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Guglielmo Ferrero



Grandezza e decadenza di Roma




Vol. III

Da Cesare ad Augusto

 

Indice generale

PREFAZIONE.  

I.
TRE GIORNATE TEMPESTOSE
(15, 16, 17 marzo 44 a. C).    

II.
I FUNERALI DI CESARE.  

III.
DISSOLUZIONE UNIVERSALE.  

IV.
IL FIGLIO DI CESARE.    

V.
LA LEGGE AGRARIA DI LUCIO ANTONIO.    

VI.
LA “LEX DE PERMUTATIONE”.  

VII.
I VETERANI ALL’INCANTO.    

VIII.
IL “DE OFFICIIS”.    

IX.
LE FILIPPICHE E LA GUERRA DI MODENA.    

X.
“TRIUMVIRI REIPUBLICAE COSTITUENDAE”.    

XI.
LA STRAGE DEI RICCHI E FILIPPI.    

XII.
FULVIA E LA GUERRA AGRARIA D’ITALIA.    

XIII.
CLEOPATRA ED OTTAVIA.    

XIV.
IL FIGLIO DI POMPEO.    

XV.
IL DISASTRO DI SCILLA
E LA VENDETTA DI CRASSO.    

XVI.
LE GEORGICHE.    

XVII.
LE NOZZE DI CLEOPATRA E DI ANTONIO.  

XVIII.
LA GRANDE SPEDIZIONE PARTICA.    

XIX.
ANTONIO E CLEOPATRA    

XX.
IL NUOVO IMPERO EGIZIANO.    

XXI.
AZIO.    

XXII.
LA CADUTA DELL’EGITTO.  

XXIII.
LA RESTAURAZIONE DELLA REPUBBLICA.    

INDICE.    


1904


PREFAZIONE.

In questo volume, con lo stesso metodo adoperato nei due precedenti, ho studiati e narrati gli eventi che dalla morte di Cesare vanno alla seduta del Senato in cui Ottaviano ricevè il titolo di Augustus. Sono diciassette anni di storia – dal 15 marzo del 44 a. C. al 16 gennaio del 27 a. C. –: diciassette anni tra i più importanti della storia di Roma, perchè in essi è la ragione ultima di tutto il governo e di tutta l’opera augustea; tra i più difficili, perchè, eccezion fatta della primissima parte, i documenti sono molto frammentari, confusi, lacunosi, guasti dalle falsificazioni dei partiti e dagli errori degli storici, che narrarono nei secoli seguenti quegli eventi senza comprenderli.

Ho quindi dovuto abbondare nelle analisi critiche, per spiegare minutamente il procedimento con cui ho scomposto nei suoi elementi la tradizione per poi ricomporla. Non bastando a questo scopo le note poste a piè di pagina, pubblicherò tra qualche mese un volumetto di appendici critiche, dove saranno minutamente analizzati i documenti su quattordici punti tra i più gravi, in cui mi sono maggiormente allontanato dalla tradizione.

La mia ricerca ha conchiuso in modo diverso dalla tradizione sopratutto in due punti molto importanti. Io considero come una leggenda, che non ha fondamento alcuno nei documenti, l’affermazione tante volte ripetuta che Augusto fu l’esecutore dei disegni di Cesare. Quali si fossero – e noi non lo sappiamo con precisione – questi disegni, nei diciassette anni, la cui storia è narrata in questo libro, avvenne un così grande sconvolgimento, le condizioni dell’Italia e dell’Impero mutarono talmente, che Augusto ebbe un compito del tutto diverso da quello che spettò a Cesare. Un altro grande errore, che ha travisata tutta la storia della prima parte dell’Impero, giudico poi l’altra idea, comunemente accettata, che Augusto sia il fondatore della monarchia a Roma. Egli fu invece l’autore di una restaurazione repubblicana, vera e non formale.

Torino, 7 dicembre 1903.

Guglielmo Ferrero.

DA CESARE AD AUGUSTO


I.
TRE GIORNATE TEMPESTOSE1
(15, 16, 17 marzo 44 a. C).

[44 a. c. 15 marzo] Ma i congiurati, i principali personaggi di Roma ed Antonio non tardarono a riaversi dallo stupore, in cui li aveva gettati l’improvviso assassinio di Cesare. Necessitati, durante la congiura, a passarsi le ambasciate furtivamente, trepidando, in conciliaboli circospetti di tre o quattro, gli uccisori non avevano potuto affiatarsi bene; si erano intesi sul modo di ammazzar Cesare, ma eran rimasti nel vago su quello che farebbero poi, senza altro proposito ben definito che di proporre subito al Senato la restaurazione della repubblica. Perciò, fallito inopinatamente questo disegno, essi si trovavano ora soli sul Campidoglio deserto; snervati da quella stanchezza che segue alle grandi commozioni; un po’ sgomenti dalla gran fuga e dal grande spavento che avevano visto nelle vie di Roma, incerti sul giudizio che darebbe la città dell’atto loro, sul contegno dei veterani e del popolino, che potevano diventar tracotanti, se il pubblico titubava o era avverso. Che risolvere? Non è difficile a spiegarsi come, in quella condizione degli animi e delle cose, sembrasse a tutti ottimo consiglio di non far nulla senza essersi intesi prima con gli uomini più autorevoli del partito conservatore; e che perciò deliberassero di mandare i servi, da cui erano stati accompagnati lassù, alle case dei loro amici più cospicui, per invitarli a venire sul Campidoglio. Nel tempo stesso gli uomini eminenti del partito dei grandi, riavutisi dal primo stupore, cercavano di saper notizie dei congiurati; e già Cicerone, che straordinariamente commosso dall’uccisione smaniava per l’impazienza, scriveva a Basilo un laconico biglietto, congratulandosi e domandando che si facesse2. Nè diverso era il primo pensiero di Antonio: aver notizie e consigli. Da chi era stato ucciso Cesare? Chi poteva chiamare a consiglio in quel frangente così periglioso? Cosicchè nel pomeriggio cominciarono a incrociarsi per Roma gli spediti messaggeri, che fiutavan notizie, portavano lettere ed ambasciate per ogni dove.

Tanto malcontento si era addensato contro Cesare nel cupo segreto degli animi, durante gli ultimi anni, che non fu difficile trovare un certo numero di senatori, i quali osarono recarsi sul Campidoglio nel pomeriggio; tra questi Cicerone, il quale arrivò quasi fuori di sè per la gioia, in una concitazione d’animo straordinaria, che l’aveva sbalzato fuori alla fine, repentinamente, dall’erudito torpore e dalla stanca malavoglia in cui da tanto tempo impigriva. E tutti insieme presero a deliberare. Che fosse necessario convocare al più presto il Senato, era chiaro: ma chi lo avrebbe convocato? Il console superstite, a cui spettava costituzionalmente, proponevano alcuni; e meno stoltamente forse che non pensino certi storici moderni, troppo dimentichi che giudicare in mezzo agli eventi è cosa più difficile del giudicare con il senno di poi. Antonio era stato sino a pochi mesi innanzi uno dei cesariani moderati, come Bruto, Cassio, Trebonio, incorrendo anzi nell’ira di Cesare per la crudele repressione dei tumulti di Dolabella nel 47; era, sì, passato all’ultimo nella fazione opposta; ma i debiti, l’oscurità a cui l’aveva condannato il dittatore, le sollecitazioni di sua moglie Fulvia potevan valergli di scusa, indurre gli antichi amici a sperare che, morto Cesare, si ravvederebbe dal breve errore. Cicerone invece, che si esaltava ancor maggiormente ritrovando sul Campidoglio tra tanto numero di congiurati i suoi migliori amici e gli uomini più insigni dei due partiti già così avversi, prese a proporre un grande ardimento: non era prudente fidarsi di Antonio; conveniva precipitar gli eventi a proprio favore con un ardito colpo di stato; Bruto e Cassio, che erano pretori, convocassero il Senato, usurpando i poteri di Antonio, chiamassero i cittadini alle armi, come ai tempi di Catilina, si impadronissero subito dello Stato: intanto restassero tutti sul Campidoglio, come un piccolo Senato, ad aspettare che si convocasse il vero. In che modo si divisero, nella discussione, i pareri? Noi non lo sappiamo; ma pare che Bruto e Cassio inclinassero al primo partito; e certo è che la proposta di Cicerone non fu accolta. Quegli uomini di guerra e di spada ebbero allora maggior paura che lo scrittore; non si fidarono che il popolo, o troppo amico di Cesare o troppo infingardo, si leverebbe al loro grido; temettero fors’anco che potesse levarsi contro loro; tutti si profusero in congratulazioni con gli uccisori, ma nessuno volle poi restare, per partecipare alla esecuzione del colpo di stato; si discusse a lungo, ma il tempo passava, le giornate di marzo non sono lunghe, e la sera si avvicinava; si conchiuse alla fine che, riuscita felicemente l’impresa di uccider Cesare, non era prudente guastarla con un nuovo ardimento che poteva fallire. Si deliberò quindi di avviar pratiche di pace con Antonio, di invitarlo a venir sul Campidoglio a discutere sulla convocazione del Senato e la restaurazione incruenta della repubblica, ma a quali condizioni, in che modo nessuno sapeva chiaramente, solo promettendo subito che nessuno onore concesso a lui da Cesare sarebbe tolto; si deliberò inoltre di preparare per il giorno dopo delle dimostrazioni popolari, per muovere a loro favore l’opinione pubblica; e si incaricarono delle trattative con Antonio parecchi senatori. Cicerone però non volle prendervi parte.

Invece par che solo Lepido, il magister equitum di Cesare, osasse in quel pomeriggio recarsi da Antonio; e che, quando giunse alla casa del console, costui non possedesse ancora ragguagli precisi sui congiurati. Le notizie raccolte da servi e apparitori, in quel pomeriggio, non potevano essere che confuse ed incerte. Eppure come giudicar della situazione, prima di sapere da chi Cesare era stato spento? Non è quindi inverisimile che Lepido e Antonio, ritrovatisi insieme, mentre i congiurati discutevano sul Campidoglio, si ingegnassero di discerner qualche cosa in quel crepuscolo di incerte notizie; sinchè verso sera, all’improvviso, nella tenebra in cui brancolavano, arrivò gente munita di fiaccole: gli ambasciatori dei tirannicidi. Costoro, come è naturale, per avvalorare le proposte di pace, incominciarono enumerando i congiurati; e allora Antonio potè rendersi conto, ma con grande spavento, della vastità e gravità della congiura, capire perchè solo Lepido fosse venuto da lui. Cesare era stato ucciso, niente meno che dalla parte più autorevole dei due partiti, cesariano e pompeiano, unitisi insieme a formare un partito nuovo! Gli scrittori moderni son tutti d’opinione che, appena spento Cesare, Antonio pensò soltanto a occupare il luogo suo nello Stato; ma a me pare più probabile che in quella sera almeno, quando, avute definitive notizie della congiura, levò gli occhi a spiare i segni del tempo, egli dovette scorgere sopra il suo capo, in tutto il cielo, delle nuvole minacciose, ed essere agitato da ben diverse ansietà! La morte di Cesare era per lui una sciagura terribile, perchè non solo annullava, ma volgeva in danno maggiore il passeggiero vantaggio della sua ultima conversione. I conservatori e i cesariani moderati, incoraggiati ora e fatti potenti dal successo della congiura, cercherebbero impadronirsi di nuovo dello Stato; e che cosa avverrebbe di lui, che i congiurati dovevano considerare come un transfuga, se ci riuscissero? È vero che gli ambasciatori avevano portate proposte amichevoli; ma queste, invece di rassicurare, mettevano in maggior sospetto Antonio, il quale si immaginava i congiurati, non come erano, incerti, esitanti, paurosi del popolo, ma baldanzosi e feroci. Quelle proposte nascondevano indubbiamente una insidia! Andar sul Campidoglio, in mezzo ai congiurati, il cui desiderio più ardente doveva esser di ammazzar lui come Cesare? Antonio non era così matto da gettarsi in bocca al lupo. Ma nel tempo stesso non poteva respinger senz’altro le proposte di pace, precipitare una rottura definitiva, inerme e assistito solo da Lepido. In quel gran dubbio, egli ricorse all’espediente di tutti coloro che si trovano sprovvisti di consiglio: domandò tempo a riflettere sino alla sera dopo.

Con sua grande gioia, gli ambasciatori accettarono; onde, partiti questi, Antonio e Lepido poteron riprendere il colloquio con maggior conoscenza della situazione. Essi sapevano ora che gli avanzi del partito conservatore erano a capo della congiura; non tardarono perciò a concordare in questo: che ad essi conveniva, mettendo in un fascio tutti i congiurati, cesariani e conservatori, affrettarsi a denunciare al popolo la uccisione di Cesare come una vendetta di Farsaglia perpetrata dal partito conservatore, per togliere ai popolari il frutto delle loro vittorie; di ingrandire il pericolo di una restaurazione aristocratica, per concitare così a difesa loro il partito di Clodio e di Cesare. Deliberaron quindi di chiamare subito a raccolta gli avanzi dei collegia di Clodio, di rintracciare gli uomini più eminenti del partito restati fedeli a Cesare, di far venire dalle vicinanze i veterani e di raccogliere tra quelli una piccola milizia, di cui Lepido avrebbe assunto il comando, e con la quale difendere, se fosse necessario, se stessi e la loro autorità. [44 a. c. Notte del 15 marzo]. Presi questi accordi, Lepido andò a raccogliere i soldati; e Antonio, ricordandosi alla fine del morto collega, si recò a notte calata, con una guardia di schiavi, al Foro, nella domus publica, dove tre schiavi avevano portato su una barella il corpo di Cesare, a far visita alla vedova. Spento e immoto in un lettuccio vide allora il piccolo corpo di quell’uomo di cui aveva da più di dieci anni osservata da vicino, quasi ogni giorno, la prodigiosa alacrità; vide e parlò a Calpurnia.... Non credo che faticasse molto a farsi consegnare le carte di Cesare, una somma di 100 milioni di sesterzi e gli oggetti preziosi che Cesare teneva in casa; anzi non è improbabile che Calpurnia stessa glieli offerisse. Una modesta donnetta, come Calpurnia, non poteva custodir queste cose, sotto gli occhi dei congiurati accampati sul Campidoglio; quando forse così Calpurnia come Antonio stupivano che i congiurati non avessero ancora pensato a questa presa, per una dimenticanza che è un’altra prova della fretta ansiosa con cui la congiura fu abborracciata. Di prendere le carte poi Antonio aveva quasi diritto, come console; tanto è vero che Cesare stesso, prima di partire, gliene aveva consegnate molte, contenenti disposizioni per il tempo in cui sarebbe assente. Comunque sia, Antonio portò tutto a casa sua; dove tornato, attese con alacrità meravigliosa a mandar schiavi, liberti, clienti in ogni parte: per Roma a svegliare i capi dei collegia e i maneggioni elettorali; per Roma e nelle città vicine a cercare i veterani e invitarli alla casa di Lepido, a rintracciare gli amici più influenti di Cesare, a scovare i suoi coloni e i suoi beneficati e a sparger dappertutto la voce: accorressero a Roma; il partito conservatore voleva annullare ogni atto di Cesare, riprendere i beni venduti, i doni largiti, i diritti concessi.... Nel tempo stesso, dal Campidoglio, i congiurati, che però non avevano ben capita la risposta di Antonio, davano mano a preparare le dimostrazioni popolari del giorno dopo, mandando in giro schiavi, liberti, clienti, amici a sollecitare ogni sorta di persone e ad assoldare mestatori elettorali. Cosicchè Roma, come tutte le città antiche non illuminata, e perciò deserta e silenziosa dopo il calare del sole, fu quella notte piena di clamore e di gente.

Non era cosa agevole però, nè per l’uno nè per l’altro partito, commuovere il pubblico. I pochi nemici spietati di Cesare giubilavano, e i pochi amici devotissimi lacrimavano per la sua morte; ma l’animo del maggior numero era sospeso. A non pochi l’uccisione aveva fatto piacere, per gli antichi rancori, per gli acerbi ricordi della guerra civile, per l’invidia che perseguita sempre i potenti. Molti invece, come sempre avviene in tali tragedie, giudicavano quel misfatto politico alla stregua della comune morale personale e quindi compiangevano questo uomo, assalito solo e sgozzato a tradimento da una turba inferocita, dimenticando però che questa volta l’uomo assalito solo da sessanta era il capo di un partito anzi di un impero e avrebbe sterminati i suoi nemici in un’ora, sopravvivendo. Tuttavia su questa vaga compiacenza e su questa pietà prevaleva in quel giorno, nei più, una grande paura. Nessuno immaginava che e i congiurati e i cesariani fossero allora egualmente disorientati perplessi discordi; tutti credevano che i congiurati avessero preparato da lungo tempo denari eserciti partigiani adeguati all’impresa, che l’altra parte fosse pure animosamente pronta alla guerra civile.... Quindi i più non sapevano risolversi nè per gli uni nè per gli altri. A gran fatica i congiurati riuscirono nella notte ad assoldare qualche banda di strilloni; e Lepido a reclutare un piccolo corpo di soldati. [44 a. c. 16 marzo] Con questi però egli potè all’alba del 16 occupare il Foro, e dar modo ad Antonio di comparire ed esercitare, come in tempi consueti, le sue funzioni di console, insieme con i pochi magistrati che non avevano preso parte alla congiura. Non comparvero invece nè i due pretori nè gli altri magistrati che erano sul Campidoglio; cosicchè a chi passeggiava nel Foro, lo Stato pareva, quella mattina, in potere dei Cesariani. Era un vantaggio: infatti, a veder quelle armi e il console, molti veterani, capi di collegia e partigiani di Cesare sino allora esitanti presero animo: e gli uni corsero a casa a toglier le armi, altri andarono a sollecitare gli amici e i membri del proprio collegium. In quella, ecco la prima turba di dimostranti assoldata dai conservatori compare sul Foro, e vi incontra le pattuglie dei veterani.... Ma a simil vista l’entusiasmo mercenario gelò d’improvviso; nessuno osò, presenti i suoi veterani, applaudire agli uccisori di Cesare; solo il pretore Cinna ardì buttar via le insegne dichiarando in un discorso che voleva averle dal popolo e non da un tiranno, mentre la turba intimidita appena ardiva gridare: pace, pace. Nè andò molto che, l’uno svoltando di qua, l’altro di là, la turba si disperse. Eppure i veterani non avevano osato far loro violenza.... Ricominciava intanto un grande via vai di senatori tra il Campidoglio e la casa di Antonio. Nella notte il console aveva riflettuto con maggior agio sulla situazione e aveva conchiuso esser questa la cosa più perigliosa per il suo partito: che uno dei congiurati più insigni, Decimo Bruto, doveva, per le disposizioni di Cesare, governare in quell’anno la Gallia Cisalpina, restar cioè alla testa di un esercito nella valle del Po, a quindici giorni di marcia da Roma. Egli argomentò facilmente che l’esercito di Gallia sarebbe la colonna massima del nuovo governo, il gran spauracchio con cui i congiurati avrebbero mantenuto docile ai loro voleri il Senato; onde è verisimile che nella notte dal 15 al 16 si risolvesse a tentar sopratutto di ottenere che Decimo Bruto rinunciasse a questo comando. Senonchè se alla mattina del 16 i veterani e i coloni di Cesare incominciavano ad arrivare dai paesi vicini, sembra invece che dei cesariani eminenti fosse rintracciato solo Irzio: che gli altri, Balbo, Pansa, Oppio, Caleno, Sallustio si fossero appiattati nelle ville vicine. Come strappare, così solo, questa rinuncia ai congiurati? Bisognava adoperare l’astuzia. Pare infatti che in quella mattina Antonio avviasse trattative amichevoli con i congiurati, per lusingarli che egli era disposto ad esser loro di aiuto quanto poteva a restaurare la repubblica; e che nello stesso tempo si sforzasse di indurre Decimo Bruto, chi sa con quali imbrogli, a separarsi dai suoi compagni e a tornare dal Campidoglio a casa sua. Egli sperava forse di poter più facilmente spaventare Decimo e indurlo a rinunciare alla provincia, quando fosse lontano dagli altri cospiratori. Così, in quelle acque torbide, egli gettò l’amo di nuove trattative. Per sua fortuna, sebbene sin dal mattino molti uomini considerevoli si fossero recati sul Campidoglio a trovarli, i cospiratori erano scoraggiti dall’insuccesso della prima dimostrazione e dalla freddezza del pubblico, impensieriti dalle milizie di Lepido; tutti incominciavano a spaventarsi per l’arrivo e l’agitazione dei coloni e dei veterani, che, come sempre avviene ai conservatori, immaginavano maggiore del vero; si discutevano molte proposte, tra le altre di far scendere Bruto e Cassio nel Foro, a tenere un gran discorso al popolo: ma l’esitazione era grande. Non correrebbero pericolo di esser tutti fatti a pezzi? Antonio non si metterebbe in sospetto? Gli incauti abboccarono quindi prontamente all’amo; e nuove pratiche furono avviate. Nessuno dei due partiti aveva ancora il coraggio di prender l’iniziativa delle offese; ambedue si tenevano sulla difesa, aspettando che la nubilosa incertezza della situazione si schiarisse.

Ma non era possibile che di queste esitazioni e discussioni non trapelasse qualche notizia; cosicchè a mano a mano che le ore della mattinata passavano, Antonio, il quale già forse si meravigliava di trovare i congiurati e Decimo così arrendevoli, dovè prima dubitare e poi confermarsi nel dubbio che i suoi nemici avessero molta paura. Difatti, in mezzo a queste incertezze, egli riuscì a separare dai suoi compagni Decimo, che ritornò alla propria casa. Un evento improvviso scompigliava però di lì a poco, nella mattina, ogni cosa. Dolabella, il prediletto di Cesare, comparve a un tratto nel Foro, seguito da una turba di veterani e strilloni, con le insegne di console: tenne un discorso in lode degli uccisori del tiranno; poi salì al Campidoglio a salutarli. Se Antonio non avesse impedito il compimento di tutte le cerimonie liturgiche, richieste per una elezione, egli sarebbe stato, morto Cesare, console; ma non essendo uomo da rinunciare al consolato per una questione di forma, aveva pensato nella notte di ratificarsi console da sè, sperando di poter mantenersi nella carica con l’aiuto dei congiurati e dei conservatori, ai quali, sarebbe di gran vantaggio avere favorevole un console, anche se poco autentico, per intralciare tutti i disegni dell’altro console. Difatti questo piccolo colpo di stato commosse molto la città e parve incitare a maggiore audacia i congiurati. I dimostranti falliti della mattina, ripreso coraggio, tentarono una nuova dimostrazione sul Foro, chiamando a gran voce Bruto, Cassio e i loro compagni; i congiurati si rianimarono, deliberaron che Bruto e Cassio scenderebbero a parlare al popolo, sospendendo così od almeno togliendo valore alle trattative. Ma in che modo? In qual compagnia? Par che su questo punto ricominciassero le discussioni e le esitazioni, forse perchè il maggior numero dei congiurati cercava schermirsi. Alla fine si deliberò che Bruto e Cassio scenderebbero soli; ma che i più autorevoli senatori e cavalieri, che erano allora sul Campidoglio, li accompagnerebbero solennemente, come Cicerone ai tempi della congiura, per proteggerli se era necessario contro le violenze della moltitudine. Nuove incertezze ricominciarono in tutti, appena fu nota, sul Foro, questa deliberazione, tutti ricordando quante volte il partito conservatore aveva sgominato i popolari con una di queste teatrali dimostrazioni; Antonio e Lepido, sebbene dovessero desiderare che la dimostrazione fallisse, non osarono, specialmente dopo il tradimento di Dolabella, preparare qualche violenza; ma preferirono aspettar a vedere che cosa succederebbe. E finalmente, nel pomeriggio, il solenne corteo si dispose sul Campidoglio, scese lento nel Foro, si aprì la via nella moltitudine, che era accorsa ad aspettarlo; Marco Bruto, giunto il corteo ai rostri, salì, si mostrò alla folla; un gran silenzio si stese sul Foro. In quel silenzio Bruto die’ principio al discorso e parlò, spiegando l’uccisione e i suoi motivi, non disturbato. Il popolino, che odiava in pensiero i grandi, li rispettava ancora in persona; Bruto godeva molta considerazione; non tutti gli uditori erano cesariani e gli uni avevano soggezione degli altri. Perciò alla fine non scoppiarono nè fischi nè applausi, il pubblico restò freddo, la radunanza finì in un modo incerto; e i congiurati, con il corteo dei conservatori, ritornarono sul Campidoglio un po’ delusi.

Ma allora l’incerta situazione tracollò. Non solo Antonio, ma tutti capirono che i congiurati avevano paura. Mentre da un giorno Roma aspettava d’ora in ora che compissero chi sa quali imprese, i congiurati non avevano osato nemmeno discender tutti sul Foro, e appena finito il discorso si affrettavan tutti di nuovo al rifugio. Invece i coloni e i veterani continuavano ad arrivare; il popolino di Clodio e di Cesare imbaldanziva; intorno ad Antonio non solo si era già dimenticato il tradimento di Dolabella, ma si cominciava a consigliare una gran vendetta del dittatore. Intanto si avvicinava la sera e scadeva il termine fissato da Antonio per la risposta. Incoraggiato dalla paura dei congiurati e dall’animoso accorrere dei veterani e dei coloni, il console si risolvè verso sera a troncar le trattative; a convocare il Senato per la mattina seguente, non nella Curia troppo vicina al Campidoglio, ma nel tempio di Tellure, vicino alla casa sua; a rimettere ogni deliberazione al supremo consesso, invitandoci amichevolmente i congiurati; a convocar pure, prima della seduta, una radunanza di cesariani; a mandar Irzio da Decimo a dirgli che, considerando quanto il popolo e i veterani erano sdegnati contro loro, egli non poteva consentire che Decimo avesse la sua provincia; anzi doveva consigliarli tutti, per il bene loro, a lasciar Roma. Egli sperava, precipitando le cose, che i congiurati, spaventati, non interverrebbero alla seduta del giorno dopo e che egli potrebbe far approvare dal Senato quel che gli paresse più opportuno per indebolirli, senza atteggiarsi a loro nemico, senza compiere violenze e riparandosi comodamente dietro la autorità legale dell’assemblea. E difatti la minaccia era avventata in un momento così opportuno, che Decimo vacillò per un istante, e considerando tutto perduto si dichiarò pronto a lasciar Roma, purchè gli concedessero una legazione libera.

[44 a. c. Notte del 16 marzo] Cadeva la sera; l’aria si oscurava nelle vie anguste e nei crocicchi; il fervore operoso del giorno avrebbe dovuto, come al solito, spegnersi nel buio silenzioso e solitario della città senza lumi, rotto solo di tempo in tempo da qualche comitiva provvista di fiaccole, da qualche solingo viandante munito di lanterna, da qualche sperduto vagante a tastoni nella tenebra. Ma sul Campidoglio, dove nessuno si sentiva l’animo di recarsi sino al tempio di Tellure, tutti avevan subito capito per qual raggiro Antonio, invece di continuar le trattative con loro, rimetteva a un tratto ogni cosa al Senato, dove essi non potrebbero comparire a discutere; ed incitati a maggior risolutezza dall’imminente pericolo, in fretta e furia avevan deliberato di adoperarsi con ogni sforzo per mandare alla seduta del Senato una maggioranza favorevole a loro. Nel tempo stesso Antonio e Lepido, risoluti ad avere in Senato la maggioranza, si proponevano di radunare intorno al tempio di Tellure quanti più veterani e coloni potessero, a spavento dei conservatori. Perciò quella notte Roma dovè continuare nella oscurità senza luna la veglia e le opere del giorno. Il console fece accendere dei grandi fuochi nelle piazze, nei crocicchi, nelle vie, per illuminare alla meglio le tenebre, affinchè anche coloro che non avevano servi per portare le lampade, potessero camminare; e alla luce vacillante di questi grandi fuochi andavano e venivano frettolosi i messi mandati dai congiurati alle case dei senatori a supplicarli di non mancare il dì dopo alla seduta; passavano le frotte dei veterani che giungevano dai paesi vicini a tarda ora, i magistrati e i cittadini eminenti che si cercavano per consultarsi, le pattuglie dei soldati, le brigate degli artigiani, dei liberti, dei plebei, che i collegia movevano. Nella casa di Antonio, probabilmente, ebbe luogo a notte inoltrata la radunanza dei cesariani. Par che tutti gli uomini eminenti, tranne Irzio, Lepido e Antonio, mancassero; e che la discussione sia stata lunga. Alcuni volevano che si desse ai congiurati licenza di uscir di Roma, ma con la promessa che non susciterebbero turbolenze; Irzio propose che si facesse pace e si accogliesse l’invito dei congiurati di procedere unitamente e d’accordo a restaurare il governo repubblicano, lasciando la maggioranza del Senato decidere; Lepido invece, cui probabilmente gli eventi favorevoli del giorno innanzi avevano troppo riscaldata la testa, fece ai cesariani la proposta che Cicerone aveva fatta ai conservatori: osare cioè il colpo di Stato, assaltare il Campidoglio e uccidere, tra il plauso del popolo, i congiurati, tra i quali pure era suo cognato. Antonio però, come Bruto e Cassio non avevano voluto accogliere la proposta di Cicerone, non approvò il simigliante consiglio di Lepido e fece prevalere la proposta di Irzio. Egli sapeva che in tutta Italia le classi agiate e ricche sarebbero favorevoli ai congiurati, e giudicava imprudente una violenza, quando si poteva piegare ai loro voleri l’organo legale, il Senato, con la folla vociante e minacciosa dei veterani.

Così la risoluzione delle difficoltà era rimessa al Senato, nel quale nessuno sapeva qual partito avrebbe la maggioranza. Lepido e Antonio confidavano di poter signoreggiarla e continuavano a mandar veterani e coloni nelle vicinanze del tempio di Tellure; i congiurati temevano non sarebbe loro favorevole, per paura se non per convincimento, e sollecitavano disperatamente tutti gli amici di non mancare; tutti i partiti e tutti i senatori si preparavano ad andare alla seduta, senza propositi ben definiti e senza intese sicure. Che cosa risulterebbe da tante incertezze? Che cosa si conchiuderebbe in quella seduta? [44 a. c. 17 marzo] Se lo domandavano ansiosamente molti senatori, mentre si recavano al tempio di Tellure, la mattina del 17, passando tra i soldati che Antonio e Lepido avevano disposti per mantener l’ordine, e in mezzo a una folla inquieta e tumultuante di ammiratori di Cesare. Passavano i senatori, e il fermento della folla, le grida e i fischi crescevano; dentro il tempio, i crocchi dei senatori parlavano tra loro inquieti, tendendo le orecchie al muggito della tempesta che imperversava di fuori, domandandosi se alla fine non succederebbe qualche guaio; a un momento si udì un tumulto più terribile. Facevano a pezzi qualcuno? Passava Cinna, il pretore che aveva il giorno prima insultato Cesare sul Foro ed era salutato a quel modo. Tuttavia la folla non aveva osato fargli violenza, e Cinna arrivò incolume; sani e salvi vennero tutti i senatori; venne Dolabella e arditamente occupò il seggio del console, senza che Antonio si opponesse; arrivarono alla fine, tra grandi applausi del popolo, Lepido e Antonio. Ma non comparve nessun congiurato.

Sin dal principio però Antonio dovè riconoscere che si era ingannato: non ostante i veterani e i soldati, non ostante l’assenza dei congiurati, la maggioranza del Senato era così apertamente favorevole agli uccisori di Cesare, che egli giudicò subito impossibile far approvare provvedimenti avversi a loro e specialmente a Decimo. Infatti la proposta di invitare i congiurati a prender parte alla seduta, a seder cioè tra i giudici della causa loro, fu subito approvata senza discussione. Troppi odii si erano addensati contro Cesare; troppo profonde e vive erano ancora le tradizioni repubblicane, anche nel Senato plasmato e riplasmato dalla mano di Cesare; troppi i parenti e gli amici di un così gran numero di tirannicidi! Gli amici del dittatore pare non fossero nemmeno venuti e certo nessuno di loro parlò. Ma quando si venne a trattare della strage, la discussione si smarrì presto in una gran confusione di dispareri. Alcuni, e tra questi Tiberio Claudio Nerone, dissero che bisognava dichiarar quella strage un tirannicidio, e quindi deliberare all’uso antico premi ai suoi autori come agli uccisori dei Gracchi; altri, più prudenti, ammisero che i congiurati avevano certamente compiuta una bella impresa; ma che via, dopo tutto, decretar loro premi era forse soverchio. Non bastava una lode? E nemmeno mancavan quelli i quali cercavano metter d’accordo l’orrore dell’assassinio che pur sentivano in cuor loro, e la soggezione della opinione dei più cui non volevano contradire, dichiarando che anche una lode era inopportuna, che l’impunità bastava. Ma i primi replicarono, proponendo l’inevitabile dilemma: o Cesare era stato un tiranno e allora gli uccisori meritavano premio; o aveva governato legittimamente, e allora costoro meritavano pena. Sì divagò molto su questi argomenti, segno evidente che le proposte eroiche, se erano approvate, non soddisfacevano pienamente l’assemblea; e a poco a poco la corrente della discussione portò naturalmente i discorsi divaganti qua e là verso la stretta di una questione essenziale, attraverso cui la discussione doveva passare: Cesare era stato tiranno o no? L’assemblea capì alla fine che era necessario scioglier prima questo dubbio; e deliberò infatti di discutere la questione serenamente, imparzialmente, considerando come nulli tutti i giuramenti a cui Cesare aveva costretti i senatori. Incominciò una nuova discussione; molti oratori parlarono; di fuori giungeva sempre più forte il muggito della folla tumultuante, che imprecava agli uccisori di Cesare; nessuna opinione pareva poter conciliare la discorde assemblea; sinchè alla fine Antonio, che sino allora, un po’ disorientato, aveva taciuto, lasciando vagare a loro piacimento i discorsi, intervenne nella controversia, richiamando tutti con molta abilità dalle divagazioni al punto essenziale; e cioè che, se il Senato dichiarava Cesare tiranno, badasse bene; necessariamente, a rigore delle leggi, ne seguirebbe doversi il suo corpo gettare in Tevere e annullare tutti gli atti compiuti da lui. In altre parole; non solo tutte le terre vendute o donate da Cesare sarebbero riprese, ma sarebbero annullate tutte le magistrature da lui assegnate, anche quelle assegnate ai suoi uccisori; ma cesserebbero di far parte del Senato tutti i senatori, ed eran tanti, scelti da Cesare. Questa argomentazione non poteva non essere straordinariamente efficace, perchè quasi tutti, amici e nemici, avevano arraffato in quegli anni qualche cosa, cosicchè gli uccisori non dovevano esser meno solleciti degli amici a conservare l’opera dell’ucciso, a cominciar proprio da Bruto che era pretore e la cui madre aveva avuto da Cesare una immensa tenuta in Campania. E intanto, quasi a rinforzare l’argomentazione, arrivava di fuori il romore della folla sempre più minaccioso. Stavan forse per dar l’assalto al Senato? Alla fine Antonio e Lepido doverono uscire a tranquillar la turba, e Antonio cominciò ad arringarla; ma la folla non poteva udir bene; si cominciò a gridare al Foro, al Foro; Antonio dovè smettere, avviarsi con Lepido al Foro e là ricominciare il discorso, promettendo al popolo che i suoi desideri sarebbero esauditi. Continuava intanto, sotto la presidenza di Dolabella, la discussione in Senato; ma l’abile intervento di Antonio aveva avuto questo effetto: di incoraggiare gli opportunisti a mettere innanzi quelle osservazioni e proposte, sia pure assurde ma atte a conciliare l’interesse con la passione, che sole potevan soddisfare, invece delle proposte eroiche, questa assemblea. Gettare nel Tevere il cadavere dell’uomo di cui la folla domandava con tante grida la vendetta? L’aristocrazia romana aveva osato una simile prodezza ai tempi dei Gracchi; ma a ottanta anni di distanza trepidava ed esitava questo debole club di affaristi, di politicanti, di dilettanti, di cui ciascuno aveva interessi e fini suoi, e in cui Dolabella, per paura di riperdere il suo consolato, minacciava di diventare nuovamente ammiratore di Cesare, se non se ne convalidavano gli atti. Era così necessario rispettare i diritti acquisiti, che, nel tempo stesso, i congiurati dal Campidoglio, impazienti per la lunga seduta, facevano spargere biglietti nel popolo, promettendo che tutte le concessioni di Cesare sarebbero da loro rispettate. Invano qualche intransigente propose di deporre le magistrature concesse dal tiranno per riaverle dal popolo; ormai, vinta la prima vergogna, i concilianti si facevano coraggio a vicenda e il partito degli arrabbiati perdeva terreno. Antonio e Lepido intanto erano tornati; ma la discussione durò ancora, sebbene ormai fossero quasi tutti d’accordo sulla opportunità di non annullare gli atti di Cesare, senza però dichiarare che l’assassinio era un delitto. Bisognava trovare la formola legale per conciliare questa assurda contradizione; e la cosa non era facile. Alla fine Cicerone, i cui ardori rivoluzionari del 15 si erano frattanto un poco calmati, si ricordò a tempo di una istituzione con cui gli Ateniesi solevano di tempo in tempo porre una tregua alle loro guerre civili: l’“amnistia” ossia la dimenticanza e il perdono reciproco di tutte le azioni commesse contro la legge. Egli propose che si dichiarassero validi, per considerazione di bene pubblico, tutti gli atti del dittatore, non solo quelli già pubblicati, ma anche quelli che si trovassero tra le carte di Cesare scritti in forma ufficiale e in seguito alle facoltà concesse a lui dal Senato o dai comizi; che si lasciasse ad Antonio l’incarico di scernere tra le sue carte; che si proclamasse poi una “amnistia” alla greca, si vietasse cioè ogni accusa per la morte di Cesare. La proposta fu approvata con una speciale disposizione per le colonie ordinate da Cesare, che il senatusconsulto pare espressamente dichiarasse doversi tutte dedurre, per tranquillare i veterani. Dopo, il Senato si sciolse; la deliberazione, spedita ai congiurati, fu da costoro, dopo una breve discussione, accettata; e verso sera, allorchè Antonio e Lepido ebbero mandati in ostaggio sul Campidoglio i loro figli, Bruto, Cassio e gli altri scesero.... Cesare era sparito; ma i congiurati, subito dopo distrutto l’uomo e compiuta la parte dell’impresa che consideravano più ardua, avevano trovata la via ingombra, come da una barricata, dalla opera sua, dalla coalizione degli interessi costituiti durante la guerra civile e la dittatura; e avevan dovuto volgersi intorno all’impedimento, ma con quale artificio! La restaurazione della repubblica conservatrice sulle rovine della monarchia rivoluzionaria incominciava a sua volta con una misura rivoluzionaria quale l’amnistia; istituto greco, straniero alle leggi e alle tradizioni giuridiche latine, che era introdotto a un tratto, una bella mattina, per risolvere un impaccio politico, da un colpo di maggioranza.

II.
I FUNERALI DI CESARE.

Gli scrittori moderni hanno quasi tutti fraintesa la gigantesca convulsione che imprendiamo a narrare, specialmente perchè giudicano non solo che nella età di Cesare la repubblica romana era già esausta e morta, ma che i contemporanei dovevano accorgersene. Perciò ogni atto inteso a ricostituire la repubblica o anche solo a mostrar rispetto per le sue secolari istituzioni e tradizioni è considerato come stoltezza o follia. Invece io penso – e spero dimostrarlo con il seguito di questa narrazione – che la repubblica era ancora più viva che non si creda; ma pur volendo ammettere che fosse morta, bisogna considerare che in ogni tempo e luogo gli uomini si avvedono dei mutamenti nelle istituzioni, nei costumi, nelle idee, solo generazioni e decenni dopochè sono compiuti; che sempre inclinano a credere ogni cosa esistente come indispensabile, e che perciò dovevano allora considerare quella antica repubblica, che aveva avuto un così smisurato successo, quasi come immortale. Chi sarebbe stato così ardito, allora, da pensare che il Senato romano era ormai nello Stato un inutile ingombro, simile al cadavere del padrone nella casa che gli eredi possono mettere a sacco a loro talento? Il Senato romano aveva conquistato e governato un immenso impero; spandeva tanto rispetto e timore sin nelle terre più lontane; aveva ucciso anche Giulio Cesare, perchè, pur dopo tante vittorie e solo negli ultimi tempi, gli aveva mancato di rispetto. Poteva un uomo di senno non temerlo come una istituzione formidabile, e, per quanto cimentoso, muovergli guerra alla leggera, senza esser costretto dalla necessità?

Non è quindi da meravigliarsi se, dopo la seduta del 17 marzo, Antonio fosse in gran pensiero per il modo con cui si eran risolte le incerte oscillazioni del 15 e del 16. Contro la sua aspettazione, non ostante l’assenza dei congiurati, la maggioranza dei senatori aveva resistito con fermezza alle minaccie dei veterani e ratificata la uccisione di Cesare; onde, ora che i tirannicidi potevano liberamente sedere in Senato, era da temersi che, unendosi con i pompeiani superstiti in un solo partito, dominerebbero la repubblica, avendo favorevoli le alte classi, un console, diversi pretori, molti governatori e il Senato. Infatti dei pochi partigiani illustri di Cesare rimasti fedeli, Dolabella aveva già tradito e gli altri erano spariti, tranne Irzio. Nè Antonio nè altri aveva capita la agitazione popolare di quei giorni; che tutti credevano durerebbe, come al solito, quel che dura un fuoco di aride stoppie. D’altra parte, in quella mattina del 17, Antonio era riuscito a cattivarsi con i concilianti discorsi la benevolenza dei conservatori, i quali, recatisi alla seduta in gran sospetto di lui per i maneggi del giorno prima, avevano poi preso a lodarlo enfaticamente3. Poteva Antonio, in tale condizione, rifar prova ancora una volta della sua inesauribile audacia? Antonio era certamente uno dei più possenti tra i politicians o venturieri di famiglia nobile, che nel progressivo scetticismo civico delle classi alte dell’Italia si buttavano allora alla politica e alla guerra come a una gloriosa pirateria. Robustissimo di corpo, pronto di animo, audace e generoso, ma sensuale, imprevidente, orgoglioso, violento sino alla stravaganza; intelligente ma poco astuto, di primo impeto, facile ad esser trascinato a grossi errori dalla veemenza delle passioni e dalla stessa innata temerità; egli non aveva cercato sino ad allora nelle guerre e nella politica nè il potere, nè la gloria, nè la ricchezza per sè stesse; bensì il mezzo di appagare il piacere del lusso, del giuoco, del vino e delle donne, lo spirito autoritario, la generosità profusa, l’orgoglio insofferente di regole e di leggi. Perciò aveva menata una vita randagia di ardimenti illegali, di tremendi perigli, di straordinarie fortune e sventure, dalla spedizione clandestina di Gabinio in Egitto all’assedio di Alesia, dal tribunato rivoluzionario del 49 al passaggio dell’Adriatico nel 48, da Farsaglia alla tempestosa vicedittatura del 47. Senonchè anche gli uomini di indole più violenta e in apparenza indomabile, sanno certe volte trattenersi, quasi di colpo, perchè ci sono costretti da una suprema necessità di conservazione, sull’orlo dell’abisso a cui la loro violenza li ha tratti e per un certo tempo almeno signoreggiarsi. Ora Antonio non poteva in quei torbidi giorni non sentirsi inquieto, osservando come tanti suoi sforzi eran stati resi vani alla fine, come fatiche di Sisifo, da una specie di geniale inconcludenza. Egli aveva guadagnate immense ricchezze, ma le aveva dissipate tutte, cosicchè alle Idi di marzo si era trovato con un patrimonio costituito in gran parte da debiti; aveva rischiato più volte la vita per il partito popolare, eppure aveva periodicamente distrutto il proprio prestigio tra i suoi con qualche improvvisa stravaganza o violenza, come quando nel 47, dopo la grande vittoria del partito popolare, aveva repressi i disordini di Dolabella con la energia di un console del tempo dei Gracchi; cosicchè egli si trovava allora, a 39 anni4, nella precarietà di una fortuna instabile, con pochi amici e molti nemici, con scarsa popolarità, in una condizione di cose incerta, oscura, perigliosissima.... Già infatti la ultima riconciliazione con Cesare prova che gli anni e le traversie inducevano a poco a poco in lui l’intenzione di badar meglio in avvenire al vantaggio suo; senza più disperdere in un’ora i frutti delle fatiche di un anno. [44 a. c. 18-19 marzo.] Ma la subitanea catastrofe delle Idi di marzo e la condizione perigliosa in cui si vide per effetto dei suoi errori precedenti, lo persuasero definitivamente in quei giorni a studiarsi di esser prudente come non era mai stato in vita sua; a spiare, tergiversando, egli l’uomo degli estremi propositi, che piega prenderebbero gli eventi; a non rompere in guerra con il nuovo partito conservatore, a trattarlo bene e a preparare la via per un incontro o una intesa, se il partito popolare apparisse condannato a soccombere, ma cautamente, senza irritar troppo nemmeno il partito popolare, che poteva un giorno o l’altro ritornare in potenza. Si eran viste tante inaspettate meraviglie in quegli ultimi anni!

Cosicchè quando, dopo i festeggiamenti del 18 (Antonio e Lepido diedero un gran pranzo a Bruto e a Cassio), [44 a. C. 19 marzo.] il Senato si radunò nuovamente il 19, tra Antonio e la maggioranza era, se non piena concordia, una mutua condiscendenza benevola, che il Senato subito espresse, votando solenni ringraziamenti ad Antonio per l’opera sua a pro’ della pace5. Il Senato però non potè trattenersi molto su questi complimenti; ma dovè procedere subito a regolare molte questioni particolari, che si eran già presentate in quei due giorni, come necessarie conseguenze della generica amnistia del 17. Bisognava innanzi tutto convalidare, ad una ad una, le disposizioni di Cesare sulle provincie e sulle magistrature, già convalidate tutte insieme il 17, così quelle già pubbliche come quelle contenute nelle carte consegnate da Cesare ad Antonio, per rassicurare tutti coloro che erano già stati scelti alle cariche. Inoltre i parenti di Cesare, e specialmente Pisone, il suocero, che il 17 avevan taciuto, ripreso ora animo, domandavano che si aprisse il testamento e si decretassero pubbliche esequie6. La domanda era abile, perchè troncava il segreto desiderio di molti conservatori di far confiscare il patrimonio del dittatore, composto di spoglie delle guerre civili; nè poteva facilmente esser respinta. Infatti: se Cesare non era dichiarato tiranno, perchè sarebbe stato sepolto come un oscuro privato? Se tutti i suoi atti erano convalidati, si poteva annullarne proprio il testamento? Furono così confermati i proconsoli e i propretori che già erano nelle provincie o che viaggiavano a quella volta: Lucio Munazio Planco nella Gallia capelluta, Asinio Pollione nella Spagna ulteriore, Manlio Acilio Glabrione in Acaia, Quinto Ortensio in Macedonia, Publio Vatinio in Illiria e forse Lucio Stazio Murco in Siria; furono confermati i comandi per l’anno corrente ai governatori che erano ancora in Roma, e quindi anche ai congiurati: la Gallia Cisalpina a Decimo Bruto, l’Africa a Quinto Cornificio, la Bitinia a Tullio Cimbro, l’Asia a Trebonio, la Gallia Narbonnese e la Spagna Ulteriore a Lepido; furono confermate infine le magistrature e i comandi futuri assegnati da Cesare, e cioè che Irzio e Pansa sarebbero consoli nel 43, Decimo Bruto e Munazio Planco nel 42, parecchi altri, tra i quali il congiurato Publio Servilio Casca, tribuni nel 43 o nel 42; che Antonio avrebbe per provincia la Macedonia e Dolabella la Siria. A Bruto e a Cassio Cesare non aveva disgraziatamente assegnata ancora nessuna provincia, quando morì7. Poi si passò a discutere del testamento e delle esequie. Nessuno osò proporre l’annullamento del testamento; ma molti, tra gli altri Cassio, si opposero alla proposta delle pubbliche esequie, ricordando con sgomento il turbolento funerale di Clodio. Se la plebe di Roma aveva commessi allora così selvaggi disordini, che cosa non farebbe per l’assassinio di Cesare?8 Ma i parenti protestarono e Antonio cercò anche questa volta di barcamenarsi, osservando che, rifiutati i funerali pubblici, si potrebbe irritare ancor più il popolino; onde alla fine anche Bruto, più debole di Cassio, cedè; si deliberò che Antonio aprirebbe il testamento consegnato da Cesare alla Vestale massima, che gli si farebbero pubblici funerali9. E il giorno stesso, probabilmente, presenti gli amici e i parenti di Cesare, Antonio aperse in casa sua agli astanti stupefatti il più straordinario testamento che fosse mai stato scritto in Roma: eredi di tutta la fortuna erano tre nipoti di due sorelle del dittatore, Caio Ottavio, che già conosciamo, per tre quarti, Lucio Pinario e Quinto Pedio per l’altro quarto; parecchi dei congiurati erano nominati tutori del figlio suo se gli nascesse; Decimo Bruto, Marco Antonio e qualche altro erano messi tra i secondi eredi per il caso che qualcuno dei nipoti non potesse raccogliere la eredità: seguiva infine un grandioso legato alla plebe: 300 (120, secondo un’altra fonte) sesterzi a testa e i grandiosi giardini posti oltre il Tevere, con le collezioni artistiche in quelli raccolti. In un codicillo. Caio Ottavio era adottato come figlio10.

Questo testamento commosse in modo indicibile il popolino di Roma11, che il 17, il 18 e il 19 pareva essersi quetato, rinfocolando a un tratto uno dei più antichi e tenaci rancori in quella moltitudine di artigiani, di liberti, di piccoli mercanti, di miserabili che vivevano in Roma alla giornata, senza famiglia i più, senza sicurezza del pane e del giaciglio, senza assistenza nei frangenti gravi della vita. Dare a questa plebe mezzo di vivere e rallegrarne un poco con qualche sollazzo la dura esistenza, era cosa ormai necessaria alla pace del mondo: e difatti i capi del partito popolare, in special modo Cesare e Clodio, avevano cercato di provvedere alla meglio questa assistenza, in parte a spese proprie, in parte a spese dello Stato. Ma eran poi trascesi, per appagare la plebe, a rovinare l’erario, a impegnar Roma in guerre temerarie, a snaturare le istituzioni repubblicane in un seguito di dittature rivoluzionarie; onde per paura di questi pericoli e per odio dei loro autori il partito conservatore era a sua volta trasceso ad avversare anche le forme più necessarie di quella assistenza, come i collegia e le frumentazioni. Così negli ultimi venti anni questa miserabile ciurma della gran nave di Roma era stata incitata a desiderare dalle promesse degli uni e delusa poi dalla opposizione degli altri; aveva ricevuto una assistenza intermittente, ora prodiga e ora avara, che la aveva irritata ancor più che il bisogno: si era avvezzata a considerare la sorte sua come insidiata continuamente dalla malvagità dei grandi e protetta dai capi popolari, da Clodio da Crasso da Pompeo da Cesare in principio; poi dai superstiti, a mano a mano che qualcuno di costoro spariva o la abbandonava; infine da Cesare. E Cesare, con le distribuzioni di denaro, le feste, le grandi promesse e la fiducia conquistata nella folla, aveva potuto negli ultimi anni contenere da solo le impazienze e i malumori di questa plebe piena d’odio contro i ricchi, bisognosa, irritata dalla lunga miseria che la guerra civile aveva inasprita. Ma ora, sparito l’uomo che essa considerava come il più sicuro protettore suo, questa moltitudine si trovava abbandonata a sè stessa, senza capi, senza una bene ordinata assistenza pubblica, senza altro sussidio che le poche superstiti associazioni di Clodio, sconnesse e decadenti. Non è quindi difficile immaginare quale impressione ricevesse da questo testamento il popolino, che già era stato commosso dalle mene di Antonio e di Lepido il 16; al quale si venivan mescolando e infondevano ardore i coloni e i veterani accorsi a Roma a difendere i loro diritti. Non si era mai visto un ricco profondere a quel modo le sue ricchezze tra il popolo, lasciare a tante migliaia di persone non solo dei giardini magnifici, ma nientemeno che 300 sesterzi a testa: un tesoretto, che in quella scarsezza universale del denaro giungeva a tanti plebei come un sussidio inviato proprio a tempo dalla Fortuna! Cesare chiudeva la sua vita svergognando ancora una volta quella oligarchia che il popolo accusava di esser così avara e feroce; che aveva ucciso lui come Clodio ed i Gracchi, come aveva proscritto Mario e perseguitato tutti i difensori dei poveri! L’agitazione che Antonio e Lepido avevano sobillata il 16, continuò allora e si allargò per forza propria, fomentata dai veterani, gente ardita alle violenze: si commiserò Cesare atrocemente spento da coloro che pur nel testamento egli aveva mostrato di amare tanto; si imprecò agli uccisori; si cominciò a dire che bisognava accorrere tutti ai funerali del grande benefattore dei poveri e seppellirlo come Clodio, per far dispetto ai grandi12: [44 a. C. 20-30 marzo] si propagò nel popolino quella baldanza della propria impunità, quella petulanza della propria forza, quella vaga attesa di belle violenze da vedere e da compiere, che precedono le grandi sommosse.

I conservatori cominciarono ad inquietarsi, e Antonio a trovarsi in impiccio. Se gli animi si accendevano, se succedevano dei tumulti, non sarebbe facile tergiversare tra i popolari e i conservatori! Perciò egli cercò di tranquillare i conservatori con buone parole e con atti di premuroso rispetto; e per ogni cosa consultava gli uomini insigni dell’ordine senatorio; e non faceva nulla senza aver domandata la approvazione del Senato; e rassicurava i senatori che lo interrogavano sulle carte di Cesare. Non fossero inquieti: in quelle carte non si conteneva nessuna disposizione grave e nessuna immunità; uno solo era richiamato tra i molti esuli che il partito conservatore aveva fatto condannare dopo i funerali di Clodio13. Ma nel tempo stesso lasciava i parenti e gli amici di Cesare, nei quali di quanto scemava la paura cresceva il rancore, allestire il funerale in modo da convertirlo in una grande dimostrazione di affetto all’ucciso e di odio agli uccisori. Il cadavere sarebbe posto sopra un letto di avorio ricoperto di una porpora ricamata d’oro; alla testa si porrebbe sopra un trofeo la veste insanguinata in cui Cesare era stato ucciso; antichi magistrati porterebbero il feretro dalla domus publica ai rostri, per l’elogio; un immenso corteo, composto dagli amici, dai veterani, dai liberti e da tutto il popolo, toglierebbe in mezzo il feretro e lo porterebbe al Campo Marzio, dove il cadavere sarebbe cremato; si avvierebbero prima alla spicciolata, al campo di Marte, per accorciare il corteo, gli uomini portanti i trofei delle sue campagne, affinchè si disponessero intorno al rogo e il corpo del condottiero sparisse tra i trofei della sua fortuna e delle sue vittorie mondiali14. Ma chi farebbe il discorso? Il figlio adottivo era in Macedonia; gli altri eredi erano persone troppo oscure; dei secondi eredi parecchi avevano preso parte alla congiura. Nè era impresa facile commemorare Cesare, presenti i suoi uccisori e i suoi veterani, dopo l’amnistia. Alla fine si giudicò che Antonio, come console, amico e secondo erede, dovesse assumersi questo ufficio pietoso; e Antonio, per quanto a malincuore, dovè acconsentire, per non disgustare i popolari. Intanto la baldanza del popolino, dei veterani cresceva; e la gente per bene ormai si rassegnava ad abbandonare Roma alla canaglia il giorno dei funerali. Purchè però non succedessero guai troppo seri! Cosicchè per quel giorno, non si sa precisamente quale fosse tra il 20 e il 23 di marzo15, aspettavan tutti qualche cosa di bello o di terribile: una faticosa giornata Antonio, che doveva fare quel difficilissimo elogio e che desiderava di impedire le violenze troppo grandi, senza tuttavia incrudelire con la folla; qualche selvaggia violenza, i congiurati più noti, che fortificavano le case16; la rivoluzione, i conservatori; una turbolenza magnifica e un grandioso falò simile a quello di Clodio, il popolino.

E il giorno temuto o desiderato spuntò alla fine. Ben presto il Foro, le gradinate dei templi, i monumenti, le vie adiacenti, furon gremite da una turba di popolo e di veterani, irrequieta, disposta alla violenza, venuta senza nessuna intesa precisa, con il proposito di bruciar Cesare come Clodio, in un edificio pubblico, chi pensava nel tempio di Giove Capitolino, chi nella Curia di Pompeo; mentre la domus publica si empiva a poco a poco di amici, e fuori, dalla domus publica ai rostri, si andavan disponendo coloro che dovevano formare il corteo, come potevano, in quello spazio angusto. Par che Antonio avesse disposto nelle vicinanze, non è chiaro dove, una piccola milizia. Alla fine il letto d’avorio, portato a spalla dagli amici, uscì sul Foro; e lentamente, tra una grande confusione, accompagnato dalle nenie dei cantori che ripetevan tra gli altri un verso di Accio, maliziosamente scelto dagli ordinatori del funerale, “Io ho salvato coloro che mi hanno distrutto” fu portato sin sotto i rostri di cui l’archeologo romano Boni crede di aver dissepolto pochi mesi fa gli avanzi17. Toccava ora ad Antonio salire e parlare.... Ma il console si trasse d’impaccio abilmente; e fece recitare da un banditore il decreto del Senato del principio dell’anno, con cui erano stati decretati al morto tanti onori e la formola del giuramento con cui i senatori si erano obbligati verso di lui; poi aggiunse poche parole e scese18. In questo modo, facendo cioè l’elogio dell’ucciso con le parole del Senato, egli contentava i popolari, senza che i conservatori, i quali pure avevano approvati pochi mesi prima quei decreti, potessero lagnarsi. Il corteo doveva riordinarsi e muovere verso il Campo di Marte; già i magistrati si disponevano a riprendere il cadavere. Ma in quel momento alcune grida incerte e solitarie partirono dagli spettatori più vicini: “Al tempio di Giove Capitolino, alla Curia di Pompeo”; altre voci fecero coro alle prime; le grida si propagarono e ben presto da tutte le parti si vociò confusamente; qualcuno alla fine si mosse, molti si mossero, si mosse la folla con una ondata vigorosa verso il feretro. Coloro che circondavano il letto tentarono di resistere; incominciò un gran tumulto; qualcuno ebbe l’idea di incominciare un rogo lì vicino; si allontanò un po’ di gente e si gettò nel mezzo qualche pezzo di legno. Tutti in un baleno capirono, corsero per il Foro a cercar legna e diedero di piglio a ogni cosa, alle sedie, ai banchi, alle tavole; di qua di là, chi sa come e dove arraffate e da quali mani, furon portate le cose necessarie a bruciare un cadavere; e in breve il rogo fu fatto, in quel luogo del Foro che è ancora indicato dagli avanzi del tempio del Divo Giulio. Molti di coloro che attorniavano il feretro, vedendo il parapiglia infuriare, si ritiravano; alla fine il cadavere cadde in potere della folla e fu tratto dal letto sulla catasta; il fuoco fu appiccato; le fiamme salirono; e allora il popolo, trasportato da una frenesia selvaggia, incominciò a gettar sul fuoco ogni cosa, i veterani le armi, i suonatori gli strumenti, la plebe i vestiti19. In breve il corpo del conquistatore della Gallia sparve in un immenso vortice di fiamme e di fumo, tra le grida della folla che gremiva le scalinate dei templi, che si arrampicava sulle colonne, sui monumenti, dappertutto, per veder la gran face. Ma la vittoria, il fuoco, i moti violenti, le grida esaltarono la folla ancor più; il rogo non bastava; alcune bande si cacciarono per le vie di Roma verso le case dei congiurati; sul Foro il rogo fu attorniato da un gran cerchio di frenetici che ora volevano, sul corpo di Cesare, fare un grande incendio e continuavano a portar legna; i magistrati e gli uomini autorevoli, inquieti della piega che pigliavan le cose, se ne andavano in fretta; e il console restava solo, alla testa di pochi soldati e alle prese con una rivolta che dal Foro pareva in procinto di divampare in tutta Roma. Antonio non voleva ripetere ora l’errore del 47; ma per impedire almeno che dessero fuoco a qualche grande edificio del Foro, come nei funerali di Clodio, fece alla fine prendere dai soldati qualcuno dei più scalmanati fochisti, e, strappatili a forza di mezzo alla folla, li fece portare di corsa alla Rupe Tarpeia e precipitare20. Questo esempio sommario raffreddò un poco l’ardore delle torme intorno al rogo, ma nel tempo stesso più bande furibonde precipitavano alle case di Bruto e di Cassio per incendiarle, e ne tentavano l’assalto, mentre gli inquilini delle case vicine uscivan fuori, si mettevano nella folla, supplicavano di non appiccare il fuoco, per non bruciare anche le case loro21. A stento si riescì a tranquillare quei forsennati e a mandarli via. Senonchè, una di queste bande incontrò per via un tribuno della plebe, che per sua disgrazia si chiamava Cinna come il pretore del discorso sul Foro, lo scambiò per costui, lo assaltò, lo fece a pezzi, e inalberò la sua testa sopra una picca22. Tutta la notte arse il rogo alimentato da una turba che non si mosse dal Foro23; e tutta la notte il popolino infuriato imperversò per Roma.

Il giorno dopo i liberti di Cesare poterono cercare in mezzo ai tizzoni e alle ceneri del rogo gli avanzi mal bruciati del corpo24, raccoglierli piamente, portarli al sepolcro di famiglia25, che non sappiamo ove fosse. Così Cesare, dopo tanti perigli e fatiche, dopo tanti errori e trionfi, dopo la finale turbolenza del funerale rivoluzionario, ebbe pace e riposo per sempre. Ma non si tranquillò il popolino; anzi, incitato dai disordini del funerale e della notte, dalla impunità e sopratutto dall’aiuto dei veterani, il cui furore per la morte cresceva ogni giorno, rinfocolato dalla paura di perdere le ricompense, proruppe il dì seguente in un’agitazione scomposta, senza capi, senza intesa, senza scopi determinati. L’assalto alle case dei congiurati fu ritentato26; una folla immensa trasse a vedere gli avanzi del rogo; violenze e tumulti ebbero luogo in ogni parte; cosicchè i congiurati giudicaron prudenza di restar in casa anche il giorno seguente al funerale. Antonio, sempre fermo nel pensiero di rassicurare i conservatori senza irritare i popolari, emanò un editto vietando a tutti, fuori che ai soldati, di portare armi27; ma non procedè a nessun atto di severità. Naturalmente la sedizione continuò, anzi crebbe e si spandè maggiormente nel terzo e nel quarto giorno; anche gli stranieri vennero a torme sul luogo ove il rogo aveva arso per rendere omaggio a Cesare al proprio modo: più numerosi di tutti gli Ebrei, grati a Cesare di aver vinto il violatore del Tempio e di aver loro concesso numerosi privilegi28. Invano i congiurati aspettavano nelle loro case, di ora in ora, di poter uscir fuori sicuramente: quella che sembrava una cautela provvisoria si mutava in clausura forzosa; Bruto, Cassio e gli altri congiurati che avevano magistrature, dovettero tralasciare di scendere al Foro, di venire al Senato e di compiere le loro funzioni; molte pubbliche faccende furono intralciate o sospese.... A poco a poco, durando i disordini oltre la previsione di tutti, incominciò a nascere in tutti un singolare impaccio. I cesariani più eminenti, tutti arricchitisi oramai29 e perciò desiderosi di conservare quanto avevano acquistato, paventavano ogni dì maggiormente che questi disordini suscitassero alla fine nei conservatori un furibondo vigore simile a quello dei tempi di Saturnino e di Catilina; e avrebbero desiderato che nessuno si ricordasse essere essi stati cesariani, ora che il partito di Cesare si confondeva quasi interamente con le turbe rivoltose di Roma. Quasi tutti continuavano a star lontani da Roma; i membri del collegio, composto da Cesare per celebrare ogni anno i Giuochi della Vittoria, non osavano incominciare i preparativi30; Oppio si raccomandava a Cicerone31; anche Irzio pare ritornasse via presto32; anche Lepido tentennava, ora aveva paura di essere ammazzato come Cesare, ora, sollecitato dalla moglie Giunia, che era sorella di Bruto, scriveva amichevolmente ai capi della congiura33, tanto che Antonio, per non perdere il suo aiuto, gli promise di farlo eleggere pontefice massimo in luogo di Cesare34. Abbandonato da tutti, Antonio, che non voleva inferocire con il popolino, e non voleva nemmeno, come Mario nell’anno 100, esser sopraffatto da una levata dei conservatori esasperati, lasciava i rivoltosi e i veterani infuriati padroni di Roma, ma si ingegnava di ingraziarsi i grandi, offrendo dei mazzolini di fiori a chi aveva bisogno di una spada: e non solo favorì in Senato una proposta di Servio Sulpicio, di annullare tutte le immunità e benefici concessi da Cesare che non avevano avuta esecuzione prima del 15 marzo35; ma propose egli stesso un senatusconsulto che aboliva per sempre la dittatura, con immenso giubilo dei conservatori, cui sembrava di uccidere una seconda volta, in ispirito, Cesare36. Senonchè anche i conservatori, che i cesariani tanto temevano, non erano meno scompigliati da questi tumulti. La forzosa clausura e la lunga inerzia avvilivano i congiurati e specialmente Bruto che, debole e nervoso per natura, era probabilmente già caduto dalla esaltazione delle Idi in quella prostrazione in cui lo vedremo di qui a poco; i disordini spaventavano molti, rendevano difficili i ritrovi e le intese, rade le sedute del Senato; tutti aspettavano che i tumulti finissero, per prendere, con maggior pace, le deliberazioni necessarie su tutte le cose e intanto i giorni passavano e nessuno faceva nulla; Dolabella si nascondeva, spaventato probabilmente dalla sorte di Cinna, che avrebbe potuto toccare anche a lui, in pena del suo tradimento37; anche Cicerone, passata la gran gioia delle Idi di marzo e le commozioni dei giorni successivi, incominciava a impazientirsi per la neghittosità di tutti, sebbene tutti i partiti lo corteggiassero. Non pochi cesariani rifacevano persino i loro testamenti, per lasciargli dei legati, e si ingegnavano di fargli aver notizia di ciò!38 Così gli uomini eminenti dei due partiti erano invasi da una stanchezza, che si sfogava in una tetraggine di previsioni infauste e da una egoistica sollecitudine del bene proprio, che si dissimulava in un disgusto irritato di tutto. “Se Cesare, che aveva tanto ingegno, non aveva saputo trovare una uscita, chi altri potrebbe?”39 diceva un amico fedele del dittatore. E che tutto dovesse precipitare era previsione universale! Dicerie paurose correvano: che all’annunzio della morte di Cesare i Galli insorgerebbero40; che i Geti si preparavano a invadere la Macedonia41; che le legioni si rivolterebbero nelle provincie42. Erano irritati e scontenti tutti; e intanto, nell’imminenza della gran rovina, tutti badavano solo ad arraffare quello che potevano, visitando, corteggiando, sollecitando quello stesso Antonio43, cui nessuno dava aiuto a governare la repubblica. La morte di Cesare e la convalidazione dei suoi atti aveva fatto piovere a Roma, e per opposti motivi, un doppio ordine di innumerevoli sollecitatori: quelli che avevan ricevuti danni per aver seguito Pompeo ed ora brigavano, per essere indennizzati, tra il partito conservatore ridiventato potente e presso il console che pareva benevolo; quelli – ed eran tanti – che avevano ricevuta una promessa da Cesare, e a cui Antonio doveva trovare nelle carte il documento. Attico sollecitava affinchè si cercasse la revoca della colonia di Butroto; gli agenti di Deiotaro re dei Galati e quelli dei Marsigliesi domandavan la restituzione dei territori tolti loro da Cesare per la amicizia con Pompeo; anche una ambasceria di Siciliani, che già pare avesse ottenuto da Cesare il diritto latino, ora voleva per l’isola la cittadinanza romana44; ogni giorno aumentava la faraggine dei reclami, delle richieste, delle rivendicazioni; e nel disordine universale i più, rimandati dall’uno all’altro, cercavano alla fine rifugio da Antonio. Tutti domandavano, ma nessuno voleva faticare o rischiare per la repubblica; la macchina dello Stato, che alla mattina del 17 pareva ricomposta, era di nuovo, cinque o sei giorni dopo, sgangherata; Antonio solo lavorava, e infaticabilmente, da mane a sera45, ma non poteva bastare a ogni bisogno, quando nessun uomo eminente prendeva alcuna iniziativa in Senato e i provvedimenti più urgenti eran negletti. Pare che non si pensasse nemmeno a partecipare a tutti i governatori ufficialmente la morte di Cesare e il mutamento del governo!46 Solo un momento il Senato parve inquietarsi per le voci della invasione dei Geti in Macedonia; e non potendo lasciare le legioni al comando di un propretore in simil frangente, deliberò di mandare una commissione in Macedonia a esaminare lo stato delle cose, mettendo intanto l’esercito sotto il comando del console Antonio, che l’anno prossimo doveva essere proconsole di Macedonia47. A questo modo, se l’invasione dei Geti avvenisse, il console avrebbe potuto immediatamente provvedere alla difesa.

