra spingeva al divorzio, il partito romano prese
sotto la sua protezione Ottavia.... Combattuto da tanti contrari
consigli, verso la fine di aprile, Antonio si persuadeva a partire
con Cleopatra e con i senatori romani per Samo1185, donde
veleggerebbero verso la Grecia, lasciando per il momento una parte
dell’esercito in Asia: ad Atene, in maggior vicinanza all’Italia, si
risolverebbe definitivamente quel che converrebbe di fare. Egli era
ancora irresoluto tra la pace e la guerra, tra la poligamia e il
ripudio.... Ben diverse invece erano le condizioni in cui Ottaviano
e il suo partito versavano. Certamente la presenza di Cleopatra nel
campo nuoceva a Antonio; ma costui aveva ancora tanti amici in
Italia, pareva così formidabile alla testa delle legioni e
dei contingenti asiatici! In Italia invece i consoli mancavano, e
dei due altri designati per l’anno L. Cornelio sarebbe entrato in
carica al 1° giugno, M. Valerio al 1° novembre1186; molti
magistrati erano fuggiti. Impossibile o almeno difficilissimo
sarebbe indurre il Senato, se pure si poteva chiamare così la
radunanza dei senatori non fuggiti di Roma, a dare a Ottaviano un
incarico legale della guerra contro Antonio. Insistendo troppo, non
si rischierebbe di far scappare per paura anche i rimasti? Ora, se
la situazione non mutava, accadrebbe questo: che Antonio si
troverebbe a capo delle sue milizie con un titolo legale, non
essendo stato ancora nominato il suo successore; mentre Ottaviano,
dopo il suo ingresso in Roma, non aveva più nessun diritto di
comandare ai soldati. Avrebbero i soldati acconsentito a portare le
armi contro il vincitore di Filippi, specialmente se mancava il
denaro necessario a cancellare gli scrupoli costituzionali? E questo
denaro, come estorcerlo all’Italia? Imponendo arbitrariamente nuove
tasse, Ottaviano annullava l’effetto degli errori di Antonio,
rinfrescava i terribili ricordi del triumvirato. Infine Antonio
disponeva di molto denaro; e i suoi agenti dovevano già
essere in giro per l’Italia a corrompere senatori e soldati, a
operare improvvise conversioni1187. Insomma rispettare la
legalità era impossibile, e pericoloso fare un altro colpo di
stato, dopo avere tante volte promesso di ristabilire l’ordine
legale delle antiche magistrature. Per fortuna però, e quasi
a compenso, e diversamente dalle discordie del partito di Antonio,
Ottaviano possedeva ormai, a mano a mano che il suo ravvedimento
maturava, non l’oro e la rinomanza del rivale, ma molte
qualità utilissime a mantenere la concordia sopra una nave,
che dovrebbe tra poco affrontare una tremenda tempesta. Meno iroso
puntiglioso e sospettoso di un tempo, più paziente, largo di
lodi e di ricompense, più cordiale nel trattare gli amici
come pari, più arrendevole agli altrui suggerimenti, egli
ispirava ormai una grande fiducia non solo a Agrippa e a Mecenate,
legati a lui da vincoli che il tradimento non poteva più
rompere, ma anche ai partigiani più recenti come Valerio
Messala Corvino, Lucio Arrunzio, Statilio Tauro. Tra questi amici si
discusse certo a lungo in quei primi mesi del 32 sul modo di dare
una qualche giustificazione legale al potere di Ottaviano, che era
la cosa più urgente; ma alla fine si accordarono nel pensiero
di mandare agenti in tutte le città dell’Italia e, adoperando
a questo scopo i numerosi veterani del primo Cesare e del triumviro,
di predisporre le città a prestare a Ottaviano, quando ne
fossero richieste, il giuramento che nei grandi pericoli pubblici
esigeva dai cittadini il magistrato incaricato dal Senato di
vegliare alla sicurezza della repubblica. Questo giuramento
sottoponeva tutti i cittadini alla disciplina militare e quindi
attribuiva pieni poteri al magistrato1188. In altre parole essi
avevano pensato di far dichiarare, come diremmo noi, lo stato
d’assedio dal popolo stesso: stranissima pensata, che è la
più eloquente prova della singolare situazione in cui si
trovavano; bizzarro sotterfugio costituzionale non mai praticato
prima, per fare apparire questa nuova dittatura come consentita
dall’intera Italia; e per riuscir nel quale essi dovettero, nei mesi
di febbraio, di marzo e di aprile, predisporre gli animi, inviando
uno dopo l’altro agenti e lettere di sollecitazione in tutta Italia,
adoperandosi a istigare tutti gli interessi, a commuovere tutte le
passioni.... Il pericolo urgeva.
Difatti nel seguito di Antonio le cose volgevano male per la causa
di Roma e della pace. Durante il viaggio erano infuriate le lotte
tra il partito romano e il partito egiziano per Ottavia: ma Antonio,
dominato sempre più da Cleopatra, si risolveva al ripudio.
Egli capiva però che questa deliberazione sarebbe grave al
maggior numero dei senatori romani; onde per vellicarne un poco a
compenso l’amor proprio, li convocò a consiglio1189, quando
fu giunto ad Atene, nella seconda metà di maggio. Molti,
tutti quelli che volevano la riconciliazione di Antonio e di
Ottaviano, parlarono contro il divorzio che significava la guerra;
ma non mancò nemmeno chi parlasse a favore1190 – potenza di
Cleopatra e dell’oro suo! Alla fine della discussione, Antonio
firmò le lettere di ripudio, le mandò a Roma per mano
di agenti incaricati di intimare ad Ottavia di uscire dalla sua
casa1191; spedì ad Efeso il comando di imbarcare l’esercito e
di traghettarlo in Grecia. Cleopatra aveva vinto; e subito non senza
intenzione si fece tributare dai cittadini di Atene onori simili a
quelli già tributati ad Ottavia1192. Ma il partito romano ne
fu sgomento e sdegnato; onde per tranquillarlo Antonio tenne un
discorso ai soldati, promettendo solennemente che avrebbe deposto il
potere e restaurata la repubblica due mesi dopo la vittoria
finale1193. Egli perseverava nella sua doppia politica di
presentarsi all’Italia come il vendicatore della libertà;
quando invece affilava la spada di Roma per Cleopatra e per la sua
politica egiziana. Senonchè la contradizione incominciava ad
apparire chiara a qualcuno; e due personaggi considerevoli, Tizio e
Planco, già offesi da Cleopatra, abbandonarono Antonio dopo
quelle deliberazioni per venire in Italia1194, immaginando forse che
in Italia le cose fossero giudicate nello stesso modo che ad Atene
da coloro che le avevano viste con gli occhi propri. Invece in
Italia l’opinione pubblica, sebbene il ripudio di Ottavia avesse
fatto cattiva impressione1195, era molto incerta; non si commuoveva
a quello sdegno veemente, in mezzo al quale sarebbe stato più
facile proporre la coniuratio con sicurezza di riuscire; non sapeva
giudicare tra i campioni di questa bizzarra guerra civile, che
dicevano ambedue di combattere per la libertà e per la
salvezza della repubblica. Chi mentiva? Antonio? Ottaviano? Ambedue?
Tizio e Planco trovarono Ottaviano e il suo partito in grande
ansietà, inquietissimi per l’ordine mandato da Antonio
all’esercito, che induceva a supporre l’intenzione di assalirli
subito e impreparati1196; affaccendati a accelerare alla meglio gli
apparecchi, a raccogliere soldati e vettovaglie, a mettere in
assetto le navi, a immaginare possibili e impossibili espedienti....
Pare perfino che, argomentando la guerra dovesse combattersi al nord
della Grecia, nella moderna penisola balcanica, essi immaginassero
di proporre una alleanza al re dei Geti, offrendogli in moglie
Giulia, la figlia di Ottaviano e – se si deve credere alle
affermazioni di Antonio – domandandogli in moglie per Ottaviano una
figlia1197. Ma la loro volontà era ritardata in ogni cosa
dalla mancanza di un titolo legale di autorità, che li
costringeva ad essere in ogni atto assai circospetti. Fu ripresa
perciò con nuovo vigore la agitazione contro Antonio e contro
Cleopatra, per predisporre l’opinione pubblica alla coniuratio; e
non solo si divulgò un infinito numero di aneddoti sulla
corte di Alessandria, su Cleopatra ed Antonio, più o meno
veri, spesso lubrici o osceni, che scandolezzassero la parte meno
corrotta del ceto medio; non solo si insinuò che Antonio era
quasi ammattito per un filtro somministratogli dalla regina; ma si
continuò a tessere la grande favola delle ambizioni di
Cleopatra, che voleva rovesciare il Campidoglio, asservire Roma
all’Egitto, trasportare a Alessandria la metropoli dell’impero1198.
Antonio le aveva regalato la biblioteca del re di Pergamo, aveva
permesso agli Efesini di chiamarla regina: raccontò in un
discorso Calvisio Sabino1199 con grande enfasi ed esagerazione; non
era chiaro che Cleopatra ambiva quella provincia d’Asia, in cui gli
Italiani avevano i maggiori interessi? Senonchè Antonio aveva
ancora molti amici; e non pochi, nell’incertezza dell’esito, non
volevano trovarsi poi troppo a mal partito con lui, se vincesse:
onde Ottaviano non poteva impedire che a questa propaganda si
contrapponesse una propaganda avversa; che i fatti più gravi
fossero messi in dubbio, che a tutte le accuse si trovassero
scuse1200. Da una parte e dall’altra lo sforzo si faceva rabbioso.
Tizio e Planco raccontarono a Ottaviano che Antonio aveva deposto
presso le vestali un testamento, in cui, oltre nuove e smodate
donazioni ai figli, disponeva che il suo corpo fosse consegnato a
Cleopatra e seppellito in Alessandria1201: non era questa la
migliore prova che Antonio era stregato ormai dalla fatale egiziana,
se nemmeno morto voleva essere separato da lei? Sperando di nuocere
molto ad Antonio, Ottaviano costrinse la vestale massima a dargli il
testamento e lo lesse in pieno Senato....1202 Grande fu la
meraviglia e la commozione del pubblico; ma gli amici di Antonio
cercarono di sviare l’indignazione dal testamento al modo con cui
Ottaviano lo aveva preso; protestarono – e non a torto – che
Ottaviano aveva violato un segreto privato, che era sacro. Tuttavia,
non potendo negare che il testamento fosse indegno di un grande
romano, essi riuscirono ad ottenere, perorando nelle concioni, che
il popolo di Roma mandasse ad Antonio un certo Geminio come suo
ambasciatore, a supplicarlo di non rovinarsi con atti
inconsiderati1203.
Ma non si poteva perdere troppo tempo in questi stiracchiamenti,
dopo l’affronto del ripudio e allorchè le forze nemiche erano
già quasi tutte trasportate in Grecia. Alla fine Ottaviano
dovè rompere gli indugi, e probabilmente nell’ultimo di
luglio si risolvè a dare a tutti i suoi agenti nelle diverse
parti dell’Italia l’ordine di spingere le città alla
coniuratio. Come fu eseguita questa singolare operazione, noi non
sappiamo: ma possiamo congetturare che il primo magistrato
municipale o qualche cittadino insigne convocò il popolo in
ogni città, spiegò con un discorso che l’Italia era
minacciata di guerra da Cleopatra, la quale voleva asservire Roma;
che la repubblica era in grande pericolo e quasi senza Senato; che
l’Italia doveva salvarsi da sè, prestando ad Ottaviano il
giuramento di fedeltà e sottoponendosi alla disciplina
militare. Non è improbabile che Ottaviano promettesse anche,
più o meno esplicitamente, di restaurare la repubblica a
guerra finita. A una domanda così insolita, l’incerta e
diffidente Italia non poteva rispondere con unanime, entusiastico
slancio; e noi sappiamo difatti che qualche città
rifiutò, come Bologna, e possiamo supporre che molti in ogni
città si schermissero. Ma il prudente Ottaviano si astenne da
imporre ai restii il giuramento; finse quasi di non accorgersi che
mancavano molte voci al pieno coro; affermò che tutta
l’Italia aveva giurato in sua verba, giudicando che coloro i quali
non avevano giurato, contenti di non ricevere molestia, non
contesterebbero con atti la costituzionalità dell’altrui
giuramento1204. Cosicchè, con il giuramento degli uni e
l’acquiescenza degli altri, Ottaviano potè arrischiarsi a
trattare tutta l’Italia come legalmente sottoposta al suo imperium:
militarizzata, diremmo adesso.
E allora subito indusse il Senato, i cui membri erano essi pure
sottoposti a lui come soldati, a dichiarare la guerra a Cleopatra: a
Cleopatra, si noti, e non ad Antonio, che fu soltanto spogliato del
comando degli eserciti e di tutte le dignità, ma non
dichiarato nemico pubblico1205. Tanto poco ancora l’Italia prestava
fede alle accuse che Ottaviano e i suoi amici diffondevano contro
Antonio! Senza indugio bandì pure nuove imposte: una
contribuzione eguale all’ottava parte del loro patrimonio, per tutti
i liberti che possedevano più di 200 000 sesterzi; la
contribuzione della quarta parte del loro reddito annuale, per tutti
i possidenti liberi1206. Senonchè questa volta l’Italia,
stanchissima di imposte, non si spaventò nemmeno della
giurisdizione militare e dello stato d’assedio; rifiutò le
nuove contribuzioni, proruppe nel mese di agosto in tumulti e
rivolte sanguinose, che Ottaviano, in quella incerta condizione di
cose, non osò reprimere con vigore1207. Le difficoltà
nascevano le une dalle altre; ed è meraviglia – dicono gli
antichi – che Antonio non approfittasse di questo disordine, per
assalire proprio allora l’Italia1208. Ma dopo la vittoria del
partito egiziano nella questione del ripudio e dopo la frettolosa
avanzata in Grecia, alla concitazione delle ultime lotte era
succeduto nel campo di Antonio un intorpidimento che paralizzava
l’esercito. Il partito egiziano poteva, per mezzo di Cleopatra,
comandare nella tenda del generale, ma non riusciva a vincere le
occulte resistenze dell’esercito, i cui ufficiali inclinavano quasi
tutti verso il partito romano. La testa era egiziana, romano il
braccio. Scoraggito e scontento il partito romano, gli ufficiali si
lasciavano trascinare contro voglia a una guerra che non volevano e
sul cui scopo avevano ormai tanta dubbiezza; se i più non
osavano imitare l’esempio di Tizio e di Planco, seguivano
però l’esercito straccamente, senza fiducia e senza zelo;
Antonio, il quale pure era stanco e disorientato, non poteva
più fare assegnamento sui propri collaboratori più
abili, a cominciare da Domizio. Canidio non bastava a supplire alla
malavoglia degli altri; tutto si faceva a caso, in gran disordine;
nessuno pensava ai provvedimenti più necessari, come a
raccogliere grano per nutrire all’inverno l’esercito nel luogo dove
svernerebbe, che nessuno del resto sapeva quale fosse. Osare grandi
cose in simile condizione era impossibile. Inoltre tutti, egiziani e
romani, erano certo d’accordo almeno in una cosa: che Antonio,
largamente provvisto di denaro e sicurissimo del suo esercito per la
ammirazione dei soldati e per la povertà dell’avversario che
non era in grado di corromperli, poteva con suo vantaggio aspettare
che Ottaviano venisse a disputargli la vittoria sui campi della
Macedonia e della Tessaglia, come Cesare nel 48 e come i triumviri
nel 42. Ottaviano non poteva imporre per lungo tempo all’Italia il
dispendio e la violenza dello stato di guerra, senza far nascere
torbidi e difficoltà gravissime, in mezzo a cui la
fedeltà degli eserciti, sempre irregolarmente pagati, sarebbe
facilmente corrotta dall’avversario. E difatti subito dopo la
dichiarazione di guerra a Cleopatra, egli e i suoi amici avevano
divisato di tentare senza indugio la sorte delle armi: sebbene poi
non avessero fatto nulla, non osando risolversi, quando l’Italia
recalcitrava con tanto furore alla equivoca dittatura di Ottaviano e
dappertutto aleggiava il sospetto e la paura della corruzione di
Antonio1209. Antonio invece deliberava di passare l’inverno con
l’esercito in Grecia, di mandare nuovi agenti in Italia a seminare
denaro, per suscitare torbidi tra le popolazioni e scuotere la
fedeltà delle legioni1210; di appostare il grosso della sua
flotta – più che trecento navi – nel golfo di Ambracia
(d’Arta) tra Corfù e Leucade, un vasto porto naturale
comunicante con il mare per un canale largo poco più di un
chilometro1211, collocando un avamposto a Corfù. L’armata
vigilerebbe quindi, come scolta avanzata, l’Adriatico, se il nemico
tentasse alla primavera seguente di passarlo. Il consiglio era
savio, sebbene fosse eseguito in fretta e con grande confusione,
come era possibile nel babelico disordine del campo pieno di tanti
odii e discordie: e lo stesso partito romano che voleva la pace non
aveva motivo di lagnarsene, poichè per esso la guerra andava
per le lunghe e con la guerra si prolungavano il tempo e la
speranza. Ma di quel rabbioso torpore del partito romano potè
approfittare il partito egiziano, che comandava nella tenda del
generale, per fare accettare il piano strategico che più gli
conveniva. Chi osservi una carta del Mediterraneo, facilmente si
persuade che un generale il quale, avendo in suo potere, come
Antonio allora, la Cirenaica, l’Egitto, la Siria, la Anatolia, e
grande parte della penisola balcanica, si appresti a una guerra in
Tessaglia, in Macedonia o in Epiro, deve collocare le sue riserve di
uomini e di materiali nell’Asia minore, vicina, collegata alla
penisola balcanica da una fila di isolette simili a pietre di
traghetto in mezzo a un corso d’acqua e separata solo da due bracci
di mare. Perciò Antonio, che aveva lasciata una squadra con
quattro legioni a Cirene sotto il comando di Pinario1212, quattro
legioni in Egitto, tre in Siria1213, avrebbe dovuto richiamarle
nell’Anatolia. Invece non solo le lasciò dove erano, nel
lontano Egitto: ma proprio allora prese a stendere attraverso il
Mediterraneo una vera catena di presidii terrestri e navali che
univano la Cirenaica con l’Epiro: presidiava cioè Cirene, poi
Creta, poi il capo Tenaro e Metone, pensava di svernare a Patrasso
disseminando l’esercito di terra per tutta la Grecia, fortificava
Leucade, poneva la flotta nel golfo di Ambracia e gli avamposti a
Corfù. Non si potrebbe spiegare questa strana disposizione
delle forze di Antonio, se non riconoscessimo l’effetto della
politica egiziana di Cleopatra che voleva principalmente difendere
l’Egitto così da probabili controattacchi di Ottaviano come
da rivoluzioni interne, e mantenere aperte le comunicazioni con il
cuore del suo impero. Certo questa disposizione dell’esercito era un
poco disagiata, perchè offriva a un avversario ardito il
destro di assalire con forze soverchianti questo o quel punto della
lunga linea; ma si poteva fare altrimenti, dovendo combattere in
Epiro per l’Egitto?