[44 a. C. 1-10 aprile.] Non andò molto che i più si stancarono di queste tormentose incertezze; e verso la fine di marzo Antonio incominciò a vedere i due partiti sbandarsi intorno a lui. Uno dopo l’altro, un considerevole numero di congiurati scapparono da Roma, non sentendosi più sicuri; Decimo Bruto e Tullio Cimbro partirono per le loro provincie48, contenti di avere un buon pretesto a lasciar Roma; ai primi di aprile molti senatori si recarono alle loro ville nel Lazio e sul golfo di Napoli; il 6 o il 7 partì per Pozzuoli anche l’uomo più autorevole del Senato, Cicerone49. La reazione conservatrice contro i disordini, che tutti aspettavano, non doveva avvenire questa volta. Come la reazione contro Catilina era stata meno intensa che la reazione contro Saturnino, e quella seguita ai funerali di Clodio più debole di quella contro Catilina, ora ai disordini dei funerali di Cesare non seguirebbe più nessuna reazione. Dopo la guerra civile, in cui aveva perduto tanti uomini, tante ricchezze, e, ricchezza più preziosa, la fiducia in sè, il partito conservatore non aveva più vigore vitale; ed esangue e prostrato non sentiva quasi più gli stimoli che una volta lo avevan fatto balzare in piedi impetuoso e feroce. Ma non meno disfatto era il partito cesariano, ridotto ormai a una turba di rivoltosi e di veterani forsennati, che mettevano a rumore Roma senza scopo e senza capi. Tanto è vero che Cesare non aveva potuto fondar nulla di veramente durevole, e che, sparendo, aveva lasciato lo Stato simile a una grande rovina sospesa sopra un abisso! Per somma sventura, in mezzo a tanto disordine, l’8 o il 9, il popolino tumultuante a caso trovò alla fine un capo. Erofilo, il falso nipote di Mario che Cesare aveva relegato, rotto il bando, ricomparve a Roma; eresse sul luogo dove Cesare era stato bruciato un’ara, e raccoltosi intorno un manipolo di bravi, peregrinò da un quartiere all’altro alzando lo stendardo della vendetta del dittatore, incitando il popolino ad ammazzare Bruto e Cassio50. L’agitazione ridivampò con tal furore che Bruto e Cassio dovettero munire la casa come una fortezza; e stanchi alla fine di viver sempre come in una prigione, nell’ansia ininterrotta di un assalto, flagellati senza tregua da tante raffiche di odio, deliberarono di lasciar Roma, se Antonio almeno prometteva di fare avere il congedo necessario a Bruto, che come pretore urbano non poteva lasciar la città per più di dieci giorni senza un permesso del Senato. Mandarono per ciò a chiamare Antonio che si mostrò ben disposto verso i capi della congiura e promise di contentarli51: ma, prima di lasciar Roma, vollero fare ancora un tentativo per ingraziarsi i più violenti dei rivoltosi, i veterani; e in un editto promisero ai coloni di Cesare di liberarli dal vincolo di non vendere le terre concesse prima di venti anni52. Uno zampillo d’acqua sopra un torrente di lava! Scoppiava addirittura un fanatismo religioso per la memoria di Cesare. Tra il popolo minuto di Roma erano molti orientali avvezzi ad adorare i re e i potenti come Dei, dai quali probabilmente, in quel fermento, la orribile superstizione si diffuse per contagio ai plebei; cosicchè tutti i giorni venivan folle all’ara a portar voti, a far sacrifici, a risolvere contese, giurando per Cesare53: e Cesare si mutava in un Dio protettore dei poveri e dei miserabili. Il disordine crebbe tanto, la situazione diventò così pericolosa che, dopo quattro o cinque giorni, l’11 o il 12 aprile probabilmente54, Antonio, inquieto non avesse a nascere qualche guaio serio, fece prendere e uccidere Erofilo.

III.
DISSOLUZIONE UNIVERSALE.

La severità di Antonio fu molto ammirata dai conservatori55, e Bruto se ne rallegrò con il console56. Ma fu un respiro di poche ore. Il giorno stesso il popolino proruppe in dimostrazioni anche contro l’uccisore di Erofilo; e incendiò perfino la bottega di uno statuario in cui si cambiava la testa alle statue di Cesare. Antonio dovè usare nuovi rigori: crocifiggere gli schiavi e precipitar dalla rupe Tarpea i liberi, che sorprese in queste violenze57. Ma inutilmente: il dì seguente, il 13 aprile, Bruto e Cassio, stanchi di vivere in continuo timore, tendendo l’orecchio dal fondo delle loro case a ogni romore che giungesse di lontano, esasperati dall’inerzia e dalla solitudine cui erano condannati, uscirono di Roma per recarsi a Lanuvio. Antonio, vedendo crescere la perturbazione di Roma, si accostò ancor più ai conservatori; propose al Senato di accordare a Bruto il permesso di restar fuori di Roma più di dieci giorni58; propose pure si incaricasse Lepido di trattare pace con Sesto Pompeo, ancora forte in Spagna con sette legioni, e di proporgli il ritorno59; diede un’altra soddisfazione al partito conservatore, facendo sospendere da un senatusconsulto la elezione popolare del pontefice massimo60. Dopodichè il collegio dei pontefici riconobbe Lepido pontefice massimo. Ciò non ostante, quando Bruto e Cassio furon partiti, l’esodo dei grandi si mutò in fuga precipitosa; uno dopo l’altro, i congiurati che ancora restavano si misero in salvo; si risolvè a partire per la sua provincia Trebonio, ma di soppiatto, come un privato, per non subire qualche violenza dal popolino61; fuggì di Roma anche Cleopatra; anche Lepido, dopo l’elezione a pontefice massimo, prese la via della Narbonese. Antonio rimaneva quasi solo nell’Urbe, in quella specie di cratere in cui da ogni parte sprizzavan fughe di fumo solfureo, prorompevan getti di acqua bollente, si udivan boati sotterranei e scotimenti profondi.

[44 a. C. Seconda metà di aprile] Quanto oramai, e in che maniera impensata, eran mutate le cose, in quel mese, dalle Idi di marzo! La sperata conciliazione dei partiti in un ragionevole governo repubblicano svaniva in una diffidenza e disgregazione universali. Certamente, appena usciti di Roma, tutti i conservatori fuggiaschi avevano provato il ristoro di chi, dopo una lunga afa, sale a respirare un’aria più fresca e più limpida. Nelle piccole città la plebe artigiana era scarsa, e non aveva nè collegia, nè capi, nè la audacia turbolenta che infondeva in quella di Roma il numero e la potenza; predominava invece la “gente dabbene”, gli agiati possidenti, i ricchi mercanti, moderatamente conservatori, repubblicani e, specialmente allora che a Roma pareva minacciarsi una rivoluzione, favorevoli al partito dell’ordine, ai conservatori e ai congiurati62; i quali perciò, dopo l’odio ardente di Roma, ritrovavano un rispetto sia pur prudente e una ammirazione sia pur discreta. Così tra omaggi, visite e inviti, anche il vecchio Cicerone – aveva allora 62 anni – era arrivato al mare, dopo un comodo viaggio di otto giorni, e villeggiava “nei suoi regni di Cuma e di Pozzuoli”, insieme con molti membri dell’alta società di Roma e con quasi tutti i capi del partito di Cesare, Balbo, Irzio, Pansa63; e sempre in faccende, riceveva e spediva un gran numero di lettere; faceva visite, accoglieva amici e ammiratori, scriveva a galoppo un libro sulla Divinazione e uno sulla Gloria; leggeva opere greche e ne ordinava a Roma; prendeva note, dava disposizioni per i suoi affari e andava pensando a scrivere un gran trattato sul Dovere, che contenesse, in una cornice di dottrine greche, una teoria sulla rigenerazione morale e politica della repubblica. Eppure non poteva godersi nè il bel sole, il cielo vivido, i primi fiori del golfo, nè gli omaggi dei suoi ammiratori, irritato come era da una straordinaria agitazione, che lo faceva, a quell’età, volubile, esagerato, violento come un giovinetto inesperto. Lontano dai tumulti e dai veterani, era diventato oramai un conservatore furibondo, intransigente, fanatico, il quale, pur usando prudenza in pubblico, si sfogava nelle lettere e nei discorsi: si rammaricava con frase cannibalesca di non essere stato invitato al “magnifico banchetto delle Idi di marzo”, chiamava sempre Bruto e Cassio alla greca gli “eroi”64; avrebbe voluto sterminare tutto il popolino riottoso di Roma; vedeva in ogni parte cesariani in agguato per nuovi macelli e rapine65; sospettava il doppio gioco di Antonio che chiamava un giocatore arruffone66; si doleva che l’uccisione di Cesare non avesse servito a nulla e che le sue volontà valessero ancora; strepitava esser necessari armi e denari; dava per spacciata la repubblica, con magistrati così poltroni, con tanti veterani in movimento e con tanti cesariani nelle cariche67; ingoiava veleno a vedere i nuovi possidenti che avevano comprati i beni dei suoi amici o i centurioni di Cesare arricchiti68; si arrabbiava per il mezzo esilio di Bruto e di Cassio69; si stizziva sinanche – chi lo crederebbe? – per i legati che gli lasciavano i cesariani70. E disgustato, scoraggito, pensava di scapparsene in Grecia71. Ma bastava poi un nonnulla, una notiziola, un fatterello a mutarne l’umore, a disporlo alle previsioni più rosee; e allora tutto andava bene, le legioni non insorgevano, la Gallia non si rivoltava72, Antonio era un innocuo beone73. Bruto e Cassio invece, fuggendo da Roma, si erano fermati a Lanuvio; e di lì si accingevano a invitare da tutti i municipi del Lazio i giovani di famiglie legate a loro da parentela, amicizia o clientela a raccogliersi in una specie di guardia con cui tornare in Roma74. Trebonio, Decimo Bruto, Tullio Cimbro erano in viaggio; gli altri congiurati e conservatori cospicui, dispersi per le ville e le piccole città, non facevano più nulla, avviliti dalla stessa dispersione, dallo sbalordimento della inaspettata bufera che li aveva scacciati di Roma, dall’ansietà dei pericoli nuovi che parevano minacciare. E allora avvenne nella politica di Antonio un mutamento risolutivo. Non è temerario supporre che già durante le continue oscillazioni di quel mese, Antonio prendesse a dubitare che nè l’uno nè l’altro partito fossero più in grado di governar la repubblica: ma quando egli si trovò a capo di uno Stato mutilo, a cui mancavan tanti magistrati e perfino il pretore urbano, con il partito suo ai bagni, con un collega che non osava comparir più in pubblico, con un Senato incerto, esitante, che la primavera e la paura diradavano di giorno in giorno; quasi padrone insomma della repubblica abbandonata da tutti, questi dubbi precipitarono alla fine in un nuovo voltafaccia, più audace dei molti con cui, nell’ultimo mese, aveva cercato di volger sempre le spalle ai più deboli e il viso ai più forti. Due persone, restate sino ad allora nell’ombra, sembrano essersi adoperate questa volta a vincerne le ultime titubanze: sua moglie Fulvia e suo fratello Lucio. È avvenuto non poche volte a personaggi storici, anche più grandi di Antonio, che, quando furono in procinto di osare il supremo ardimento da cui dipese poi la loro potenza futura, esitassero e non si risolvessero se non per gli incitamenti di persone più oscure e spesso meno intelligenti, le quali, essendo meno note, rischiando meno, discernendo i pericoli, per il minore intelletto, più confusamente, avevano conservato maggior coraggio nel momento critico. Così avvenne pure allora ad Antonio. Lucio par che fosse un giovane molto somigliante per indole al fratello maggiore; audace, ambizioso, arruffone, ma più spensierato, forse per la minore esperienza: Fulvia invece, una di quelle rare donne ambiziosissime, in cui la passione virile del potere par che distrugga tutte le virtù ed esalti tutti i difetti femminili; ostinata, intrigante, avida, crudele, prepotente e temeraria. Essa era stata moglie prima di Clodio e poi di Curione, e quindi, con quel carattere e a quella scuola, doveva essere diventata una specie di Musa della rivoluzione; aveva poi sposato Antonio, come se fosse suo destino di avere a marito tutti, uno dopo l’altro, i grandi mestatori di Roma; e su Antonio aveva in breve acquistato il potere, che le donne pari sue esercitano sempre sugli uomini violenti, ineguali e sensuali. Non è perciò strano che, in mezzo a quei tumulti, rivivesse in lei un poco l’anima di Clodio e che, d’accordo con Lucio, prendesse a incitare Antonio: non si lasciasse sfuggire quella occasione di conquistare una grandezza eminente sopra il grado comune, come aveva fatto Cesare nel 59; dopo la fuga di Cassio, di Bruto, dei congiurati, dei conservatori più insigni, la repubblica era in sua balìa; se l’oscuro Erofilo aveva potuto, solo perchè aveva lusingata quella ardente passione dei veterani e del popolo per la vendetta di Cesare, far quello che tutti giudicavano impossibile un mese prima, scacciar cioè in pochi giorni il partito conservatore dalla repubblica, di cui tutti lo credevano di nuovo solidamente padrone dopo le Idi di marzo, non riuscirebbe un uomo insigne come Antonio nell’impresa molto più facile, di invader la repubblica sgombrata da chi già l’occupava? Per maggior fortuna, egli aveva anche un fratello, Caio, pretore, e un altro, Lucio, tribuno. Certo non era più possibile servirsi, per dominare la repubblica, delle società artigiane, ormai troppo decadute, che Cesare aveva adoperate nel 59; ma lo aiuterebbero efficacemente i veterani numerosi, risoluti, esasperati contro gli uccisori del loro generale, paurosi di perdere le ricompense, ai quali in fondo erano dovuti per molta parte i tumulti del mese precedente, da cui il partito conservatore era stato sgominato. Atteggiandosi a continuatore e, occorrendo, a vendicatore di Cesare, Antonio li avrebbe tutti per sè. È vero che Roma non era tutto l’impero e che, signoreggiando la metropoli, non per questo si avrebbero le provincie in propria balìa; ma incominciavano a girar dicerie, le quali se spaventavano i conservatori, dovevano incuorare Antonio e i suoi consiglieri: e cioè che gli eserciti nelle provincie erano furibondi per la morte di Cesare e tutti in procinto di rivoltarsi. In breve, sospinto da Fulvia, da Lucio, dalle proprie ambizioni e dagli eventi, Antonio si risolvette verso la metà di aprile, se non proprio a mutare apertamente e interamente politica, a incominciare un seguito di maneggi, in apparenza confusi ed opposti, ma che si spiegano invece molto chiaramente, purchè si supponga che egli si proponeva, non già di succedere a Cesare nella dittatura quasi monarchica degli ultimi tempi, ma di imitarne nella misura del possibile il primo consolato, e di provarsi a conquistare un potere più vasto e durevole che quello ordinario di console; con una certa circospezione, però, la quale dimostra come egli non giudicasse i conservatori spacciati per sempre, così sicuramente come i suoi consiglieri.

[44 a. C. 15-20 aprile.] Tra il 15 e il 20 aprile i primi segni del mutamento apparvero a un tratto ai conservatori, prima con un discorso tenuto al popolo dal console in cui Cesare era chiamato il “grandissimo cittadino”75, poi con certi strani documenti, che si sarebbero trovati, verso il 18, tra le carte di Cesare. Con uno di questi si concedeva la cittadinanza romana ai Siciliani e con l’altro si restituivano a Deiotaro i regni toltigli da Cesare. Non era necessario un gran discernimento per giudicar falsi i due documenti. A chi credeva Antonio di dare ad intendere che Cesare volesse restituire a Deiotaro, al fedele amico di Pompeo, quel che gli aveva tolto? Ma per ripetere il primo consolato di Cesare era necessario molto denaro; e per procurarselo Antonio aveva finalmente ceduto alle sollecitazioni di Fulvia e fatto falsificare da Faberìo, il segretario di Cesare, i due documenti, ricevendo in cambio dai Siciliani e dai rappresentanti del re di Galazia grosse somme, da questi ultimi, a quanto pare, una syngrapha, una tratta, diremmo noi, sopra il tesoro del re, di 10 milioni di sesterzi76. Senonchè la frode era così audace che non solo Cicerone a Pozzuoli balzò di sorpresa quando ne ebbe notizia77; ma a Roma i senatori deliberarono subito che delle carte di Cesare non giudicherebbe più Antonio solo, ma i due consoli assistiti da una commissione e solo a cominciare dal 1° giugno, quando il Senato ritornerebbe a radunarsi e potrebbe quindi invigilare ogni giorno la commissione78. Durante le ferie non si toccherebbero più le carte di Cesare. Sul golfo di Napoli però, tra i villeggianti, l’impressione di queste notizie era stata di lì a poco scemata dall’arrivo del figlio adottivo di Cesare. Caio Ottavio era un giovinetto di non ancora 19 anni. Appena ricevuta ad Apollonia la notizia delle Idi di marzo, egli era stato un poco in forse se far ribellare le legioni macedoniche, ma poi, non osando, era partito; [44 a. C. Aprile] era sbarcato, per maggior prudenza, non a Brindisi ma a Lupiae, dove aveva avuto notizia del testamento e della adozione; era subito andato a Brindisi, di dove si avviava verso Roma, accompagnato da alcuni giovani amici che Cesare aveva mandati con lui ad Apollonia; tra i quali un certo Marco Vipsanio Agrippa e un certo Quinto Salvidieno Rufo, ambedue di origine oscura79. Erano naturalmente tutti curiosi di vedere questo erede e di saper quali intenzioni avesse. Diventando figlio di Cesare, egli era obbligato dall’antico costume a perseguitare in giudizio gli uccisori di suo padre e sarebbe senza dubbio incitato alla vendetta da molti malvagi: viceversa era impedito di ciò fare dalla amnistia del 17 marzo. Era il giovane disposto ad accettare l’eredità e il nome del dittatore? Era consapevole dei gravi obblighi che gli imponeva la amnistia? Ottavio, giunto a Napoli il 18 aprile, aveva avuto un colloquio con Balbo e gli aveva dichiarato di accettare l’eredità80; era stato a Pozzuoli a far visita al suo padrigno Lucio Marcio Filippo e a Cicerone, che aveva già visto qualche volta a Roma, mostrandosi con lui molto gentile81. Dell’amnistia o si schermì di parlare o parlò in modo da non offendere nessuno. Ma a Cicerone, se il giovanotto non era spiaciuto, era spiaciuta moltissimo la mala compagnia che già aveva raccattato nel viaggio: un codazzo di veterani, di coloni, di liberti di Cesare, veri e d’occasione, i quali imprecavano contro Antonio perchè trascurava di vendicare il dittatore, lo incitavano a farsi valere, e intanto ostentavano quasi di chiamarlo ad ogni occasione Cesare, Cesare, come se la adozione già fosse perfetta. Cicerone e il padrigno, per ripicco, si impuntarono a chiamarlo Ottavio82: il padrigno anzi lo consigliò a non accettare la troppo pericolosa eredità83. A ogni modo Ottavio si era fermato poco sul golfo ed aveva proseguito per Roma, lasciando Cicerone ai suoi libri, alla sua perenne vicenda del buono umore e del cattivo, alle sorprese che gli venivan da Roma. Il 19 aprile Attico gli aveva mandata una buona notizia, che l’aveva rallegrato moltissimo: e cioè che Decimo Bruto, giunto nella Cisalpina, era stato senza difficoltà riconosciuto come generale delle legioni. Era dunque falsa la diceria che i soldati si rivolterebbero ai congiurati! Se Sesto Pompeo non faceva pace, come egli sperava, i conservatori potrebbero disporre di due validi eserciti!84 Ma nel tempo stesso capitò una sorpresa: una lettera di Antonio che gentilmente gli domandava il permesso di dare esecuzione a un atto di Cesare, richiamante dall’esilio Sesto Clodio, il cliente di Clodio condannato dopo i funerali di costui85. In verità anche questa volta Antonio aveva ceduto a Fulvia che desiderava il perdono dell’amico del suo primo marito; ma aveva pensato di scrivere quella lettera per non inimicarsi il vecchio e potente nemico di Clodio, per così piccola cosa. Cicerone stupì di esser chiamato arbitro a questo modo di un atto di Cesare, che, se vero, doveva valere senz’altro: ma sebbene gli fosse stato facile di sapere da Irzio, da Balbo e da Pansa che Cesare non aveva mai pensato a questo richiamo86, rispose gentilmente di esser contento87. Attico era in grandi angustie, perchè Gneo Planco, incaricato da Cesare di dedurre la colonia a Butroto, già partiva; onde sollecitava Cicerone a intervenire presso Antonio; nè Cicerone voleva guastarsi con costui e sciupar così bella occasione di rendere alla fine un servigio a chi gli era stato largo di tanti aiuti. Senonchè, verso il 27 di aprile, Attico gli scrisse notizie più gravi: non solo Antonio prendeva grandi somme sul tesoro pubblico deposto nel tempio di Opi, sempre tirando fuori pretese carte del dittatore; ma correva voce che il 1° giugno, riaprendosi il Senato, domanderebbe la Gallia Cisalpina e la Chiomata in cambio della Macedonia e il prolungamento del proconsolato per lui e per Dolabella88.

Cicerone lamentò un’altra volta che la uccisione di Cesare fosse stata così sterile; si confermò nell’idea che senza un esercito, con la sola forza delle finzioni legali, non si poteva far nulla; dimenticò il proposito di andare in Grecia e scrisse ad Attico che sarebbe a Roma il 1° giugno, se pure Antonio non lo impedisse89. Egli credeva che costui porterebbe la sua dimanda al Senato. Ben diversi disegni mulinavano invece Antonio e Fulvia! Se la Macedonia per due anni gli sarebbe bastata, vivo Cesare, egli ambiva ora, come Cesare nel primo consolato, un più lungo comando di una provincia più vasta; e aveva difatti posto gli occhi su quelle provincie galliche toccate a Cesare allora, che egli conosceva per avervi guerreggiato tanti anni: voleva in altre parole far approvare dal popolo una nuova lex Vatinia de provincia Caesaris. Ma non subito: era necessario organizzare prima, in qualche modo, i veterani, come Cesare aveva organizzato nel 59 il popolino, per poter adoperarli sicuramente nelle votazioni e nelle violenze; era anche necessario aumentarne il numero, perchè quello dei venuti a Roma spontaneamente non bastava: assoldare molti di quei veterani che Cesare voleva dedurre in colonie nell’Italia meridionale e specialmente in Campania che aspettavano le terre promesse; farli venire a Roma, dare a costoro e a quelli che già erano venuti una specie di ordinamento militare. Si risolvè anzi a andar nell’Italia meridionale egli stesso e partì infatti, forse il 24 o il 25 aprile, appena chiuso il Senato90.

Questo viaggio fu in principio cagione di molta perplessità a tutti, anche a Cicerone.  

Che mai macchinava Antonio? Qualche cosa buona e utile alla repubblica91, no, di sicuro. Attico anzi scriveva addirittura che ormai la saggezza non contava più nulla, che tutto dipendeva dalla fortuna92, sebbene per le cose sue non si fidasse solo della fortuna, e cercasse approfittare anche del viaggio di Antonio, scrivendo a Cicerone di andar incontro al console a parlargli di quella benedetta faccenda di Butroto. Tuttavia, tutti dimenticarono di lì a poco, per un momento, Antonio e il suo viaggio, quando Dolabella, approfittando della assenza di Antonio uscì fuori un’altra volta a far del chiasso; e probabilmente il 26 o 27 aprile, andato sul Foro con una mano di armati, fece distruggere la famosa ara di Erofilo, fece uccidere molti sediziosi e appaltò la rilastricatura del luogo. I conservatori ne furon contenti; Cicerone gongolò, si rasserenò, scrisse subito una enfatica lettera di congratulazione al “meraviglioso” Dolabella, dimenticando per un momento che anche questo portento di uomo aveva poco prima rubato con un documento falso di Cesare una somma considerevole nel tesoro dello Stato93 e che gli doveva ancora la rata della dote di Tullia scaduta a gennaio. [44 a. C. 1-10 maggio] Scrisse anche, il 3 maggio, una lettera a Cassio, dicendo, senza però nominare Antonio ed offenderlo, che la cosa pubblica era in miglior stato; che essi dovevano riprender coraggio e non lasciare a mezzo l’impresa, solo incominciata con le Idi di marzo94. E intanto, mentre egli si rallegrava per questo piccolo successo, Antonio, prima di cominciare il reclutamento dei suoi veterani, scriveva una lettera a Bruto e a Cassio, pregandoli gentilmente ma risolutamente di smettere il reclutamento di amici, che avevano cominciato per tornare con quelli a Roma95. Antonio non aveva fatto nulla per scacciare Bruto e Cassio da Roma, la cui partenza anzi, al 13 aprile, prima di mutar politica, gli era senza dubbio spiaciuta, perchè accresceva la responsabilità sua; ma ora che la assenza loro favoriva i suoi nuovi disegni, non voleva più che tornassero, come non voleva che tornasse a Roma Cicerone. Poi incominciava a mandar messaggi ai veterani della Campania, a radunarli, a spaventarli ammonendoli che, se non vigilassero, gli atti di Cesare sarebbero stati annullati96; si dichiarava pronto ad aiutarli affinchè tutte le promesse di Cesare fossero mantenute; e per dar prova del suo zelo incominciò le operazioni per fondare una nuova colonia a Casilino dove già una ne aveva dedotta Cesare: operazioni che Cicerone dichiarò contrarie al diritto augurale97, ma che dovevano contentare subito o rassicurare molti di quei vecchi soldati che ancora aspettavano la ricompensa. Infine a coloro a cui non poteva dar subito terre in Campania offriva denaro, se si obbligavano a venir con lui a Roma, per aiutarlo nella difesa degli atti di Cesare, ma portandosi seco le armi, impegnandosi a tenerle pronte e accettando che due ispettori ogni mese verificassero se mantenevano l’impegno98.

Bruto e Cassio invece avevano ceduto alle esortazioni del console, pubblicando un editto con cui dichiaravano di congedare gli amici volontariamente99. In verità non avevano osato resistere ad Antonio. Forse il reclutamento non procedeva bene, perchè la borghesia italica era sì repubblicana e conservatrice, ma politicamente molto infingarda; e poi essi formavano una coppia così male appaiata! Se Cassio era intelligente, resoluto ed energico, l’erudito amico suo, atto più a viver tra i libri che nelle rivoluzioni, nervoso e debole, impacciava continuamente il compagno, abbandonando scoraggito le imprese appena incominciate, ricorrendo per consiglio a tutti, perfino a sua moglie e a sua madre, a quest’ultima in special modo, con grande stizza di Cicerone. Il sospettoso oratore si fidava poco di Servilia, che era stata tanto amica di Cesare100. Cosicchè quasi in risposta alla sua lettera a Cassio del 3 maggio, Cicerone ne ricevè una di Bruto, in cui diceva sconsolatamente di voler andare in esilio!101 Tanto maggiore fu lo sgomento in cui si volse, verso il 7 o l’8 di maggio102, la breve gioia dei conservatori per l’atto di Dolabella, allorchè si riseppero le mene di Antonio in Campania. [44 a. C. 10-20 maggio.] Era chiaro: se egli raccoglieva tanti di quei veterani, che lo accusavano di trascurar la vendetta di Cesare e che volevano morti gli uccisori di costui, doveva covar disegni avversi ai conservatori. E un gran panico scoppiò in Roma, si allargò nel Lazio, giunse sino a Napoli, con quella notizia. Servio Sulpicio lasciò Roma, dicendo ad Attico che lo stato delle cose era ormai disperato. Cicerone si spaventò, si scoraggì, riprese a pensare al viaggio in Grecia, diventò cautissimo nello scrivere le sue lettere, che potevano essere aperte da estranei, non accennando che nebulosamente alle mene di Antonio; ma non voleva vederlo e scriveva ad Attico di non averlo mai potuto incontrare103. “La vecchiaia mi fa acerbo. Tutto mi disgusta. Meno male chela mia vita è finita. Se la sbrighino i giovani”104 – scriveva ad Attico. Dolabella rispondeva ancora con violenza alle “orribili concioni” di Lucio Antonio105, che preparava Roma alla nuova politica popolare del fratello; ma era solo. Gli altri, e specialmente i cesariani più autorevoli, che avevano sino allora lasciato Antonio in abbandono, ora si destreggiavano tra lui e i conservatori con una agile doppiezza che esacerbava Cicerone. Pansa disapprovava sì la condotta di Antonio nella faccenda di Deiotaro e di Sesto Clodio, ma disapprovava anche la distruzione dell’ara ordinata da Dolabella106; Balbo era andato da Cicerone tutto inquieto, appena aveva saputo degli arruolamenti di Antonio, a raccontarglieli, a lagnarsi dell’odio così ingiusto che i conservatori nutrivan contro lui, ma non aveva voluto disapprovare Antonio, almeno con quella chiarezza che Cicerone desiderava107; Irzio, ridiventato cesariano ardente, diceva che tutte queste cose eran necessarie perchè, se i conservatori avessero ripreso forza, avrebbero annullato tutti gli atti di Cesare108; ammetteva che i reclutamenti di Antonio erano pericolosi alla pace pubblica, ma non più di quelli di Bruto e di Cassio, e che tutti dovevano smettere109. Cicerone si tratteneva a stento da liticare con tutti e dichiarava imminente la guerra civile; ma intanto porgeva l’orecchio a certe voci inquietanti: quei veterani andavano a Roma per ridrizzare l’ara rovesciata da Dolabella, si guardassero bene, egli e i congiurati e tutti i conservatori eminenti, di recarsi in Senato il 1° giugno, se non volevano rischiar la vita110. Attico gli aveva perfino scritto il 18 maggio che, per salvare la repubblica, era necessario nientemeno che proclamare il senatusconsultum ultimum, lo stato d’assedio, come si era fatto nel 49, prima della guerra civile.111

Intanto Antonio, il 19 o il 20 maggio112 tornava a Roma portandosi dietro, dopo le migliaia che aveva mandato innanzi, un’ultima torma di veterani113. Ma a Roma egli trovava Caio Ottavio già all’opera e che lo aspettava.

IV.
IL FIGLIO DI CESARE.

Caio Ottavio non aveva ancora diciannove anni. Quanta verità contengano le frammentarie notizie pervenute a noi sulla indole e sui costumi di lui in questi tempi, sarebbe difficile dire. Possiamo invece supporre con verisimiglianza, dalla protezione di Cesare e dagli atti suoi, che egli fosse un giovane di intelligenza vivace e uno di quei neoteroi (νεώτεροι), come li chiamava Cicerone che li aveva tanto in uggia, uno di quei giovani “moderni”, diremmo noi, i quali affettavano in ogni cosa il disprezzo delle vecchie tradizioni latine e l’ammirazione di tutte le cose straniere. Accarezzato dall’uomo più potente di Roma, annoverato nel numero dei patrizii, rivestito di cariche onorifiche e fatto perfino magister equitum a quella età, il giovinetto doveva essersi scaldata ancor più la testa, aver concepite grandi ambizioni ed essersi avvezzo a considerare come facili, innocue e senza importanza molte cose che solo la esperienza e il tempo dimostrerebbero poi, a lui come a tanti giovani, quanto fossero difficili o pericolose o degne di rispetto.

[44 a. C. Maggio.] Il giovane era giunto a Roma proprio a tempo. Fuggiti i congiurati, partiti i senatori più cospicui, chiuso il Senato, il partito conservatore era come sparito; i veterani e la plebe spadroneggiavano nella città, rassicurati e soddisfatti della loro vittoria, e perciò si tranquillavano alla fine, sfogando ora liberamente in tutti i modi per Roma l’ammirazione di Cesare. Invano Dolabella si era illuso di rianimare i conservatori rovesciando l’ara di Cesare. Arrivando in questa breve pausa di soddisfacimento e di tranquillità, il figlio di Cesare era stato accolto festosamente da quanti avevan fatto le dimostrazioni contro i congiurati, dai due fratelli di Antonio che miravano a ingraziarsi veterani e plebe, dalla moltitudine la quale da un pezzo aspettava l’erede del dittatore, che doveva pagare a ognuno i trecento sesterzi i del legato. Finalmente si sarebbero avuti i denari! Perciò i consigli del patrigno, sebbene ripetuti dalla madre a Roma, non l’avevano smosso dalla risoluzione di prender il nome e i beni di Cesare114. Infatti senza perdere tempo Ottavio si era subito mostrato dovunque, chiassosamente, come il figlio di Cesare; era andato una mattina con un gran codazzo di amici dal pretore Caio Antonio a dichiarare che accettava la eredità e la adozione115; si era chiamato subito, senza aspettare che fossero compite le formalità della adozione, Caio Giulio Cesare Ottaviano (noi lo chiameremo Ottaviano per non far confusione con il padre adottivo) e aveva voluto parlare al popolo. Non era un magistrato: ma siccome doveva pagare trecento sesterzii ad ogni plebeo, Lucio Antonio aveva di buon grado acconsentito a presentarlo, come tribuno, al popolo. E al popolo Ottaviano aveva fatto un discorso, esaltando la memoria di Cesare, dichiarando che avrebbe pagato il legato al più presto, e senza indugio dato mano a preparare per luglio i giuochi della vittoria di Cesare, come era suo dovere, quale membro del collegio incaricato di celebrarli116; non aveva però fatto allusione alcuna all’amnistia o ai suoi propositi per la vendetta del padre. Ciò non ostante o appunto per questo il discorso non pare che piacesse ad Attico e a Cicerone117; ma invece era piaciuto molto al popolino. Arrivavano i trecento sesterzi!! Solamente, per pagare, era necessario denaro contante. Ottaviano era ricco del suo, – ricordiamo che suo nonno era stato un denaroso usuraio di Velletri, – e con il testamento di Cesare entrava in possesso di tre parti su quattro della immensa fortuna che il dittatore aveva accumulato negli ultimi anni sulle spoglie delle guerre civili, e nella quale erano probabilmente un gran numero di case in Roma, vaste terre in Italia e – proprietà più preziosa – moltissimi schiavi e liberti, i diritti di patronato sui quali passavano all’erede. Di contante però Cesare non aveva lasciato che i cento milioni di sesterzii consegnati da Calpurnia ad Antonio. Necessitava adunque a Ottaviano aspettare il ritorno di Antonio e domandargli il suo denaro.

Ma le festose accoglienze non potevano durare troppo a lungo. Se la lotta tra conservatori e popolari si era assopita dopo la fuga dei congiurati, i sospetti e i rancori inaspriti dai recenti tumulti dovevano presto riaccenderla. L’arrivo di tanti veterani, il passaggio di tante lettighe cariche d’armi118, le dilapidazioni della moneta pubblica, convertivano in avversione il breve favore che i conservatori avevano avuto per Antonio dopo il 17 marzo119; quelle prime mene di Ottaviano irritavano molti, specialmente nella numerosa parentela e clientela dei congiurati, già mal disposta verso di lui, perchè temeva il giovane non volesse rispettare l’amnistia. Un giorno Dolabella, comparso a teatro dopo la distruzione dell’ara, fu salutato con entusiastiche ovazioni dalla parte più eletta del pubblico120; e un altro giorno in cui Ottaviano volle portare il seggio dorato di Cesare, a quanto sembra, nei giuochi che l’edile Critonio dava con un ritardo di più di un mese, per i disordini avvenuti in aprile, ne fu impedito da alcuni tribuni, tra gli applausi dei senatori e dei cavalieri121. La oligarchia signora del grande Impero si componeva di due parti, fatte nemiche dopo la vittoriosa rapina dalla divisione della preda: l’una malcontenta della porzione toccatale, l’altra ansiosa di sentire la porzione sua continuamente adocchiata dai malcontenti; ambedue irrequiete, sospettose, disposte alla violenza e trattenute solo dalla paura reciproca, da una specie di mutuo delirio di persecuzione, per cui si accusavano e si ritenevano capaci a vicenda dei più biechi propositi. Comprendeva la prima quel che restava dei piccolissimi possidenti che, come in Apulia, lavoravano ancora la terra con le proprie braccia, al modo del mitico Cincinnato, ultimi superstiti di una età tramontata122; comprendeva i liberi braccianti di campagna, che si assoldavano per la vendemmia, per la mietitura o per i lavori malsani123, e i contadini liberi, i coloni o piccoli fittavoli che qua e là prendevano a coltivare i fondi altrui con contratti grossamente simili a quelli moderni della mezzadria124; comprendeva quel popolino miserabile dei capite censi, vivente a Roma e nelle città minori, di mestieri, di minuto commercio, di mendicità, nel quale le più meschine e oscure vittime della conquista romana, i liberti miserabili di ogni nazione e lingua, si confondevano con la plebe dei conquistatori, quella che aveva contribuito alla vittoria solo la forza dei soldati e le torme venali dei comizi, e ne aveva tratto minor profitto. Questa plebe era probabilmente più numerosa allora che trenta anni prima, quando Cesare aveva incominciato a farsi conoscere, essendo frattanto cresciuta per le importazioni di schiavi, per l’allargamento della cittadinanza, per l’aumento naturale delle classi povere, specialmente rustiche, che in ogni età sono più prolifiche delle ricche; e si rodeva in una irrequietezza di lagni e di desideri imprecisi, esasperata dal numero cresciuto, dal naturale aumento progressivo dei bisogni, dal disordine e dalla crisi della guerra civile. Quella contagiosa, quasi furente ammirazione per Cesare non era che uno sfogo di questo spasmo morboso; perchè le plebi povere ingenuamente si immaginavano che, se Cesare fosse vissuto, la loro condizione sarebbe diventata ben più felice: ma fortunato lui che i congiurati l’avevano ucciso a tempo; se no, quanto e quanto presto l’avrebbe fatto odiar vivo, la inevitabile delusione di quelle speranze chimeriche per cui l’adoravano morto! Gli altri componevano la vera aristocrazia dei conquistatori, che affittava in ogni parte dell’Impero i demani pubblici o possedeva vaste zone di terreno provinciale; che aveva prestato ingenti capitali a sovrani, a città, a privati di tutte le provincie; che occupava le magistrature dello Stato ed esercitava nelle legioni i comandi; che possedeva la maggior parte della terra italica e la faceva lavorare da schiavi o da coloni; che in parte almeno coltivava con zelo gli studi. Senonchè, per quanti gradi anche in questa oligarchia si passava dai modesti possidenti agli agiati cavalieri e mercanti, che vivevano nelle città minori, ai grandi proprietari dell’ordine senatorio; ai ricchissimi capitalisti, o cavalieri come Attico, o senatori come Marco Crasso, o liberti, come molti di quegli ignoti ed opulenti usurai, che sapevano aspettare a Roma, di ritorno dalle rapine, e spogliare a loro volta gli spogliatori del mondo. E quanti per la fretta di guadagnare e godere si erano poi irretiti in quel groviglio indissolubile di debiti e crediti, che stringeva il corpo dell’Italia! Le grandi famiglie aristocratiche possedevano vasti poderi, ma scarseggiavano di denaro, cosicchè non solo Ottaviano, ma anche Bruto, Cassio e i loro amici si trovavano in gran penuria di numerario125; il capitale era quasi tutto in mano di un piccolo gruppo di persone; oberatissima e in procinto di sfasciarsi sotto il peso dei debiti, era gran parte dell’ordine dei cavalieri e dei senatori, cioè quel ceto medio dei possidenti, dei mercanti, degli uomini politici e di studio, che tra la plutocrazia e la nobiltà da una parte, il popolino povero dall’altra, avrebbe dovuto formare quella che è oggi la borghesia agiata. Il patrimonio di Cicerone, è un prezioso documento sulle condizioni della classe alta di quel tempo. Cicerone aveva lucrato con tutti i mezzi meno illeciti allora usati; aveva accettati cospicui doni dai sovrani, dalle città straniere, dai clienti eloquentemente difesi nei tribunali; aveva contratti matrimoni con donne ricche; aveva ricevute numerose eredità di amici e di ammiratori sconosciuti; aveva anche speculato, comprando e vendendo terre e fabbriche; e infine aveva prestato qualche denaro, ma più per favore che per lucro, e se ne era fatto prestar moltissimo, da amici come Attico e Publio Silla, che non esigevano interessi, ed anche da cupidi strozzini126. Cosicchè egli possedeva allora un considerevole patrimonio di case in Roma, di poderi fruttiferi e di ville costose in Italia; ma ciononostante si trovava implicato in una faraggine di debiti e crediti nella quale egli non si raccapezzava più e poco si raccapezzava il suo negligente computista, lo schiavo Erote. Costui gli aveva presentato poco prima un nitido e roseo bilancio, secondo il quale al 5 aprile, riscossi i crediti e pagati i debiti, avrebbe dovuto restare un avanzo127; ma intanto, sia che i debitori non pagassero, sia che il computista si fosse sbagliato, egli si trovava allora scarsissimo di contante, con molti debiti da pagare, tra cui parecchie rate scadute della dote di Terenzia, la pensione a suo figlio che studiava ad Atene, un debito con gli Arpinati che gli ridomandavano una somma prestatagli in un tempo in cui la città aveva avuto denaro libero da collocare a frutto128. In condizioni simiglianti, costretti come Cicerone a scervellarsi per immaginare ripieghi, ma senza le risorse di cui disponeva Cicerone per il nome e le amicizie, erano tanti in Italia, in quel ceto medio che pur parteggiava per i congiurati, che avrebbe dovuto salvare la repubblica, interponendosi tra i conservatori arrabbiati e la demagogia rivoluzionaria. Infine questa classe probabilmente più che crescere di numero, diminuiva, decimata dalle guerre civili, isterilita dal celibato e dalla sollecitudine di aver pochi figli – molti ne avevano uno solo –; onde era tratta dagli eventi verso una crisi formidabile, discorde, disanimata, assottigliata, scontenta del presente e incerta dell’avvenire.

[44 a. c. 20-30 maggio.] Il ritorno di Antonio accrebbe l’agitazione. Mancavano dieci giorni al 1° giugno, e la gente era curiosa di indovinare i veri propositi del console per la prima seduta del Senato, su cui tante dicerie correvano; onde mille occhi lo spiavano, osservandone ogni atto. Antonio invece sin dal suo arrivo parve voler eludere questa curiosità: non compariva più in pubblico se non circondato da veterani e da una guardia di Arabi Iturei che aveva comperati sul mercato degli schiavi; faceva ben vigilare le porte del suo palazzo, e non ammetteva gli estranei se non con molta difficoltà129. Quali potevano essere le ragioni di tante cautele? Grande era in tutti l’incertezza, quando, passati appena due o tre giorni, una diceria gravissima corse per Roma, sgomentando i conservatori, i parenti e gli amici dei congiurati: che non solo Antonio voleva avere le Gallie, ma averle subito, senza aspettare l’anno seguente; che ritornava al suo proposito del 16 marzo di togliere la provincia a Decimo Bruto, per abbattere la colonna massima del partito conservatore130; che nonostante l’amnistia Lucio Antonio avrebbe accusato Decimo Bruto per la morte di Cesare ed altri avrebbero accusato Bruto e Cassio131. Da questo momento nacque nell’animo dei conservatori e del pubblico il sospetto che doveva poi a poco a poco perturbare tutta la repubblica: che Antonio volesse, per acquistar popolarità, distruggere l’amnistia del 17 marzo. Altro che la paura delle mene di Ottaviano, in tal caso! Pure queste dicerie divulgavano allora, più che i veri propositi di Antonio, una confusa notizia delle segrete discussioni che, al suo ritorno, avvenivano nella casa del console. È probabile che, imbaldanziti dal prospero successo degli arruolamenti, Lucio e Fulvia spingessero ora Antonio a precipitosi e temerari consigli: approfittasse del disordine in cui il partito dei grandi versava, lacerasse l’amnistia, facesse perseguitare in giudizio i tirannicidi, si atteggiasse apertamente a vendicatore di Cesare! Quando tutti i congiurati fossero dispersi in esilio per opera di lui, egli sarebbe, a capo dei veterani, più potente che Cesare nel 59 a capo dei collegia di Clodio. Aveva le legioni di Macedonia, poste dal Senato sotto i suoi ordini, potrebbe reclutare quanti soldati volesse tra i veterani di Cesare, il giorno in cui li chiamasse a vendicare il generale e a difenderne l’opera, se i conservatori osassero resistere con l’esercito di Decimo Bruto! Ma Antonio esitava; perchè troppo temeva ancora i conservatori. Aveva per collega un nemico, e questo era già un grave impedimento; fra i tribuni della plebe, Lucio Cassio, Tiberio Cannuzio e perfino Carfuleno, un antico e valoroso soldato di Cesare, si erano dichiarati contro lui132; anche Irzio tentennava di nuovo impaurito dalle sue rapine nell’erario133; anche Fufio Caleno che da un pezzo era nemico di Cicerone, gli scriveva domandandogli di riconciliarsi con lui134. Inoltre correva voce che Bruto e Cassio volevano partire dall’Italia per tentare una rivoluzione nelle provincie135. Egli si sforzava di guadagnar Dolabella, per togliere ai suoi nemici anche questo screditato campione; di far girare dicerie paurose, per distogliere i senatori dal tornare a Roma: ma quanti si sarebbero spaventati davvero? Sarebbe venuto Cicerone? Potrebbe egli arrischiarsi a distruggere l’amnistia, cioè a provocare la guerra civile, in sette od otto giorni, per il 1° giugno che avvicinava? Un tempo non avrebbe forse esitato a commettere anche questa follia; ma esitava allora. Quello intorpidimento della sua audacia naturale seguito alla grande scossa delle Idi di marzo, quella prudenza così nuova in lui, durava e durerebbe un pezzo ancora; perchè troppo repentinamente egli era passato dalla condizione di agente subordinato e di esecutore degli altrui disegni a quella di capo, arbitro e responsabile delle più gravi deliberazioni in mezzo alle più dubbiose circostanze. Assistito dalla fiducia in Cesare e nel suo partito, egli, temerario per natura, aveva osato molto, troppo, a cuor leggero; ma trovatosi a un tratto solo, a capo dell’impero, tra i pericoli e le responsabilità di una situazione inaspettata, esposto agli occhi, alle critiche, agli odii di tutti, si sentiva disorientato e intimidito; e perciò per la prima volta in vita sua operava con senno e ponderazione.

In mezzo a queste perplessità Antonio ricevè da Ottaviano la domanda di un colloquio: per qual fine non gli fu difficile di sapere, anche se il giovane non lo dichiarò apertamente. Che egli fosse disposto a restituire il denaro di Cesare al legittimo erede, non è nemmeno da pensare; ma non è nemmeno verisimile che, in quel momento, egli considerasse la persona, le pretese e le mene di quel ragazzo come serie. Anzi è probabile che la rivendicazione di Ottaviano gli facesse nascere un’altra idea: siccome Cesare l’aveva nominato con Decimo Bruto secondo erede in luogo di Ottavio, e siccome Decimo Bruto non potrebbe mai reclamare i suoi diritti, indurre Ottaviano ad abbandonare l’eredità e prendersene egli la parte sua136. Egli pensò quindi di spaventare il giovinetto inesperto con una improvvisa brutalità; e quando Ottaviano si presentò al palazzo di Pompeo gli fece fare prima, per avvilirlo, una lunga attesa; poi ammessolo finalmente alla sua presenza lo lasciò appena pronunciar poche frasi e subito lo interruppe, dicendogli che egli era pazzo se credeva, così giovane, di poter accettare la eredità di Cesare. E se ne andò, senza dargli tempo di rispondere, lasciandolo confuso e avvilito137. Ben altre cure e più gravi che le domande di quel ragazzo lo affaccendavano! I giorni passavano, maggio finiva: Antonio era sì riuscito finalmente a far passare dalla parte sua Dolabella dandogli una considerevole somma, presa nell’erario, e promettendogli di far prolungare anche a lui il comando proconsolare: ma non si risolveva ancora a nulla, sul tempo e sul modo di incominciare la conquista del potere; cosicchè tutti credevano egli proporrebbe la sua domanda al Senato il 1° di giugno. Qualche giorno dopo, sul finire di maggio, Antonio ricevè una lettera di Bruto e di Cassio che gli domandavano per quale scopo reclutasse tanti veterani: il pretesto di assicurare le ricompense promesse da Cesare era futile, perchè nessun conservatore intendeva toglierle loro; badasse bene che, incitata, quella moltitudine poteva trascorrere oltre il segno desiderato da lui138. Antonio pensò allora di rabbonirli, facendo loro sapere, per mezzo di Irzio e di Balbo, che, appena riaperto il Senato, avrebbe fatto decretare le provincie, senza dir quali139. Insomma non si risolveva a dichiarare guerra aperta agli uccisori di Cesare! Eppure Cicerone, che era in grado di giudicarlo meglio di lui, scriveva ad Attico che purtroppo il partito conservatore non era più quello di cinque anni prima, che aveva mossa guerra a Cesare con tanta baldanza140. La presenza dei veterani, le dicerie paurose sulle violenze che seguirebbero il 1° giugno inducevano molti rimasti ad andarsene; Irzio, che era tornato a Roma, ripartiva di nuovo e se ne tornava nel Tusculano141, a scrivere, per consiglio di Balbo, la continuazione dei ricordi di Cesare142; si diceva che i consoli designati non sarebbero presenti alla seduta del 1°.143 Figurarsi se quelli che già si trovavano fuori erano incoraggiati a tornare! Cicerone era avvisato da molte parti a non rimettere piede nella città, e pur avvicinandosi a Roma (era andato nell’Arpinate e poi, dopo il 25, nel Tusculano), scriveva ad Attico che ad ogni modo voleva fiutar bene il vento144; ma nel Tusculano aveva trovato Irzio, che lo scongiurava di fermarsi145. Anche Bruto e Cassio erano combattuti, in quegli ultimi giorni di maggio, da grandi incertezze, fra il flusso e il riflusso delle opposte notizie: ora che Antonio farebbe assegnare loro le provincie, ora che preparava insidie ed assalti; e domandavano consiglio a tutti, chiamavano da Roma Servilia, scrivevano e facevano scriver da amici, a Cicerone e ad Attico, affinchè venissero a Lanuvio a colloquio con loro146; deliberavano infine d’invitare Attico a iniziare tra i ricchi cavalieri di Roma un prestito per provvedere a Bruto e a Cassio il nerbo della guerra: il denaro. Un amico di Bruto, Caio Flavio, era andato a Roma a trattare con il ricchissimo finanziere147. Cassio inoltre scriveva e riscriveva148 a Cicerone di adoperarsi a loro favore presso Irzio e Pansa, i due consoli dell’anno seguente. Cicerone, il quale pur non sapeva che consigliare, si disponeva a trovarsi a Lanuvio il 29 o il 30149; benchè temesse di far chiacchierare molto la gente con le sue gite150; acconsentiva pure Attico151, ma dopo aver rifiutato di prendere l’iniziativa del prestito presso i cavalieri di Roma152. Forse non aveva voluto troppo compromettersi; forse aveva disperato di riescire nell’intento, perchè gli uomini denarosi, se genericamente desideravano l’ordine, non volevano spendere per mantenerlo. Cosicchè quando, probabilmente il 30 maggio, Attico e Cicerone si ritrovarono a Lanuvio con Bruto e con Cassio poterono solo, dopo lunghi discorsi, constatare che Antonio era ormai arbitro della situazione, e in grado di far quello che voleva ai danni loro153.

[44 a. C. 1-2 giugno.] E invece Antonio era così lontano dal covare i biechi disegni da essi supposti, che non si accorse di essere arbitro della situazione, come Bruto e Cassio avevan detto qualche giorno prima, se non il 1° giugno, quando vide che nè Cicerone, nè i consoli designati, nè gli uomini più eminenti erano venuti in Senato154; ma solo una torma di senatori oscuri che lo lasciarono dire e fare quello che volle. Con gran sorpresa di tutti, il console trattò in quella seduta soltanto di ordinarie faccende, senza fare nessuna delle proposte aspettate; ma dopo la seduta, imbaldanzito dall’assenza del partito conservatore, e come spesso avviene a chi ha a lungo esitato, precipitò affrettatamente all’azione. In quello stesso giorno deliberò di far convocare di sorpresa una radunanza popolare per la mattina dopo, senza far correre tra la promulgazione e l’approvazione il termine legale del trinum nundinum155, in modo da impedire agli avversari di mandare i tribuni avversi a lui con seguito sufficente e in grado di interporre il veto; far proporre in quella da alcuni tribuni amici la legge che prolungava a lui e a Dolabella per sei anni, compreso quello del consolato, il comando proconsolare della Siria e della Macedonia. Anche in questa precipitazione però egli non trascurava le cautele e cercava di offrire ai conservatori qualche compenso per questa votazione poco legale: tralasciava per il momento la domanda molto più ostica delle Gallie, fissava per il 5 la seduta in cui si sarebbero decretate le provincie a Bruto e a Cassio, proponeva di far mutare in legge, per proposta degli stessi tribuni e negli stessi comizi, il senatusconsulto che incaricava una commissione di inquisire sulle carte di Cesare156. Così la sera furono passati gli ordini ai veterani e agli amici; la mattina il console, i magistrati favorevoli a lui, un certo numero di cittadini, si trovaron sul foro a rappresentare le tribù; e nella giornata molti, i quali non sapevan neppure che in quel giorno ci fosse stata assemblea, appresero che la lex de provinciis e la lex de actis Caesaris cum Consilio cognoscendis, erano state approvate alla svelta157. Il giorno stesso, probabilmente, Balbo ebbe notizia, non senza qualche stupore, che Antonio pensava di mandare Bruto in Asia e Cassio in Sicilia a comprar grano158: finissima astuzia, perchè, rifiutando, i due congiurati si sarebbero esposti al rischio di essere accusati come cagione della mezza carestia che travagliava Roma di continuo; accettando, dovevan separarsi e interrompere, per trattare con i mercanti di grano, ogni opera in difesa del partito conservatore. Difatti, se tra i conservatori e i congiurati all’ansia degli ultimi giorni di maggio era succeduta una relativa tranquillità, dopochè avevano vista rispettata almeno l’amnistia, si riaccese ora la rabbia. Grande fu lo sdegno non solo di Bruto e di Cassio159, ma anche di Cicerone, che frattanto, appena tornato nel Tusculano, si era affrettato a pregar Dolabella di sceglierlo come legato per il proconsolato, ma con facoltà di tornare a Roma quando volesse160. Viaggiare gli era parso definitivamente, dopo gli inutili discorsi del colloquio con gli eroi, il miglior consiglio; e cercava disporre le cose in modo da viaggiare a spese della repubblica. Ma quando seppe di questa intenzione di Antonio si infuriò. Una simile umilissima missione ai due liberatori della patria! Ma era quello un esilio mascherato, non un comando. Antonio voleva allontanarli d’Italia e poi togliere a Decimo la provincia161. Bruto mandò a chiamare di nuovo la madre, Cicerone, Attico, tutti gli amici, da tutte le parti, invitandoli ad Anzio, a un nuovo consiglio. [44 a. C. 1-10 giugno.] Intanto a Roma incominciavano nuove discordie: tra Antonio e Ottaviano, questa volta. Ottaviano, irritato dall’affronto, si metteva ad agitare il popolino, denunziando il console come un nemico della plebe, ricordando le sue crudeli repressioni del 47162, accusandolo di tradire la memoria e il partito di Cesare, di impedirgli di pagare il legato; aggiungeva anche ai discorsi un bel gesto: annunziò che venderebbe tutti i beni di Cesare, i suoi, quelli della famiglia, pur di pagare prontamente i trecento sesterzi163. Antonio, per rappresaglia, impediva di nascosto che fosse approvata la lex curiata ratificante l’adozione164, favorito dalla parentela dei congiurati, la quale desiderava che non ci fosse in Roma nessun figlio di Cesare. Con tanto maggior furore Ottaviano sobillò il popolino e, raccolta una banda di seguaci, scorrazzò con quella, quasi nuovo Erofilo, Roma, facendo dovunque dei discorsi contro Antonio, cercando di commuovere anche i veterani, riagitando la fiaccola della vendetta di Cesare, accusando Antonio di non voler vendicare il dittatore e di tradire il suo partito165, scrivendo agli amici delle legioni di Macedonia, per far loro conoscere il modo infame con cui Antonio trattava il figlio di Cesare.

Cicerone frattanto, il 7 giugno166 aveva ricevuto, forse un poco in ritardo, una lettera di Dolabella che gli diceva di averlo nominato suo legato il 2 giugno, e cioè subito dopo l’approvazione della lex de provinciis, ma per cinque anni e non per due, come Cicerone si aspettava167. Dolabella avea subito soddisfatto il suo antico suocero, perchè così lo impegnava a riconoscere la legalità molto dubbia della legge. Infatti questa nomina aveva disposto l’irrequieto Cicerone ad una certa filosofica pacatezza e arrendevolezza, nella quale, il giorno dopo, l’8, era andato ad Anzio, vinto dalle sollecitazioni di Bruto e di Cassio. Alla bella spiaggia di Anzio trovò radunati Bruto e sua moglie Porzia, Servilia, Tertulla, moglie di Cassio e sorella di Bruto, Favonio, molti altri amici. Mancava Attico, che non si era mosso da Roma. Innanzi a questo consesso di uomini e di matrone dovè dire il parer suo, che era molto pacato: accettare l’ambasceria. La legazione di Dolabella aveva per un momento rabbonito anche l’iroso conservatore, che voleva sterminare il popolino! Ma in quella entra Cassio, sbuffando, spiritato, con gli occhi fuori della testa, e si mette a gridare che mai e poi mai egli andrà in Sicilia, che se ne andrà piuttosto in esilio in Acaia. Bruto invece manifestava un proposito disperato: tornarsene a Roma, dove in luglio doveva dare al popolo come pretore i giuochi Apollinari. Cicerone si spaventò, cercò di dissuaderlo; Servilia, che voleva salvare non la Repubblica, ma il figlio e il genero, consigliava di accettare intanto la legazione, da cui avrebbe essa provveduto a far togliere il molesto incarico del grano. Il discorso divagò; si ruminarono inutili rammarichi su tante cose che si sarebbero dovute fare e a cui nessuno aveva pensato; si lamentò che per consiglio di Decimo Bruto non si fosse ammazzato anche Antonio alle Idi; la discussione su questo punto pare anzi essersi inasprita, così che Servilia e Cicerone avrebbero avuto tra loro un battibecco. Alla fine Bruto si lasciò persuadere a non andare a Roma e a far celebrare i suoi giuochi dal collega, che ne faceva le veci, Caio Antonio; ma la questione della legazione restò sospesa, perchè Cassio, se alla fine non protestava più con tanta veemenza, non dichiarava nemmeno di voler partire. Bruto invece parve a Cicerone più incline ad accettare, ma dopo avere allestiti i giuochi168. Un viaggio inutile insomma, anche questo. Cicerone si consolò pensando che, ad ogni modo, aveva compiuto il suo dovere e definitivamente deliberò di partire per la Grecia169.

V.
LA LEGGE AGRARIA DI LUCIO ANTONIO.

Incoraggiato dal primo successo della lex de provinciis, Antonio si risolvè definitivamente a tentare due cose nuove: a ricostituire alla fine il partito cesariano, disfatto dalle Idi di Marzo; a imitare, come un buon scolaro di Cesare, l’esempio del maestro, preparando l’approvazione della legge sulle Gallie con un seguito di leggi popolari. L’una e l’altra cosa erano la necessaria conseguenza della nuova politica, a cui Antonio si era volto dopo il 15 aprile. Per rassicurare e lusingare i coloni e i veterani egli farebbe convertire dai comizi in due leggi il senatusconsulto del 17 marzo sugli atti di Cesare e la parte che confermava le colonie, quasi a mostrare che, nelle cose importanti, non bastavano i decreti del Senato; nel tempo stesso Lucio Antonio, che voleva mettersi in vista, proporrebbe la solita grande legge agraria di tutti i capi popolari, da Tiberio Gracco in poi170; si rispetterebbero, per queste leggi, i termini legali. [44 a. C. Giugno.] Difatti, nella prima metà di giugno furono tutte promulgate da lui e da Lucio Antonio; insieme con un’altra però, che nell’intenzione del console sempre prudente doveva rassicurare i timidi e sbugiardare i conservatori i quali lo accusavano di ambire la dittatura: una legge che ripetendo il suo senatusconsulto aboliva la dittatura. Sventuratamente sulle disposizioni della legge agraria, che non fu applicata, noi abbiamo solo le frammentarie notizie e le generiche invettive di Cicerone; onde non ci è possibile ricomporne il testo da questi rottami, ma dobbiamo restringerci a dire che, per affrettare la distribuzione delle terre ai veterani, ordinava il prosciugamento delle paludi pontine già ideato da Cesare171, e nominava una commissione di sette membri172, incaricata di dividere le terre pubbliche e di comprar terre private in Italia, prendendo i denari nell’erario173.

Ma alla larga agitazione richiesta da queste leggi, allo sforzo necessario per signoreggiare con vigore bastevole tutta la repubblica, Antonio non bastava da solo, con i due fratelli e i molti veterani; aveva bisogno di maggiori aiuti, di più numerosi agenti, di nuovi collaboratori; per trovare i quali egli si accinse – e non poteva far diversamente – a ricostituire non tanto tutto il partito di Cesare, quanto la sua estrema ala sinistra, popolare e rivoluzionaria. Sui cesariani eminenti, celebri, satolli sino alla sazietà, come Irzio, Pansa, Balbo, Pisone, Sallustio, Caleno, egli non poteva fare assegnamento; perchè costoro, parte per diffidenza e parte per paura, si bilanciavano tra i due partiti in attesa dell’esito, profondevano ambigui consentimenti di parole ad ambedue, senza compromettersi con atti a favore di alcuno. Sallustio anzi era sparito definitivamente. Nè poteva Antonio sperare di trovar partigiani nuovi nelle classi alte e istruite, da cui pure intorno al 70, dopo la morte di Silla, erano usciti tanti insigni campioni del partito popolare. I tempi erano troppo mutati: le alte classi, logore dalle grandi fatiche delle età precedenti, decimate dalle guerre civili e dalla sterilità, infiacchite dalla ricchezza dai vizî dal potere, impaurite dalle calamità recenti, discordi, orgogliose, malevole, non avevano più forza di combattere neanche in loro difesa, non davano più uomini, nemmeno al partito conservatore, lasciavano gli ultimi avanzi dell’età di Cesare, stanchi di tante lotte, soli a combattere anche questa suprema tenzone. Perfino i figli dei grandi uomini che avevano primeggiato nel partito conservatore durante la generazione precedente, come il figlio di Ortensio, il figlio di Lucullo, il figlio di Catone, si appartavano, badando solo a sollazzi, a bagordi od a studî. Figurarsi se davano uomini al partito popolare, fattosi ora apertamente rivoluzionario! Egli si voltò quindi alla parte meno signorile e più insoddisfatta del partito di Cesare: a quegli uomini oscuri, a quegli artigiani, piccoli possidenti e mercanti, a quei soldati e centurioni, a quegli italici e stranieri, tra i quali Cesare negli ultimi anni, inasprendosi la discordia con le grandi famiglie, aveva cercato di preferenza i suoi ufficiali, magistrati e senatori. Costoro erano naturalmente avversi ai congiurati, quasi tutti nobili, i quali li consideravano come intrusi e usurpatori di dignità loro dovute; e per di più temevano di vedersi tolti i gradi e i beni acquistati, o almeno interrotte le speranze e le ambizioni future, mentre Antonio aveva in mano due mezzi potenti per rinforzare la loro inclinazione: le carte di Cesare e il tesoro dello Stato, in cui continuava ad attingere largamente. Lusingando, promettendo, distribuendo con falsi atti di Cesare denari, magistrature e nomine di senatore, egli si accinse a raccogliere intorno a sè la parte più capace di quei cesariani, che erano ancora troppo insoddisfatti da adagiarsi tra i conservatori:Ventidio Basso, l’antico mulattiere e impresario di trasporti; Decidio Sacsa, uno spagnuolo che Cesare aveva fatto cittadino, metator castrorum – capo degli zappatori, diremmo noi – e tribuno della plebe, in quell’anno174; Tullo Ostilio e un certo Insteio, ambedue designati a tribuni della plebe per l’anno prossimo, dei quali il secondo si diceva fosse stato bagnino in certe terme di Pesaro175; un antico comico di nome Nucula e Cesennio Lentone, un ufficiale di Cesare, segnalatosi nell’ultima guerra di Spagna ma di umile origine – Cicerone dice che aveva fatto il mimo176 –, Cassio Barba, Marco Barbazio Filippo177, Lucio Marcio Censorino178, Tito Munazio Planco Bursa, esiliato quest’ultimo dopo i funerali di Clodio, tornato poi in mezzo alle guerre civili e quindi in grande timore di essere nuovamente scacciato179. Aggiungeva a questi non pochi amici suoi e compagni di sollazzi. Antonio era un sibarita: e allora tra l’una e l’altra faccenda –lo racconta Cicerone, ed è credibile, sebbene esageri non poco – si dava con i denari di Cesare e quelli dell’erario, a far baldoria, a giuocare sfrenatamente, a dar feste e banchetti, raccogliendosi intorno una corte di parassiti180, tra cui pure trovava qualche collaboratore: certi Seio Mustela e Numisio Tirone, a cui, insieme con Cassio Barba, diede il comando della sua piccola guardia di veterani181; un certo Petusio di Urbino, che aveva scialacquato tutto il suo182; un certo Publio Volumnio Eutrapelo, il padrone di quella Citeride che era stata amante di Antonio sino alle sue nozze con Fulvia e che era allora una delle etère più in voga; l’ateniese Lisiade, figlio di Fedro183.

Intanto, dopo la promulgazione delle leggi era incominciata, in numerose concioni, una nuova agitazione popolare, che incanalandosi nel letto della precedente agitazione di Erofilo, ne travolse in breve gli avanzi nel suo torrente precipitoso. Il popolino e i veterani, che prima andavano in frotta ad assaltar le case dei congiurati, accorrevano alle concioni per la legge agraria; le quali, rinfocolate da grandi elogi di Cesare e da grandi invettive contro i suoi uccisori, dovettero diventare ben presto assai turbolente e suonare come intimazioni sommarie di approvare la legge. E di nuovo le classi ricche, i conservatori, i congiurati si insospettirono, si spaventarono, si costernarono. Era chiaro: anche questa nuova agitazione corrodeva le fondamenta già tanto guaste dell’amnistia; era un mezzo con cui i demagoghi ambiziosi intendevano riuscire a scacciar dallo Stato gli uccisori di Cesare, cioè il fiore del partito conservatore, per prendere poi i beni dei ricchi. E pensare che per tre mesi i conservatori si erano lusingati segretamente di metter le mani sulla somma accumulata da Cesare nel tesoro pubblico per indennizzare – poichè render le terre non si poteva – le famiglie dei grandi, che avevano perduta parte dei beni nella guerra civile!184 Invece il partito di Cesare che si ricostituiva intorno ad Antonio – il cosidetto partito dei poveri – non solo si teneva quei beni, ma già attingeva liberamente nel tesoro pubblico con la mano del console, e presto, quando la legge agraria fosse approvata, avrebbe in sua balìa legalmente l’erario; nè soddisfatto ancora, adocchiava cupidamente i beni restati ai signori; mentre il partito di questi – ironia delle cose! – versava in difficoltà più gravi di giorno in giorno per la mancanza di denaro. Molti conservatori si appartavano dalle lotte politiche, si rifugiavano in campagna non solo per paura, ma perchè l’amicizia dei congiurati minacciava di rovinare chi non possedesse la ricchezza di Attico. Non solo Bruto e Cassio ma molti altri congiurati smungevano i loro amici e ammiratori, per la difesa della buona causa; Decimo Bruto in special modo, cui molti conservatori scrivevano denunciando le mene di Antonio e incitandolo a rafforzar l’esercito e a raccoglier denari185. E invece ormai egli doveva pagare i soldati con denaro suo e domandava aiuto a tutti gli amici186. Come fare altrimenti? Domandarne al Senato, sinchè Antonio signoreggiava, era inutile; spremerne alla Gallia cisalpina, pericoloso, perchè la Cisalpina non era più una provincia e la popolazione si sarebbe fatta nemica. Grande era perciò lo sconforto delle classi ricche. A Roma, nell’alta società, si diceva che la Repubblica era spacciata187; Pansa e Irzio, vedendo il partito cesariano ricostituirsi intorno ad Antonio, ricominciarono a tergiversare, con grande ira di Cicerone188, che stanco e disgustato si risolvette definitivamente a partir per la Grecia e pregò Dolabella di dargli una missione pro forma189; Attico lasciava quasi ogni speranza per le sue terre di Butroto, considerando impossibile, allorchè il partito popolare trionfante prometteva tante colonie, togliergli quel territorio che già aveva negli artigli190. Si sapeva già infatti che Lucio Antonio era avverso alla sua domanda191. “Siamo alla vigilia di un macello” scriveva Cicerone192. In quella, corre una voce: che Carteia, importante città marinara della Spagna (sul golfo di Gibilterra), si era arresa a Sesto Pompeo. Il figlio di Pompeo aveva dunque un porto e certo immediatamente imbarcherebbe il suo esercito per venire in Italia, aprendo la guerra! Tanto più Cicerone pensò di dover affrettarsi a partire193. Anche Bruto, si diceva, era sulle mosse per andare in Asia a compir la sua missione annonaria194; anche altri congiurati, come Domizio Enobarbo, figlio del consolare morto a Farsaglia, si erano ritirati al mare e preparavano navi, vicino a Pozzuoli, per esser pronti a lasciar l’Italia come avevano lasciata Roma, se l’amnistia fosse abolita195. Cicerone domandò ad Attico se doveva imbarcarsi a Pozzuoli o a Brindisi; e Attico, che pare fosse molto irritato con Antonio per le sue terre di Butroto, lo supplicò di non andare a Brindisi: il console aveva fatto fermare sulla via Appia una legione, la quinta o dell’Alodola, che era in viaggio per la Macedonia196; e con tante torme di feroci veterani vaganti, le strade non parevano sicure!197 Ma i giorni passavano: il trinum nundinum stava per finire; i conservatori si lamentavano e non facevano nulla; solo qualcuno incominciava a pensare se, aizzando Ottaviano contro Antonio, non si potesse dividere il partito di Cesare. Ottaviano continuava a cercare di screditare Antonio presso il popolo, dimostrandone le molte contradizioni degli ultimi mesi; rinfacciandogli di aver sino allora corteggiato e favorito nascostamente conservatori e uccisori di Cesare, mentre poi osava ora mettersi a capo del partito cesariano; supplicava di non fidarsi di lui. Essendo però imparentato con le più nobili famiglie di Roma, ogni sera, dopo aver fatto tutto il dì il demagogo in piazza, ritrovava a casa la sua aristocratica parentela e molti conservatori amici della famiglia, che gli tenevano certi discorsi di una troppo melliflua amorevolezza: sì, Antonio era un pericoloso arruffone; conveniva a tutti distruggerlo; se egli non diffidasse dei conservatori e dei congiurati, troverebbe tra costoro aiuti sicuri e leali contro il nemico comune. Tra questi consiglieri il più zelante pare fosse Caio Claudio Marcello, il fanatico conservatore che, console nell’anno 50, aveva provocata la guerra civile, e che era o stava per diventare suo cognato, sposandone la sorella Ottavia198. A Marcello pareva anzi che queste considerazioni entrassero nello spirito del giovane199. Tuttavia, sebbene questi intrighi infastidissero Antonio, passato il tempo legale della promulgazione, la legge agraria e le altre leggi furono approvate, probabilmente in giorni diversi, nella seconda metà di giugno, senza opposizione e quindi senza violenze; fu pure scelta la commissione, ma in che modo! Marco Antonio, Lucio Antonio, Caio Antonio e Dolabella ne componevano la maggioranza; e ad essi si aggiungevano Nucula, Cesennio Lentone e un settimo di cui ci è ignoto il nome200. Questo potente arnese di dominazione e di lucro era in balìa della famiglia di Antonio.

Con un fervido slancio Antonio aveva oltrepassato di gran lunga Ottaviano, che ormai gli teneva dietro a fatica da lungi, e la stanca torma dei conservatori che si sbandavano da tutte le parti. Non restava più nulla da fare; e Cicerone, a cui Dolabella aveva conferita la missione, poteva partire. Ma con la approvazione delle leggi, la agitazione era finita; non era successo nè il macello nè le altre violenze contro i congiurati, che i conservatori avevano predette. Così Cicerone aveva ricominciato ad esitare201, trattenuto dalla sollecitudine della propria gloria, dalla paura di perdere l’occasione di qualche magnifica azione simile alla repressione catilinaria, da un certo rimordimento e da una certa vergogna. La sua partenza non sarebbe considerata come una fuga? E aveva cominciato a domandar consiglio a diverse persone, a studiar transazioni con la sua coscienza. Se partisse per tornare al primo gennaio, quando Antonio non sarebbe più console e il Senato potrebbe liberamente deliberare?202 Lo trattenevano anche le sue private faccende203, sempre intricate. Poco prima aveva dovuto mandare il suo fido Tirone a Roma a cercar di sbrogliare i conti arruffati di Erote204; e ora si raccomandava ad Attico affinchè lo aiutasse a uscir da quel ginepraio, sebbene non osasse più, per discrezione, domandargli nuovi prestiti. Attico aveva spalle robuste: ma tanti altri ricorrevano a lui! Anche alla spesa dei giuochi Apollinari di Bruto doveva provvedere egli, per la parte maggiore205. Quasi a compenso però di tante spese, premure e gentilezze, la commissione senatoria per le carte di Cesare, verso la fine di giugno e proprio quando Attico già disperava, giudicò giusti i suoi reclami e mandò ordine a Cneo Planco di rispettare il territorio di Butroto206. Attico doveva questa gradita sorpresa all’intercessione di Marco Antonio, che aveva tanto bistrattato nelle lettere del principio del mese. Lucio, più temerario e violento, aveva mostrato quasi con ostentazione il proposito di dividere tra i poveri i grandi beni epirotici del ricco cavaliere; ma Marco, più prudente, se continuava e con successo a raccogliere intorno a sè gli antichi cesariani e a farsi in ogni parte degli amici, corrompendo e promettendo; se voleva acquistare un gran potere nello stato, non voleva provocare un estremo cimento, e perciò si studiava di rassicurare i conservatori, di impedire che esasperati facessero compiere da Decimo qualche colpo di mano. E infatti la sollecitudine del console per Attico rallegrò le alte classi di Roma; fece sperare a molti che anche questa legge agraria fosse una lustra e che Antonio non facesse sul serio. Intanto Roma era diventata più tranquilla; si avvicinava il luglio, un mese festoso, in cui si sarebbero celebrati prima i giuochi Apollinari e poi i giuochi della Vittoria di Cesare; il vento delle dicerie rotolò nei suoi soffi voci di pace. Mentre alla metà del mese si credeva che Sesto Pompeo assalterebbe l’Italia, alla fine si diceva che intendeva deporre le armi, con qualche noia del volubile Cicerone, cui non sarebbe ora spiaciuto che Sesto conservasse l’esercito suo al partito conservatore207. Insomma, il grande spavento della metà di giugno si era in pochi giorni mutato in una gran pace; tutti si tranquillavano fuori che Cassio. Più energico e intelligente di Bruto, e stanco ormai della interminabile inerte e logorante aspettazione, mentre raccoglieva navi per andare in Sicilia a comprar grano, risolutamente veniva macchinando più vasti disegni e con quelli tormentava in segreto l’esitante amico suo: bisognava pensare senza indugio a prepararsi nelle provincie rifugi ed eserciti per l’assalto, forse imminente e in ogni caso inevitabile, che Antonio moverebbe contro loro alla testa del partito demagogico. In Italia non si poteva più far nulla; e vana era la speranza di riconquistare il potere, con i nuovi consoli, all’anno seguente. Nella Gallia Cisalpina invece era Decimo Bruto, amico sicuro sebbene scarso di denari, che reclutava una terza legione e si disponeva a tentare una spedizione in certe vallate alpine per esercitar i soldati e far bottino; su Planco pure si poteva forse fare assegnamento208; in Oriente erano anche più numerosi gli amici e le opportunità di avviar trattative. Trebonio governava l’Asia e radunava denari; Tullio Cimbro in Bitinia comandava legioni e raccoglieva una flotta; in Egitto erano stanziate quattro legioni, in cui abbondavano gli antichi soldati di Pompeo, e che avevano presa poca parte alla guerra civile; in Siria egli aveva rinomanza e amicizie dal tempo della guerra di Crasso, e Cecilio Basso si reggeva ancora, inutilmente assediato in Apamea con una legione. Se avviavano segretamente e per tempo trattative, mostrando agli amici di Oriente il pericolo in cui il loro partito poteva trovarsi, essi potrebbero un giorno opporre alla trionfante rivoluzione popolare un esercito. Ma Bruto esitava, considerando la difficoltà di mandar messaggi sicuri e il pericolo che questi intrighi, se conosciuti o appena sospettati, facessero precipitar Antonio ai loro danni; disperando che il partito conservatore potesse indurre un esercito a difendere la causa degli uccisori di Cesare. Tutti i soldati erano troppo imbevuti di spirito cesariano! E questa sconfortata opinione era universale, nel partito dei grandi209.

VI.
LA “LEX DE PERMUTATIONE”.

Cicerone aveva frattanto finito il libro sulla Gloria, quasi terminato quello sulla Vecchiaia, e saputo da Attico che, per assestare i suoi conti, gli era necessario prendere a prestito 200 000 sesterzi per cinque mesi, fino al 1° novembre. In questo giorno appunto suo fratello Quinto gli doveva pagare una somma eguale210. Per fortuna Attico si offriva di cercare qualcuno che prestasse il denaro; onde egli si avviò di nuovo, negli ultimi giorni di luglio, verso Pozzuoli, a piccole tappe: Anagni211, Arpino212, Formia213. Da Pozzuoli intendeva partire per l’Oriente; ma non era ancora sicuro di far bene, domandava a tutti il parer loro, non sapeva se imbarcarsi subito o andare sino a Brindisi per terra. Un momento aveva pensato di fare il viaggio con Bruto, che pareva volesse partire tra poco, come Cassio, per andare a comprare il grano, e che, recatosi alla bella isoletta di Nisida, sul golfo di Napoli, nella gran villa di Lucullo, affittava dai mercanti di Pozzuoli e di Napoli quante navi potevano dargli.

[44 a. C. Luglio] Intanto voci diverse giravano. Si confermava che Sesto Pompeo era disposto a far pace; con che sembrava a Cicerone perdersi l’ultima speranza di libertà214. Invece, di tempo in tempo, correva nuovamente qualche diceria inquietante sulle intenzioni di Antonio: tra le altre nientemeno che volesse chiamare in Italia le legioni di Macedonia, poste in marzo dal Senato sotto il suo imperium, facendole sbarcare a Brindisi215. Cicerone giudicava la diceria poco probabile216, ma non si poteva mai sapere: e se, andando a Brindisi, incappasse in queste legioni? Era meglio partire per mare. Ma sul mare si annunziava un nuovo pericolo: i pirati, che si diceva infestassero le coste217. Cicerone ritornò all’idea di navigare più sicuramente con Bruto in numerosa flottiglia. E andò infatti l’8 luglio a Nisida; vide con piacere nei seni della bella isoletta le molte navi di Bruto, di Cassio, di Domizio Enobarbo e degli altri conservatori e congiurati, che si tenevano pronti a partire, se l’amnistia fosse abolita; tentò di far capire a Bruto il suo desiderio di andar con lui. Ma Bruto non capì o finse di non capire. Combattuto dalle esortazioni di Cassio e dal desiderio di pace, non sapeva che fare, e voleva intanto, prima di risolversi a salpare, aspettar l’esito dei giuochi; i quali forse – così egli sperava – potrebbero promuovere o almeno indicare un mutamento della opinione pubblica, e quindi intimorire Antonio. Delle prime notizie sui giuochi si parlò, naturalmente. Pur troppo alla commedia greca era andato un pubblico scarso: ma Cicerone spiegava la cosa, dicendo che quello spettacolo piaceva poco al popolino di Roma; la commedia latina e la caccia alle bestie risolleverebbero le sorti dei giuochi. In quella venne Scribonio Libone con le prime lettere autentiche di Sesto Pompeo, che un liberto aveva portate allora allora dalla Spagna e nelle quali il giovane si diceva pronto a deporre le armi, se gli restituivano i beni del padre e se gli altri capi di partito abbandonavano pure i comandi. Insomma, si confermava definitivamente che era più incline a pace che a guerra218. Cicerone tornò a Pozzuoli, dove restò il 9 e il 10 sempre pensando di partire ad ogni modo con Bruto, anche se Bruto tardava219; il 10 ricevè una lettera di Attico in cui gli diceva che a Roma tutti lodavano il suo viaggio, purchè tornasse per il 1° gennaio220; e il giorno stesso fece una breve gita a Nisida. Trovò tutti contenti perchè il Tereo di Accio aveva attirato molto pubblico e avuto buon successo; e se ne rallegrò anche egli, sebbene pensasse con stizza che il popolo, per difendere la repubblica, avrebbe dovuto adoperar le mani a brandire armi e non applaudire degli attori221; ma tornato poi a Pozzuoli fu ripreso di nuovo dall’impazienza e deliberò di non aspettar più Bruto, di partir subito, per la via di terra, andando a Brindisi. Il rumore delle legioni dileguava; ma i pirati erano veri222. L’11 luglio infatti aveva scritto ad Attico incaricandolo della amministrazione generale dei suoi beni, scongiurandolo di non farlo scomparire con nessuno dei numerosi creditori, autorizzandolo a contrarre prestiti e anche a vendere qualche proprietà, se era necessario, per pagare223. Attico era un così buon amico! In quei giorni pensava persino a pubblicare una collezione di lettere del grande oratore e gli aveva chieste tutte quelle che possedeva224.

E partì per Pompei. A Roma intanto i Giuochi apollinari erano terminati. Avevano avuto grande successo, dicevano i conservatori; erano stati accolti male, dicevano gli amici di Antonio e gli avversari dei congiurati225. Ormai si prognosticava il destino della repubblica dal successo di qualche attore! Ma questa volta avevan certamente ragione gli amici di Bruto, perchè al teatro e al circo il popolo romano non conosceva partiti e applaudiva tutti gli spettacoli, purchè fossero belli. Con tanto maggior zelo Ottaviano attese ad allestire i giuochi della Vittoria di Cesare, studiando di farsi fare in quelli delle grandi dimostrazioni dal partito di Cesare, che indispettissero Antonio. Antonio però non riposava; e indefessamente continuava a rafforzare il vecchio partito di Cesare, prima di proporre la legge sulla Gallia; largendo favori, corrompendo, inventando atti di Cesare, facendo entrare in Senato i senatori di Caronte, come li chiamava il popolo, e cioè oscure persone ligie a lui, centurioni di Cesare i più, la cui nomina egli diceva di trovare nelle carte del dittatore226. Così non solo aveva raccolti intorno a sè quasi tutti i cesariani più capaci di origine oscura, ma aveva guadagnato anche qualche cesariano più ragguardevole e conservatore, tra gli altri quel Lucio Tremellio che nel 47 aveva, come tribuno della plebe, combattuto con tanto vigore la rivoluzione di Dolabella. I tempi erano duri; Tremellio si trovava, come tanti altri, in strettezze: e perciò si era indotto ad accostarsi ad Antonio, come l’ex-edile Lucio Vario Cotila227. Inoltre tentava di corrompere il nipote di Cicerone228 e, a quanto pare, anche Pisone, il suocero di Cesare229; avviava forse allora trattative con Lepido per un fidanzamento tra il figlio di lui e una figlia sua230, bambini ambedue. Con il decreto sulla faccenda di Butroto, si era poi ingraziato talmente Attico, che il ricco finanziere era andato apposta a Tivoli per ringraziarlo231. Nel tempo stesso Lucio Antonio poneva mano alla esecuzione della legge agraria, ricercava in tutta Italia agrimensori, prendeva grandi somme nell’erario, faceva misurar terre pubbliche e cercava terre private da comperare, a buoni o a cattivi prezzi secondo appartenevano ad amici o a nemici; e diveniva in breve oggetto di tante adulazioni, che qualcuno propose perfino di fargli erigere dalle trentacinque tribù un monumento equestre sul Foro, e trovò il denaro232. La potenza di Antonio pareva insomma posare sopra una roccia granitica di grandi interessi; e a scuoterla non basterebbero certo dimostrazioni e discorsi! Tuttavia Ottaviano godeva di molte simpatie tra i veterani, la plebe, gli amici stessi del console e in tutto il partito popolare ricostituito da Antonio; perchè in quel fanatismo cesariano esasperato dalle Idi di Marzo il nome solo lo avrebbe reso caro, se anche il giovane non fosse stato – come era – furbo abbastanza da insinuarsi nelle grazie della gente. Perciò non pochi lamentavano queste liti tra lui e il console, giudicavano che costui era stato troppo duro. No, non si poteva negare un posto nel partito di Cesare al figlio, il quale anzi ne accrescerebbe la forza233.

Ma intanto gli spiriti si placavano e la politica sonnecchiava; onde, quando il 17 luglio234 Cicerone dalla sua villa di Pompei entrò definitivamente nel viaggio, potè tranquillare gli scrupoli della sua coscienza persuadendo sè stesso che non fuggiva: infatti non partiva forse quando tutto era tranquillo, non tornerebbe il 1° gennaio, quando probabilmente i tumulti ricomincierebbero?235 Aveva però mutato ancora una volta idea sulla via: andrebbe per la via di mare, in tre navicelle a dieci remi che aveva affittate a Pompei236; a Reggio poi delibererebbe se salire sopra una grossa nave mercantile e con quella veleggiare a Patrasso in mare aperto, o se costeggiare con i suoi navicelli sino a Leucopetra dei Tarentini237 e di lì tagliar dritto su Corcira238. Pure non era pienamente soddisfatto della sua risoluzione; e in fondo si sentiva scontento. E così finalmente si partì, ma come chi non è sicuro di far bene e molto angustiato per le sue faccende private. Debiti e crediti si pareggiavano nei conti rifatti prima della partenza, sotto la vigilanza di Attico; ma nell’attivo figuravano anche certi crediti – molto dubbii! – di Dolabella verso terze persone, che Dolabella aveva ceduti invece di dare denaro contante, in pagamento della dote di Tullia; cosicchè Cicerone temeva che, lui partito, la bella ma fragile architettura del pareggio precipitasse. Si era perciò raccomandato anche al ricchissimo Balbo di non fargli fare una brutta figura239. Poco dopo la sua partenza, nella terza decade di luglio, furono celebrati i Giuochi della Vittoria di Cesare, preceduti però da una baruffa tra Antonio e Ottaviano. Costui aveva voluto portare nel teatro il seggio dorato di Cesare; alcuni tribuni sobillati da Antonio lo avevano impedito; Ottaviano era ricorso al console, che non solo aveva approvato i tribuni, ma aveva anche minacciato Ottaviano di metterlo in prigione, se non stava quieto240. Ciò non ostante il popolino e i veterani, che rammaricavano questi scandali, gli fecero grandi dimostrazioni nei giuochi, che durarono tre o quattro giorni241. Per caso in quei giorni apparve alla sera una grande cometa; e Ottaviano, per rinfocolare quella esotica adorazione religiosa per Cesare che fermentava nel popolino di Roma dalla mistione di tanti influssi d’oriente, affermò che era l’anima di Cesare ascesa in cielo tra gli Dei e nel tempio di Venere pose una statua di lui con in capo una cometa d’oro242.

E finalmente, pochi giorni dopo, terminati i giuochi, prima della fine del mese, la pace in cui Roma sonnecchiava fu rotta all’improvviso da un rombo di terremoto. Antonio e Dolabella promulgavano una lex de permutatione provinciarum243, con cui si toglieva a Decimo Bruto, l’uccisore di Cesare, la Gallia Cisalpina, e la si dava subito ad Antonio, con le legioni di stanza in Macedonia, e con la Gallia Chiomata244 a cominciare dall’anno seguente. Decimo aveva in cambio la Macedonia, per il resto dell’anno. Dopochè Cicerone era partito e Decimo si era avviato con l’esercito verso le Alpi, Antonio aveva trovato questo mezzo di avere le Gallie sino a tutto l’anno 39 e di dare nel tempo stesso una risposta alle accuse di Ottaviano e una soddisfazione ai veterani, sdegnati per l’amnistia del 17 marzo, senza però – così almeno sperava – provocare i conservatori a una disperata nuova guerra civile. Infatti egli non proponeva di revocar l’amnistia, ma solo di toglier la Gallia a Decimo, per quei pochi mesi che restavano; e se intendeva magnificare innanzi ai veterani questo atto come una grande umiliazione del partito dei congiurati, d’altra parte sperava che, dato a Decimo il compenso della Macedonia, i conservatori, per timore del peggio, si rassegnerebbero; sperava forse anche – così sembra almeno – di intendersi di nascosto con il suo vecchio amico di Gallia e di indurre Decimo ad accettare la permuta245. Ma a queste rosee previsioni corrispose male il principio, perchè all’annunzio della legge una violenta agitazione sconvolse inaspettatamente le alte classi di Roma: l’amnistia, la repubblica, la fortuna dei ricchi, tutto parve in pericolo; le più bieche e spaventose intenzioni furono attribuite ad Antonio. Un gran panico scoppiò tra i capitalisti, considerandosi la guerra civile come imminente, cosicchè non fu più possibile di trovar denaro a prestito come ai tempi di Catilina246; i pochi conservatori autorevoli che restavano a Roma, sdegnati, scossero di dosso il lungo torpore, si intesero tra di loro e con Bruto e Cassio; anche qualche cesariano eminente stette con i conservatori, e tra questi Pisone, il suocero di Cesare, che si dichiarò pronto a fare in Senato un discorso per sostenere una proposta che pareva risolvere equamente e per sempre la questione della Gallia Cisalpina: che essendo stata concessa ai Cisalpini la cittadinanza, era tempo di equiparare in tutto la regione all’Italia e quindi non mandarci più nè proconsole nè propretore. Si deliberò infine di procurare che il 1° agosto il maggior numero di senatori venisse alla seduta, di non dare l’auctoritas alla proposta se Antonio la domandava, se non la domandava di sollecitare i due o tre tribuni della plebe avversi ad Antonio ad interporre il veto247. In mezzo a questi preparativi, l’opinione pubblica, che intuiva quanto la partenza di Cicerone avesse contribuito ad accrescere il coraggio del console, infuriò contro di lui. Ma come mai aveva potuto andarsene in Grecia, proprio allora, a vedere i giuochi olimpici? Giacchè si bucinava che questo fosse lo scopo del viaggio. Era impazzito o imbecillito il vecchio consolare, che abbandonava la repubblica in tanto frangente? Attico, spaventato, gli scrisse una lettera supplicandolo a tornare e gliela spedì in gran fretta a Leucopetra, con la speranza di raggiungerlo a tempo248.

[44 a. C. Agosto.] E frattanto Cicerone, ignaro di tutto, navigava continuando a scrivere pur nella nave i suoi libri, ricominciando a ogni momento la discussione tormentosa con sè stesso, l’altalena dei pentimenti e delle esitazioni, il contrasto tra la vergogna di tornare indietro e la paura di far male andando innanzi. Navigando così, combattuto da opposti pensieri, egli giunse il 1° agosto a Siracusa e il 6 a Leucopetra; ma appena ripartito da Leucopetra un gagliardo vento contrario lo costrinse a sbarcare alla vicina villa di un suo amico, un certo Publio Valerio, ad aspettare che il vento mutasse. Che Cicerone era in quella villa si riseppe in un attimo nella vicinanza e subito dai luoghi vicini, anche da Reggio, vennero persone di conto, membri di quella agiata borghesia italica che tanto favoriva, sia pure platonicamente, il partito conservatore e repubblicano contro la demagogia rivoluzionaria; tra gli altri alcuni, tornati allora allora da Roma, che avevano lasciata il 29 o il 30 luglio, e che gli raccontarono quello che era successo dopo la sua partenza: la promulgazione della legge, il panico scoppiato, quel che si diceva di lui e anche un miglioramento seguito poi. Sembra che Antonio fosse stato per un momento intimidito dalla agitazione dei conservatori, che forse non prevedeva sì grande, e dall’intervento di Pisone: onde aveva pronunciato un discorso più conciliante, dando a divedere che assegnerebbe a Bruto e a Cassio provincie più importanti in luogo della missione annonaria, facendo balenare che non era impossibile intendersi sulle Gallie. Bruto e Cassio avevano allora pubblicato un editto, in cui si dichiaravano pronti ad abbandonare la magistratura e ad andare in esilio, se era necessario per la pace della repubblica, mirando a impegnare Antonio e a sbugiardare i popolari che sostenevano la legge, accusandoli di macchinare una nuova guerra civile249. Ma speranze chimeriche erano nate da questi fatti e i reggiani le raccontavano a Cicerone: Antonio era mal consigliato, ma savio; si farebbe la pace; Bruto e Cassio tornerebbero a Roma250. Cicerone aveva ricevuto frattanto anche le lettere di Attico251; e subito si risolvè a volger la prora al ritorno.

Ma mentre Cicerone era in viaggio, gli avvenimenti pigliavano a Roma una piega ben diversa da quella che egli sperava. Le titubanze di Antonio erano durate poco; perchè il console, questa volta, era stato incitato non solo dalle solite sollecitazioni dei suoi temerari consiglieri252, Fulvia e Lucio, ma dall’entusiasmo dei suoi veterani. Costoro avevano interpretato la lex de permutatione a seconda dei loro desideri ed interessi, molto al di là delle intenzioni di Antonio: il proconsolato delle Gallie, da cui dipendeva la signoria dell’Italia, era il miglior mezzo per padroneggiare la repubblica; quando quella provincia fosse tolta ai congiurati e data a un cesariano, i loro interessi sarebbero sicuri e la vendetta di Cesare facile; Antonio, il fedele amico del dittatore, voleva compire questa vendetta, per restaurare la potenza dei vincitori di Farsaglia e di Munda! Era difficile al console, al Senato, a tutti resistere a tanto slancio. Il 1° agosto Pisone tenne un vigoroso discorso in Senato contro Antonio, facendo la proposta della Cisalpina; ma il Senato incerto, pauroso e in parte corrotto, ascoltò freddamente253, contentandosi di decretare nuove provincie a Bruto e a Cassio, ma non meno meschine delle precedenti: Creta e, a quanto pare, Cirene254. Antonio dovette smettere i tergiversamenti, rompere in guerra aperta, darsi a preparare la votazione adoperando tutti i mezzi, dalla violenza alla corruzione; rispondere alle generose offerte di Bruto e di Cassio con una lettera e un editto violenti, rimproverandoli per il loro proposito di abbandonare la magistratura, ammonendoli a non tramare una guerra civile. Bruto e Cassio risposero di buon inchiostro con altrettante contumelie il 4 agosto: che essi non fomentavano una guerra civile, ma non già per paura di lui, bensì per amore della repubblica255. Ma fra queste baruffe la baldanza dei veterani di Cesare, già rianimati dalla presentazione della lex de permutatione, crebbe tanto, che generò un nuovo e impensato impiccio ad Antonio. Dovendosi eleggere un tribuno della plebe in luogo di quel Cinna ucciso il giorno del funerali di Cesare, Ottaviano aveva pensato, incoraggiato dal successo dei giuochi, di farsi proporre dal popolo, sebbene fosse patrizio. Ma Antonio si oppose e alla fine rimandò le elezioni256. Senonchè tra i veterani che, desiderando la concordia del partito, avevano sempre lamentati i litigi di Antonio e Ottaviano, qualcuno, in mezzo al fervore di speranze e all’esaltazione destate dalla lex de permutatione, affermò che era tempo di por fine a questa calamitosa discordia; che i veterani dovevano interporsi come pacieri. Detto, fatto: la proposta, che giungeva in tempo opportuno, fu universalmente approvata e posta subito in esecuzione. Un giorno (siamo nella prima quindicina di agosto) si venne ad annunziare ad Ottaviano che una torma di soldati muoveva verso la sua casa. I servi e gli amici si spaventarono; le porte furono chiuse precipitosamente; Ottaviano salì all’ultimo piano per spiare senza esser visto dalla turba. Ma, la turba prorompendo in acclamazioni, egli si fece ardito a mostrarsi e fu salutato da grandi applausi: i soldati volevano la riconciliazione definitiva tra lui e Antonio ed erano venuti a cercarlo, mentre altri erano andati a cercare Antonio257.

Offerta a quel modo e da quei pacieri, nell’imminenza della votazione della legge de permutatione, nè Ottaviano nè Antonio osarono respingere la conciliazione. Così la pace fu fatta. Antonio e Ottaviano si fecero visita e si scambiarono discorsi gentili; Ottaviano anzi si dichiarò pronto a favorire la legge, che di lì a poco, nella seconda metà di agosto, fu approvata. Pare che i tribuni avversi si lasciassero in parte corrompere258 e agli incorruttibili si provvide munendo bene tutte le entrate del Foro, per non lasciar passare che gli amici259. Di tutti questi eventi Cicerone ebbe notizie a Velia, dove incontrò Bruto, che lentamente con la sua flotta discendeva le coste dell’Italia, ormai risoluto a partire. Approvata la lex de permutatione, la repubblica e la amnistia erano in balìa degli amici di Cesare, se i congiurati e i conservatori non ricorrevano allo estremo espediente di una nuova guerra civile. Ma con quali armi ed eserciti? Con che capi e con quali mezzi, se eran tutti sparsi per l’impero, lontani e discordi? Questo uomo di studio, costretto ad essere contro natura un uomo d’azione, non partecipava alle speranze e agli ardimentosi propositi di Cassio, che poco prima, in luglio, a quanto pare d’accordo con Servilia, aveva mandato segretamente a Trebonio, agli ufficiali delle legioni di Egitto, a Cecilio Basso degli emissari, a proporre loro di preparare in Oriente un grande esercito per la difesa della causa conservatrice e a far loro sapere che era pronto a venire in Siria. Bruto aveva consentito che Marco Scapzio, quel faccendiere di cui si era servito per i suoi prestiti in Cipro e che aveva tante amicizie e relazioni in Oriente, fosse incaricato di prender parte a queste trattative; ma egli abbandonava la contesa, e poichè aveva ricevuto, per il suo viaggio, 100 000 sesterzii da Attico260, se ne andava in Grecia in volontario esilio, illudendosi di immolarsi alla pace civile. Poichè però Cicerone pareva disposto a tornare alle pubbliche faccende, non volle distoglierlo, ma si rallegrò con lui del suo ritorno, spiegandogli la cattiva impressione che aveva fatto il suo viaggio e incitandolo ad andar subito a Roma, per mettersi a capo della opposizione contro Antonio261. Senonchè lo slancio del principio rallentava in Cicerone e i dubbii ricominciavano con la paura. A che pro andare a Roma? Poteva egli, con un simile Senato, tener testa ad Antonio?262 Dopo la legge sulla Gallia, verrebbe la questione dell’amnistia; e non sarebbe piccola impresa opporsi su questa ad Antonio e ai veterani. Inoltre, siccome le disgrazie non vengono mai sole, in quei giorni Irzio, la cui salute era da lungo tempo malferma, ammalò così gravemente263, che i conservatori, temendo per la sua vita, ebbero un altro motivo di inquietudine: se Irzio moriva, Antonio farebbe certamente eleggere in luogo suo, per console dell’anno 43, qualche scalmanato cesariano! Ma le lodi tributate a Pisone, il desiderio di far dimenticare il suo recente viaggio, le esortazioni ampollose di tutti quelli che dicevano egli solo poter salvare la repubblica lo stimolavano; lo spingeva anche la sollecitudine delle sue faccende private. Il panico per la presentazione della lex de permutatione aveva sconvolto tutto il bel bilancio compilato sotto la vigilanza di Attico, il quale gli aveva scritto poco prima che per pagare i debiti era necessario riscuotere i crediti, perchè non era possibile trovare denaro a prestito264. Ma in tempi così difficili nemmeno i crediti si potrebbero esigere, se egli non sollecitava personalmente i creditori. Cosicchè, vinti gli ultimi dubbii, Cicerone ritornava in Roma il 31 agosto, festosamente accolto da amici e da ammiratori265. Per fortuna, al suo arrivo. Irzio era fuori di pericolo.

VII.
I VETERANI ALL’INCANTO.

Entrando in Roma, Cicerone trovava già promulgate da Antonio due altre leggi: una lex de tertia decuria e una lex de vi et majestate. Non trovò invece alcuna proposta sull’amnistia. Approvata la legge della permuta, Antonio aveva mandato subito ordine a quattro delle legioni di Macedonia – la seconda, la quarta, la trentacinquesima e la legione di Marte – di passar l’Adriatico, per aver pronta in Italia, unendole con la legione dell’Alodola, una forza considerevole, se Decimo non si rassegnasse a riconoscere la legge al suo ritorno dalle Alpi: aveva quindi ripreso a temporeggiare, cercando di contentare i popolari, invece che con la troppo perigliosa vendetta di Cesare, con queste due leggi. La prima distruggeva la riforma aristocratica dei tribunali, fatta da Cesare nel 46, disponendo che non più soltanto i membri dell’ordine senatorio ed equestre, cioè le alte classi, ma anche i centurioni, cioè gli ufficiali minori dell’esercito, fossero inscritti senza considerazione di censo nell’albo dei cittadini da cui si traevano a sorte i giudici delle quaestiones (i membri della giuria, diremmo adesso). La seconda disponeva che ogni cittadino condannato per majestas o per vis (tutti i reati che noi diciamo contro l’ordine pubblico, erano compresi sotto questi due nomi) avesse il diritto, abolito da Silla e da Cesare, della provocatio o appello ai comizii266. In altre parole, con la seconda legge Antonio faceva ammenda del supplizio di Erofilo e delle stragi del 47, rendendo cosa quasi impossibile il reprimere rapidamente le sedizioni; con la prima si procurava il mezzo di influire sui giudizi, imitando in parte quello che aveva fatto Pompeo nel 52 e nel 51; e adulava i soldati, equiparando il servizio militare al censo e alla nobiltà come titolo ad esercitare una delle maggiori funzioni civili. Ardimento maggiore per certo rispetto, Antonio intendeva di proporre al Senato il giorno dopo, il 1° settembre, che ai consueti onori funebri privati, tributati annualmente a Cesare dalla famiglia, si unissero pubbliche supplicazioni, come quelle che si facevano agli Dei: in altre parole che si deificasse Cesare, annoverandolo quasi tra i numi267. Che progresso aveva fatto questa superstizione orientale, orribile ad ogni schietto romano! Dalle prime spontanee e ingenue offerte del popolino ignaro sull’ara eretta da Erofilo, si era passati in un mese alle declamazioni di Ottaviano sull’anima del dittatore splendente nella cometa; ed ora, trascorso un altro mese, si voleva instaurare ufficialmente il culto di Cesare!

Il partito popolare appariva vittorioso di nuovo come nel 59, più che nel 59. Eppure mancava ad Antonio quell’impeto sicuro e continuo, con cui Cesare aveva allora strappata al nemico e sfruttata a fondo la vittoria, senza dargli tregua un momento. Aveva sino allora proceduto con grandissima circospezione, esitando, tergiversando, ritornando sui suoi passi: prendeva infinite precauzioni per difendere la sua vita268; si inquietava di ogni piccola opposizione: era diventato, per le fatiche, le ansietà e gli stravizi, più irascibile ancora del solito269. Non solo i due uomini erano diversi, ma i tempi e le cose erano molto mutate dal primo consolato di Cesare e mutate a danno dell’imitatore. Allora, lontani ormai i ricordi della guerra civile di Silla e di Mario, affrontato da poco e felicemente il pericolo, del resto ingrandito nell’immaginazione dei più, della congiura di Catilina, recenti le vittorie di Lucullo e di Pompeo in Oriente, fervido in ogni parte della penisola il rinnovamento agrario, l’alacrità del commercio e lo zelo degli studii, l’Italia era piena di fiducia nell’avvenire e non credeva seriamente, sebbene fosse costume di lamentarsi senza tregua, al pericolo di rovesci, di rivoluzioni e rovine; onde sosteneva senza troppo inquietarsene tutte le difficoltà presenti; i debiti, il disordine amministrativo, la corruzione e l’instabilità politica. Così era avvenuto che la rivoluzione di Cesare fosse allora o tollerata come innocua o addirittura ammirata anche da quella industriosa borghesia, che rinnovava con tanta energia il vivere italico. Ma ora invece! Tutti i ceti e tutti i partiti avevano subito tanti amari disinganni e prove così terribili, che dappertutto era diffusa quell’ansiosa incertezza del presente e dell’avvenire, quella stanchezza disgustata e sfiduciata, che è il maggior travaglio di tutte le grandi crisi sociali. Sebbene in tutta Italia fosse diffuso quanto mai lo spirito conservatore, cioè lo spavento della rivoluzione, l’odio della demagogia, il desiderio dell’ordine; il partito conservatore non c’era più, tanto orrore le alte classi avevano della politica. In una lettera scritta a Cicerone in questi tempi, Attico esprimeva con brutale cinismo quello che era in fondo il pensiero dei più: “se la repubblica è perduta, salviamo almeno il patrimonio”270. Senonchè, con questa neghittosità, non si rischiava di perdere e patrimonio e repubblica? Nessun giovane osava più cimentarsi nella lotta contro la rivoluzione; uomini nuovi non apparivano ad aiutare gli antichi che, decimati e dispersi, non bastavano più a difendere gli interessi delle classi ricche; solo qua e là qualcuno, più ardito e tenace, si ingegnava per conto suo a preparare qualche difesa. Ma, immaginate da gente solitaria e quasi disperata, in una delle situazioni più incerte e difficili, queste difese erano spesso temerarie, stravaganti, quasi pazzesche. Se Cassio voleva muovere da solo e inerme, con poche barche, alla conquista dell’Oriente qualcun altro in quel tempo – pur troppo non sappiamo chi fosse – ideava un intrigo ancor più ardito e difficile, d’accordo con pochi conservatori meno indolenti: seminar zizzania tra le legioni di Macedonia e il loro generale, con tutti i mezzi, anche a costo di accusare Antonio come un tepido e malfido partigiano di Cesare, anche a costo di adoperare, non solo gli amici che molti conservatori avevano tra gli ufficiali di quelle legioni, ma Ottaviano e per suo mezzo gli amici di costui molto più numerosi. I primi tentativi di aizzare Ottaviano contro Antonio erano falliti, per l’interposizione dei veterani; ma nè Marcello nè gli altri aristocratici amici della famiglia avevano per questo smesso, dopo la riconciliazione, di mettere in sospetto Ottaviano, cercando di persuaderlo che non doveva fidarsi, non ostante la pace, di Antonio, ma aiutarli a rivoltare al troppo audace console le sue milizie. Nel partito popolare la torma degli avventurieri, il popolino, i veterani chiamavano a grandi grida nuove Farsaglie e nuove Munde, offrendo in cambio ai loro capi quel che volessero, anche l’impero del mondo; ma chi osava accettar con cuore sicuro quella spada? Chi poteva dimenticare la tragica viltà delle Idi di Marzo: Cesare, il conquistatore della Gallia, il fondatore di tante colonie, il dittatore a vita, sgozzato da amici e beneficati in Senato, di pieno giorno, sotto gli occhi di altri amici e beneficati, senza che alcuno osasse slanciarsi in suo aiuto? Nessun uomo delle classi alte e di fine coltura osava più, tranne Ottaviano, accostarsi al partito di Mario e di Cesare, che si mutava in una mobile e infida accozzaglia di oscuri avventurieri. In tutti poi, l’illusione che le conquiste dovessero sempre riescire, che la ricchezza crescerebbe indefinitamente, che i debiti si pagherebbero senza stento, svaniva: anzi i debiti irretivano più arruffatamente un gran numero di agiate famiglie, in quel modo stesso che abbiam visto irretito Cicerone; perchè da un pezzo rinvilivano, per la crisi, le derrate i campi le case, aumentava la difficoltà di far rendere le terre e di far pagare i fittavoli gli inquilini i debitori, rincariva invece il denaro; nè si vedeva quando e come spunterebbero annate migliori. E intanto giù la immensa torma confusa dei veterani, dei coloni, dei mendicanti, dei soldati si agitava, minacciando di invader come un’orda lo Stato e i beni delle classi agiate. A che cosa aveva servito la guerra civile se non ad inasprire tutti i mali? La grande proprietà era stata danneggiata e molti ingenti patrimoni, come quelli di Pompeo e di Labieno, confiscati e divisi; non pochi tribuni, centurioni e soldati di Cesare erano diventati agiati o ricchi271; ma la moltitudine restava, se non più povera, certo più insoddisfatta di prima, ma il ceto medio non era meno oberato. Per un momento una dittatura rivoluzionaria era stata instaurata nell’antico disordine delle fazioni cozzanti; ma poche pugnalate l’avevano atterrata in un baleno, una mattina, e l’Impero si era trovato in condizioni ancor peggiori, senza più nessun governo, nemmeno quello delle antiche fazioni cozzanti, in balìa ora di Erofilo, ora di Fulvia. Da trent’anni l’Italia non si estenuava forse in una fatica di Sisifo? In simile condizione di tempo e di cose, Antonio non poteva cullarsi in troppo rosee illusioni, anche se non solo le tribù, ma i cavalieri e gli usurai di Roma si sbracciavano a far monumenti a Lucio272; se sua moglie Fulvia poteva, anche in quei tempi di crisi, comprare facilmente ingenti possessioni a credito da compiacenti venditori273; se il Senato obbediva docilmente ai suoi comandi. Dopo aver visto Cesare ucciso dai suoi amici più cari, e tanti, in quei pochi mesi, dissimulare, mutar pensiero, tradire da un giorno all’altro; costretto a salire un’erta ripida e sdrucciolevole, sopra uno sfasciume di rottami che rotolavano giù sotto la spinta del piede poggiante all’ascesa, egli doveva necessariamente diffidare di tutti e di tutto.

L’improvviso ritorno di Cicerone e le liete accoglienze irritarono perciò molto l’irritabilissimo console. L’opposizione ritroverebbe un capo così autorevole? Bruto e Cassio partivano e Cicerone tornava, apposta, per la seduta del giorno dopo nel Tempio della Concordia? Invece Cicerone non comparve in Senato il primo settembre, ma mandò un amico a dire ad Antonio che restava a casa perchè stanco del viaggio274. È più probabile, in verità, che Cicerone non osasse parlare contro la deificazione di Cesare per paura dei veterani; e che, non potendo nè parlare in favore, nè comparire in Senato e tacere, avesse immaginata quella scusa. Ad ogni modo, Antonio avrebbe dovuto rallegrarsene. Ma che cosa accadde invece allora in lui? Cedette egli, uomo violento per natura e allora più del solito irritabile, a un impeto subitaneo di rabbia? Finse di andare in collera per spaventar Cicerone e farlo fuggire di Roma? Ambedue le supposizioni sono verisimili. Certo è che all’udire quell’ambasciata, Antonio proruppe in terribili smanie; si mise a gridare in pieno Senato che Cicerone voleva far credere a tutti di essere insidiato e in pericolo; che lo calunniava e gli faceva un affronto; che egli, Antonio, userebbe i suoi poteri di console e lo farebbe venire al Senato per forza, mandando soldati e fabbri a rompergli le porte della casa, se resisteva275. Successe un pandemonio: i senatori balzarono in piedi supplicandolo di calmarsi; e sia che Antonio si accorgesse di aver trasceso, sia che simulasse, alla fine sì calmò e annullò l’ordine276. Furono poi approvati gli onori di Cesare277. Antonio aveva con quelle parole e minaccie spaventato assai il timido Cicerone; ma aveva anche oltraggiato, egli console giovane e novello, il più illustre personaggio del Senato, e in tal modo, che questi per quanto vecchio, stanco, debole, non poteva non risentirsene fieramente. [44 a. C. 2 settembre.] E il vecchio infatti, non ostante la gran paura che gli incutevano Antonio e i suoi veterani, volle risponder subito nella seduta del giorno dopo.... Chi però si slancia a sfogar la collera contro un nemico potente, mentre le gambe gli tremano sotto per la paura che non riesce a vincere, rischia di far ridere il pubblico: e questo sarebbe successo a Cicerone, se ormai a quell’età e dopo tanta pratica, non avesse conosciuto a fondo l’arte degli effetti e saputo quindi dissimulare abilmente la sua paura in una bella compostezza, scrivendo quel giorno stesso rapidamente un abile, misurato, dignitoso discorso, il primo di quelli contro Antonio cui poi, metà per scherzo metà sul serio278, egli diede il nome demostenico, che conservarono sul serio, di Filippiche. In questo discorso spiegava prima il suo viaggio e poi l’assenza del dì precedente; si lagnava delle invettive di Antonio, ma brevemente e con un certo sussiego, come chi è dolente di dover trattenersi di cose così poco convenienti alla sua dignità; passava quindi a considerare lo stato della repubblica, biasimando la politica di Antonio, ma moderatamente e in modo molto singolare, accusandolo cioè di non aver rispettati gli atti e le leggi di Cesare e quasi dicendo ai veterani che egli desiderava questa conservazione più sinceramente di Antonio. Biasimava infine delle leggi di Antonio non il contenuto ma la procedura irregolare; infine esortava Antonio e Dolabella a ravvedersi, a non covare ambizioni parricide, a praticare la classica teoria costituzionale di Aristotile da lui divulgata: libertate esse parem ceteris, principem dignitate: essere il primo cittadino in una Repubblica di eguali279. Insomma, con questo discorso egli offriva quasi, senza dirlo, di accettare delle scuse, se gli fossero fatte. Ma il 2 settembre Antonio non comparve in Senato280: sia che ancor si rodesse dentro per quella mescolanza di puntiglio, di vergogna e di ira che resta dopo ogni scoppio smodato di collera e che è un così grave impedimento a tutte le riconciliazioni; sia che avesse paura dei discorsi di Cicerone come costui aveva paura dei suoi veterani e temesse di non saper rispondere subito; sia che volesse davvero spaventarlo. Senonchè questa assenza era un nuovo affronto per Cicerone, il quale uscì dal Senato, ormai interamente nemico ad Antonio; gli tolse il saluto nella via281; e incominciò a chiamarlo, non in pubblico ma nelle lettere, pazzo, gladiatore e uomo perduto282; ad accusarlo di preparare un macello di senatori e di grandi, che doveva incominciare da lui283; a sospettar corrotti tutti quelli che non si dichiaravano apertamente nemici di Antonio284.

[44 a. C. Settembre.] La inclinazione ad attribuirsi vicendevolmente intenzioni malevole, quella specie di reciproco delirio di persecuzione tra gli uomini i partiti e le classi, che si propaga nelle grandi crisi sociali, è una malattia molto pericolosa, perchè chi esagera il numero e l’accanimento dei suoi nemici, opera poi sovente in modo da mutare in nemici veri una parte dei nemici immaginari. Così avvenne allora. Nessuno dei congiurati immaginava le perplessità e le esitazioni di Antonio; tutti pensavano che, giunte le legioni macedoniche in Italia, egli lacererebbe l’amnistia e sgominerebbe il partito conservatore; e nell’imminenza del pericolo che minacciava la persona e i beni di quanti avevano avuto mano nella congiura, gli intrighi tra le legioni di Macedonia e intorno ad Ottaviano divennero più alacri. Si lasciò persuadere Ottaviano? È probabile che no, sebbene sia molto incerto: ma quasi sicuro è invece che, intorno a questo tempo, Antonio ebbe sentore del grande lavorio di intrighi che si faceva nelle legioni di Macedonia. Non si potrebbe spiegare altrimenti come a questo momento, prorompendo a un tratto dalla sua titubante prudenza e senza apparente ragione, Antonio si scagli furibondo ad aggredire insieme i congiurati, i conservatori ed Ottaviano285. Una soverchia e troppo frettolosa paura concitò la sua naturale violenza; le sobillazioni di Fulvia e di Lucio ripresero forza; inaspettatamente, dopo diciassette giorni di silenzio, quando tutti credevano che non risponderebbe più a Cicerone, egli convocò il Senato per il 19 e vi pronunziò un discorso violento e bilioso contro il grande oratore, in cui lo accusava di esser stato il primo autore della congiura contro Cesare286. Ma Cicerone, nel cui animo il dispetto tenzonava con la paura di Antonio, delle sue macchinazioni, dei veterani, rimase a casa287. In quei giorni, nella seconda metà di settembre, giunse notizia che Decimo Bruto tornava dalla sua spedizione alpina acclamato imperatore dai soldati288. I conservatori avendo ripreso nuovo animo, Antonio si sforzò di concitare nei suoi la passione cesariana: fece iscrivere nel piedestallo di una statua di Cesare sui Rostri “Parenti optime merito”289; non solo, ma il 2 ottobre pronunciò in una concione popolare un discorso contro i congiurati così violento, che i conservatori giudicaron l’amnistia del 17 marzo già spacciata290. Infine qualche giorno dopo, il 4 o il 5291 tese un’abile insidia a Ottaviano. Corse voce a un tratto, in quei giorni, che Antonio aveva scoperto in casa sua dei sicari mandati ad ucciderlo. Ottaviano inviò subito a domandare notizie alla casa del console; ma ivi giunti, i messi sono ricevuti in malo modo, e senton dire che i sicari aveano confessato di essere stati sobillati da Ottaviano. [44 a. C. Ottobre.] La diceria si divulgò per la città in un baleno, sebbene fosse, a dir vero, creduta da pochi; Cicerone e i nemici arrabbiati di Antonio lodarono l’autore presunto, rammaricandosi che il colpo fosse fallito; ma la madre di Ottaviano si spaventò, corse dal figlio, lo supplicò di abbandonar Roma per qualche tempo, aspettando che la tempesta passasse. Ottaviano die’ prova in quel frangente di molta fermezza; non soltanto non volle uscir di Roma, ma ostentò sicurezza e tranquillità, ordinò che le porte della casa fossero aperte a tutti, come al solito, nelle ore della visita, e come di consueto ricevè i clienti, i sollecitatori, i veterani. Antonio intanto, raccolto un sinedrio di amici, raccontò la confessione dei sicari, chiedendo consiglio. Seguì un silenzio penoso, perchè nessuno osava rispondere quello che tutti sapevano essere domandato sotto colore di consiglio e parteggiare la responsabilità di un processo per un falso reato contro chi portava il nome di Cesare. Alla fine uno dei presenti ruppe il silenzio, domandando che si facessero venire i sicari e si interrogassero in presenza di tutti; e allora Antonio, dopo aver risposto che ciò non era necessario, sviò il discorso ad altri argomenti, intrattenne un poco i suoi amici, che molto impacciati lo lasciavan chiacchierare tacendo e dopo poco congedò tutti292. Dei sicari nessuno udì più parlare.

Fallita l’insidia, crebbe tanto nella cricca del console la inquietudine per le legioni di Macedonia, che Antonio e Fulvia293 deliberarono di andar loro incontro sino a Brindisi; e partirono infatti il 9 ottobre294, in che disposizione di animo è facile immaginare: disposti a veder dappertutto sobillatori e rivoltosi. Ma questa volta tenne loro dietro, dopo qualche giorno, anche Ottaviano. Il falso attentato non aveva solo persuaso definitivamente Ottaviano e i suoi amici che i conservatori avevano ragione e che Antonio intendeva invadere solo la successione di Cesare; ma aveva disposto a una grande benevolenza verso Ottaviano i conservatori nemici di Antonio295, molti di quei grandi che egli vedeva così spesso nella sua famiglia, e a cui l’odio faceva credere per vero che Ottaviano avesse voluto essere il nuovo Bruto di Antonio. Infatti egli era stato ricolmo di congratulazioni e di lodi da tutta questa cricca aristocratica, come un degno emulo dei congiurati, per una ardita impresa che non aveva mai pensato di compiere; e aveva udite le più violente invettive contro Antonio: che un’altra volta non sfuggisse alla morte, che i soldati non lo seguissero, che sarebbe stato necessario spodestarlo con un ardito colpo di stato. Ora, se si considera che Ottaviano non era, e lo vedremo meglio nel seguito di questa storia, un uomo precipitoso a ogni rischio, ma piuttosto timido ed esitante per natura; se si considera che difficilmente avrebbe osato tentare la audacissima impresa, che tra poco narreremo, per propria iniziativa, senza sapersi aiutato o almeno approvato da persone potenti, è lecito supporre non solo che egli alla fine accettasse come dovute queste lodi e si atteggiasse come chi davvero aveva tentato di ammazzar Antonio; ma che i violenti discorsi dei conservatori e specialmente quelli di suo cognato Caio Marcello gli suggerissero l’idea di raccogliere nella Campania una guardia tra i veterani di Cesare, come aveva fatto Antonio nell’aprile; che, avendo accennata questa idea ai suoi amici conservatori, fosse calorosamente approvato. Tutti pensavano esser vantaggioso, in quella disperata condizione di cose, avere in Roma due corpi di veterani che, nemici, si bilanciassero. Consigli dati per furore di parte, per odio di Antonio e con la leggerezza di cui gli uomini fanno prova quando consigliano senza responsabilità: ma il pericolo era così grande, che sebbene tanta temerità non si fosse ancora vista in Roma, alla fine Ottaviano e i suoi amici si risolvettero; e raccolti servi e clienti, caricato sui muli tutto il denaro che poterono radunare, partirono in grossa brigata per Capua, per andare a vendere, aveva detto Ottaviano alla madre, certe terre296. In torno a quel tempo uscì di Roma anche Cicerone297. Aveva incominciato a scrivere una risposta al discorso di Antonio, quella seconda Filippica che è una stupenda caricatura, da troppi storici però scambiata per un ritratto; ma scriveva per sfogare il rovello dell’affronto che lo rodeva, senza il proposito di pubblicarla, perchè a furia di attribuire al suo nemico disegni di macelli, alla fine si era spaventato davvero per l’imminente arrivo delle legioni. E perciò si avviava verso Pozzuoli per ridarsi agli studi e metter mano al De Officiis.

Così, mentre Cicerone si accingeva a descrivere i perfetti costumi di una repubblica ideale, nell’Italia meridionale gli agenti di Ottaviano e di Antonio si disputavano, nella seconda metà di ottobre, i veterani di Cesare e i soldati novelli. Antonio era andato a Brindisi dove, tra le none e le Idi di ottobre, le quattro legioni e molta cavalleria gallica e tracica, sbarcarono in due riprese298, veramente mal disposte. Le lettere che Ottaviano aveva scritte nei mesi precedenti ai suoi amici di Macedonia, denunziandolo come traditore del partito di Cesare, non erano state senza effetto, specialmente tra i vecchi soldati del dittatore, numerosi nella quarta legione e nella legione di Marte; gli intrighi degli ufficiali amici di Ottaviano e quelli degli ufficiali amici dei conservatori avevano rinfocolato il malumore; infine i soldati erano forse anche scontenti di essere distolti dalla guerra partica, che tutti reputavano imminente e lucrosissima, per essere mandati a oziare nella Gallia povera. Speravano perciò di avere almeno il compenso di un donativo cospicuo. Per tutte queste ragioni l’incontro del generale con i soldati non fu molto cordiale. Antonio li raccolse per arringarli; ma al suo salire sul tribunale non fu salutato da alcun applauso; irritato da questa accoglienza egli commise il primo errore di lagnarsene, nell’esordio del discorso; a questo ne aggiunse uno più grave, quello di manifestare e forse anche di esagerare i sospetti, lamentando che essi tollerassero fra loro invece di denunziarli gli emissari mandati da Ottaviano a sobillare la rivolta; infine dopo l’amaro dei rimproveri ammanì il miele di una bella promessa: 400 sesterzi. Ma i soldati si aspettavano molto più; onde delusi proruppero alla fine del discorso in risa ironiche e grida e invettive; e allora l’irritabile Antonio sentì risvegliarsi gl’instinti autoritari, fece fare una inchiesta e una scelta fra i centurioni che nelle note caratteristiche (la parola è moderna ma la cosa è antica e romana299) erano designati come sediziosi, li fece condurre nella casa in cui era ospitato e li fece uccidere, così almeno si disse, se non è esagerazione di nemico, in presenza di Fulvia. La fiera donna avrebbe voluto godersi il truce spettacolo e la sua veste sarebbe stata irrorata dal sangue uscito dalla gola di un centurione300. Le legioni atterrite ammutolirono; ma Antonio stesso aveva suggerita loro con i sospetti suoi l’idea della rivolta, e quasi a rinforzare il suggerimento rimutò poi tutti gli ufficiali e ordinò inferocito severe inchieste per scoprire i sobillatori di Ottaviano, che però non furon trovati, perchè non c’erano301. Nè solo ai soldati l’aveva suggerita, ma, quel che era peggio, anche ad Ottaviano, che ebbe notizia di questi fatti in Campania, mentre intorno a Casilino e a Calazia riusciva a raccogliere circa 3000 veterani302, con discorsi apologetici di Cesare che egli diceva di voler vendicare e ancor più coi muletti carichi d’oro, offrendo a ciascuno 2000 sesterzi. Era dunque possibile, se Antonio ne aveva tanta paura, rivoltare le legioni di Macedonia, ora non più vagamente malcontente, ma esasperate addirittura contro lui, per il supplizio dei centurioni? L’impresa era audacissima e pericolosissima: ma Antonio stesso colle sue imprudenze lo incitava riluttante, ma lo stimolavano il buon successo dei reclutamenti e gli incoraggiamenti di Roma. Alla fine ruppe gli indugi; e, poichè Antonio aveva avviato tre legioni lungo la costa adriatica, verso la Gallia Cisalpina303 per andare egli poi a Roma con l’altra e con la legione dell’Alodola che raccoglierebbe per via, mandò emissari a quelle tre, promettendo anche a loro 2000 sesterzi a testa, se si dichiaravano per lui. Lontane da Antonio, più facilmente avrebbero preso coraggio a rivoltarsi304. Senonchè l’impresa, anche così favorita dagli eventi, trascendeva le forze di pochi giovani inesperti e senza autorità; onde Ottaviano e i suoi amici, per quanto trascinati dalla forza delle cose, erano in quei giorni agitati, incerti, irresoluti: non sapevano come adoperare i 3000 uomini arruolati, se lasciarli a Capua, se condurli a Roma; non sapevano se Ottaviano dovesse andare nelle altre colonie di Cesare o alle legioni di Macedonia in viaggio verso Rimini305; desideravano consiglio e aiuto di persone potenti che, prendendosene una parte, alleggerissero di sulle spalle loro il peso della responsabilità. Avendo saputo che Cicerone era a Pozzuoli, Ottaviano tentò di trarlo alla parte sua; egli mandò una lettera in cui chiedeva un colloquio segreto, a Capua o in altro luogo306.

VIII.
IL “DE OFFICIIS”.

[44 a. C. Novembre.] Cicerone, che ricevè questa lettera il 1° novembre307 a Pozzuoli, aveva saputo pochi giorni prima segretamente, a quanto pare da Servilia, altre cose gravi: esser giunto dall’Oriente Marco Scapzio e un servo di Cecilio Basso, con la notizia che delle legioni di Egitto si poteva sperar bene, che in Siria si aspettava Cassio308. Ricevute queste notizie, Cassio era partito subito con una piccola flotta309, risoluto a togliere la Siria a Dolabella310, per impedire almeno che, quando Antonio dominerebbe dalle Gallie le provincie dell’Occidente, il suo collega sovrastasse d’accordo con lui nell’Oriente. Ma se queste notizie avevano rallegrato un poco il vecchio scrittore311, non avevano potuto smuoverlo dallo scoramento profondo in cui giaceva da un pezzo. Antonio gli pareva ormai invincibile e vana ogni speranza di contrastargli. Perciò stanco e disgustato si rassegnava al destino; non voleva più occuparsi di alcuna faccenda pubblica; non intendeva nemmeno pubblicare la seconda filippica che aveva finita e mandata ad Attico312; e mentre fuori il mondo pareva precipitare, rotto in frammenti dalla cupidigia, dal lusso, dai debiti, dalla rivalità delle classi, dalle discordie della oligarchia signora di un impero troppo grande e troppo sicuro, egli, nella sua solitaria villa sul golfo, nel freddo nubiloso e ventoso novembre, attendeva fervidamente a costruire sulla carta la repubblica ideale. Dell’opera sul dovere, che dopo qualche esitazione aveva latinamente intitolata De officiis, erano terminati i due primi libri e a buon punto il terzo313. Frettolosa compilazione di Panezio e di Posidonio, infarcita di riminiscenze aristoteliche e platoniche, di riflessioni e ricordi personali sulla storia antica e contemporanea di Roma, il libro non può essere molto ammirato come trattato dottrinale del bene e del male; ma deve essere invece letto con grande attenzione dallo scrittore di storie, come un lavoro di occasione che racchiude in mezzo alle partizioni e disquisizioni dottrinali una importante teoria della rigenerazione sociale e morale di Roma. Chi non tiene presente che questo libro fu scritto nell’autunno del 44, in uno sforzo supremo di celerità, concitato dalle lunghe amarezze della guerra civile, dalla commozione delle Idi di marzo, dalla ansietà delle imminenti catastrofi; chi non conosce la storia di questo anno terribile e, giorno per giorno, la vita di Cicerone in quei mesi, getterà alla rinfusa senza capirlo, tra i mediocri zibaldoni di filosofia, questo documento capitale della storia politica e sociale di Roma. Affannato, come tutti i grandi spiriti della sua patria dopo la seconda guerra punica, dalla tragica contradizione per cui l’Italia da quasi due secoli pareva nel tempo stesso istruirsi e corrompersi, arricchirsi e divenire insaziabile, aver bisogno di uomini e isterilirsi, provocar guerre e farsi imbelle, conquistare la dominazione sulle altre nazioni e alienare la sua libertà; Cicerone tentava ancora una volta di conciliare l’imperialismo con la libertà, i progressi del benessere, del lusso, della ricchezza con la disciplina familiare e politica, la cultura con la morale. Ripigliava insomma a considerare la questione già agitata nel De republica, non più sotto l’aspetto politico, ma sotto l’aspetto morale e sociale, trattando cioè delle virtù necessarie alla classe dominatrice nella perfetta repubblica, di cui aveva già descritte le istituzioni. Ed era venuto nella persuasione che, a pacificare il travagliato mondo, occorreva capovolgere il principio morale della vita; considerare la ricchezza e il potere, che così facilmente corrompono gli uomini, non come i sommi beni della vita314 che debbano essere ambiti e desiderati per sè stessi; ma come pesi gravi, cui piegarsi per il bene di tutti e specialmente della umile plebe. Quanti effetti benefici procederebbero da questo nuovo principio! I nobili comprenderebbero alla fine di dover vivere con dignità ma senza sfarzo315, di agricoltura e di qualche commercio non minuto e indecoroso316; di dover concorrere alle pubbliche cariche non per trarne ricchezze con cui corrompere il popolo, ma per servirsi del potere e del patrimonio ad aiutare i poveri e il mezzo ceto317; per costruire opere pubbliche produttive come mura, porti, acquedotti, vie, anzichè monumenti di fasto, come teatri, portici e templi318; per soccorrere il popolo nelle carestie senza rovinare l’erario319; per sollevare i debitori innocenti senza rivoluzionarie abolizioni di debiti320; per dar terre ai poveri senza toglierle ai legittimi proprietari321. Insomma il bene di tutti diventerebbe lo scopo delgoverno322; e mezzo, il rispetto scrupoloso delle leggi, la liberalità intelligente dei grandi, l’osservanza delle virtù austere come la fede, la veracità, la parsimonia. Sventurate le Repubbliche in cui gli uomini che governano sono pieni di debiti, menano vita dissipata, hanno le loro faccende private in disordine323 – scriveva l’amico di Attico, che pur continuava a dibattersi impigliato nella rete dei debiti suoi! Nè questa perfetta repubblica aveva ad essere sciolta da ogni obbligo verso i popoli da lei dominati; ma esercitar con giustizia l’imperio, a vantaggio non di sè ma dei dominati324; astenersi dalle guerre aggressive senza ragione, simili a quelle che Cesare, Crasso e i capi popolari avevano fatte negli ultimi anni325; non commettere ferocie inutili come la distruzione di Corinto; giudicar nefande le perfidie e le slealtà anche contro i nemici326. La guerra doveva essere crudele soltanto nella misura necessaria alla vittoria, e non fine a se stessa ma mezzo per ottenere il massimo bene della vita: la pace327. Quindi le arti della pace dovevano essere ammirate più che quelle della guerra; i grandi oratori, i giuristi e gli statisti, i cittadini munifici e saggi, i dotti, i filosofi più che i guerrieri328; purchè però l’amor degli studi non svogliasse il cittadino dai doveri civici: obbietto supremo, eterno, inscindibile di tutto il suo lavoro. Quella divisione del lavoro, per cui nel suo tempo molti uomini si spartivano le varie opere che nella vecchia Italia erano fatica unica di una sola persona; quella progrediente varietà di attitudini e di inclinazioni per cui le vecchie istituzioni politiche della repubblica decadevano, pareva a Cicerone una corruzione, da cui bisognava ritornare all’antica unità enciclopedica329. Così illudendosi di poter confondere l’austero e il vigoroso dei tempi antichi con il raffinato e il magnifico dei tempi nuovi, di poter togliere da quelli il rude, e il corrotto da questi, egli immaginava di fondare una repubblica aristocratica, nella quale non fossero nè demagoghi ambiziosi nè conservatori violenti; nè nuovi Silla, nè nuovi Cesari, nè nuovi Gracchi, tutti giudicati da lui con eguale severità330.

Infervorato in questi sogni e disgustato dalle faccende pubbliche, Cicerone rispose ad Ottaviano rifiutando il colloquio segreto331. Ma, spedita appena la lettera, gli arrivò, forse il 2 novembre, un messaggiero di Ottaviano, un suo cliente, un certo Cecina di Volterra, a raccontare che Antonio moveva su Roma con una legione e che Ottaviano era in dubbio se andare a Roma con i 3000 veterani, se cercar di opporsi ad Antonio a Capua, se recarsi alle legioni macedoniche. Il volubile vecchio, che già era stato un po’ rincuorato dalle notizie, sentì rinascere qualche illusione, esagerando, come tutti i conservatori, la potenza del nome di Cesare sulla plebe: se, mentre Cassio muoveva alla conquista dell’Oriente, Ottaviano potesse, con una leale opposizione ad Antonio, trarsi dietro il popolino e le alte classi?332 Forse si potrebbe ancora rovesciare Antonio, salvare l’amnistia. Consigliò quindi Ottaviano di andare a Roma. Ma il 3 egli ricevè altre due lettere, nelle quali Ottaviano lo invitava a venire a Roma, dichiarava apertamente di mettersi a disposizione del Senato con i soldati, prometteva di lasciarsi guidare in ogni cosa docilmente da lui. Crebbero in Cicerone le speranze e con le speranze l’interessamento alla pubblica cosa. Ed ecco il 4 e il 5 giungere altre lettere con le stesse offerte e le stesse esortazioni. Ottaviano diceva perfino che bisognava subito convocare il Senato333. Che cosa era avvenuto? Gli eventi precipitavano. Anche Antonio aveva raccolti con le attente orecchie i bisbigli della fama che sussurrava in giro tante strane notizie; onde non ignorava che Cassio era partito, dopo aver ricevute lettere dall’Oriente, probabilmente per conquistare la Siria334; che i conservatori mandavano a Decimo lettere e messaggi, per esortarlo a non riconoscere la lex de permutatione e che anche qualche cesariano, Pansa per esempio, era propenso a questa politica335; che Ottaviano sobillava, questa volta, davvero le legioni e intrigava con i conservatori e specialmente con Cicerone. Perciò nei primi giorni di novembre aveva sollecitato Dolabella a partir subito per la Siria, consigliandolo a impadronirsi prima dell’Asia ricchissima; e affrettava allora il suo ritorno a Roma, con due legioni – una delle macedoniche e quella dell’Alodola – risoluto a sfondare nel mezzo la rete di intrighi ordita dai suoi nemici, distruggendo definitivamente Ottaviano. La cosa questa volta era facile, perchè lo sciocco ragazzo aveva commesso, armando soldati contro il console, un gravissimo delitto: egli proporrebbe al Senato di dichiararlo hostis reipublicae, e il Senato non oserebbe non condannare; cosicchè a Ottaviano non resterebbe altro campo che di uccidersi. Inquieti per questa mossa repentina su Roma, Ottaviano e i suoi amici avevano facilmente argomentate le intenzioni di Antonio; e allora si erano risoluti ad andare a Roma anche essi, con i 3000 veterani; si eran dati a cercare affannosamente aiuto presso i conservatori per mutare i vaghi incoraggiamenti del mese precedente in una aperta difesa.

Ma quando Ottaviano intorno al 10 novembre336 giunse a Roma, prima di Antonio, con la sua torma di 3000 veterani, e l’accampò presso il tempio di Marte, là dove più tardi sorsero le terme di Caracalla337, non tardò ad accorgersi che gli aiuti palesi non corrisponderebbero in nessun modo alle congratulazioni e agli incoraggiamenti privati. Roma gli era tutta avversa. La piccola cricca dei conservatori intransigenti approvava sì Ottaviano nei colloqui privati ed inveiva contro Antonio, accusandolo di voler mettere a ferro e a fuoco Roma; ma molti altri conservatori più avveduti e prudenti, come Varrone, Attico338, i parenti e gli amici dei congiurati, diffidavano di Ottaviano, considerando che non si poteva lasciare la difesa dell’amnistia proprio al figlio dell’ucciso; e in generale poi nel Senato, tra i magistrati, nell’alta società il maggior numero, più pauroso, pensava che Antonio con tante legioni era arbitro della situazione e non poteva essere molto intimorito da un ragazzo senza magistratura a capo di una banda di 3000 veterani; onde giudicava severamente come insensati e criminosi i suoi armamenti339. Inoltre la maggior parte dei cesariani, e non più solo quella che aveva sino allora seguito Antonio, era furente contro Ottaviano, che accusava – e non a torto – di tradire il partito a vantaggio dei comuni nemici. Ottaviano pensò di fare un discorso, per spiegare i suoi atti e dissipare le prevenzioni del pubblico; e dopo molti colloquii e assicurazioni indusse alla fine il tribuno Canuzio a convocare una concione nel Foro. Ma l’impresa era molto difficile, perchè troppe e troppo diverse erano queste prevenzioni negli uni e negli altri; perchè Ottaviano si era ormai impigliato in una contraddizione insolubile, denunciando Antonio come traditore della causa cesariana per chiamare i veterani a difendere la memoria del padre, e offrendo poi questi soldati al partito conservatore per difendere gli uccisori di Cesare e annullarne gli atti. Per non scontentare nè i popolari nè i conservatori, il giovane parlò ambiguamente; fece un enfatico elogio di Cesare, ma non osò affermare che aveva reclutato quei soldati per compiere la vendetta del padre negletta da Antonio; non osò neanche confessare le pratiche avviate con Cicerone; si restrinse a dire che metteva i suoi soldati a disposizione della patria; cosicchè il discorso lasciò incerti e freddi i soldati e il popolino, e spiacque molto a quei conservatori di cui implorava l’aiuto, a Cicerone in ispecial modo340. E intanto i primi lampi forieri della tempesta folgorarono: Antonio si avvicinava, e dal viaggio lanciava violentissimi editti contro Ottaviano rinfacciandogli una discendenza sordida, insinuando che Cesare lo aveva adottato perchè da ragazzo gli si era prostituito, chiamandolo addirittura il nuovo Spartaco341; lanciava anche un editto di convocazione del Senato, per il 24 novembre, per trattare de summa republica, minacciando i senatori che non intervenissero di ritenerli complici di Ottaviano342. La famiglia e gli amici di Ottaviano, abbandonati da ogni parte, erano sgomenti; il cognato Marcello e il patrigno Filippo cercavano di aiutarlo come potevano; Cicerone era sollecitato a intervenire da ambedue343 e da Oppio, che Ottaviano era riuscito a trarre dalla sua parte344. Ma dopo le prime troppo ingenue speranze, Cicerone era stato nuovamente spaventato dalle fiere minaccie di Antonio; si era sfiduciato un’altra volta di tutto, anche di Ottaviano345, e pur avvicinandosi a Roma, allegava scuse: non poter fare nulla fino all’anno nuovo, quando Antonio non sarebbe più console; intanto voleva assicurarsi se Ottaviano era veramente amico degli uccisori di Cesare, aspettandolo alla prova del 10 dicembre, quando entrerebbero in carica i nuovi tribuni, tra i quali Casca, il congiurato che aveva data a Cesare la prima pugnalata. Invano Oppio assicurava Cicerone che Ottaviano era veramente amico di Casca e di tutti gli uccisori di Cesare346: Cicerone ritornava a pensare alla sua roba e al De Officiis. E intanto i tentativi fatti da Ottaviano e dai suoi amici per incitare il popolino contro Antonio avevano poco effetto; gli stessi veterani vacillavano, spaventati dal pericolo di essere dichiarati nemici pubblici, turbati dall’avversione di tanta parte del partito cesariano347. Potevan essi, in tremila e con un ragazzo per capo, rivoltarsi contro il console? Molti lo abbandonavano; la banda si squagliava come ghiaccio al sole.