Difatti, forse sul finire di ottobre, quando a Roma si conobbe
questa disposizione, per un momento si agitò la proposta di
tentare una sorpresa sulla flotta ancorata nel golfo di Ambracia: ma
poi per le tempeste, se si deve credere allo storico antico, il
proposito fu abbandonato1214, mandando soltanto una flottiglia sulla
costa dell’Epiro a osservare luoghi acconci a uno sbarco1215. Quando
l’inverno dal 32 al 31 chiuse i mari, Antonio si ridusse a svernare
a Patrasso in compagnia di Cleopatra, dei senatori romani, dei
principi orientali: Ottaviano, Agrippa, Mecenate, radunata la flotta
e le legioni a Taranto e a Brindisi1216, se ne vennero a Roma, per
vigilare l’Italia e prendere le deliberazioni definitive. Nessun
inverno dovè essere angoscioso per Ottaviano e per i suoi
amici, come quello. Malcontenta e inquieta l’Italia, avide le
legioni e tentate al tradimento dal ricco avversario, Ottaviano
aveva bisogno di un pronto successo, con il quale rincuorare i
soldati, tenere queta l’Italia, consolidare il suo potere: ma erano
lontani i tempi in cui Cesare, alla testa del suo piccolo esercito
di Gallia, poteva porre in atto con tanta risolutezza e veemenza il
precetto massimo dell’arte di guerreggiare: cercare il principale
corpo del nemico e disfarlo! Nè Ottaviano nè Agrippa
si sentivano l’animo di sbarcare una ventina di legioni in Epiro, di
cimentare il nome di Cesare in una nuova Farsaglia. L’esito della
battaglia era incerto; e alla prima disfatta l’Italia si
ribellerebbe, l’esercito passerebbe al nemico, non resterebbe
più loro altro scampo che la morte. Inoltre era cosa
rischiosa di portare commilitoni a combattere contro commilitoni!
Eppoi, era proprio vero che non si potesse più conchiudere
una nuova pace? Antonio pareva questa volta inesorabile, e aveva a
fianco Cleopatra; ma se si trovasse qualche modo di intendersi, non
era meglio? Perciò, dopo mature deliberazioni, si scelse un
mezzo termine e si deliberò di contentarsi in principio di un
mezzo successo non definitivo sulle carcasse delle navi:
lascerebbero nel porto quasi tutte le grosse navi turrite, troppo
corpulente e pesanti; raccoglierebbero i numerosi incrociatori di
Sesto Pompeo e quelli presi nella guerra illirica ai Liburni,
più leggeri, più veloci e più agili ad
affrontare le tempeste: per tempissimo, in marzo. Agrippa
simulerebbe un attacco sulle coste della Grecia meridionale, in modo
da dare ad intendere al nemico che essi volevano sbarcare
laggiù l’esercito; intanto Ottaviano, caricate sulla
rimanente flotta quindici legioni, le sbarcherebbe sulle coste
dell’Epiro, e di lì navi ed esercito scenderebbero verso il
golfo di Ambracia, per sorprendere e bruciare la flotta di Antonio.
Essi speravano, riuscendo in questa impresa, di poter sfruttare la
grande impressione della notizia, che la flotta di Antonio era stata
annientata: sia per indurre costui a condizioni ragionevoli di pace,
sia per persuadere l’Italia a tollerare con pazienza il dispendio e
il disagio di una guerra più lunga. Pare intanto che
preparassero la spedizione, le navi, le armi, gli approvvigionamenti
con maggior cura che non si fosse fatto nelle altre guerre. Ma
capivano tutti di porre a un repentaglio così decisivo quello
che avevano acquistato – grandezze e ricchezze – in tredici anni di
guerre civili, che Ottaviano ordinò a tutti i settecento
senatori restati a Roma di seguirlo, non volendo lasciar a Roma
gente capace di capeggiare una rivoluzione in favore di Antonio1217.
Solo pochi rifiutarono, e tra questi Asinio Pollione che disse di
essere troppo amico dei due nemici e di voler restare neutrale; e
con lui, per amore di pace, Ottaviano non insistè.
Designò anche, in virtù dei suoi pieni poteri, i
magistrati per l’anno seguente: a consoli sè stesso per tutto
l’anno e M. Valerio, Tito Tizio, Gneo Pompeio.
[31 a. C.] E difatti, se la fatale politica egiziana non avesse
perturbato profondamente la strategia di Antonio, oggi il Pantheon
non ostenterebbe ancora sul frontone il nome superbo di Agrippa;
nè alcun sovrano si chiamerebbe Cesare! Intanto già
nell’inverno era successa una disgrazia alle ciurme dell’armata
ancorata nel golfo di Ambracia, in un paese sterile. Restate senza
viveri sufficienti quando la navigazione fu sospesa, quasi un terzo
di queste ciurme era stato distrutto dalla fame e dalle malattie; e
non potendo soccorrere alla loro penuria, Antonio aveva ordinato ai
capi delle navi di riempire i vuoti facendo rapire dappertutto i
contadini, i viandanti, i carrettieri, gli schiavi1218. Ma se questo
accidente era grave, un’altra cosa ancor più grave avveniva
in quell’inverno: si invertivano cioè le parti tra il partito
romano e l’egiziano. Cleopatra, che Ottaviano e i suoi descrivevano
come ambiziosa di distruggere Roma, diventava ora avversa alla
continuazione della guerra, si sforzava di troncarla a mezzo e di
indurre Antonio a ritornare nella primavera in Egitto, senza
aspettare il nemico; mentre il partito romano prendeva a consigliare
la guerra. I motivi di questo mutamento, senza il quale non sarebbe
possibile spiegare il seguito degli eventi, noi non possiamo
cercarli che per congettura in quell’incomponibile discordia dei due
partiti, che è il movente supremo di tutti questi eventi. In
quell’inverno, in mezzo a tanti senatori di Roma, Cleopatra
potè meglio rendersi conto delle condizioni dell’Italia e di
quello che l’opinione pubblica richiedeva; sentì molti di
quei senatori discorrere della comune speranza, che Antonio dopo la
vittoria riordinerebbe l’Italia, dove tante cose erano a farsi;
capì che quei senatori avevano presa sul serio la promessa di
restaurare la repubblica e che dopo la vittoria Antonio resterebbe
prigioniero del partito romano, sarebbe da questo e dalla
necessità delle cose costretto a ritornare in Italia, come
Cesare dopo la presa di Alessandria. Che cosa accadrebbe allora del
suo fragile impero egiziano? Dovrebbe essa ritornare a Roma a
tentare di nuovo Antonio, come sedici anni prima era andata per
persuadere Cesare? Cleopatra incominciava ad avere paura della
vittoria, non meno che della sconfitta; e poichè ormai, dopo
il ripudio di Ottavia, aveva inimicati irreconciliabilmente i due
antichi cognati, si risolveva a cercar di fare sospendere la guerra,
e di ricondurre Antonio in Egitto, a fondare apertamente la nuova
dinastia, lasciando l’Italia e le barbare provincie europee a
Ottaviano, al suo partito, a chi le volesse. Se Ottaviano voleva
ricomporre l’unità dell’impero, dovrebbe assalirli in
Oriente; impresa a cui non gli basterebbero mai nè le forze
nè il coraggio. Insomma essa intendeva di compiere intera e
definitiva quella separazione dell’impero d’Oriente e d’Occidente,
che Antonio aveva solo adombrata. Con quali arti e sofismi essa
cercasse di insinuare questo proposito nell’animo di Antonio, noi
pur troppo non sappiamo: ma è probabile che essa
incominciasse a tentarlo copertamente già in quell’inverno,
come non è improbabile che Antonio abbia in principio
obiettato a Cleopatra la difficoltà di muovere di nuovo in
mezzo alla guerra tanta moltitudine a ritroso del cammino già
fatto; il giudizio dei soldati, degli alleati e dei nemici, i quali
strombazzerebbero questo ritorno come una fuga; infine il pericolo
di dichiarare così apertamente, prima della vittoria, che si
combatteva non per Roma ma per l’Egitto. Anche ammettendo che dei
numerosi senatori venuti a lui da Roma ben pochi fossero devoti sul
serio e non solo a parole alla grandezza di Roma, bisognava tener
conto che tutti avevano in Italia i beni, la famiglia, la ragione
della potenza; che se egli tralasciasse la guerra, nessuno potrebbe
tornare in Italia se non ad arbitrio di Ottaviano ma tutti sarebbero
rovinati e costretti a vivere in Oriente come in esilio; che, appena
temessero di essere abbandonati così a tradimento sulla via
dell’Italia, si rivolterebbero contro di lui.
Ma sul finire dell’inverno queste dubbiezze e discussioni furono
all’improvviso interrotte dall’improvvisa comparsa di una armata
nemica nelle acque della Grecia. Ai primi di marzo Agrippa aveva
lanciata la muta dei suoi levrieri di mare contro la Grecia
meridionale, incominciando la caccia alle navi che portavano
dall’Asia e dall’Egitto il grano; aveva preso Metone e frugava con
gli agili incrociatori la costa, come cercando un luogo acconcio
allo sbarco dell’esercito e facendo un gran frastuono e tumulto alle
spalle di Antonio1219, per costringerlo a voltare l’attenzione verso
di lui. E difatti Antonio fu ingannato; credette proprio che
Ottaviano venisse a disputargli la vittoria in Grecia; e mettendo in
disparte le discussioni sul guerreggiare o ritrarsi,
incominciò a dare le disposizioni per raccogliere tutto il
suo esercito1220. Pare che Cleopatra da principio cercasse di
tranquillarlo e di impedirgli di avventarsi così
precipitosamente nella guerra. Quando, in mezzo ai preparativi
giunse la notizia che Ottaviano aveva sbarcato in Epiro un esercito
e che esercito e flotta discendevano rapidamente verso il
sud....1221. Antonio capì allora che Ottaviano voleva
distruggere la flotta di Ambracia; si spaventò forse
più che non fosse vero e grande il pericolo – anche lui i
disagi, le fatiche e gli stravizi facevano impressionabile –;
mandò subito ordine all’esercito disperso di marciare su
Ambracia, e con grande prestezza vi accorse in persona, giungendo,
come pare, quasi insieme con Ottaviano, ma quasi solo1222.
Cosicchè quando la flotta nemica si ancorava nel golfo di
Comaro e l’esercito si accampava sul promontorio che chiude a nord
il golfo, sopra una collina che oggi si chiama Mikalitzi, sulle navi
erano soltanto le ciurme imbelli, affrante, assottigliate.... La
sorpresa era pienamente riuscita, per merito di Agrippa. Ma la
prontezza di Antonio fece all’ultimo fallire lo studiato
stratagemma. Antonio mascherò alla meglio da legionari le
ciurme, le fece salire sul ponte, e ostentò la sua flotta in
atteggiamento di battaglia. Ottaviano, come al solito, si
impaurì, credè la flotta difesa da soldati, non
osò assalirla; e uscì fuori ad offrir battaglia per
terra1223. Antonio invece lo tenne a bada con scaramuccie,
aspettando che dalle varie parti della Grecia arrivassero le coorti
e le legioni; e come furono giunte, stabilì un grande
accampamento sul promontorio meridionale che chiudeva il golfo e che
era detto di Azio, fortificando il canale1224. Giunse anche
Cleopatra che, non avendo potuto più trattenerlo, lo seguiva
sin nell’accampamento, non volendo lasciarlo un dì solo in
balìa del partito romano.
Frattanto Ottaviano aveva richiamato Agrippa dalle coste della
Grecia meridionale, per raccogliere tutte le sue forze davanti al
nemico. I due rivali accampavano ora di fronte, sul finire di maggio
– è probabile che tra questi avvenimenti fosse passato
l’aprile e una parte di maggio – come nel 48 Pompeo e Cesare, come
nel 42 i triumviri e i due capi della congiura, in quella penisola
balcanica che è il grande campo di battaglia in cui si
azzuffarono sempre l’Oriente e l’Occidente, l’Asia e l’Europa. Ma
una nuova pausa intervenne. Questa volta nessuno dei due avversari
pareva aver fretta di combattere. Ottaviano, il quale pure non
poteva restare in armi così a lungo come Antonio, si raccolse
in una difesa aspettando, nel campo munito come una vera fortezza e
unito da grandi muraglioni con il porto di Comaro; tentò
anche di avviare nuove trattative di pace perchè, dopo
l’insuccesso della sorpresa che aveva sconcertati tutti i suoi
disegni, non osava di sforzare il nemico a combattere nè per
terra nè per mare, se pur ci sarebbe riuscito. Inoltre egli
si trovava allora in condizioni migliori che Cesare nel 48 e i
triumviri nel 42, perchè poteva con la flotta far venir grano
dall’Italia e dalle isole per i soldati; e quindi mancando alla sua
irresoluta natura l’incitamento del pericolo e della fame, non
sapeva più risolversi a nulla. Antonio a sua volta
rifiutò di entrare in trattative; ma non fece nessuno sforzo
per costringere il nemico a battaglia, si restrinse ad accampare una
parte del suo esercito al di là dello stretto per minacciare
più da vicino il campo nemico, a far circuire il golfo da
forti squadroni di cavalleria, che cercassero di tagliare l’acqua al
nemico, forse a tentare copertamente le legioni di Ottaviano.
L’onnipotente Cleopatra gli impediva così di far guerra come
di conchiudere pace. In un campo e nell’altro, nei due gruppi di
uomini che dirigevano i due partiti in guerra, le discordie o la
diffidenza o la paura impedivano ogni opera ed atto; cosicchè
i due immensi eserciti erano venuti dalle due opposte parti del
mondo per vigilarsi a vicenda in una inerzia, che è la prova
suprema dell’esaurimento senile, da cui era sfinito il governo del
triumvirato e l’ordine di cose stabilito nel 43 dalla trionfante
rivoluzione popolare. In poco più di dieci anni tutta
l’eredità di Clodio e di Cesare era stata consumata e
dispersa! D’altra parte troppo manifesti erano per Ottaviano i
pericoli della neghittosità piena che snerverebbe i soldati,
disporrebbe questi a lasciarsi corrompere e fomenterebbe gli umori
rivoltosi dell’Italia! Egli cercò di aiutarsi con qualche
astuto ripiego e con dimostrazioni, là dove non poteva con la
sostanza delle cose. Mandò agenti in Grecia e in Macedonia a
cercar di suscitare torbidi contro Antonio tra le popolazioni
malcontente per le esazioni della guerra1225 che in alcune parti
facevano nascere gravi carestie1226. Anzi la più grande
famiglia del Peloponneso, quella di Euricle, per odio del padre
ucciso da Antonio, aveva armata per Ottaviano una nave al comando di
Euricle stesso. Tizio e Statilio, avendo sorpreso e fugato un
piccolo corpo di cavalleria nemica, magnificò in Italia
questa vittorietta come un gran fatto d’armi1227. Agrippa osò
una impresa maggiore: piombò d’improvviso sulla piccola
squadra che presidiava Leucade e la vinse1228, girò intorno
all’isola, scacciò un altro piccolo presidio posto al capo
Ducato1229. Ottaviano scrisse allora a Roma che la flotta di Antonio
era tappata nel golfo di Ambracia1230; vana iattanza, perchè
questa flotta ancora intatta avrebbe potuto uscire a ogni momento e
piombare sulla sua. È probabile che Agrippa non lasciasse
nessun presidio a Leucade; e se pure ve lo lasciò, questo non
poteva in nessun modo intralciare l’arrivo delle navi cariche di
frumento per Antonio; se no, non si spiegherebbe come costui non
facesse nulla per ricuperare l’isola. Insomma tutte queste
operazioni erano solo schermaglie, dimostrazioni, finte per
nascondere al nemico e all’Italia la propria debolezza e paura.
Ma non vince un duello chi fa solo finte e non osa assestare mai un
colpo. Ottaviano avrebbe alla fine provocato con la sua
pavidità il nemico ad assalirlo, se per sua fortuna il vizio
insito nella politica di Antonio, quella contradizione tra lo scopo
vero – la consolidazione dell’impero egiziano, – e lo scopo allegato
a giustificazione – la restaurazione della libertà, – non
avesse sconcertate le operazioni di Antonio in un seguito di assurde
incoerenze, precipitando una catastrofe così strana e
impensata, che nè i contemporanei nè i posteri l’hanno
capita. Cleopatra ricominciava a cercare di distogliere Antonio da
ogni proposito di battaglia, perchè già prima avversa
alla guerra per motivi politici, diventava ora avversa anche per
motivi militari. Poichè Ottaviano si ostinava a restare
chiuso nel campo bisognerebbe ritirarsi verso la Macedonia per
costringerlo a muoversi e a seguirli, e quindi allontanarsi dal mare
per cui comunicavano rapidamente con il lontano Egitto; essa stessa
avrebbe dovuto correre i rischi e tollerare le fatiche delle
numerose marcie e contromarcie che, come nel 48, i due eserciti
farebbero prima di azzuffarsi. Eppoi, la sorte delle battaglie
è sempre incerta: ora, se Antonio ricevesse una sconfitta a
tanta distanza, l’Egitto insorgerebbe, i suoi figli correrebbero
estremo pericolo.
Perciò con la tenacità, la sicurezza, la foga di una
donna ambiziosa e intelligente, di una regina avvezza a credere
sè infallibile e a imporre sempre agli altri e anche ad
Antonio il proprio volere, essa si sforzò di persuadere il
triumviro, ormai molto infiacchito dagli anni e dai vizi, a
ritirarsi in Egitto per mare; sinchè, chi sa con quali
ragionamenti e persuasioni, ci riuscì. Al principio di luglio
pare che Antonio fosse già venuto nel pensiero di
interrompere la guerra e di tornare in Egitto, senza combattere.