Antonio, mandate a Tivoli le due legioni, giunse finalmente, quando Dolabella era già partito per l’Oriente. E così tra varie alternative di speranze e timori passò il giorno 21, passò il 22; spuntò il 23.... Quando, nella giornata si seppe all’improvviso che la seduta era stata rimandata al 28348. Antonio era partito per Tivoli a visitare la sua legione: per quali ragioni non è chiaro a noi, e non era chiaro nemmeno ai contemporanei349. Sembra che Antonio fosse da qualche tempo molto inquieto per il sordo lavorìo che gli agenti di Ottaviano, aiutati dai conservatori, facevano nelle sue legioni, e ricevesse notizia che i soldati, già malcontenti e male informati sui veri intendimenti del giovane, biasimavano la nuova persecuzione contro Ottaviano. Era possibile che uno dei generali prediletti di Cesare ne perseguitasse il figlio, perchè aveva reclutato un manipolo di veterani ad affrettare la vendetta paterna? Perciò forse si era tanto affrettato a venire a Roma a distruggere Ottaviano. Probabilmente all’ultimo momento era stato spaventato da qualche notizia più cattiva, e correva a rabbonirli con nuove promesse, prima di avventare il colpo mortale al figlio di Cesare. Ad ogni modo questo rinvio era una fortuna per Ottaviano, perchè tante cose potevano avvenire in quattro giorni! E infatti, prima ancora che Antonio tornasse, Ottaviano ricevè la lieta notizia che le nuove persecuzioni contro di lui, aggiunte all’ira per i supplizi e alla seduzione dei 2000 sesterzi promessi, avevano finalmente vinta la legione di Marte, che si era dichiarata per lui e, abbandonando le altre due, andava a rinchiudersi in Alba350. Egli troverebbe almeno, tra questi soldati, un rifugio nel pericolo, ora che i suoi 3000 lo avevano tutti abbandonato! Di più Cicerone, persuaso da Oppio, da Marcello e da Filippo, sospinto dalla irrequietezza sua, si era risoluto almeno a venire a Roma, dove arrivò il 27 novembre351. Ma in quel giorno arrivò pure Antonio, che saputo a Tivoli della rivolta era corso ad Alba, aveva tentato di farsi aprire le porte della città per rabbonire i soldati, senza riuscire352; e ritornava perciò ancor più furente contro Ottaviano e risoluto a vendicarsi su lui il giorno dopo. La fortuna salvò Ottaviano una seconda volta perchè, a quanto pare all’alba del 28, arrivò ad Antonio la notizia che la quarta legione aveva seguito l’esempio della legione di Marte, corrotta principalmente per opera del questore Lucio Egnatuleio, che non sappiamo per quali ragioni avesse preso con tanto ardore le parti di Ottaviano353. In quella bizzarra confusione, mentre Ottaviano dichiarava ai conservatori di essere amico degli uccisori di suo padre, le due vecchie legioni di Cesare abbandonavano Antonio, accusando chi pure si accingeva a scacciare Decimo, di essere troppo tepido alla vendetta del grande ucciso!

Spaventato definitivamente da questa seconda rivolta, Antonio gettò via l’arma che da tanti giorni appuntava alla gola di Ottaviano. Ostinandosi nella persecuzione di Ottaviano, forse si rivolterebbero anche le altre tre legioni; e allora non resterebbe egli alla mercè del partito conservatore? Mutata prontamente idea, andò in Senato, non parlò nè di Ottaviano nè dei suoi armamenti, annunziò invece che Lepido era finalmente riescito a conchiudere pace con Sesto Pompeo, a condizione di dargli un indennizzo per i beni confiscati a suo padre, propose una supplicazione in onore di Lepido354. Approvata questa e l’indennizzo a Pompeo, congedò i senatori e radunò in casa gli amici per discutere sulla situazione. Non è improbabile che egli inclinasse allora a propositi di conciliazione; ma a casa lo aspettavano la moglie e il fratello furenti per la delusione, i quali lo incitavano a propositi disperati. Bisognava che si impadronisse subito della Gallia Cisalpina, così ricca e cosi popolosa, senza dar tempo al partito conservatore di capire e di sfruttare il vantaggio del momento. E Antonio, anche questa volta, cedè. Ma il Senato non aveva estratto a sorte le provincie per l’anno 43, a cui Cesare non aveva provvisto; e sarebbe stata stoltezza lasciare gli avversari arbitri di assegnarle ai loro amici. Il giorno stesso i senatori furono convocati d’urgenza a una seduta per la sera, in un’ora insolita; e in questa, senza formalità e alla svelta, la sortizione delle provincie fu fatta in modo che gli amici di Antonio furono molto favoriti dalla sorte troppo giudiziosa. Tra gli altri Caio Antonio ebbe la Macedonia e Calvisio Sabino l’Africa antica355. Nella notte Antonio partì per Tivoli colla maggior parte dei veterani che aveva raccolti, a prendervi il comando della legione356.

IX.
LE FILIPPICHE E LA GUERRA DI MODENA.

[44 a. C. Dicembre.] Alla notizia della partenza di Antonio, molti senatori, cavalieri e ricchi plebei di Roma, spaventati, si recarono a Tivoli per intercedere presso lui e comporre la discordia357. In cinque anni, dal 49, si erano combattute cinque guerre civili: incominciava ora la sesta? Già si annunciava infatti che Decimo Bruto aveva reclutate quattro nuove legioni, per accrescere a sette l’esercito358, spacciando probabilmente per cosa già compiuta quella che egli aveva solo incominciata in fretta e furia, appena si era accorto che gli eventi precipitavano. E Antonio, che la guerra civile spaventava non meno dei conservatori, quasi si lasciava persuadere a ritornare a Roma. Disgraziatamente pare che Lucio intervenisse persino con le minaccie359; onde nei primi giorni di dicembre egli mosse verso la Gallia Cisalpina con le due legioni, con la coorte pretoria, con la cavalleria, con i veterani che quasi tutti lasciarono Roma per seguirlo e con gli avanzi del tesoro dello Stato, che certo aveva vuotato.

Insieme con i veterani anche molti cesariani cospicui, spontaneamente o invitati, raggiungevano Antonio che, dopo il tradimento ormai manifesto di Ottaviano, era il solo capo del partito; da Decidio Sacsa, da T. Munazio Planco, da Censorino a Tremellio e a Volumnio, che Antonio voleva fare capo del genio. Parecchi facevano il viaggio con denari prestati da Attico360, il quale, se aiutava i conservatori, pagava anche ai popolari un premio di assicurazione contro la rivoluzione. Del resto, ponti d’oro al nemico che fugge. Il partito cesariano, come in aprile aveva scacciati i conservatori da Roma con i tumulti della plebe e dei veterani, era adesso costretto da un rivolgimento inaspettato della fortuna a sgombrare in fretta e furia la metropoli dell’impero, dal cui dominio tante cose dipendevano; e i conservatori potevano farci ritorno liberamente. Il piccolo gruppo dei superstiti conservatori intransigenti, i parenti di Pompeo e dei congiurati capirono subito che quella era l’occasione propizia, trattando Antonio come Catilina, di assestare un colpo mortale al partito cesariano e di liberare la repubblica dai suoi uomini più pericolosi. Disgraziatamente Bruto, Cassio e i più autorevoli congiurati erano partiti, ahimè troppo presto; e la inetta e oscura maggioranza del Senato, abbandonata a sè stessa, inclinava alla indulgenza, non desiderava sterminare i cesariani, era disposta a perdonare tutte le illegalità commesse da Antonio. In fine dei conti il comando di Decimo finirebbe tra pochi giorni: anche se Antonio governasse per cinque anni la Gallia, non cascherebbe il mondo. Non era meglio cedere?361 E dei nemici di Antonio, nessuno osava prender in Senato l’iniziativa della guerra. Cosicchè la repubblica giaceva ai primi di dicembre abbandonata da tutti in una confusione indescrivibile. Non c’erano più consoli, mancavano parecchi pretori, i magistrati scadrebbero tutti tra poco: onde erano tutti contenti di questo pretesto per rimettere ogni cosa ai nuovi tribuni che entrerebbero in carica il 10 dicembre. Intanto si vedrebbe che cosa faceva Decimo Bruto. Resisterebbe? Cederebbe? A Decimo molti scrivevano privatamente di resistere, qualcuno partiva per raggiungerlo; ma nessuno osava proporre di convocare il Senato e di autorizzarlo legalmente a fare guerra ad Antonio; molti anzi speravano segretamente che cederebbe. Un solo uomo si adoperava alacremente a pro’ dei conservatori e degli uccisori di Cesare; e proprio Ottaviano, il quale, lieto del miracoloso scampo, si era affrettato ad andare al sicuro ad Alba tra le due legioni ribelli. Abbandonato da quasi tutto il partito di Cesare, adulato come un eroe dalla piccola cricca dei conservatori arrabbiati, esasperato contro Antonio dal recente pericolo, l’ambizioso giovane pensava di approfittare di quel disordine per conquistare un’autorità ufficiale, facendo scoppiare con ogni mezzo la guerra: e mentre mandava messaggi a Decimo, per offrirgli il suo aiuto e la sua alleanza, se resisteva al console362; mentre lusingava i soldati e si faceva offrire dalle legioni le insegne di propretore per rifiutarle con simulata modestia363, avviava pratiche per mezzo dei suoi amici e parenti con i conservatori più nemici di Antonio e con i parenti dei congiurati: offriva cioè di preparare un esercito per soccorrere Decimo, di reclutare una nuova legione novizia, di andare con le due legioni ad Arezzo, città abitata da veterani di suo padre, e ivi ricomporre la settima ed ottava legione di Cesare con i pochi veterani reclutati in Campania che lo avevano seguito e con soldati novizi, se gli conferivano la necessaria autorità legale. Corrispondeva però a questo zelo una certa freddezza svogliata nella parte dei conservatori non acciecata dall’odio di Antonio, nella quale la rivolta delle due legioni aveva accresciuta invece che spenta la diffidenza e l’avversione per il figlio di Cesare. Inoltre mancava un capo autorevole. Si tentò Cicerone: ma Cicerone esitava, non si smuoveva dal proposito di non comparire in Senato prima del 1° gennaio364. Tuttavia a poco a poco, respirando quell’aria più libera dopo la partenza dei veterani, i conservatori si rianimavano, cominciavano a intendersi, a concertarsi, a intrigare; e Cicerone si lasciava trarre quasi senza avvedersene alla lotta contro Antonio dalla irritazione di tanti mesi, dai rovelli ideologici, dalle ansietà patriottiche, dal rancore per l’offesa del 1° settembre, sopito non spento, da un irrequieto bisogno di fare, che si risvegliava a Roma dopo le lunghe contemplazioni filosofiche. In quei giorni arrivò a Roma un certo Lupo, mandato da Decimo a interrogare gli uomini più autorevoli su ciò che gli consigliavano di fare; e un piccolo consiglio, a cui presero parte anche Servio Sulpicio e Scribonio Libone, il suocero di Pompeo, ebbe luogo proprio nella casa di Cicerone, che certo già conosceva le proposte di Ottaviano. Si deliberò di consigliare a Decimo che facesse di sua iniziativa, senza aspettare gli ordini del Senato365. Un certo M. Seio partì subito per portar la risposta: tuttavia la situazione continuava ad essere così incerta nei primi dieci giorni di dicembre; Cicerone dubitava ancora fortemente che Decimo oserebbe assumersi quella responsabilità da cui tutti rifuggivano in Roma, tanto che di lì a poco gli scrisse di non considerare come una pazzia i reclutamenti di Ottaviano e la rivolta delle due legioni, perchè tutti i cittadini dabbene li approvavano366.

Finalmente il 10 dicembre i nuovi tribuni della plebe entrarono in carica; e intorno a quel tempo Caio Antonio partì con la coorte degli amici per la Macedonia, risoluto a far rapido viaggio. Ma anche i nuovi tribuni lasciarono passare parecchi giorni senza fare nulla; si risolvettero alla fine a convocare il Senato per il 20 dicembre, per trattare non di Antonio o di Decimo, bensì delle misure da prendersi affinchè i nuovi consoli potessero entrare in carica senza pericolo367, come se i veterani infestassero ancora minacciosi Roma. Tanto stentavano tutti a credere che se ne fossero andati per davvero! Ma in quel giorno stesso – forse il 14 o il 15 – si seppe a Roma che Decimo aveva pubblicato un editto per dichiarare che non riconosceva Antonio come governatore della Gallia e che manterrebbe la provincia in potestà del Senato368. Decimo intendeva dunque di far guerra! Questa notizia commosse molto gli animi in Roma e agitò straordinariamente Cicerone. Doveva egli persistere nel proposito di non rimettere il piede in Senato fino al primo gennaio o andare alla seduta del 20? Gli amici e i parenti di Ottaviano e dei congiurati incalzavano; non era cosa difficile prevedere che la discussione dilagherebbe dal meschino ordine del giorno dei tribuni sull’editto di Decimo. E allora? Si sarebbe egli lasciata sfuggire l’occasione di compiere una grande gesta, simile anzi più gloriosa che la repressione catilinaria, sterminando il partito di Cesare, restaurando definitivamente la repubblica? La parte più nobile della sua ambizione, il sentimento dei suoi doveri verso la patria, l’amore ideale della libertà repubblicana dei padri suoi, il rancore contro Antonio, l’affetto per tanti amici periti o in pericolo, lo incitavano a osare. Ma le difficoltà erano innumerevoli, immensi i pericoli, e, quasi Cicerone presentisse che dall’attimo di quella risoluzione dipendeva la vita o la morte, la naturale timidezza dell’uomo si aombrava. Probabilmente anche le sollecitazioni degli agenti, degli amici, dei parenti di Ottaviano accrescevano le sue incertezze: se le proposte di alleanza fatte dal giovane a Decimo avevano disposto meglio verso di lui anche i molti che diffidavano369, se appariva imprudente respingere alla leggera, quando la guerra era probabile, cinque legioni, era pure un grave consiglio dare autorità di magistrato a un ragazzo di venti anni, che portava il nome di Cesare! Ora in un pensiero ora in un altro, Cicerone andò dubitando parecchi giorni, senza risolversi, sinchè tra il sì e il no arrivò al 19. In questo giorno bisognava pure appigliarsi a un partito. E invece alla sera del 19 egli non aveva presa ancora nessuna deliberazione; all’alba del 20, quando si levò, non sapeva ancora se andrebbe o no370. Batteva l’ora suprema della sua vita: l’ora dell’ardimento finale, dell’ultimo sacrificio, della gloria definitiva! Ma d’un subito alla fine si risolvè, quella mattina; e a sessantadue anni, abile a maneggiare la penna più che la spada, primo in quel mondo politico che da otto mesi tergiversava e dissimulava, si slanciò nella voragine, con un’audacia, che la sua incerta natura rende più bella e quasi eroica per chi conosce le terribili incertezze dell’azione. Andò in Senato371, dove però Irzio e Pansa non comparvero372; e pronunziò la terza filippica, un discorso temperato, il cui fine era di tastare il malfido terreno in Senato, proponendo che si deliberasse una lode a Decimo Bruto per il suo editto, ad Ottaviano per i suoi arruolamenti, alle due legioni ribellatesi per la loro rivolta; che Pansa ed Irzio al 1° gennaio riferissero sui premi da dare a quelli che avevano ben meritato dalla repubblica, dai duci ai soldati, prima di ogni altra faccenda; che si annullasse la sortizione delle provincie fatta il 20 novembre da Antonio e che tutti i governatori presenti durassero in carica finchè il Senato non ne mandasse degli altri373. Il discorso era abile perchè non proponeva apertamente la alternativa della pace o della guerra; e fu ribattuto solo da Vario Cotila, ma debolmente: onde la maggioranza, non temendo di compromettersi troppo, approvò tutte le proposte374. Il giorno medesimo Cicerone ripetè le stesse cose al popolo, pronunziando la quarta filippica.

Intanto giungevano le prime notizie della guerra: della guerra per modo di dire, perchè i due avversarî parevano schivarsi a vicenda. Antonio e Bruto avevano incominciato a scambiarsi delle lettere, in cui ciascuno era invitato dall’altro, per il bene suo, a cedere: Bruto, a sgombrare in forza della lex de permutatione provinciarum la Cisalpina; Antonio, a rispettare in nome del Senato la provincia. Ma poi Antonio aveva posto il suo quartier generale e la maggior parte dell’esercito a Bologna; lasciando Decimo Bruto condurre l’esercito a Modena e disporre ogni cosa come per un lungo assedio375. Decimo non si sentiva di affrontare le tre provette legioni di Antonio con il suo esercito raccogliticcio, e perciò si proponeva di tirare in lungo le cose per dare tempo agli amici di Roma di mandargli rinforzi; Antonio, che forse avrebbe potuto sorprendere e disfare Decimo376, voleva prima riparare le perdite per la rivolta delle legioni, facendosi un esercito numeroso, che gli sarebbe utile, sia che scoppiasse la guerra civile, sia che si addivenisse a un componimento. Difatti, tanto per intimorire i nemici mostrando che era pronto alla guerra, mandò nella ultima decade di dicembre qualche milizia a stringere Modena di una parvenza d’assedio377; ma poi, mentre aspettava la primavera in Bologna, spedì un certo Lucio Pisone in Macedonia a prendere la legione rimasta; e Ventidio Basso con molto denaro nell’Italia meridionale a reclutare i veterani della settima e ottava legione di Cesare, che avevano abbandonato Ottaviano e quelli della nona: poi, più che a prendere Modena, badò a non lasciare Roma interamente in balìa dei suoi nemici. Le cose si mettevano in tal modo, che Antonio rappresentava non solo le tradizioni, ma anche gli interessi acquisiti dei cesariani, minacciati da una restaurazione, se egli era vinto; onde il partito che egli aveva riordinato nel giugno e nel luglio si stringeva fedele intorno a lui nel pericolo; e anche Fufio Caleno, sebbene nei mesi precedenti a più riprese avesse inclinato verso i nemici di Antonio, persuaso forse anche da più sodi argomenti, parteggiava per lui. Aveva ospitato in casa sua Fulvia378; e si accingeva a mettersi in Senato a capo degli antichi cesariani e di tutti quelli che Antonio aveva nominato senatori o in altro modo beneficati, i quali da una rovina di Antonio dovevano temere la perdita dei loro beneficii. D’accordo con Antonio, che scriveva di continuo a Caleno, questi cercherebbe di illudere il Senato con speranze di pace, e così tirare in lungo, impedire l’invio di rinforzi, per dare tempo ad Antonio di intrigare presso Lepido, Planco e Pollione: poi si vedrebbe. Senonchè a Roma queste notizie furono ingrandite dai conservatori intransigenti, dai parenti dei congiurati, dagli amici di Ottaviano, già incoraggiati dalla seduta del 20 dicembre, come se già Decimo fosse stretto in un cerchio di ferro; il pubblico fu commosso e spaventato; un gran rivolgimento a favore di Ottaviano si fece nell’opinione dei più. Molti si persuasero che Antonio avrebbe davvero messo a sacco Roma, se Ottaviano non sobillava le legioni; Ottaviano incominciò a esser celebrato come il salvatore di Roma; quegli atti suoi, che pochi giorni prima Cicerone modestamente desiderava non fossero giudicati follie, furono universalmente ammirati come sublimi ardimenti379. L’alleanza tra Ottaviano e i conservatori per la rovina di Antonio fu alla fine conchiusa: Ottaviano recluterebbe l’esercito; in compenso i conservatori gli farebbero assegnare dal Senato le somme necessarie e conferire la dignità di senatore e propretore a venti anni con il privilegio di poter domandare il consolato diciotto anni prima del tempo legale. Marcello, Filippo, i più arrabbiati nemici di Antonio persuasero due vecchi e autorevoli personaggi, Servio Sulpicio e Publio Servilio, a fare la proposta degli onori a Ottaviano380, Cicerone a pronunciare un grande discorso per sostenerla.

[43 a. C. 1° gennaio.] Al 1° gennaio dell’anno 43 a. C, nella prima seduta del Senato, finiti i discorsi dei nuovi consoli Irzio e Pansa, Fufio Caleno si levò primo a parlare; e con molta moderazione cercò di rimpicciolire la gravità degli eventi, assicurò che Antonio non voleva la guerra, propose infine di mandare ambasciatori ad Antonio per trattare della pace381. Parlarono quindi Servio Sulpicio e Publio Servilio, i quali proposero che si desse a Ottaviano la dignità di propretore e il comando dell’esercito con cui aveva impedite le stragi di Antonio, che fosse considerato come un senatore di grado pretorio, che potesse concorrere alle magistrature come se già avesse esercitata la questura. Si levò poi Cicerone. Avviene talora nelle rivoluzioni che uomini di penna timidi, dubitativi, pigri, diventino per qualche tempo, nell’esaltazione della passione, abili, impetuosi, infaticabili come eroi. Questo mutamento era avvenuto in Cicerone, negli undici giorni dopo l’ultima seduta del Senato. Dimenticate le sue ubbie costituzionali, smessa ogni paura ed esitazione, il dottrinario autore del De republica aveva capito che la causa conservatrice non si poteva difendere se non con mezzi rivoluzionari; e difatti con la quinta filippica assalì furiosamente Antonio, esagerando smisuratamente tutte le sue colpe, dichiarando che non si trattava di far guerra al partito di Cesare ma a una banda di briganti, facendo sue le proposte di Servio e di Servilio e proponendo infine altre cose: che si ordinassero leve, che si dichiarasse il tumultus e lo stato d’assedio, che si decretasse una statua d’oro a Lepido per premiarlo dei suoi sentimenti repubblicani; che Egnatuleio potesse concorrere alla magistratura tre anni prima del tempo legale382, che si pagassero ai soldati le somme promesse da Ottaviano e si promettessero loro altri premii di terre, denaro e privilegi. E la lotta tra i due partiti incominciò. Certamente gli amici dichiarati di Antonio in Senato non erano numerosi; ma troppi erano i senatori, che non osavano dichiararsi interamente contro Antonio; troppi gli uomini autorevoli, come Pisone e i due consoli383, contrarii alla guerra; onde a molti piaceva la proposta di Caleno. Perciò quel primo giorno riuscì agli amici di Antonio di prolungare la discussione e di far differire la risoluzione al giorno dopo384. Si riprese il giorno dopo la discussione; ma nella notte i conservatori estremi essendosi adoperati per ritornare in maggioranza alla nuova seduta, gli amici di Antonio temettero di esser vinti, se si votava; onde fecero rimandare la votazione da un tribuno385. La maggioranza, sdegnata per questo ostruzionismo, si vendicò approvando subito gli onori proposti ad Ottaviano, con qualche modificazione: che fosse ammesso in Senato tra i senatori di rango consolare e non di pretorio; che potesse domandare il consolato non diciotto ma dieci anni prima del tempo legale. Diciotto anni parvero troppi386. Gli antoniani non osarono porre il veto anche a questa proposta; ma nella notte si adoperarono per il loro amico, mandando perfino la vecchia madre di Antonio e Fulvia in giro per le case dei senatori esitanti a raccomandarsi387. Il 3 gennaio si tornò a discutere in una concitazione crescente; Cicerone parlò di nuovo, applaudito violentemente dagli amici, che cercavano così di travolgere gli incerti388; parlarono altri; ma anche quel giorno, non sappiamo per quale ragione, non si potè conchiudere389. Fu necessario radunarsi ancora una volta, il 4; e allora alla fine, dopo un discorso di Pisone, si prese un partito medio: si deliberò di mandare un’ambasceria composta di Servio Sulpicio, di Pisone e di Lucio Marcio Filippo, ma non a trattare pace, bensì a ingiungere ad Antonio di passar di qua dal Rubicone; se non obbedisse si proclamerebbe il tumultus; intanto si continuerebbero gli armamenti e uno dei consoli prenderebbe il comando supremo dell’esercito che Ottaviano già preparava ad Arezzo, portandolo verso la Gallia390. Fu anche, su proposta di Lucio Cesare, revocata la legge agraria di Lucio Antonio391.

Il giorno stesso Cicerone pronunciò sul Foro gremito la sua sesta Filippica, raccontando ciò che era avvenuto; ammonendo che la guerra era certa e ripetendo ciò che già Aristotele aveva scritto dei Greci ad Alessandro: gli altri popoli poter vivere anche in servaggio, i Romani solo in libertà392. Intervenne una pausa, nella quale Irzio, designato dalla sorte, uscì di Roma, sebbene appena convalescente, per raggiungere Ottaviano; Pansa restò a Roma a reclutare quattro nuove legioni e a cercare danari; e Cicerone diventò, di fatto se non legalmente, il capo della repubblica. Dopo i grandi discorsi del 20 dicembre e del 1° gennaio il vecchio oratore si elevava, simile a un alto masso erratico di ardimento che tutti da ogni parte vedevano, nella rasa e bassa pianura della universale incertezza; onde da ogni parte si ricorreva a lui per denunciare pericoli, per suggerire provvedimenti, per richiedere consigli; ed egli stesso era tratto a intervenire in ogni faccenda pubblica, per vigilare l’esecuzione dei suoi decreti che altrimenti sarebbero stati lettera morta. Così sebbene il Senato avesse, per sua proposta, annullata la sortizione delle provincie fatta il 27 novembre, Caio Antonio era già partito per la Macedonia, Calvisio Sabino era uscito di Roma e spediva i legati nella provincia. Cicerone, che stava all’erta, a più riprese protestò in Senato contro questa usurpazione di Calvisio, ma inutilmente, senza poter far deliberare qualche misura rigorosa393. Inoltre scambiava con Ottaviano un numeroso carteggio, comprendendo che la responsabilità degli straordinari onori concessigli era sua più che di Servilio e di Sulpicio, dopo il grande discorso del 1° gennaio in cui aveva tanto lodato il giovinetto e se ne era dichiarato garante; onde tentava di governarlo da lungi con innumerevoli lettere piene di consigli, venendo così ad assumere indirettamente una parte della direzione e della responsabilità della guerra. Insomma egli doveva, nell’universale disfacimento, supplire alle innumeri manchevolezze di tutti gli organi dello Stato; e infervorandosi nel lavoro e nella consapevolezza della nuova autorità, da mattina a sera riceveva persone, confidenze, ambascerie, teneva consigli, leggeva e scriveva lettere394, non tralasciando mai nessuna occasione di rinfocolare l’ardore bellicoso. Così quando Pansa, nella seconda metà di gennaio, convocò il Senato per trattare alcune questioni amministrative sulla via Appia, sulle zecche, sulle feste dei Lupercali, il vecchio oratore ne prese argomento per incitare i senatori, con un discorso concitato – la settima filippica – a provvedere non alle zecche, ma alla inevitabile guerra. “A nessuna condizione – egli disse – voglio pace con Antonio395.” “Se non possiamo vivere liberi, moriamo.396” Invece.... I due consoli scrivevano intanto delle lettere amichevoli ad Antonio, professandosi disposti a pace397; altrettanto facevano in segreto molti senatori di Roma, che lodavano poi a voce alta il coraggio di Cicerone; gli ambasciatori, che avevano accettata la missione solo per terminare in qualche modo la lunghissima tenzone in Senato, si accingevano a mutare per via l’ultimatum in una occasione di trattative. Ucciso dal disagio e dal gelo398 il più vecchio e malaticcio dei tre, Servo Sulpicio Rufo, nel viaggio per il selvoso e nevoso Appennino, soli Pisone e Filippo comparvero nel campo di Antonio, ove osservarono con gli occhi propri che l’uomo, descritto a Roma da Cicerone come una belva sitibonda di sangue romano, conduceva l’assedio in una maniera ben singolare: con pochi soldati, lasciando scaglionate le sue piccole forze da Claterna sino a Parma, stringendo a studio così mollemente la città che le vettovaglie continuavano a entrare399. Antonio aspettava la primavera e i rinforzi per far vera guerra, se fosse necessario; e intanto, atteggiandosi a vendicatore di Cesare e a difensore della causa dei suoi soldati, aveva mandato emissari alle legioni di Asinio400 e forse a quella di Planco a persuaderle con la promessa di 2000 sesterzi a passare a lui; cercava indurre con lettere e con messaggi Lepido e Planco ad unirglisi; faceva reclutare una legione novizia nella Cisalpina401 ed entrare in Modena emissarii a dire ai soldati di Decimo che egli non voleva combattere contro loro, ma solo punir Decimo Bruto come partecipe dell’assassinio del dittatore: lo abbandonassero, facessero causa comune con tutti i veterani di Cesare e riceverebbero grandi compensi402. Ma questi maneggi erano segreti, aperto invece e visibile agli ambasciatori il dolce modo dell’assedio: onde Filippo e Pisone non comparvero minacciosi e intimando, ma si presentarono ad Antonio con tutto il rispetto dovuto a si gran personaggio, discorsero amichevolmente con lui, e se non ottennero il permesso di trasmettere a Decimo Bruto le deliberazioni del Senato, ebbero però queste ragionevoli proposte di pace403: Antonio cederebbe la Gallia Cisalpina, purchè gli si lasciasse la Transalpina per cinque anni con le tre legioni che aveva e le tre che Ventidio reclutava; non si abolirebbero gli atti suoi e di Dolabella, non si abrogherebbe la lex judiciaria, non si inquisirebbe sulle somme prese nel tesoro dai membri della commissione per le terre, si assegnerebbero terre alle sue sei legioni, alla sua cavalleria, alla sua coorte pretoria404. Tanto è vero che Antonio non mirava se non ad ottenere una pingue provincia! Pisone e Filippo se ne tornarono, lieti di queste proposte, con Lucio Vario Cotila, che rappresenterebbe Antonio nelle trattative seguenti. Frattanto Irzio e Ottaviano arrivavano da Arezzo a Rimini valicando l’Appennino, e risalivano la via Emilia a Forum Corneli, nelle vicinanze di Imola, dove posero l’accampamento di inverno405. Irzio anzi, dopo qualche giorno scacciò da Claterna gli avamposti di Antonio406.

[43 a. C. Febbraio] Gli ambasciatori giunsero ai primi di febbraio407 e subito Pansa convocò il Senato. Naturalmente Cicerone era andato su tutte le furie, quando seppe in che modo i due ambasciatori avevano eluso il senatusconsulto del 4 gennaio, e in lettere private li aveva trattati di miserabili408; si era un poco consolato però, pensando che ormai il Senato delibererebbe la guerra. Difatti nella seduta disse il suo parere brevissimamente, non credendo necessario un discorso: dichiarare hostis Antonio409. Ma il maggior numero dei consolari non disperavano dopo quell’ambasceria di intendersi con Antonio410; Fufio Caleno propose di mandare nuovi pacieri; Lucio Cesare, il vecchio zio di Antonio e il fiero conservatore, vinto forse da sollecitazioni di amici, propose un addolcimento alla proposta di Cicerone: si dichiarasse non il bellum ma il tumultus, riconoscendo cioè che l’ordine pubblico era turbato ma che non era ancora scoppiata una vera guerra civile. Pansa, che pensava sempre a corteggiare i cesariani e voleva perfino proporre una legge ai comizi centuriati che confermasse gli atti di Cesare411, parteggiò per la proposta di Lucio Cesare e diresse la discussione in modo che questa fu approvata412. Esasperato, Cicerone si preparò a un nuovo assalto più vigoroso per la seduta del giorno seguente, in cui Pansa doveva comunicare la lettera di Irzio sulla scaramuccia di Claterna e proporre finalmente la restituzione ai Marsigliesi di quanto Cesare aveva loro tolto nel 49413, tante volte richiesta negli ultimi mesi. Senza tenersi strettamente a questo argomento, Cicerone pronunciò la ottava filippica, biasimando le deliberazioni del giorno prima, dimostrando essere quella una guerra e non un tumultus, maltrattando aspramente Caleno, i consolari, gli ambasciatori, predicendo confische e stragi, se Antonio vinceva. Perchè raffreddare con una neghittosità colpevole il fervore delle città italiche e galliche, tutte favorevoli per il Senato? Conchiudendo, propose che si desse tempo fino al 15 marzo ai soldati di Antonio di abbandonarlo e dopo fosser trattati come ribelli. Il fiero discorso riuscì efficace; e la proposta fu approvata. Dopo se ne doveva discutere un’altra, messa innanzi da Pansa, il quale voleva forse dare ai conservatori un compenso del suo tradimento del giorno innanzi: decretare a Servio Sulpicio un sepolcreto a pubbliche spese e una statua equestre sul Foro, come si soleva agli ambasciatori uccisi in missione. Ma Servilio, che nelle cose piccole era un meticoloso osservatore della legalità, obiettò che Servio era morto di malattia e non di ferro. Allora l’infaticabile vecchio pronunciò la nona filippica, per sostenere la proposta di Pansa, dicendo, molto sofisticamente, che bisognava badare alle cause e non al modo della morte. Su Marsiglia invece non si deliberò nulla414.

In verità solo Cicerone voleva davvero la guerra. Tutti gli altri parlavano con riserve mentite o agivano con il segreto proposito di non spingere le cose all’estremo cimento; anche Irzio, anche Ottaviano, il quale pure si era mosso in principio con una grande impazienza di distruggere Antonio. Con tre legioni e una coorte415 Antonio assediava due legioni veterane e cinque novizie e doveva far fronte a un esercito di quattro legioni veterane ed una novizia: se Irzio e Ottaviano, come la ragione militare consigliava, lo assalivano, o sarebbe preso in mezzo tra loro e Decimo e sicuramente distrutto, o avrebbe dovuto fuggire al nord416. Invece dopo la scaramuccia di Claterna, Irzio e Ottaviano avevano ricondotto i soldati nel campo senza fare più nulla; perchè Antonio aveva paralizzato Ottaviano, Decimo e Irzio, mostrando loro quella che era come la testa di Medusa di tutti gli uomini politici di allora: la vendetta di Cesare. L’opinione dei veterani inclinava di nuovo in tutta Italia a favore di Antonio, tanto è vero che Ventidio era riuscito a richiamare sotto le armi quasi tutti i congedati della settima, ottava, nona legione; cosicchè adesso erano in arme due settime e due ottave legioni di Cesare: quelle di Ventidio e quelle di Ottaviano417. Quali delle quattro si dovevano considerare come le due vere antiche legioni di Cesare? Decimo, inquieto per le sobillazioni segrete di Antonio, affaccendato a vigilare i suoi soldati affinchè non si rivoltassero418, non osava uscir fuori ad assalire; Irzio, che era anche indebolito dalla malattia, non osava affrontare l’antico amico, il quale assediava Decimo per vendicare il comune loro benefattore; Ottaviano, spaventato egli pure dal vago pericolo di una rivolta militare, impacciato dall’inerzia di Irzio, non sapeva che fare; e per passare il tempo ripigliava i suoi favoriti esercizi letterari, declamando e scrivendo ogni giorno419. Per fortuna però di lì a pochi giorni sopravvenne all’improvviso un accidente nuovo e favorevole a Cicerone. Un giorno – siamo verso la metà di febbraio – i senatori inaspettatamente ricevono l’avviso che Pansa riconvocava il Senato per il giorno seguente, perchè erano arrivate tali lettere di Bruto, che non si poteva frapporre indugio alcuno alla convocazione dell’Assemblea420. [44 a. C. Novembre. – 43 a. C. Gennaio] Bruto, giunto in autunno ad Atene, era sceso nella casa amica di un ospite e si era messo, come un privato qualunque, a seguire i corsi di due filosofi, Teomnesto e Cratippo, insieme con molti altri giovani studenti romani421, tra i quali Gneo Domizio Enobarbo, il figlio di Cicerone e un giovinotto ventenne di Venosa, che si chiamava Quinto Orazio Flacco. Il padre, un liberto onesto, savio e molto amoroso del figlio, che aveva messo in disparte qualche risparmio con la professione di esattore e acquistato un piccolo bene in Apulia, lo aveva fatto studiare. Appartenenti quasi tutti a famiglie cospicue, questi giovani avevano fatte grandi accoglienze al tirannicida; grandi accoglienze aveva fatte pure Atene, la antica e gloriosa repubblica decaduta a vile città di forestieri, che prodigava onori a ogni ospite cospicuo; gli animi si erano riscaldati, e tra i rammarichi, le feste, le conversazioni, si era presto dato mano a ordire una cospirazione rivoluzionaria. Chi ne ebbe primo l’idea? Pur troppo non lo sappiamo, tanto sono frammentarie e oscure le notizie; ma è probabile che Bruto non ne fosse l’autore422, ma incoraggiasse gli altri con la sua autorità e senza volere a prenderlo come capo, e fosse trascinato dagli amici, dalle circostanze, da una prima occasione: l’arrivo, in novembre, di una somma considerevole – 16 000 talenti423 – mandata da Trebonio a Roma. Avendo saputo che la persona incaricata di portare il tributo doveva toccare la Grecia, i giovani che attorniavano Bruto gli dimostrarono esser necessario sequestrare per via questa somma, la quale altrimenti, giunta in Italia, cadrebbe in potere dei loro nemici; che lui solo aveva autorità bastevole a persuadere l’inviato di Trebonio a consegnargli il tesoro. Bruto infatti andò incontro all’inviato in Eubea, lo indusse a consegnargli il denaro424; e allora si trovò costretto ad adoperare in qualche modo la somma carpita a pro’ della causa conservatrice. Intanto nel novembre del 44 passava attraverso la Macedonia, come un turbine, Dolabella, che presa una legione e spedita innanzi una parte della cavalleria continuava senza indugio il viaggio alla volta dell’Asia, dando ordine alla cavalleria rimanente di seguirlo in due corpi425. Ma, lui partito, i giovani amici di Bruto si buttarono a intrigare tra i soldati con il denaro di Trebonio. Domizio stornò dal suo cammino uno dei corpi di cavalleria: qualche altro, forse un certo Cinna, riuscì a guadagnare a Bruto l’altro corpo; il figlio di Cicerone indusse a ribellarsi a favore di Bruto l’ultima legione di Macedonia, che il legato di Marco Antonio era venuto a prendere426. Insomma Bruto in dicembre si trovò a capo di un piccolo esercito e circondato da una coorte di giovani ammiratori, tra i quali anche Orazio; e con tutti questi andò a Tessalonica. Riconosciuto per suo successore dal governatore della Macedonia Ortensio che non aveva più un soldato, mandò a impadronirsi del deposito di armi accumulate a Demetriade da Cesare; e si diè a reclutare, con l’aiuto di Ortensio, una nuova legione tra i numerosi veterani di Pompeo restati in Macedonia e in Tessaglia dopo Farsalo....427 Ma in mezzo a questi preparativi, nei primi giorni di gennaio, gli giunse la notizia che Caio Antonio, nominato governatore della Macedonia, era sbarcato a Durazzo428. Bruto temè che Caio Antonio si mettesse d’accordo con il governatore dell’Illirico, il cesariano Vatinio, per fargli guerra; e subito con il suo piccolo esercito, sfidando animosamente i rigori dell’inverno, percorse a marcie forzate le 270 miglia che separano Tessalonica da Durazzo, giungendo alle sponde dell’Adriatico nella terza decade di gennaio429. Per sua fortuna Vatinio, ammalato, inetto, inviso ai soldati, non aveva saputo impedire dopo la morte di Cesare la rivolta generale delle popolazioni illiriche, le quali non pagavano più i tributi; anzi aveva perdute cinque coorti in una imboscata; onde l’esercito, che non riceveva più il soldo, era malcontento e irritato430. [43 a. C. Febbraio] Dall’arrivo di Bruto, così provvisto di denaro, procedè uno sfacelo: due delle tre legioni di Vatinio passarono all’uccisore di Cesare; una seguì Caio Antonio; Vatinio restò spodestato. Caio Antonio aveva cercato di ritirarsi verso l’Epiro; ma per via aveva perduto tre coorti e alla fine si era buttato con le ultime sette in Apollonia, dove Bruto lo assediava. Tutte queste cose raccontavano le lettere di Bruto, il quale desiderava che gli atti suoi fossero ufficialmente convalidati dal Senato431.

Non è difficile immaginare che commozione suscitassero in Roma queste notizie. Questa rivoluzione nell’ordine legale dei comandi militari e dei governi, per opera di un uomo partito dall’Italia come un fuggiasco, con poche navi, pochi amici e 100 000 sesterzi prestati da Attico, dimostrava che a torto i conservatori avevano giudicati tutti gli eserciti come imbevuti siffattamente di spirito cesariano, da non poter sperare mai di averne alcuno ai propri servigi; e quindi valeva più che una grande vittoria, rinfrancando in modo incredibile gli animi. Per questa stessa ragione ne erano dolentissimi gli amici d’Antonio. Perciò nella notte, in fretta e furia, costoro deliberarono di fare un tentativo disperato, per impedire che il Senato convalidasse gli atti di Bruto. Difatti il mattino dopo, recitate le lettere di Macedonia, Caleno sorse a parlare; lodò molto lo stile in cui erano scritte432, ma dimostrò che gli atti di Bruto non si potevano approvare perchè illegali e tentò di agitare ancora una volta lo spauracchio dei veterani. I veterani non si fidavano di Marco Bruto; badasse il Senato che, accogliendone le domande, se li alienerebbe tutti433. Ma questa volta Cicerone, magnificando enfaticamente la rivoluzione di Bruto con la decima filippica, fece approvare senza fatica la proposta, che Bruto fosse investito di un alto comando proconsolare sulla Macedonia, sull’Illirico e sulla Grecia, con la raccomandazione di tenersi vicino all’Italia434. Tuttavia se, incoraggiato da questo successo, il Senato annullò tutte le leggi di Antonio435, nè Antonio a Modena nè i suoi amici a Roma ne furono molto scoraggiti, perchè troppo in costoro cresceva la baldanza, sentendo gli avversari tutti, tranne Cicerone, dubitosi della fedeltà delle legioni, esitare. Antonio anzi, che incominciava a perdere la speranza di far ribellare le legioni di Decimo, sgombrò verso la fine di febbraio Bologna, portò tutte le sue forze intorno a Modena per bloccarla davvero, ordinò di affrettarsi a Ventidio Basso che con le sue tre legioni si avviava verso Ancona; si risolvè insomma a fare vera guerra per prendere Modena436. Tanto più urgeva agli amici di Antonio trattenere a Roma Pansa, che si preparava ma con grande lentezza a muovere al soccorso di Modena. Ed ecco ai primi di marzo (forse l’1 o il 2) un altro intralcio e opportunissimo agli amici di Antonio: giungere cioè notizia che Dolabella, entrato in Asia con la legione e il corpo di cavalleria, aveva preso a tradimento Trebonio a Smirne e lo aveva ucciso, dopo averlo torturato due giorni per sapere dove fossero i denari437. Così raccontavano le lettere, esagerando forse ad arte la scelleraggine di Dolabella. [43 a. C. Marzo.] La perdita della provincia d’Asia, grande miniera d’oro dell’impero, era una disgrazia per il partito conservatore; ma la compensava l’atrocità dell’uccisione, che commosse a sdegno vivissimo la opinione pubblica e nocque di riflesso ad Antonio, che tutti sapevano essere d’accordo e molti accusavano di avere incitato Dolabella. Infatti, quando il Senato si radunò, Caleno dovè dirsi pronto a dichiarare Dolabella nemico pubblico438; ma propose nel tempo stesso di affidare la guerra contro lui ai due consoli, dopochè avessero liberato Modena439; per far perdere del tempo, mettendo loro sulle braccia i preparativi di una nuova guerra. Altri propose invece di mandare contro Dolabella un generale con imperio straordinario440. Ma Cicerone fece una proposta più audace, prendendola a tema della undecima filippica: affidare a Cassio la guerra contro Dolabella, con il proconsolato della Siria e larghi poteri sull’Asia, sulla Bitinia e sul Ponto. Egli non sapeva ancora nulla di preciso su Cassio; ma ora, nella baldanza delle buone notizie di Bruto, non dubitava più che anche Cassio fosse riuscito nel disegno con cui era partito d’Italia; e per sostenere la sua proposta affermò sicuramente che Cassio era già signore della Siria, che aveva già recuperato l’Asia, che tra poco se ne riceverebbe notizia ufficiale441. Questa volta però Pansa, che serviva i conservatori ma non li voleva troppo potenti, si oppose con veemenza e impedì la votazione. Cicerone allora tentò violentare le esitanze del Senato suscitando un’agitazione popolare; fece convocare una radunanza del popolo da un tribuno ed espose un’altra volta la proposta tra grandi applausi; ma venne Pansa e si oppose, dicendo che la proposta spiaceva alla madre di Cassio, alle sorelle, a Servilia442. Alla fine, dopo molte dispute e molti giorni, fu approvata la proposta di Caleno443; e Cicerone ebbe un nuovo motivo di dispetto e di sospetto contro Pansa, il quale, sempre diffidente dei conservatori e risoluto a non farli crescere in soverchia potenza, ricusava da qualche tempo di mandare a Bruto una parte delle reclute fatte in Italia, anzi cercava di impedire che molti, specialmente tra i giovani delle classi alte e agiate, si recassero sotto le bandiere di Bruto444. Molti però partivano: tra gli altri Marco Valerio Messala Corvino, il figlio di Lucullo, il figlio di Catone, il figlio di Ortensio, il figlio di Bibulo.

Questo insuccesso scoraggì un poco il vecchio oratore; stimolò invece gli amici d’Antonio, che non meno infaticabili tentarono subito un nuovo inganno. Il 7 o l’8 di marzo si videro a un tratto i partigiani più noti di Antonio uscire tristi e accigliati; raccogliersi in conciliaboli, ricevere e spedire in gran fretta messaggi dalle case loro; domandare privatamente a questo o a quel senatore, che farebbe se Antonio levava l’assedio da Modena. Tutti credettero che Antonio rinsavisse; Pansa si interpose sollecito come paciere; anche Cicerone, cui la stanchezza oscurò per un istante la consueta lucidità di intuizione, vacillò; e allora il Senato deliberò di mandare ad Antonio una nuova ambasceria composta di cinque personaggi di tutti i partiti, tra i quali Cicerone stesso445. Intanto Ottaviano, inquieto che Modena cadesse davvero, aveva indotto Irzio, sempre incerto, a uscir dai quartieri d’inverno, a occupare Bologna, ad avanzare sino al Panaro in vista della città; e qui giunto tentò prima con fuochi e poi per mezzo di palombari di avvisare Decimo della loro vicinanza per dargli coraggio446, ma senza assalire Antonio. Gli avvenimenti di Macedonia, l’annullamento degli atti di Antonio, le deliberazioni del Senato su Marco Bruto confermavano luminosamente le accuse di Antonio: che cioè Irzio e Ottaviano difendevano la causa degli uccisori di Cesare contro quella dei veterani; onde l’incertezza e l’impaccio dei due generali cresceva. Anzi Irzio, il quale da Bologna poteva interrompere il carteggio tra Antonio e i suoi amici di Roma, gentilmente mandava a Roma al loro recapito le lettere di Antonio intercettate447; e Ottaviano, per far dimenticare alle legioni veterane i nuovi scrupoli, decuplicò da due a ventimila sesterzi la sua promessa448. La notizia della nuova ambasceria giunse loro verso il 12 come una nuova speranza; e subito scrissero ad Antonio una lettera mogia e dimessa, nella quale gli raccontavano la morte di Trebonio e l’orrore che aveva destato; gli partecipavano che in Senato si era decretata la nuova ambasceria; si scusavano quasi di combatterlo, dicendo che essi non volevano nuocere a lui o soccorrere Decimo, ma solo salvare i soldati di Cesare chiusi in Modena; pregavano che non li obbligasse ad assalirlo; essi non gli erano nemici, lo lascerebbero in pace se liberava Decimo o anche solo se faceva entrare del grano in Modena449. In altre parole essi che avrebbero potuto distruggerlo, si raccomandavano che fosse ragionevole, che per piacere lasciasse entrare delle vettovaglie in Modena, aspettando l’arrivo degli ambasciatori. Ma Antonio, che indovinava le ragioni di questa timidezza, abusò allora sino all’estrema misura di potersi atteggiare innanzi ai soldati di Irzio e di Ottaviano come il vero e il solo vendicatore di Cesare; e lanciò ai suoi nemici, egli quasi inerme a loro confronto, una magnifica lettera provocatrice, che ancora ci resta e che anche per lo stile, se fu scritta da lui, è prova di un ingegno letterario considerevole. Esaltava in questa lettera come una grande impresa l’assassinio di Trebonio, dichiarava che, volendo perseguitare tutti gli uccisori di Cesare, resterebbe fedele sino all’ultimo a Dolabella; rimproverava Irzio e Ottaviano di tradire la causa cesariana, di combattere a difesa degli uccisori e del partito che voleva spogliare i veterani delle ricompense; si dichiarava pronto a lasciare uscire di Modena i soldati se gli consegnavano Decimo; affermava che Lepido e Planco erano d’accordo con lui; si diceva disposto a ricevere gli ambasciatori se venivano perchè egli era sempre disposto alla pace, ma aggiungeva di non credere che verrebbero. Irzio e Ottaviano subirono rassegnati, senza far nulla, anche questo terribile rabbuffo; e si contentarono di mandare la lettera a Roma, dove giunse il 18 o il 19, quando una parte delle previsioni di Antonio era già avverata. Probabilmente tra il 10 e il 14 l’ambasceria era stata annullata. Gli amici di Antonio si erano affrettati troppo a mostrare una gioia sfrenata; Cicerone e gli altri avevano capito subito che c’era stato inganno450; già si parlava a Roma di tradimento; onde nella prima seduta che si tenne, Cicerone aveva pronunciata la dodicesima filippica confessando di essersi ingannato e il Senato aveva annullata la deliberazione. Intanto con la buona stagione incominciavano a giungere in maggior numero le lettere dalle provincie, e Pansa, non avendo più pretesto di differire, dovè fissare la sua partenza per il 19. In questo giorno stesso però presiedette una seduta del Senato, in cui furon lette lettere di Cornificio, che si lagnava delle difficoltà di cui gli erano cagione i legati mandati da Calvisio. Il Senato ordinò che il governatore della Numidia, T. Sestio, desse a Cornificio una legione per ristabilire l’ordine e ne mandasse altre due in Italia, per la guerra di Modena: ma avendo qualcuno proposto di punire i falsi legati di Calvisio, Pansa si oppose451. Poi partì prendendo, per schivare Ventidio, la via Cassia, che per Fiesole e l’Appennino sboccava nella via Emilia sotto Bologna; portando con sè quattro legioni novelle. Insieme con le tre di Ventidio Basso, con le tre di Ottaviano e con le quattro di Decimo, già a quattordici sommavano le legioni novelle reclutate o le antiche richiamate in pochi mesi nell’Italia, che da tanto tempo non forniva più soldati, come se le morenti attitudini guerresche delle genti italiche rinascessero. Ma l’esempio dei soldati di Cesare arricchiti, una smania contagiosa di desiderii e di speranze chimeriche, la miseria inducevano a cambiare stato e mestiere con la milizia molti artigiani che non trovavano più lavoro a Roma o nelle città minori, molti figli di coloni stanchi della faticosa povertà paterna, molti braccianti, indebitati, disperati. Le rivalità politiche dell’oligarchia signora dell’impero offrivano a costoro un compenso al ristagno universale della ricchezza: ma intanto le 36 legioni lasciate da Cesare erano accresciute a 50, e non solo non si sapeva come si pagherebbe il cresciuto dispendio militare, ma si stentava perfino a trovare le armi per tanti soldati. Antonio doveva tenere inermi e disciolte nel campo le nuove reclute della Cisalpina, non potendo armarle; anzi aveva pensato per un momento di far venire armi da Demetriade452; e Pansa aveva dovuto a Roma reclutare armaioli da ogni parte453.

Ma gli ondeggiamenti non erano ancora finiti. Il 20 marzo il pretore Aulo Cornuto lesse in assenza dei consoli lettere di Lepido e di Planco nelle quali esprimevano al Senato un generico desiderio di pace. Planco in special modo aveva scritto con grande cautela, incaricando C. Furnio, il quale portava le lettere, di aggiungere a voce dichiarazioni più esplicite di devozione alla costituzione454. Era noto a tutti che Lepido inclinava ad Antonio; ma l’uno e l’altro miravano così a lusingare i due partiti in modo da non compromettersi troppo nè con l’uno nè con l’altro; Lepido anzi aveva fatto di più: richiamava sotto le armi la decima e la sesta legione dedotte in colonie da Cesare a Narbone e ad Arles, ne reclutava una terza, non sappiamo bene con quali soldati455; aveva mandato a Modena rinforzi, dando all’ufficiale Marco Giunio Silano, figlio di Servilia e quindi cognato suo, ordini molto equivoci, in modo da poter sostenere che egli lo aveva spedito contro Antonio456. Cicerone, molto irritato per queste lettere che temeva scoraggissero il Senato già così vacillante, pronunciò allora la tredicesima filippica, un capolavoro di eloquenza furente e ruggente, incitando i senatori alla guerra e proponendo onori per Sesto Pompeo, con cui alcuni ambasciatori del Senato avevano poco prima parlato a Marsiglia e che si dichiarava pronto a combattere per il Senato; scrisse poi due lettere molto asciutte e stizzose a Planco e a Lepido457. Non si tenterebbe ora di frapporre nuovi impedimenti? Ma gli ultimi giorni di marzo e i primi di aprile corsero per tutti pieni di inquietudine, di ansietà, di malessere. Che cosa succedeva intorno a Modena? Che cosa macchinavano in Oriente Dolabella e Cassio? A volte passavano su Roma ventate di sconforto, che piegavano gli animi: Modena era agli estremi; i consoli tradivano la causa del Senato; non si vincerebbe458. Cicerone doveva mostrarsi in pubblico con faccia serena, far coraggio a tutti, ostentare una fiducia che forse mancava anche a lui. Al 7 aprile459 furono lette in Senato nuove lettere di Planco460, il quale, avendo saputo frattanto che i soccorsi di Pansa partivano davvero, si era affrettato a scriver di avere sino allora dissimulata la sua devozione repubblicana per esser sicuro delle legioni che Antonio cercava di rivoltare. Ma avendo Cicerone proposto alcuni onori, due giorni il Senato disputò con furore, perchè Servilio, tenace nei suoi odi conservatori, non voleva onorare un antico partigiano di Cesare461. [43 a. C. Aprile] Per fortuna il 9 aprile gli spiriti furono distratti e confortati dalle notizie di Cassio che arrivavano finalmente da più parti. Sbarcato nella provincia di Asia prima di Dolabella, aveva ricevuto da Trebonio denaro e dal questore Lentulo, che l’aveva adescato per via, il corpo di cavalleria mandato innanzi da Dolabella; aveva poi reclutati in Asia soldati, raccolti denari e quindi invasa la Siria, dove le cinque legioni dei governatori della Siria e della Bitinia che assediavano in Apamea Cecilio Basso, erano state persuase a passare a lui, ben presto seguite dalla legione di Cecilio Basso. Un nuovo e grande esercito aveva il partito conservatore in Oriente; e Dolabella era sicuramente spacciato. A compenso però di queste liete notizie Cicerone ricevè due giorni dopo una singolarissima lettera di Bruto, in data del 1° aprile, piena di strane paure e domande. La lettera diceva che, perduta l’Asia e i suoi sussidi, egli si trovava senza denaro (i 16 000 talenti erano già stati consumati), aggiungeva che, a parer suo, era opportuno, prima di divulgare le notizie di Cassio, pensarci bene; confessava infine di non saper come trattare Caio Antonio, che poco prima gli si era arreso in Apollonia. Le sue preghiere lo avevano “troppo commosso”462. In verità Bruto, come tutti gli uomini di studio sperduti nella vita d’azione, era un uomo semplice; e mentre coniava monete con il berretto frigio, i pugnali e l’iscrizione EID-MAR (Idus Martiæ), l’astuto Caio Antonio aveva preso ad abbindolarlo con mille moine, mirando nientemeno che a metterlo in discordia con Cicerone: gli aveva detto che Cicerone metterebbe alla disperazione i cesariani, con cui pure era possibile intendersi; aveva insinuato che era stolto fidarsi di Ottaviano invece che cercare di accordarsi con suo fratello; aveva infine risvegliate le antiche diffidenze del congiurato contro il figlio di Cesare. E così alla fine il debole Bruto era diventato suo buon amico e aveva fatto una cosa che non osava raccontare a Cicerone: lo aveva messo al posto di Vatinio, come governatore dell’Illirico sotto i suoi ordini! Cicerone, irritato, gli rispose seccamente il giorno dopo a volta di corriere: denari non essercene, arruolamenti non potersene fare; tenesse Caio Antonio in ostaggio sino alla liberazione di Decimo463; quanto alle notizie di Cassio, si dovevano gridare in ogni parte e non nasconderle! Ma la mattina dopo, il 13 aprile, a Cicerone toccò in Senato un’altra sorpresa e più grossa: due messaggi, uno di Caio Antonio e l’altro di Bruto, arrivati la mattina e portati direttamente al Senato, senza essere prima dati a leggere, come si soleva, nè a Cicerone nè ad altra persona di fiducia. In queste lettere Caio Antonio domandava pace per sè e per il fratello; e Bruto non solo raccomandava la domanda, ma lo aveva lasciato perfino intestare la sua lettera con il titolo di proconsole. Cicerone cascò dalle nuvole, ma lì per lì si contenne; sciolta però la seduta, corse subito a consigliarsi con altri senatori, e si deliberò di adoperare un espediente estremo. Il giorno dopo il senatore Labeone dichiaro d’avere osservati con cura i sigilli e di essersi persuaso che la lettera era falsa; e il giorno stesso Cicerone scriveva a Bruto una lettera lunga cortese ma risoluta, raccontandogli tutto, facendogli capire, senza dirglielo chiaro, che bisognava che egli non smentisse Labeone, e dichiarandogli che in una guerra in cui si trattava di morire se non si vinceva, era necessaria energia implacabile, non molle clemenza464. Ammonimento, di cui Bruto ebbe a sperimentare ben presto la saviezza; perchè Caio lo compensò della sua dolcezza, tramando contro lui una rivolta di soldati, che per fortuna fu sventata a tempo465.

[43 a. C. 15 aprile.] Ma in quel giorno stesso del 14 aprile o nel seguente – la data è incerta466 – i due eserciti si azzuffavano nei dintorni di Castelfranco, che allora si chiamava Forum Gallorum. Antonio, non ostante le sue piccole forze, dopochè Silano gli aveva portati i suoi soldati, osava, sicuro dell’aiuto di Lepido e confidando nel suo prestigio di vendicatore di Cesare, prendere l’iniziativa dell’offesa. Già da qualche tempo, lasciata una parte delle milizie ad assediare Modena, aveva posto il suo campo vicino a quello di Irzio e di Ottaviano e lo veniva tormentando di piccoli assalti; Ventidio si avvicinava: avendo saputo che Pansa muoveva da Bologna, pensò di assalirlo lungo la via e di macellare i suoi novizi, mentre suo fratello Lucio avrebbe distratta l’attenzione di Irzio e di Ottaviano simulando un assalto all’accampamento. Egli sperava probabilmente che i suoi antichi soldati, riconoscendo ora in lui e non in Ottaviano il vero difensore della causa cesariana, non combatterebbero. Difatti non solo tre legioni veterane si avvicinavano a soccorrerlo; ma alcuni squadroni di cavalleria celtica, che avevano appartenuto all’esercito di Macedonia, già avevano abbandonato Ottaviano per lui. Ma Irzio, che aveva mandato incontro a Pansa un certo Galba a sollecitarlo, dubitò di questo disegno e nella notte dal 13 al 14 gli mandò incontro la legione di Marte e due coorti pretorie al comando di Carfuleno. Carfuleno traversò nella notte Forum Gallorum e continuò il suo cammino incontro a Pansa; e poche ore dopo Antonio, ignaro di ciò, giungeva e appiattava in Forum Gallorum due legioni e due coorti pretorie, mandando poi incontro a Pansa, sulla via Emilia, cavalleria e fanteria leggera, per attirare con scaramuccie i soldati sin sotto a Castelfranco. Il disegno riuscì; solo che tratti avanti a combattere furono, non come credeva Antonio, una o due legioni di novizi, ma le dodici coorti di Carfuleno, che marciavano in capo all’esercito a una certa distanza dalle legioni novelle. Per un certo tempo, siccome la via Emilia correva stretta tra boschi e paludi e le dodici coorti sfilavano su quella, non si potè fare nulla; ma appena, avvicinandosi a Forum Gallorum, entrarono in terreno piano e sgombro, le dodici coorti si spiegarono in ordine di battaglia e le ventidue di Antonio uscite dal villaggio impegnarono una terribile mischia con la legione di Marte; mentre Pansa ordinava a due delle quattro legioni novelle di preparare in fretta l’accampamento, mandava le altre due al soccorso, e spediva messi a domandare rinforzi a Irzio, recandosi anche egli sul fronte della battaglia. La zuffa fu aspra; ma le due legioni novelle non servirono a nulla, la coorte pretoria di Cesare fu distrutta e Pansa ferito; onde alla fine anche la legione di Marte ripiegò verso l’accampamento, incalzata dal nemico, che fece una grande strage di veterani e novizi. I soldati di Antonio credevano già di aver vinto; ma quando nel pomeriggio, dopo avere costretto tutto il corpo nemico a rifugiarsi nell’accampamento e averlo un po’ tormentato, si ritiravano verso Modena stanchi, ecco a un tratto sopraggiungere Irzio con due legioni veterane. Impegnare una nuova battaglia con soldati freschi non era possibile: e le due legioni si dispersero in disordine nelle selve e paludi vicine. Per fortuna il cader della notte e la mancanza di cavalleria impedì a Irzio di inseguire i fuggenti, che Antonio fece nella notte raccogliere dalla cavalleria e ricondurre negli accampamenti di Modena. Ottaviano aveva intanto difeso l’accampamento contro i finti assalti di Lucio, compiendo la prima e non ardua sua impresa di guerra, che però valse a lui come ai due consoli una ovazione dell’esercito467. Nè l’uno nè l’altro avversario aveva interamente vinto o interamente perduto. A Roma l’ansietà era immensa. Verso il 17 e il 18 si sussurrava che l’esercito del Senato fosse stato distrutto468; finchè giunsero le lettere di Irzio. I partigiani di Antonio si chiusero in casa disperati; una grande dimostrazione popolare trasse alla casa di Cicerone, lo condusse al Campidoglio, lo obbligò a parlare tra immensi applausi469; anche molta gente cauta e indifferente si lasciò trascinare a mostrare odio per Antonio. Cicerone nella seduta del 21 aprile pronunciò la quattordicesima e ultima filippica, proponendo una supplicazione di quaranta giorni, un monumento ai soldati caduti, il pagamento ai loro parenti delle somme e la concessione dei privilegi promessi ai soldati dell’esercito del Senato. Tutti credevano che il partito conservatore avesse ottenuta una grande vittoria. Antonio infatti, ridiventato più prudente dopo la sua sorpresa fallita, aveva ricondotto l’esercito nel campo e dietro le trincee, a stringere l’assedio abbandonando i propositi di assalire; ma Ventidio si avvicinava sulla via Emilia alle spalle di Irzio e Ottaviano, i quali, fatti più animosi dopo aver visto che i veterani combattevano, si indussero il 21 aprile a tentar di rompere la linea di investimento, per mandare in città un convoglio di viveri. Antonio spedì a respingerli la cavalleria, poi, questa non bastando, due legioni. Irzio approfittò del momento per piombare nel campo, difeso dalla quinta legione, con la quarta legione; da Modena Decimo Bruto osò alla fine mandar fuori alcune coorti sotto il comando di Ponzio Aquila; nel campo e sulle trincee si impegnarono due terribili mischie. Irzio e Ponzio Aquila furono uccisi; la quarta legione già ripiegava, quando Ottaviano corse in aiuto; la battaglia ricominciò così violenta che Ottaviano stesso si trovò in mezzo alla mischia e dovè combattere come un soldato. Egli salvò il corpo di Irzio ma non potè o non seppe conservare il campo e terminò la sua prima battaglia ordinando la ritirata. Anche i soldati di Decimo ritornarono in Modena; e la linea di investimento non pareva alla sera essere stata rotta. L’esercito di Antonio però aveva molto sofferto. Antonio convocò nella notte un consiglio di guerra, nel quale i più opinarono che si dovesse continuare l’assedio. Se Antonio avesse saputo che Irzio era morto, il giorno dopo avrebbe certo assalito l’esercito al comando del solo Ottaviano e forse distrutta per sempre, con l’aiuto di Ventidio che ormai era a Faenza, la discendenza di Cesare. Ma da fili ben tenui pende spesso nelle rivoluzioni la sorte di un uomo: Antonio non sapeva quello che era successo, temè di essere sopraffatto il giorno dopo, prima che Ventidio arrivasse, da un nuovo assalto; si ricordò di quello che aveva fatto Cesare sotto Gergovia e si risolvè a ritirarsi nella Gallia Narbonese presso Lepido. Nella notte egli mandò dei messaggeri a Ventidio Basso, ordinandogli di valicare l’Appennino e di raggiungerlo nella Narbonese; diede gli ordini per levare l’assedio e nella mattina seguente partì470.

X.
“TRIUMVIRI REIPUBLICAE COSTITUENDAE”.

[43 a. C. Aprile] Le notizie degli eventi di Modena giunsero in Roma, a quanto pare, il 25 di aprile, ma molto esagerate471. Il 26 il Senato si radunò; e naturalmente gli amici del vinto, che si diceva fuggisse in rotta con i pochi avanzi della sua banda quasi disfatta, non comparvero. Così finalmente il bando di Antonio e dei suoi seguaci fu decretato senza opposizione472; e in onore di Decimo Bruto, a cui in quel momento pareva essere dovuta la maggior lode della vittoria per la ostinata difesa di Modena, furono proposti i più stravaganti decreti, quasi avesse vinto un nuovo Annibale: una supplicazione di cinquanta giorni, il trionfo, perfino l’iscrizione del nome nel calendario, al giorno in cui la notizia era giunta, che per caso era il natalizio di Bruto473. Tanto facilmente ormai perdevano tutti la misura!474 Furono deliberati onori anche ai caduti; fu proposto pure, non sappiamo da chi, di dare anche ai soldati di Modena le ricompense promesse a quelli di Ottaviano475; e da Cicerone, che intendeva essere necessario non perdere tempo, di passare a Decimo, poichè Irzio era morto e Pansa giaceva ferito a Bologna, il comando supremo dell’esercito476. Non tutte queste proposte furono approvate, giacchè l’iscrizione nel calendario fu contrastata477; e certo fu respinta la proposta di Cicerone per riguardo a Pansa478. Nella giornata però giunse notizia che Pansa era spirato nella notte dal 22 al 23479; e fu necessario riconvocare il Senato il 27, per provvedere alle legioni e alla guerra contro Dolabella, che era stata commessa ai consoli. In questa seduta Servilio fece sua e ottenne fosse approvata la vecchia proposta di Cicerone, che si affidasse la guerra contro Dolabella a Cassio con il proconsolato della Siria e con un alto comando su tutti i governatori delle provincie asiatiche480; si approvò di sciogliere Marco Bruto dall’obbligo di tenersi vicino all’Italia, lasciandolo libero, se così credeva meglio, di aiutare Cassio; si proscrisse anche Ventidio, che il giorno prima, nella fretta e nella gioia, era stato dimenticato481. L’Italia era sicura, ora che Antonio – così tutti credevano – andava fuggiasco con poche bande stanche e sfinite!482 Sembra pure che per il comando della guerra si addivenisse a un mezzo termine: si ponessero le quattro legioni di Pansa sotto il comando di Decimo, come propretore più anziano di Ottaviano, lasciando però a costui il comando delle sue cinque legioni483. Tutti del resto a Roma erano di opinione che Decimo Bruto e Ottaviano si fossero già slanciati sulle orme di Antonio484; nessuno dubitava che Antonio incorrerebbe in pochi giorni con gli avanzi delle due bande nella sorte di Catilina; il partito conservatore pareva di nuovo a tutti, come nei primi giorni dopo la morte di Cesare, sicuramente vittorioso e signore dello Stato; i tristi scoraggiamenti del luglio e dell’agosto precedente erano dimenticati; gli amici, i parenti, la moglie del vinto si videro perseguitati con ingiurie, minaccie e processi da nemici ignoti fino allora, che pullulavano da ogni parte. Anzi Fulvia, che in quei giorni doveva pagare un fondo comprato a credenza, non avrebbe trovato più un sesterzio a credito, se l’amabile Attico, sempre fermo nel suo proposito di dare denari a tutti, non l’avesse aiutata485.

Nessuno immaginava ciò che succedeva in quel tempo a Modena e sulla via della Narbonese. Nella giornata del 22 Decimo Bruto si era recato al comando dell’esercito liberatore per salutare Irzio; aveva invece trovato Ottaviano che gli aveva raccontata la morte del console e lo aveva informato sulla situazione militare486. Decimo Bruto, che era un esperto uomo di guerra, aveva subito intuito che Ventidio Basso tenterebbe di raggiungere Antonio senza incappare nei loro eserciti, valicando in fretta l’Appennino e scendendo in Liguria; e quindi propose che Ottaviano passasse con le sue legioni le montagne e ostruisse la via della Liguria, mentre egli inseguirebbe Antonio, cercando di spingerlo nell’Appennino selvaggio a morirvi di fame487. Ma Ottaviano si schermì con varii pretesti. Gli storici suppongono che queste scuse coprissero segreti e remoti disegni: ma a chi abbia seguita questa lunga vicenda, la cagione del rifiuto apparirà essere molto più semplice, quella stessa per cui Ottaviano ed Irzio avevano condotta la guerra così mollemente: la paura che i soldati disapprovassero questa guerra contro commilitoni. Se egli aveva adoperate le legioni così timidamente, quando in parte almeno era pur sostenuto dall’autorità di un cesariano insigne come Irzio, avrebbe osato di condurle ora insieme con un uccisore di Cesare alla definitiva distrazione di Antonio e dei suoi veterani?488 Egli non voleva leggermente incorrere in nuovi rischi per i conservatori. Invano Decimo si sforzò in quel giorno di persuaderlo489; e già forse deliberava di partire solo il dì dopo, quando nella notte ricevette un messaggio da Pansa ferito, che lo chiamava a Bologna. Si avviò quindi, all’alba del 23, verso Bologna. Ma per via avendo saputo che Pansa era morto, ritornò; prese le ultime disposizioni; e il 24 mosse con le legioni allo inseguimento di Antonio. Antonio però aveva due giorni di vantaggio490; e non era nè disfatto nè disposto a perire come Catilina, abbandonato da tutti e a capo di poche milizie. In questo uomo così gagliardo e così ineguale, che era stato tanto incerto negli ultimi mesi, proruppe allora dalla rabbia della disfatta e dalla concitazione del pericolo un impeto stupendo di immaginazione e di volontà, nel quale ideò e pose subito ad esecuzione un disegno veramente cesariano: prendere deliberatamente, per andare nella Narbonese, quella via della Liguria; scalare di propria iniziativa e subito quell’Appennino scosceso, selvaggio, deserto da Tortona a Vado, in cui Decimo Bruto voleva spingerlo a perire come un cervo ferito. Era impresa audace avventurare l’esercito, non disfatto, come si diceva a Roma, ma certamente un poco turbato dagli ultimi scontri e senza vettovaglie, in quel deserto scosceso in cui poteva perire per fame! Ma l’uomo che aveva combattuto con Cesare contro Vercingetorice, non esitò, discernendo tutti i vantaggi di questa via, che, se più ripida e difficile, era anche più breve che quella del piccolo San Bernardo e più spedita, perchè sgombra di eserciti. E a lui urgeva di annullare senza indugio l’effetto della ritirata di Modena con l’alleanza di Lepido. Inoltre dalla congiunzione con Ventidio, a cui aveva ordinato di valicare l’Appennino, dipendeva in gran parte l’esito di questa sua mossa così audace, perchè con sette legioni egli sarebbe sicuro, qualunque cosa avvenisse, di trarsi a salvamento: ora, prendendo la via della Liguria egli andava incontro a Ventidio, poteva ritrovarsi con lui a Vado, scorciava il cammino che il suo generale avrebbe dovuto fare da solo, il più pericoloso cioè, quello in cui i soldati e il generale, lontani da lui, più facilmente si sarebbero scoraggiti. Quindi con le quattro legioni e la cavalleria ancora in buon assetto, con le torme dei soldati reclutati ma non ancora ordinati a legione ed armati, il 22 e il 23 percorse le trenta miglia che separano Modena da Parma: alla sera del 23 piombò in Parma come un turbine, abbandonando la città ai soldati che la maltrattarono un poco491; il 24 e il 25 percorse le quaranta miglia tra Parma e Piacenza; il 26 piegò sulla via Milvia per Clastidio verso Dertona (Tortona), lontana circa cento chilometri, dove giunse probabilmente il 28, per far riposare un giorno i soldati e intraprendere al 30 la scalata delle montagne che lo separavano da Vada Sabazia (Vado). Invece Decimo aveva presunto troppo dell’esercito suo, che era composto in parte di novizî, esausto dalle privazioni dell’assedio e sfornito di tutto, anche di muli e cavalli492 (erano stati mangiati durante l’assedio)493; cosicchè nei primi giorni egli fece poco e lento cammino494. Intanto Ottaviano andava con il suo esercito a Bologna, a preparare il solenne trasporto delle salme di Irzio e di Pansa.

[43 a. C. Maggio.] Queste cose furono note a Roma nei primi giorni di maggio, proprio quando dalla fallace universale persuasione che Antonio fosse spacciato una nuova confusione nasceva. La vittoria di Modena – curiosa contradizione che è la maggiore prova della dissoluzione politica delle alte classi di Roma – aveva nuociuto proprio alla autorità dell’uomo che ne aveva il merito più grande. Cicerone capiva essere necessario approfittare subito del grande disordine in cui versava il partito cesariano e percuoterlo a morte, incominciando a distruggere per davvero Antonio; onde smaniava d’impazienza e tempestava Senato e senatori affinchè non si assopissero nella beata illusione di una vittoria che era precaria: ma, morti i consoli, il governo della repubblica era commesso a un oscuro pretore, Aulo Cornuto, cioè a nessuno; se durante l’assedio di Modena il pericolo aveva incitato un poco il vigore della stanca assemblea, ora il maggior numero, che era stato tratto recalcitrante alla guerra e desiderava solo di illudersi che non c’era più motivo di inquietudine, di sforzo, di lotta, non ascoltava più come prima l’oratore delle Filippiche, e teneva i suoi discorsi per smanie di un vecchio esaltato. Inoltre facevano di nuovo capolino i discordi interessi privati, le sorde rivalità personali, i meschini puntigli dei singoli; onde non sì poteva più deliberare nessun provvedimento grave, perchè l’assemblea interponeva sempre alla fine qualche lunghezza o differimento, e non approvava che espedienti dilatori. Cicerone non si sentiva più il Senato in mano, come nel mese precedente; e si accorgeva che la morte di Pansa era stata una disgrazia anche per lui, perchè, non ostante le sue tergiversazioni, l’autorevole consolare era almeno un uomo di vigore e di senno495. Quelle prime notizie dell’inseguimento aggiunsero una nuova difficoltà, riaccendendo l’antica discordia tra i fautori di Ottaviano e i suoi nemici, sopita nel partito conservatore durante la guerra. Molti membri del Senato si sdegnarono contro Ottaviano, che restava neghittoso a Bologna496; i parenti dei congiurati sempre in sospetto, i nemici, gli invidiosi del giovane – ed erano tanti – approfittarono di questo malcontento per nuocergli; due senatori anzi, Lucio Emilio Paolo fratello di Lepido e Livio Druso, proposero di dare a Decimo il comando delle legioni veterane reclutate da Ottaviano497. Altri invece, tra i quali Cicerone, che capivano la vittoria non essere ancora definitiva, raccomandavano prudenza, consigliavano l’accorgimento di carezzare ancora Ottaviano per servirsene almeno a presidiare l’Italia498. Questa idea era così savia che nel lontano Oriente il più intelligente dei congiurati, Cassio, pare non fosse alieno in quel tempo da tenere pratiche per un accordo con lui499. Difatti la proposta di Emilio e Livio fu giudicata troppo ardita; e il Senato non l’approvò temendo che i soldati non obbedirebbero500. Tanto – così probabilmente molti giustificavano questa debolezza pericolosa – di quelle legioni non c’era bisogno; Decimo bastava da solo con le sue! Anzi non gli si intimò nemmeno di inseguire Antonio, i più illudendosi di nuocergli, togliendo a lui una occasione di segnalarsi, che era invece riserbata tutta a Decimo. Senonchè dei sospetti erano nati; i quali crebbero quando di lì a qualche giorno giunsero a Roma lettere di Ottaviano sollecitanti il Senato a dare ai suoi soldati le ricompense promesse501. Non solo non combattevano, ma volevano denaro, e in quale misura! non i 2000 sesterzi che il Senato aveva deliberato il 4 gennaio di dare alle due legioni ribellatesi; ma la somma decuplicata poi da Ottaviano se si vinceva, 20 000 sesterzi per ogni soldato, non solo alle due legioni ribellate, ma a tutte le cinque legioni!502 Nè gli uni nè gli altri immaginavano che il giovane tanto sospettato si trovava allora a Bologna in un grande impiccio e non sapeva proprio che fare con il suo esercito. Egli non poteva solo, alla testa di cinque legioni, rivoltarsi contro il Senato; e quindi preparava, sia pur lentamente, le quattro legioni di Pansa, per mandarle a Decimo503: ma lasciava a Ventidio libero il passo dell’Appennino e restava in una piccola città della Gallia ozioso capo di un esercito inutile, senza osare di ribellarsi a quel Senato che a sua volta non osava comandargli, studiandosi solo di mostrare ai soldati il proprio zelo per la loro sorte con quelle sollecitazioni al Senato. Tuttavia a queste sollecitazioni non si poteva non rispondere; cosicchè, azzuffandosi nel Senato senza volontà gli avversari e gli amici di Ottaviano, coloro che volevano concedere poco alle legioni e quelli che inclinavano a largheggiare, si approvarono alla fine deliberazioni intermedie e discordi: si deliberò che solo le due legioni ribellate, secondo la lettera del senatusconsulto, riceverebbero le ricompense e non 20 ma 10 000 sesterzi; si deliberò poi che questa risposta sarebbe comunicata ai soldati direttamente da una ambasceria del Senato, quasi a dimostrare che essi dipendevan da questo e non da Ottaviano504; si deliberò infine e quasi a compenso, su proposta di Cicerone che non voleva irritare i soldati, di nominare una commissione di dieci membri, tra i quali Cicerone, per pagare subito il donativo e cercare terre a quattro legioni. Due erano certamente le legioni ribellate, le altre due non sappiamo: forse le veterane di Decimo Bruto505. Forse anche, per mostrare il proprio zelo ai veterani, si incaricò in questa seduta Lepido e Planco di fondare alla confluenza del Rodano e della Saona quella colonia, che poi divenne Lione. Insomma il Senato rispondeva ai soldati con equivoche deliberazioni che insospettirebbero il generale, e con nuove promesse, che non era in grado di mantenere; perchè le terre in Italia che si potevano distribuire eran pochissime, tranne che si volessero comprare a carissimo prezzo; e perchè l’erario era vuoto, i tributi delle ricche provincie d’Oriente essendo sequestrati per via da Bruto, da Cassio, da Dolabella. Cicerone pensava con spavento che per mantenere le promesse ai soldati bisognerebbe imporre all’Italia, che oramai da tanto tempo non pagava più imposte tranne la vigesima sul prezzo degli schiavi e la gabella sulle cose importate, il tributum o prestito forzoso di guerra; imporre questo prestito forzoso, proprio quando in Italia l’oro e l’argento non correvano più e difficilissimo diveniva il credito; quando tanti, anche nella classe agiata, erano costretti a vendere a prezzi di disperazione case, ville, campi, oggetti d’arte, crediti, per procurarsi il contante.

Mentre il Senato deliberava queste cose a Roma, l’infaticabile Antonio aveva scalate il 30 aprile le montagne liguri; per sei giorni aveva camminato sulla via da Acquae Statiellae a Vado per monti selvaggi e deserti, domandandosi se Ventidio non si fermerebbe o non sarebbe disfatto o non tradirebbe per via; sottoponendosi, per incoraggiare le legioni, a tutti i disagi come un soldato semplice, mangiando come i soldati le radici e gli animali immondi che si potevano trovare in quella desolazione506, arrivando infine il 5 maggio a Vada Sabatia (Vado). A Vado non trovò Ventidio507, che dovendo percorrere cinquanta miglia più di lui non poteva ancora essere giunto; ma trovò probabilmente notizie di lui, mandate avanti. Perciò, spedito innanzi Lucio con un corpo di cavalleria508 e qualche coorte, si fermò ad aspettarlo per impedire che l’esercito inseguitore, giungendo a Vado prima che Ventidio, si interponesse tra loro. Ma giungerebbe Ventidio prima di Decimo? Decimo Bruto riordinandolo alla meglio e allenandolo per via, aveva potuto dopo i primi giorni affrettare un poco il passo del suo esercito ed il 5 maggio, poco dopo l’arrivo di Antonio a Vado, giungeva a Tortona, dove gli era stata riferita la falsa notizia, non si sa se nata per caso o sparsa ad arte, che Ventidio si era già unito a Vado con Antonio509. L’inseguitore credè un momento alla voce; scrisse una lettera desolata a Cicerone; lo pregò anche di fargli mandare denaro, perchè ne scarseggiava510. Ma nella notte dovè persuadersi che la notizia non era vera, se la mattina seguente trasse l’esercito nei monti verso Acqui; e se il 6, il 7, l’8 maggio camminò indefesso, giungendo nella giornata del 9 a trenta miglia da Vado511. Qui egli ebbe finalmente notizie più veraci su Antonio. Ventidio era arrivato forse il 7, e Antonio per un momento aveva potuto credersi in salvo. Ma poche ore dopo gli era toccata una amara delusione: le tre legioni erano stanchissime; e quando Antonio il giorno 8 le aveva arringate dichiarando di voler raggiungere Lepido, spaventate dalla proposta di camminare più che cento miglia ancora in quelle aspre regioni, si erano rifiutate, gridando di voler tornare in Italia anche a costo di morirvi. Antonio aveva dovuto promettere loro di avviarle il dì dopo su Pollenzo, mentre egli con i suoi sarebbe andato nella Gallia Narbonese512. Decimo Bruto, sapute queste notizie, mutò cammino e si avviò in gran fretta verso Pollenzo, giungendovi infatti un’ora prima dell’avanguardia di Ventidio e rendendo con ciò un grande servigio ad Antonio513; perchè, respinte da Pollenzo, le tre legioni si rassegnarono a tornare sulla via della Gallia e seguirono, a due giorni di distanza, Antonio514.

A Roma, quando si seppero queste cose nella terza decade di maggio, Cicerone si confermò nella persuasione che bisognava non disgustare Ottaviano; ma i nemici di Antonio e i molti invidiosi di Decimo accusarono invece costui di essersi lasciato scappare il fuggiasco per imperizia515; e tanto più si irritarono, quando di lì a qualche giorno giunsero altre lettere sue in cui raccomandava, come Cicerone, di carezzare Ottaviano e di chiamare in Italia Marco Bruto516. Questa proposta era stata messa innanzi anche a Roma in quei giorni, per calmare l’inquietudine delle notizie di Antonio, insieme con quella di far venire in Italia la legione di stanza in Sardegna e di affrettare il viaggio di quelle d’Africa517. Si seppe intanto che Lucio Antonio era giunto l’8 maggio a Forum Julii518. Ma ad accrescere la irritazione a Roma, ritornarono di lì a poco, verso la fine di maggio, gli ambasciatori andati al campo di Ottaviano a parlare ai soldati, ai quali il figlio di Cesare aveva preparata una ben strana accoglienza. Entrati i messi nel campo e raccolti i soldati, questi si erano rifiutati di ascoltare l’ambasceria se Ottaviano non era presente, e quei meschini avevan dovuto acconciarsi; Ottaviano era venuto e gli ambasciatori avevano esposte le deliberazioni del Senato: ma il sentimento che noi chiameremmo spirito di corpo o solidarietà tra commilitoni, era così esaltato in quei tempi, che tutti, i premiati e i delusi, avevano protestato, quelli anzi con maggior furore di questi519. Neanche della commissione agraria erano contenti; ma si lagnavano che Ottaviano non fosse stato scelto a farne parte520. Chi mai potrebbe soddisfare quegli insaziabili? Era questo un primo segno del pericolo che minacciava dalla parte di Ottaviano, il quale, non ostante le illusioni di molti a Roma, non potrebbe restare a lungo in quella oziosa neghittosità. A muoverlo, se non bastava la forza delle cose, provvederebbero quelli che gli stavano dattorno, che non erano conservatori ma antichi ufficiali e soldati di Cesare; i quali, se avevano impugnate le armi contro Antonio, avevano tutti troppo grande e vecchio odio contro i conservatori, troppa paura che avvenisse una restaurazione conservatrice sulle rovine del partito cesariano. Perciò molti mettevano male tra lui e Cicerone, raccontandogli perfino che Cicerone avrebbe detto che bisognava farlo uccidere521, lo incitavano a procedere audacemente522: i conservatori lo avevano fatto propretore, ma avrebbero cercato di distruggerlo, come già cercavano di screditarlo chiamandolo il ragazzo; ora che Antonio sembrava per metà rovinato dalla disgrazia, si affrettasse a mettersi a capo del partito cesariano, che non aveva più duce. Non aveva egli, sia pure sull’esempio di Erofilo, dato principio a quella agitazione per la vendetta di Cesare, che Antonio aveva poi imitata con tanta fortuna? E non era egli, figlio adottivo ed erede, in grado di continuare questo movimento con maggiore efficacia che ogni altro? I due posti di console erano vacanti; e parte per difficoltà legali, parte per la ressa degli ambiziosi, non si erano ancora fatte le elezioni: si proponesse dunque candidato al consolato, presentandosi alla plebe come il figlio di Cesare, pronto a compiere per la plebe e pei soldati tutti i disegni che al padre erano stati troncati dalla congiura. In Roma non si era ancora visto un console di diciannove anni; ma i tempi erano così strani! Egli sarebbe eletto sicuramente; ed eletto sarebbe il capo del partito cesariano. Ottaviano, lusingato da queste adulazioni, tratteneva una delle legioni di Pansa e si accingeva a reclutarne altre due523, ma esitava: era molto inquieto per l’intenzione ormai chiara di togliergli l’esercito, che mostrava una parte del partito conservatore524; ma poteva egli solo mettersi a capo del partito di Cesare, senza almeno l’aiuto di qualcuno tra i più potenti governatori delle provincie vicine all’Italia? Di tempo in tempo egli pensava se non potesse riconciliarsi con Antonio; e trattava bene i soldati di lui prigionieri; e ne rimandava libero qualche ufficiale, dopo avergli fatto balenare con mezze parole che non era alieno da venire ad accordi!525 Ma a Roma ben pochi sospettavano queste cose; molti si compiacevano che il giovane fosse costretto a restare ozioso a Bologna; e tutti di lì a poco, verso la fine di maggio, perderono la speranza che Antonio avrebbe avuta per mano di Decimo la sorte di Catilina. Fallito il disegno di impedire la unione di Antonio e di Ventidio, Decimo non aveva osato avventurare le sue legioni novizie nella selvaggia Liguria; ma considerando che se i fuggiaschi fossero accolti da Lepido sarebbe necessario fare guerra anche a Lepido, aveva deliberato di andare a raggiungere Planco nelle Gallie, tornando nella Cisalpina e attraversando quella regione che ora si chiama Piemonte. Planco doveva essere console con lui l’anno prossimo; potevano quindi considerarsi a vicenda già quasi come colleghi e operare unitamente. Aveva scritto perciò subito a Planco e riposato qualche giorno a Pollenzo l’esercito che soffriva di dissenteria526; poi, intorno al 17 di maggio, voltate le spalle alla Liguria, si era incamminato verso la valle del Po. Ormai era dunque certo che Antonio giungerebbe sano e salvo sino a Lepido; onde tutti a Roma incominciarono a domandarsi ansiosamente che cosa farebbe Lepido. Tratterebbe Antonio da nemico, come diceva nelle lettere?527 O era già d’accordo con lui, come affermavano molti maligni?528 Era difficile davvero argomentare le intenzioni del proconsole dagli atti suoi. All’avvicinarsi di Lucio Antonio, il suo ufficiale Culleone, che guardava il confine della provincia, si era unito a lui, invece di contrastargli il passo529; ma nel tempo stesso Lepido scriveva a Planco dicendosi risoluto a combattere Antonio, domandandogli rinforzi di cavalleria; e si muoveva davvero contro di lui. Che cosa intendeva dunque di fare? Planco invece pareva amico sicuro dei conservatori: aveva disceso il corso dell’Isère sino a Cularo (Grenoble); aveva fatto un ponte e passato il 12 maggio l’esercito, spedendo poi in avanti 4000 cavalieri in fretta al comando del fratello, appena avuta notizia dell’arrivo di Lucio a Forum Julii530. E intanto, mentre a Roma tutti badavano a Lepido, Ottaviano, comprendendo essere pericoloso perdere ancora del tempo e non sentendosi l’animo di un partito risoluto, tentava di nuovo un giuoco doppio: da una parte scriveva a Lepido e ad Asinio, per indagare se sarebbero disposti a riconoscerlo come capo del partito di Cesare531; dall’altra scriveva a Cicerone di proporsi a console prendendo lui a collega: egli così giovane si lascerebbe guidare in ogni cosa da lui, lo aiuterebbe a salvare la repubblica532. E a Cicerone la proposta non dispiaceva; ma era ormai quasi esautorato e paralizzato dalla crescente e dispettosa avversione dei conservatori per il giovane; onde non osava dichiararsi.

Degli altri nessuno sapeva più quel che si volesse, nella confusione universale. Solo Antonio correva diritto e risoluto al fine suo. Mentre Decimo Bruto, raggiunto da tre delle quattro legioni di Pansa, lentamente si avviava per Vercelli ed Ivrea verso la Valle d’Aosta e il Piccolo San Bernardo533 (usiamo i nomi moderni); Antonio, giunto il 15 maggio a Forum Julii534 (Fréjus), si avanzava arditamente verso l’esercito di Lepido composto di sette vecchie legioni di Cesare, che era a Forum Voconii ventiquattro miglia distante535. Il momento critico avvicinava. Potevano queste legioni impugnare le armi contro un loro antico generale, il quale giungeva alla testa di tanti vecchi commilitoni come il perseguitato vendicatore di Cesare, a domandare aiuto per sè, per il partito che voleva mantenute le antiche promesse e ne aggiungeva di nuove, in un tempo in cui tanto si esaltava lo spirito di solidarietà tra gli antichi eserciti del dittatore? In verità il proconsole della Narbonese disperava di poter resistere alla inclinazione dei soldati per Antonio; ma, uomo debole e mediocre, voleva farsi far violenza dai soldati, illudere gli altri e sè stesso di essere stato costretto. E Antonio secondò abilmente questo segreto desiderio del collega, dando principio a una commedia ben bizzarra, non appena tra il 15 e il 20 maggio i due eserciti si alloggiarono sulle due sponde del piccolo fiume Argenteus536: Antonio, senza far drizzare l’accampamento e quasi offrendo il petto al nemico, se aveva cuore di colpire; Lepido, fortificando e guardando il campo come se avesse innanzi un nuovo Annibale537. Quando Silano e Culleone comparvero nel campo, Lepido li rimproverò aspramente per aver aiutato Antonio e poi.... li punì lasciandoli in ozio, per misericordia, come egli scrisse al Senato538; mandò a sollecitare Planco, il quale dopo aver ricevuta la lettera di Decimo si era fermato ad aspettarlo a Grenoble, ma nel tempo stesso lasciava unire i due campi con un ponte di barche539; accoglieva un gran numero di falsi disertori, che sotto colore di abbandonare Antonio venivano invece nel suo campo a intrigare per lui, fingendo di crederli disertori veri e scriveva perfino al Senato che l’esercito di Antonio diminuiva a vista d’occhio540; rassicurava il Senato che le sue legioni non sarebbero venute meno al dovere541, e poi lasciava che fossero senza tregua tentate alla ribellione dagli ufficiali, specialmente da due che si chiamavano Canidio e Rufreno542, dai messaggi di Antonio, portati non si sapeva da chi, mormorati e ingranditi da orecchio ad orecchio543. Un giorno Antonio, forse credendo il frutto maturo, andò con i capelli scarmigliati, la barba lunga, una veste nera, sulle rive dell’Argenteo, là dove il ruscello era più piccolo; e incominciò ad arringare di là dal fiume i soldati di Lepido.... Trassero questi in gran folla e il campo fu messo a romore; ma Lepido ebbe paura di un tradimento così palese, accorse con i trombettieri e assordò i soldati in modo da non far loro intendere una sillaba di quello che Antonio diceva544. Ricominciarono tra i due campi il via vai e gli intrighi; i soldati della decima legione si sbracciavano a persuadere i compagni545; il solo ufficiale che fosse sinceramente, fermamente devoto alla causa conservatrice, un certo Juvenzio Laterense546, ammoniva continuamente Lepido sul pericolo di una rivolta, lo consigliava di prendere questo o quel provvedimento547: Lepido faceva sembiante di spaventarsi, ringraziava, assicurava che farebbe; e poi non faceva nulla. Anzi scriveva a Planco, il quale era partito il 21 lasciando intatto il ponte per Decimo, di non venir più al soccorso548; e lasciava impunemente i soldati fare dimostrazioni in favore di Antonio anche in sua presenza549. In breve, qualche giorno dopo, all’alba del 29 maggio550, il frutto maturo si spiccò dal ramo. Antonio guadò con un piccolo gruppo di soldati il ruscello; dal campo i soldati di Lepido ruppero la palizzata, gli vennero incontro, lo presero in mezzo e lo portarono acclamando alla tenda di Lepido, che era ancora in letto e che uscì fuori discinto ad abbracciare e baciare Antonio551. In mezzo al tripudio del campo, Laterense si uccise sotto gli occhi dei soldati552. Il dì seguente Lepido scrisse una breve lettera al Senato, che si direbbe canzonatoria: raccontando che la pietà aveva vinto i soldati e anche lui; che sperava non apporrebbero a delitto la misericordia sua e delle legioni!553

[43 a. C. Giugno.] A Roma, quando verso l’8 di giugno si ebbe notizia di questo evento, grande fu lo sdegno e lo sgomento. Il Senato deliberò alla fine precipitosamente tante cose che erano invano proposte da tanto tempo: che Marco Bruto e Cassio venissero con l’esercito in Italia; che si affrettasse l’arrivo delle legioni africane; che Sesto Pompeo fosse posto a capo della flotta con il titolo di praefectus classis et orae maritimae e con i poteri che suo padre aveva avuto durante la guerra contro i pirati554; che si imponesse il tributum o prestito forzoso di guerra. Infine si affidò a Ottaviano il comando della guerra contro Antonio, credendo così di placarlo555. Ma una nuova difficoltà nacque: la proscrizione di Lepido. Cicerone, sempre pronto ai propositi risoluti, la aveva subito proposta; ma Lepido aveva troppi parenti e troppi amici a Roma; ma sua suocera, la potente Servilia, si affannava tanto a salvarlo!556 Si riuscì a far differire la deliberazione; e si perdè così l’effetto della prontezza, che nelle rivoluzioni è il maggiore. Qualche notizia migliore giunse di lì a poco: Planco, ricevuta notizia di quel che era avvenuto il 29 maggio sull’Argenteo, era tornato indietro557; Decimo aveva, per Vercelli e Ivrea, risalita la valle d’Aosta, dove gli astuti Salassi, minacciando di chiudergli la via, gli avevano fatta pagare una dramma per soldato558; e, valicato il Piccolo San Bernardo, si era unito con Planco a Grenoble nella prima metà di giugno. Ma poi scoppiò all’improvviso uno scandalo. Ottaviano commetteva in quel momento supremo un errore gravissimo: volgeva di nuovo il pensiero all’accordo con i conservatori e pensando di potere in quello sgomento indurre il Senato a concedergli la dispensa per il consolato, incitò di nuovo Cicerone a fare la proposta559. E Cicerone questa volta, sedotto dall’ambizione di essere console la seconda volta, si risolvè.... Ma la nuova ambizione di Ottaviano fu questa volta giudicata così male, non solo dagli irosi conservatori, ma da tutto il pubblico imparziale, che nessun magistrato osò prendere parte per lui; e Cicerone dovè deporre l’idea, cercare di dissuaderlo560. Anzi gli animi di molti già avversi a lui si inasprirono ancora di più; si disse che aveva fatto assassinare Irzio nella battaglia e avvelenare Pansa ferito per l’ambizione del consolato561. Cosicchè ben presto tutti ricaddero nella consueta incertezza, e verso la fine di giugno nessuno faceva più nulla: Planco e Decimo aspettavano Ottaviano; Ottaviano, ormai certo che la speranza del consolato era vana, scriveva che verrebbe subito, ma non si muoveva562; Antonio riordinava le sue legioni con l’aiuto di Lepido, ma restava nella Narbonese; molti si immaginavano che Bruto e Cassio arriverebbero da un giorno all’altro, e invece non si riceveva alcuna lettera. Cassio era lontano, in gran travaglio per combattere Dolabella; e quanto a Bruto.... Il debole e nervoso cospiratore era ricascato in una grande prostrazione fisica e morale, soffriva di stomaco563, si lasciava menare per il naso dall’astuto Caio Antonio, invece di applicare anche a lui il decreto di proscrizione contro i seguaci del fratello fatto il 26 aprile; biasimava aspramente, abbindolato da costui, la benevolenza di Cicerone per Ottaviano564; si ostinava nell’idea di venire piuttosto a ragionamenti d’accordo con Antonio; si angustiava molto per la imminente proscrizione di Lepido e scriveva agli amici di Roma raccomandando loro la sorella e i nipoti che la proscrizione rovinerebbe565; non faceva nessun apparato per passare il mare e venire in Italia, anzi pensava a una spedizione contro i Bessi. A Cicerone toccava insomma il supremo dolore delle rivoluzioni: azzuffarsi con gli amici più cari, venire in discordia anche con Bruto! Alla fine il 30 giugno Lepido fu dichiarato nemico pubblico; ma si interpose un nuovo differimento tra la minaccia e il castigo: si diè tempo ai soldati di ottenere il perdono sino al 1° settembre, abbandonando il proconsole566.

[43 a. C. Luglio.] Senonchè le cose erano ormai in così veemente movimento che dovevano precipitare, non ostante le paure, le esitazioni, le incertezze, gli sforzi di tanti per trattenerle. Antonio e Lepido non indugiavano senza ragione nella Gallia Narbonese. I congiurati e i conservatori, non ostante la paura di cui erano pieni, avevano riconquistato quasi tutto l’impero, di cui Antonio pareva nel luglio e nell’agosto precedente avere loro tolta la signoria: avevano in Europa le dieci legioni di Decimo che era sicuro, le cinque di Planco e le tre di Asinio, che parevano fedeli; forse anche le otto di Ottaviano, che nessuno capiva bene quel che volesse fare: avevano inoltre conquistato l’Oriente, dove Bruto aveva accresciuto a sette il numero delle legioni con nuovi reclutamenti e dove Cassio con le sue dieci legioni vincerebbe presto Dolabella. Inoltre Sesto Pompeo da Marsiglia veniva raccogliendo in tutti i porti del Mediterraneo navi, comprava e arruolava marinai in Africa, preparava una armata. Che cosa potrebbero essi fare contro tanti nemici con sole quattordici legioni? Era necessario ricomporre un grande esercito cesariano in Occidente, inducendo il maggior numero dei generali di Europa a unirsi a loro o portando loro via le legioni se ricusavano; non era più possibile ostinarsi nella inimicizia con Ottaviano. Per fortuna a riconciliare i due rivali era pronto il necessario paciere, l’onesto sensale di questo grande mercato politico: Lepido567, il più anziano dei tre, il vecchio amico di Cesare, che era rimasto in disparte dalla contesa. Pratiche furono avviate con Planco ed Asinio, che erano stati amici di Cesare; e messaggi furon mandati ai loro eserciti a spandere inviti, sospetti, promesse, per ripetere il doppio gioco di trarre i soldati per mezzo dei generali e i generali per mezzo dei soldati: pratiche di riconciliazione furono pure avviate con Ottaviano da Lepido. Il momento era opportuno. Ottaviano, ormai deluso nelle speranze poste per il consolato sui conservatori e il Senato, spaventato di vedere rinata a un tratto la forza del nome di Pompeo e il giovane Sesto già investito di una autorità maggiore che la sua, si ricordava nuovamente sui primi giorni di luglio di essere il figlio di Cesare; e abbandonata l’idea di accordarsi con i conservatori, riprendeva a gareggiare con Antonio come agitatore della causa cesariana. Fece naturalmente buon viso alle offerte di Lepido; e incoraggiato da queste, indusse copertamente i soldati a fare delle dimostrazioni in cui gridarono che non avrebbero mai combattuto contro soldati di Cesare568; si finse, come Lepido, violentato dalle legioni; tenne loro degli ardenti discorsi in lode del padre, promettendo che, eletto console, provvederebbe a dare loro le ricompense; e così alla fine li persuase a mandare a Roma una deputazione di centurioni e soldati a domandare queste ricompense, la elezione di Ottaviano a console e l’annullamento della proscrizione di Antonio569. L’ambasciata giunse a Roma verso il 15570 di luglio, proprio quando i conservatori erano inquieti, non ricevendo notizia che Bruto venisse in Italia; quando Cicerone era quasi interamente screditato dalle mene sempre più sospette di Ottaviano; quando da tutta Italia giungevano notizie sul grande scontento di cui era cagione anche nelle classi ricche il tributum571. Comparvero invece baldanzosi i centurioni nell’aula del Senato! Ma la loro insolenza irritò talmente, che alla fine il Senato li mandò via in malo modo572. Nella terza decade di luglio Ottaviano conobbe questa risposta; e allora, sempre incoraggiato dalle speranze dell’accordo con Antonio e Lepido, si risolvè a tentare il supremo ardimento: quando i soldati si recarono da lui a offrirgli le insegne consolari, fingendo di esser costretto accettò e si mise in cammino con le otto legioni.

Se le prime mene di Lepido e Antonio avevano indotto Ottaviano ad atteggiarsi nuovamente a cesariano e a demagogo, questa audace mossa di Ottaviano a sua volta incitò Antonio e Lepido a sobillare con indefessa alacrità gli eserciti di Planco e di Asinio, a tentare anche quelli di Decimo. Era necessario che essi non si lasciassero superare dall’antico rivale e nuovissimo amico! Uno sfrenato turbine di promesse infuriò attraverso le milizie mentre Ottaviano marciava su Roma, e facendo tremare la fedeltà delle legioni alle sue basi scosse la volontà già esitante dei generali: ancora una piccola spinta e gli eventi precipiterebbero nella china fatale. La spinta la darebbe Ottaviano, se la sua spedizione riuscisse, risollevando dappertutto gli spiriti della parte cesariana, dando coraggio agli incerti. A Roma all’avvicinarsi dell’esercito scoppiò un panico immenso; le donne e i bambini furon riparati nelle ville vicine e le case barricate573; il Senato spedì alle legioni messi con il denaro promesso per fermarle; Servilia convocò il 25 luglio a casa sua Casca, Labeone, Scapzio e Cicerone, che si disperava pensando essere egli stato il primo autore della potenza di Ottaviano574. Deliberarono insieme un nuovo invito a Bruto affinchè venisse in Italia575. Servilia, Niobe dell’ultima rivoluzione di Roma, simboleggiante con la sua famiglia la tragica discordia di quell’aristocrazia troppo potente, aveva un genero a capo e un figlio nell’esercito che innalzava lo stendardo della vendetta del suo grande amico, contro i due capi della congiura che erano un figlio ed un genero suo! Ma Ottaviano indusse i messi del Senato a tornare indietro, facendo loro credere che lungo la via fossero appostati molti sicari576; e allora la maggioranza del Senato spaventata si rivoltò contro i Pompeiani, non sentì che la propria paura e in un eccesso di vigliaccheria cedè in ogni cosa: deliberò che si dessero i 20 000 sesterzi, non alla sola legione di Marte e alla quarta, ma a tutte; che Ottaviano fosse nella commissione per l’assegnazione delle terre; che potesse domandare in assenza il consolato. E inviò messi velocissimi ad annunciare ogni cosa al giovane generale577. Ma i messi erano appena partiti che si seppe essere giunte ad Ostia le legioni dell’Africa – quella di Sardegna sembra fosse già in Roma da qualche tempo –; i pompeiani, i parenti dei congiurati, Cicerone ripresero potere sulla maggioranza indifferente, la indussero con una nuova paura ad annullare le deliberazioni, indissero la leva, fortificarono la città; cercarono anche la madre e la sorella di Ottaviano per tenerle in ostaggio578. Cosicchè i messi del Senato, arrivati appena all’esercito, furono raggiunti da altri che disdissero tutto quello che avevano detto, irritando ancora più i soldati579. Ottaviano allora mandò innanzi emissari che si mescolassero al popolo nelle taverne, sul Foro, nelle viuzze dei quartieri plebei per tranquillarlo, assicurandolo che egli veniva senza malvagie intenzioni, e che persuadessero con promesse le legioni d’Africa (erano antiche legioni di Cesare) a ribellarsi. Al suo arrivo a Roma, quando le legioni d’Africa e di Sardegna si dichiararono per lui580, tutti furono trascinati; la città si arrese e dei conservatori, pochi giorni prima così potenti ed ora annichilati, i più arrabbiati fuggirono. Il giorno dopo il figlio di Cesare entrò in Roma con una scorta; abbracciò sul Foro la sorella e la madre, che erano state nascoste dalle Vestali nel tempio; fece un sacrificio a Giove capitolino; ricevè molti senatori e Cicerone, con il quale pare avesse un colloquio piuttosto freddo; poi ritornò fuori all’esercito, mentre il Senato preparava l’elezione. Il 19 agosto, compiute rapidamente le formalità, egli e il suo parente Quinto Pedio erano eletti consoli581.

[43 a. C. Agosto.] E allora quello che i conservatori avevano temuto da un anno, avvenne: dopo aver fatta convalidare dai comizi curiati la sua adozione; dopo avere sborsata con denari pubblici ai soldati una parte del premio e al popolo una parte del legato di Cesare, Ottaviano fece a pieno ciò che Antonio aveva osato soltanto a metà: fece proporre da Q. Pedio e facilmente approvare dai comizi una legge contro tutti gli autori e i consapevoli della uccisione di Cesare, perchè fossero condannati all’interdictio aqua et igni e alla confisca da un tribunale speciale582. Un’altra volta la capricciosa fortuna aveva rovesciate le sorti dei partiti. L’amnistia del 17 marzo 44, il capolavoro di Cicerone, era annullata; Erofilo, l’oscuro veterinario della Magna Grecia che primo aveva incitato il popolino a vendicare il dittatore trucidato, vinceva; avevano avuto ragione coloro i quali non si erano mai fidati di Ottaviano. E difatti in pochi giorni gli amici di Ottaviano, allettati dalla parte dei beni del condannato che spettava all’accusatore, si spartirono i congiurati come una preda e ciascuno accusò questo o quello; cosicchè in breve furon tutti condannati in contumacia: anche Casca, che era tribuno; anche Bruto, che allora combatteva contro i Bessi; anche Cassio, di cui Agrippa fu l’accusatore; anche Decimo, che unitosi con Planco aspettava i soccorsi di Ottaviano per combattere Antonio; anche Sesto Pompeo, che dell’uccisione di Cesare non aveva colpa alcuna, ma che – delitto maggiore – aveva ricevuti i poteri straordinari di suo padre nella guerra dei pirati583. Il partito cesariano era padrone in Roma, nella repubblica e in Italia, con Ottaviano a capo di un esercito di undici legioni; nella Gallia Narbonese, con le quattordici legioni di Lepido e Antonio: l’effetto di questo successo non tardò molto. Asinio Pollione, i cui soldati già da tempo vacillavano, che era ben disposto verso Ottaviano per gratitudine a Cesare, e che solo al fondo della Spagna con tre legioni non poteva far nulla, si risolvè alla fine e in settembre divise le sue legioni tra Antonio e Lepido, dandone due al primo, una al secondo584. Restavano i due eserciti di Bruto e di Planco: ma Planco, se per la paura di perdere il consolato dell’anno prossimo, era stato sino allora così fedele al Senato, non poteva non abbandonare Decimo Bruto dopo la sua condanna, se non voleva cimentarsi nel tempo stesso con Antonio, Lepido, Ottaviano ed Asinio585. Egli e Decimo avevano quindici legioni; gli altri insieme ventotto: poteva egli, mediocre capitano, osare tanto? E anche Planco tradì. Delle sue cinque legioni tre furono prese da Antonio, due da Lepido586. Decimo, abbandonato da Planco e proscritto, tentò di raggiungere per via di terra Bruto sino in Macedonia con il suo esercito e si pose in cammino; ma le promesse che avevano già vinto tanti eserciti, l’esempio, una specie di furore cesariano che pervadeva le milizie travolsero nel vortice comune anche queste legioni, che la lunghezza e asprezza del viaggio spaventava. Per la strada i soldati, alla spicciolata, in piccoli drappelli, in coorti cominciarono ad abbandonarli per passare ad Antonio e ad Ottaviano; alla fine l’esercito si sbandò, le quattro legioni vecchie e migliori si avviarono per raggiungere Antonio e Lepido; le altre sei per andare da Ottaviano; sinchè Decimo, ridotto a ramingare fuggiasco con pochi uomini, fu preso da un capo di barbari nelle Alpi, che per ordine di Antonio, a cui pure Decimo aveva salvato la vita nella congiura, lo uccise587. Ma egli doveva ormai atteggiarsi a vendicatore di Cesare per competere efficacemente con Ottaviano! [43 a. C. Settembre – Ottobre.] Il partito conservatore aveva perduto l’ultimo esercito e l’ultimo generale che gli restasse in occidente; aveva perduta l’Italia e le provincie d’Europa, senza speranza per il momento, almeno se tra i capi della nuova rivoluzione cesariana non scoppiava qualche nuova discordia.

Ma anche questa speranza, se pur qualcuno ancora si illudeva, svanì presto. La concordia era imposta ormai da un fatto più forte della volontà e dei capricci di ognuno: l’esercito di Bruto e di Cassio in Oriente. Cassio aveva vinto in giugno a Laodicea Dolabella che si era ucciso; gli aveva preso due legioni portando a dodici il numero delle sue; cosicchè tra l’uno e l’altro possedevano tutto l’Oriente, cioè la parte ricca dell’impero, con diciannove legioni. In tutto il mese di settembre un gran numero di messaggi dovettero esser scambiati tra Lepido, Antonio e Ottaviano; e a poco a poco il disegno dell’accordo cominciò ad essere tracciato nelle linee generali. Si convenne facilmente a distanza nel pensiero di ristabilire la dittatura di Cesare, spartendola tra loro tre, facendosi nominare dal popolo triumviri reipublicae costituendae, con i pieni poteri che Cesare aveva avuto negli ultimi anni. Ma se l’accordo nel disegno generico era facile, bisognava anzi tutto rassicurarsi a vicenda con arre di pace, era necessario risolvere tante questioni secondarie e pur gravi, venire a un convegno: e le due cose erano piene di difficoltà, tanta era la diffidenza tra Ottaviano ed Antonio. Dove e come i due rivali si sarebbero ritrovati? Intanto bisognava avvicinarsi. Ottaviano partì da Roma con le undici legioni, dicendo che andava a combattere Antonio e Lepido, secondo gli ordini del Senato588; Lepido e Antonio, lasciato Vario Cotila nella Gallia transalpina con cinque legioni, scendevano in Italia, con diciassette legioni e 10 000 cavalli589; mentre erano in viaggio, Ottaviano fece da Q. Pedio proporre e approvare al Senato di togliere la proscrizione contro Antonio e Lepido590. Era una considerevole caparra: ma era pur sempre difficile stabilire un convegno in modo che non ci fosse luogo a sospetto o a paura! Pure alla fine si trovò il luogo, ma così singolare, che basta solo a dimostrare quale opinione avessero l’uno dell’altro i due politicanti che si accingevano a stringere una alleanza. Si convenne cioè di ritrovarsi in un isolotto formato presso la via Emilia e Bologna, alla confluenza del Reno e del Lavino, che pare sboccasse allora non nel Samoggia ma nel Reno; isolotto che era collegato alle due rive da due ponti591. In questo luogo tutti e tre avrebbero potuto passare nell’isola, lasciando ciascuno i soldati al di là dei due ponti, e parlare sotto gli occhi delle legioni, senza essere in grado di tentare nessuna violenza o sorpresa. Verso la fine di ottobre i due eserciti giunsero l’uno in vista dell’altro al di qua e al di là dell’acqua; si accamparono a una certa distanza; una tenda fu preparata sulla isola o penisola; e una mattina Ottaviano da una parte, Lepido e Antonio dall’altra, si avvicinarono con una scorta ai due ponti che davano sulla piccola terra. Lepido entrò per primo e solo, osservò che tutto fosse senza sospetto, fece cenno all’uno e all’altro con la veste di avanzarsi. Ottaviano e Antonio si avvicinarono, si salutarono, si frugarono a vicenda per assicurarsi che non avevano armi; e con Lepido si ridussero sotto la tenda592.

XI.
LA STRAGE DEI RICCHI E FILIPPI.

[43 a. C. Ottobre – Novembre] Quel che si dissero sotto quella tenda i tre uomini nei due o tre giorni593 che la discussione durò, non seppero i contemporanei e naturalmente non sappiamo noi; perchè informazioni autentiche non potevano essere date che dall’uno o dall’altro dei tre personaggi, ciascuno dei quali ebbe poi troppe ragioni di buttare la colpa di quel che seguì sugli altri due. È necessario quindi restringersi a narrare i risultati, questi pur troppo ben noti, del colloquio. La situazione doveva apparire ai tre generali – ed era infatti – terribile. Essi erano costretti a risolvere il “problema di Archimede”, come dicevano gli antichi; la quadratura del circolo, diremmo noi. Dopo la lex Pedia e la rivolta di tante legioni, la guerra con Bruto e Cassio, cioè con l’ultimo esercito del partito conservatore, era inevitabile; e quindi essi non potevano congedare neppure una delle 43 legioni di cui erano a capo, non potevano mancare alle stravaganti promesse fatte a questi 120 000 uomini nel furore della lotta, dovevano mantenere gli altri 30 o 40 000 uomini, tra ausiliari e cavalleria, che seguivano il loro esercito. Avevano fatto il conto all’ingrosso, che per fare la guerra a Bruto e a Cassio erano necessari più che 800 milioni di sesterzi – circa 200 milioni di franchi594. Ma i triumviri non avevano denaro; l’erario, che Ottaviano aveva saccheggiato in agosto per pagare soldati e plebe, era vuoto; cadute le provincie più ricche dell’Oriente e specialmente l’Asia in potere dei nemici, non bastavano più a tanto dispendio le povere provincie d’Europa e l’Italia disavvezza da più di un secolo a pagare imposte e anche allora così restia e dura al tributum ristabilito dal Senato. Insomma questa grande rivoluzione nei comandi militari delle provincie europee era riuscita, perchè i tre amici avevano profuso promesse che non potevano mantenere con i modi ordinari. E allora il sentimento che nella vita spinge a compiere il maggior numero degli atti temerari, e cioè la paura: la paura di essere abbandonati dai soldati nella ultima guerra contro i conservatori, insieme con la fatale necessità in cui così spesso si trovano i capi delle rivoluzioni di andare innanzi precipitosamente non essendo più in grado di tornare indietro, li spinse a prendere risoluzioni terribili, che qualche mese prima probabilmente avrebbero spaventati tutti e tre. Si deliberò che tutti e tre d’accordo si sarebbero impadroniti, spartendoselo, del potere assoluto; che avrebbero con quello fatta una grande confisca delle classi ricche e appagato alla meglio i soldati con i loro beni; che poi si sarebbero affrettati a muover guerra a Bruto e a Cassio in Oriente, non essendo da sperare che essi venissero ad assalirli in Italia ed urgendo far presto. Le tre cose erano unite tra loro indissolubilmente: senza il potere dittatoriale non era possibile fare così grande confisca; senza la confisca non era possibile intraprendere la guerra. Ottaviano dunque deporrebbe il consolato; e con legge approvata dai comizi, non però con il nome di dittatori595 ma di triumviri reipublicae costituendae, sarebbe loro stata attribuita per cinque anni oltre il tempo dell’anno in corso, e cioè sino al 1° gennaio del 37596, una potestà costituente simile a quella di Silla e di Cesare, che comprenderebbe: la facoltà di fare leggi597, la giurisdizione criminale senza restrizione, appello e procedura598, i poteri sovrani dei consoli su tutto lo Stato599, il diritto di imporre tasse, di indire leve, di nominare i senatori, i magistrati di Roma e delle città, i governatori delle provincie600; il diritto di espropriare, assegnare terre, fondare colonie601, di far coniare le proprie imagini sulle monete602. Le provincie sarebbero spartite, mentre tutti e tre si accordavano di provvedere in comune a Roma e all’Italia; Ottaviano, che tra tutti aveva minor numero di soldati e minore autorità per la sua giovinezza, avrebbe la parte peggiore603: l’Africa, la Numidia, le isole; Antonio, la Gallia capelluta e la Cisalpina; Lepido, la Gallia Narbonese e le due Spagne604. Alla guerra però contro i due congiurati Lepido, che era cognato di Bruto e di Cassio, non poteva partecipare: andrebbero perciò Antonio e Ottaviano, prendendo il comando di 40 delle 43 legioni di cui disponevano, 20 per ciascuno, mentre Lepido resterebbe con tre legioni alla guardia dell’Italia. Si fece poi una lista di un centinaio tra i più opulenti senatori e di circa 2000 tra i ricchi cavalieri, alieni dalla politica e dati ai traffici605, condannando gli uni e gli altri alla morte e alla confisca dei beni; ai quali si aggiunse un certo numero di avversari politici, per togliere al partito conservatore i pochi uomini restati in Italia che avevano vigore e abilità, per spaventare quelli che volessero ripetere la congiura delle Idi di Marzo contro i nuovi capi del partito popolare, per far ciascuno le proprie vendette. Sembra che su questo punto avessero luogo molte dispute, ciascuno volendo salvare amici e parenti: ma Antonio era pieno di odio contro i suoi persecutori. Lepido e Ottaviano pieni di paura; cosicchè alla fine fu compilata una lista, da cui si scelsero, chi dice dodici e chi diciassette606 vittime privilegiate, le quali dovevano sicuramente morire: Cicerone tra questi, da Ottaviano abbandonato alla vendetta di Antonio. Anzi si mandò ordine a Quinto Pedio di uccidere subito costoro, prima ancora che la legge sul triumvirato desse loro facoltà di condannare a morte i cittadini. Deliberarono anche di promettere solennemente a guerra finita di dare subito ai veterani di Cesare, che non avevano ricevuto nulla, le terre promesse dal dittatore607; ma dubito assai che si deliberasse già allora questa distribuzione nel modo in cui avvenne. Si nominarono i magistrati per l’anno prossimo – tutti amici, naturalmente: per quell’anno console, in luogo di Ottaviano, Ventidio Basso, a ricompensa della fedeltà mostrata ad Antonio dopo la ritirata da Modena608; e per l’anno prossimo Planco e Lepido. Si convenne anche, pare a richiesta dei soldati, che Ottaviano sposerebbe la figliastra di Antonio, la figlia di Clodio e di Fulvia609.

[43 a. C. Novembre – Dicembre.] Così il dispotismo militare, che due anni prima era esercitato da un uomo di grande intelletto, era di nuovo stabilito e, quel che è peggio, spartito fra tre persone: un uomo ragguardevole, non ostante i suoi difetti; un ragazzo di venti anni; un uomo mediocre ed oscuro. Chi avrebbe predetto a Lepido, un anno prima, tanta fortuna? Ma nelle rivoluzioni avviene sovente che un uomo qualunque, non importa se mediocre o grande, possa, nella breve stretta di un frangente supremo, conquistare una condizione eminente in compenso di servigi per il momento importantissimi e per qualche tempo godersela: quando poi l’occasione fugace della fortuna si ritrarrà, simile all’onda altissima della tempesta che cade, riporterà giù con sè l’uomo salito a altezze immeritate, se costui non ha saputo aggrapparvisi saldamente in quel breve istante. Per riconciliare Antonio con Ottaviano e ricomporre la unità del partito cesariano, era stato necessario un mediatore; Lepido solo aveva potuto rendere questo servigio; e la partecipazione al triumvirato ne era il compenso. Quanto durerebbe Lepido in quella condizione così grande? Non si era già lasciato indurre a non tenere per sè che tre legioni? Ma di questo deciderebbe l’avvenire. Intanto era degno di nota – e deve considerarsi come un altro effetto delle Idi di Marzo – che i tre complici non osarono chiamarsi dittatori ma riordinatori dello Stato; che fissarono al loro potere il termine di cinque anni, a significare che il loro dispotismo era solo una breve parentesi nella lunga storia costituzionale di Roma. In altre parole essi non osavano affrontare come Cesare la superstizione repubblicana, il bigottismo costituzionale delle alte e medie classi, rinvigorito dopo la strage del dittatore; e nell’atto di distruggere la repubblica, cercavano di nascondersi, rendendo un platonico omaggio ai principii repubblicani, rispettando la recente legge di Antonio che aboliva la dittatura. Ma il pubblico non ebbe lì per lì tempo e modo di ammirare queste sottigliezze formali. Si scherzò in principio un po’ rabbiosamente sulla nomina a console di Ventidio Basso, l’antico conducente e mulattiere, il primo che di sì basso luogo fosse asceso così alto, offendendo tutti i pregiudizi aristocratici e irritando tutte le invidie democratiche; anzi di lì a poco, quando Ventidio eresse in un tempio una statua ai Dioscuri, un bello spirito scrisse contro di lui una mordace parodia della celebre poesia di Catullo:

Phaselus ille quem videtis, hospites....610

Ma non si scherzò più, quando verso il 15 novembre, poco dopo giunta la notizia della costituzione del triumvirato, Quinto Pedio, inorridito egli per primo da un ordine così crudele, dovè mandare i sicari a uccidere i dodici condannati, e quattro ne furono trovati ed uccisi. Un folle terrore invase la città a questo primo boato foriero del terremoto da tanto tempo temuto; Pedio dovè uscire, percorrere disperatamente la città tutta la notte, per tranquillare la popolazione; e infine alla mattina dopo, non sapendo che altro fare, pubblicò di sua testa un editto, in cui assicurava che solo dodici erano condannati. Ma quasi ad accrescer l’orrore il giorno dopo Quinto Pedio morì improvvisamente611. Ed ecco al primo boato seguir la scossa, terribile. Il 24, il 25, il 26 novembre, uno dopo l’altro, Ottaviano, Antonio, Lepido entrarono in Roma, ciascuno con una legione e la coorte pretoria; fecero approvare il dì dopo, il 27, su proposta di L. Tizio e senza promulgazione la lex Titia, che stabiliva il triumvirato sino al 31 dicembre del 38612; nominarono Caio Carrinate, un vecchio ufficiale di Cesare, console in luogo di Pedio; poi incominciarono a pubblicare le liste dei proscritti, promettendo premi vistosi a coloro che, liberi o schiavi, li denunciassero o uccidessero; lanciando i soldati alla caccia delle teste per tutta Roma e l’Italia; minacciando la morte e la confisca a chiunque, fosse pure il più stretto parente, li nascondesse o li aiutasse a fuggire; sciogliendo insomma tutti ad un tratto dagli obblighi convenzionali e legali di fedeltà, di reverenza e di affetto: il signore dal servo, il patrono dal cliente, l’amico dall’amico, il marito dalla moglie, il padre dai figli. Terribile fu lo scompiglio che ne nacque. Ognuno, buttati via subitamente gli abiti inveterati dell’educazione, le ipocrisie quasi inconsapevoli, le studiate simulazioni, seguì l’istinto suo vero; onde, come nella tenebra notturna si discernono netti, al chiarore improvviso di un immenso lampo che incendia il cielo, il tronco e i rami dei grandi alberi, così a questo colpo di folgore si videro nettamente i molteplici rami dei nuovi vizi e delle nuove virtù cresciuti sul tronco poderoso della antica vita romana con la ricchezza, il potere, la cultura613. Negli uni l’egoismo, la mollezza nervosa, l’isterica fame di vivere che genera la civiltà con l’abbondanza dei godimenti intellettuali e sensuali proruppero a un tratto in ferocie o viltà senza esempio. Superbi senatori che avevan vestito il paludamento consolare e governato simili a re provincie immense, si travestirono da vuotacessi o da schiavi; abbracciarono le ginocchia dei loro servi supplicandoli di non tradirli; si appiattarono nei solai, nelle fogne, nei solitari sepolcreti delle campagne. Altri smarritisi e indugiando tra sospiri, pianti e lai si lasciarono cogliere; altri corsero incontro ai loro carnefici per esser presto liberati dalla aspettazione della morte, più dolorosa assai della morte. Dei servi uccisero con le proprie mani il padrone; delle mogli ottennero di far inscrivere sulle liste di morte il marito detestato, oppure, dandogli a intendere di salvarlo, lo trassero nelle mani dei carnefici; molti figli denunciarono il nascondiglio del padre. I giovani sopratutto si mostrarono vili in questo cimento terribile614; segno che la nuova generazione dei nati intorno al 60, a cui apparteneva Ottaviano, era ancora più eccitabile, paurosa della morte e della povertà, feroce e vile nello spavento che i vecchi coetanei di Cesare. Altri invece dalla morte imminente sentirono esaltato in sè quanto restava della antica ferocia romana; si asserragliarono in casa, armarono i servi, fecero una carneficina prima di essere uccisi; un vecchio sannite, un avanzo della guerra sociale proscritto a ottant’anni per le sue ricchezze, fece gettare dai servi nella via ai passanti l’oro, l’argento e la suppellettile preziosa che possedeva, per derubare i suoi carnefici; poi diede fuoco alla casa e si gettò nelle fiamme. In altri invece rifulsero la bontà, la generosità, la abnegazione, le virtù belle della specie umana, che la civiltà esalta in certuni, rendendo gli spiriti eletti più consapevoli dei loro doveri; onde si videro umili servi, giovini figli inesperti, timide donne contender d’astuzia con i carnefici; nascondere il padrone, il padre, il marito a rischio della propria testa, preparargli la fuga, impetrargli perdono dall’uno o dall’altro dei triumviri, talora immolarsi per lui. Qualche servo fedelissimo prese financo le vesti e il luogo del padrone, per farsi uccidere in vece sua dai carnefici frettolosi. I più tentarono di fuggire al mare, per trovar qualche nave che li portasse in Oriente o da Sesto Pompeo, che alla notizia degli eventi di Roma era accorso con la flotta in Sicilia, vi era sbarcato e tentava di persuadere il riluttante governatore a riconoscere come legittimo l’alto comando sulle coste attribuitogli dal Senato615. Egli cercò di venire in aiuto ai perseguitati, pubblicando editti nelle città dell’Italia, in cui prometteva per ogni proscritto salvato una ricompensa doppia di quella promessa per l’uccisione; mandando lungo le coste dell’Italia molte navi a raccogliere i fuggiaschi o a mostrare la via ai legni che navigavano con piloti inesperti616. Ma molti erano presi per via; ogni giorno arrivavano da tutte le parti d’Italia frotte di soldati recanti nei sacchi le teste recise dei nobili senatori o dei ricchi finanzieri proscritti, che erano poi ostentate sul Foro, orribile trofeo di questa tremenda guerra civile; coloro i quali riuscivano a scampare attraverso diverse avventure, con qual cuore riparavano in Oriente o in Sicilia! Essi sapevano che le loro terre erano confiscate, le loro case invase da usurpatori e saccheggiate, le loro famiglie disperse; che non potrebbero più ritornare se non vincendo un’altra guerra civile!

La grande proprietà e l’alta plutocrazia erano sterminate quasi interamente, perchè tutti i senatori e cavalieri molto ricchi, tranne pochi, erano iscritti nelle liste di morte; e tutto era tolto ai proscritti, lasciandosi solo la dote alle vedove, la decima ai figli, la ventesima alle figlie617. I beni delle classi ricche d’Italia, questa parte così cospicua delle spoglie mondiali di Roma, passavano in potere della vittoriosa rivoluzione popolare. Da ogni parte di Roma e d’Italia i triumviri raccoglievano un immenso, molteplice, ingombrante bottino: tutto l’oro e l’argento trovato nelle case dei ricchi cavalieri, di cui molti erano anche usurai; le altre supellettili di valore, il vasellame, le statue, i vasi, i mobili, i tappeti, gli schiavi che adornavano le case eleganti; un gran numero di case di affitto e di palazzi in Roma; le più belle ville del Lazio e della Campania; un infinito numero di poderi coltivati da coloni per tutta Italia; i grandi latifondi dell’Italia meridionale e della Sicilia interna, che erano per molta parte posseduti da ricchi cavalieri di Roma; vaste terre possedute da senatori e cavalieri nella Cisalpina e fuori d’Italia, specialmente in Africa; strumenti vivi e strumenti inerti di lavoro, buoi, carri, cavalli, schiavi abili in arti e mestieri; infine i crediti che molti di questi cavalieri avevano verso terzi e che erano pur confiscati. Tutta questa roba doveva a poco a poco essere messa in vendita; ma primi a servirsi furono i triumviri, ciascuno dei quali volle farsi in pochi giorni un gran patrimonio; onde si presero con la forza per quasi nulla, allontanando dalle aste i concorrenti, tutti i beni che più loro piacquero618. Avrebbe quindi dovuto incominciare la vendita seria al pubblico; ma l’esempio fu imitato; e dopo i triumviri si fecero avanti gli ufficiali, i Rufreni e i Canidii che avevano rischiato la vita per ribellare le legioni, i quali mandarono a tutte le aste dei soldati a cacciar via con minaccie e brutalità i compratori estranei; se qualche malcapitato si ostinava, subito si facevano salire i prezzi rovinosamente, obbligandolo a comprare qualche cosa619. Pur essendo assai malcontenti di questa rapina, i triumviri dovettero rassegnarsi, per non scontentare i soldati620, sperando che, saziati anche costoro, si sarebbe proceduto alle vendite; onde in breve, in mezzo a turbe allegre e insolenti di soldati venuti da ogni parte d’Italia, dalle piccole ma fiorenti città della Gallia cisalpina, dalle montagne della Apulia o della Lucania, dalle decadenti città dell’Italia meridionale, i banditori gridarono in tutti i quartieri di Roma e in molte città d’Italia l’incanto delle spoglie di quella aristocrazia e di quella finanza che aveva saccheggiato con le armi e l’usura l’Impero. Gli spogliatori del mondo erano a loro volta spogliati; e mentre l’antico mulattiero esercitava il consolato, ostentando la vittoria politica delle classi povere sulle ricche, gli immensi patrimoni edificati da queste entro la cerchia di Roma con le macerie di tante civiltà spietatamente distrutte, erano messi a sacco da una orda raccogliticcia. Tuttavia, anche in mezzo a tante rapine, molti dei senatori proscritti riuscirono a fuggire. Le famiglie della aristocrazia di Roma erano legate tra loro da tante amicizie e parentele, che a molti non fu impossibile trovare protettori occulti presso quelli che parevano esserne, in faccia al pubblico ingenuo, i più feroci nemici. Così Caleno salvò Varrone621; così pare che Ottavia, la sorella di Ottaviano e la moglie di Marcello, una dolce, bella e intelligente matrona, intercedesse presso il fratello a favore di molti. Attico, l’imperturbabile amico di tutti, non fu molestato, per volere di Antonio, riconoscente dell’aiuto dato nella sventura alla moglie e agli amici622. Non poterono invece scampare nè Verre, nè Cicerone, ritrovatisi dopo ventisette anni ambedue, accusatore e accusato, sull’orlo del medesimo abisso; proscritto il primo per le sue ricchezze, benchè vecchio e da tanti anni appartato dalla cosa pubblica, a godere in pace il frutto delle antiche rapine623; proscritto il secondo, non ostante la gloria del nome, per l’odio di Antonio e insieme con il fratello, il figlio, il nipote. Se il figlio non fosse stato allora in Grecia, la famiglia era schiantata dalle radici d’un colpo. Così morì – e a tempo, perchè l’opera e l’eta sua erano finite – il più grande uomo, insieme con Cesare e a pari di Cesare, di questa grande età della storia di Roma. Certamente è facile ai numerosi professori moderni, che giudicano a sproposito con il pretenzioso e sciocchissimo senno di poi, deriderne le piccole debolezze, sopratutto quelle incertezze, contradizioni ed esitazioni che del resto furono comuni a tutti gli uomini del suo tempo in misura maggiore o minore, Cesare non escluso, e che di lui ci sono note minutamente solo perchè egli stesso ce le ha raccontate. Ma la importanza storica di Cicerone è ben altra e sta essenzialmente in questo fatto: che nella società romana, in cui per tanti secoli nessuno aveva potuto partecipare al governo se non fosse o un nobile di gran lignaggio o un opulento signore o un guerriero, egli per primo, senza esser nè nobile nè ricco nè soldato entrò a far parte, e tra i primi, della classe dominatrice, governò la repubblica insieme con i nobili, i milionari e i generali, perchè parlava e scriveva stupendamente, perchè sapeva divulgare al gran pubblico in chiaro stile gli astrusi pensieri e le difficili dottrine della filosofia greca. Nella storia di Roma e quindi nella civiltà europea che procede da Roma, egli fu il primo letterato e pubblicista che partecipò al governo; fu il capostipite di una dinastia innumere, corrotta, piena di vizi, ma che durò – e lo storico, anche se la detesta, deve riconoscerlo – più che quella dei Cesari, perchè da lui a noi non ha mai cessato di dominare l’Europa per venti secoli; il capostipite degli uomini di penna, che in tutta la storia della civiltà nostra sono stati a volta a volta i sostegni degli stati e gli artefici delle rivoluzioni, in tutte le forme loro: retori, giureconsulti, poligrafi nell’impero pagano; apologisti e padri della Chiesa poi; chierici, legisti, teologi, dottori, lettori nel medio evo; umanisti nel rinascimento; enciclopedisti nella Francia del secolo XVIII; avvocati, giornalisti, pubblicisti e professori adesso. Abbia pur commessi quanti errori politici si vuole nel tempo suo! La importanza storica di Cicerone non solo eguaglia quella di Cesare, ma è di poco inferiore a quella di Gesù, di Paolo, di Agostino. Giova inoltre osservare che il capostipite ebbe tutte le grandi qualità e solo i vizi più lievi della sua dinastia. Egli era uno di quegli uomini rari anche tra la gente di studio e di penna, che non sentono nè l’ambizione del comandare nè la cupidigia delle ricchezze, ma solo il desiderio di essere ammirati: ciò che è diverso ed è più nobile e puro, anche se talora è cagione di una certa vanità. Difatti egli solo fra tutti gli uomini che ressero allora l’impero di Roma, non fu pervertito interamente dalle orrende arti di governo usate ai tempi suoi; solo, salvò dalla depravazione comune a tutti i politicians contemporanei, Cesare non escluso, quella coscienza elementare del bene e del male, che se non impedisce sempre i piccoli falli di debolezza, sempre però trattiene l’uomo dalle vere nequizie verso gli altri come dalle oscene abiezioni di sè; solo tentò di governare il mondo non con la matta caparbietà di Catone nè con il disgustoso opportunismo degli altri, ma secondo una certa meditata ideologia, sforzandosi di continuare nel disordine dei suoi tempi le istituzioni repubblicane e l’orrore della monarchia asiatica, di conciliare le austere virtù latine con la arte e la sapienza ellenica, di addolcire tutte le dominazioni, quella del padrone sui servi, dei ricchi sui poveri, dei nobili sugli uomini nuovi, degli italiani sui sudditi, temperando con spirito di equità e di dolcezza a un più umano esercizio il cieco e ferreo diritto dei forti. Ridono molto e molto scioccamente i moderni di queste ubbie del buon Cicerone: non ne risero invece i contemporanei, che ne videro tanta parte trionfare quasi per un miracolo inaspettato da tutti, quindici anni dopo.

Ma allora il grande scrittore, scannato dai sicari dei triumviri presso Formia, fu arso in fretta e pianto da pochi in segreto. In mezzo a quella spaventosa bufera ciascuno pensava a salvare sè, nessuno poteva badare al naufragio del vicino. Lo spavento ingrandiva a tutti il pericolo pur così grande e le dicerie più atroci erano subito credute. I tre tiranni volevano tutto rubare, specialmente Ottaviano, odiato più degli altri, perchè salito in fama e potere con una celerità senza esempio nella storia di Roma, che esasperava la invidia di tutti! Di un generale anziano e provetto come Antonio, di un gran signore come Lepido si poteva ancora tollerar la signoria: ma questo ragazzo di ventun’anni, questo figlio di un usuraio (nel furore dell’odio confondevano il padre con il nonno) come aveva meritato di dominare Roma? Si attaccavano per Roma iscrizioni ingiuriose per i suoi antenati624; si diceva che dettasse le sentenze di morte a tavola, gozzovigliando625; che impediva la fine delle stragi, voluta dagli altri due626; che aveva iscritto nelle tavole di proscrizione dei disgraziati solo per rubare loro certi magnifici vasi greci627. Esagerazioni probabilmente, ma intanto i più ci credevano; e anche molti di coloro che non erano stati proscritti e avevano un nome o dei beni fuggivano d’Italia. Fuggì Livio Druso, fuggirono Favonio e molti altri, scacciati dalla paura che le violenze perpetrate sino allora fossero il principio di altre e maggiori: non irragionevole paura pur troppo, perchè i triumviri non solo non potevano trattenere i soldati inferociti, ma dovevano seguirli nei loro saccheggi, portati da quella forza degli eventi, che nella storia e specialmente nelle rivoluzioni fa riuscire tante cose ad effetti ben maggiori delle intenzioni di coloro a cui poi gli uomini ne attribuiscono, come agli autori, l’infamia e la gloria. Quando i triumviri si accinsero a vendere al pubblico le case, le terre, le masserizie, si accorsero presto che le confische non rendevano quanto denaro occorreva loro per la guerra; che il valore venale di questa immensa preda era quasi nullo. Forse molti dei capitalisti uccisi erano meno ricchi che il pubblico non credesse e nel supremo sgomento avevano nascosti, confidati a clienti sicuri, deposti nelle mani delle Vestali i loro capitali628; molto denaro fu forse disperso e trafugato dai servi, dai liberti, dai parenti, dai sicari; pochi potevano comperare per la scarsezza del denaro i beni messi in vendita; di quei pochi, pochissimi osavano, per il timore di essere poi spogliati ed uccisi o per paura dell’odio pubblico, mentre i beni posti in vendita crescevano con le confische di giorno in giorno629. La camorra degli ufficiali spaventava gli altri, cosicchè poca gente andava alle aste e offriva prezzi vilissimi. Non andò molto che i triumviri doverono sospendere la vendita, tanto poco rendeva, lasciare giacente quella proprietà immensa in attesa di tempi migliori, e costretti dal bisogno di denaro, procedere a nuove spoliazioni al principio del 42. [42 a. C] Non solo ordinarono la confisca delle somme depositate dai privati nel tempio di Vesta630, ma aggravarono la misura del tributum già imposto dal Senato: tutti i cittadini, gli stranieri, i liberti che possedevano più di 400 000 sesterzi doverono dichiarare il loro patrimonio e prestare allo Stato una somma eguale al due per cento della loro sostanza e il reddito di un anno, che fu calcolato, a quanto pare, nei casi dubbi al decimo del capitale, non escludendo nemmeno le case abitate dai proprietari, di cui benignamente si volle contare solo il reddito probabile di sei mesi631; quelli che possedevano meno di 400 000 sesterzi doverono contribuire la metà del reddito di un anno632; lo stesso invito di dichiarare il valore delle loro doti fu fatto a 1300 tra le più ricche matrone d’Italia633. Bisognava torchiare l’Italia senza misericordia, per spremere tutti i metalli preziosi che conteneva. Fu anche deliberata la confisca dei beni di quelli che, pur non essendo proscritti, fuggivano, degli “emigrati” del tempo, nella speranza di porre fine alla grande fuga634. Tra tante rapine uccisioni e maledizioni, Rufreno, quell’ufficiale che aveva fatto ribellare le legioni di Lepido, propose ai comizi una legge con cui si dichiarava Giulio Cesare divus e si deliberava non solo di ridrizzare l’ara di Erofilo635, ma di richiudere la Curia di Pompeo e di erigergli un tempio nel Foro, sul luogo dove era stato bruciato. Così dal partito vittorioso soddisfazione era data alle confuse aspirazioni del popolino che aveva preso a venerare dopo la morte il luogo del rogo, introducendo nello Stato questa novità rivoluzionaria, il culto di un cittadino che tutti avevano visto vivo, come si usava in Oriente con i re636.