Solamente non era possibile dichiarare apertamente la intenzione di
abbandonare l’Italia a Ottaviano, di rinunciare a restaurare la
repubblica, di tradire i senatori romani che per Antonio avevano
abbandonata l’Italia.... L’ingegnosa Cleopatra immaginò
allora un altro imbrogliato accorgimento: nascondere la ritirata in
una battaglia navale. Si caricherebbe una parte dell’esercito sulla
flotta, si manderebbe l’altra a presidiare i luoghi più
importanti della Grecia, si uscirebbe fuori come a dare battaglia
sul mare; e se il nemico si facesse innanzi, si darebbe battaglia
veramente e poi si navigherebbe in Egitto1231. Così la parte
almeno dell’esercito caricata sulle navi – una metà –
verrebbe sicuramente in Egitto: se i contingenti orientali e le
altre legioni, quando fossero abbandonate, si sfasciassero, il danno
non sarebbe gravissimo. D’altra parte – le guerre contro Sesto
Pompeo lo dimostravano – i combattimenti navali non terminavano
quasi mai, se le forze si bilanciavano, con la sconfitta definitiva
dell’uno o dell’altro, perchè lo sbandamento e il panico
erano molto più difficili. Antonio, probabilmente al
principio di luglio, propose quindi ai generali e ai grandi
dell’Oriente di dare battaglia sul mare. Ma questa proposta
inaspettata e singolare fu cagione di grande stupore a tutti.
Domizio Enobarbo, Dellio, Aminta, tutti si domandarono con
inquietudine e sospetto di dove Antonio avesse cavata una idea
così bislacca; perfino Canidio osservò che combattendo
sul mare si sciupavano inutilmente gli uomini. Era evidente: una
vittoria navale non poteva scoraggire a tal segno il nemico, da
disfarne l’esercito; se si voleva finir presto la guerra, occorreva
portare l’esercito in Macedonia per trarsi dietro Ottaviano1232.
Tutti sospettarono subito che anche questa improvvisa proposta fosse
suggerita da Cleopatra; le discussioni si accesero; se non proprio
tutta la verità, qualche sentore delle vere intenzioni di
Cleopatra trapelò, tanto la proposta era assurda; parecchi
subodorarono che la regina volesse combattere sul mare per finire
più presto e presto tornare in Egitto con Antonio, anche
lasciando insolute le gravi difficoltà politiche della
repubblica che questa guerra doveva sciogliere in Italia; la
discordia tra il partito egiziano e il partito romano
ridivampò di nuovo furibonda; delle scenate terribili
avvennero tra Cleopatra e i principali romani, specialmente tra
Cleopatra e Domizio1233. Le cose giunsero a tale che anche Canidio,
il quale aveva persuaso Antonio a condurre seco Cleopatra, ora lo
consigliò di rimandare la regina in Egitto per mare, se
proprio non si sentiva l’animo di continuare la guerra, ma di non
immolare alle sue paure la ragione militare in modo sì
stolto. In pochi giorni il gruppo di uomini eminenti che stavano
attorno ad Antonio fu sconvolto da un furore di discordie, di odii,
di calunnie terribili; in mezzo alle quali Antonio, sentendosi
sospettato e impotente a ricomporre la pace, fu costretto a cedere,
rinunciando a dare battaglia sul mare. Forse per tranquillare i
romani inquieti per la paura del tradimento mandò Dellio e
Aminta in Tracia ad assoldare cavalieri1234. Tanto era vero che
voleva disputare al nemico la vittoria in Epiro! Ma non quietarono
perciò le discordie; anzi durante il mese di luglio si
invelenirono a tal segno che, stanco alla fine della insolenza di
Cleopatra, malsicuro di Antonio che ormai si lasciava in ogni cosa
governare da quella donna, Domizio Enobarbo montò una mattina
in una navicella dicendo di voler fare una gita sul golfo per salute
– aveva le febbri – e invece si recò nel campo di Ottaviano.
Di lì a poco, probabilmente per un motivo non molto diverso,
lo seguì il re di Paflagonia1235. Irritatissimo e stanco
delle interminabili discordie, Antonio pensò di adoperare il
terrore; si diè a spiar tutti e al primo sospetto di
tradimento fece uccidere il senatore Q. Postumio e un reattolo arabo
di nome Jamblico; ma poi si inquietò anche dell’effetto di
queste violenze, temè che Dellio e Aminta non tornassero
più, e per un momento ebbe l’intenzione di tener loro dietro;
poi si contentò di richiamarli1236.
Ma tra queste oscillazioni e incertezze il tempo passava – si era
giunti ai primi di agosto – senza che si facesse nulla, nè in
un campo nè nell’altro. Solo ebbero luogo due scaramuccie di
poca importanza: una sul mare e una di cavalleria1237. Antonio, non
potendo mettere d’accordo Cleopatra e il partito romano, non si
risolveva nè a muovere il campo nè a battagliare sul
mare: Ottaviano informato da Domizio e dagli altri personaggi
dell’intenzione di Antonio di assalirlo con la flotta, raccoglieva
tutte le sue navi nel porto di Comaros, invano aspettando da un
giorno all’altro l’assalto annunciato. Senonchè al principio
di agosto Cleopatra riprese a sollecitare Antonio, incitata dal
nuovo spavento della malaria. Il campo di Antonio era posto in luogo
poco salubre e molti ammalavano per il caldo; onde la regina,
già turbata dai disagi della guerra, fu presa dall’impazienza
di partire al più presto da quel luogo pestilenziale1238.
Resistè probabilmente Antonio, perchè dopo tante
discordie erano cresciuti i pericoli di una così insolita e
ardita operazione: ma incalzava Cleopatra, la quale pare riuscisse
con il denaro a riguadagnare un’altra volta ai suoi disegni Canidio;
e alla fine disperando forse egli stesso di potere mai indurre o
Cleopatra ad accompagnarla nella spedizione all’interno o i
maggiorenti romani a ritornare in Egitto, deliberò di fare
uno sforzo e di imporre al suo esercito e ai suoi alleati i disegni
a cui due mesi prima aveva rinunciato; e senza più consultare
nessuno, il 29 di agosto, diede i primi ordini per la battaglia
navale1239.
Ma questi ordini erano troppo singolari, equivoci, strani; e
risvegliarono negli spiriti acuti il vecchio sospetto, che con la
battaglia navale si volesse dissimulare una ritirata precipitosa in
Egitto e l’abbandono del partito romano. Non si ordinava infatti
soltanto a 22 000 soldati – forse dieci legioni – di salire
sulle centosettanta grandi navi le cui ciurme erano intere1240; ma i
piloti ricevettero con stupore l’ordine di porre a bordo anche le
grandi vele1241, pesanti, ingombranti e carissime. Per qual motivo
portarle a una battaglia che si combatterebbe a qualche miglio dal
golfo? La spiegazione data da Antonio, che egli volesse servirsene a
inseguire i nemici, persuase poco. Anche maggior stupore
destò l’ordine di bruciare le navi che non potevano essere
portate alla battaglia e una parte della flotta egiziana1242. Non
era più prudente di conservare queste navi per sostituirle a
quelle guaste nella battaglia? Tutte queste disposizioni sarebbero
state o assurde inutili, se Antonio intendeva soltanto di dare
battaglia sul mare. Antonio, sentendosi sospettato di nuovo,
tentò il 30 agosto un assalto al campo nemico con qualche
coorte, per mostrare l’intenzione sua di combattere sul serio.
Naturalmente l’assalto fu respinto1243: ma era difficile ingannare
con queste malizie gente astuta e in sospetto, come Dellio e Aminta,
quando nel golfo di Ambracia gli indizii crescevano di numero ogni
ora. Bisognava portar via il tesoro: ma come caricarlo nelle
sessanta navi egiziane senza gridare a tutto l’esercito la propria
intenzione? Nascostamente, di notte, per mano di schiavi fidati, il
tesoro fu portato nelle navi1244. Occorse qualche giorno: per
fortuna il tempo si era certo messo al brutto e una orribile
tempesta infuriava sul mare1245; onde si potè aspettare senza
dar sospetto. Ma di questi furtivi trasporti notturni qualche cosa
certamente si riseppe; e quel poco confermò definitivamente i
sospetti dei più diffidenti. Probabilmente il 31 agosto
Dellio e Aminta si erano formata la persuasione che Antonio voleva
fuggire, cioè che era ammattito; e prevedendo ne seguirebbe
una catastrofe unica, scapparono quel giorno ambedue da Ottaviano:
Dellio da solo1246, Aminta con 2000 cavalieri galati.
Frementes verterunt bis mille equites
Galli canentes Caesarem.1247
Anche i soldati erano malcontenti di combattere sul mare: ma essi
non sospettavano di nulla e, devoti ad Antonio, obbedirono1248.
Frattanto Dellio e Aminta raccontavano nel campo romano quel che
succedeva nel campo di Antonio1249, spiegavano il loro sospetto che
Antonio e Cleopatra si preparassero, non a combattere sul serio, ma
a ritirarsi in Egitto. Che commozione destassero queste notizie non
è difficile immaginare. Il nemico che aveva mosso tanto
apparecchio di armi, di cui essi avevano tanta paura, stava proprio
per abbandonare loro l’Italia e la repubblica? Sarebbe vera quella
inverisimile ritirata? nascondeva una insidia? Innanzi a notizie
così bizzarre e a dubbi così gravi, Ottaviano non si
sentì di deliberare da solo e convocò, probabilmente
il 1° settembre, un consiglio di guerra. Timido come sempre e
poco risicoso, il figlio di Cesare proponeva di lasciar libero il
passo ad Antonio, per mostrare così ai soldati e agli alleati
che veramente fuggiva; e poi ritornando ad Azio invitare l’esercito,
disanimato dall’abbandono del generale, a passar sotto le loro
bandiere. In quelle estreme convulsioni di un mondo agonizzante,
anche le cose più tragiche terminavano in parodia; parodia
diventava questa guerra terribile in cui, dopo aver mosso con tanto
fracasso tanta mole di armi, i due avversari si minacciavano a lungo
allontanandosi l’uno dall’altro e alla fine si accingevano a
voltarsi le spalle e a fuggire ambedue! Ma Agrippa, più
avveduto, dubitò che così facilmente i soldati
abbandonerebbero i vessilli; onde giudicò più
opportuno contrastargli il passo e dargli battaglia. Poichè
Antonio voleva andare in Egitto, non combatterebbe con accanimento e
sul serio; e siccome poi a ogni modo si ritirerebbe dopo la
battaglia, sarebbe loro facile, qualunque fosse la riuscita,
strombazzare in Italia che avevano riportata una grande vittoria e
che lo avevano fatto fuggire in Egitto1250. In nessuna battaglia mai
il rischio era stato sì piccolo, sì grande il
vantaggio. Ottaviano, persuaso da quelle ragioni, si arrese al
consiglio del suo luogotenente, ordinò il 1° settembre ad
otto legioni e cinque coorti pretorie1251 di montare sulle navi.
Alla sera il mare si calmò; i preparativi parevano finiti....
Tutto indicava che lo scontro avverrebbe il giorno dopo. E difatti
al mattino del 2 settembre Agrippa si allargò in mare sul
tranquillo Adriatico, andò ad appostarsi all’erta e pronto, a
circa un chilometro dall’uscita del canale, dividendo la sua flotta
in tre squadre: un’ala sinistra al suo comando, il centro al comando
di L. Arrunzio, la ala destra al comando di M. Lurio e di Ottaviano.
Solo verso mezzodì le grandi navi turrite di Antonio
incominciarono a uscire dal golfo, si allinearono, si disposero esse
pure in triplice ordine: a sinistra contro Lurio C. Sosio, di
fronte, contro Arrunzio, Marco Insteio e un certo Marco Ottavio, a
destra, contro Agrippa, Antonio e L. Gellio. Dietro, al centro,
uscirono le sessanta navi di Cleopatra, al comando della regina.
Quale intesa era corsa tra Antonio e Cleopatra? Pur troppo noi non
lo sappiamo; ma a giudicare dagli eventi, è verisimile che la
regina, esasperata dalle interminabili lotte e impaziente di
ritornare nel suo regno a ogni costo, temendo che qualche accidente
potesse ancora trattenerlo, persuadesse all’ultimo momento
l’infiacchito generale a fuggire con lei appena si leverebbe il
vento del nord, che ogni giorno soffia su quel mare nel pomeriggio.
Essa ne avrebbe dato il segnale, muovendo la sua piccola flotta,
anche se la armata romana fosse ancora impegnata nella battaglia;
Antonio salterebbe dalla sua nave in una quinqueremi preparata
apposta e la seguirebbe; Canidio, che conosceva il loro disegno e a
cui fu affidato l’esercito rimanente con l’incarico di portarlo in
Grecia e farlo passare in Asia, darebbe alla flotta restata indietro
l’ordine di seguirli. Si trattava solo di precedere di qualche ora
il grosso dell’armata! Anzi, per essere sicura di lui, essa pose
sulla nave ammiraglia, a fianco di Antonio, Alessi di Laodicea,
certo con l’incarico di indurlo a saltare nella quinqueremi, se nel
momento supremo esitasse.... Comunque sia, dopo un breve indugio, la
sinistra di Antonio, spinta da una breve brezza, si avventò
contro il nemico, Agrippa tentò di avvolgerne la destra,
tutta la armata di Antonio si mosse; e in breve le due flotte si
azzuffarono al largo. Come quelli di Sesto nella battaglia di
Milazzo, i veloci incrociatori di Ottaviano volteggiavano intorno
alle alte navi turrite di Antonio tentando di rompere loro i remi e
il timone, fuggendo via prestamente la grandine di sassi e saette
che le macchine lanciavano dai ponti pesanti; cercavano di dar loro
dei colpi ai fianchi, sfuggendo ai raffi e arpioni di ferro che gli
altri lanciavano per incatenarle e sfondarle: dardi, fiaccole, sassi
volavan per l’aria; si combatteva con vigore da tutte le parti,
mentre Cleopatra, fremente ed ansiosa, guardava questa battaglia
insensata, in cui tanti Romani perivano per salvare a lei il suo
regno d’Egitto.... Pure i soldati di Antonio combattevano
valorosamente per fedeltà al generale; e forse avrebbero
vinto, certo avrebbero potuto alla sera ritirarsi nel porto, dopo
aver inflitto danni al nemico non minori di quelli ricevuti, quando
a un tratto Cleopatra, levatosi il vento aspettato, ordinò di
aprir le vele e a vele spiegate, arditamente, passò in mezzo
alle flotte combattenti e filò verso il Peloponneso. Antonio
saltò allora nella quinqueremi e le corse dietro1252.
Grande fu lo stupore fra tutti i combattenti a questo improvviso
evento: ma nella flotta di Antonio ben pochi si accorsero della fuga
del generale; onde la battaglia continuò accanita con
reciproche offese, senza esito definitivo, sicchè al cadere
del sole le navi di Antonio si ricondussero nel golfo da loro, una
dopo l’altra, e perciò un poco in disordine. Ottaviano, non
rendendosi conto precisamente di quello che era avvenuto, temendo
qualche sorpresa e qualche fuga nelle tenebre, restò la notte
con la flotta sul mare e dormì a bordo della sua nave1253.
Solo il giorno dopo egli invitò la flotta e l’esercito di
Antonio ad arrendersi, significando loro che Antonio era fuggito e
che quindi essi non avevano più motivo di combattere1254. Ma
sebbene le dicerie sulla scomparsa di Antonio già corressero
nel campo, sebbene il generale non comparisse, i soldati erano
troppo fermi nell’opinione che Antonio non poteva essersi
allontanato se non per poco tempo e per qualche serio motivo, e che
presto ritornerebbe; onde non soltanto gli inviti di Ottaviano
restarono vani, ma Canidio non osò manifestare gli ordini
lasciatigli da Antonio, e comandare alla flotta di forzare il
passaggio e di andare in Egitto. Se il partito egiziano aveva potuto
spadroneggiare nella tenda del generale, il partito romano era
signore dell’esercito per mezzo degli ufficiali; e questa discordia
tra il braccio e la testa produsse ora, improvvisamente, i suoi
effetti terribili, Canidio non osò svelare che il generale
era davvero fuggito in Egitto, temendo che o lo sdegno rivolterebbe
i soldati o che lo scoraggiamento li prostrerebbe o che non
crederebbero nemmeno a lui1255. Passò un giorno; qualche
senatore romano o qualche principe orientale, intravedendo il vero,
fuggì1256; ne passaron due, tre: i soldati non si muovevano,
Canidio non sapeva che fare; Ottaviano, disperando di far ribellare
l’esercito, per un momento pensò di inseguire Antonio1257. Ma
era già tanto lontano! Allorchè il quarto e il quinto
e il sesto giorno nè Antonio comparve nè giunsero sue
notizie, la fiducia degli eserciti incominciò a vacillare; le
diserzioni dei Romani autorevoli e dei principi orientali con i loro
contingenti diventarono più numerose1258. Tuttavia non
cedevano ancora i legionari: Antonio presto ricomparirebbe tra i
suoi fedeli soldati! Ma le voci della fuga si confermavano,
ingrandivano; i contingenti alleati partivano ormai
precipitosamente, come in una rotta; al settimo giorno anche Canidio
non sapendo a che risolversi fuggì e allora l’animo dei
soldati cadde. Una parte si disperse in Macedonia, una parte si
arrese, con la flotta1259.
Il 9 settembre e non il 2, quando diciannove legioni, più di
10 000 cavalieri e una flotta, si furono o arresi o dispersi,
Ottaviano ebbe vinta davvero la battaglia d’Azio. E l’ebbe vinta
senza quasi aver combattuto. Antonio soccombè in questo
duello supremo, non per il valore dell’avversario, non per i suoi
errori strategici o tattici; ma per le insolubili contradizioni
della sua doppia politica, egiziana e monarchica di fatto,
repubblicana e romana di apparenza.
XXII.
LA CADUTA DELL’EGITTO.
Ma in principio nè Antonio nè Ottaviano capirono la
gravità degli eventi successi ad Azio. Partito a malincuore,
come chi sa di commettere un gravissimo errore, Antonio aveva
navigato per tre giorni con Cleopatra sino al Capo Tenaro, dove si
era fermato e aveva apprese le vaghe poco precise notizie già
portate dalla voce pubblica: secondo le quali la flotta sarebbe
stata distrutta, ma l’esercito si conservava integro e pronto.
Antonio spedì subito dei messaggi a Canidio, sollecitandolo a
trasportare l’esercito in Asia1260; e riprese a navigare verso
Alessandria. Ottaviano a sua volta, nemmeno dopo la resa delle
legioni nemiche, osava quello che Cesare aveva fatto dopo Farsaglia:
sfruttare subito la notizia della vittoria e slanciarsi ad inseguire
il nemico. Antonio si era tante volte salvato da pericoli tremendi,
era ancora così possente e ammirato: poteva Ottaviano
considerare come definitiva la vittoria di Azio, riportata in modo
così singolare e quasi senza combattere? Del resto troppe
cure lo trattenevano in Grecia: in special modo la mancanza di
denaro cresciuta a tanto da fargli contrarre dei prestiti perfino
con i suoi tribuni militum; e che convertiva in un grave impaccio
anche la resa delle diciannove legioni di Antonio. Con quale denaro
pagarle, quando non ne aveva nemmeno per le sue? Ma intanto le
notizie della battaglia navale, dell’esercito arresosi, della fuga
di Antonio – i tre fatti insieme facevano credere facilmente a una
straordinaria vittoria di Ottaviano – si divulgavano in Europa ed in
Asia, mutando repentinamente la disposizione di tutti gli spiriti.
Il primo effetto fu in Grecia, che era la regione più vicina.
Tutte le città che avevano prima adulato Antonio e Cleopatra
si arresero senza combattere, tranne Corinto che fu espugnata da
Agrippa1261; e non ostante la immancabile contribuzione che fu loro
imposta, innalzarono statue, deliberarono decreti onorifici per
Ottaviano1262, spiarono, denunciarono, catturarono, in un furore di
odio servile per il vincitore, i partigiani di Antonio. Nasceva
così una nuova difficoltà per Ottaviano. Antonio e i
suoi partigiani non erano stati dichiarati nemici pubblici e
l’imperium attribuito dalla conjuratio a Ottaviano valeva solo per
gli Italiani e per i suoi soldati. Ma dopo la vittoria l’irritazione
per il pericolo corso, che covava nei maggiorenti del partito
vittorioso, volle vendetta; cosicchè Ottaviano, che avrebbe
inclinato a moderazione, fu costretto dagli odii e dalle ire della
sua gente a fare un nuovo macello1263, ma a malincuore,
saltuariamente, oscillando da un giorno all’altro con giudizi
capricciosi, in cui la vita o la morte dipendevano spesso da un
accidente fortunato, da un ritardo di ore, da un nonnulla. Non pochi
furono condannati a morte, tra gli altri il figlio di Curione, a cui
essere figlio dell’amico di Cesare mutò in delitto l’aver
seguito il patrigno1264. Intanto dalla Grecia la notizia giungeva in
Asia; la ricca provincia, sgombra di soldati, già sentendosi
in potere di Ottaviano, si dispose pure a onorarlo con decreti e
statue, a domandargli protezione ed aiuto; dei sovrani asiatici che
dal golfo di Ambracia erano in viaggio per le loro case, già
molti cercavano di avviar trattative con il vincitore1265. Di bocca
in bocca la notizia si espandeva, giungendo infine anche ad
Alessandria, dove nella seconda metà di ottobre la
portò lo stesso Canidio1266. Incoraggiato da questo movimento
degli spiriti a suo favore, Ottaviano si risolvè a tentare
una cosa ardita: congedar tutti i soldati che avevano compiuto gli
anni del servizio, senza dar loro nessuna ricompensa. Difatti in
ottobre e in novembre rinviò grandi torme di soldati in
Italia1267, facendoli accompagnare non solo da Mecenate ma anche da
Agrippa1268. Ma rimaneva in Grecia incerto sul partito a cui
appigliarsi, perdendo il tempo a farsi iniziare ai misteri di
Eleusi; e mentre Antonio giungeva ad Alessandria, non si risolveva
nè a mantenere le promesse fatte durante l’agitazione per la
coniuratio e a guerreggiare a fondo contro Antonio e Cleopatra,
nè a cercare ancora una volta di intendersi con Antonio.
Ma alle esitazioni dell’incerto vincitore venne ben presto a fare
violenza una forza esteriore: la opinione pubblica dell’Italia,
nella quale la battaglia d’Azio fece a un tratto un imprevedibile e
smisurato rivolgimento. L’Italia aveva seguita quella lenta guerra,
ruminando dentro sè rabbiosamente i suoi rammarichi
innumerevoli ed inutili. Si poteva nutrire ancora alcuna speranza?
Invece della promessa restaurazione della repubblica, si aveva il
più disordinato e confuso governo di due fazioni in guerra
tra loro senza nemmeno più una parvenza di giustificazione
legale; tutti, i membri e i capi delle fazioni non esclusi, erano
scontenti di questo stato di cose, eppure l’Italia non aveva mezzo o
forza per imporre il suo malcontento e finire il disordine; intanto
il prestigio di Roma era così scaduto, che in Oriente
succedevano qua e là dei piccoli eccidi di Italiani, e la
condizione economica dell’Italia era non meno cattiva della
condizione morale e politica. La decennale diarchia, che l’aveva
separata dalle provincie ricche e civili dell’Asia, faceva soffrire
troppo l’Italia e le rendeva ancor più aspro quel
riordinamento delle fortune, che da dieci anni avveniva; il governo
triumvirale aveva esaurito non solo tutto l’impero ma anche la
pazienza dell’Italia, indebitandosi con un infinito numero di
persone, dovendo arretrati ai soldati, agli appaltatori, ai
fornitori; l’erario era vuoto. Eppure occorrevano immense somme per
provvedere ai servizi pubblici spaventosamente negletti; e
l’interesse del denaro era carissimo. Che l’Italia avrebbe sfogato
questi sordi rancori sopra quello dei due rivali che soccomberebbe,
come sopra l’autore di tutti i mali lamentati, era cosa facile a
prevedersi; ma nessuno forse aveva previsto che dopo Azio tutta
l’Italia insorgerebbe con tanto furore contro Antonio, il quale sino
al dì precedente era stato il favorito tra i due rivali.
Antonio aveva troppo abusato della sua fortuna e potenza; aveva con
la sua politica orientale troppo spensieratamente offeso l’orgoglio
nazionale e recato troppo nocumento agli interessi dell’Italia; se,
sinchè parve il più potente, quasi nessuno osò
muovere lamento, appena la fortuna si accinse ad abbandonarlo, egli
pagò in un attimo il fio di tutto. L’Italia sfogò su
lui tutti i sentimenti buoni e malvagi che l’agitavano: il bisogno
di odiare qualcuno come causa delle proprie sventure, la fretta
servile di adulare il vincitore, il desiderio sincero di ricomporre
la unità dell’impero, di restaurare la repubblica e il
prestigio di Roma nel mondo, di ritornare al vero costume latino; la
speranza che, unito di nuovo l’impero, quando i tributi dell’Oriente
rifluirebbero di nuovo in Italia, tutti in Italia sarebbero
sollevati da ogni imposta come in passato, lo stato riprenderebbe
con l’oro asiatico i lavori pubblici, i ricchi senatori e cavalieri
ritornerebbero ad abitare in Italia e farebbero riprosperare il
commercio e gli studi. Tutti ripeterono allora con sdegno le accuse
che la cricca di Ottaviano si era per tanto tempo ed invano
affaticata a divulgare; detestarono i costumi e gli atti di Antonio
come indegni di un Romano; credettero a tutte le calunnie sparse dai
suoi nemici su lui, su Cleopatra, sui loro rapporti, sulle loro
intenzioni parricide. In pochi giorni, per contagio, l’adulato
triumviro diventò un grande traditore della causa nazionale.
Anche Orazio finalmente uscì dal suo riserbo e nell’Epodo
nono celebrò la vittoria di Ottaviano su quel “condottiero di
schiavi” lamentando di aver dovuto assistere all’incredibile
scandalo di soldati romani obbedienti al cenno di una regina e ai
comandi di eunuchi rugosi, quando persino i duemila Galati di Aminta
avevano alla fine sdegnato tanto servaggio. A Roma si decretò
a Ottaviano il trionfo, un arco onorario a Brindisi, un arco
trionfale nel Foro; si deliberò che il tempio del Divo Giulio
sarebbe adornato con i rostri delle navi catturate, che si
celebrerebbero dei giuochi quinquennali a ricordo della battaglia,
che nel giorno natalizio di Ottaviano e in quello in cui era giunta
la notizia della vittoria si farebbero supplicazioni; che al suo
ingresso in Roma, le Vestali, il Senato, il popolo gli andrebbero
incontro; che il giorno natalizio di Antonio fosse considerato
nefasto e che si proibisse a tutti i membri della famiglia degli
Antonii di portare il nome di Marco1269. La conquista e l’annessione
dell’Egitto, lo spodestamento di Cleopatra furono universalmente
domandati come una soddisfazione e una vendetta necessaria.
Ottaviano, che da un pezzo desiderava una occasione per acquistare
definitivamente la popolarità invano sino allora sospirata,
capì che il momento era giunto, che la guerra a fondo contro
l’Egitto e contro Antonio gli sarebbe fonte di grandissima gloria; e
non esitò a immolare l’uno e l’altro. Sul cadere dell’anno,
dopo avere conosciuto questo grande rivolgimento della pubblica
opinione d’Italia, andò in Asia dove pensava di passar
l’inverno a preparare la conquista dell’Egitto.
La potenza di Antonio rassomigliava a un superbo edificio, che un
terremoto improvviso abbia spaccato di larghe fenditure. Ma
l’edificio non era ancora caduto. Antonio aveva undici legioni, una
flotta, un tesoro, degli amici, delle speranze, sopratutto del
tempo.
Se Antonio avesse potuto operare con il vigore mostrato dopo la
sconfitta di Modena, si sarebbe forse ancora tratto a salvamento. Ma
in Alessandria tutti, Cleopatra, i funzionari della corte, i
liberti, gli amici romani, gli ufficiali delle legioni, erano pieni
di spavento, incerti, irrequieti, poco sicuri, volubili. Apparivano
ora, nella sventura, gli effetti funesti di quelle contradizioni, in
cui Antonio si era così spensieratamente avventurato negli
anni della fortuna; nelle cose incominciava la reazione alla
violenza da lui usata così audacemente alla ragione logica
delle cose. Egli si trovava a non avere più sui soldati,
sugli ufficiali, sulla corte nè il prestigio di un proconsole
romano nè l’autorità di un re egiziano; ad essere un
personaggio incerto, che aggiungendo a questa debolezza
l’infiacchimento dell’età e dei vizi, non poteva agire che
incertamente. Erode era corso ad Alessandria, aveva parlato a lungo
con Antonio e gli aveva dato un consiglio atroce ma eccellente:
uccidere Cleopatra, annettere all’impero di Roma l’Egitto,
sbugiardare i nemici i quali l’accusavano di tradire la repubblica
per la regina egiziana: allora, l’ammirazione dell’Italia
rinascerebbe, Ottaviano sarebbe costretto a sospendere la guerra e
ad accordarsi con lui1270. Ma Antonio non ebbe il cuore di seguire
questo consiglio, restò fedele a Cleopatra, e d’accordo con
lei pensò di difendere l’Egitto; senza però
appigliarsi a nessun piano definitivo, confusamente, come si poteva
in una corte governata da una donna intelligente ma eccitabilissima,
da un uomo ormai tanto indebolito; facendo oggi una cosa e domani la
cosa contraria; immaginando i più stravaganti disegni;
generando il più grande disordine e diffondendo così
dintorno la sfiducia, anche in coloro che ancora credevano in
Antonio e Cleopatra. Alla fine tutti incominciavano a vedere la
stranezza di quella coppia. Erano re e regina? Marito e moglie? Per
indebolire l’opposizione rianimata dalla sventura e arricchire il
tesoro di guerra, essi fecero uccidere i personaggi più
ricchi e più avversi a Cleopatra; spogliarono i templi
più doviziosi e ne portarono l’oro e l’argento nella reggia;
dichiararono maggiorenni Cesarione e Antillo, il figlio di Antonio e
di Fulvia, per indicarli come i re, e rinfocolare il sentimento
dinastico del popolo egiziano, che si disperava di riscaldare per
Antonio e Cleopatra; incominciarono a costruire navi in Alessandria
e nel Mar Rosso, per prepararsi a fuggire con i tesori, chi diceva
in India e chi in Spagna; ordinarono arruolamenti per varie regioni
e mandarono ambascerie a re e a sovrani, per riconfermare le antiche
alleanze1271. Ma non si risolvettero a raccogliere in Egitto tutte
le forze, le quattro legioni di Cirene e le tre di Siria, che furono
lasciate là dove erano per timore che anche quei paesi
passassero al nemico, e che svanisse così l’ultima apparenza
del grande impero egiziano, a cui Cleopatra non sapeva
rinunciare....
[30 a. C.] Così l’inverno dal 31 al 30 sopraggiunse a
interrompere la navigazione, senza che la guerra tra l’Egitto e Roma
fosse incominciata. Era tra i consoli scelti per questo anno Marco
Licinio Crasso, il figlio del triumviro. Ad Alessandria
incominciò, come al solito, un gran tripudio di feste,
Cleopatra e la corte volendo ostentare a questo modo sicurezza e
tranquillare il popolo1272. Ma lo scoraggiamento era profondo e si
faceva in tutti maggiore, quanto più Cleopatra si
affaccendava febrilmente, accrescendo con la sua faragginosa
alacrità la confusione; e ne erano prova perfino le lugubri
facezie della frivola gioventù della corte, che, quasi
sentendo passare in mezzo alle feste un presentimento di rovina
imminente, aveva mutato il nome della Società degli
Inimitabili in quello dei Morituri in compagnia1273. Anche Antonio
ondeggiava tra accessi di fervore operoso, in cui attendeva a feste
ad armi a brighe, e prostrazioni neghittose, in cui si appartava in
luoghi solitari abbandonando ogni cura1274. Ottaviano intanto, tra
Samo e le città asiatiche della costa1275, continuava i
giudizi dei prigionieri, assestava le faccende dell’Asia, come di
provincie ormai sue, preparava la guerra all’Egitto, per dare
soddisfazione all’Itafia. Caio Sossio fu perdonato, per
l’intercessione di Lucio Arrunzio1276; Aminta e Archelao ricevettero
la ricompensa meritata passando a tempo al vincitore; ma gli altri
principotti che avevano parteggiato per Antonio furono tutti
spodestati.1277 L’Italia li considerava come rei di lesa
romanità; e dovevano essere puniti. Ma tra queste
deliberazioni ecco giungere in Asia, poco dopo il 1° gennaio del
30, una piccola nave che aveva osato varcare il mare in quei mesi di
inverno, quando i marinai solevano ridursi tutti intorno al fuoco
domestico nelle piccole case delle piccole città marinare.
Quale urgenza sollecitava così la nave attraverso il mare
tempestoso e deserto? Essa portava lettere di Agrippa e di Mecenate,
nelle quali si annunciava che i soldati congedati senza ricompensa
empivano di tumulti l’Italia e minacciavano i più gravi
disordini, se non erano trattati come i commilitoni dei precedenti
congedi; che neppure Agrippa era riuscito a calmarli; che era
perciò necessario il pronto ritorno di Ottaviano in
persona1278. Fu questo, senza dubbio, l’ultimo grande spavento di
Ottaviano. Il pericolo era gravissimo: se Antonio conoscesse questa
notizia ripiglierebbe animo, manderebbe in Italia agenti ad
arruolare i veterani disperati, tenterebbe chi sa quale audacia. E
lo spavento fu così grande che, spedita innanzi una nave con
una lettera in cui ordinava di far venire il maggior numero di
veterani a Brindisi, Ottaviano si imbarcò subito,
affrontò il viaggio invernale, considerato allora come una
delle imprese più temerarie; e pericolando un paio di volte
di naufragare, arrivò verso la fine di gennaio1279 a
Brindisi, dove lo aspettavano innumerevoli senatori, cavalieri,
postulanti, venuti da ogni parte a fargli omaggio e a disturbarlo
nelle sue trattative1280, di per sè già molto
difficili. Egli si persuase senza indugio che bisognava cedere e
dare terre e denari ai veterani: ma quali terre e quali denari, se
non aveva nè le une nè gli altri? Ricorrere a nuove
confische egli non voleva e non poteva, ora che intorno a lui anche
tanti rivoluzionari, satollatisi, erano diventati conservatori
amanti dell’ordine. E bisognava far presto, definire la questione,
ritornare in Asia prima che con le navi riprendessero a circolare le
notizie, affinchè quando Antonio conoscesse questo tumulto,
il tumulto già fosse quetato.... Egli promise denari a tutti
e dispose di comprare dai municipi gran parte delle loro
proprietà, quelli che oggi si chiamerebbero i demani
comunali; di togliere alle città che non avevano preso parte
alla conjuratio – quelle cioè nei cui territori erano stati
dedotti molti soldati di Antonio – le terre, dando in cambio ai
possidenti spogliati terre in città mezzo abbandonate fuori
d’Italia, come Durazzo e Filippi. Ma tutte queste somme sarebbero
pagate e queste promesse mantenute.... dopo la conquista dell’Egitto
e con i tesori di Cleopatra. Per incoraggiare gli Italiani alla
pazienza, egli distribuì qualche anticipazione, spremendo
sè stesso e gli amici; e mise in vendita le sue terre di
Italia e quelle dei suoi amici, che del resto nessuno si
presentò a comprare1281.