Gli eventi insomma erano precipitati in modo imprevisto; e dalla proscrizione procedeva un immenso disordine, in mezzo al quale Antonio, esaltato dal successo, dalla vendetta, dalle ricchezze, profondeva il denaro delle confische in un furore di orgie e di feste, tra mimi, cantanti, cortigiane; Fulvia si compensava delle umiliazioni subite con rapine e prepotenze; Lepido invece apparisce in un documento contemporaneo iroso e brutale, come un uomo fastidito da troppe brighe e spaventato637; Ottaviano, terrificato dall’improvviso precipitar degli eventi, sembra oscillare in una continua altalena di clemenza e di ferocia. I suoi nervi non erano temprati a queste bufere! Sin dai primi anni egli era stato uno di quei ragazzi nevrotici, che nascono nelle civiltà raffinate, corrotte e affaticate; di complessione infermiccia debole e pigra, di intelligenza precoce, che la madre e la nonna avevano allevato nella bambagia. A tredici anni aveva fatti prodigi nei primi studi, pronunciando perfino un discorso pubblico; ed era poi diventato un giovane precocemente riflessivo e molto studioso, che curava la sua salute, che beveva poco vino638, che lasciava meno che potesse i suoi libri e i suoi diletti maestri, Atenodoro di Tarso e Didimo Areo. Ma a un tratto questo cucco delle donne di casa, questo giovane malaticcio e nevrotico, era stato tratto dal caso in mezzo a una rivoluzione; e allora all’improvviso si era mostrato un feroce “arrivista”, diremmo adesso, impaziente di riuscire e squilibrato; uno di quei giovani – se ne trovano tanti nelle civiltà raffinate e ricche – che la fretta e la paura fanno perfidi, violenti e spietati. Aveva infatti intrigato, mentito, tradito come un compìto briccone. Ma se gli scrupoli non lo impacciavano, aveva per natura poca fermezza e pochissimo coraggio, nè poteva averlo acquistato con la pratica del pericolo in così breve tempo e tra tanta confusione; onde non è inverisimile che, facile a sgomentarsi, debole ed eccitabile, si conducesse in modo da fornire materia di racconti contradditorî agli storici, credibili gli uni e gli altri appunto perchè contradditorî: che, sorpreso dalla sua buona e diletta sorella in momenti di maggior pacatezza, si adoperasse a salvare i proscritti; che nelle ore torbide, quando aveva paura, incrudelisse e fosse persino sospettato di aver fatto uccidere varie persone che dubitava volessero attentare alla sua vita639.

Ma a tutti e tre i capi della repubblica la situazione pareva così incerta ed instabile, che per consolidare il loro potere impegnando con l’interesse la fedeltà di molti seguaci, aggiunsero ai molti già compiuti un nuovo atto tirannico, che nemmeno Cesare aveva osato: confiscarono interamente i diritti elettorali dei comizi, designarono sin da allora i magistrati per i cinque anni del triumvirato640. Necessità non ha legge; o ben seria era la guerra imminente! Al principio del 42, Antonio aveva mandato a Brindisi otto legioni sotto il comando di L. Decidio Sacsa e di C. Norbano Flacco, perchè subito, a primavera, invadessero la Macedonia che Bruto sul finire dell’anno aveva sgombrata641, dopo aver fatto uccidere per rappresaglia Caio Antonio, andando con tutto l’esercito in Asia, con lo scopo forse di raccogliere denaro e di far svernare l’esercito in un paese più ricco e più lontano dall’Italia. Ma a questa prima mossa succede una pausa. Intorno allo stesso tempo in cui Decidio e Norbano sbarcavano in Macedonia, Bruto e Cassio si ritrovavano a Smirne con i loro eserciti. Bruto, che più vicino all’Italia aveva più sicure notizie di quello che succedeva, aveva preso l’iniziativa di questo incontro, scrivendo a Cassio di unire i loro eserciti e di combattere insieme i triumviri, come ne davano loro facoltà i decreti del Senato642. Cassio, il quale allora pensava di muovere contro l’Egitto per castigare Cleopatra, ostinatasi a favorire il partito di Cesare, aveva acconsentito; e lasciata in Siria una piccola guarnigione al comando di suo nipote, mandato in Cappadocia un forte nerbo di cavalleria a uccidere il re malfido e a raccogliere metalli preziosi643, era andato con il grosso dell’esercito incontro a Bruto sino a Smirne644; ove si tenne un consiglio di guerra. Bruto pensava si dovesse tornare insieme in Macedonia a distruggere le otto legioni di avanguardia e a impedire lo sbarco delle altre645: Cassio invece propose un piano più vasto, più lento e più abile, che Bruto alla fine accettò. Essi non possedevano ancora sicuramente l’Oriente, perchè Rodi, la Licia, altre città erano dubbie; e si doveva sempre temere la invasione dei Parti in Siria e gli intrighi dell’Egitto: ora, se mentre essi combattevano in Macedonia, avvenissero grandi torbidi in Oriente, se il nemico, tanto più provvisto di soldati, tentasse qualche sorpresa alle loro spalle con l’aiuto dell’Egitto, essi potrebbero trovarsi a mal partito. Era meglio abbandonare al nemico la Macedonia; assicurarsi con trattative la neutralità dei Parti e con le armi la piena signoria del mare e dell’Oriente, radunare una grande flotta, sottomettere Rodi e la Licia; raccogliere in Oriente le maggiori quantità di denaro che potessero; e poi, quando signori del mare fossero in grado di tagliare le comunicazioni tra l’Italia e la Macedonia, invadere la Macedonia. I triumviri non avrebbero potuto portarvi quaranta legioni, ma solo una parte; quella che, non avendo sicure le vie del mare alle spalle e grandi mezzi, si poteva nutrire con le vettovaglie della Macedonia e della Tessaglia: paesi sterili, spopolati, impoveriti dalle guerre recenti. Inoltre la guerra prolungandosi, le angustie di denaro, la esasperazione dell’Italia, il malcontento degli insoddisfatti soldati sarebbero cresciuti646. Cassio diede una parte del suo tesoro a Bruto; Labieno, il figlio dell’antico generale di Cesare, fu mandato alla corte del re dei Parti647: si convenne che Bruto conquisterebbe la Licia, mentre Cassio muoverebbe ad assoggettare Rodi.

Queste spedizioni del nemico indussero Antonio a ritardare un poco la guerra contro Bruto e Cassio, e a sbrigare prima un’altra guerricciola648: mandare Ottaviano con una parte della flotta a ripigliare la Sicilia. Sesto Pompeo, che sul principio del 42 aveva ucciso il governatore dell’isola e se ne era impadronito interamente, incominciava a divenire molesto: raccoglieva navi, reclutava marinai, ordinava legioni; prendeva a devastare le coste dell’Italia e a intercettare sul mare i convogli di grano per Roma; potrebbe aiutare le flotte di Bruto e di Cassio e impedire nell’Adriatico il trasporto di milizie e di vettovaglie in Macedonia. Così nella primavera del 42 la guerra incominciò in Sicilia e in Oriente: con prospero successo qui, là con incerto. Tra la primavera e il principio dell’estate Cassio conquistò Rodi649, confiscandovi tutti i tesori pubblici e privati per la somma di 8500 talenti650; fece pagare alle città dell’Asia nientemeno che il tributo di dieci anni651; raccolse navi da ogni parte, dispose un numero considerevole di presidî navali e terrestri in tutto l’Oriente; mandò Murco con sessanta navi al promontorio Tenaro per impedire che i soccorsi allestiti da Cleopatra giungessero ai triumviri652. Nel tempo stesso Bruto sottometteva felicemente la Licia, ponendo a contribuzione le principali città. Perciò al principio dell’estate essi poterono ritrovarsi a Sardi e prendere le disposizioni per invadere la Macedonia. Ma non era invece stata ancora conquistata, al principio dell’estate, la Sicilia; anzi la guerra non vi aveva fatto alcun progresso. Tuttavia Antonio non poteva lasciare le otto legioni di Norbano e Decidio sole in Macedonia, alla mercè di Bruto e di Cassio; onde, sempre sperando che la guerra di Sicilia finirebbe da un momento all’altro, mentre Bruto e Cassio avviavano l’esercito ad Abido, per fargli traversare il Bosforo e imboccare a Sesto la via Egnazia che conduceva nel cuore della Macedonia, Antonio si disponeva a far passare l’Adriatico a dodici legioni653, per sbarcare a Durazzo e imboccare l’altro capo della via Egnazia. Ottaviano, finita l’impresa di Sicilia, lo raggiungerebbe. I due eserciti si venivano lentamente incontro; ma in quali condizioni diverse! Essi rappresentavano ormai dopo tanto disordine, in cui tutte le cose si erano mescolate e confuse, non solo il partito cesariano e popolare contro il partito aristocratico e conservatore, ma anche le due parti del mondo antico, l’Oriente e l’Occidente, in cui i due eserciti si erano formati. Bruto e Cassio avevano minor numero di soldati che Antonio e Ottaviano, perchè ne nutriva meno l’Oriente civile, industrioso, capitalista, pacifico, politicamente disfatto; ma erano accompagnati dagli ultimi avanzi della nobiltà di Roma e molto più abbondantemente provvisti di ogni altra cosa atta alla guerra, specialmente di denaro. L’Oriente ripigliava e accumulava di nuovo gran parte dell’oro e dell’argento portato via dagli italiani in cambio dei prodotti di lusso agricoli e industriali esportati in Italia; onde nei quarant’anni di pace e di mediocre ordine seguiti alla grande guerra mitridatica aveva, non ostante le angherie dei publicani e dei governatori, nuovamente deposta nei templi o nei sepolcri, chiusa nelle cantine del ricchi, nascosta sotto il focolare delle case artigiane, seppellita nella terra o nei pozzi dei contadini una grande ricchezza di metalli preziosi654. Già in parte intaccata dalla prima guerra civile di Cesare e Pompeo, questa nuova accumulazione quarantenne era adesso arraffata via quasi tutta da Bruto e da Cassio; e chiusa in grandi anfore seguiva, portata su carri, l’esercito vagabondo. L’Italia invece, sebbene da due secoli traesse a sè da tutte le parti del mondo i beni più utili della civiltà antica e specialmente i metalli preziosi, era sempre in bisogno di tutto, tante ricchezze essa profondeva nel lusso pubblico e privato, nel rinnovare l’agricoltura, nell’ingrandire il tenor di vita di tutte le classi, nel tentare speculazioni temerarie, nel fare una politica di affarismo e di clientela all’interno, di rapina e di conquista fuori. Perciò essa abbondava di legionari induriti nei campi, di uomini pronti a fare il mestiere della guerra; e poteva mandare contro l’Oriente migliori soldati; ma cacciandoli disperatamente oltre il mare, quasi in cenci, poveri, senza denaro, senza i necessari apparecchi, senza flotta sufficiente che ne difendesse le spalle o portasse loro il nutrimento, ad affrontare non solo le armi dei nemici, ma il mare, il deserto, la fame.

E tutto pareva allora volger bene per le milizie che venivano dall’Oriente, mentre aspro era il principio dell’impresa a coloro che partivano dall’Occidente. Bruto e Cassio fecero passare ai loro eserciti senza impedimento il Bosforo; e li avviarono poi lungo la costa verso il promontorio Serrheion, dove le montagne si avvicinano al mare in un passaggio angusto, che Norbano occupava. Ma una minaccia della armata, comandata da Tullio Cimbro, alle retrovie, costrinse Norbano a ritirarsi alle gole di Burun Calessi, ritenute come il solo passaggio di un grosso esercito tra l’Asia e l’Europa, e che fortemente munito non poteva essere espugnato di fronte655. Antonio invece non poteva muoversi da Brindisi, impedito dalle 60 navi al comando di Murco, che, dispersi gli aiuti di Cleopatra da una tempesta sulle coste dell’Africa, si era volto a impedire ad Antonio il passaggio dell’Adriatico. Antonio tentò più volte, ma invano, di passare, e alla fine si risolvè a chiamare in aiuto Ottaviano, facendogli interrompere l’impresa della Sicilia che non era ancora terminata656. Lasciarsi dietro Sesto forte nell’isola era male; ma come fare altrimenti? Ottaviano infatti, comparendo nell’Adriatico alle spalle di Murco, lo costrinse a ritrarsi657, lasciando libero il passo ai due triumviri, che uniti poterono giungere insieme felicemente a Durazzo con le dodici legioni. Ma da Durazzo incominciò la parte più perigliosa e dura della spedizione. Ben presto giunsero corrieri d’urgenza da Nerbano e Decidio, ad annunciare che essi avevano dovuto abbandonare le inespugnabili posizioni occupate. Un capo trace aveva svelato a Bruto e a Cassio un altro passo più stretto e dirupato attraverso la montagna, dove, pur di portarsi l’acqua, l’esercito avrebbe potuto passare in tre giorni; onde a un tratto Nerbano, che si aspettava di essere assalito di fronte, aveva saputo che i nemici sbucavano alle sue spalle nella pianura di Filippi, e si era tratto indietro in gran fretta ad Anfipoli per non essere circondato. Le porte della Macedonia e le comunicazioni con la Tracia erano cadute in potere del nemico; Anfipoli, difesa da sole otto legioni contro un esercito più che doppio, era in pericolo. Per maggiore disgrazia proprio in quei giorni Ottaviano, per le fatiche e le commozioni, ammalò a Durazzo! Antonio dovè lasciare Ottaviano a Durazzo, marciare rapidamente con le legioni su Anfipoli. Ma qui giunto, trovò ogni cosa tranquilla, lontano il nemico, poco probabile il pericolo di sorprese. Bruto e Cassio non avevano inseguito Norbano e Decidio; si erano accampati sotto Filippi in una posizione formidabile, piantando a cavaliere della via Egnazia due campi fortemente muniti. Bruto a nord, ai piedi delle colline Panaghirdagh, Cassio a sud, verso il mare, da cui lo separava una vasta e difficil palude, ai piedi della collina di Madiartopé658. I due campi erano riuniti da uno steccato, dietro il quale scorreva un’acqua limpida e abbondante, il Gangas; e comunicavano per la via Egnazia con il vicino porto di Neapolis, dove le navi portavano dall’Asia e da Taso, scelta a magazzino generale dell’esercito dei congiurati, vettovaglie, armi, denaro. Alloggiati in una posizione così forte, Bruto e Cassio intendevano di aspettare l’assalto dei nemici e di prolungare la guerra, sinchè la fame disperdesse l’esercito nemico, chiuso ormai in una regione angusta e sterile, le cui comunicazioni per mare essi provvedevano a minacciare ancora più, mandando Domizio Enobarbo in aiuto a Murco con una flotta. Antonio lasciò ad Anfipoli una sola legione, marciò con le altre verso Filippi e pose il campo suo davanti al campo loro nella pianura, aspettando Ottaviano che, convalescente, giunse di lì a poco facendosi portare in lettiga. Cassio allora, per impedire che Antonio tentasse di rompergli le comunicazioni con il mare, congiunse con uno steccato anche l’accampamento e la palude.

E allora incominciò per i due eserciti accampati di fronte nella pianura di Filippi, in quel grigio, piovoso, ventoso ottobre dell’anno 42, un seguito di lunghe torbide incerte giornate, durante le quali anche questi eserciti incominciarono a dissolversi659 nella dissoluzione universale delle leggi, delle tradizioni, dello Stato, della famiglia, della proprietà, della morale che essi avevano tanto affrettata negli ultimi anni con le loro rapine. La discordia, la fretta, la stanchezza dei capi, la petulanza e l’indisciplina dei soldati precipitarono gli avvenimenti in tanta confusione e disordine, che nessuna volontà potè dirigere più nulla. Bruto e Cassio erano pieni di un grande spirito di concordia e di fiducia reciproca: ma l’accordo dei propositi non escludeva i dispareri. Tra l’uno e l’altro anzi le parti si erano scambiate dall’anno 44. Bruto, allora così fiacco e pigro, era diventato consigliere di audacie, aveva fretta di finire la guerra dando subito battaglia, mentre Cassio voleva logorare il nemico con una inerzia sapiente, tirando in lungo660. Il pacato uomo di studio, l’indolente aristocratico che un destino bizzarro aveva tratto in mezzo all’azione, era stanco di tante brighe faccende e responsabilità, stanco della lotta che doveva sostenere con le sue ubbie ideologiche, costretto com’era ogni momento a tralasciare cose che credeva di dover fare o a farne di indebite: onde era diventato eccitabile e facile al pianto, soffriva di insonnia, vedeva di notte comparire nella sua tenda, al chiarore della lucerna, delle vaghe ombre, in cui credeva raffigurare la sua vittima e che risvegliavano i vaghi spaventi superstiziosi latenti in ogni antico. Cassio, che era un fervente seguace delle dottrine di Epicuro, cercava persuadergli essere quelli scherzi dei sensi affaticati, allucinazioni....661 Ma il suo scarso vigore era ormai spento; un solo desiderio restava ancora: quello di finir presto, di deporre il gran peso, senza però commettere una viltà o fuggire, pronto a pagare questa liberazione con il massimo sacrificio. Si desse battaglia; se si perdeva, non restava il rifugio ultimo della morte in cui tutto sarebbe finito? E come Bruto, l’esercito non approvava la strategia della attesa; voleva finire la guerra prima dell’inverno, per non rimandar a un altro anno quella vittoria che tutti consideravano sicura, per tornare a casa con i denari guadagnati nelle lunghe depredazioni dell’Oriente. Non era facile mantenerlo nell’obbedienza, ora che la battaglia definitiva avvicinava. Antonio e Ottaviano avevano milizie più sicure: ma Ottaviano, indebolito dalla malattia, scoraggito dalle difficoltà, spaventato da questa guerra disperata a tanta distanza dall’Italia, passava il tempo, con il pretesto di ristorare le forze, in lunghe escursioni fuori del campo, abbandonando l’esercito agli ufficiali; cosicchè era per Antonio più che un collega un ingombro. Antonio doveva far da sè, assumersi tutta la responsabilità della guerra; e offriva di continuo battaglia, e cercava di costringere il nemico, temendo, se le cose si prolungassero troppo, di mancare di vettovaglie662. Ma Cassio rifiutava ostinato, riuscendo a trattenere Bruto e i soldati: onde ben presto nella inerzia la volontà di quasi tutti parve languire nello snervamento di un rassegnato abbandono al fato, che il giovane Orazio, il quale aveva un grado nell’esercito, descrisse mirabilmente in una poesia, probabilmente pensata negli ozi di queste giornate e scritta più tardi: “Una orrenda tempesta ha chiuso il cielo; l’etra si scioglie su noi in pioggie ed in nevi; or sul mare ora nei boschi mugge il vento della Tracia. Rubiamo, o amici, l’occasione di questo dì e sinchè i garretti sono saldi e ci è lecito, spianiamo sulla fronte le precoci rughe senili. Tu smuovi un’anfora di vino chiusa nell’anno in cui nacqui; e non ti curar d’altro; un Dio forse ricomporrà con fausta vicenda ogni cosa ad ordine....663” Alla fine Antonio pensò di fare una via con fascine, terra, graticci attraverso la palude che separava il campo di Cassio dal mare, per arrivare con quella alla via Egnazia, minacciare le retrovie del nemico e costringerlo a combattere: e potè infatti, schierando ogni giorno una gran parte dei suoi soldati e quelli di Ottaviano nel piano, come per offrirsi alla battaglia, distogliere l’attenzione dei nemici e per dieci giorni far lavorare i suoi soldati nascosti nelle alte erbe della palude senza disturbo664. Ottaviano intanto curava con lunghe passeggiate la sua salute. Quando, l’undecimo giorno, a un tratto gli eserciti di Bruto e di Cassio furono tratti fuori; e quello di Bruto che era all’ala destra si buttò sulle legioni di Ottaviano. Probabilmente negli ultimi giorni Cassio, accortosi dell’opera e dell’intenzione di Antonio, si arrese ai consigli di Bruto e assalì il nemico665. Che cosa succedesse allora non è ben chiaro. Pare che Ottaviano facesse in quell’ora una passeggiata per salute nelle vicinanze del campo; e che quindi le legioni di Bruto, piombando sulle legioni di Ottaviano i cui ufficiali non avevano ordini, le disfacessero, solo resistendo con vigore la quarta legione. Antonio invece, che stava all’erta, si buttò con furore contro l’ala sinistra comandata da Cassio, la fece indietreggiare, l’inseguì verso il campo, impegnando sotto gli steccati una mischia terribile. Se Bruto, che aveva frattanto sopraffatta e quasi annientata la quarta legione666, tornava indietro al soccorso del collega e assaliva Antonio sul fianco, la battaglia era vinta. Ma Bruto non potè padroneggiare le sue legioni, che, traendosi nel loro impeto gli ufficiali, invasero il campo dei triumviri, vi entrarono incalzando i fuggiaschi; una carneficina e un tumulto immenso incominciarono, il cui rumore giunse forse a Ottaviano, che passeggiava a qualche distanza e che spaventato scappò a nascondersi in una vicina palude667. Frattanto Antonio disperdeva le legioni di Cassio e entrava nel suo campo: ma i suoi soldati, come quelli di Bruto, appena furono nel campo nemico, non sentirono più i comandi e si dispersero come bande di predoni a saccheggiare le tende; cosicchè affrettandosi ciascuno a portar via nel proprio accampamento le cose rubate, la battaglia sì converti presto in un gran numero di scaramucce tra le piccole bande di soldati che tornavano al loro accampamento carichi come facchini, e finì in una grandissima confusione, in cui nessuno capì più nulla e Cassio morì. La tradizione racconta che, non potendo discernere bene dall’altura su cui era salito ciò che avveniva nel piano, per l’immenso polverone che si era levato, egli credè che Bruto fosse stato sconfitto e che un drappello di cavalleria il quale si avvicinava, mandato da Bruto a annunciargli la sua vittoria, fosse invece di nemici e che perciò egli diede ordine al liberto di ucciderlo. Altri dubitando che un uomo di guerra così esperto avesse così facilmente perduta la testa, sospettarono un suo liberto di averlo ucciso nella confusione, perchè corrotto dai triumviri. Così in modo poco chiaro morì l’uomo più intelligente dei congiurati668. Egli solo aveva resistito allo scoramento da cui il partito conservatore era stato prostrato nel 44; egli solo aveva avuto fiducia – e i fatti gli diedero ragione – di poter reclutare un esercito contro il partito di Cesare; egli perciò ebbe il merito di aver prolungato per due anni ancora la estrema difesa del suo partito. Questa difesa fu bella; e se non riuscì, l’insuccesso non deve far dimenticare che quest’uomo, il quale avrebbe potuto essere uno dei servitori meglio ricompensati di Cesare, preferì morire in difesa di quella libertà repubblicana, che, per quanto in parte ridotta a un principio ideale e sebbene coprisse anche interessi di casta, era pur sempre una grande tradizione, degna di sacrificio e di sangue.

Antonio aveva sofferto perdite doppie che quelle del nemico e il saccheggio di tutto l’accampamento a cui non era compenso adeguato il saccheggio del solo campo di Cassio669; l’esercito di Bruto aveva inflitto danni terribili al nemico, ma aveva esso stesso sofferto una perdita irreparabile: Cassio. Questa battaglia, in cui la sapienza ebbe così poca parte, decise della guerra perchè in essa Cassio perì. Ricominciarono i giorni ansiosi d’attesa per gli eserciti nella pianura di Filippi. Bruto, ora unico generale in capo, ridusse in un solo accampamento, fornito a profusione di ogni cosa, le sue milizie e i suoi molti prigionieri; e essendo divenuto dopo la sanguinosa battaglia meno impaziente di combattere, cercò di trattenerle con grandi regali di denaro; mentre la carestia cominciava a tormentare il campo dei triumviri e un inverno precoce, irto di gelidi venti, faceva intirizzire nei bassi accampamenti i soldati di cui molti avevano perduto tutto nel saccheggio e a cui i generali non avevano potuto risarcire il danno, tanto erano scarsi di denaro670. Di lì a poco giunse ancora una cattiva notizia, che i triumviri si studiarono di tenere nascosta a Bruto: gli approvvigionamenti e i rinforzi che dovevano venire dall’Italia erano stati assaliti e colati a fondo nell’Adriatico dalle flotte di Murco e di Domizio Enobarbo. Due legioni, tra cui quella di Marte, erano andate a dormire il sonno eterno in fondo al mare671. Quanto tempo avrebbe potuto durare questa guerra con la fame e l’inverno, se Bruto continuava tenacemente la strategia della attesa e del rinvio? Per fortuna dei triumviri Bruto non sapeva mantenere la disciplina come Cassio672; era troppo arrendevole; discuteva troppo cortesemente con i soldati invece di comandare; cosicchè i soldati lo amavano assai ma gli ubbidivano poco. Subito, nell’esercito non più governato con fermo vigore, la disciplina si rallentò; nacquero gelosie e discordie tra gli antichi soldati di Cassio e quelli di Bruto; passata l’impressione della prima battaglia, rinacque la fretta di finire la guerra, la petulante confidenza nella vittoria, il fastidio della attesa, che fomentavano gli inesperti ufficiali, i capi degli alleati d’Oriente, desiderosi di tornare a casa673. Bruto non seppe far tacere questi mormorii, comprimere queste inquietudini. Sebbene mostrasse fuori la sua consueta aristocratica serenità, egli era esausto: dalle commozioni, dalle ansietà, dallo straordinario sforzo di volontà necessario per compiere ogni giorno un così immenso lavoro, dalla brevità dei sonni, dalle allucinazioni che avevano ripreso a tormentarlo. Egli andava inducendosi in quel fatalismo rassegnato che è l’ultima paralisi della volontà negli spiriti troppo sensitivi ed esausti da troppe commozioni e fatiche; già da tempo aveva scritto ad Attico di essere felice, perchè vincendo avrebbe salvata la repubblica, perdendo si sarebbe ucciso e avrebbe lasciata una vita intollerabile674; e così preparato alla morte, se restava con il corpo in mezzo alla mischia, se pareva ancora dirigere gli ultimi atti della guerra, in verità già aveva abbandonato il cimento, rimettendosi alla fortuna, pronto a pagare con la vita la disfatta. Ma Antonio invece si esasperava in un furore di estreme provocazioni; mandava i soldati suoi fuori del vallo a chiamar vili e poltroni i nemici; e faceva loro gettare biglietti eccitanti alla ribellione. Bruto cercava di persuadere con bei ragionamenti i soldati furiosi ad avere pazienza; ma il malcontento per l’inerzia del generale crebbe invece, come sempre avviene quando si vuol placare con le ragioni la passione di una folla eccitata; gli stessi sfoghi del malcontento che Bruto non aveva forza a reprimere lo alimentavano; gli ufficiali erano sempre intorno a Bruto, per persuaderlo a dar battaglia; qualche defezione avvenne davvero! Bruto capiva ora che era un errore; che aveva avuto ragione Cassio di consigliare la pazienza: ma egli era esausto; e alla fine si lasciò strappare l’ordine di dar battaglia, a malincuore. E Antonio con le sue milizie più solide e con la sua energia di generale lo disfece675. Riparatosi in una valletta dei colli vicini con qualche amico, l’uccisore di Cesare si uccise senza un lamento, con la consueta aristocratica serenità, facendosi aiutare da un retore greco, Stratone, che era stato suo maestro d’eloquenza676. Egli non fu nè uno stolto nè un genio, nè uno scellerato nè un eroe, come lo hanno giudicato secondo la passione di parte i più; ma un uomo di studio e un aristocratico, che i tempi indussero a agire come un eroe e ad assumersi un’impresa alla quale non gli bastavano le forze. Per orgoglio egli sostenne il peso della sua responsabilità sino alla morte; ma ci cadde sotto. Il suo sacrificio non fu invano però. Certo egli pensò nell’istante supremo che la grande idea classica della repubblica per cui moriva sarebbe perita nel mondo ormai troppo corrotto. Bruto non poteva sospettare chi avrebbe ripresa l’idea e l’avrebbe adattata alle condizioni mutate del mondo. Eppur quell’uomo non era lontano da lui e aveva combattuto a Filippi: ma nell’altro campo.

XII.
FULVIA E LA GUERRA AGRARIA D’ITALIA.

[42 a. C.] Sul campo di Filippi perirono parecchie illustri prosapie romane. Oltre Bruto, che non aveva prole, morirono l’unico figlio di Catone, l’unico figlio di Lucullo, l’unico figlio di Ortensio. Morì pure un nipote di Cassio, Lucio. Un certo numero di proscritti e di congiurati, presi prigionieri, furono trucidati: tra questi Favonio677. Ottaviano, inferocito dal tremendo pericolo corso, sembra aver mostrato in questa occasione la crudeltà della paura che è la più terribile, insultando i prigionieri più insigni prima di farli uccidere678. Dell’esercito disfatto la maggior parte si ritirò con i suoi ufficiali al mare, montò sulle navi, si rifugiò a Taso, dove poteva stare per qualche tempo al sicuro a rinfrancare gli spiriti abbattuti. Ma dopo tanta sventura non era più possibile vincere l’universale scoraggiamento: molti uomini insigni si uccisero: Livio Druso, che lasciava a Roma solo una figlia; Quintilio Varo, Labeone e molti altri679; e ben presto ciascuno pensò ai casi suoi; l’esercito si disfece. Non pochi tra i nobili, i conservatori, i proscritti, i congiurati si salvarono in varie parti: Gneo Domizio si impadronì a Taso di un certo numero di navi, indusse a salirle molti soldati del disfatto esercito e aprì le vele, risoluto, se non c’era altro scampo, a fare il pirata680; il figlio di Cicerone scappò in Asia, dove erano ancora alcuni distaccamenti di milizie e riparti di flotte dell’esercito del due congiurati: uno sotto il comando di Cassio Parmense sulle coste dell’Asia: uno sotto il comando di un certo Clodio e di Turullio in Rodi; uno sotto il comando di un certo Manio Lepido a Creta681. Lucio Valerio Messala Corvino e Lucio Bibulo, il figliastro di Bruto, restati a Taso, dopo aver rifiutato di assumere il comando offerto loro dai soldati che erano ancora nell’isola, patteggiarono con Antonio e cedendogli il tesoro e i magazzini dell’esercito ebbero salva la vita682. Gli ufficiali più oscuri furono perdonati più facilmente, come Quinto Orazio Flacco, che se ne tornò mogio mogio in Italia. Dei soldati, i più si arresero o si dispersero.

Dopo questa vittoria la opposizione al governo popolare e cesariano parve a quasi tutti vinta per sempre; nessuno osò più sperare che i pochi disperati buttatisi al mare o il signore della piccola Sicilia potessero mutare le sorti della guerra. Filippi aveva confermato definitivamente Farsaglia. La libertà era morta; gli eserciti riconoscerebbero ormai per capi i triumviri, i quali parevano perciò a tutti sicuri per l’eternità del potere, Antonio in special modo. Dopo la battaglia, quando i senatori presi prigionieri erano stati condotti innanzi ai triumviri, tutti avevano salutato rispettosamente Antonio; ma parecchi avevano inveito contro Ottaviano acerbamente683. Sul punto di morire costoro anticipavano il giudizio universale. I soldati sapevano che Antonio aveva vinta la guerra, mentre Ottaviano non aveva fatto nulla; tutti giudicavano che Antonio avesse conquistata la sua grandezza, a quarantun anni, con uno sforzo pari per lunghezza e fatica all’effetto, mentre Ottaviano pareva esser piuttosto un detestabile intruso, un ambizioso crudele e perverso, che una immeritata fortuna aveva favorito. Quanto a Lepido, si era troppo screditato, lasciando nei mesi della guerra Fulvia prepotente e intrigante usurpare quasi i suoi poteri triumvirali e consolari, governare l’Italia in sua vece, imporsi al Senato e ai magistrati684. Quindi annichilato davvero il partito conservatore, vinta l’ultima battaglia, Antonio era ora l’arbitro supremo di un potere maggiore e più sicuro che quello di Cesare dopo Tapso, perchè, se pur doveva ancora darne una parte allo screditato collega, poteva imporre a questo ogni suo volere685. Perciò egli fu senza dubbio il principale autore delle molte e gravi deliberazioni prese dopo Filippi dai due triumviri. Non ostante la vittoria le difficoltà erano molte. Bisognava pagare ai soldati i 20 000 sesterzi promessi e gli arretrati del soldo, – e i denari mancavano; bisognava congedare una parte dell’esercito, non potendosi continuare il dispendio enorme di quarantatre legioni; era necessario mantenere alla fine a quella parte dei veterani di Cesare, i quali alle Idi di marzo non avevano ancora ricevuto nulla, le annose promesse del dittatore, che i triumviri si erano assunte come continuatori della tradizione cesariana; urgeva quindi ristabilire la autorità romana nella parte dell’impero da cui si poteva spremere denaro, nell’Oriente, che la guerra civile aveva messo tutto sottosopra. I principotti siriaci e fenici spodestati da Pompeo erano ricomparsi negli ultimi due anni, e più numerosi, favoriti alcuni da Cassio, altri di propria iniziativa, approfittando dello scompiglio; cosicchè le principali città formavano ora altrettanti staterelli in guerra tra loro. Uno di questi principi, quello di Tiro, aveva mosso guerra alla Palestina, prendendo una parte del territorio d’accordo con Tolomeo, principe di Calcide, e con l’aiuto di Antigono, figlio di quell’Aristobulo cui Pompeo aveva tolto il potere in Palestina per darlo a Ircano: in Palestina la guerra civile era scoppiata di nuovo in apparenza tra i partigiani di due pretendenti, in verità tra il partito nazionale e quello romano: più tranquilla era l’Asia, ma in gran disordine per le ultime guerre e rapine: discordie di caste, rivalità di famiglie e di cricche infierivano in quasi tutte le monarchie e nei principati vassalli: qua e là era scoppiata anche qualche piccola rivoluzione. Non si poteva quindi addormentarsi sugli allori. Si deliberò innanzi tutto di porre in disparte Lepido, che, mentre essi vincevano la guerra di Filippi, non aveva fatto se non sciocchezze in Italia, e che a ogni modo, avendo solo tre legioni, non poteva lusingarsi di resistere a loro. Il fugace soffio di opportunità che aveva innalzato la sua fortuna come una foglia, era passato; quindi la sua fortuna cascava. Quanto all’esercito che, perite nella guerra tre intere legioni, era ridotto a 40, si deliberò naturalmente di congedare le 8 legioni di veterani di Cesare richiamate sotto le armi – le 3 di Ventidio, le 3 di Lepido, le 2 di Ottaviano – e i veterani distribuiti alla spicciolata in questa o in quella legione, riducendo così l’esercito a 32 legioni686. Di queste le 11 che avevano combattuto a Filippi e che restavano in Macedonia sotto le armi, dopo il congedo delle altre 8, sarebbero rinvigorite con soldati di Bruto e di Cassio e divise tra i due generali – 6 ad Antonio 5 ad Ottaviano: Ottaviano avrebbe anche le 3 legioni di Lepido; cosicchè Antonio comanderebbe a 17 legioni, le 11 lasciate in Italia e le 6 di Macedonia; Ottaviano a 15, le 7 d’Italia, le 3 di Lepido, le 5 di Macedonia. Quanto alle provincie di Lepido, Antonio si prenderebbe la Narbonese, Ottaviano le Spagne, cedendo in cambio la provincia di Africa ad Antonio687, dove, mentre i triumviri combattevano a Filippi, era scoppiata una piccola guerra civile. Cornificio non aveva voluto riconoscere il potere dei triumviri; Sestio, governatore dell’Africa Nova, si era dichiarato per Antonio: e ne era nata una guerra in cui il primo era stato vinto ed ucciso. Si stabilì anche che, se la intera spoliazione di Lepido sembrasse generare qualche pericolo, Ottaviano gli cederebbe la Numidia e Antonio l’Africa688. Deliberarono poi che Antonio si recherebbe nell’Oriente a cercarvi denaro con il pretesto di pacificarlo e che Ottaviano andrebbe in Italia a fare guerra a Sesto e a dare finalmente le terre ai veterani di suo padre. Questo impegno non era leggero. I veterani di Gallia ancora insoddisfatti non erano probabilmente più numerosi di 7 od 8000689 dopo le nuove guerre; ma siccome dovevano ricevere ciascuno la misura maggiore delle assegnazioni – 200 iugeri (circa 50 ettari) – bisognava trovare da 3 a 400 000 ettari di buona terra italica: impresa quasi impossibile con i mezzi ordinari. Non aveva il partito popolare promesso ripetute volte e sempre invano, di dare ai seguaci della parte popolare una porzione del suolo d’Italia? Ma tante leggi agrarie approvate nel 64, nel 60, nel 59, erano state invano incise in marmo e in bronzo, perchè il partito popolare, signore dello Stato solo di tempo in tempo e non mai pienamente e sempre alle prese con un partito conservatore ancora potente, aveva dovuto rispettare tutte le finzioni della legalità, proporre soltanto di distribuire le reliquie dell’ager publicus e di comprare a prezzi equi le terre, sine iniuria privatorum690. Ora togliere di buon accordo e senza violenze a chi la possedeva tanta parte del privilegiato suolo d’Italia che non pagava imposte, non si poteva; cosicchè era sempre avvenuto che, l’ager publicus essendo scarso, quando si era tentato poi di comprare le terre dei privati nessuno aveva voluto vendere se non a prezzi troppo alti, e le raccomandazioni, le preghiere, gli intrighi dei possidenti avevano incatenate di invisibili lacci le braccia ai deduttori di colonie, Cesare non escluso. D’altra parte i triumviri non avevano denaro, e quindi, anche avessero voluto, non potevano comperare le terre: viceversa dopo avere interamente annientato a Filippi il partito conservatore, e alla testa delle legioni unite nel concorde proposito di procacciarsi una larga agiatezza, potevano usare i procedimenti spediti e violenti, a cui Cesare dopo Tapso non aveva osato ricorrere contro i conservatori sconfitti ma non distrutti, e con i quali soltanto si potevano vincere le occulte, ma tenaci resistenze degli interessi privati. Antonio e Ottaviano deliberarono quindi di dare a quei 7 od 8000 soldati delle terre nel territorio di diciotto tra le più belle e ricche città italiche691, prendendo in ciascuna subito a ogni possidente una parte del bene suo e promettendo un indennizzo a loro arbitrio che sarebbe pagato poi, quando potrebbero. Queste colonie sarebbero tutte dedotte da Ottaviano e riceverebbero il nome di Juliae, essendo composte tutte di veterani del vecchio Cesare ed in adempimento delle sue promesse692. Si deliberò infine di porre in esecuzione la legge di Cesare che concedeva la cittadinanza ai Cisalpini693. Questo trattato, conchiuso tra loro segretamente, non sarebbe sottoposto all’approvazione nè del Senato nè del popolo694, perchè dopo Filippi le ipocrisie costituzionali usate alla fondazione del triumvirato non parevano più necessarie; e si poteva fare più apertamente violenza alle tradizioni repubblicane con il potere personale. Infine Antonio si fece dare da Ottaviano altre due legioni che erano in Macedonia, promettendo di fargli cedere due legioni sue di stanza in Italia695.

Molti storici moderni hanno creduto che Antonio scegliesse di andare in Oriente per stolto desiderio di facili voluttà; ma molto più probabile mi pare che deliberatamente egli si assumesse di riordinare quella che a lui come a tutti i contemporanei, Cesare non escluso, pareva la parte migliore dell’Impero. Che cosa valevano le provincie di Europa, povere, poco popolate, semibarbare, in confronto all’immenso, ricchissimo, civilissimo Oriente, dove erano le grandi metropoli industriali, le grandi vie del commercio, le sedi degli studi, le terre meglio coltivate? L’Italia stessa era tormentata da una crisi economica e politica così intensa, lunga, molteplice, che ormai i più disperavano non potesse ricomporsi mai in ordine e pace. Anche Cesare si era volto ad ingrandire la dominazione romana verso il Reno quasi per caso, perchè nessun’altra occasione di conquiste si era offerta alla fine del suo consolato; ma egli pure aveva considerato sempre l’Oriente come la vera preda dell’Italia; e nel 65 aveva tentato di far conquistare l’Egitto, nel 56 di far conquistare la Persia; ed era morto mentre preparava una nuova spedizione contro la Persia, mentre meditava certe composizioni e alleanze tra Roma e l’Egitto, che non sono ben chiare. Del resto i progressi del mercantilismo disponevano naturalmente gli spiriti a ingrandire la importanza della ricchezza nelle cose umane; e quindi a considerare i paesi più ricchi come i migliori e i più perfetti. Non avevano i triumviri corso rischio di fallire nella guerra per mancanza di denaro? Non aveva Cesare detto che il mondo si governa con i soldati e con l’oro? Antonio, che giudicava come il maestro, voleva sottoporre alla sua dominazione, ora che aveva un esercito, i paesi più ricchi; sicuro che, quando fosse signore di immensi tesori, dominerebbe l’Impero. Insomma in questa, come in ogni altra parte dell’accordo di Filippi, Ottaviano dovè subire le condizioni che piacque ad Antonio di imporgli696.

Così, verso la fine dell’anno 42, Antonio partiva con otto legioni per la Grecia e Ottaviano veniva con tre legioni in Italia, preceduto e seguito dal torrente dei veterani congedati, che facevano ritorno alle loro case. In Italia la notizia della vittoria di Filippi era stata ricevuta dalle classi agiate con grande dolore. L’ultima speranza era perduta; l’Italia era alla mercè dei triumviri, cioè dei veterani di Cesare e dell’esercito; e i danni già ricevuti dalla rivoluzione militante facevano temere terribili cose dalla rivoluzione trionfante. I triumviri, esigendo tante imposte in denaro in un tempo di crisi in cui i metalli preziosi erano così scarsi, precipitavano brutalmente nei burroni del fallimento molti possidenti, specialmente molti piccoli possidenti, i quali non potevano più questa volta neanche cercare di aggrapparsi nella caduta precipitosa ai rovi dell’usura. Uccisi molti dei più ricchi capitalisti, spaventati gli altri e dispersi tra i soldati i capitali accumulati dagli usurai, nessuno prestava più; e i possidenti, che non potevano pagare nè con proprio nè con denaro altrui, erano senz’altro spogliati delle loro terre. Poco giovava loro la concessione fatta dai triumviri di avere una terza parte del denaro ricavato dalla vendita dei loro beni; perchè non era possibile venderli se non a vilissimo prezzo697. Così anche gran parte di quella piccolissima possidenza che, a furia di stenti, era riuscita a crescere tra i grandi patrimoni pubblici e privati nel mezzo secolo antecedente, era di nuovo rovinata. Si aggiungeva ai tanti rammarichi la muliebre dominazione di Fulvia. Anche questo scandalo aveva dovuto tollerare l’afflitta Italia, così tenacemente memore ancora e con tanto idilliaco rimpianto dei tempi in cui le donne si chiudevano obbedienti e modeste nella casta vita casalinga! Ma ora che la intera distruzione della vecchia nobiltà aveva annientata interamente la classe, che più di ogni altra sosteneva con il suo influsso la tradizione in ogni cosa, lo spirito rivoluzionario divampava dai partiti negli studii, nelle lettere, nella vita privata. Fulvia era un mostro; ma l’ambizione e la prepotenza di lei molti uomini ritrovavano, sia pure in misura minore, nelle proprie donne e nelle proprie figliuole che, educate ormai nella società alta con coltura letteraria e ad abitudini di libertà e di piacere, non si contentavano più di restare in casa ad allevare i figli e a sorvegliare gli schiavi, ma volevano uscir fuori a godere e ad essere ammirate, mentre gli uomini, infiacchiti dai vizii, dagli studii, dalla irrequietezza nervosa, dalle fisime filosofiche, ne diventavano assai spesso i servi o le vittime. Come nello Stato, anche nella famiglia la autorità si infiacchiva; l’antico e dispotico pater familias si mutava nel rassegnato partecipe di una signoria slegata e discorde, come sempre avviene quando nelle civiltà raffinate e voluttuose l’uomo depone la fiera autorità paterna dei regimi agricoli e aristocratici, e si lascia mollemente strappare di mano il più efficace strumento della dominazione mascolina: il bastone. E come nelle famiglie e nello Stato, la lotta tra il nuovo e l’antico ferveva nella letteratura. La smania di studiare, già così diffusa fra le classi alte e medie nella generazione precedente, si diffondeva ancora più nella generazione nuova. Ormai Cicerone aveva fondata in Italia la dinastia degli uomini di penna; il sapere era considerato abbastanza a lato della ricchezza e del potere; e più sarebbe, a mano a mano che la aristocrazia spariva e il potere e la ricchezza cadevano in signoria di gente oscura. La politica invece era diventata un gioco cieco di fortuna, in cui si diventava potente e ricco in un’ora, ma il dì dopo si poteva perdere vita e beni con eguale facilità. Perciò molti padri nelle classi agiate pensavano non essere prudente rischiare i figli tra i famelici avventurieri che si disputavano le magistrature, e preferivano impartire loro una raffinata istruzione. A questa sollecitudine dei padri corrispondeva in molti giovani una debolezza di membra, una timidezza, una pigrizia, un fastidio delle inquietudini e delle responsabilità che li faceva inclini agli studi; cosicchè, se in quegli anni di crisi molti mestieri o professioni languirono, non scarseggiarono agli insegnanti e alle scuole gli studenti: figli di agiati possidenti delle piccole città, figli liberti o schiavi dei cavalieri che avevano conquistata una discreta agiatezza nella età di Cesare con la agricoltura e la mercatura. Roma era piena di poeti, che leggevano le loro poesie al pubblico, volente o nolente, sino nei bagni698. In questi anni studiava Tito Livio, il figlio di un ricco signore di Padova, che aveva sul finire del 42 diciassette anni; studiava Tibullo, figlio di un agiato possidente e cavaliere, che aveva allora circa dodici anni; era già destinato agli studi Properzio, il figlio di un agiato possidente dell’Umbria, fanciullo ancora di sette anni; incominciavano a studiare tutti i numerosi poeti e scrittori minori, i liberti che vedremo nell’età di Augusto insegnare retorica e grammatica. Si formava così di liberi e di schiavi e di liberti un ceto latino di “intellettuali”, come si direbbe adesso, i quali contenderebbero ben presto i lucri e la considerazione delle professioni intellettuali ai retori e ai filosofi orientali, fino allora quasi assoluti dominatori della coltura in Roma: ma li contenderebbero, aiutando al trionfo della coltura dei loro rivali su quella nazionale. La vecchia letteratura classica romana era sprezzata e negletta; l’ellenismo trionfava dappertutto. Intorno ad Asinio Pollione, che governava in quell’anno 42 la Gallia Cisalpina, e che, giovane, ricchissimo, colto, scriveva egli stesso carmina nova699, poesie cioè di stil nuovo, si raccoglieva un crocchio di giovani poeti fieramente nemici dei tardi imitatori di Ennio, vaghi delle più audaci innovazioni elleniche. Tra questi il ventottenne Virgilio, incoraggiato da Asinio, meditava un’audacia ben maggiore dei piccoli componimenti poetici in cui si era provato sino allora: scrivere cioè in esametri delle egloghe a imitazione di Teocrito, ma raffigurando in pastori siculi uomini, in scene bucoliche eventi del tempo suo; interponendo tra i convenzionali paesaggi della bucolica greca qualche bella pittura del dolce paesaggio valpadano, che egli, contadino allevato sulle rive del gran Mincio dai lenti meandri, tanto sentiva ed amava. Già sul finire del 42 egli era intento a comporre l’egloga seconda – la prima da lui scritta – sugli amori del pastore Coridone per il leggiadro Alessi, vestendo così di versi bucolici, secondo almeno dissero gli antichi, la ammirazione sua per un giovane schiavo che Asinio gli aveva regalato; e l’egloga terza in cui, imitando il quarto Idillio di Teocrito, introduce due pastori che prima si bisticciano, poi si sfidano al canto e nei canti amebei lanciano invettive ai poeti della vecchia scuola latina, celebrano Pollione come cultore del nuovo stile700. Le polemiche letterarie contemporanee nei canti dei pastori d’Arcadia! Nel tempo medesimo il fervido ingegno di Sallustio, concitato dalla bile, infrangeva un’altra antichità secolare: l’annalistica. Rifatta nella guerra civile di Cesare la sua fortuna rubando molto in Numidia, Sallustio aveva potuto sfoggiare al suo ritorno gran lusso e fabbricarsi ville e palazzi, compiacersi nel pensiero del sicuro potere di cui ora godrebbe per l’amicizia di Cesare.... Le Idi di Marzo avevano abbattuta all’improvviso questa sicurezza e lo avevano fatto fuggire precipitosamente dalla vita politica, ridiventata troppo perigliosa per un uomo così ricco: ma non per questo Sallustio si era riconciliato con i conservatori; e appena dopo Filippi il pericolo di una restaurazione conservatrice sparì interamente, si diè a sfogare il suo rancore con la penna, incominciando un seguito di storie che dovevano tutte mostrare la vergogna e le colpe del partito conservatore. La prima, quella a cui attendeva in questi tempi, aiutato da un liberto greco di nome Atteio, retore e grammatico di professione701, era una storia paradossale della congiura di Catilina, in cui tentava una audacissima ritorsione contro i conservatori, accusanti ad ogni momento i popolari di essere stati complici del terribile facinoroso: dimostrare che quella congiura era stata tramata dalla nobiltà devota a Silla, impoveritasi per avere dissipate troppo presto le prede sanguinose della guerra civile; che era quindi una onta del partito conservatore, a cui aveva preso parte perfino la madre di un loro eroe e di un uccisore di Cesare, Decimo Bruto. Ma pur confondendo e alterando i fatti per passione, egli rendeva un grande servigio alla cultura latina, rinnovando nella storia artistica, psicologica e razionale quella sparuta annalistica, a cui si era ridotta da secoli in Roma la narrazione degli eventi, e che era una convenzione non meno arida e stupida della cosidetta storia critica e scientifica, a cui certi pedanti vorrebbero oggi ridurla. Neanche Attico e Cornelio Nepote avevano osato raccontare i grandi fatti di Roma se non, come facevano tutti da secoli, anno per anno, asciuttamente, senza arte, quasichè i personaggi della storia fossero ombre e gli eventi un semplice oggetto di monotone enumerazioni. Sallustio scrisse invece, sull’esempio dei greci e specialmente di Tucidide, una storia psicologica ed artistica, in cui le passioni degli uomini erano analizzate, le figure rappresentate con vivacità, gli eventi narrati secondo un ordine razionale e fatti oggetto di considerazioni filosofiche e morali702.

[41 a. C.] Ma tanti contrasti ideali e politici, aggiunti all’ansia delle classi possidenti per l’insicurezza dei beni, generavano in tutta Italia un atroce malessere, una universale asprezza di risentimenti e rancori. Quando sulla fine del 42 si seppe che Ottaviano nel viaggio di ritorno si era ammalato di nuovo e così gravemente da essere creduto in pericolo di vita703, molti in Italia ne sentirono grande allegrezza. Volessero gli Dei che morisse! Tanto era certo che ritornava per compiere qualche nuova ribalderia a danno dei ricchi e dei cittadini dabbene704. Ma il giovane triumviro non morì, e discretamente rimesso in salute, ritornò sul principio dell’anno 41 a Roma, dove l’aspettavano Fulvia, risoluta a governare, presente il suo giovane genero, come aveva governato con Lepido; e l’ambizioso e turbolento Lucio Antonio, il quale in quell’anno era console con Publio Servilio e pensava come Fulvia che questo giovane screditato, malaticcio, i cui giorni parevano contati, non oserebbe contrastare al fratello e alla moglie di Antonio. E difatti Ottaviano, che era indebolito dalla recente malattia e in gran pensiero per la grave missione di dividere le terre, non ritornava con propositi litigiosi. Diede ordine a Salvidieno di andare in Spagna nella provincia di Lepido con sei legioni, ma non avendo potuto persuadere Lepido a dargli le sue tre legioni, si rassegnò ad esserne privo per il momento; mostrò le lettere di Antonio ed ottenne la promessa che Caleno gli cederebbe le due legioni705, ma non insistè più, appena si frapposero dilazioni a mantenere la promessa; senza dar motivo alcuno di briga a Lucio e a Fulvia, incominciò le operazioni per la divisione delle terre, nominando per ogni parte dell’Italia i commissari incaricati di distribuirle e reclutando agrimensori. Tuttavia era troppo intelligente e anche troppo ambizioso da lasciarsi governare da Fulvia e da non far valere i suoi diritti di triumviro; onde ben presto nacquero dei malumori e Lucio prese ad accusarlo di violare i suoi diritti di console706. Ottaviano avrebbe avuto più ragione di lagnarsi, che non gli davano le due legioni707; pure tollerò in principio con pazienza anche questa molestia, sollecito come era di distribuire le terre ai veterani. In breve in molte città dell’Italia, tra le quali noi possiamo enumerare con sicurezza Ancona, Aquino, Benevento, Bologna, Capua, Cremona, Fermo, Firenze, Lucca, Pesaro, Rimini e Venosa, arrivarono i commissari che dovevano determinare in ciascuna quanta terra fosse necessaria a dedurvi i veterani destinati a quella come coloni, cercare la lista dei possidenti, ripartire tra questi la contribuzione, probabilmente in proporzione dei beni, e non della terra solo, ma del bestiame, degli schiavi e della suppellettile agricola; determinare per ogni espropriazione le indennità che non sarebbero pagate708: aiutati poi dagli agrimensori, assegnare le terre, spartire gli schiavi e il bestiame. Nella primavera si diè dovunque principio alle misurazioni delle terre; le famiglie agiate, come quella degli Albii Tibulli o dei Properzi in Umbria, perdevano una parte del loro patrimonio; i piccoli possidenti, che possedevano un campo più piccolo della misura minore stabilita, perdevano tutto; il ceto possidente, quella agiata borghesia italica che aveva così platonicamente favorito il partito dei congiurati, dovè cedere ai veterani una parte delle terre in cui negli ultimi anni essa aveva piantato le vigne e gli uliveti con tanto travaglio e prendendo a prestito il capitale a così alte usure; spartire con i reduci di Filippi gli armenti, di cui aveva migliorate le razze, gli schiavi che aveva comperati con tanto dispendio, allevati e istruiti con tanta fatica. I veterani non volevano come i soldati del buon tempo antico terre selvaggie da dissodare, ma campi già fruttificanti per il lavoro degli altri, provvisti di attrezzi, di armenti e di schiavi, possedendo i quali finire comodamente la vita come agiati rentiers e membri onorati di un senato municipale709.

Ma un’agitazione in apparenza terribile scoppiò in Italia al principio di queste assegnazioni. Da ogni parte, nei primi mesi del 41, le città minacciate mandarono deputazioni a Roma a intrigare, a supplicare, a protestare sopratutto perchè solo diciotto città italiane erano spogliate. Se l’Italia doveva sostenere pur questo danno, non era giusto che fosse diviso tra tutti?710 Questa agitazione, questi lamenti, questi intrighi non potevano non inquietare Ottaviano, giovane, screditato, malato; quando una difficoltà ben più grave, inaspettata, quasi inverisimile, sopravvenne. Irritati che il giovane non fosse così docile come essi volevano, Fulvia e Lucio presero d’accordo a intralciargli con vari pretesti le assegnazioni. Incominciarono a dire che si doveva aspettare a dividere le terre quando Antonio fosse tornato dall’Asia; poi pretesero che, se si dovevano dividere subito, i veterani di Cesare, i quali nella guerra di Filippi avevano militato sotto gli ordini di Antonio, avevano ad essere dedotti o da Antonio in persona o da rappresentanti suoi, affinchè ad Antonio e non ad Ottaviano si sentissero riconoscenti711. Ottaviano mostrò il testo dell’accordo conchiuso a Filippi; ma Fulvia e Lucio non cedettero; Fulvia anzi pare supplicasse e intrigasse tanto fra i veterani presenti a Roma, che alla fine Ottaviano cedè712, incaricò Asinio Pollione di dirigere le commissioni per la Gallia Cisalpina713 e mise nelle altre parecchi amici di Antonio, come Planco in quella per Benevento714. Ma le difficoltà crescevano naturalmente, anche senza la malizia dei nemici. I veterani, fatti insolenti dalla loro potenza, prendevano anche terre non assegnate715; nella classe agiata l’ammirazione di Bruto e di Cassio, l’odio contro il dispotico triumvirato, il desiderio delle libere istituzioni era rinfocolato dalla rabbia dei beni perduti e degli indennizzi non pagati; i piccoli possidenti che perdevano tutto, non di rado davano piglio alle armi e facevano tumulti e uccisioni716, o andavano ad arruolarsi nell’esercito di Sesto Pompeo717, si buttavano al brigantaggio, o caricati sopra un rozzo plaustro i figli e i penati, traevano a Roma con la speranza di campare ivi in qualche modo la vita. In breve Roma, già piena di veterani che aspettavano di essere dedotti nelle colonie, fu invasa dalle torme cenciose e fameliche delle loro vittime che si rifugiavano e gemevano nei templi718. Grave era poi, ogni dì più, la mancanza del denaro: Antonio non mandava nulla719; eppure Ottaviano doveva pagare ai veterani i premi e fornire i soldati più poveri di qualche contante, di schiavi e di attrezzi là dove le confische dei possidenti non bastavano; era anche senza tregua sollecitato dai possidenti espropriati a pagare gli indennizzi. Egli ricominciò a vendere i beni dei proscritti e quelli dei ricchi caduti a Filippi, di Lucullo e di Ortensio; e potè cavarne qualche denaro720, perchè molti veterani e ufficiali, così dell’esercito dei triumviri come dell’esercito di Bruto e di Cassio, erano tornati da Filippi con un bel gruzzolo e certo non pochi erano lieti di investirlo in beni venduti a vile prezzo. Inoltre impose una contribuzione alle città esenti dalla confisca delle terre. Ma di somme ben maggiori avrebbe avuto bisogno. Per ultima sventura a primavera Sesto Pompeo incominciava ad affamare Roma, dando sul mare la caccia alle navi che portavano il grano, mentre Domizio dominava l’Adriatico. Tutti i congiurati superstiti, gli avanzi della flotta e dell’esercito di Bruto e di Cassio, Staio Murco, Cassio Parmense, Clodio avevano raggiunto o Sesto o Domizio; cosicchè al primo ancora più che al secondo erano cresciute molto le forze e il coraggio721.

Ottaviano non poteva non essere, in simile frangente, arrendevole. Disgraziatamente l’arrendevolezza irrita i violenti più di ogni provocazione, onde non solo le molestie di Lucio e di Fulvia non furono interrotte, ma crebbero: le due legioni promesse non furono consegnate; Caleno e Asinio Pollione, istigati dalla fiera donna che si imponeva anche a loro, rifiutarono di dare il passo a sei legioni che il triumviro voleva mandare in Ispagna al comando di Salvidieno722. Alla fine anzi Lucio lo assalì, per dir così, alle spalle con un tradimento audacissimo, tentando di sfruttare l’odio delle classi possidenti contro Ottaviano senza scontentare i veterani; e prese a sostenere in molti discorsi che non era più necessario procedere a nuove confische, perchè c’erano ancora tanti beni dei proscritti disponibili, con cui si poteva accontentare i veterani723. La avversione universale contro Ottaviano, la paura o il dolore delle confische, il malcontento facevano tutti creduli; tutti dissero che Lucio Antonio aveva ragione, che Ottaviano continuava le confische per la smania di amicarsi i soldati arricchendoli724; immenso e forse maggiore di quello che Lucio aspettava fu il movimento fatto in tutta Italia da questi discorsi, che nell’intenzione di Lucio erano solo finte per disorientare e turbare l’avversario. L’agiata borghesia italica si illuse che Lucio fosse d’accordo con Marco nel disapprovare Ottaviano; quel che restava del partito conservatore si dispose a una inaspettata e quasi incredibile benevolenza verso Lucio; i possidenti minacciati, credendosi protetti dal console, presero coraggio a resistere colle armi. Le zuffe si moltiplicarono dappertutto, nelle campagne, nelle piccole città725, anche in Roma; dove notte e giorno un infinito numero di malandrini sbucati da ogni parte rubavano e ammazzavano, e la miseria, la carestia, il pericolo crescevano a tal segno che un grande numero di artigiani, liberti e stranieri, non trovando più lavoro, non sentendosi sicuri, soffrendo per il caro dei viveri, chiudevano le botteghe, se ne andavano alla ventura in altre città726. Molti nel partito di Antonio e sulle prime anche Fulvia si spaventarono, vedendo tanta agitazione e temendo di alienarsi i veterani727: ma Lucio, trascinato dal movimento che in principio era proceduto da lui, illuso anche egli dalle apparenze di quella agitazione, procedè oltre, si atteggiò apertamente a difensore dei possidenti spogliati, parve in breve diventar l’uomo più popolare in Italia fuori che fra i veterani; e con i suoi discorsi e le sue agitazioni cacciò nel più tremendo impiccio Ottaviano. Lucio ormai sosteneva apertamente che le terre dovevano essere date solo a quei veterani di Cesare i quali dopo le Idi di Marzo si erano arruolati di nuovo e avevano combattuto a Filippi: quelli che erano rimasti a casa non dovevano avere nulla728. Tutta Italia approvava: e sgomento, l’inesperto giovane di ventidue anni che si vedeva investito da tanta bufera, pochi mesi dopochè credeva di avere superata la prova ultima e affrontati i supremi pericoli, cede, cercò di placare il pubblico esasperato; rinnovò la legge di Cesare che per un anno condonava gli affitti fino a 500 sesterzi nelle altre città dell’Italia e fino a 2000 in Roma; deliberò non si toccassero nelle assegnazioni i beni dei senatori, i beni dotali, le terre minori della misura assegnata ai veterani, per salvare i piccoli possidenti dalla intera rovina729. Virgilio allora, che sentiva l’afflizione dei piccoli possidenti, piccolo possidente egli pure, osò per la prima volta trattare anche la politica, come diremmo adesso “d’attualità”, in poesia bucolica; e lieto e commosso espresse con la egloga prima la gratitudine sua e dei piccoli possidenti italici al giovane triumviro che ancora non conosceva, mescolandoci un poco di quella enfasi semi-religiosa che dopo l’apoteosi di Cesare accennava a diffondersi dai morti ai vivi, dal fondatore ucciso ai nuovi capi del vittorioso partito popolare:

O Meliboee, Deus nobis haec otia fecit:
Namque erit ille mihi semper Deus; illius aram
Saepe tener nostris ab ovilibus imbuet agnus730

e terminava con una dolce descrizione della agreste pace serale:

Et iam summa procul villarum culmina fumant
Maioresqne cadunt altis de montibus umbrae.

Ma a Ottaviano il culto dei pastori di Virgilio era scarso compenso al malcontento, che queste concessioni fecero nascere fra i veterani presenti a Roma; i quali già prima poco rispettosi di lui e ora furibondi addirittura, proruppero in insolenti dimostrazioni e uccisero anche degli ufficiali che avevano osato rimproverarli731. Per calmare a loro volta i soldati, Ottaviano, che non aveva osato punire gli uccisori degli ufficiali, sembra promettesse di aumentare il numero delle città su i cui territori dedurre le colonie; deliberò inoltre che anche ai parenti dei veterani non si potessero togliere i campi732; e per pagare più presto i soldati, prese a prestito, come egli diceva, in realtà si prese puramente e semplicemente le somme deposte nei templi d’Italia come tesori sacri733.

Così al principio dell’estate del 41 pareva non esservi scampo per Ottaviano, perchè se schivava un pericolo necessariamente incorreva nell’altro: o soddisfare le cupidigie dei veterani senza paura e misericordia, esasperando le classi agiate, o provocare la collera dei veterani senza amicarsi nessuno, se tentava di accontentare in parte gli uni, in parte gli altri. Intanto Antonio aveva condotto l’esercito in Grecia e ci si era trattenuto fino al principio della primavera; poi, giudicando non avere bisogno di molte milizie per la sua missione, aveva nominato Lucio Marcio Censorino governatore della Grecia e della Macedonia734, ed era andato in Oriente, ma non a sciupare il tempo in una sconclusionata gozzoviglia, come dicono molti storici moderni, seguendo troppo ciecamente i superficiali racconti antichi. Appena giunto in Bitinia, era stato assediato da un infinito numero di deputazioni mandate dalle città e dagli stati di tutto l’Oriente o a giustificarsi o a domandare il premio della fedeltà o a lagnarsi di qualche torto ricevuto; ed egli aveva dovuto sprofondarsi nella selva selvaggia degli intrighi dinastici, delle rivalità municipali, delle camorre politiche dell’Oriente; favorire gli uni e perseguitare gli altri per crearsi un partito politico, per ristabilire l’ordine, per spremere denaro a tutti735. Ma nel maneggio di questa politica orientale che tanto affaticava Roma da due secoli, egli non imitò nè la metodica e spicciativa prepotenza dei primi proconsoli e ambasciatori mandati alle corti dell’Asia: nè la lucida percezione e risolutezza di Silla; nè la fretta e l’audacia immaginosa di Lucullo; nè la dignitosa, sebbene spesso solo apparente, autorità di Pompeo; nè l’abilità, sicurezza e prontezza di Cesare. Dopo la definitiva vittoria di Filippi, l’antico luogotenente di Cesare smetteva nuovamente quella prudenza, in cui le repentine responsabilità del potere l’avevano indotto dopo le Idi di Marzo; e trovandosi pienamente a suo agio nella condizione di capo supremo e di nuovo Cesare, non solo riprendeva ma esagerava, per la baldanza del successo, la sua antica natura ineguale, spensierata, gaudente di uomo intelligente ma poco tenace, pronto nel capire e nel risolvere, ma facile a esagerare, a dimenticare, a far confusione. Sono frequenti negli uomini appassionati e veementi questi periodici mutamenti di indole. Quindi egli si precipitava nei piaceri e nelle imprese, facendo e disfacendo faragginosamente, lasciandosi abbindolare da numerosi intriganti, maschi e femmine, mescolando i favori personali con gli atti politici, subordinando spesso l’interesse politico ai capricci del suo bizzarro temperamento. C’è una disciplina del potere non solo per chi ubbidisce, ma anche per chi comanda; che era ben nota ai vecchi Romani e che consiste principalmente nell’obbligo di astenersi da atti, in sè innocenti o anche piacevoli, i quali però scemano il prestigio di chi deve imperare sugli altri. Ma questo aristocratico sregolato e geniale, vissuto tra i bordelli, i bagordi e i campi militari, ora che si trovava supremo signore dell’Oriente come Alessandro, buttava all’aria allegramente anche questa tradizione e disciplina; non voleva intorno a sè l’ossequio discreto di una corte che ascolta in silenzio a schiena curva ma la famigliarità incanaglita di una baldoria; non cercava di incutere rispetto alla sua gente, di premiare gli obbedienti, di reprimere gli indocili; ma predilegeva, cercava, incoraggiva gli impertinenti e gli sfacciati, che osassero motteggiare salacemente e trascorrere con lui a una licenza di modi e di parole come si usa tra eguali. Gli orientali, che avevano visto pochi proconsoli di così buona pasta, non tardarono ad approfittarne; e una torma di imbroglioni e di avventurieri indigeni si insinuava nelle sue grazie736. A ogni modo, anche in mezzo a questa confusione, Antonio conchiuse qualche cosa. Per una gran somma di denaro si lasciò persuadere da Erode, il figlio di Antipatro, primo ministro di Ircano Etnarca di Palestina, a intimare a Tiro di restituire le regioni conquistate737; diede le disposizioni per raccogliere una flotta di 200 navi; andò ad Efeso, dove impose alla provincia di Asia un tributo di dieci anni da pagarsi in due; perdonò parecchi profughi insigni di Filippi, tra gli altri il fratello di Cassio, ma fece uccidere tutti i congiurati che prese; risolvè altre questioni di politica orientale738; e accompagnato da una corte di buffoni, ballerini, musicanti a cui prodigava il denaro, incominciò un viaggio attraverso la Frigia, la Galizia, la Cappadocia, sollazzandosi in feste e banchetti, cercando dappertutto denaro, rimaneggiando la carta politica dell’Oriente739, godendosi le più belle mogli e le più belle concubine dei sovrani740. Ma raccoglieva molti omaggi e pochi denari, perchè Bruto e Cassio avevano portato via la maggior parte dei capitali accumulati, i quali erano ormai passati in potere dei soldati e o giacevano nelle casse dei questori, nel bagaglio dei militi, nelle case dei soldati congedati, o erano portati a casa dai Traci, dai Macedoni, dai Galli assoldati come cavalieri e rinviati ai loro paesi741. Cosicchè per questa parte così importante la sua missione falliva. Infine giunto a Tarso in Cilicia, gli avvenne uno dei fatti più importanti della sua vita e disgraziatamente anche uno dei più oscuri: si incontrò con Cleopatra. Gli scrittori antichi, che hanno riassunto la storia degli ultimi dodici anni di Antonio quasi soltanto in un romanzo d’amore, raccontano drammaticamente che il quarantenne triumviro mandò alla regina di Egitto l’ordine di venire a Tarso a scolparsi dall’accusa d’aver favorito Cassio e che la donna fatale recatasi al giudizio sedusse e fece perdere il senno al vincitore di Filippi. Ma non è, innanzi tutto, ben chiaro se Antonio intimasse a Cleopatra divenire a Tarso a scolparsi; o se Cleopatra si recasse, sia spontaneamente sia per consiglio di amici del triumviro, da Antonio742. Anche questa seconda versione potrebbe essere vera. A ogni modo è certo che essa gli andò incontro a Tarso, con una pompa che gli antichi descrivono molto romanticamente; e non solo ottenne il perdono, ma ottenne pure che Antonio la aiutasse a consolidare il suo dominio in Egitto, che gli ultimi eventi avevano in parte sconnesso; e con molta premura lo invitò a passare l’inverno ad Alessandria743.