Poi ripartì alla fine di febbraio alla volta dell’Asia; e per
fare presto, invece di circumnaviare la Grecia, fece portare le navi
attraverso l’istmo di Corinto su carri1282. Riusci così a
ritornare in Asia poco dopo la riapertura della navigazione e a
tempo, affinchè Antonio potesse trarre poco o nessun profitto
da queste notizie, che gli giunsero tutte insieme o a breve
distanza1283. E subito sì accinse all’impresa di Egitto,
così risoluto quanto l’avversario era incerto, perchè
ormai lo sospingeva diritto al suo scopo l’opinione dell’Italia, il
suo desiderio di conquistare il favore pubblico, la
necessità. La conquista dell’Egitto era ormai necessaria,
ancora più che per considerazioni politiche, per
considerazioni finanziarie; perchè era il solo modo di
impedire il tremendo fallimento di Ottaviano e del suo partito, che
avrebbe tratto con sè il fallimento della repubblica e di
mezza Italia. Ai tanti debiti già contratti si era aggiunto
il nuovo debito con le città d’Italia cui gli agenti di
Ottaviano prendevano le terre promettendo di pagarle; l’impegno con
i numerosi veterani che si acconciavano a ritornare alle case loro a
mani vuote, ma facendo sicuro assegnamento sulle somme promesse da
Ottaviano. In simili condizioni, se Antonio, già vinto a
metà, si ostinava a difendere Cleopatra, l’Egitto e i suoi
tesori contro il generale che si avvicinava per pagare con quelli
ancora una volta i debiti dell’Italia, era sicuramente perduto.
Anche per questa ragione il consiglio di Erode era buono. Ma tanto
maggiormente Ottaviano doveva essere inquieto, per le diverse
dicerie che correvano nella primavera del 30: Cleopatra voleva
trafugare nel Mar Rosso i suoi tesori; li aveva raccolti nella
grande tomba erettasi presso il tempio di Iside per bruciar tutto,
se la città era presa1284. Aveva ordinato a Cornelio Gallo di
marciare contro Cirene, ed egli si avviava contro la Siria: ma
vincere non bastava; occorreva non perdere la preda della vittoria,
cómpito forse più difficile del vincere Antonio, che
tra le continue oscillazioni della corte di Alessandria non riusciva
a operare con vigore e coerenza. In Africa, abbandonate a loro
stesse senza fiducia e senza un vigoroso comando, le quattro legioni
di Cirene si arresero senza combattere; cosicchè Cornelio
Gallo, aggiuntele alle sue, potè muovere su Paretonio e
prenderlo1285. In Asia Erode, oramai sfiduciato della causa di
Antonio per la ostinazione di costui a non abbandonare Cleopatra,
venne incontro a Ottaviano in Rodi; e con bei discorsi, con grandi
doni di denaro, con l’offerta di aiuti e di vettovaglie per la
prossima guerra, riuscì a conservare il regno1286. Anche la
Siria cadde facilmente in potere di Ottaviano, perchè il
governatore Didio passò ai suoi servizi e si accinse a
mostrargli il suo zelo, persuadendo gli Arabi a bruciare la flotta
che Cleopatra faceva fabbricare nel Mar Rosso per trafugare i
tesori1287. Nel tempo stesso però incominciavano strane
trattative. Antonio all’annunzio del tradimento dell’esercito di
Cirene aveva voluto uccidersi; ma poi, ripreso animo, si era
disposto ad andare a Paretonio per cercare di ricondurre alla
fedeltà i soldati, e aveva mandato delle ambascerie a
Ottaviano a proporgli la pace e a offrirgli dei doni, per guadagnare
tempo, finchè potesse tornare ad Alessandria1288. Altre
ambasciate consimili mandò pure Cleopatra. Ma Ottaviano,
invece di rispondere chiaramente, inviò un suo liberto,
Tirso, con l’incarico di far capire a Cleopatra che egli era
innamorato di lei e che sarebbe disposto a lasciarle l’Egitto, se
ella acconsentisse ad uccidere Antonio1289. Non ostante il furore
dell’Italia, Antonio non era uno dei tanti senatori dozzinali, che
ogni giorno erano dati a sgozzare ai soldati: se Antonio avesse
potuto sparire come Pompeo, senza che egli fosse l’autore della sua
morte, sarebbe stato molto meglio anche per lui! Riuscendo a
ingannare Cleopatra, egli si liberava di Antonio senza odio, avrebbe
trovati intatti ad Alessandria i tesori dell’Egitto e potuto anche
atteggiarsi a vendicator di Antonio, facendo poi uccidere pel suo
delitto Cleopatra. Andavano e venivano così i messi furtivi e
le ambascerie dissimulate; e mentre Antonio combatteva con poca
fortuna a Paretonio senza riuscire a guadagnare i soldati, anzi
perdendo una parte delle navi, Cleopatra prestò orecchio alle
perfide menzogne di Ottaviano; incominciò, vedendo il suo
impero precipitare in rovina, a illudersi di conservare almeno
l’Egitto, tradendo Antonio per Ottaviano. La sorte di Antonio era
ormai decisa. Ritornando da Paretonio, egli sospettò per
più segni il mutamento di Cleopatra; ma la scaltra regina
seppe addormentare i sospetti del semplice romano. Di lì a
poco però Ottaviano essendo giunto a Pelusio, la città
cadde in suo potere senza quasi opporre resistenza. Antonio
tornò a sospettare che Cleopatra avesse dato ordine di
consegnarlo al nemico; di nuovo Cleopatra trovò modo di
rasserenarlo1290; cosicchè, Ottaviano avvicinandosi, egli si
accinse con ardore a difendere Alessandria, aiutato in apparenza da
Cleopatra, che emanò un gran numero di editti calorosi. Gli
episodi e la storia della difesa sono raccontati molto confusamente
dagli antichi scrittori; ma questo solo è sicuro, che il
1° agosto doveva aver luogo una grande battaglia intorno ad
Alessandria; che al momento supremo le milizie e la armata di
Antonio tradirono, a quanto sembra per segreto ordine di Cleopatra;
che la regina, temendo la ira del tradito, fuggì nella sua
tomba; e che Antonio, considerando la sua causa perduta, si uccise.
Quel giorno stesso Ottaviano entrava in Alessandria accompagnato dal
suo maestro Didimo Areo, che era alessandrino1291. All’ultima
vittoria seguì ancora un macello, l’ultimo, grazie al cielo,
di questa sanguinosissima storia! Furono uccisi dal vincitore
Cesarione, Antillo, il figlio maggiore di Antonio e di Fulvia, che
era troppo adulto e aveva gustato gli onori reali; fu ucciso
Canidio, che conosceva il segreto della vittoria di Azio; Cassio
Parmense, l’ultimo dei congiurati ancora vivo; e Q. Ovinio, il
senatore che aveva accettato l’ufficio di capo delle tessiture reali
ad Alessandria1292.
Così morì l’ultimo e il più celebre dei
generali di Cesare. La posterità, sempre spietata con i
vinti, l’ha giudicato troppo severamente. Marco Antonio ebbe molti
difetti e commise molti errori; ma deve essere giudicato come il
vero continuatore ed erede di Cesare. Egli ne conobbe gli ultimi
pensieri, ne possedè le carte più importanti,
tentò di applicare i disegni ideati dal dittatore
nell’estrema parte della vita, spingendo Roma verso l’Oriente e la
civiltà asiatica, tentando di adoperare le forze dell’Italia
alla fondazione di una grande monarchia, simile a quelle dei
successori di Alessandro. Che con il suo temperamento ineguale e
sensuale, con il suo spirito potente ma inconseguente, con la
inconcludenza geniale che isteriliva quasi ogni suo atto, egli abbia
sciupato in parte il programma di Cesare, è indubitabile. Ma
non può considerarsi effetto di un accidente che il tentativo
orientale e monarchico, due volte intrapreso, sia due volte fallito
e con Cesare e con Antonio. Se Antonio non era un uomo di
così vasta mente come Cesare, ebbe anche a vincere ostacoli
minori; non si trovò più di fronte una aristocrazia
repubblicana potente e tenace nelle sue idee, ma un mondo politico
oscuro, senza autorità, docile a subire il potere di chi
comandava, incapace del sacrificio con cui dalle idi di marzo a
Filippi il fiore di Roma sparse il suo sangue per la idea
repubblicana. Nemmeno lo spavento della dominazione egiziana,
agitato da Ottaviano, aveva commosso l’Italia, cosicchè ad
Azio il suo nemico vinse quasi senza combattere. Non dunque soltanto
dagli errori, dalle sventure, dalle debolezze degli uomini che
tentarono questa rivoluzione procede la rovina di Cesare e di
Antonio; ma anche dalla immaturità del tentativo, dagli
impedimenti che ancora esistevano: così numerosi, che non
potevano essere vinti in pochi anni dalla forza di un uomo;
così oscuri che non potevano essere scoperti neppure da un
uomo di genio, nel tumulto confuso degli eventi, prima che la
necessità persuadesse tutti con la prova e la riprova dei
fatti. Così la roccia su cui Antonio aveva voluto poggiare la
leva per rovesciare le antiche istituzioni latine, il regno di
Egitto, si sfasciò come un blocco di creta friabile. Da
principio Cleopatra trattò dal suo ricovero, per ottenere
migliori condizioni, minacciando di bruciare i tesori. Ma Ottaviano
riuscì a farla ritornare nel palazzo reale togliendole tutti
i mezzi di nuocersi, e ve la fece custodire quasi come prigioniera,
tenendola a bada con discorsi ambigui, per imbarcarla d’improvviso e
portarla a Roma al trionfo. Cleopatra però diffidava; e se si
acconciò a vivere finchè conservò la speranza
di salvare qualche parte del suo potere, quando invece fu persuasa
che il vincitore la destinava al trionfo, fu più scaltra dei
suoi carcerieri. Un giorno il liberto incaricato di sorvegliarla
ricevè da lei una lettera destinata ad Ottaviano, – una delle
tante lettere che essa gli scriveva, pensò il servo
avviandosi. Ma quando Ottaviano, letta la lettera, corse in gran
fretta a salvare la sua preda, che le annunciava di uccidersi, la
trovò sul letto adorna della sua più bella veste di
regina, addormentata per sempre, tra uno schiavo già spirato
e uno schiavo agonizzante. Non si seppe mai come si fosse uccisa.
Facendosi mordere il braccio da serpentelli velenosi, mandati a lei
in un paniere di frutta, si narrò; e fu la versione
più creduta1293.
Anche l’ultimo avanzo dell’impero di Alessandro, il regno antico e
glorioso dei Tolomei, era caduto. Dopo Pergamo, dopo Antiochia,
Alessandria. La politica mondiale romana, incominciata al finire
della seconda guerra punica, aveva riportato il suo ultimo grande
trionfo: dopo centosettanta anni nell’anello mediterraneo era
incastonata la gemma egiziana. Il paese non fu maltrattato; anzi il
vincitore ebbe riguardo all’orgoglio nazionale e alla secolare
tradizione dinastica, ancora così viva nel popolo; e non
ridusse la terra dei Faraoni a provincia romana. Imitando in misura
più ragionevole la politica di Antonio, mentre diceva a Roma
di aver conquistato l’Egitto per lei, finse di essere egli il nuovo
re dell’Egitto, successore della dinastia estinta; e pose a
governarlo non un propretore o un proconsole, ma un rappresentante
suo, il praefectus – il primo fu Cornelio Gallo – che rassomigliava
molto più a un governatore asiatico che a un proconsole
romano1294. Ma tutti i cittadini dovettero pagare una imposta eguale
al sesto dei loro beni; altre somme furono estorte con diversi
pretesti ai ricchi; l’immenso tesoro dei Lagidi, l’infinita
collezione di oggetti d’oro e d’argento finamente lavorati e
cesellati, tutto il museo fabbricato in due secoli dagli
innumerevoli Cellini dell’Oriente fu brutalmente gettato nelle
fornaci della zecca, fuso e coniato1295. Troppa fame d’oro dopo i
lunghi digiuni avevano gli ufficiali che furono subito ricompensati
con grandi somme, i soldati che furono finalmente pagati, l’Italia
che aspettava una pioggia d’oro sulla lunga siccità!1296
Nunc est bibendum, nunc pede libero
Pulsanda tellus....
cantò lieto Orazio, ormai pienamente convertito
all’ammirazione di Ottaviano, ripetendo a gloria del vincitore la
favola delle ambizioni di Cleopatra, descrivendo la regina che
Capitolio
.... dementes ruinas
Funus et imperio parabat
Contaminato cum grege turpium
Morbo
virorum....
Se non l’impero e Roma, almeno la sua villetta sabina era stata
salvata dalla battaglia di Azio, onde egli d’ora innanzi potrebbe
scrivere in pace le sue odi e le sue epistole: se non le catene
egiziane di cui nessuno la aveva minacciata mai, il fallimento fu
risparmiato all’Italia. Perciò un diluvio di onori si
rovesciò sul capo del fortunato vincitore: il giorno della
sua nascita e quello della presa di Alessandria furono dichiarati
festivi; un altro trionfo gli fu decretato; furono convalidati con
giuramento tutti gli atti da lui compiuti sino a quel tempo; gli fu
concessa la facoltà di giudicare in appello tutte le cause e
di risolvere con il suo voto quelle in cui i suffragi si
bilanciassero; gli furono concessi altri privilegi di tribuno ma non
è ben chiaro quali; si deliberò che le trentacinque
tribù gli offrirebbero ciascuna mille libbre di oro!1297 Uno
strano fervore agitava l’Italia; il passato di Ottaviano cadeva in
oblio; il figlio di Cesare era l’oggetto dell’ammirazione di tutte
le classi. La vittoria di Azio e la conquista dell’Egitto parevano
il principio di una grande ripresa della politica conquistatrice; si
sperava che ora, finite le guerre civili, Roma vendicherebbe gli
insulti e le umiliazioni subite negli ultimi anni, farebbe di nuovo
tremare il mondo! E intanto nel mese di settembre assumeva il
consolato il figlio di Cicerone: atto di riconciliazione, con cui
probabilmente Ottaviano intendeva rendere omaggio al divulgatore
delle nuove idee conservatrici verso cui egli inclinava. La vittoria
ingrandiva smisuratamente la persona, prima così detestata,
di Ottaviano, come già le persone di Silla e di Cesare, in
questa vecchia e degenerata repubblica aristocratica, in cui il
mercantilismo e la democrazia avevano distrutto l’antico equilibrio
oligarchico tra i membri della classe dominatrice. Chi osava
più opporsi all’uomo riconosciuto come capo di tutte le
milizie, che disponeva dei tesori di Cleopatra; all’arbitro supremo
dei due metalli che governavano il mondo, l’oro ed il ferro? Di
questa popolarità e di questa potenza, per la quale gli era
lecito allora fare tutto quello che voleva, Ottaviano
approfittò per rendersi, con un’ardita usurpazione, l’uomo
più ricco del mondo, pigliandosi tutto il patrimonio privato
dei re dell’Egitto. Si componeva questo di un infinito numero di
campi coltivati, di palmizi, di acque da pesca, di miniere e dei
redditi di alcune tasse sulla religione. Il nipote dell’usuraio di
Velletri fece sua la immensa fortuna dei Lagidi; su quella
largì grandi doni ai suoi amici – Mecenate si ebbe una grande
tenuta – conservò in Egitto l’amministratore regio dei
demani, l’Idiologos, ne fece l’amministratore dei beni ormai suoi,
accanto al governatore, con l’incarico di mandargli ogni anno a Roma
i fitti dei campi, delle case, delle miniere, il denaro delle tasse
sacre, tutte le rendite insomma del patrimonio reale, che negli
ultimi tempi della monarchia egiziana, non ostante il disordine e la
decadenza in cui era l’Egitto, sommavano ancora a seimila talenti,
ossia a circa venticinque milioni di franchi1298. Poi si rivolse al
ritorno per la stessa via per cui era venuto, dappertutto ordinando,
disponendo, ricevendo omaggi, come il vero sovrano dell’impero. Pose
Artaserse, già re della Media Atropatene, nella piccola
Armenia, diede ad Erode la Samaria, la costa siriaca dai confini
dell’Egitto a Tiro, riconobbe Cleone come principe di Comana nel
Ponto; accolse amichevolmente Tiridate, che pretendeva al trono dei
Parti: quasi per mostrare all’Italia che egli intendeva compiere
l’impresa fallita ad Antonio1299. Ripose inoltre nei templi
dell’Oriente molti ornamenti presi da Antonio e da Cleopatra1300; e
avendo domandato alcune città, come Nicomedia e Pergamo, di
costruire a lui dei templi come agli antichi sovrani,
acconsentì, a condizione che i templi fossero dedicati
insieme a lui ed a Roma1301.
[29 a. C.] Tra queste faccende e questi omaggi Ottaviano
terminò l’anno 30 e incominciò l’anno 29 in Oriente,
per volgersi a primavera al ritorno in Italia. Sul finire del 30 il
figlio di Lepido aveva tentato pazzamente una rivolta in Italia; ma
fu facile a Mecenate di reprimerla1302. L’Italia ormai ammirava con
troppo ardore colui che tornava, guidando tante navi cariche della
moneta coniata con la supellettile di Cleopatra! Difatti nuovi onori
erano a ogni momento decretati: che il suo nome fosse iscritto nel
carme saliare, che le sacerdotesse pregassero anche per lui nelle
preghiere pubbliche, che in tutti i banchetti, pubblici e privati,
si facessero libazioni in suo onore1303. Ed egli finalmente
arrivò in Italia, accolto dal favore universale; si
fermò qualche tempo, per curarsi una laringite buscatasi
probabilmente nella guerra, ad Atella, dove gli venne incontro
Virgilio, e in quattro giorni consecutivi gli lesse le Georgiche
allora finite1304, gli manifestò il desiderio di cantare in
un poema le sue imprese1305. Solennissimi furono i trionfi
consecutivi che furon celebrati, alla fine, il 13, il 14, il 15
agosto del 291306; grandi e solenni le feste, con cui nella seconda
metà di agosto si dedicarono i monumenti che simboleggiavano
la definitiva vittoria di Cesare in mezzo a tante guerre civili: il
tempio del divo Giulio il 18 agosto1307 poi la Curia Julia, con il
sacrario di Minerva; l’ara Victoriae nella curia Julia1308. Tutta
l’Italia era beata e abbagliata; e a quest’ultimo, fortunato
superstite di tanti grandi emuli che avevano combattuto per la
signoria dell’impero, sembrava toccar definitivamente
l’eredità di Alessandro e di Roma; nella smisurata grandezza
sua e dei pochi amici di lui pareva terminare lo sforzo di due
secoli di guerre e conquiste, nel mondo devastato, afflitto,
scorato....
XXIII.
LA RESTAURAZIONE DELLA REPUBBLICA.
E invece Ottaviano pensava di ritirarsi a vita privata; di imitare
non l’esempio di Cesare ma quello di Silla1309.