In mezzo a tante faccende e disegni e piaceri non è strano che Antonio badasse poco alle notizie d’Italia, forse giudicando da lontano le cose meno gravi e difficili che in realtà non fossero; certo non rammaricando che Ottaviano ricevesse qualche molestia dai suoi. Perciò egli se ne andava invece in Siria, dove in poco tempo e con poca fatica spodestò i principotti usurpatori, e ricevè la resa delle piccole guarnigioni lasciate da Cassio. Fulvia, quando si accorse che il marito dimenticava l’Italia come una piccola terra lontana, tra le feste e in compagnia delle regine dell’Oriente, che il suo viaggio in Oriente durava molto più del previsto, temè che anche la sua potenza a Roma si svigorisse, e incitata non dalla gelosia ma dalla ambizione, dimenticò il disaccordo per la difesa dei possidenti assunta da Lucio e si unì a lui con piena intesa, per suscitare tanto disordine che il marito fosse costretto a voltarsi di nuovo alle cose d’Italia744. L’uno e l’altra dotati del temperamento che meglio si conviene ad uomini di azione nelle rivoluzioni; sconsiderati, arruffoni, precipitosi ad ogni rischio ambedue, testardi negli odi e agili nel mutare e rimutare offese, i due cognati erano maggiormente incitati alla violenza e alla audacia dalle incertezze di Ottaviano, che palesava troppo di volere la pace. Già infatti, forse sul principio dell’estate, egli aveva fatto proporre a Lucio da deputazioni di veterani un accordo concluso poi a Teano, in cui accettava perfino di restringere le assegnazioni ai soli combattenti di Filippi745. Ma Lucio e Fulvia ne avevano invece tratto nuovo ardire746 e non solo non avevano mantenuti gli impegni747 con vari pretesti, ma simulando di temere insidie in Roma se ne erano andati coi loro amici a Preneste748, avevano scritto ad Antonio che la sua grandezza era in pericolo749 e ripreso il disegno fallito nel 44: distruggere Ottaviano e fondare sulle rovine della fortuna di lui la potenza unica di Marco Antonio e della sua famiglia. Certo a questo fine essi speravano di potersi servire delle undici legioni del fratello e marito, di stanza nella valle del Po e nella Gallia al comando di Caleno, di Ventidio Basso, di Asinio Pollione. Ottaviano non aveva da opporre a queste che dieci legioni, incluse le sei che aveva mandate in Spagna al comando di Salvidieno750, non potendo, in mezzo a tante minaccie, costringere Lepido a concedergli le sue tre. Anzi si era riconciliato con lui promettendogli l’Africa751. Tuttavia non si può dubitare che e da Caleno e da Ventidio e da Asinio fosse risposto a Lucio e a Fulvia ammonendo ad essere cauti752. Tutta quella agitazione aveva di sicuro generato molta incertezza nei deduttori delle colonie e fatte rallentare le assegnazioni; non solo i veterani già congedati, ma anche i soldati sotto le armi volevano che la pace tra i due triumviri durasse; era dunque cosa imprudente provocare una guerra civile a difesa dei possidenti e contro i veterani, ora che il partito popolare si era mutato in un esercito. Qualche amico di Antonio, come Barbazio, era anzi apertamente contrario753. Infatti ad Ottaviano, il quale voleva la pace e frattanto esplorava le intenzioni dei generali di Antonio, fu facile di indurre di nuovo i veterani ad interporsi. Segretamente sollecitate da lui, due vecchie legioni di Antonio, che avevano ricevuto terre intorno ad Ancona, mandarono un’ambasceria a Lucio e ad Ottaviano per manifestar loro il comune desiderio degli eserciti che la pace non fosse turbata: Ottaviano naturalmente si dichiarò pronto a sottoporre la discordia al giudizio degli eserciti, aggiungendo che egli era amico di Marco Antonio; le deputazioni costituirono quello che noi chiameremmo un giurì e invitarono Ottaviano e Lucio a trovarsi il tal giorno per esporre le proprie ragioni ed ascoltare il giudizio, a Gabi, la piccola città a mezzo cammino tra Preneste e Roma, in riva al laghetto, che, ora sepolta sotto i campi di frumento, emerge solo ancora con il rudere di un tempio. Una grande torma di veterani si trovò infatti a Gabi per il giorno fissato; sul Foro furono posti i seggi dei giudici e due seggi, uno per Ottaviano, uno per Lucio. Ottaviano comparve754.

Ma non comparve Lucio, allegando che Ottaviano gli aveva tese insidie sulla via di Gabi755. Ormai egli e Fulvia non badavano più nè ai generali di Antonio nè ai veterani. A Preneste convenivano i conservatori superstiti del Senato e dell’ordine equestre, ora subitamente fatti amici ai due turbolenti cognati; onde incoraggiati da queste adesioni e dal gran favore delle città italiane, illusi che le riluttanze dei soldati sarebbero vinte facilmente con promesse, deliberarono di reclutare un esercito, di preparare una rivolta tra le città italiane e di far danno in ogni modo a Ottaviano. Reclutare un nuovo esercito sarebbe cosa facile, perchè i giovani abbondavano e molti degli artigiani fuggiti di Roma, dei piccoli possidenti che avevano perduto tutto, non sapendo come vivere, si sarebbero volentieri arruolati. Perciò incitarono il vecchio governatore dell’Africa, Sestio, a preparare una rivolta contro il nuovo governatore di Ottaviano, Fangone, un antico centurione di Cesare756; par che sollecitassero Bocco, re di Mauritania, a tentare un assalto alle provincie spagnuole di Ottaviano757; mandarono emissari a reclutare sei legioni in ogni parte dell’Italia; indussero diversi personaggi a recarsi in varie regioni per incoraggiare le leve, per persuadere i municipi a dare a Lucio il denaro deposto nei templi, per preparare la rivolta dei possidenti. Noi sappiamo che per la Campania questo incarico fu accettato da quel Tiberio Claudio Nerone il quale, dopo aver servito sotto Cesare, aveva proposto in Senato il 17 marzo 44 di dichiararlo tiranno; e che si mise d’accordo con un certo Caio Velleio, un agiato possidente della Campania, antico ufficiale ed amico di Pompeo758. Lucio e Fulvia insomma intendevano di far scoppiare una grande rivolta in Italia e di iniziare una guerra civile contro Ottaviano, per costringere gli esitanti generali di Antonio a intervenire e a distruggere il comune nemico, anche senza ordini del capo lontano. In breve i ricordi della guerra sociale si ravvivarono in tutte le menti. L’Italia stava per insorgere di nuovo come allora, non per conquistare la cittadinanza, ma per difendere la terra sua contro l’ingordigia dei veterani e per restaurare la libera repubblica dei padri? Tutti, giudicando il futuro dal passato, credevano che anche quel terribile episodio potesse rinnovarsi; lo temeva certo Ottaviano e non osava reprimere risolutamente gli aperti preparativi della rivolta e le mene del console; si restringeva a ripudiare Clodia, a richiamare indietro Salvidieno, a reclutare anche egli uomini e a levare denari dai templi delle città italiane759; solo di tempo in tempo sfogando l’ira che gli gonfiava il cuore, con violentissimi epigrammi contro Fulvia, di cui pare ne sia rimasto uno, molto spiritoso ma di una oscenità così brutale che non potrebbe essere qui tradotto760. Così sul finire dell’estate gli agenti di Lucio e quelli di Ottaviano si disputavano per le città d’Italia i giovani, i veterani e i denari dei templi761; il beneficio della recente riduzione di undici legioni era annullato dai nuovi reclutamenti; dei veterani il maggior numero, anche quelli di Antonio, accorreva sotto le bandiere di Ottaviano762; ma i possidenti spogliati sotto quelle di Lucio, per il quale le popolazioni parteggiavano apertamente763; spesso tra i partigiani degli uni e degli altri avvenivano risse sanguinose764. La situazione diventò presto così minacciosa che i veterani di molte colonie inviarono ambasciatori ad Antonio in Oriente per invitarlo a venire sollecitamente e a ristabilire la pace765. Ma Ottaviano esitava ancora, e tentava un’ultima pratica di accordo, mandando a Preneste una deputazione di senatori e di cavalieri766. Anche questa fu vana.

Allora finalmente Ottaviano, incuorato dalle dubbiezze in cui versavano i generali di Antonio, si risolvè a operare: volgendosi contro una delle tante città in cui gli emissari del nemico intrigavano di più, per dare un esempio767. A questo punto comparisce per la prima volta il suo giovane amico Agrippa, del quale sinora non sapevamo se non che lo aveva accompagnato da Apollonia e che era stato tra gli accusatori dei congiurati. Ad Agrippa, che l’anno prossimo doveva essere pretore, Ottaviano diede il comando di un esercito; poi nell’autunno, lasciato a Roma a capo di due legioni Lepido, tentò di prendere Norcia di sorpresa. Ma fallita la sorpresa, fu costretto a porre l’assedio; e anche l’assedio andando per le lunghe, si volse ad assaltare Sentino; ma anche contro Sentino non fu fortunato. Incoraggiato a sua volta da questi insuccessi del nemico, Lucio prese animo a tentare l’offesa e a compiere un’audacia che doveva probabilmente essere il segnale della rivolta in tutta Italia: intesosi con i suoi partigiani di Roma piombò con poche milizie e all’improvviso nell’Urbe, senza che Lepido o per debolezza o per malumore contro Ottaviano cercasse impedirlo768; e andato sul Foro fece un grande discorso, dichiarandosi apertamente campione delle idee repubblicane così care alle classi agiate d’Italia: disse cioè che egli combatteva per distruggere il triumvirato, di cui, vinti Bruto e Cassio, era finito lo scopo, e per restaurare la repubblica; che suo fratello Antonio era pronto a deporre il potere, contentandosi di essere nominato console. Fece poi dichiarare nemico pubblico Ottaviano769. Alla notizia di questa sorpresa Ottaviano marciò con forze notevoli su Roma, donde Lucio, che non poteva resistere, uscì, ritornando al suo esercito che non sappiamo dove fosse raccolto770; e in questa maniera bizzarra e confusa incominciò la guerra il cui racconto è negli antichi così monco e oscuro che non mi è riuscito di ricomporre una narrazione comprensibile. Solo si intravede che a un certo momento Lucio Antonio uscì in campo con sei legioni novizie sulla via Cassia, per andare incontro a Salvidieno che lentamente tornava dalla Gallia seguito da Asinio e da Ventidio, per prenderlo in mezzo; e che Agrippa gli fece perdere tempo con abili mosse, il cui racconto però è molto confuso, cosicchè Salvidieno potè liberarsi dall’inseguimento, accorrere pronto e minacciare, d’accordo con Agrippa, di catturare Lucio771. Fu questa la prima rivelazione del genio militare di Agrippa. Certo è infine che, per liberarsi dalle persecuzioni di Salvidieno e di Agrippa, Lucio andò a chiudersi sul finire dell’autunno in Perugia, dove fu assediato da Ottaviano; mentre Fulvia, rimasta a Preneste, sollecitava Ventidio, Asinio e Caleno a venire con le undici legioni al soccorso, invitava Planco ad armare nel Piceno tre nuove legioni, incitava gli amici ad affrettare la rivolta nelle città italiche. Ormai il dado era tratto: se Lucio e Fulvia avevano giudicato giustamente, le città dell’Italia insorgendo e i generali di Antonio rompendo gli indugi, precipiterebbero a rovina il fato di Ottaviano.

[41-40 a. C.] Ma nè l’Italia insorse, nè i generali di Antonio si mossero al soccorso. Invano Tiberio Claudio Nerone incitò in Campania i possidenti a prendere le armi e invano tentò perfino di sollevare gli schiavi772; invano in Campania e altrove si cercò da Fulvia e dagli amici di Antonio di mutare le flebili proteste dei possidenti confiscati e le platoniche aspirazioni repubblicane del ceto agiato in furore guerresco. I tempi erano mutati da quelli della guerra sociale; l’agiatezza, la cultura, quella che si chiama la civiltà avevano raffinate ma infiacchite queste classi, che disavvezze dalle armi, use ai commerci e agli studi più che alle guerre, divise dalla sollecitudine egoistica d’ogni famiglia per il proprio benessere singolo, non osarono affrontare quella che pareva la formidabile potenza del partito popolare mutato in esercito; e dopo essersi così a lungo lamentate per le violenze subite, preferirono nel momento supremo di salvare ciò che loro era rimasto rassegnandosi, anzichè rischiare anche questo773. Sulla vetta di Perugia Lucio Antonio restò, in mezzo alla vasta nazione tranquilla, solitario campione di una causa che non trovava soldati; la face accesa lassù, per segnalare all’Italia il tempo di insorgere, arse lentamente, si consumò, si spense senza che i fuochi delle rivolte rispondessero pronti di colle in colle, di pianura in pianura. Agrippa, cui dopo il successo delle mosse contro Lucio era stato assegnato il supremo comando, potè costruire nel dicembre e nel gennaio dei grandi valli intorno a Perugia, serrare d’ogni parte la città nonostante le vigorose e continue sortite di Lucio, lentamente affamarla, senza che la rivolta tanto temuta divampasse alle spalle. La guerra di Perugia fu una meschina parodia della guerra sociale. Ma se l’Italia non si muoveva a soccorrere il turbolento demagogo convertitosi troppo presto in capo dei conservatori, i generali di Antonio lascierebbero con quattordici legioni ai loro comandi – le undici antiche e le tre nuove di Planco – distruggere il fratello del loro capo da un piccolo esercito di sette legioni? Eppure, sebbene la condizione di Perugia si facesse nel mese di gennaio e febbraio ogni giorno più dura e difficile, Caleno non si mosse dalla Gallia, Asinio, Ventidio e Planco si avvicinarono a Perugia, ma senza far mai nessuno sforzo vigoroso per liberare l’assediato774. Essi si trovavano nella stessa condizione in cui si eran trovati Ottaviano ed Irzio sotto Modena, quando andavano a liberare Decimo Bruto: malsicuri dei loro soldati, inquieti per il giudizio che essi darebbero della guerra, contrari alla pazzesca politica di Lucio e di Fulvia, che, quando il potere di tutti riposava sulla fedeltà delle legioni, incominciavano una guerra per togliere ai veterani le ricompense. In simile condizione nemmeno Fulvia poteva muoverli; sarebbe stato necessario il comando o forse addirittura la presenza del vincitore di Filippi. Ma Antonio nè mandò quel comando nè venne in persona; e mentre suo fratello pativa con l’esercito la fame tra le mura di Perugia, andatosene in quello stesso inverno ad Alessandria dopo aver scacciati senza fatica i principotti della Siria, si sollazzava in feste e in divertimenti nel palazzo reale, senza le insegne di proconsole, vestito alla greca, come un privato, ospite e amante della regina d’Egitto775. Perciò il gran pericolo si disperse in modo inaspettato da tutti. Ai primi di marzo Lucio, costretto dalla fame, si arrese; Ottaviano, che non voleva irritare Marco Antonio, lo trattò bene, lo lasciò libero, perdonò anche ai soldati e li invitò a passare sotto le sue bandiere. Ma egli era troppo esasperato dallo spavento avuto e dal pericolo corso; ma i veterani erano stati troppo irritati da questa guerra che un momento pareva avere messo in pericolo la distribuzione delle terre: per soddisfare questi, per spaventare l’Italia e indurla definitivamente a rassegnarsi alle confische e alla dominazione dei triumviri, per vendicarsi, egli fece uccidere i decurioni di Perugia e una parte dei senatori e cavalieri presi prigionieri. Qualche altra famiglia insigne fu spenta: Caio Flavio l’amico di Bruto, Clodio Bitinico. La città che doveva essere saccheggiata dai soldati, bruciò prima del sacco, a quanto pare per accidente776.

E frattanto – ironia delle cose – tra la fine del 41 e il principio del 40, il buon Virgilio componeva la sua egloga quarta “sul rinnovamento del mondo”, in onore dell’amico Pollione, che doveva essere console nel 40 e a cui frattanto era nato un figlio. In tutti i tempi agitati in cui la cultura si divulga, si diffondono insieme con il desiderio di conoscere il reale, le aspirazioni mistiche, le vaghe speranze trascendenti: e difatti allora erano di moda certe idee stoiche e accademiche, che parevano corrispondere con superstizioni etrusche da lungo tempo note a Roma e con tradizioni religiose accolte nei libri sibillini, per cui il mondo doveva periodicamente rinnovarsi. Il “rinnovamento del mondo” era un tema di conversazione; e un aruspice, Volcazio, ne aveva veduto un annuncio nella cometa apparsa ai giuochi della Vittoria di Cesare nel 44. Virgilio, che si faceva ardito a trattare soggetti “d’attualità”, colse l’occasione della nascita di quel fanciullo e del consolato di Pollione, per poetare in versi melodiosi questo pasticcio filosofico e religioso, per predire che con il consolato di Pollione incomincierebbe l’era della pace, dell’ordine, della giustizia nella quale il fanciullo vivrebbe. Insomma il poeta raccomandava abilmente di sperare nel governo triumvirale, che aveva uomini così valenti; e ahimè rispondevano al vaticinio le stragi e il fuoco di Perugia!

XIII.
CLEOPATRA ED OTTAVIA.

Molti storici hanno biasimata severamente la indifferenza con cui Antonio lasciò da Alessandria rovinare la catastrofe di Perugia: e giudicano che, se fosse allora venuto in Italia a prendere il comando degli eserciti suoi, avrebbe potuto facilmente distruggere Ottaviano777. Tutti poi, continuando l’amoroso romanzo di Cleopatra e di Antonio cui danno principio con l’incontro di Tarso, descrivono il soggiorno d’Alessandria come una lunga festa spensierata, nella quale Antonio si abbandonò perdutamente alla voluttà, ogni altra cosa obliando778. Chi però non dimentichi che a nessuno è difficile essere savio dopo il fatto, giudicherà forse Antonio in modo meno severo. Non è improbabile che, l’assedio di Perugia essendo cominciato sul finire dell’autunno del 41, quando la navigazione del Mediterraneo era sospesa, egli ne avesse notizia solo nella primavera del 40, allorchè l’assedio già era finito; e che dalle ultime notizie ricevute egli continuasse a giudicare il disordine dell’Italia come poco grave e tale che si comporrebbe da sè. Inoltre giova considerare che egli non poteva approvare la stravagante politica del fratello e della moglie, i quali parevano non avvedersi che il partito popolare era ormai tutto nell’esercito, era anzi lo stesso esercito; ma non poteva nemmeno abbandonarli o tentare di raffrenarli, senza mutare in nemici i suoi parenti più stretti. Infine, se non è dubbio che Marco Antonio fece gran festa quell’inverno nella immensa, sontuosa, ricchissima reggia dei Tolomei, è pur sicuro che in mezzo all’orgia invernale egli dovè sostenere un cimento meno visibile eppure non meno grave e risolutivo di tanti affrontati prima: le sollecitazioni di Cleopatra, che offriva a lui sè stessa in moglie e l’Egitto per regno, come lo aveva offerto a Cesare ritornando apposta a Roma sul finire del 45. Le dicerie corse in quei giorni che Cesare sposerebbe la regina dell’Egitto e porterebbe la sede dell’impero ad Alessandria inducono a supporre che in qualche momento Cesare avesse esitato e Cleopatra si fosse illusa di spostare l’asse della storia del mondo dalle foci del Tevere alle foci del Nilo. Ora la grande offerta era posta di nuovo da Cleopatra innanzi ad Antonio; ed era posta, come è facile intendere, non per un nuovo amore che avesse preso Cleopatra del bello e forte Antonio, ma per astuto accorgimento politico. L’Egitto si potrebbe forse definire la Francia del mondo antico: fertilissimo e mirabilmente coltivato, raccoglieva ogni anno quasi tutto il lino, di cui si tessevano le vele aperte ai venti su tutto il Mediterraneo, e tanto grano da sfamare non solo le sue fitte genti ma da venderne agli stranieri; industrioso più che ogni altro paese, nutriva in Alessandria un numeroso popolino di abili artigiani, che nelle case loro, nel fornello o sul telaio proprio, tessevano i finissimi lini, fabbricavano i profumi, i vetri e i papiri e i mille altri oggetti esportati poi in ogni paese dai ricchi mercanti; maestro di eleganza e di sfarzo, forniva gli stuccatori, i pittori, i decoratori e il modello del lusso a molti paesi e in parte anche all’Italia; sede di studii famosissima, richiamava gli studenti dai più lontani paesi e sin dalla Grecia nelle scuole di medicina, di astronomia e di letteratura, mantenute ad Alessandria dalla corte; grande emporio mondiale, non solo esportava in ogni parte i suoi prodotti industriali in cambio dei metalli preziosi che accumulava, ma aveva in suo potere la maggior parte del commercio con l’Estremo Oriente, con l’India gemmifera e la mitica terra dei Seri. Senonchè, a differenza della Francia moderna, questo popolo troppo pingue non aveva spina dorsale e sembrava uno di quei corpi malati, che non si reggono più in piedi senza sostegno. Dalla divisione del lavoro che è effetto della civiltà ma che in Egitto era divenuta troppo grande, tutta la nazione era stata disarticolata in una estrema dissoluzione di ceti, di gruppi, di arti, di professioni, di famiglie, di singoli uomini, intenti ciascuno solo al proprio interesse e piacere: tutta la nazione, dai coloni dei grandi poderi, della mano morta, dei regi demani viventi umilmente in soggezione quasi come servi; dal contadiname libero, laborioso ma intento solo ad accumulare risparmi; dalla plebe artigiana e cosmopolita di Alessandria, industre, ingegnosa ma eccitabile, turbolenta, sanguinaria; salendo su su per gradi all’opulento ceto dei mercanti appostati in Egitto come sul migliore crocicchio delle grandi strade del mondo; ai ricchi possidenti che sfoggiavano un lusso meraviglioso, che consideravano la corte come la sede suprema dell’eleganza e dello sfarzo, ma non formavano una aristocrazia politica e militare e si lasciavano cacciar via dalle alte cariche, per indolenza e superbia, da eunuchi, liberti, avventurieri, stranieri; alla casta sacerdotale avida solo di accrescere le sue ricchezze e il suo potere; alla burocrazia, numerosa, bene ordinata in teoria ma corrotta, rapace, sollecita di spremere denari, negligente dei suoi doveri; arrivando infine alla corte, piovra insaziabile di denaro, gora immensa di metalli preziosi, caotica fucina d’intrighi, di delitti, di piccole e feroci rivolte dinastiche, compiute da fazioni minime con una infinita ingegnosità di scelleraggini nella indifferenza universale.... Questo regno decrepito viveva in una specie di inerzia agitata: aveva una amministrazione grandiosa e lasciava deperire tutto, anche i canali del Nilo; mutava re ogni pochi anni con qualche rivoluzione di palazzo e non sapeva portare rimedio nemmeno ai suoi più piccoli malanni politici; aveva infinite ricchezze e non possedeva un esercito, ma doveva reclutare gli schiavi fuggiti degli altri paesi per fare qualche milizia; possedeva la scienza e l’arte, ma si reggeva a stento contro Roma a furia di incredibili intrighi779; giungendo infine – ultima invenzione della decrepita diplomazia egiziana – a offrire la regina sua come una prostituta a un proconsole romano. Il donnesco governo di Cleopatra aveva molti avversari, specialmente nella parte migliore delle alte classi, per quali ragioni non sappiamo; forse per la vergogna di queste tresche con Cesare e con Antonio, per la avidità insaziabile, la crudeltà capricciosa, il disordine del suo governo di favoriti780: onde essa aveva bisogno dell’aiuto di Roma per reggersi sicura sul trono. Morto troppo presto Cesare, Cleopatra si ingegnava di adescare Antonio, non con la sola offerta di sè che sapeva non bastare, ma con l’offerta del regno.

[40 a. C.] Non è temerario supporre che le feste, le adulazioni, le meraviglie dell’Egitto, gli ardenti piaceri e i brillanti sofismi di Cleopatra infervorassero in quell’inverno lo spirito semplice e poco profondo di Antonio, il quale, ripresa la sua natura gaudente, dissipatrice, spensierata, inclinava di nuovo alle grandiosità sfarzose781; e che deve considerarsi, assai più che Ottaviano, come il discepolo e l’erede politico di Cesare. Negli ultimi sei mesi in cui Cesare mutò tante idee e tanti nuovi disegni immaginò, Ottaviano era ad Apollonia; a Roma invece presso il dittatore viveva Antonio, che ne era diventato subitamente il confidente più intimo, ne aveva conosciuto ogni pensiero, aveva in parte ricevute da lui prima delle Idi, in parte aveva prese dopo la morte, tutte le carte del dittatore, in cui erano anche i piani della guerra di Persia: lo aveva quindi anche veduto negli ultimi mesi agitato dalle ambizioni monarchiche e asiatiche. L’idea di ripigliare i grandi disegni balenati al dittatore nel corrusco e tempestoso crepuscolo della sua vita e noti nei particolari forse a lui solo, l’ambizione di diventare il nuovo Cesare vestendo le spoglie del morto, dovevano rinforzare naturalmente le seduzioni di Cleopatra e della corte. Se egli compisse la conquista della Persia non diventerebbe l’uomo più grande e celebre dell’impero? Il principale impedimento era la scarsezza del denaro; e l’Egitto poteva fornirgliene.... Ma nella primavera del 40 un evento improvviso disturbò tutti i disegni suoi e di Cleopatra. Se nel 41 si era avuta in Italia una parodia della guerra sociale, nel 40 incominciava in Asia una parodia di Mitridate. I principotti della Siria scacciati da Antonio782 e Antigono, il pretendente non favorito di Palestina783, avevano nell’inverno sollecitato i Parti a invadere le provincie romane, dicendo che la Siria e l’Asia, spaventate dalle enormi contribuzioni imposte da Antonio, accoglierebbero volentieri gli invasori; alla corte di Ctesifonte il figlio di Labieno che vi si era trattenuto dopo Filippi, si offriva a condurre una parte dell’esercito partico come i profughi italiani della guerra civile avevano guidato l’esercito di Mitridate784; Antonio era ad Alessandria; in Siria e in Asia, governata la prima da Decidio Sacsa e la seconda da Tito Munazio Planco785, non c’erano che le piccole antiche guarnigioni di Cassio, le quali avevano riconosciuto il nuovo signore. Una sorpresa riuscirebbe. E infatti a primavera, forse in febbraio, Antonio ricevè notizia che un esercito al comando di Labieno e di Pacoro, figlio del re dei Parti, invadeva la Siria per la via di Ctesifonte e Apamea786. Abbandonate allora per il momento le trattative con Cleopatra, le incertezze e i sogni e le illusioni dell’impero asiatico, Antonio partì da Alessandria al principio di marzo con una piccola flotta e veleggiò verso Tiro, dove pare si persuadesse che per respingere l’invasione bisognava far venire notevoli rinforzi dalla Macedonia e dall’Italia. Mandò quindi subito a raccogliere navi in tutti i porti, per mettere assieme una flotta con cui trasportare le legioni; e rassegnandosi ad abbandonare al nemico per poco la Siria, deliberò di andare per Cipro e Rodi in Asia e di là in Grecia, a raccogliere un forte esercito, per tornare poi subito in Oriente a respingere i Parti. Lui partito, le piccole guarnigioni delle città, sorprese da forze superiori, furono facilmente indotte ad arrendersi; Decidio tentò di resistere in Apamea, ma Labieno avendo incominciato a sobillare i soldati, tutti antichi legionari di Bruto e di Cassio, fuggì ad Antiochia; presa Apamea e trucidata quasi tutta la piccola guarnigione, Labieno lo inseguì ad Antiochia, che assediò e prese, costringendo ancora una volta Decidio a fuggire in Cilicia. La Siria e la Fenicia erano già quasi in potere dei Parti, tranne Tiro, dove si erano rifugiati in ogni parte i residenti romani, come nel 74 a Calcedonia, quando Mitridate aveva invasa la Bitinia. Intanto Pacoro andava in Palestina con una parte dell’esercito, Labieno si volgeva con l’altra a conquistare la Cilicia787.

Ad Efeso Antonio trovò i corrieri dell’Italia ed ebbe notizia dell’assedio di Perugia non solo, ma del nuovo disordine e della spaventevole confusione scoppiata nel partito suo dopo la resa della città: nuova e gravissima difficoltà per il triumviro che già si trovava impegnato in una guerra contro i Parti. L’edificio eretto con tanta fatica a Filippi, che pochi mesi prima pareva sfidare i secoli, stava forse per precipitare a un tratto? La terribile strage compiuta da Ottaviano a Perugia aveva tanto spaventati i suoi amici e parenti, che erano tutti in fuga. Fulvia, accompagnata da una scorta di 3000 cavalieri mandata dai suoi generali, era andata a Brindisi e viaggiava alla volta della Grecia, dove lo aspetterebbe ad Atene788; Planco aveva abbandonato il comando delle sue tre legioni e fuggiva con Fulvia; sua madre Giulia era fuggita da Sesto Pompeo, che l’aveva accolta con molta cortesia789; Asinio Pollione si era buttato con l’esercito nel delta del Po, in attitudine di difesa790; Ventidio Basso – a quanto pare – si era avviato verso Brindisi791, tutti cercando di avvicinarsi alla costa per essere sicuramente in comunicazione con Antonio; molti dei partigiani di Fulvia e di Lucio erano fuggiti, quali a Sesto Pompeo, quali per cercare rifugio presso di lui. Tra costoro erano pure il figlio di Servilia Marco Giunio Silano, e Tiberio Claudio Nerone, che si imbarcò a Napoli furtivamente con la moglie, figlia di quel Livio Druso che si era ucciso a Filippi, e con un fanciulletto di poco più di un anno, che doveva un giorno – capricci della fortuna – diventare l’imperatore Tiberio792. Ottaviano restava solo signore dell’Italia, vuota ormai di tutti gli uomini più insigni, o spenti o fuggiaschi, a sfogare sui deboli in prepotenti lascivie e in crudeltà irose l’impeto maligno di una giovinezza malaticcia, corrotta dalla potenza, esasperata dalle inquietudini, dall’odio, dalla paura; non signore allegro e beato, bensì pieno di spavento per la sua stessa vittoria, pieno di rabbia contro Antonio e di ansietà per le incerte intenzioni di lui, pieno di ostinazione e di superbia e di bile per l’odio universale di cui si sentiva bersaglio. A questo tempo paiono appartenere i fatti più ignominiosi della sua vita privata. Anche dopo il terribile macello di Perugia, come non fosse satollo ancora di violenze, aveva infierito: aveva confiscato quasi tutto il territorio di Norcia perchè i cittadini avevano eretto un monumento ai caduti nella difesa della città con un’iscrizione che li diceva morti per la libertà, a significare il tenace rimpianto della agiata borghesia italiana per la vecchia repubblica793; aveva accelerate le deduzioni delle colonie, largheggiando con tutti i veterani di Cesare; aveva sostituito nella Cisalpina Alfeno Varo ad Asinio Pollione e abbandonata l’Italia ai vecchi soldati. Violenze e ruberie desolavano di nuovo ogni regione. Ma la stessa violenza sfogava nella vita giornaliera e nelle piccole cose: fulminava alla cieca nei processi sui plebei, sui liberti, sugli stranieri sentenze di tortura, di morte, di crocifissione, cosicchè il popolo gli aveva appiccicato il nomignolo di carnefice794; si dava alla crapula e al giuoco sfrenatamente795; empieva Roma con lo scandalo delle sue prepotenti dissolutezze, mandando ora a casa di questa, ora di quella bella matrona di Roma che gli fosse piaciuta la sua lettiga.... E la matrona doveva arrendersi subito all’invito796. Era anche, sebbene in così grande potenza, ombroso e invidioso in tutti gli altri, perfino nei suoi collaboratori, delle qualità che non aveva; e Agrippa, di cui pure incominciava a stimare l’ingegno e che aveva fatto giovanissimo in quell’anno pretore, se ne lagnava qualche volta e stava all’erta, badando a non ingelosirlo troppo797. Superbo e pauroso nello stesso tempo, puntiglioso e debole non voleva umiliarsi a domandare per primo la pace, ma temeva la guerra; non dubitava che Fulvia, di cui esagerava come tutti il potere sullo spirito del marito, inciterebbe costui alla vendetta, e arruffava perfidi e strani intrighi. Agrippa era riuscito a far passare sotto le proprie bandiere due delle legioni abbandonate da Planco; ma la cavalleria era andata a Sesto Pompeo e la terza legione aveva raggiunto Ventidio798. Un momento Ottaviano sembra avere cercato di corrompere Caleno, Ventidio e Asinio, dissimulando la tentazione in pratiche di pace799; invano però, che nessuno si fidava di lui e il prestigio di Antonio era troppo grande! E intanto Antonio si avvicinava alla Grecia e Fulvia gli andava incontro. Un altro pericolo sovrastava: se Sesto Pompeo e Antonio si unissero? Le gentilezze prodigate da Sesto Pompeo alla madre di Antonio e il rapido viaggio di questi, che ormai era quasi in Grecia, lo avevano impensierito a tal segno, che nel mese di maggio ricorse, affinchè intercedesse per lui presso il figlio, alla madre di Sesto; a quella Mucia che Pompeo Magno aveva ripudiata al ritorno dall’Oriente sospettandola di adulterio con Cesare800. Si accorderebbe con Pompeo, piuttosto che umiliarsi ad Antonio ed a Fulvia! Faceva insomma orrore all’Italia, brutto come era di tutti i vizi del tiranno: violenza, superbia, lascivia, perfidia. Tuttavia – cosa strana per un tiranno – aveva qualche amico vero; il suo maestro Atenodoro di Tarso, un certo Mecenate, un cavaliere discendente da una antica famiglia reale di Etruria imborghesitasi, che non sappiamo come avesse conosciuto. Costoro gli eran sempre vicini, lo sorvegliavano e lo ammonivano; ed egli – cosa più aliena ancora dalla natura di un vero tiranno – ascoltava con pazienza i sermoni, talora riconosceva il suo torto, prometteva di emendarsi801. Era questa perversità lo sfogo di una natura incorreggibilmente malvagia, o il furore breve di un giovane, traviato dalla potenza ed esasperato dalla paura?

Non che volesse la guerra; ma non voleva umiliarsi a Fulvia e ad Antonio, mostrarsi debole innanzi all’Italia; ma per apprestare tempestive difese, precipitava la guerra. Nella seconda metà di giugno aveva saputo che Muzia non era riuscita a conciliargli il figlio; che Sesto Pompeo, imbaldanzito dalle forze crescenti e incitato dai profughi, si disponeva a devastare le coste dell’Italia802; aveva saputo nel tempo stesso che Caleno era morto in Gallia e che il comando delle undici legioni era stato preso dal suo giovane figlio. Allora, non trovando altro scampo, si era appigliato a un partito temerario: incaricare Agrippa di difendere l’Italia contro Sesto e partire per la Gallia a sobillare le legioni di Caleno803, sperando di poter facilmente adescarle all’inesperto comandante e di bilanciare con questo vantaggio la probabile alleanza di Sesto e di Antonio. Intorno a questo tempo, poco dopo la partenza di Ottaviano da Roma, Antonio giungeva ad Atene e vi trovava Fulvia: infausto incontro da cui temevano tutti dovesse nascere la guerra! Ma nemmeno Antonio voleva la guerra. Altro che l’impero di Cleopatra! Labieno aveva frattanto invasa la Cilicia e l’Asia, aveva ucciso Decidio Sacsa, si era impadronito senza contrasto di tutte le città tranne di Stratonicea, di Milassa e di Alabauda804, fugando nelle isole il governatore805; onde, anche avesse odiato a morte Ottaviano, Antonio doveva ora, prima che a ogni altra cosa, provvedere alle provincie di Oriente perdute. Egli pare infatti aver rimproverate acerbamente a Fulvia le sue pazzie806; e si diè poi, aspettando il ritorno di Ottaviano dalla Gallia807, ad apparecchiare forze per essere pronto agli eventi, ma resistendo agli incitamenti di Fulvia e dei numerosi nemici del suo collega. In luglio probabilmente giunse da Atene la sua vecchia madre, mandata da Sesto con una onorifica ambasceria di cospicui personaggi, tra gli altri del proscritto Caio Senzio Saturnino e di Lucio Scribonio Libone, i quali venivano a proporgli esplicitamente la alleanza di Sesto Pompeo contro Ottaviano. Ma Antonio, fermo nei propositi di non provocare la guerra e di non lasciarsi sorprendere impreparato, rispose che della proposta era grato a Sesto, che se Ottaviano non manteneva gli impegni di Filippi acconsentirebbe a unirsi a lui, se agli impegni non mancava si sforzerebbe di riconciliarlo con il collega808. Si spiavano così a vicenda sospettosamente Antonio e Ottaviano, pur senza volere nè l’uno nè l’altro la guerra, ma senza voler nè l’uno nè l’altro prendere l’iniziativa della pace. Senonchè questa vigilanza inerte non poteva durare a lungo. Ottaviano in Gallia era riuscito ad adescare le legioni di Caleno, ne aveva subito mutato gli ufficiali, le aveva poste sotto il comando di Salvidieno; e probabilmente verso la fine di luglio o al principio di agosto tornava a Roma, ma sempre pieno di incertezza e di paura. Era la rivolta delle legioni di Antonio un vantaggio definitivo e sicuro? Non provocherebbe il collega ad odio e a guerra mortale? E resterebbero poi fedeli? Giunto a Roma potè raccogliere maggiori notizie sulle trattative tra Antonio e Sesto, senza però sapere con sicurezza se l’alleanza era stata conchiusa o no. Sesto aveva preso a molestare le coste dell’Italia, ma non era chiaro se per propria iniziativa o d’accordo con Antonio. A ogni modo, per intralciare anche questa alleanza, Ottaviano studiò un intrigo singolare; mandò Mecenate da Lucio Scribonio Libone, il suocero di Sesto e il suo consigliere più autorevole per la vecchia amicizia del padre, a persuaderlo di dargli in moglie la sua sorella Scribonia; una matrona molto più vecchia di lui, mal famata a quanto pare, che era già andata sposa a due consolari809. Scribonio, lietissimo, scrisse subito a Roma di fare senza indugio il maritaggio; e il triumviro, sicuro di un assalto di Antonio dopo il tradimento delle legioni, affrettò le nozze, celebrandole forse in agosto tra le risa di tutta Roma. Si ingegnò nel tempo stesso di spargere tra i veterani il sospetto che Marco Antonio si alleasse con Sesto per ridare ai vecchi possidenti le terre assegnate loro810; cercò di conciliarsi perfino con Lucio, a cui diede il governo della Spagna811. Costui l’accettò, e dopo non se ne ha più notizia. Probabilmente morì di lì a poco: di morte naturale, speriamo....

Ottaviano questa volta non si ingannava. In Grecia, quando si seppe che il figlio di Cesare aveva tolto il migliore esercito al collega, Fulvia e il partito della guerra prevalsero812; Antonio si volse immediatamente alle offese, imbarcò sulle navi raccolte in Asia una parte delle legioni di Macedonia, si accinse ad assalire l’Italia. In quel frangente ricevè pure un aiuto. Dal suo rifugio in mezzo alle foci del Po, Asinio Pollione aveva avviate trattative con Domizio Enobarbo, l’errante signore dell’Adriatico e di un regno mobile racchiuso nelle tavole delle sue navi, e lo aveva persuaso a tentare la pace con Antonio; questi aveva accettato dimenticando che Domizio era uno dei congiurati condannato per la Lex Pedia813; e ricevuto quindi il rinforzo delle navi e delle due legioni a cui Domizio comandava, comparve nell’Adriatico in settembre, lasciando Fulvia a Sidone; prese Siponto e assediò Brindisi; scrivendo frattanto a Sesto Pompeo che accettava l’alleanza e ordinandogli di assalire Ottaviano. Asinio aveva poi seguito Domizio ed Antonio. Di lì a poco Sesto sbarcava sulla costa lucana un corpo che assediava Cosenza, un altro ne inviava nel golfo di Taranto contro Turio; e mandava una flotta con quattro legioni al comando del suo liberto Menodoro o Mena ad assaltare la Sardegna814. Ottaviano corse alle difese; spedì Agrippa a riprender Siponto; andò egli stesso al soccorso di Brindisi; diede ordine a P. Servilio Rullo di raccogliere altre forze e di seguirlo815. Ma non stette molto ad accorgersi che anche in questa guerra, come in quella di Modena e di Perugia, la maggiore difficoltà nasceva dalla malavoglia dei soldati che, sempre ostinati nel volere la concordia tra Ottaviano ed Antonio, impugnavano a malincuore le armi contro il vincitore di Filippi. Agrippa aveva tentato invano di chiamare sotto le armi i veterani dedotti nell’Italia meridionale; Ottaviano nel suo viaggio a Brindisi aveva persuasi molti veterani a seguirlo, ma tutti con il proposito di indurlo poi alla pace816; Siponto era stata liberata da Agrippa, ma Servilio, sorpreso da Antonio presso Brindisi, era stato disfatto e abbandonato da quasi tutti i soldati817; sotto Brindisi i soldati di Cesare erano senza tregua sollecitati e rimproverati da quelli di Antonio818. Peggio ancora, pare che Salvidieno incominciasse pratiche con Antonio per ridargli l’esercito rubatogli da Ottaviano, giudicando impresa disperata di mantenerlo in fedeltà del nuovo signore. Come poteva Ottaviano operare vigorosamente con un esercito così svogliato, quando i triumviri erano i signori dell’impero e i servitori delle legioni? D’altra parte Antonio si disponeva a far venire rinforzi dalla Macedonia; Sesto Pompeo era felicemente riuscito nella spedizione contro la Sardegna, aveva presa l’isola e fatte passare sotto i suoi vessilli le due legioni di Ottaviano in quella di stanza819; le cose si mettevano male. Ottaviano avrebbe desiderato trattare di pace; ma non voleva essere il primo, come non voleva Antonio. Era necessario un paciere; ma nessuno osava, perchè Fulvia spaventava tutti. Per un accidente singolare giunse in mezzo a queste difficoltà la notizia che Fulvia era morta a Sicione820; molto, troppo opportunamente forse; e allora finalmente un paciere prese coraggio a farsi avanti: Lucio Cocceio. Costui, che era con Antonio, fece una prima visita a Ottaviano, ritornò da Antonio, di nuovo si recò presso Ottaviano, strappando a poco a poco all’uno e all’altro giustificazioni, proposte, risposte: assicurò Antonio, per incarico di Ottaviano, che questi aveva inteso di rendergli un servigio, prendendo le legioni di Caleno per non lasciarle in balìa di un giovinetto, esposte alle seduzioni di Sesto Pompeo821; assicurò Ottaviano, per incarico di Antonio, che costui riconosceva il torto di Fulvia822. I soldati frattanto facevano grandi dimostrazioni per la pace823. Si poteva contrastare ai soldati? Antonio mandò Domizio in Bitinia e scrisse a Pompeo di ritrarsi in Sicilia824; cosicchè in breve si potè conchiudere che un nuovo accordo sarebbe discusso non direttamente tra i due triumviri, ma da Asinio Pollione e da Mecenate, rappresentando il primo Antonio e il secondo Ottaviano825. Così nell’autunno dell’anno 40 fu conchiuso a Brindisi un accordo interamente nuovo, con il quale fu ridiviso l’impero, comprendendo nella nuova divisione le provincie di Oriente che a Filippi non erano state considerate. Ottaviano ebbe tutte le provincie di Europa, compresa la Dalmazia e l’Illirico, quindi anche la Gallia Narbonese e la Transalpina, prima in potere di Antonio; Antonio invece tutte le provincie dell’Oriente, la Macedonia, la Grecia, la Bitinia, l’Asia, la Siria, la Cirenaica. A Lepido fu data l’Africa826. Ottaviano restituì ad Antonio le legioni di Caleno827 ma ricevè le due legioni che Antonio gli doveva, le tre che Lepido non gli aveva ancora date e si tenne le tre novelle reclutate da Planco, cosicchè ebbe un esercito di 16 legioni – due gli erano state tolte da Sesto –; Antonio si tenne le due legioni di Domizio, accrescendo il suo esercito a 19 legioni e si riserbò il diritto di far leve in Italia828; a Lepido furono date le sei nuove legioni reclutate da Lucio Antonio829. Sesto Pompeo fu abbandonato da Antonio. Ottaviano potrebbe fargli subito guerra.

In questo accordo, la cui importanza è stata singolarmente misconosciuta dagli storici, appariscono probabilmente i primi effetti degli intrighi di Cleopatra. Mentre un anno prima, dopo la battaglia di Filippi, Antonio mostrava di voler partecipare al governo dell’Italia ed avere un pezzo dell’Europa, in quell’anno mutata idea abbandonava al collega l’Italia e tutto l’occidente barbaro e povero, si teneva la parte dell’impero, di cui l’Egitto poteva considerarsi come centro, tutte le provincie del ricco e civile Oriente, e la migliore provincia dell’Africa, la Cirenaica. Questo mutamento fu certamente effetto delle discussioni avvenute alla corte di Alessandria. In mezzo agli apparenti splendori del decrepito Egitto, Antonio, come Cesare negli ultimi anni, si era persuaso che l’Europa – l’Italia non esclusa – era un continente barbaro e povero, che non diventerebbe mai ricco; che dell’impero di Roma, chi non potesse averlo tutto, doveva prendersi l’Oriente, e di questo considerare come parte vitale l’Egitto. Con i soldati d’Italia, l’oro dell’Oriente e il dominio dell’Egitto, egli farebbe la conquista della Persia, diventerebbe l’uomo più potente tra tutti. Dovè però rinunciare, per il momento, a una parte di questo disegno: al regno dei Tolomei, alla signoria del Nilo, al matrimonio con Cleopatra, da cui pure gli era nato frattanto un figlio. Fulvia era morta a tempo; ma i soldati credevano pur sempre alla meravigliosa efficacia dei matrimoni come garanzia di concordia e per confermare la pace gli prepararono un’altra moglie. Antonio dovè acconsentire a sposare Ottavia, la sorella di Ottaviano, che da pochi mesi era rimasta vedova con un piccolo figlio830; e obbligarsi a vivere nella famiglia almeno, non come un monarca asiatico, con il corteo delle concubine e degli eunuchi, ma come un pater familias latino e come il marito di una semplice matrona romana, che avrebbe badato ad allevare i figlioli di lui al modo italico. Senonchè nel seguito di Antonio Cleopatra aveva insinuato molti egiziani abili e astuti, i quali non solo informerebbero di ogni atto e pensiero di lui la regina dell’Egitto, ma lavorerebbero pazientemente lo spirito inquieto del triumviro, a favore della loro Signora e dei suoi disegni831. Da lontano Cleopatra si sforzerebbe senza tregua di mutare il marito di Ottavia nel monarca di una corte asiatica.

A ogni modo questo matrimonio dimostra che Antonio era stato trattenuto l’inverno precedente ad Alessandria non dall’amore di Cleopatra, ma dalla ambizione di un impero. Non del temperamento amoroso di Antonio sono documento queste deliberazioni, ma dell’immenso disordine rivoluzionario dei tempi, per cui, obliterate tutte le tradizioni e tutte le leggi, confuse le classi gl’interessi le idee, snaturata ogni istituzione, un uomo come Antonio, pronto, immaginoso, spensierato, sicuro di sè dopo tanti successi, poteva alla leggera e per consiglio di una donna, da un mese all’altro, prendere una risoluzione gravissima; anticipare di tre secoli quella divisione dell’impero d’Oriente e d’Occidente, che fu definitiva ai tempi di Diocleziano; spogliare l’Italia dell’impero conquistato in due secoli con pochi tratti di penna. Sta in questo l’immensa gravità delle deliberazioni di Brindisi. L’Italia viveva e progrediva da due secoli sfruttando l’Oriente, impadronendosi degli uomini, dei capitali, delle merci asiatiche con mezzi politici e con mezzi finanziari sussidiati dai mezzi politici, e degli interrotti tributi orientali aveva sofferto e soffriva allora un grande travaglio. Che cosa avverrebbe se quei tributi non fossero mai più portati a Roma, ma ad Atene, dove Antonio pensava di stabilire la sua residenza, aspettando di poter portarsi ad Alessandria? Se quei tributi fossero spesi non più in Italia e in Europa ma in Oriente? L’ordine economico stabilito da più di un secolo sarebbe sconvolto da capo a fondo. Inoltre Antonio si riserbava il diritto di reclutare soldati in Italia: ma era possibile che l’Italia si acconciasse, dopo essere stata il capo di un impero, a diventarne il braccio? a sostenere con i suoi uomini una signoria, di cui si toglievano a lei i frutti migliori? Antonio sempre più infervorato nel pensiero della guerra di Persia, trascinato dal successo, dalla sua audacia naturale, dalla facoltà di abusare del potere in quella grande confusione, non aveva dubbi, e si avventurava ciecamente nell’oscuro avvenire.

L’Italia lasciava fare, distratta dalla pioggia di sventure, che non risparmiavano nessuno, nemmeno il poeta del rinnovamento del mondo. Virgilio, come chi vuol togliersi alla vista dell’orrendo reale nella contemplazione poetica di un mondo ideale, aveva fatto seguire in questo anno al fallito vaticinio l’egloga quinta, un puro carme bucolico, fervoroso, immaginoso, pieno di squisite immagini campestri e di slanci mistici, ma profondamente triste; il canto dei due pastori che piangono la morte di Dafni, l’eroe bucolico, e celebrano la sua assunzione in cielo. Ma la realtà ghermì di nuovo il poeta giù dal suoi sogni. Alfeno Varo, non potendo resistere alle cupidigie dei veterani, aveva dovuto dividere loro oltre le terre di Cremona quelle di Mantova; e il campo avito di Virgilio era stato confiscato. Il poeta aveva ricorso ad Alfeno, che gli era amico e voleva essere celebrato da lui in versi come Pollione; ma invano. I veterani erano padroni dell’Italia. Virgilio aveva dovuto scappare a Roma, dove si era rifugiato in casa del suo antico maestro di filosofia, Sirone.

XIV.
IL FIGLIO DI POMPEO.

Appena conclusa la pace, Antonio provvide alle sue provincie invase dai Parti; nominò Gneo Domizio Enobarbo governatore della Bitinia, L. Munazio Planco governatore dell’Asia, P. Ventidio Basso governatore della Siria; a questi diede anche le forze militari allora disponibili a Brindisi e in Macedonia e l’ordine di accingersi subito a liberare le provincie invase832. Provvide infine a trasportare in Oriente le legioni che aveva in Europa, incaricando Asinio Pollione di raccoglierle nella valle del Po e di portarle per la Venezia, l’Istria, la Dalmazia, l’Illirico e l’Epiro in Macedonia, di cui Asinio doveva essere il governatore nel 39833. Si celebrarono poi grandi feste, nelle quali fu da tutti osservato che in quei due anni Antonio era quasi divenuto un asiatico nei modi, nei gusti, negli acconciamenti834. Ma subito nacquero dei guai in mezzo alle feste, quando i soldati giudicarono di poter chiedere finalmente ad Antonio, tornato dall’Oriente, essi pensavano, onusto di tesori, il denaro promesso prima di Filippi e gli arretrati del soldo. Antonio però aveva raccolto poco denaro l’anno prima nell’Oriente già spremuto da Bruto e da Cassio; onde si scusò di non potere. Ma gli ignoranti soldati non gli credettero; e ne nacque una rivolta, che Antonio e Ottaviano poterono sedare solo con nuove promesse e congedando i soldati più anziani, a cui furono date terre in Italia835.

Questa sedizione dimostrava di nuovo quanto friabile e labile fosse, in così universale dissoluzione di ogni tradizione e autorità, la fedeltà degli eserciti. Eppure su questo solo fondamento posava ormai il potere dei triumviri. In tre anni il triumvirato aveva scontentate tutte le classi, anche le medie e le infime, sebbene questa ultima guerra civile, pur sciupando e rovinando molte cose, generasse un grande beneficio, già incominciato dal naturale svolgimento delle cose nei trenta anni innanzi e accelerato dalla guerra civile di Cesare: scemasse cioè il numero delle grandi fortune, accrescendo invece le medie. Certamente i triumviri e i più autorevoli e destri tra i loro amici, come Mecenate ed Agrippa, un certo numero di oscuri liberti, di sordidi usurai, di mercanti ignobili ben provvisti di denaro in tempi di tanta scarsezza, avevano potuto acquistare quasi per nulla terre, case, gioie di famiglie indebitate o rovinate e fare grandi fortune. Ma in misura molto maggiore quella guerra civile, come tante altre rivoluzioni della storia antica, serviva alla classe media e povera ad invadere e spartirsi i beni della aristocrazia e della plutocrazia. A pagare i soldati, gli ufficiali, gli spioni, i mestatori, gli agenti dei partiti, che appartenevano quasi tutti alla classe povera e media, era stata consumata la fortuna lasciata da Cesare e i patrimoni di tutti i capi della rivoluzione nei due partiti, da Decimo e Marco Bruto a Ottaviano; i patrimoni più ingenti di Roma, tranne pochissimi, da quello di Pompeo a quello di Lucullo, di Varrone, dei duemila più ricchi cavalieri d’Italia erano stati confiscati interamente o in parte e divisi tra tribuni militum, centurioni, soldati, avventurieri; i fabbri che forgiavano le armi, i mercanti di metalli o di vesti militari, i possidenti che tenevano tabernae devorsoriae, le fumose e rozze osterie delle grandi strade allora tanto percorse da soldati, da messaggeri, da corrieri, da ambasciatori, da possidenti scacciati, da postulanti e avventurieri che si recavano a Roma; coloro che su queste stesse vie faciebant velaturam, affittavano cioè vetture, cocchieri e cavalli ai viandanti, tutti guadagnavano molto836. Inoltre con la proscrizione di tanti usurai e con la confisca di tante terre, un gran numero di debiti e di ipoteche era stato annullato, di fatto se non di diritto: perchè la repubblica, cioè i triumviri, erano entrati nel luogo dei creditori e non avevano certo tempo e modo di cercare e di esigere quella foraggine di syngraphae; perchè le terre confiscate erano vendute o assegnate ai nuovi possidenti libere da debiti e pesi! Mentre l’ordine senatorio e l’ordine equestre erano così impoveriti, che dei cavalieri e dei senatori si buttavano al mestiere di gladiatori per vivere837, quella borghesia municipale di Italia che da quaranta anni cresceva di numero, di agiatezza, di potere, era rinforzata dai veterani congedati e da tutti coloro che, in mezzo al gran rivolgimento, riuscivano a fare un gruzzolo, a pigliarsi una terra, a comperare qualche schiavo. Senonchè questo rivolgimento di fortune perturbava troppo, lì per lì, l’antico ordine di cose a cui i più erano acconciati. Se tutto il popolino povero dell’Italia e di Roma, esaltato da uno strano furore di vendetta per la uccisione di Cesare, illuso da speranze chimeriche, aveva favorito nel 44 e nel 43 il partito popolare, soltanto i soldati avevano guadagnato dalla vittoria, come corpo: mentre dei liberti poveri, degli artigiani, dei minuti mercanti, dei piccoli possidenti, se i più destri avevano saputo approfittare del grande disordine, la maggior parte era stata amaramente delusa. Per pagare i soldati non si erano soltanto imposte tasse gravose sull’Italia, ma si erano sospesi i lavori pubblici, trascurando sin la conservazione dei più venerabili edifici sacri e profani che cascavano in rovina838, sin la riparazione delle grandi strade dell’Italia, che il via vai degli eserciti guastava in modo orribile, cosicchè il lavoro scarseggiava al popolino; a molti mercanti erano state prese le navi, per formare le flotte di Sesto e dei triumviri; la distruzione di tante ricche famiglie inaridiva i commerci e i mestieri di lusso prima fiorenti, faceva stentare o fallire gli stuccatori, gli scultori, i pittori, i venditori di porpora, i profumieri, gli antiquari; le gravi imposte estorte dai triumviri avevano distrutto in ogni parte d’Italia un grande numero di piccoli possidenti, che non potendo pagare e non trovando denaro a prestito, erano stati spogliati delle loro terre. Cosicchè alla avidità della classe media che si formava, della “borghesia” italica, non erano immolate soltanto l’aristocrazia e la plutocrazia, ma anche la piccola possidenza. Concorrevano nelle città e specialmente a Roma i piccoli possidenti rovinati, gli artigiani e i liberti senza lavoro, i mercanti falliti, che non avevano potuto arruolarsi o che non osavano darsi al brigantaggio, da cui tutta Italia era infestata; concorrevano i liberti eruditi delle grandi famiglie distrutte – numerosi in special modo quelli di Pompeo – che sciolti dai legami di patronato con i nuovi compratori del patrimonio, di cui nessuno sapeva come adoperare le loro facoltà troppo elette, erano ridotti a vivere oscuramente con quello che si erano risparmiato nei tempi felici; si aggiungevano infine molti giovani delle famiglie possidenti d’Italia, che avevano studiato filosofia ed eloquenza e che venivano a Roma, tentando invano in quel disordine le vie della fortuna, troppo anguste e troppo affollate. Infine la grande carestia del denaro, l’universale rinvilìo di tutte le cose tribolava il maggior numero; anche coloro che si arruolavano o che riuscivano a rendere servigi ai triumviri, erano spesso insoddisfatti, non ricevendo che piccoli acconti del soldo e delle ricompense promesse; anche quelli che avevano arraffato qualche cosa nella rivoluzione, possedevano sì campi e case, ma poca moneta, e non potevano procurarsi dei lussi, dovevano vivere semplicemente. Tutti infine si sentivano malsicuri del proprio. Che cosa avevano fatto invece i triumviri in tre anni, non ostante i loro immensi poteri? Avevano distribuite terre a qualche migliaio di veterani; non avevano fatto altro, nè arrecato nessun vero beneficio al popolo.

In tutta Italia covava dunque negli animi una grande rabbia; ma sordamente, come brace sotto la cenere di una grande paura. Antonio pareva potentissimo; di Ottaviano si raccontava che avesse fatto uccidere o terribilmente maltrattate persone sospette di avversarlo839; il terrore scoraggiva tutti; e quel poco vigore che ancora restava era in molti distrutto dal bisogno! Di quanto cresceva la baldanza dei soldati, di tanto le classi medie e colte, quelle che, pur malcontente dello stato loro, possedevano qualche cosa, si avvilivano, per la paura di perdere anche il poco, in una mollezza servile verso i ricchi e i potenti, che faceva loro trangugiare in silenzio i rammarichi e che riduceva l’aristocrazia dominatrice del mondo ad un volgo di servitori. Perfino la spartizione dell’impero, che spogliava l’Italia della parte migliore della sua conquista, sembra non aver suscitata la indignazione pubblica, essere stata giudicata come cosa di poca importanza; tanto è vero che non se ne discerne alcun effetto negli eventi, alcuna traccia nella letteratura. La cricca di soldati che si era impadronita della repubblica pareva alle inermi classi possidenti così formidabile, così salda ed eternamente sicura al potere! Perfino Virgilio, che pure era uno spirito eletto, non aveva saputo resistere alle sollecitazioni di Alfeno Varo, che, dopo avergli tolti i beni, voleva essere celebrato nei suoi carmi; e siccome nella casa del suo vecchio maestro si era risvegliata in lui la passione filosofica dei primi anni e l’ammirazione per Lucrezio, gli dedicava una egloga filosofica che componeva in questo tempo, la sesta, in cui riassumeva in breve, ripigliando una vecchia favola greca di Sileno, la dottrina epicurea sull’origine del mondo. Un soffio del grande vento lucreziano passato nelle canne di una zampogna teocritea, e convertito in dolce musica! Ognuno badava a sè, rodendosi dentro e cercando di vivere per proprio conto meglio che potesse; la gente osava appena raccogliersi in piccoli crocchi, pareva sbandarsi per tutte le opposte vie della vita! Gli uni si buttavano nel brago dei piaceri grossolani, cacciando i pranzi dei signori, cercando etère e fanciulli; altri si davano agli studi o alla filosofia; molti alla religione o alla superstizione. Dall’Oriente, scacciati fuori dei loro paesi dalla povertà e dalle rovine di tante guerre, venivano a Roma a raccattare qualche tozzo di pane nell’immenso immondezzaio del mondo tutti i parassiti della civiltà antica: gli astrologi, i maghi, le fattucchiere, i predicatori di religioni o di dottrine bizzarre840; le storie di magie debbono avere fornito abbondante materia ai discorsi della società ignorante e della colta, se un poeta come Orazio si occuperà tanto di Canidia, la strega più in voga; Roma era piena di filosofi da strapazzo, che non trovando albergo nelle case dei grandi chiuse e deserte, andavano predicando per le strade, spesso in veste bizzarra, stravaganti dottrine nichiliste, per dirla alla moderna, contro la ricchezza, il lusso, il potere, il piacere841. Nei tempi magri fiorisce sempre la filosofia dell’astinenza. Erano insomma anni incerti e dolorosi; e nessuno forse sentì tanto il torbido malessere di questo tempo, quanto il giovane Orazio. Tornato dopo Filippi in Italia, egli aveva perduta la terra avita di Venosa, compresa nelle città date ai veterani di Cesare; e non aveva salvato dal naufragio che qualche schiavo – tre giovinetti, a quanto sembra842 – e un piccolo capitale, con cui a Roma aveva comprato, verisimilmente per poco, una carica di scriba questorio, di segretario del tesoro843. Questa carica – una delle poche retribuite e riserbate ai liberi nella repubblica – si commerciava, come tante cariche dell’ancien régime; e in quella malsicura condizione di tutto parve al giovane impiego migliore del suo capitaletto che una terra e una casa. Avrebbe del resto minori crucci, così! Ma orgoglioso e timido nello stesso tempo, pigro e dotato di inclinazioni raffinate, questo figlio unico di liberto, allevato più signorilmente che non comportasse il suo rango e la sua ricchezza da un padre troppo amoroso, si era trovato presto a disagio. Aveva conosciuto Plozio, Vario, Virgilio e i giovani letterati; ma tranne questi pochi non aveva relazione che con gente di nessun conto, attori, parassiti, filosofucci, usurai, mercanti844 che spiacevano ai suoi istinti signorili: nè d’altra parte osava farsi innanzi tra i grandi, trattenuto dalla sua timidezza e dal suo passato politico, che l’orgoglio gli impediva di rinnegare. Aveva avuto qualche amorazzo con delle etère; ma era troppo delicato di salute e troppo povero da poter darsi alla vita galante e gaudente, almeno se non acconsentiva a diventare un parassita, ciò che la sua fierezza impediva845. Amava gli studi e le lettere; ma era pigro a scrivere e nel grande disordine non sapeva che cosa fare; si era disanimato dal comporre poesie greche846; qualche volta volgeva in mente di ringiovanire il genere di Lucilio, la satira mordace dei latini: ma per non essere indegno del suo grande predecessore, egli avrebbe dovuto assalire i grandi, i loro vizî, le loro colpe, le colpe e i vizî del tempo. Ora ad assumere questo ministerio della rampogna morale di fronte al partito popolare trionfante e al triumvirato, mancava il coraggio al timido figlio del liberto, il quale si sgomentava al solo pensiero di leggere in pubblico o di vendere qualche suo scritto. E perciò allora veniva componendo la sua prima satira – la seconda del libro primo – ma molto modesta e prudente, in cui canzonava parecchi dei suoi umili amici, trattando non qualche grande questione morale con veemenza di sdegno, ma risolvendo con molto cinismo questo dubbio: se ad un giovane convenga meglio corteggiare le donne maritate o frequentare le meretrici. E il sapiente moralista giudicherà a favore di queste! Di simiglianti argomenti trattava il successore di Lucilio, mentre in così tragica condizione versava l’impero. Tanta era la paura di tutti!

Perciò la pace di Brindisi era stata cagione di grandissima letizia in Italia; e il popolo aveva visto con gioia, al principio di ottobre847, i due triumviri rientrare amicamente in Roma, celebrando l’ovatio deliberata dal Senato; e Antonio sposare Ottavia848. Si avrebbe un respiro, alla fine! Ma la speranza fu breve. Ottaviano superbo, puntiglioso, noncurante dell’Italia, ubriacato dopo l’accordo da una vana opinione della propria potenza, pieno d’odio contro Pompeo, voleva riavere senza indugio la Sardegna e aveva già mandato il liberto Eleno a riconquistare l’isola; e siccome Eleno era stato vinto da Menodoro849, pose subito mano alla guerra, imponendo nuovi balzelli: una tassa sulle eredità e una imposta di cinquanta sesterzi per ogni capo di schiavo850. Era troppo: si incominciava dunque una nuova guerra civile per odio privato, perchè Ottaviano voleva sterminare sino al seme la famiglia di Pompeo851. E allora una folata di vento soffiò sulle ceneri della brace; le fiamme divamparono; da quella nazione così paurosa e così sottomessa proruppe a un tratto uno di quei terribili, improvvisi scoppi di collera, con cui tutti gli esseri deboli compensano di tempo in tempo la loro neghittosità consueta. A Roma il popolo si volse furibondo a lacerare gli editti che intimavano il pagamento dei nuovi balzelli, proruppe in tumultuose dimostrazioni per la pace852; in tutta Italia il sentimento repubblicano ancora così profondo si riebbe per sussulto dal suo languore; nella opinione pubblica esasperata avvenne un improvviso, violento mutamento a favore di Sesto Pompeo853. Si rinnovò in tutte le menti una pietosa ed esagerata ammirazione del padre, del grande guerriero e legislatore, che aveva perduta la vita per difendere la repubblica e la proprietà contro la turbolenta ambizione di Cesare e della sua cricca; si commiserò il tragico fato della famiglia, così crudelmente spenta; si ammirò il figlio superstite, come un salvatore854. Il salvatore intanto, padrone della Sardegna e del mare, affamava Roma, dove in novembre la carestia divenne terribile855. Ma il pubblico non gliene serbò rancore, si invelenì anzi di più contro Ottaviano; sinchè il 15 novembre856, al primo giorno dei Circensi che si celebravano alla fine dei Ludi Plebei, quando comparve la statua di Nettuno (Sesto si diceva suo figlio), la folla proruppe a un tratto in un immenso, fragoroso, interminabile applauso, rinnovato più volte in mezzo a un entusiasmo frenetico. Antonio e Ottaviano il dì dopo non fecero più portare la statua di Nettuno: ma il popolo gridò che voleva il simulacro, corse alle statue dei triumviri e le rovesciò857. L’altezzoso Ottaviano volle fare il gradasso, comparire sul Foro e parlare; ma il popolo inferocito minacciò di squartarlo; Antonio dovette accorrere e fu anch’egli mal ricevuto. Ne seguirono dei disordini, per reprimere i quali fu necessario far venire nell’urbe i soldati858.

L’ordine fu ristabilito facilmente, sebbene non senza sangue: ma questa diarchia militare era così debole, i due triumviri furono tanto spaventati da quella improvvisa esplosione di odio, che non solo sospesero i preparativi della guerra, ma cercarono di dare qualche soddisfazione al sentimento repubblicano. Il pubblico osservò con sorpresa che i tumulti e le minaccie avevano efficacia ben maggiore dei lamenti e dei pianti! Difatti i triumviri, sino allora così altezzosi, incominciarono a cercare nuovi amici; e siccome tutte le cariche sino alla fine del triumvirato erano già assegnate, deliberarono di scorciare il tempo delle magistrature, in modo da poter nominare i magistrati almeno due volte, ed anche più, ogni anno859. Essi dividevano così tra la classe media bisognosa e ambiziosa la eredità politica della distrutta aristocrazia, quelle magistrature repubblicane, che nella età di Cesare erano state ancora occupate quasi tutte dai discendenti, sia pur degeneri, delle grandi famiglie, e che conservavano ancora tanto fascino per il ceto medio avvezzo da secoli ad ammirare di lontano i consoli, i pretori, gli edili, i senatori, quasi come semidei! Anzi, per incominciare senza indugio, sebbene già fossero alla fine dell’anno, i triumviri invitarono consoli e pretori a dimettersi e ne nominarono degli altri860: a consoli quel P. Canidio che si era tanto industriato per far ribellare ad Antonio le legioni di Lepido, e lo spagnuolo Cornelio Balbo, il primo che, nato di famiglia straniera, salì alla suprema magistratura di Roma. Nel tempo stesso in cui si dava agli amici affidamento di rapide carriere, bisognava spaventare i malfidi. Antonio aveva svelate a Ottaviano le pratiche di Salvidieno per cedergli le legioni; e Ottaviano, inferocito e impaurito da tanti contrasti, voleva farlo perire, ma non osava ordinarne egli la morte dopo quella collera pubblica; onde si deliberò alla fine di sottoporre Salvidieno al giudizio del Senato, che giudicava i delitti di alto tradimento; ottenendo così il doppio intento di mostrare rispetto alla costituzione repubblicana e di scaricarsi dell’odio dell’uccisione861. Il Senato, naturalmente, giudicò Salvidieno reo di perduellio e lo condannò a morte. Ad Agrippa invece, per incoraggiarlo nella fedeltà, Antonio ottenne in moglie da Attico la sua figlia unica862, che educata dal padre più all’antica che non piacesse ad Agrippa, fu affidata per una nuova educazione a un liberto del padre, A. Cecilio Epirota863. Altro dei tanti fenomeni rivoluzionari di quella età, queste rapidissime fortune dei giovani! A ventiquattro anni – tanti ne aveva allora – Agrippa, nato di oscura e povera famiglia, era già ricchissimo, aveva esercitata la pretura, sposava la più ricca ereditiera di Roma! Senonchè la pubblica esasperazione non si calmava per queste concessioni e per la sospensione della guerra, ma si ostinava a volere la pace con Sesto che porrebbe fine alla carestia: le dimostrazioni infuriavano più frequenti e più fragorose; nè Antonio nè Ottaviano osavano lasciare Roma, mentre in Oriente le faccende si aggrovigliavano. Verso la fine dell’anno era giunto a Roma Erode, fuggito dalla Giudea davanti all’invasione dei Parti, con l’ambizioso disegno di indurre i triumviri a farlo re di Giudea864.