Se Ottaviano fosse stato, come Cesare e come Alessandro, un veemente
uomo di guerra e di azione, si sarebbe allora infervorato a nuove e
maggiori ambizioni, invece di contentarsi del potere, della gloria,
della grandezza già conquistate. Ma egli era un uomo di
temperamento debole e poco appassionato, un “intellettuale”
più simile a Bruto e a Cicerone che a Cesare, che valeva per
la potenza della mente profonda, tenace, lucidissima, e non per il
vigore della volontà; uno studioso diligente e un sagace
amministratore più che un conquistatore e un monarca. Egli
era così malandato in salute, da non poter sostenere nemmeno
la fatica delle feste con cui si celebravano le sue vittorie e da
cascare ammalato in mezzo a quelle a più riprese1310; era
sazio di ricchezze, di gloria, di potere, e desideroso solo di pace,
di riposo, di tranquillità per rifare la salute rovinata
dagli strapazzi, dalla interminabile attesa, dal carco dei tremendi
pensieri. Dopo tante fatiche e perigli, scampato da una delle
più tremende bufere, egli aveva paura del governo del mondo,
non si sentiva nè il vigore del corpo nè la ferma
fiducia nè il fervore ambizioso necessari ad assumerlo. Gli
storici contemporanei possono affermare che nelle acque di Azio
finì l’ultima guerra civile; ma Ottaviano, che non era un
profeta, non poteva confortarsi nel medesimo pensiero con eguale
sicurezza, negli ultimi mesi dell’anno 29 e nel 28 a. C, mentre si
accingeva a profondere i tesori di Cleopatra. Certo con queste
profusioni egli salvava l’Italia dal fallimento che l’aveva
minacciata per tanto tempo: annullava tutti i crediti dello Stato e
quindi non solo gli arretrati delle imposte, ma anche i crediti
privati dei cavalieri proscritti nel 43, che lo Stato aveva
confiscati, dando infine valore legale alla mezza abolizione dei
debiti già avvenuta di fatto; estingueva tutti i debiti suoi
e della repubblica1311; pagava ai municipii le terre comprate l’anno
innanzi distribuendo loro in denaro sonante una somma forse maggiore
di 300 milioni di sesterzi1312; distribuiva a tutti i plebei –
più di 250 000 – 400 sesterzi a testa e quindi altri 100
milioni1313; altri 120 milioni di sesterzi – 1000 a testa – divideva
tra i suoi 120 000 veterani da lui dedotti in colonie1314: i 6
o 7000 veterani di Cesare congedati dopo Filippi, i 20 000
legionari rimandati a casa dopo la guerra di Sicilia; i 90 000
uomini circa delle 37 legioni, sue o di Antonio, che aveva congedate
da poco e a cui stava dando terre. Egli aveva infatti ridotto a 23
legioni tutto l’esercito dell’impero1315. Dopo tanta
scarsità, il denaro riprendeva finalmente a circolare,
l’interesse rinviliva1316. Ma restaurare un discreto governo in
mezzo alle rovine ancora fumanti della rivoluzione, era impresa
molto più difficile che assestare la fortuna della nazione.
Se a questo scopo bastava una preda vistosa, non bastava a quello la
volontà di uno o di pochi uomini. Si giudica male – a mio
credere – la riforma augustea allorchè si dice che il mondo
antico si trovava dinanzi l’alternativa o del governo repubblicano o
del governo di un solo. Troppo è facile fraintendere, quando
si parla del governo di un solo, che è impossibile
così con la repubblica come con la monarchia; perchè
neppure un nuovo Ercole o Atlante avrebbe potuto reggere da solo e
senza collaboratori un così vasto impero. Meglio è
dunque dire che l’alternativa pendeva sul numero, sulla
qualità, sulla scelta, sull’ordinamento dei collaboratori
necessari al governo. Doveva l’impero essere governato, come le
monarchie asiatiche dei successori di Alessandro, da una burocrazia
reclutata dal capo dello Stato a suo piacere, in tutte le classi
sociali e in tutte le nazioni, dipendente da lui, priva del diritto
di opporsi legalmente al suo capo? Oppure doveva l’impero essere
ancora governato dai magistrati repubblicani, scelti dai comizi e
dal Senato, solo tra i cittadini romani che nell’impero formavano
una piccola aristocrazia, secondo le norme di successione e di tempo
determinate dalle antiche leggi? si doveva tentare una
contaminazione, una miscela dei due sistemi? Il governo monarchico
avrebbe essenzialmente significato la usurpazione totale o parziale,
compiuta da una famiglia, del diritto di designare i magistrati e di
determinare le regole del governo, che la tradizione repubblicana
attribuiva alle famiglie cospicue della aristocrazia senatoria, alla
turba più numerosa dei cavalieri e del medio ceto votante nei
comizi. Giulio Cesare aveva infatti tentato negli ultimi tempi di
fondare un principio di burocrazia cosmopolita mettendo in molte
cariche servi e liberti suoi; di servi e liberti si erano largamente
serviti i triumviri e Sesto Pompeo durante le guerre civili, nel
disordine di quell’universale arraffa arraffa: ma si potrebbe ora,
per fare loro maggior posto, distruggere una parte delle
istituzioni, tradizioni e consuetudine latine?
[28 a. C.] Il debole governo triumvirale aveva dovuto nei momenti
critici popolarizzare la repubblica, aumentando a dismisura il
numero dei senatori e dei magistrati, distribuendo gli onori della
nobiltà romana tra la folla oscura del ceto medio di tutta
Italia: cosicchè, se era sparita la aristocrazia che aveva
ucciso Cesare per la sua inclinazione ai servi e ai liberti
orientali, si era formata una nuova oligarchia di senatori, di
cavalieri, di antichi questori, pretori, consoli, molto più
scadente ma anche molto più numerosa, che non intendeva per
nulla rinunciare ai privilegi e ai diritti del rango; si eran
diffuse in tutto il ceto medio dell’Italia, per l’esempio della
fortuna di costoro, le speranze di nobilitare un dì la
propria famiglia a quel modo. Certamente questa oligarchia
raccogliticcia, in gran parte composta di persone oscure, ignoranti,
senza prestigio, non molto ricche, ambiva le funzioni pubbliche, non
per esercitarle signorilmente a beneficio del popolo, ma per
arricchirsi! L’egoismo era cresciuto in tutte le sue forme negli
ultimi venti anni, dal celibato all’orrore della milizia, alla noia
dei carichi pubblici non remunerati; le persone disposte a faticare
gratuitamente per lo Stato erano poche; l’edilità, la
magistratura nella quale si poteva solo spendere senza nulla
lucrare, restava abbandonata e deserta da tutti1317. Ma se la
attitudine a ben governare era scarsa, grande, vivo, tenace era il
desiderio di conservare così gli onori come i lucri del
potere; e la crescente diffusione del nazionalismo conservatore,
quella disposizione ad ammirare l’antica Roma, a ritornare ai
piccoli principî del grande impero, era effetto in parte anche
di questa ambizione delle classi agiate dell’Italia di conservare
per sè il monopolio del governo. Quel nazionalismo dilagava
ora dappertutto, come un torrente in piena che ha rotto gli argini,
rinfocolato da una nuova esaltazione di imperialismo. Ottaviano
stesso aveva riscaldato questo sentimento durante le lotte contro
Antonio; e ora molti, che non avevano nessuna intenzione di vivere
come Cincinnato o di morire come Decio Mure, si esaltavano per la
grandezza di Roma, celebravano la conquista dell’Egitto, volevano il
castigo di tutti i popoli che negli ultimi anni si erano ribellati,
ammiravano la virtù e la saggezza dei vecchi, intravedendo,
con quella vaga intuizione del proprio vantaggio così viva
nelle classi sociali, che più fosse ammirato e temuto il
popolo italico, migliore sarebbe la condizione di ogni italiano
nell’impero; che più fosse ammirato il passato di Roma e
più sarebbe difficile scemare i diritti della oligarchia
italica al governo della repubblica. L’ammirazione per la vecchia
repubblica, per le sue istituzioni, i suoi costumi, le sue
virtù dilagava in tutte le classi; ne erano imbevuti gli
amici di Ottaviano, i parvenus della rivoluzione, gli uomini di
pensiero, la letteratura, indice del pubblico sentimento. Virgilio,
finite le Georgiche, ritornava, per una specie di ravvedimento
letterario, alla idea giovanile di comporre un gran poema nazionale
al modo di Ennio, ma adoperando il suo stile raffinato in tanti anni
di libertinaggio con le poco austere ed elegantissime Muse della
Grecia. Il giovane padovano Tito Livio già preparava i
materiali per la sua storia di Roma, che doveva essere un grande
inno al passato, per la forma e per lo spirito: per la forma,
perchè dalla rivoluzione letteraria di Sallustio il nuovo
storico ritornerebbe all’annalistica tradizionale, ma vivificandola
con le grazie e le luci di un’arte potente; per la sostanza,
perchè idealizzerebbe l’antico governo aristocratico, la
antica diplomazia, la antica saggezza, rivendicando senza paura la
memoria dei vinti nella grande contesa, e dando perfino un severo
giudizio di Cesare1318. Ma più importanti ancora come segno
dei tempi erano le nuove composizioni poetiche a cui dava mano
Orazio. Questo grandissimo stilista non era un lirico, ma un
critico. Aveva molto maggiore impeto lirico di lui Cicerone. Non si
lasciava quindi ingannare da questa contagiosa smania di ritornare a
parole ai piccoli principî del grande impero; ne vedeva tutte
le contradizioni, le falsità, le menzogne; intravedeva anche
quale interesse si nascondeva in questa moda idilliaca. Così,
sebbene nel secondo libro delle Satire si fosse dato anche egli a
propagare la nuova morale, qualche volta si interrompeva a mezzo
della sua propaganda come per canzonare sè stesso: e nel
secondo degli Epodi aveva descritto l’usuraio Alfio che recita una
grande lode della vita rustica, ma alla fine.... corre a strangolare
i suoi debitori; e nella settima satira del secondo libro quasi si
era divertito a distruggere le precedenti, facendosi deridere nelle
feste dei Saturnali dal suo schiavo. “Tu celebri gli antichi tempi,
ma se poi ci dovessi vivere, saresti disperato.... Tu lodi la
campagna; e quando ci sei, non vedi l’ora di tornare in
città.... Dici che non vuoi noie di inviti e di cerimonie; e
se devi andare a cena da Mecenate, che smanie, che grida, che
improperi! Su, presto, l’olio; spicciatevi, poltroni, che fate?”
Eppure anche questo critico, scuotendosi dalla consueta pigrizia a
una maggiore alacrità, incominciava allora a scrivere un
seguito di odi eroiche e civili, in cui, con una ricca
varietà di metri greci non ancora usati in latino,
verseggiava la grandezza degli antichi tempi, la necessità
della riforma morale, la comune aspirazione a ritornare ai piccoli
principî del grande impero, la speranza di nuova gloria
guerresca e militare. La forma è meravigliosa per la
pittoresca potenza della sua concisione; l’ispirazione fredda;
soverchia e troppo pesante la erudizione storica e mitologica; poco
spontanei i voli pindarici: ma le poesie sono un importante
documento dei pubblici sentimenti. In questi tempi pare sia stata
scritta l’ode XXIV del terzo libro, in cui il poeta lamenta i
malanni della civiltà, idealizza la vita barbara, dice che
non finiranno le guerre civili finchè non si guarisca la
corruzione dei costumi, non si spenga la sordida cupidigia nei
cuori, non si rifaccia con una educazione virile l’infrollita
generazione dei giovani, che sanno giuocare a dadi e non sanno
andare a cavallo; incita infine chi voglia esser chiamato padre dei
popoli – allusione a Ottaviano – a frenare la licenza universale.
Qualche volta questo grande problema si rimpicciolisce a un caso
personale, come nell’ode XXXI del primo libro, in cui Orazio si
compiace di vivere semplicemente e sobriamente, nutrendosi di olive,
di cicorie, di malve; ma nell’ode XV del secondo libro di nuovo egli
torna a lamentare il grande lusso universale, a rammaricare i tempi
in cui i privati erano poveri e ricco lo stato, in cui i cittadini
vivevano in capanne e i templi erano sontuosi, non cadevano in
rovina, come allora in ogni parte di Roma. E le stesse idee ripete
in forma diversa nell’ode XVIII.
Aveva Ottaviano, dopo gli scandali, gli insuccessi, i disastri, il
lungo e inconcludente disordine del triumvirato, l’autorità e
il potere necessari a contrastare a tanti interessi e a un
sentimento così diffuso, quando non ne era bastata la forza a
Cesare dopo la conquista della Gallia e dopo la tempestosa guerra
civile? No. La sua condizione era delle più singolari.
Certamente con la battaglia di Azio e la conquista dell’Egitto
Ottaviano si era meritata molta ammirazione e aveva fatto
dimenticare il suo brutto passato: ma non aveva nè il
prestigio terribile di Silla presso i conservatori dopo il ritorno
dall’Asia nè quello di Cesare presso il popolo dopo
Farsaglia; e non poteva illudersi che la conquista, fruttuosa ma
facile, dell’Egitto fosse compenso adeguato agli infiniti mali di
cui, se non egli personalmente, il partito che aveva capitanato e il
governo triumvirale erano stati cagione all’Italia. Un uomo
più immaginoso e imprudente avrebbe potuto illudersi, non
egli. Del resto l’esempio di Antonio, precipitato a un tratto da
così solida fortuna in tanta rovina, per aver offeso gli
interessi e i pregiudizî della oligarchia italica, doveva
incutergli uno straordinario terrore. Sì, egli era allora
portato alle stelle come Antonio qualche anno innanzi, e avrebbe
potuto farsi attribuire anche il potere assoluto: ma per questo
appunto egli si sentiva tanto più obbligato a mantenere la
promessa tante volte fatta, e così solennemente negli ultimi
anni, di restaurare la repubblica. Certo lì per lì
l’Italia avrebbe tollerato in pace che egli dimenticasse la sua
promessa; ma l’esempio di Antonio ammoniva: se poi egli fosse
colpito da qualche sventura – e le cose erano così piene di
imprevisto! – se qualche grave insuccesso sopravvenisse, il rancore
per la mancata promessa scoppierebbe, si risveglierebbero forse
anche gli odî ora dimenticati della guerra civile! E un
insuccesso era tanto più facile, perchè la oligarchia
italica, se era tenacemente ambiziosa di conservare i suoi
privilegi, non aveva le qualità e gli uomini necessari a
imprendere la grande opera di rigenerazione, universalmente
riconosciuta per necessaria. A parole tutti volevano la riforma; ma
per la riforma nessuno voleva faticare e soffrire. Quando Ottaviano,
sul principio del 28, ordinò come console il censo che da
quarantadue anni non si faceva più1319, e pensò di
ripulire il Senato dalle persone troppo ignobili, egli
compilò una lista di circa duecento: misura necessaria, per
addolcire la asprezza della quale, per risparmiare agli indegni lo
scandalo e l’onta della cacciata, li invitò a rinunciare
spontaneamente alla carica, non venendo più in Senato e non
usando i distintivi del rango. Vana illusione: solo sessanta
accondiscesero; ma gli altri centoquaranta aspettarono di esser
scacciati!1320 Viceversa, per ogni grave e dispendiosa faccenda
pubblica, il Senato si affrettava a scaricarsi su Ottaviano, a cui
commise perfino la riparazione di ottantadue templi di Roma, mezzo
minati dall’incuria delle guerre civili1321. Orazio scrisse subito
una bella ode, la VI del terzo libro:
Delicta maiorum immeritus lues,
Romane, donec templa
refeceris
Aedesque labentes deorum....
in cui diceva che la prosperità e la pace fluirebbero solo
dal fonte della rinnovata purezza sessuale e familiare; inveiva
contro l’educazione frivola e mondana delle donne che conduceva
tante matrone di nobili famiglie impoverite a prostituirsi a ricchi
mercanti; ricordava i giovani di un tempo allevati così
duramente e cresciuti così forti; e finiva con un triste
sguardo alla fuga delle generazioni che peggiorano:
Aetas parentum, peior avis, tulit
Nos nequiores, mox
daturos
Progeniem vitiosiorem.
Ma intanto, quando gli si porgeva il destro celebrava anche l’ozio
beato della vita privata, la gioia di essere libero dai fastidi
delle cariche pubbliche, la libertà del cittadino che non si
occupa di politica. La stessa contradizione era nelle poche grandi
famiglie superstiti. Asinio Pollione era molto amico di Ottaviano,
ma si considerava come un suo pari1322 e non voleva più
attendere che alla letteratura e all’arte, proponendosi di scrivere
una grande storia delle guerre civili1323. Marco Crasso, il figlio
del gran milionario, che aveva sposata la figlia di Metello Cretico,
combatteva allora nei Balcani, ma avrebbe voluto – lui così
ricco – continuare a caricarsi di brighe per lo Stato? Su Valerio
Messala si poteva forse far maggiore assegnamento: ma Messala era
anche il più repubblicano di tutti e non faceva, nemmeno con
Ottaviano, mistero della sua fedele ammirazione per Bruto. Mecenate
non par si curasse molto di monarchia e di repubblica, ma desiderava
ritrarsi dalle brighe a godere le sue grandi ricchezze; e non voleva
a nessun patto essere fatto nemmeno senatore. Agrippa,
l’infaticabile e molteplice e ingegnoso Agrippa, era insomma il solo
da cui Ottaviano potesse sperare aiuto a quel governo del mondo, cui
l’invitava il Senato, ma con la condizione sottintesa che nessun
privilegio dei senatori sarebbe toccato. E invece le condizioni
dell’impero erano così spaventose! L’Italia e l’Oriente erano
ingombre di rovine fumanti; la Gallia transalpina e la Spagna erano
quasi tutte in rivolta1324; Marco Crasso aveva dovuto, per difendere
le frontiere della Macedonia, fare delle spedizioni nella Misia e
tra i Bastami1325; in Egitto erano scoppiate delle rivolte che
avevano costretto Cornelio Gallo a fare una rapida marcia militare
nell’interno1326. Le fondamenta del dominio imperiale parevano
traballare e intanto il ridesto orgoglio nazionalista e bellicoso
della opinione pubblica, che Ottaviano aveva vellicato nella sua
lotta contro Antonio, domandava guerre di rivincita e di conquista.
Ora se Orazio faceva facilmente queste conquiste sulla carta, se gli
altri facilmente le facevano con i discorsi, Ottaviano invece era
così persuaso che bisognava scemare senza indugio le spese
militari, che aveva ridotte a sole ventitré le legioni, a
meno di 150 000 uomini, compresi gli ausiliari e la cavalleria,
tutto l’esercito di un così vasto impero e si affaccendava ad
accelerare le deduzioni di colonie in Italia e fuori. Ripigliava
anzi la idea di Cesare di colonizzare Cartagine e Corinto, cercava
di mutare in agiati e pacifici possidenti il maggior numero di
soldati che avevano seguito lui e Antonio. I demani comunali
acquistati dopo Azio erano divisi in piccoli campi tra i soldati, di
cui molti erano anche fatti decurioni dei piccoli senati municipali;
e così a poco a poco i 90 000 veterani, con queste
terre, con i risparmi delle guerre, si accingevano a tramutarsi in
agiati borghesi di molte città, tra le quali è
probabile fossero Ateste, Brescia, Parma, Tortona, Rimini, Fano,
Spello, Pisa....
[28 a. C.] Non è quindi strano che, al principio del 28, un
uomo per natura di passioni poco veementi, desideroso di riposo,
infermo, volgesse in mente di imitare l’esempio di Silla e di
tornare a vita privata, sebbene il Senato lo colmasse di onori, lo
nominasse suo princeps, gli conferisse, come a Cesare, il titolo
trionfale ed ereditario di imperator1327. Tuttavia, quali si fossero
le definitive intenzioni di Ottaviano, era urgente di provvedere in
qualche modo alla cassa dello Stato che continuava ad essere
vuota.... Ottaviano contribuì del suo una grossa somma, ma
non approfittò dell’occasione – e gli sarebbe stato
così facile – per impadronirsi, come aveva fatto Cesare,
della cassa pubblica; non ne volle assumere l’amministrazione; e non
volendo nemmeno che l’erario restasse in potere degli antichi
magistrati che lo avevano così male amministrato, scelse una
via di mezzo, deliberando che l’erario sarebbe amministrato da due
praefecti aerarii saturni, scelti dal Senato ogni anno tra persone
che fossero già state pretori1328. Così egli
rinunciava alla parte più cospicua della preda delle guerre
civili: il tesoro dell’impero. E di rinunzia in rinunzia avrebbe
restituito tutto, se tornare a vita privata fosse stato possibile a
chi aveva vinto ad Azio senza combattere. Ottaviano era l’uomo
più autorevole e potente e ricco della repubblica; e che egli
restasse a capo della repubblica era cosa necessaria a troppe
persone: ai veterani che avevano ricevute le terre, ai compratori
dei beni dei proscritti, ai magistrati che avevano ottenute cariche
o erano stati scelti a senatori: a tutti quelli insomma che avevano
arraffato qualche cosa in quel tumulto di diciassette anni, da
Agrippa all’ultimo e più oscuro dei centurioni. Non è
strano quindi che in quell’anno 28 si facessero grandi sforzi dagli
amici per dissuaderlo dal suo proponimento: ai quali non facevano
difetto buoni ragionamenti, che non è temerario indurre
dall’effetto che i consigli sortirono. Non si poteva ricostituire la
repubblica latina così come era stata in antico, rinnovando i
due principii fondamentali – la collegialità e la
brevità di tutte le magistrature ordinarie – su cui la
repubblica aveva posato fin che la vita era stata semplice, i
costumi virtuosi, la aristocrazia forte, la tradizione vigorosa. Ora
che le tradizioni erano così obliterate, la brevità
delle magistrature interrompeva a ogni momento la continuità
del governo: ora che così furibonda era la gara per la
conquista del potere, la collegialità diventava un terribile
strumento di disordine in potere dei partiti e delle cricche, di cui
ciascuno riuscendo quasi sempre a conquistare qualcuno dei posti, si
serviva poi del suo magistrato per intralciare l’opera del
magistrato avverso. Non si sarebbero questi guai scatenati di nuovo,
se si fosse ridata alla repubblica la libertà nelle forme
antiche? Era necessario costituire almeno una autorità che
contenesse le fazioni e le magistrature. Anche Cicerone, uomo
più incline ai conservatori che ai rivoluzionari, non aveva
forse svolta nel De Republica, prendendola da Polibio e da
Aristotele, l’idea che negli stati troppo travagliati dalle interne
discordie fosse necessario fare eleggere dai poteri legittimi un
magistrato supremo per un tempo determinato; un magistrato
sottoposto alle leggi comuni e quindi repubblicano; ma unico, ma
investito di un potere più lungo per tempo e più largo
per competenza dei magistrati comuni; che per l’autorità
personale e per quella a lui conferita dalla legge fosse in grado di
contenere gli altri magistrati nel dovere e di impedirne così
le usurpazioni arbitrarie come le negligenze criminose? Chi altri
poteva esercitare questa magistratura nuova se non il vincitore di
Azio? Un’altra considerazione dovette poi avere grande peso sulle
deliberazioni di Ottaviano. Nell’universale disordine e
povertà in cui giaceva l’impero, l’Egitto, come aveva con i
suoi tesori aiutato a schivare un fallimento tremendo e una nuova
rivoluzione, così doveva apparire come la principale e
più sicura sorgente di denaro almeno per i bisogni del futuro
non lontano. La parte migliore della stessa fortuna di Ottaviano e
forse anche di quella di parecchi cospicui amici suoi, come
Mecenate, consisteva ormai di beni posti in Egitto. Ma appariva cosa
rischiosa il porre l’Egitto sotto un proconsole, offendendo
l’orgoglio e il sentimento monarchico di quel paese, che fin dai
primi ricordi era stato governato da re; appariva necessario
continuare a quel popolo l’illusione di essere governato da un
monarca, sia pure lontano e residente a Roma, che mandasse ad
Alessandria il suo ministro; e quel monarca non poteva essere che il
conquistatore dell’Egitto. Ora come si potrebbe dar l’illusione
all’Egitto che Ottaviano ne fosse il monarca, se Ottaviano non
restava a capo della repubblica?
Ottaviano si dovè arrendere alla fine a queste considerazioni
e si acconciò a tentar di applicare le idee del De Republica,
ritenendo una parte di autorità: la minima possibile,
affinchè l’ordine ristabilito potesse durare. Il principal
pericolo alla pace pubblica derivava dalla divisione dei comandi
militari, per cui ogni esercito aveva il suo duce sottoposto alla
sola vigilanza del Senato: fiacca, intermittente, inefficace
vigilanza, che non aveva impedito ad abili e arditi capitani di
servirsi degli eserciti per le loro ambizioni e sino per guerre
civili. Ottaviano acconsentì quindi ad assumere il comando di
tutti gli eserciti, per modo che gli ufficiali e i soldati
dipendessero da lui e verso di lui fossero responsabili: ma lo volle
assumere non con procedimenti nuovi e rivoluzionarii, bensì
facendosi decretare dal Senato per dieci anni il proconsolato di
tutte le provincie in cui per una ragione permanente o temporanea si
dovessero tenere milizie; e queste furono solo tre in principio: la
Siria, che da un momento all’altro poteva essere invasa dai Parti,
con Cipro; la Gallia transalpina, sempre inquieta e con frontiera
malsicura; la Spagna, in rivolta da qualche tempo. Le altre
provincie invece, le più ricche cioè, sarebbero
amministrate dai magistrati ordinarii della repubblica, dai
proconsoli e dai propretori nominati dal Senato, come nel tempo
antico; il Senato riacquisterebbe tutti i suoi poteri; i comizi
ritornerebbero a eleggere i magistrati e ad approvare le leggi1329.
Anche a Roma però era necessaria una autorità che
raffrenasse i magistrati urbani, vigilasse, spronandolo o
trattenendolo secondo il bisogno, il Senato.... Ottaviano
acconsentì ad assumersi anche questo carico, accettando di
essere nominato console per i dieci anni in cui sarebbe proconsole.
Egli insomma sarebbe nel tempo stesso console e proconsole, e
potrebbe o rimanendo come console in Roma amministrare le sue
provincie per mezzo di legati, o andando come proconsole nelle
provincie, governare da lontano Roma e l’Italia: intanto, restando a
capo dello Stato romano, potrebbe atteggiarsi davanti agli Egiziani
come il loro re e l’erede legittimo dei Tolomei. Continuerebbe
così nella misura ragionevole la bizzarra politica di
Antonio, che, per quanto troppo esagerata, corrispondeva a una
necessità, se per opera del rivale sopravviveva in parte alla
sua rovina! Questa unione di due autorità, che si escludevano
a vicenda secondo il vecchio diritto costituzionale, era certo una
innovazione rivoluzionaria, una aggiunta originale alla vecchia
costituzione; ma non era senza precedenti perchè già
era stata sperimentata nel 52 per pochi mesi, quando nello spavento
per i tumulti seguiti alla morte di Clodio e per la rivolta di
Vercingetorice, si era nominato Pompeo console e proconsole nel
tempo stesso; ma era una rivoluzione ben minore della fondazione
della monarchia, perchè lasciava intatta l’essenza della
repubblica. Si ripigliava insomma una idea vagheggiata prima della
guerra civile dal partito conservatore; si costituiva un nuovo
magistrato unico, ma repubblicano, il cui nome nuovo fu quello di
princeps: parola e concetto schiettamente latini e repubblicani, che
a torto è stata tradotta con la parola principe, la quale ha
assunto ben altro significato nella nostra lingua, mentre significa
primo, principale, e deve essere tradotta per presidente. Ottaviano
metteva in pratica il consiglio che invano il 2 settembre del 44
Cicerone aveva dato in Senato ad Antonio: libertate esse parem
caeteris, principem dignitate, – essere il primo cittadino in una
repubblica di eguali; ed accettava la nomina a presidente unico per
dieci anni della repubblica latina con il comando di tutti gli
eserciti e con poteri larghi ma costituzionali, che lo fanno
rassomigliare piuttosto al presidente della confederazione
americana, che a un monarca asiatico.
Quando Ottaviano si fu risoluto, Orazio lo annunziò con la
seconda ode del libro primo, nella quale invocava a proteggere Roma
e a finire le guerre civili, Apollo il dio della coltura, Venere la
dea della fecondità, Marte il dio della guerra, Mercurio il
dio del commercio e della prosperità materiale; e nelle forme
giovanili di Mercurio raffigurava Ottaviano, il vendicatore di
Cesare che aveva versato sull’Italia i tesori di Cleopatra:
Hic ames dici pater atque princeps.
Intorno a questo tempo probabilmente egli scriveva anche la famosa
ode
Odi profanum vulgus et arceo
nella quale mi par verisimile che alluda alla rinuncia del potere
semiassoluto che Ottaviano stava per fare, mostrando la
vanità della potenza, i tormenti dei tiranni, che non possono
gustare nemmeno i piaceri più umili della vita. E aggiungeva
a questa una altra ode, la seconda del libro terzo, per incitare i
Romani a far più virile l’educazione dei giovani; per
celebrare il valore militare, l’amore della patria, la
religiosità. Intanto, prestamente, sulla fine del 28, fu
stabilita l’intesa tra Ottaviano e la docile maggioranza del Senato.
[27 a. C.] Il 13 gennaio del 271330 Ottaviano, che era console per
la settima volta, andò in Senato, e in una solenne seduta
dichiarò di rinunciare a tutti i poteri straordinari goduti
sino allora e di rimettere al Senato e ai comizi il governo della
repubblica: e allora, non sappiamo su proposta di chi, il Senato
conferì per dieci anni a lui già console il governo
proconsolare della Siria, della Spagna e della Gallia1331. Il 16
gennaio, a mostrargli la riconoscenza del Senato e del popolo, gli
fu conferito il titolo di Augustus1332. Con questo titolo si
attribuiva un carattere quasi sacro alla nuova magistratura del
princeps, che Pompeo aveva invano tentato di esercitare tra i
tumulti dei fautori di Clodio, venticinque anni innanzi. Cicerone
trionfava, la repubblica era salva, l’utopia monarchica in cui
Cesare si era illuso negli ultimi mesi svaniva per un secolo ancora!
Gli storici moderni a torto, secondo me, si ostinano a considerare
questa riforma come una finzione intesa a nascondere la monarchia in
forme repubblicane; a torto, secondo me, considerano la riforma di
Augusto come una diarchia, una spartizione cioè del potere
tra il Senato ed il princeps. La riforma di Augusto mirava invece a
ricostituire la unità dello stato romano, sconnessa con
infinita iattura dell’Italia da quella vera diarchia, che fu il
triumvirato dopo la deposizione di Lepido; mirava a riporre tutto
l’impero sotto l’autorità del Senato e il Senato sotto la
vigilanza di un presidente moderatore e custode delle instituzioni;
mirava a restaurare non la forma, ma l’essenza della repubblica, e
cioè a conservare, per quanto era possibile, il governo
dell’impero in potere della piccola oligarchia italica, secondo le
forme, le tradizioni, gli ordinamenti dei tempi antichi. Noi vedremo
che tutta la storia di Augusto si spiega mirabilmente solo
ammettendo ciò. Nè questa spiegazione dovrebbe
apparire strana, ma verisimile e piana, se tutti gli storici moderni
non si lasciassero indurre da un preconcetto ostinato a troppo
impicciolire e ingrandire nel tempo stesso la riforma politica del
27 a. C.: a impicciolirla, quando la riducono a una commedia,
recitata in Senato dal vincitore e dai senatori per ingannare il
colto e l’inclita; a ingrandirla, quando la considerano come
l’ultimo atto definitivo della fondazione della monarchia romana.
Ottaviano nè intendeva di burlarsi dei suoi contemporanei,
nè immaginava di compiere una rivoluzione, le cui conseguenze
si ripercuoterebbero nei secoli. Egli mirava solo a risolvere le
difficoltà dell’ora presente con un atto che, nell’intenzione
sua, rispondeva ai bisogni dell’avvenire prossimo, che aveva valore
quindi solo al più per i dieci anni fissati dal
senatusconsulto, alla fine dei quali, se lo stato delle cose era
mutato, muterebbe anche egli e condotta e propositi, tanto è
vero che egli si riserbò la facoltà di deporre la
presidenza anche prima dei dieci anni, se credesse di poter fare
ciò senza pericolo della cosa pubblica1333. Ora è
così strano che, due anni e mezzo dopo la battaglia d’Azio,
egli si proponesse di soddisfare le aspirazioni e i sentimenti
repubblicani del ceto medio e delle alte classi dell’Italia? Anche
se non si volesse tenere conto – ed è invece una
considerazione importantissima – dei grandi interessi politici ed
economici, che spingevano tutta l’Italia a conservarsi con le
istituzioni repubblicane il monopolio fruttuoso del governo
dell’impero, si consideri che tutta la letteratura antica dimostra
quanto tenaci e profonde fossero le idee, le tradizioni, i
sentimenti repubblicani in tutte le repubblichette greco-italiche;
quanto difficile fosse spogliarle delle loro libertà, anche
quando queste eran ridotte solo a una meschina apparenza. In Grecia,
non ostante tutti i mali da cui furono afflitte, le numerose piccole
repubbliche non caddero definitivamente se non per la forza brutale
di conquistatori stranieri. La repubblica di Roma invece non fu
assoggettata da monarchie straniere, ma distrusse tutte le grandi
monarchie fondate da Alessandro. Ora chi non sa che il successo
consolida anche i governi peggiori? Chi può supporre che uno
stato il quale aveva avuto un così smisurato successo,
potesse perire da un giorno all’altro, per un colpo di stato fatto
da una o da poche persone? Si pensi: le tradizioni repubblicane di
Roma antica, pervenute a noi per il veicolo della coltura classica,
sono ancora così potenti, che esse fomentarono la rivoluzione
francese, la rivoluzione del 1848 e il movimento liberale del secolo
XIX; che esse alimentano l’irrequietezza in cui si dibatte oggi
l’immenso impero russo. Si può pensare che non avessero
più forza alcuna ai tempi di Cesare e di Augusto, quando
esisteva ancora l’impero che la repubblica aveva conquistato? La
tenace resistenza delle tradizioni repubblicane era la conseguenza
necessaria delle straordinarie vittorie diplomatiche e militari di
Roma negli ultimi due secoli della Repubblica, da Canne alla presa
di Alessandria; e non è meraviglia che l’incerto e stanco
Augusto, dopo i disastri, gli scandali e il discredito del
triumvirato, pensasse di non poter attentare alla essenza sacra
della repubblica, se a quelle vittorie anche l’Europa moderna deve
tanta parte del suo destino: deve in special modo di essere stata
sempre agitata da certe grandi idee di libertà, per cui la
sua storia non fu come quella dell’Oriente il monotono seguito di
tante monarchie dispotiche, sorta l’una sulle rovine dell’altre.
E così, con queste tranquille sedute del Senato romano
terminava una delle più gigantesche convulsioni che ricordi
la storia; finiva la rivoluzione incominciata 106 anni prima con il
tribunato di Tiberio Gracco, e incominciava, a poco a poco, senza
che nessuno se ne avvedesse, una nuova storia del mondo. È un
grande, un solenne momento della storia del mondo, questo a cui si
chiude il racconto del gran secolo delle bufere. Quale spaventoso
diluvio aveva tenuto dietro alle prime goccie di sangue cittadino,
versato nel 132 sul suolo di Roma dal console Opimio e dai nobili,
impauriti dalle rogazioni agrarie del giovane Gracco! Tutto l’impero
ne era stato profuso e tutte le terre ne avevan bevuto: erano
sparite in un immane macello, confusamente, le famiglie più
illustri di Roma, un infinito numero di sovrani e di stati grandi e
piccoli, il fiore della popolazione italica, delle stirpi asiatiche,
delle più vigorose genti barbare dell’Europa continentale. Ed
ora il potere si era ridotto alla fine in mano di una piccola e
senile oligarchia di gente oscura salita rapidamente ai posti
lasciati vuoti dalla grande aristocrazia di Roma, desiderosa solo di
goder tranquillamente la propria grandezza, pronta per questo ad
offrire i maggiori poteri ed onori al suo capo: il nipote di un
usuraio di Velletri, precocemente vecchio a 36 anni, debole,
esitante, malaticcio, tentennante, che rifiutava l’impero del mondo,
l’eredità di Roma e l’eredità di Alessandro unite
insieme dalla Fortuna. Una delle più terribili contese di cui
racconti la storia, in cui perirono tanti grandi generali, era stata
definitivamente vinta dall’uomo meno provvisto di qualità
militari della storia di Roma, che non aveva mai saputo comandare
una sola scaramuccia: il comando di quegli eserciti che avevano
conquistato il più vasto impero di cui si avesse memoria,
spetterebbe a un valetudinario, che non osava più esporsi al
sole a capo scoperto, che non voleva più montare a cavallo
per non stancarsi, che si farebbe trasportare sui campi di battaglia
in lettiga1334! Ma queste apparenti contradizioni nascondevano una
profonda necessità delle cose. Come sempre avviene, i
rivoluzionari ben pasciuti diventavano conservatori, ora che si
trattava di divorare in pace la preda spartitasi nelle guerre
civili. Si dice e si ripete che Augusto fu l’erede e il continuatore
di Cesare, che edificò la sua fabbrica sulle fondamenta
incominciate da costui. È una affermazione arbitraria, che
non ha prova alcuna nei fatti. Dalla restaurazione del 27 in poi
Augusto si sforza senza interruzione, per 41 anni, di applicare il
programma di rigenerazione politica e sociale esposto da Cicerone
nel De officiis, e si volge a una politica conservatrice, che
è l’antitesi di quella di Cesare: moderando il lusso,
rimettendo in onore la religione, i costumi, le idee tradizionali,
depurando per quanto era possibile l’amministrazione dagli stranieri
e dagli uomini nuovi; restringendo la oligarchia dei cittadini
romani; combattendo nella religione, nello Stato, nella vita il
cosmopolitismo e gli influssi orientali a favore dell’idea
strettamente nazionale; restringendo nello Stato le spese
improduttive, di apparenza e di lusso, per usare i capitali
accumulati in spese proficue al progresso materiale, politico e
morale dell’impero; cercando perfino di ricostituire quella
aristocrazia conservatrice schiettamente romana che Cesare aveva
tanto combattuta e a cui egli stesso aveva portato il colpo di
grazia. Già nel 28 Ottaviano aveva preso a ricostituire con
doni la fortuna di famiglie senatorie impoverite, per ridar loro una
parte del lustro e del potere perduto, e rimetterle in grado di
aiutarlo nel governo della repubblica1335.
La rivoluzione era davvero finita. Incominciava una gran reazione
conservatrice negli spiriti. Cicerone trionfava, scadeva Cesare, di
cui il figlio sarebbe il continuatore di nome, l’antitesi di fatto.
Dopo essere stato il fatal strumento dell’ultima distruzione della
aristocrazia romana; dopo averla conculcata e annientata con le
proscrizioni, a Filippi, nelle acque di Sicilia, l’uomo che aveva
firmato la sentenza di morte di Cicerone si accingeva a rifare
quello che aveva distrutto. È una sorte che tocca a parecchi,
e non di rado, nelle turbinose vicende della storia. Senonchè
Augusto doveva accorgersi presto che in ogni altra cosa le ragioni
del bene e del male si bilanciano forse, fuori che in una, ed
è quella che dà ragione definitivamente alle dottrine
pessimiste della vita: che cioè all’uomo è facile il
distruggere, ma difficile il creare. Una foresta vegetata in un
secolo brucia in un mese. Un uomo cresciuto in venti anni, è
spento in un attimo. Era stato facile con gli editti di proscrizione
e i giudizi sommari trucidare, impoverire, mandar raminga quella
nobiltà; ora che Augusto ne aveva bisogno per essere da lei
aiutato a governare l’immenso impero, sarebbe difficile ridare agli
uomini la ricchezza, la fiducia, la forza, lo zelo civico necessario
alla loro missione. Nella grandezza di Augusto era insita una
contradizione, che sarebbe piccolo seme di infiniti guai e dolori. I
disinganni, le amarezze, lo sterile travaglio di questa
restaurazione che non poteva riuscir che a metà, saranno la
espiazione dei diciassette anni del ferro e del sangue sino allora
vissuti; tragica espiazione, lunga come la seconda vita di lui, che
da questo momento incomincia.
FINE DEL TERZO VOLUME.
INDICE.
Prefazione.
(Pag. vii-viii.)1336
I.
Tre giornate tempestose
– 15, 16, 17 marzo 44 a. C. –
(Pag. 1 a
23.)
La radunanza dei conservatori sul Campidoglio. – Il colloquio di
Antonio e di Lepido. – La visita di Antonio a Calpurnia. – La notte
dal 15 al 16 marzo. – Le trattative alla mattina del 16. – Il
discorso di Bruto nel pomeriggio. – La mossa di Antonio alla sera
del 16. – La notte dal 16 al 17 marzo. – La discussione del Senato,
la mattina del 17. Proposte e controproposte. – L’ “amnistia”.
II.
I funerali di Cesare.
(Pag. 24 a 49.)
Il Senato e la repubblica. – Marco Antonio. – La seduta del Senato
al 19 marzo. – Il testamento di Cesare. – Il legato di Cesare alla
plebe. – I preparativi per il funerale di Cesare. – Il funerale di
Cesare. – L’anarchia nei giorni seguenti al funerale. – Lo
scompiglio universale dei partiti. – La ressa dei postulanti. – La
ricomparsa di Erofilo. – Il supplizio di Erofilo.
III.
Dissoluzione universale.
(Pag. 50 a 70.)
La fuga di Bruto e di Cassio da Roma. – Cicerone a Pozzuoli. – Lucio
Antonio e Fulvia. – Il voltafaccia di Antonio. – I primi falsi atti
di Cesare. – L’arrivo di Caio Ottavio. – Il viaggio di Antonio in
Campania. – Antonio raccoglie i veterani. – Bruto e Cassio a
Lanuvio. – Tentennamenti universali.
IV.
Il figlio di Cesare.
(Pag. 71 a 92.)
Il figlio di Cesare. – Instabile equilibrio della società
italiana. – Antagonismi delle classi sociali. – Il patrimonio di
Cicerone, nel 44 a. C. – Il ritorno di Antonio a Roma. – Il primo
colloquio di Antonio e di Ottaviano. – Gli ultimi dieci giorni di
maggio. – La seduta del Senato il 1° giugno. – La “lex de
provinciis” approvata il 2 giugno. – Il convegno di Anzio.
V.
La Legge Agraria di Lucio Antonio.
(Pag. 93 a 105.)
Antonio riordina il partito Cesariano. – Gli amici di Antonio. –
Impacci finanziari del partito conservatore. – I conservatori
aizzano Ottaviano contro Antonio. – L’approvazione della “lex
agraria”. – I disegni di Cassio.
VI.
La “Lex de permutatione”.
(Pag. 106 a 123.)
Cicerone si accinge a partire per la Grecia. – I giuochi Apollinari.
– La sorda guerra tra Antonio e Ottaviano. – La cometa di Cesare. –
La promulgazione della “lex de permutatione”. – Cicerone interrompe
il suo viaggio. – Riconciliazione di Ottaviano e di Antonio. – La
“lex de permutatione” approvata. – Il ritorno di Cicerone a Roma.
VII.
I veterani all’incanto.
(Pag. 124 a 143.)
La “lex iudicaria” e la “lex de vi et maiestate”. – La grave crisi
economica e morale dell’Italia. – Lo scandalo nella seduta del
Senato il 1° settembre 44. – Il principio dell’odio tra Antonio
e Cicerone. – Il falso attentato di Ottaviano. – Antonio parte per
Brindisi. – Ottaviano parte per la Campania. – Antonio e le legioni
di Macedonia. – Ottaviano domanda un colloquio a Cicerone.
VIII.
Il “De Officiis”.
(Pag. 144 a 158.)
Il “De Officiis”. – L’utopia di una perfetta aristocrazia. – Il
carteggio tra Ottaviano e Cicerone. – Il ritorno di Antonio e di
Ottaviano. – Il discorso di Ottaviano al popolo: suo insuccesso. – I
giorni critici di Ottaviano. – La rivolta delle due legioni
macedoniche.
IX.
Le Filippiche e la guerra di Modena.
(Pag. 159 a 200.)
La situazione a Roma, dopo la partenza di Antonio. – Il partito
conservatore si riorganizza. – Gli ultimi dubbî di Cicerone. –
La terza e la quarta filippica. – Le prime notizie dell’assedio di
Modena. – La quinta filippica. – La sesta filippica e l’ambasceria
del Senato ad Antonio. – La settima filippica. – Le controproposte
di Antonio al Senato. – La ottava e la nona filippica. – Le lettere
di Marco Bruto dalla Macedonia. – La controrivoluzione di Marco
Bruto in Macedonia. – La decima filippica. – L’undecima filippica. –
Il carteggio di Ottaviano, Irzio e Antonio sotto Modena. – La
dodicesima filippica. – La tredicesima filippica. – Il principio
delle discordie tra Marco Bruto e Cicerone. – La battaglia di “Forum
Gallorum”. – La quattordicesima filippica e la battaglia di Modena.
X.
“Triumviri reipublicae costituendae”.
(Pag. 201 a 238.)
La proscrizione di Antonio. – Il colloquio di Decimo Bruto con
Ottaviano. – La ritirata di Antonio. – Nuove discordie tra i
conservatori a Roma. – Primi malumori tra Ottaviano e i
conservatori. – Errori del partito conservatore. – Antonio giunge a
Vado e si unisce a Ventidio. – Ottaviano è di nuovo
risospinto verso i popolari. – Le mosse di Decimo Bruto. – Lepido. –
Antonio e l’esercito di Lepido. – L’accordo tra Lepido e Antonio. –
Ottaviano domanda il consolato. – Tentativi di ricomporre il partito
cesariano. – Il colpo di stato di Ottaviano. – Ottaviano console e
l’annullamento dell’amnistia. – La riconciliazione di Antonio e
Ottaviano. – “Triumviri reipublicae costituendae”.
XI.
La strage dei ricchi e Filippi.
(Pag. 239 a 278.)
Il triumvirato. – La convenzione di Bologna. – La fortuna di Lepido.
– La “Lex Titia”. – Le proscrizioni. – La grande confisca dei
ricchi. – La morte di Cicerone. – La vera importanza storica di
Cicerone. – Nuove confische e nuove imposte. – “Divus Julius!”. – Lo
spavento e le crudeltà di Ottaviano. – Bruto e Cassio in
Oriente. – L’Oriente contro l’Occidente. – Il principio della
guerra. – La pianura di Filippi. – Il disordine dei due eserciti. –
La prima battaglia di Filippi. – La morte di Cassio. – La seconda
battaglia di Filippi. – Suicidio di Bruto.
XII.
Fulvia e la guerra agraria d’Italia.
(Pag. 279 a 320.)
Il trattato di Filippi. – Le terre ai veterani di Cesare. –
Perchè Antonio scelse l’Oriente. – Fulvia e lo spirito
rivoluzionario. – Le nuove correnti letterarie. – Le egloghe di
Virgilio e la Catilinaria di Sallustio. – Il ritorno di Ottaviano in
Italia. – Le confische delle terre in diciotto città
italiane. – Prime discordie tra Fulvia, Lucio e Ottaviano. – Lucio
difende i possidenti spogliati. – La prima egloga di Virgilio. –
Antonio in Oriente. – Il primo incontro di Antonio e di Cleopatra. –
Nuove lotte tra Fulvia, Lucio, Ottaviano. – Fulvia e Lucio preparano
una rivoluzione. – La nuova guerra civile. – La parodia della guerra
sociale. – L’assedio di Perugia.
XIII.
Cleopatra ed Ottavia.
(Pag. 321 a 344.)
L’Egitto. – Antonio e Cleopatra. – L’invasione dei Parti in Siria
nel 40. – Lo scompiglio dell’Italia dopo la resa di Perugia. – Nuove
violenze e crudeltà di Ottaviano. – Mecenate e Atenodoro di
Tarso. – Antonio in Grecia. – Il matrimonio di Ottaviano e di
Scribonia. – Il principio della guerra tra Antonio e Ottaviano. – Il
trattato di Brindisi. – Il matrimonio di Antonio e di Ottavia.
XIV.
Il figlio di Pompeo.
(Pag. 345 a 366.)
Gli effetti economici della guerra civile. – Malcontento universale
dell’Italia. – Intorpidimento dell’opinione pubblica. – Il giovane
Orazio a Roma. – La prima rivolta popolare contro il triumvirato. –
La popolarità di Sesto Pompeo. – Nuove difficoltà per
il triumvirato. – Orazio è presentato da Virgilio a Mecenate.
– Il dominio di Sesto Pompeo in Sicilia. – Il trattato di Miseno.
XV.
Il disastro di Scilla e la vendetta di Crasso.
(Pag. 367 a 389.)
La prima vittoria di Ventidio sui Parti. – Il divino Antonio, nuovo
Dionysos. – Orazio e Sallustio. – Il successo delle ecloghe di
Virgilio e sue ragioni. – La nuova moglie di Ottaviano: Livia. –
Nuova guerra tra Sesto Pompeo ed Ottaviano. – Antonio impone a
Ottaviano la pace. – Ottaviano persiste nella guerra. – Il disastro
di Scilla e la vendetta di Crasso. – Ottaviano invia Mecenate ad
Antonio. – Il viaggio di Mecenate descritto da Orazio.
XVI.
Le Georgiche.
(Pag. 390 a 410.)
La risposta di Antonio ad Ottaviano. – Agrippa fabbrica una armata.
– Il convegno e l’accordo di Taranto. – La lenta trasformazione
dell’Italia. – Le vecchie tradizioni tornano in onore. – Il “De re
rustica” di Varrone. – Le idee fondamentali e le contradizioni del
libro. – La città e la campagna, secondo Varrone. –
L’economia della schiavitù secondo Varrone. – Le “Georgiche”.
XVII.
Le nozze di Cleopatra e di Antonio.
(Pag. 411 a 423.)
Il piano della guerra di Persia. – Antonio si risolve a sposare
Cleopatra. – Ottaviano prepara la campagna definitiva contro Sesto.
– Il matrimonio di Antonio e di Cleopatra. – L’opinione pubblica
dell’Italia. – I primi Epodi di Orazio.
XVIII.
La grande spedizione partica.
(Pag. 424 a 443.)
La marcia di Antonio dalla Siria all’Armenia minore. – Il principio
della guerra tra Sesto e Ottaviano. – Lepido perturba le mosse di
Ottaviano. – L’abile stratagemma di Sesto Pompeo. – Ottaviano
circondato a Taormina. – La ritirata di Cornificio. – La sconfitta
finale e la fuga di Sesto Pompeo. – Le difficoltà della
guerra di Persia. – Antonio è costretto a ritirarsi. – Le
cagioni dell’insuccesso di Antonio.
XIX.
Antonio e Cleopatra.
(Pag. 444 a 469.)
La deposizione di Lepido. – Il voltafaccia di Ottaviano. – Ragioni
interne ed esterne del mutamento. – Lo scredito e la debolezza del
triumvirato. – Le ripercussioni politiche dell’insuccesso di Persia.
– Le concessioni di Ottaviano alla opinione pubblica. – Politica
moderata e pacifica di Ottaviano. – Antonio, dopo il ritorno dalla
Persia. – La prima campagna illirica di Ottaviano. – La fine di
Sesto Pompeo. – Grandi progetti e piccole opere. – Antonio e
Cleopatra. – La guerra di Dalmazia e la conquista dell’Armenia.
XX.
Il nuovo impero egiziano.
(Pag. 470 a 501.)
La ricostituzione dell’impero egiziano. – Antonio ad Alessandria. –
L’impressione in Italia sul nuovo impero. – Il progressivo mutamento
dell’opinione pubblica. – Il secondo libro delle satire di Orazio. –
Ottaviano si oppone alla politica orientale di Antonio. –
L’edilità di Agrippa: il Pantheon. – Antonio si accinge di
nuovo all’impresa di Persia. – Le prime avvisaglie della lotta tra
Antonio d Ottaviano. – La lotta si accanisce: intrighi di Antonio
contro Ottaviano. – Antonio sospende la impresa di Persia. – Il
piano di Antonio contro Ottaviano. – L’ultimo colpo di stato di
Ottaviano. – Antonio concentra l’esercito ad Efeso. – Le feste di
Efeso. – Cleopatra segue l’esercito di’Antonio.
XXI.
Azio.
(Pag. 502 a 539.)
La lotta tra Domizio Enobarbo e Cleopatra. – Le difficoltà di
Ottaviano in Italia. – Antonio ripudia Ottavia. – Ottaviano apre il
testamento di Antonio. – La “coniuratio”. – Il disordine
nell’esercito di Antonio. – Il piano strategico di Antonio. – Il
piano strategico di Ottaviano. – Cleopatra vuole interrompere la
guerra. – Il finto attacco di Agrippa e la sorpresa di Ottaviano. –
I due eserciti nel golfo di Ambracia. – Inerzia dei due eserciti. –
Antonio propone di dar battaglia sul mare. – Nuove discordie tra
Cleopatra e i grandi romani. – Le disposizioni per la battaglia
navale. – Ottaviano convoca un consiglio di guerra. – La battaglia
di Azio. – La resa dell’esercito di Antonio.
XXII.
La caduta dell’Egitto.
(Pag. 540 a 563.)
I lenti effetti della vittoria di Azio. – Le incertezze di Ottaviano
dopo Azio. – Il rivolgimento dell’opinione pubblica in Italia. –
Antonio e Cleopatra in Alessandria. – Preparativi di offesa e
difesa. – L’ultima rivolta dei veterani. – Lo sfacelo dell’impero
egiziano. – La presa di Alessandria e la morte di Antonio. – Il
giudizio su Antonio. – L’annessione dell’Egitto. – Ottaviano si
impadronisce del patrimonio dei Lagidi. – Il ritorno di Ottaviano.
XXIII.
La restaurazione della repubblica.
(Pag. 564 a 590.)
Ottaviano vuol ritirarsi a vita privata. – Monarchia e repubblica. –
Rinascenza delle tradizioni repubblicane. – Le odi civili di Orazio.
– La monarchia impossibile a Roma. – Difficoltà di costituire
un governo. – Le riforme di Ottaviano nel 28. – L’idea fondamentale
della riforma politica di Ottaviano. – Ottaviano, presidente unico
della repubblica. – Augustus. – La restaurazione della repubblica. –
Il principio di una nuova storia. – Augusto non è il
continuatore, ma l’antitesi di Cesare.
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Le Appendici critiche a cui si accenna nelle note saranno pubblicate
tra poco in un volumetto a parte.