[39 a. C.] Così l’anno 39, in cui Lucio Marcio Censorino e Caio Calvisio Sabino formarono la prima coppia di consoli, cominciò in mezzo a grande perturbazione e incertezza. Vedendo che l’opinione pubblica non si placava, Ottaviano e Antonio si mostrarono ancora più condiscendenti: proposero all’approvazione del Senato tutti gli atti da loro compiuti come triumviri865; par che facessero decretare dal Senato, ma addolcendole, le nuove imposte866; invitarono il Senato a decidere la questione della Giudea. Erode aveva persuaso Antonio con grandi doni; e il Senato, per incitamento dei triumviri, di Messala, di L. Sempronio Atratino e di altri grandi, deliberò che la Giudea fosse regno ed Erode re867. Insomma i due cognati smaniavano di farsi credere dei buoni repubblicani di stampo antico, rispettosi della autorità del Senato; e nel tempo stesso promettevano sin d’allora la maggior parte delle magistrature per i quattro anni seguenti868; nominavano un gran numero di senatori, scegliendo all’onore del laticlavio ufficiali e partigiani di modesti natali e di poca considerazione: centurioni, vecchi soldati e perfino liberti869; prendevano a corteggiare nei giovani letterati la dinastia degli uomini di penna fondata da Cicerone. Il dispotismo militare incominciava a cedere; quella che oggi chiameremmo la piccola borghesia invadeva il Senato vuoto ormai di grandi lignaggi, correva a pigiarsi in folla oscura sui banchi, dove avevano seduto a loro agio e Lucullo e Pompeo e Cicerone e Catone e Cesare; il pubblico tra tante rivoluzioni, incominciò a vedere stupito fortune di genere nuovo, come quella di Virgilio. Da qualche tempo il nome del poeta dai piccoli crocchi dei neoteroi (νεώτεροι) e dei giovani letterati si spandeva nel gran pubblico, dopochè degli attori e perfino Citeride, la famosa liberta di Volumnio, la antica amante di Antonio, la celebre attrice ed etera, avevano cominciato a declamare pei teatri le sue Bucoliche!870 Ma da questo successo letterario nacque allora e a un tratto una specie di potenza politica non ambita; Virgilio, che pure era da poco tempo a Roma, diventò, in mezzo a questi torbidi, un personaggio potente; si vide corteggiato da Mecenate, presentato a Ottaviano, e insieme compensato da costoro del danno della confisca con certe terre della Campania. Il poeta continuava a scrivere; e componeva in questi tempi due imitazioni teocritee, la egloga settima e la ottava: la prima, una graziosa gara di brevi carmi tra due pastori; la seconda, una contaminazione della prima e della seconda egloga di Teocrito, raffiguranti due troppo raffinati pastori, i quali all’alba si incontrano e cantano in versi melodiosi e immaginosi, l’uno l’amore infelice di un giovane, l’altro gli appassionati sortilegi di una donna che vuol richiamare l’amato dalla città. Ma il poeta si ingegnava anche di mettere la sua nuova autorità a profitto dei confratelli poveri, degli amici, dei concittadini. Per un momento aveva sperato di indurre Alfeno Varo con la seduzione delle muse sicule a revocare la confisca delle terre mantovane; e allora, sul principio del 39, presentava a Mecenate Orazio, sperando così di aiutarlo a migliorare la sua condizione. Il momento era propizio; le porte degli spaventati triumviri e dei loro amici erano aperte ai sollecitatori! Ma Mecenate, pur ricevendo cortesemente in una breve udienza il giovane che impacciato, vergognoso, riuscì a balbettare appena poche parole871, non potè lì per lì occuparsi di lui. Ben altre cure distraevano il consigliere di Ottaviano! Invano i triumviri avevano sperato che, facendo qualche nuova concessione, lasciando passare un po’ di tempo, l’opinione pubblica muterebbe: durava invece la carestia e cresceva, rinfocolata dalle loro esitanze, l’esaltazione del popolo, delle dimostrazioni si erano recate perfino da Mucia, la madre di Sesto, per supplicarla di intercedere, minacciando di bruciarle la casa, se non acconsentiva872. Che fare? L’iroso e squilibrato Ottaviano voleva ostinarsi; ma Antonio capì che, per il momento, bisognava cedere; e pregò Libone, il suocero di Sesto e il cognato di Ottaviano, di mettersi di mezzo873.

Ora è curioso che, mentre Ottaviano e Antonio non riuscivano a placare la sdegnata nazione neppure con tante e così smaccate cortigianerie repubblicane, il giovane in cui l’Italia raffigurava il difensore della repubblica e della libertà, aveva stabilito in mezzo al mare, sulle tre isole, una dispotia di liberti all’uso asiatico, che egli reggeva come monarca, avendo a ministri alcuni intelligenti liberti orientali di suo padre, Menodoro, Menecrate, Apollofane, mutatisi in ammiragli e governatori; una dispotia nella quale i molti nobili rifugiatisi presso lui, tra i quali il figlio di Cicerone, si trovavano a disagio. Ne seguivano malumori, discordie, sospetti, che a volte incitavano Sesto a crudeltà ed a violenze e che in quel tempo lo avevano indotto a fare uccidere Staio Murco874. Inoltre Sesto aveva reclutate nove legioni, in gran parte con gli schiavi dei latifondi siciliani appartenenti ai cavalieri di Roma e confiscati dai triumviri, di cui si era impadronito; aveva anche aperto il suo piccolo impero insulare, come un rifugio, a tutti gli schiavi che volessero arruolarsi sotto le sue bandiere; onde era cagione di grave pericolo alla classe agiata d’Italia, i cui schiavi erano di continuo tentati alla fuga dalla libertà che troverebbero facilmente oltre il mare. Eppure l’Italia odiava tanto i triumviri e specialmente il figlio e il nome di Cesare, riponeva nel figlio di Pompeo tante e così ardenti speranze, da far supporre a qualche moderno, che se Sesto avesse osato sbarcare l’esercito in Italia invece di molestarne le coste, avrebbe potuto forse vendicare Farsaglia e deviare per sempre il corso degli eventi875. Senonchè nella primavera del 39 erano trascorsi dieci anni, e quali anni, dal passaggio del Rubicone! L’ardimento e la timidezza dei capi, nelle grandi contese storiche, non sono mai soltanto l’effetto delle loro qualità innate o acquistate e quindi loro merito o colpa intera: ma sono anche l’effetto di un contagio di baldanza o di scoramento, che il successo o le sventure a volta a volta diffondono in tutti. Cesare aveva potuto dieci anni prima varcare con piede sicuro il Rubicone, non soltanto perchè era un uomo ardito, ma perchè, partecipando alla sicura confidenza di tutta la nazione rassicurata da venticinque anni di pace, non credeva possibile un immenso rivolgimento; non immaginava di scatenare una terribile guerra civile tra i ricchi e i poveri; si illudeva di costringere i suoi avversari a transigere una puntigliosa discordia di politicanti. Ma ora gli immani disastri subiti e l’universale perigliosa incertezza delle cose presenti sgomentavano tutti, anche Antonio e i capi del partito vittorioso, temendo ne nascerebbero chi sa quali guai imprevisti; tutti aspettavano passivamente che gli eventi precipitassero per forza propria. Poteva osare tanto ardimento Sesto Pompeo, che non era certo un uomo di grande genio, che doveva necessariamente essere disanimato dal tragico fato a cui la sua famiglia avea soggiaciuto? Tuttavia, se non poteva imitare gli ardimenti di Cesare, Sesto Pompeo non era così sciocco da non capire che in quel momento Ottaviano e Antonio avevano più di lui bisogno di pace; e l’intelligente Menodoro lo incitava a resistere, a tirare in lungo, a rendere con la carestia e le minaccie più perigliosa ancora la condizione dei due rivali876. D’altra parte però Libone, Muzia, i più autorevoli romani rifugiati presso di lui facevano opera efficace in contrario, ammonendolo che altrimenti l’Italia potrebbe voltarglisi contro in nemica877. Così le trattative furono lunghe; ma si venne alla fine a questo accordo: a Sesto Pompeo sarebbero riconosciute la Sicilia e la Sardegna, e dato il Peloponneso per cinque anni, cioè sino al 34 a. C.; nell’anno 33 egli sarebbe console; entrerebbe a far parte del collegio dei pontefici; riceverebbe per indennizzo dei beni confiscati a suo padre settanta milioni di sesterzi; in cambio non molesterebbe più le coste d’Italia; non darebbe rifugio a schiavi fuggiti; lascerebbe libera la navigazione; concorrerebbe alla repressione dei pirati. Inoltre si prenderebbe l’occasione della pace di Miseno per perdonare tutti i fuggiaschi e tutti i proscritti superstiti, tranne i condannati per l’uccisione di Cesare; restituendo a quelli tutti i beni immobili e a questi la quarta parte; sarebbero anche riconosciuti liberi tutti gli schiavi che avevano militato sotto Sesto; si prometterebbero ai soldati di costui le medesime ricompense che a quelli di Ottaviano e di Antonio878. Dopo questo accordo, nell’estate, i due triumviri si recarono con un esercito a Miseno, a Miseno venne Sesto con la flotta; e nel bel golfo, in cospetto dell’esercito che gremiva le coste del promontorio, in cospetto della flotta che copriva di vele il largo del mare, il figlio di Cesare e il figlio di Pompeo si ritrovarono con Antonio sopra una nave, ratificarono la pace, si invitarono a solenne banchetto, fidanzarono una piccola figlia di Sesto con il piccolo Marcello, figlio di Ottavia. Per consolidare maggiormente la pace, furono anche compilate le liste dei consoli per altri quattro anni e cioè sino al 31 a. C.879. Poi Sesto andò in Sicilia, Antonio e Ottaviano a Roma, insieme con un considerevole numero di illustri proscritti o di fuggiaschi dopo la caduta di Perugia, i quali approfittavano del perdono per abbandonare Sesto e i suoi liberti e tornare a Roma a riprendere quello che restava dei loro beni: Lucio Arrunzio, Marco Giunio Silano, Caio Senzio Saturnino, Marco Tizio, il figlio di Cicerone880. La pace era dunque ristabilita, con grande giubilo di tutta Italia; e quasi a consolidarla, la Fortuna pareva fare nuovi nodi ai legami di parentela, che univano i tre autori del trattato di Miseno. Ad Ottaviano era già da poco nata da Scribonia (o stava per nascere) una bambina, Giulia; Ottavia era incinta di Antonio.

Conchiudendo la pace di Miseno, il triumvirato aveva fatta la prima grande capitolazione davanti alla forza invisibile della opinione pubblica. In questo ne consiste la grande importanza. Da questo momento incomincia una lotta sorda e continua tra le inermi classi agiate e la dittatura militare della rivoluzione; in cui gli inermi a poco a poco si imporranno agli armati. Incoraggiato intanto dalla pace di Miseno, Virgilio osava mettere mano a una nuova egloga politica, la nona, in cui farebbe apertamente lamentare da pastori la confisca del suo podere e delle terre dei mantovani, ricordando, quasi a rimprovero, che egli aveva salutato l’astro di Cesare e che del suo affetto al dittatore aveva ricevuta una ben amara ricompensa!

XV.
IL DISASTRO DI SCILLA
E LA VENDETTA DI CRASSO.

Dopo la nascita di una bambina881, in settembre882, Antonio partì per Atene. Non ostante il matrimonio con Ottavia egli non aveva smessa, anzi si era vieppiù confermato nell’idea di porre le fondamenta della sua grandezza in Oriente e di fare la guerra alla Persia. Tutti i vizii delle troppo anticate istituzioni latine. l’instabilità, la venalità, l’inettitudine, il disordine, a cui Cesare si era illuso di porre riparo, crescerebbero ora che i triumviri avevano aperta la repubblica alla folla innumere degli oscuri ambiziosi, riducendo a sei o a tre mesi il tempo delle magistrature e riempiendo alla rinfusa il Senato. Come adoperare per opere gravi e difficili magistrati che uscivano di carica appena entrati e che erano scelti a casaccio, per amicizia o clientela, tra gente spesso ignara, di sordida origine, quasi sempre impreparata al difficile cómpito di comandare e sprovvista perfino di quell’ultimo aiuto che non manca nemmeno ai più degeneri discendenti dei grandi lignaggi: il prestigio del nome? Cesare aveva tentato di restringere i diritti e i privilegi superstiti dell’aristocrazia, e le grandi famiglie lo avevano ucciso; il partito di Cesare aveva a sua volta sterminato gli uccisori, ma non aveva potuto distruggere quei diritti e privilegi, era anzi costretto ad allargarli a una classe più numerosa, più ignorante, più inetta. Le persone sole erano mutate. Mentre prima un italiano di Forum Julii o di Venosa difficilmente avrebbe potuto competere con le grandi famiglie romane per la conquista delle magistrature, poteva ora più facilmente. Inoltre la capitolazione di Miseno, a cui i tumulti di Roma avevano costretto lui e il suo collega, dimostrava quanto il triumvirato fosse debole; e della debolezza appariva chiaro che la ragione principale era la pochezza delle cose compiute dai triumviri. Costoro non avevano nemmeno saputo ristabilire l’ordine in tutto l’impero, avevano soltanto divise delle terre tra quattro o cinquemila veterani di Cesare: troppo piccola cosa per tante stragi, guerre, illegalità e violenze commesse; per una così straordinaria grandezza di poteri a loro conferita. Bisognava giustificarla con grandi imprese. Anche per questa ragione la guerra di Persia era necessaria. Ma l’Italia era esausta; anche in quell’anno le spese della repubblica erano cresciute e le entrate scemate, cosicchè i triumviri avevano dovuto dare ai soldati, agli ufficiali, agli appaltatori, molte promesse e poco denaro, accrescendo il disavanzo già grosso e i debiti già numerosi883.

Allorchè Antonio nella seconda metà del 39 si recava ad Atene, lasciando a Roma in ufficio la seconda coppia dei “piccoli Consoli” come li chiamava spiritosamente il popolo, L. Cocceio e P. Alfeno, questa evidente necessità, aggiunta ai motivi personali, non poteva non sospingere le sue determinazioni a quella parte, cui già erano inclinate dai consigli di Cleopatra. Le notizie ricevute dall’Asia poco dopo il suo arrivo in Grecia884 ancora più lo incoraggiarono. Ventidio Basso, forse in agosto, aveva sorpreso con felice accorgimento e ardimento Labieno ai piedi del Tauro in un luogo che non ci è noto, e lo aveva disfatto e costretto a fuggire con pochi compagni; poi era calato nella Cilicia, si era fatto innanzi risolutamente verso la catena dell’Amano e i passi che conducono in Siria; aveva qui incontrato un nuovo esercito partico, condotto da un generale, il cui nome non è sicuro, e lo aveva sconfitto885. I Parti, così valorosi nel difendere il proprio, così inetti a conquistare l’altrui, battevano in ritirata verso l’Eufrate; la Siria era aperta ai Romani; solo in Palestina Antigono resisteva, sperando che i Parti tornassero. Allegrissimo per queste notizie886, Antonio si infervorò ancora più nei molti e diversi disegni che volgeva nel pensiero; e senza por tempo in mezzo, prese in quegli ultimi mesi del 39 a rimaneggiare la carta politica dell’Oriente, in un modo che dimostra luminosamente la sua crescente sfiducia nei governatori di Roma e nelle forze dell’Italia, la sua inclinazione alle istituzioni burocratiche delle monarchie orientali. Non solo infatti confermò Erode a re di Giudea, ma nella persona di Dario, figlio di Farnace e nipote di Mitridate887, ristabilì la dinastia nazionale nel Ponto, dove Pompeo aveva organizzate grandi comunità elleniche; volendo domare i Pisidi, valorosi montanari che potevano fornire stupendi soldati e briganti terribili, non ci mandò un generale suo, ma scelse Aminta, un segretario di Dejotaro, che fece re dei Pisidi888; volendo ricompensare un certo Polemone, figlio di un retore di Laodicea che improvvisatosi soldato aveva difeso bene la città contro i Parti, lo fece re della Licaonia889. Tutti ebbero incarico di raccogliere denari e soldati890, anche Dario che doveva ricostituire l’antico esercito del regno del Ponto891; di prepararsi insomma ad aiutarlo con oro e con milizie nella guerra di Persia. Divise inoltre in tre parti l’esercito che Pollione aveva portato, riprendendo lungo il viaggio Salona ribellata e vincendo i Partini892: una la mandò a svernare in Epiro, altre due le adoperò in piccole spedizioni contro i barbari893. Incominciò poi a condursi come un vero monarca orientale, sottoponendo a dure contribuzioni tutta la Grecia e specialmente il Peloponneso, destinato a Sesto Pompeo894, e in questo facendo tagliare la testa per togliergli i beni – era uno dei procedimenti democratici usati dalle antiche monarchie – al più ricco possidente, un certo Lachares895; sperimentando perfino il culto divino che si attribuiva in Asia ai re. Se Ottaviano si contentava di essere chiamato “figlio del divino”, Antonio si faceva chiamare addirittura divino in persona896 e il nuovo Dionysos: e compariva nelle cerimonie nel luogo del simulacro del Dio; e celebrava una specie di mistico maritaggio con Minerva, costringendo la disgraziata Atene a pagargli mille talenti per dote897. Poi, giunto il tempo in cui la navigazione era sospesa, si diede nella celebre e bella città alle feste, ai giuochi, alle conversazioni con i retori e i filosofi, per corteggiare in Atene l’ellenismo, quasi volesse esercitarsi ad essere in ogni cosa, anche nella protezione delle arti e delle scienze, un buon successore di Alessandro898.

Ottaviano invece era partito per la Gallia, dove gli Aquitani erano insorti899; ma dopo un breve soggiorno se ne tornava lasciando Agrippa a domare l’ultima – almeno così si sperava – nella lunga serie delle rivolte galliche900. Frattanto il 25 di ottobre Asinio entrava in Roma, trionfando dei Partini901; e Mecenate, verso la fine dell’anno, in una tregua delle sue faccende, potè rammentarsi del giovane poeta che gli era stato presentato nove mesi prima e mandargli a dire che il suo palazzo gli era aperto902. Orazio credè di toccare il cielo con il dito e non ostante la sua pigrizia scrisse la terza satira, in cui celebrò l’amicizia e tutte le virtù che la mantengono, specialmente la indulgenza, con un intenerimento, che parecchi critici hanno considerato come effetto della riconoscenza a Virgilio per tanto servizio903. Eppure non sembra che nel principio Orazio traesse da questa amicizia alcun lucro e nemmeno un incoraggiamento morale per i suoi poemi; perchè scriveva così poco e quel poco non osava pubblicarlo o leggerlo a molti, onde Mecenate pare l’avesse in concetto piuttosto di un futuro uomo politico che di un grande poeta. E poi era così timido, conosceva così poco l’arte del domandare, era così impacciato quando si recava da Mecenate, aveva tanta paura di essere importuno!904 Non riusciva a smettere la timidezza del povero che entra nelle grandi case. Ma la classe di letterati poveri, che si formava nel medio ceto romano, si disponeva a tanta soggezione verso i ricchi e i potenti, della cui protezione doveva pur vivere, che anche i migliori, i meno avidi e servili, erano beati di frequentare le case signorili, pur senza trarne vantaggio diretto. Che farci del resto? Non erano tutti gran signori, padroni del proprio tempo, del proprio corpo, del proprio cervello, come Sallustio, il quale continuava la sua implacabile vendetta letteraria contro i conservatori, scrivendo, ma con maggior veracità e perfezione che il primo libro, la stupenda Guerra di Giugurta, la storia cioè del maggiore scandalo aristocratico; raccontando poi lungamente nelle Historiae il malgoverno, gli scandali e la caduta della consorteria sillana, dalla morte di Silla al 67, senza tralasciare, quando gli capitava, di tartassar Pompeo. Orazio invece era così timido che si spaventava perfino dei lamenti mossi dalle oscure persone nominate nella seconda satira; e scriveva la quarta per difendersi; e si difendeva un po’ invocando la autorità di Lucilio, ma un po’ anche protestando che alla fin fine egli non metteva in vendita i suoi versi e non li leggeva in pubblico905. Giustificazione, come si vede, poco eroica! E nemmeno erano tutti fortunati come Virgilio, che libero ormai dai crucci della povertà, protetto dai grandi, ammirato dal popolo, aveva agio tra la fine del 39 e il principio dell’anno seguente di compire la decade delle bucoliche, scrivendo la decima ed ultima, in cui cercava di lenir le pene amorose di un suo amico; letterato pur egli e guerriero e politico, Caio Cornelio Gallo906, un cisalpino di oscura famiglia equestre che faceva parte della cricca di Ottaviano e uno dei tanti italiani che concorrevano a prendere il posto lasciato vuoto dalla distrutta aristocrazia romana. Cornelio, che era un giovane impaziente di riuscire, ambizioso di tutte le glorie, smanioso di far parlare di sè in ogni modo, aveva avuta per amante quella Citeride che declamava le egloghe di Virgilio e ne era stato allora lasciato: onde aveva chiesta a Virgilio una egloga sul caso suo, che, oltre consolarlo, avrebbe fatto sapere a mezza Italia essere egli stato l’amante della più famosa etera del tempo907. E il buon Virgilio raffigurò sè come un pastore d’Arcadia, descrisse dolcemente i monti, le selve, i lauri, le tamarici, le greggi e sin gli Dei afflitti per il dolore di Gallo; alle quali consolazioni Gallo rispondeva dichiarando di voler ritrarsi tra i pastori d’Arcadia, nei boschi e nelle spelonche, a cantare carmi bucolici, a cacciare fiere, a scrivere sulle corteccie il nome della bella.... Le dieci egloghe del poeta mantovano erano con questa finite; e lette o ascoltate con ammirazione, si divulgavano per l’Italia, perchè corrispondevano ai desideri del nuovo pubblico tra cui si diffondeva il gusto della letteratura, ora che la aristocrazia, l’antica classe depositaria della cultura, era sparita. Ciascuno di questi componimenti era breve, si poteva leggere o ascoltare in poco tempo e facilmente imparare a memoria; e conveniva perciò molto a quel pubblico nuovo, numeroso, poco ricco, superficiale, di avventurieri politici, di affaccendati speculatori, di centurioni e tribuni militari in via di arricchire, di giovani discendenti di ricche ma oscure famiglie mandati agli studi, di studenti di filosofia e di retorica, di liberti côlti che non avevano tempo, modo e voglia di procurarsi e leggere i poemi interminabili di Ennio o di Pacuvio. Tutti poi, questi poemetti, con la maniera pastorale dei bucolici greci e di Teocrito allora in voga, esprimevano per bocca di finti pastori e di ninfe e di fauni e di dei i sentimenti nuovi che fermentavano nello spirito italiano dalla mescolanza di tante culture, in mezzo a eventi così calamitosi e imprevisti: il desiderio della pace, le speranze di un migliore futuro, il piacere malinconico della campagna, la curiosità filosofica dell’immenso passato che ci sta alle spalle dalle origini più lontane del mondo, i primi fremiti del nuovo misticismo che incominciava a invadere la vita e la politica, la sensualità più sottile e immaginativa in cui si raffinava nella letteratura (e anche nella vita, sebbene forse in misura minore) la antica grossolana lascivia.

[38 a. C.] Un guerriero desolato dall’abbandono di una etera, che per consolarsi avesse fatto divulgare il suo nome e la sua avventura in tutta l’Italia dal poeta in voga, sarebbe stato disprezzato dai vecchi romani. Ma ormai scompariva nella confusione universale quella specie di vergogna dignitosa, per cui gli uomini destinati a governare gli altri dovevano nei tempi antichi trattenersi dal mostrare in pubblico le bizzarrie e i trasporti delle passioni più umane; il dio Eros faceva capolino sfacciatamente dappertutto, anche nelle tende dei generali e nella curia del Senato; l’opinione pubblica diventava indulgente per queste come per tante altre debolezze. Sul principio del 38 Roma vide a un tratto il lascivo e iroso Ottaviano essere preso da una furia d’amore così subitanea e impetuosa per la moglie di Tiberio Claudio Nerone, che subito divorziò da Scribonia, subito fece divorziare Livia – così si chiamava la bella – e subito la sposò, senza nemmeno aspettare che Livia, incinta da sei mesi, si sgravasse, come prescriveva il vecchio diritto sacerdotale di Roma908. Grande fu la sorpresa, molto il riso e lo scandalo in Roma, quando i compiacenti pontefici giudicarono che le vecchie prescrizioni religiose non si applicavano a quel caso; quando si seppe che il marito aveva dotato Livia come un padre e assistito al banchetto nuziale!909 E non è dubbio che in questa furia debba riconoscersi un’altra di quelle periodiche alternative di violenza e di abbattimento in cui Ottaviano oscillava. Scribonia fu certo ripudiata anche per motivi politici; ma Livia non fu per motivi politici sposata. Ottaviano era un uomo poco audace, poco pronto, molto impressionabile, che facilmente si sbigottiva e smarriva in mezzo ai pericoli, nell’urgenza di prendere subite risoluzioni; ma possedeva invece quello che si potrebbe chiamare il vigore lento: la capacità di vedere bene, quando avesse agio e tempo a riflettere, e senza illudersi come fanno i timidi, le imprese lunghe e difficili che gli era necessario di compiere; la forza di prepararsi a eseguirle vincendo le proprie esitazioni e incertezze a poco a poco, con sforzi successivi e continuati per lungo tempo. In mezzo alle oscillazioni degli ultimi mesi anche egli, come Antonio, si era persuaso che la capitolazione innanzi alla pubblica opinione fatta a Miseno lo aveva screditato; che egli doveva cercare di rifarsi di quell’insuccesso con qualche impresa: ma non era in grado di tentare, come Antonio, una diversione in terre lontane; doveva per necessità sforzarsi di annientare il figlio di Pompeo e di impedire che con il tempo e il favore del pubblico la stirpe rivale della sua ricrescesse di nuovo all’antica potenza. Ottaviano aveva perciò, già negli ultimi mesi del 38 e nei primi del 37910, cercato pretesti di discordia, scrivendo a Pompeo lettere in cui lo rimproverava di accogliere schiavi fuggiaschi, di non reprimere i pirati, di continuare gli armamenti e di violare diversi patti del trattato di Miseno911 Far divorzio da Scribonia era dunque un mezzo per accelerare la rottura con il signore delle isole. Ma nè questo nè altro scopo politico potrebbero spiegare la fretta con cui Ottaviano volle sposare Livia, offendendo gli scrupoli superstiziosi della moltitudine. Livia Drusilla era la figlia dell’aristocratico Livio Druso uccisosi a Filippi e una giovine donna di meravigliosa bellezza, di molto ingegno, di umore sereno. Non è inverosimile che questo giovane intelligente ma nevrotico, ora esitante ora precipitoso, ora puntiglioso ora debole, si invaghisse di questa donna non solo per lo splendore della bellezza, ma per il fascino della sua intelligenza acuta e precisa, della sua ragionevolezza solida e sicura, quali si trovano spesso nelle donne intelligenti ed equilibrate; e fosse, eccitabile e violento come era, preso dall’impazienza di sposarla, indovinando di trovare in lei una donna ricca di buoni consigli, che l’avrebbe aiutato a vincere le sue oscillazioni e incertezze continue.

Intorno al tempo in cui Ottaviano celebrava questo bizzarro matrimonio, succedeva un caso che precipitò la rottura con Sesto. Menodoro, nominato da Sesto governatore della Sardegna, per dispetti e sospetti avuti con Pompeo e i suoi amici era passato al nemico, consegnando a Ottaviano l’isola, una flotta di sessanta navi e tre legioni912. Ottaviano, lietissimo di riavere la Sardegna, lo accolse a braccia aperte: ma Sesto, appena avuta notizia del tradimento913, mandò una flotta a molestare di nuovo le coste dell’Italia. Al principio della primavera del 38 la guerra era dunque di nuovo scoppiata; e Ottaviano scrisse senza indugio ad Antonio di venire a Brindisi per un certo giorno a concertarsi914; invitò Lepido ad aiutarlo915, prese le prime disposizioni: ordinò che la flotta ancorata a Ravenna andasse a Brindisi ad aspettare Antonio916, che la flotta di Menodoro si raccogliesse con le altre navi sue sulle spiaggie dell’Etruria917, che a Ravenna e a Roma si costruissero nuove triremi918; fece venire legioni dalla Gallia e dall’Illirico e le avviò parte su Brindisi e parte su Napoli919, per assalire la Sicilia da due lati, se Antonio approvasse il suo disegno920. Senonchè le notizie e l’invito venuto dall’Italia furono ricevuti dal collega in Grecia con grande malumore. Antonio aveva passato ad Atene l’inverno, consumando il tempo libero dalle cure politiche in feste: ma al finire dell’inverno aveva ripreso alacremente l’esecuzione dei suoi disegni e allora attendeva a far passare l’esercito che aveva svernato in Epiro e ai confini della Macedonia in Asia, dove egli intendeva seguirlo921. Ed ecco Ottaviano lo richiamava in Italia per una nuova guerra contro Sesto Pompeo! Antonio non intendeva affatto interrompere i suoi disegni orientali e differire la sua rivincita della capitolazione di Miseno per favorire quella di Ottaviano; e su poche navi, con poco seguito922 si imbarcò per Brindisi, risoluto a costringere alla pace il turbolento Ottaviano, che egli, più anziano, più autorevole, più ammirato, considerava come un collega minore e subordinato. Giunse infatti a Brindisi per il giorno fissato, ma non vi trovò, non sappiamo per quale ragione, Ottaviano: non indugiò ad aspettarlo e se ne tornò via subito dopo avere scritto imperiosamente ad Ottaviano che rispettasse il trattato di Miseno, e a Menodoro che, se non stava tranquillo, avrebbe reclamati i suoi diritti di patronato su lui, come compratore del patrimonio di Pompeo923.

Ottaviano dovè trangugiare questa amara umiliazione; e per un momento parve esitare. Lepido, sdegnato che la pace di Miseno fosse stata fatta senza intervento suo, non si moveva; l’opinione pubblica era più che mai inviperita contro lui e avversa alla guerra; Agrippa combatteva felicemente contro gli Aquitani. Arrischiarsi solo contro Sesto Pompeo era temerario. Ma Ottaviano si accorse che, dopo le intimazioni di Antonio e le provocazioni di Sesto Pompeo, egli si screditerebbe interamente se mostrasse di aver paura del suo collega e del signore delle Isole; sentì che non potrebbe far rilucere il prestigio offuscato del nome di Cesare, offuscare il rilucente prestigio del nome di Pompeo, se non vincendo sul mare o sulla terra una nuova, sia pur piccola, Farsaglia; e si illuse di potere da solo comandare la guerra. Avviene non di rado agli uomini poco audaci e molto intelligenti i quali abbracciano bene tutta una larga situazione, vedendo ciò che conviene fare ma poi non sanno scegliere il tempo o il modo di fare, che talora sono troppo prudenti per paura, e qualche volta invece temerari perchè si illudono ingenuamente. Così allora Ottaviano, certo incoraggiato dalla notizia che i Parti invadevano di nuovo la Siria, giudicò troppo temerariamente che Antonio, trattenuto in Oriente, non potrebbe intervenire in Italia: se frattanto egli distruggesse Pompeo, il successo giustificherebbe la guerra. Perciò si risolvè a dirigere da solo l’esecuzione di un ingegnoso ma difficile piano di guerra doppia, sulla terra e sul mare. Pose Cornificio a capo della flotta che aveva già raccolta a Brindisi e gli ordinò di portarsi a Taranto. Pose Calvisio Sabino a capo della rimanente armata nelle acque dell’Etruria con Menodoro come vice-ammiraglio e ordinò loro di veleggiare verso la Sicilia. Egli stesso condusse sulla costa di Reggio l’esercito che sarebbe sbarcato nell’isola, quando le due flotte avessero distrutta quella di Pompeo924. Per rassicurarlo dalle minacele di Antonio, aveva ascritto Menodoro all’ordine dei cavalieri.

Probabilmente verso la fine di luglio la guerra incominciò. Ma Pompeo aveva nominato nel luogo di Menodoro un altro liberto greco e non meno intelligente, Menecrate, il quale seppe approfittare abilmente della divisione delle forze nemiche e si accinse a distruggere le due parti della flotta di Ottaviano prima che si riunissero. Lasciando infatti Pompeo con sole quaranta navi o poco più in Messina925, egli veleggiò con il grosso della armata verso Napoli; e incontrati nelle acque di Cuma Calvisio e Menodoro che venivano dall’Etruria, diede loro battaglia. La flotta di Ottaviano, comandata dal poco esperto Calvisio, e forse meno numerosa, ricevè gravissimi danni; ma per compenso Menecrate morì nella battaglia e Democare, il comandante in seconda, non avendo osato sfruttare a fondo la vittoria, si ritirò lentamente verso la Sicilia, lasciando Calvisio e Menodoro nel golfo di Napoli a riparare i guasti926. Intanto Ottaviano, giunto a Reggio e disposto lungo la costa l’esercito, aveva preso il comando dell’armata di Cornificio e da Reggio spiava Pompeo; ma pavido, agitato, irresoluto, guardava, esplorava, indagava, almanaccava da mane a sera possibili e impossibili offese; e intanto si lasciava scappare, sempre aspettando Calvisio, tutte le occasioni, che nella guerra son così veloci: anche quella di sorprendere Sesto nello stretto con le sue sole quaranta navi927. Ma quando Calvisio e Menodoro, riparati i loro guasti, veleggiarono verso la Sicilia, questo ammiraglio così esitante commise una imprudenza tanto grande, che vien fatto di supporre gli scrittori antichi abbiano trascurato di narrarci qualche fatto che aiuterebbe a scusarlo: uscì cioè di Reggio per andargli incontro, ma lasciando dietro in Messina non più le quaranta navi di Sesto, ma tutta la flotta ritornata da Cuma. Democare e Apollofane infatti uscirono prontamente dietro a Ottaviano, lo inseguirono e lo assalirono alle spalle nelle acque di Scilla, costringendo il venticinquenne ammiraglio a comandare la sua prima battaglia navale928. Ottaviano tentò in principio di resistere in alto mare, raccogliendo le sue navi che erano più grosse e pesanti e cariche di soldati migliori; ma assalito da Apollofane, si smarrì presto, temè di esser colato a fondo o preso prigioniero, si ritirò vicino alla costa e fece gettare l’áncora. Il nemico non ristette però dall’incalzare le pesanti navi che all’áncora erano ancora più impacciate929; gli ordini del nervoso ammiraglio diventarono confusi e contradditori; molti soldati cominciarono a gettarsi in mare per fuggire a terra. Alla fine anche egli perdè la testa e, unico dei generali romani, si rese reo di codardia; scese a terra, abbandonando il comando nel fervore della mischia930. La codardia del generale salvò del resto la flotta dall’intera rovina; perchè, libero dal pauroso ammiraglio, Cornificiò fece levare le áncore, tentò un ritorno offensivo, riprese a combattere, finchè questa riscossa, il cadere della sera, l’arrivo di Calvisio che essi scorsero primi, indussero i nemici a tornare a Messina931. Il sole calò prima che Cornificio si accorgesse della vicinanza della flotta venuta da Napoli; onde nella notte, mentre Ottaviano era a terra in mezzo a una torma di fuggiaschi famelici e di feriti, l’ammiraglio ormeggiò con le sue navi senza saper nulla del suo generale, di Calvisio, di quel che succederebbe il dì dopo. L’alba desiderata parve portare a tutti inaspettato conforto: delle coorti venute da Reggio ritrovarono sulla costa Ottaviano, non meno affamato e stanco dei soldati comuni; Cornificio e Calvisio si videro; tra gli ammiragli e il generale fuggiasco cominciarono a correre domande ansiose e risposte rassicuranti932. Quando, mentre la fiducia rinasceva, incominciò un terribile fortunale, che durando tutto il giorno e tutta la notte distrusse la maggiore e la miglior parte della sua armata933. Le onde avevano compiuta l’opera degli ammiragli di Pompeo; Ottaviano non aveva più flotta; l’impresa di Sicilia era finita miserabilmente in un disastro.

Disastro tanto più grave, perchè ad esso facevano riscontro i successi splendidi delle armi di Antonio in Oriente. I Parti avevano invaso di nuovo a primavera la provincia romana sotto il comando di Pacoro, il figlio prediletto del re, quando Antonio era ancora in Grecia; ma Ventidio, con una prontezza e una abilità veramente ammirabili, era riuscito a raccogliere tutte le forze romane di stanza in Siria e in Cilicia; e andatogli incontro, gli aveva inflitta a Gindaro una memorabile disfatta, in cui anche Pacoro era morto, a quanto pare il 9 giugno e cioè nel sedicesimo annuale della strage di Crasso934. Crasso era dunque vendicato alla fine; un principe partico aveva espiato con la sua la morte del proconsole romano!935 L’entusiasmo a Roma fu così grande, che il Senato decretò il trionfo non solo ad Antonio come a generale di Ventidio, ma anche a Ventidio936 con procedimento insolito, per soddisfare l’opinione pubblica. Giunto in Asia qualche tempo dopo la vittoria di Gindaro, quando Ventidio già aveva incominciata la guerra contro il re di Commagene gran partigiano dei Parti e assediava Samosata, Antonio aveva preso il comando dell’esercito ed era allora occupato a continuare l’assedio incominciato dal suo generale937. A questi trionfi invece Ottaviano non poteva contrapporre se non i prosperi successi di Agrippa in Aquitania, non bastevoli a bilanciare le sue disgrazie siciliane, che avevano rallegrata tutta l’Italia. E il denaro gli scarseggiava; imporre nuove tasse in quella condizione dello spirito pubblico era impossibile938; Antonio doveva essere sdegnato contro di lui; e per maggiore sventura alla fine di quell’anno 38 scadeva il quinquennio del triumvirato, che non era possibile di rinnovare se non dopo una intesa con il collega. Poco poteva giovargli in tante difficoltà il profondere le magistrature, sebbene non trascurasse nemmeno questo espediente: nientemeno che sessantasette furono i pretori nominati in questo anno939. Per un momento egli aveva sperato che Antonio resterebbe in Siria, trattenuto dalle faccende dei Parti; ma verso la fine di settembre egli dovè sapere che, fatta pace con il re di Commagene per un compenso in denaro, Antonio si disponeva a tornare in Grecia940, certo per intervenire a suo modo nelle faccende dell’Italia. Lasciava in Siria governatore con dieci legioni Caio Sossio, un altro uomo oscuro che al seguito di Antonio faceva fortuna, incaricandolo di conquistare definitivamente la Giudea ad Erode e di prendere Gerusalemme, dove Antigono ostinatamente resisteva941.

Allora Ottaviano si risolvè a mandare ad Antonio in Atene Mecenate942, con Lucio Cocceio e Caio Fonteio Capitone943, a cercar di placarlo e di conchiudere con lui amichevolmente un accordo per il rinnovamento del triumvirato. Orazio, che fu invitato ad accompagnare Mecenate sino a Brindisi, ci ha descritto questo viaggio stupendamente nella quinta satira del libro primo. Partito in vettura da Roma, probabilmente nella seconda metà di settembre, con la sola compagnia di un piacevole retore greco, Eliodoro, Orazio giunse a sera ad Ariccia, dove passò con il compagno la notte in una modesta osteria; rimessisi in viaggio il mattino seguente, erano la sera a Foro di Appio, al confine della palude pontina, donde un canale navigabile li avrebbe nella notte condotti a Terracina. Orazio, che per un male d’occhi non poteva bevere vino e che aveva a schifo l’acqua cattiva del villaggio, si rassegnò a non mangiare quella sera; e mentre gli altri viaggiatori cenavano all’osteria, se ne andò a vedere i nocchieri e i loro giovani schiavi allestire la nave e caricare i bagagli. Scintillavano in cielo le prime stelle. Alla sera la nave, tirata da una mula che camminava sull’argine del canale, si avviò, accompagnata dai canti del nocchiere e dei passeggeri; a una a una le voci si spensero, i passeggieri furon vinti dal sonno, restò solo a cantare il nocchiero, che alla fine s’addormentò egli pure.... All’alba un viaggiatore svegliato dalla nuova luce vede con stupore la barca ferma e il nocchiero dormente; e lo desta in malo modo.... Insomma il terzo dì alle dieci del mattino i due viandanti si lavavano la faccia e le mani all’osteria della Fontana Feronia, donde partivano per Terracina, distante tre miglia. Qui trovarono Mecenate, Cocceio, Capitone; e Orazio potè farsi spruzzare di collirio gli occhi malati. Il quarto giorno tutti insieme ripresero in vettura la via di Capua, passarono per Fondi dove il praetor (il sindaco diremmo noi), un antico scriba, venne loro incontro in gran pompa, facendoli ridere assai; giunsero a Formia, dove passaron la notte, ospiti nella villa di Lucio Licinio Murena. Alla mattina dopo ecco arrivare da Napoli Plozio, Vario e Virgilio, venuto forse dai poderi campani, donatigli da Ottaviano; e la cresciuta brigata partire in vettura, per fermarsi alla sera del quinto giorno in una piccola osteria del Ponte Campano. Il dì dopo, il sesto del viaggio, si fermarono a Capua, dove Mecenate, appassionato dilettante di esercizi corporei, andò a giuocare una partita di palla. Nel settimo giorno giunsero alle Forche Caudine e si recarono nella splendida villa di Cocceio, trattenendosi sino alle ore piccine a una cena, rallegrata perfino da una stramba contesa di buffoni. Il dì seguente erano a Benevento, dove per poco non bruciarono con l’osteria, per la gran fiammata su cui il padrone tentò di far loro cuocere un arrosto di tordi. Dovettero tutti aiutare a spegnere l’incendio. Dopo Benevento, al nono giorno, Orazio incominciò a vedere i monti ben noti della sua Apulia: ma la sera bisognò pernottare a Trevico, in una fumosa taverna, nella quale il nostro poeta tentò invano di sedurre la pur facile fantesca. Dopo due giorni erano a Canosa, dove Vario li lasciò; il dodicesimo giorno giunsero a Ruvo, ma per vie guaste dalla pioggia; e il tredicesimo, con tempo migliore ma per strade ancor più cattive, a Bari. Il quattordicesimo giorno erano a Egnazia, dove si divertirono a vedere il finto miracolo del tempio in cui l’incenso bruciava senza fuoco, facendoci sopra le più grasse risate. “Certe cose, le diano a bere a un Ebreo, non a me: gli Dei non badano a queste sciocchezze.” Il quindicesimo giorno, dopo avere percorse da Roma quasi tutte in vettura 360 miglia (530 chilometri) giunsero a Brindisi, donde Mecenate si imbarcò.

Il racconto di questo viaggio è un documento interessante, anche perchè ci mostra Mecenate, uno dei più insigni cittadini dell’Italia, costretto più volte nel breve viaggio da Roma a Brindisi ad alloggiare in orribili osterie. Ciò dimostra che sulla grande via erano pochi i ricchi possidenti che potevano ospitare la insigne brigata; che molte ville deserte e vuote si seguivano ancora sulla antica strada di Appio, come lugubri monumenti funebri della distrutta plutocrazia ed aristocrazia di Roma.

XVI.
LE GEORGICHE.

Il 27 novembre di quello stesso anno 38 a. C. Ventidio entrava in Roma, tra gli applausi del popolo, trionfando dei Parti944; e qualche tempo dopo – non si possono, disgraziatamente, citare date precise – Mecenate tornava dalla Grecia e Agrippa dalla Gallia945. Ottaviano aveva pensato di far decretare il trionfo anche ad Agrippa, per pareggiare il trionfo di Ventidio e mostrare che non soltanto i generali di Antonio vincevano battaglie, ma anche i suoi. Agrippa però, da quell’uomo serio che era, capì che il suo trionfo, decretato per volontà di Ottaviano dopo le poco importanti vittorie di Gallia, sarebbe stato meschino in confronto a quello di Ventidio, decretato dalla gran voce del pubblico per la insigne battaglia di Gindaro; temè forse anche di dare motivi di rancore e di invidia a Ottaviano; e si schermì, dicendo di non voler trionfare, quando cosi recente era ancora la calamità di Scilla946. Del resto cure ben più gravi sopravvenivano. Noi non sappiamo per testimonianze dirette quale ambasciata portasse Mecenate ad Ottaviano; possiamo però dai fatti seguiti argomentare che fosse a un dipresso la seguente. Antonio si dichiarava pronto ad aiutare Ottaviano nella guerra contro Pompeo, cedendogli una parte della sua flotta, ma domandava in cambio un contingente di soldati per la conquista della Persia; un contingente, così almeno pare, molto grande, non di reclute nuove – queste Antonio poteva assoldare in Italia senza il permesso di Ottaviano – ma di soldati agguerriti tolti dall’esercito del collega; tale insomma che Ottaviano e i suoi amici considerarono la proposta come gravosissima. Antonio era ormai risoluto a tentare nel prossimo anno 37 la guerra di Persia; ma siccome una parte dell’esercito suo assediava allora Gerusalemme; siccome per la conquista della Persia la sua flotta era inutile e i denari gli scarseggiavano, aveva immaginato questo cambio per risparmiare sul dispendio navale947. Quanto al rinnovamento del triumvirato, egli rimandava l’accordo alla primavera, allorchè verrebbe in Italia a conchiudere il baratto: nuovo espediente per costringere Ottaviano ad essere arrendevole. Infatti, non rinnovando il triumvirato nello scorcio dell’anno, Ottaviano, se non voleva o ritornare a vita privata o violare la legalità, sarebbe obbligato il primo gennaio del 37 a uscire di Roma, perchè per un principio fondamentale del diritto costituzionale romano ogni comandante di milizia conservava il comando come promagistrato (interinalmente, diremmo adesso) oltre il termine assegnato, sinchè non era nominato o non giungeva il successore, purchè però non entrasse nel pomerium. Così i triumviri conserverebbero l’imperium sugli eserciti e sulle provincie, e cioè la parte essenziale dell’autorità, sinchè non fossero designati i successori, a condizione però di restar fuori di Roma948: condizione poco fastidiosa per Lepido e per Antonio, che vivevano in Africa e in Grecia; fastidiosissima per Ottaviano, che doveva governare l’Italia.

Insomma Antonio voleva far sopportare alle milizie del collega una parte delle perdite della conquista persiana, che doveva poi fruttare gloria e potenza a lui solo. È quindi naturale che le proposte di Antonio fossero per Ottaviano e per i suoi amici oggetto di molte considerazioni e discussioni. Occorreva cedere o resistere? E se resistere, come resistere senza provocare una guerra civile? Alla fine, certo per consiglio di Agrippa e di Mecenate, si immaginò di dare subito mano a costruire una nuova flotta, di imporre senza paura nuove imposte e una contribuzione di schiavi su tutti i possidenti949, in modo da potere, quando Antonio verrebbe a primavera, rispondergli che non si aveva più bisogno dei suoi legni; cercar così di fare meno gravoso il baratto mercanteggiando. Senza indugio l’operoso e versatile Agrippa si accinse ad essere l’architetto della nuova flotta; e, andato a Napoli, arruolò lavoranti, fece prendere la zappa e l’ascia ai soldati, immaginò di scavare tra Pozzuoli e Miseno un canale che facesse comunicare il lago di Averno con quello di Lucrino, di mutare in un molo aperto da passaggi la sottile striscia di terra che separava il Lucrino dal mare950. Così il lago d’Averno era convertito in un retroporto, il Lucrino in un porto militare. Al principio del 37 il bel golfo tra Pozzuoli e Miseno ferveva per l’affaccendato tumulto dei manovali, dei muratori, dei fabbri, dei calafati che fabbricavano e il porto e la flotta.

[37 a. C.] Intanto alla fine del 38 Ottaviano era uscito dal pomerio951; e il 1° gennaio del 37 il potere triumvirale finiva, Roma era di nuovo nel governo degli antichi magistrati repubblicani già nominati, ma accresciuti di numero ed esautorati ancora più che nell’anno precedente. Per questo anno non si era nominato soltanto un gran numero di pretori, ma anche un insolito numero di questori952. Siccome però Ottaviano non poteva intraprendere la guerra contro Sesto, sinchè non si fosse posto d’accordo con Antonio, così nulla avvenne sino a maggio, quando Antonio comparve nel porto di Taranto con trecento navi953, senza trovarci Ottaviano. È facile immaginare con che stizza egli dovesse perdere tanti giorni ad aspettare in Taranto risposta ai messaggi da lui spediti; e quanto dovette sdegnarsi allorchè Ottaviano gli mandò, ma senza fretta, a dire di non aver bisogno delle sue navi perchè già si era costruita una armata. Pur immaginando facilmente che questa era una finta dell’astuto cognato per mercanteggiare nel baratto, la spedizione contro la Persia era di nuovo intralciata; nè d’altra parte egli poteva usare la forza, incominciare una nuova guerra civile per costringere il collega ad accettare una parte delle sue navi, per quanto fosse stolto il proposito di Ottaviano di fabbricare una nuova flotta, mentre la sua marcirebbe nelle acque della Grecia, accrescendo le spese militari già troppo gravose ad ambedue. Bisognava dunque pazientare e costringere Ottaviano a smettere le sue finte. Egli spaventò la dolce Ottavia, minacciando di fare la guerra al fratello; la indusse così a mettersi di mezzo; mandò nuove ambascerie.... A queste si opposero dall’altra parte studiate lentezze, facendo passare inutilmente il giugno ed il luglio. Finalmente, come pare, solo in agosto Ottaviano si risolvè ad andare a Taranto con Agrippa e con Mecenate. Ottavia venne loro incontro, scongiurò Ottaviano di non mutare lei felicissima nella più sventurata delle donne, provocando una guerra, in cui essa perderebbe o il fratello o il marito954; sinchè il fratello si lasciò commuovere. Così almeno credette il pubblico ingenuo, ormai avvezzo a vedere le donne reggere a modo loro le faccende politiche. In verità Ottaviano, Agrippa e Mecenate intendevano che bisognava accontentare in parte almeno Antonio e fare il baratto delle navi, le quali del resto non sarebbe inutile aggiungere a quelle fabbricate da Agrippa; che irritandolo troppo si spingerebbe il triumviro a allearsi con Sesto e con Lepido; e perciò a Taranto si misero d’accordo. Antonio fu più discreto nelle domande e Ottaviano acconsentì a soddisfarle; si convenne di proporre al popolo una legge che rinnovasse per cinque anni, a cominciare dal 1° gennaio 37, il triumvirato955; Antonio cedè a Ottaviano 130 navi e ne ebbe in cambio 21 000 uomini956. Si convenne inoltre di fidanzare Giulia, la figlia di Ottaviano, con il figlio maggiore di Antonio; e la figlia di Antonio e di Ottavia a Domizio957. Il trattato di Miseno era annullato. Antonio partì subito per la Siria, lasciando a Taranto le 130 navi.

Ma il pubblico non si rallegrò per questa pace, come per quella di Brindisi. Sbollito quel subito furore dell’anno 39 e cessati i tumulti, il pubblico pareva essere ricaduto nel suo sordo malcontento di tutto e di tutti, nella ostile e sfiduciata indifferenza per ogni cosa. I triumviri facevano quello che volevano; l’opinione pubblica non contava più nulla; l’egoismo politico, questa malattia costituzionale della repubblica, invadeva tutti i ceti, cosicchè fuori dei concorrenti alle cariche non pareva esserci più alcuno che si occupasse di politica. Nessuno immaginava quanto i triumviri si sentissero malsicuri del loro potere. Eppure questo malcontento vago, questa indifferenza universale, questa diffusione dell’egoismo politico nascondevano il principio di un rinnovamento salutare, il primo e timido sforzo tentato dalla nazione, dopo lo sconvolgimento della rivoluzione, per adattarsi al nuovo ordine di cose e per cavare anche da questa rovina la maggiore somma di bene, come l’aveva cavata dalla prosperità dei tempi felici di Cesare e di Pompeo. È questa l’eterna legge della vita, per cui il male si volge in bene e il bene in male con vicenda perenne. A poco a poco tutti i flagelli della rivoluzione si mutavano in beneficî. La divisione delle terre e dei capitali, che procedeva dalla rivoluzione, incominciava a operare i suoi effetti salutari; rotti tanti latifondi e grossi poderi, diviso tra molti il denaro che si era potuto arraffare qua e là nella rivoluzione, così i possidenti nuovi, che nelle guerre civili avevano acquistate terre per poco o per nulla, come i possidenti vecchi, che trangugiavano gli amari rammarichi per la parte dei beni perduti, erano incitati dalla crisi economica, dai bisogni cresciuti, dalle imposte, dal desiderio di riparare alla meglio i danni subiti, a compiere definitivamente la trasformazione incominciata da un secolo della antica e rozza agricoltura italica, nella nuova, sapiente, capitalistica e a schiavi. Certo se la terra non scarseggiava, scarseggiava il capitale dopochè l’impero già devastato dalle guerre civili era stato diviso in due parti da Antonio e l’Italia pareva rassegnarsi a non ricevere più i tributi dell’Oriente, per quanto scemati. Senonchè anche questa scarsezza di capitali era salutare per il momento. La spensierata facilità del credito era stato uno dei peggiori mali dell’età di Cesare; perchè tutti ne avevano abusato, tentando temerarie speculazioni ed imprese, spendendo più del ragionevole: ora invece che era quasi impossibile trovare denaro a prestito, nessuno si sforzava di fare il passo più lungo della gamba; tutti si ingegnavano di far bastare ai loro fini quello che avevano; tentavano coltivazioni e traffici con maggiore giudizio, operavano con minore grandigia e vivevano più modestamente, fondando un ordine di cose più sano e più solido. Naturalmente anche la disposizione dello spirito pubblico mutava. Come parevano lontani i tempi, in cui tutta l’Italia ferveva di ammirazione per le grandi conquiste di Cesare e di Crasso, per le immense profusioni di Pompeo; e l’arricchimento rapido, il lusso pubblico e privato, la ambizione senza scrupoli, i debiti smisurati, la violenza e la frode fortunata erano tollerati o anche ammirati da questa nazione, che cercava nel saccheggio di un impero i mezzi per adornare le sue città a comune e gaio ritrovo di tutti i liberi, mantenuti dal lavoro degli schiavi e dai tributi dei vinti! Ora invece, nello sconforto di tante rovine, questa classe agiata e colta che aveva a sua volta subita nella rivoluzione la violenza esercitata per tanto tempo sugli altri, andava rammentando i piccoli principî del grande impero e con sentimentale rimpianto rammaricava le virtù della antica età agricola sciupate dai vizi della età mercantile. La tradizione, dopo tanta baldanza dello spirito rivoluzionario, ritornava in grande onore; ritornava in onore nelle cose di cui la rivoluzione non aveva tolto alla nazione il dominio: nel costume privato e nella amministrazione domestica. Come prima era moda sfoggiare il lusso, era adesso moda ostentare povertà e semplicità. A Mecenate che sollecitava Orazio a diventare un uomo politico e a concorrere alle magistrature, Orazio rispondeva intorno a questo tempo scrivendo la sesta satira del libro primo, in cui si schermiva, vantandosi di aver avuto per padre un liberto, ma così buono, onesto e amoroso; dichiarando di essere contento della sua povertà e dei suoi umili natali, di non desiderare altro958. Ritornare alla terra, alla grande madre sana e feconda, pareva a tutti il segreto della salute. Anche Sallustio, il quale pure aveva servito con la parola, la penna, la spada Cesare, il partito cioè che aveva fomentate tutte le forze rivoluzionarie dell’era mercantile, poneva allora a fondamento di tutta la sua concezione storica la dottrina che la ricchezza, il lusso e i piaceri corrompono le nazioni, macerando le forti virtù della età rustica. Tra una notizia e l’altra sulle discordie dei triumviri, sui pericoli di nuove guerre civili e di nuove confische, dappertutto, così nelle classi alte come nel ceto medio, così a Roma come nelle piccole città d’Italia, nel palazzo di Mecenate e nella casa che il veterano di Cesare aveva rubata al suo possidente, si discuteva fervidamente di agricoltura, di coltivazioni nuove, di lucri che si potesse cavarne; dappertutto si cercavano libri, ammaestramenti, consigli. Uno dei tanti senatori romani, che in tutta la vita aveva atteso a coltivare i suoi campi più che a governare lo Stato, Gneo Tremellio Scrofa, aveva già pubblicato in questi anni un trattato di agricoltura959. In quel ceto di intellettuali di professione che si formava tra i liberti istruiti delle grandi famiglie e la classe media libera, pronto allora come sempre a scrivere di tutto, non mancò chi, senza essere agricoltore, ne imitò l’esempio e si die’ a compilare, scartabellando i georgici greci, degli zibaldoni destinati ai nuovi e ai vecchi possidenti. Fu costui un certo Caio Giulio Igino, uno schiavo che Cesare, a quanto pare, aveva preso giovinetto ad Alessandria, poi liberato e lasciato come liberto in eredità ad Ottaviano960; il quale probabilmente in questo anno 37 scrisse un libro De agri cultura e un trattato, il primo scritto in latino, di apicultura961. Ma la umile fatica erudita del liberto corrispondeva siffattamente a un bisogno dei tempi, che in questo stesso anno due insigni latini si volgevano a comporre l’uno un grande trattato tecnico ed economico sull’agricoltura, l’altro un grande poema georgico.

Varrone, salvatosi dalle proscrizioni perdendo una parte del suo grande patrimonio962, imprendeva a ottant’anni sul finire del 37963 a riassumere le innumeri esperienze sue di agricoltore e di uomo politico, tutte le riflessioni e le nozioni di erudito e di studioso964, in uno dei libri più importanti per la storia dell’antica Italia, che gli storici hanno fatto male a non leggere. Nessun altro scrittore contemporaneo, di cui noi possediamo le opere, nemmeno Cicerone, fece uno sforzo più vigoroso che Varrone nel suo dialogo De re rustica, per orientarsi nel disordine degli eventi che allora sconvolgevano la sua nazione. Progrediva o decadeva l’Italia? Dovea farsi innanzi nell’avvenire animosamente o tornare in dietro spaurita verso il passato? Varrone si sforza di signoreggiare, dall’altezza di una dottrina generale, tutte le contradizioni che nel suo tempo nascevano dal contrasto tra le antiche tradizioni agricole e lo spirito mercantile della nuova età, penetrato anche nella agricoltura; dalla lotta sorda e tenace tra la grande possidenza latifondista che tanti colpi avea ricevuto negli ultimi anni, e la media borghesia che tentava con tutti i mezzi, anche con la rivoluzione e la violenza, di dividere l’Italia in tanti poderi di media grandezza – trenta, quaranta, cinquanta ettari – i quali, coltivati da schiavi, potessero mantenere i loro signori ai piaceri, agli uffici, agli onori della vita municipale nelle numerose città dell’Italia. Varrone professa la teoria che oggi diremmo del progresso; non si accorda con quei filosofi e poeti greci i quali consideravano la storia del mondo come una decadenza dell’antica età dell’oro; pensa che il genere umano è sospinto a mutare in meglio, prima vivendo dei frutti naturali della terra, poi inventando la barbarica pastorizia primeva, trapassando in seguito all’agricoltura nella solitaria dispersione della campagna; raccogliendosi infine nelle città, ricche di arti e di mestieri più fini, di piaceri e di studi più eletti, di vizi più raffinati e funesti965. Egli vuol quindi filosoficamente studiare i fatti del tempo suo come momenti di una trasformazione necessaria: ma quando i suoi personaggi, che sono tutti dei ricchi possidenti, considerano i singoli fenomeni di questa trasformazione, in quante contradizioni si impigliano; in quante si impiglia nei proemi dei libri e nei discorsi del dialogo lo stesso Varrone! Il suocero di Varrone, C. Fundanio, il cavalier Agrio, il pubblicano Agrasio guardano insieme una carta dell’Italia dipinta sulla parete del tempio di Tellure e gridano che l’Italia è il paese meglio coltivato del mondo966, che è ormai tutta quasi un immenso pometo967. Altrove Gneo Tremellio Scrofa riconosce più modestamente, ma con compiacenza, che ai suoi tempi l’Italia è meglio coltivata che nei secoli precedenti968. Eppure più lungi Varrone ripete, facendolo suo, il melanconico giudizio di tanti contemporanei, secondo il quale gli uomini si erano troppo infingarditi, e desiderosi piuttosto di applaudire nelle città gli attori, anzichè di vangare la terra, lasciavano decadere tanto l’arte di Cerere, che l’Italia non mieteva più come un tempo tutto il suo nutrimento, e Roma viveva col grano importato da lungi969. Le coltivazioni mutavano, ma la disparità delle prime riuscite generava in tutti – e ne risente anche Varrone – una grande incertezza nel giudicare quali delle nuove culture fossero buone e quali no, per la difficoltà di discernere quando l’insuccesso era effetto della inesperienza degli agricoltori, quando invece di insuperabili difficoltà insite nelle cose. Così anche Varrone cita, senza osare contradirla apertamente, l’opinione di molti che le vigne non potessero coltivarsi in Italia con profitto970. I suoi personaggi sanno per pratica che un ricco poteva guadagnare molto allevando asini per i coltivatori, cavalli per le vetture, per i carri e per l’esercito; pascolando grandi greggi di pecore e di capre nelle solitudini dell’Italia meridionale o dell’Epiro, affidando ogni cento od ottanta capi a uno schiavo gallico o illirico – i più pregiati come pastori – e tutto l’armento a un capo schiavo di maggiore istruzione e intelligenza. Il pelo delle capre era ricercato per le macchine da guerra e la pelle per fabbricare gli otri; la lana delle pecore si vendeva con profitto, a mano a mano che crescevano il popolino e il medio ceto viventi nelle città, che non potevano farsi le vesti in casa con la lana delle proprie pecore. Eppure neanche Varrone è del tutto sgombro dai tenaci rancori degli antichi piccoli possidenti che un secolo prima avevano temuto di essere tutti scacciati dai campi aviti, per far posto alle pecore e alle capre; e a certi momenti lamenta che le antiche leggi restrittive della pastorizia siano cadute in oblio971. Fedele alle grandi tradizioni romane, Varrone detesta le città come scuole di corruzione, di ozio, di lusso insensato; celebrala austera purezza della vita rustica, che conserva la salute del corpo senza gli artificiali esercizi della ginnastica, le virtù del carattere senza i faticosi insegnamenti della filosofia: rammarica i tempi in cui i grandi vivevano quasi tutto l’anno in campagna e trattenevano, proteggendola con amore, la minuta plebe dei coltivatori liberi intorno a sè, a respirar l’aere vivido e puro dei campi invece della pestilente afa dei vicoli e dei crocicchi della città972. Ciò non ostante egli scrive un libro della sua opera, il terzo, per insegnare agli agricoltori come sfruttare i vizi, le orgie, le crapule delle grandi città e specialmente di Roma; per dimostrare quanto poteva rendere vicino a Roma, per la frequenza dei grandi banchetti pubblici e per la universale inclinazione alle crapule, l’allevamento dei tordi, delle oche, dei piccioni, delle lumache, delle galline, dei pavoni, dei caprioli, dei cignali: di tutti gli animali la cui carne servisse a variare la monotonia del porco, dell’agnello e del capretto, i soli animali mangiati comunemente in quel tempo, in cui il bue serviva quasi soltanto al lavoro. Così la enumerazione di questi lucri è lunga e l’analisi di ciascuno minuta. Un interlocutore racconta con compiacenza di aver udito dal liberto computista di una villa di Marco Seio presso Ostia, in cui si allevavano ogni sorta di animali per rivenderli ai mercanti di Roma, che Seio guadagnava 50 000 sesterzi netti all’anno973. Varrone aggiunge che la sua zia materna, allevando tordi in un podere della Sabina posto al 24° miglio sulla via Salaria, aveva guadagnato 60 000 sesterzi in un solo anno in cui ne aveva venduti 5000, al prezzo medio di 12 sesterzi l’uno (circa 3 franchi), mentre un eccellente podere di Varrone a Rieti, vasto 200 iugeri (80 ettari) non rendeva che 30 000 sesterzi (7500 fr.) ogni anno974. Il primo interlocutore interviene di nuovo, e narra, citando ancora l’esempio di Marco Seio, che da un branco di 100 pavoni, a cui bastava un intelligente procurator, schiavo o liberto, si poteva ricavare sui 40 000 sesterzi all’anno, con la vendita delle ova e dei piccini975. Prorompono in esclamazioni di stupore e fremono di cupidigia gli interlocutori; onde il vecchio scrittore deve dimenticare le sue dottrine di austerità e sforzarsi di insegnar loro con minuziosa diligenza il mezzo migliore di pescare nella torbida fiumana dei vizi e delle profusioni cittadine questi pingui e saporitissimi pesci! Eppure l’ammirazione per la semplicità delle vecchie generazioni, spesso ingenua e anacronistica, era in parte un sentimento vero, perchè quelle virtù erano ancora, sia pure in forme diverse e meno rudi delle antiche, necessarie alla classe media possidente d’Italia. Varrone ha intravista la cagione ultima delle irrequietezze e delle difficoltà in mezzo a cui si dibatteva questa classe. L’antica piccola possidenza, in cui il capo della famiglia, aiutato dalla protezione dei ricchi, coltivava con le sue braccia e con quelle dei figli il campo, poteva mantenere numerose famiglie, purchè queste fossero laboriose e si contentassero di poco; la grande possidenza a schiavi poteva dare una piccola rendita in denaro al proprietario, purchè la terra fosse abbondante e gli schiavi a buon mercato. Ma la media possidenza a schiavi, intesa a procurare una considerevole agiatezza al padrone sdegnoso di fatiche manuali, stentava a prosperare per una ragione che Varrone intravede già e che certi professori non vedono nemmeno adesso, dopo venti secoli di nuove esperienze economiche: il grande dispendio del lavoro servile, che poteva facilmente, per il suo caro prezzo, consumare tutti i frutti di un fondo non molto vasto. Egli cita infatti il conto di Catone, secondo il quale erano necessari per un oliveto di 240 iugeri tredici schiavi, un fattore con la moglie, cinque manovali, tre bifolchi, un asinaro, un porcaro, un pecoraio; e per un vigneto di 100 iugeri, il fattore e la fattoressa, dieci manovali, un bifolco, un porcaio, un asinaio, in tutto quindici schiavi. Ma osserva poi che questi numeri valgono per vigneti e per oliveti già grandi, che per terre più piccole la spesa è in proporzione maggiore, perchè il fattore e la fattoressa sono pur necessari, nè è facile ridurre adeguatamente gli schiavi; cosicchè il lavoro degli schiavi diventa per sè stesso tanto più dispendioso quanto più il fondo è piccolo976. Inoltre egli osserva quanto sia più dannoso al medio che al grande possidente quell’altro inconveniente della schiavitù, per cui le malattie e la morte dello schiavo sono a rischio, non del lavoratore come nel lavoro libero, ma del capitalista. La morte di un solo schiavo può a volte annullare tutto il reddito di un anno, se il fondo è piccolo977. Un’altra, difficoltà della stessa natura egli scopre infine, quando prende a considerare l’acquisto degli oggetti industriali necessari al fondo. Nei tempi antichi la maggior parte di questi oggetti era fabbricata in casa dall’uno dall’altro membro della famiglia: senonchè Varrone si accorge che ciò è più difficile a fare adoperando i servi che non i figli, perchè in generale gli schiavi essendo poco versatili, bisognerebbe avere sul fondo per opere tanto diverse molti servi artigiani, ognuno abile nell’arte sua. Ma un podere medio non potrebbe sopportare la spesa di tanti schiavi ed il rischio per le loro malattie o per le morti. Quindi egli raccomanda di comprare terre vicine a città in cui si possano trovare artigiani liberi o vicine a grandi poderi abitati da numerose e molteplici familiae di servi, così da poter affittare uno di questi al bisogno, per il poco tempo necessario978. Infine egli suggerisce di servirsi quanto più è possibile di operai liberi, specialmente per i lavori insalubri e per quelli temporanei come la messe e la vendemmia979; consiglia di mettere a capo dei servi, come fattore, uno schiavo abile, esperto e fedele, senza il quale il fondo costerà invece di rendere980; raccomanda con speciale sollecitudine di essere parsimoniosi e modesti, di seguire nella amministrazione dei fondi non gli esempi recenti, ma la tradizione secolare, di non lasciarsi vincere dalla smania del grandioso, di non imitar Lucullo ma i vecchi nel costruire la fattoria; perchè se no i frutti del fondo saranno consumati dagli interessi del capitale necessario a queste fabbriche981. In altre parole egli combatte quella spensierata prodigalità che aveva visto profondersi per l’Italia durante l’età di Cesare, e rimette in onore la vecchia parsimonia intravedendo, sia pure nebbiosamente, la principale difficoltà dello sforzo in cui si consumava l’Italia per stabilire intorno a ogni città una borghesia di agiati possidenti di terre coltivate da schiavi: e cioè che questa classe non poteva sostenere le grandi spese della coltivazione a schiavi se non in terre di molto reddito, quando fosse in grado di vendere bene le derrate, se non aveva molta saviezza nello spendere e se non era aiutata da una plebe libera di artigiani nelle città, che provvedessero con minore dispendio gli oggetti industriali. Durante l’età di Cesare, i temporanei rincari determinati dalle importazioni delle prede, dalla facilità del credito, dalla prodigalità ed esaltazione di tutti, avevano portato brevi periodi di una fittizia età dell’oro, cui erano seguite crisi rovinose: con maggior prudenza e cautela bisognava ora ristabilire una più costante proporzione tra le spese e i guadagni, tra il prezzo delle derrate e il costo della coltivazione, rinnovando certi sani principî dell’antica amministrazione casalinga, troppo spregiati dalla generazione precedente.

Virgilio invece non intendeva logorare il suo spirito in simili e troppo sottili ragionamenti: ma chi si domandasse come mai, dopo aver scritte le dieci bucoliche, egli si accingesse proprio in questo anno 37 a scrivere una opera così diversa per materia e per forma come le Georgiche, ponga mente che intorno allo stesso tempo erano pubblicati o scritti i libri di Tremellio, di Iginio, di Varrone. Il poeta non scelse per il suo nuovo lavoro, come aveva fatto per le Bucoliche, tanti piccoli e diversi soggetti tra gli argomenti allora in voga, ma il più grave di quegli argomenti e quello che aveva voga maggiore; e lo scelse non tanto per i consigli di Mecenate, quanto per la inclinazione sua di artista avido di gloria a cercare soggetti vivi, che convenissero alle sue attitudini e soddisfacessero a qualche sentimento del tempo. La letteratura viveva ormai non più della protezione di poche grandi case signorili, ma della lode popolare; e il successo delle Bucoliche lo incoraggiava a cercar di piacere al grande pubblico. Quale soggetto conveniva più che un poema sulla agricoltura a Virgilio, che era figlio di un agricoltore, che aveva passata la sua fanciullezza in campagna, che sentiva profondamente il paesaggio, a cui piaceva quella rinascenza delle grandi tradizioni agricole, che era nello stesso tempo un poeta e un filosofo, imbevuto delle dottrine di Epicuro? Egli potrebbe facilmente, studiando un poco i georgici greci ed Iginio982, esprimere con precisione scientifica le molte nozioni di agronomia imparate empiricamente sul campo paterno; e potrebbe non enumerare aridamente quei precetti, ma quasi direi pittorescamente descriverli in un seguito di piccoli e grandi quadri della campagna e della vita rustica; ma animarli, collocando la faticosa opera delle generazioni che coltivano la terra sullo sfondo immenso della vita universa della natura, rinascente e rimorente senza tregua, che egli aveva appreso a contemplare nelle scuole di filosofia; idealizzando in una dolce poesia quelle virtù e quei pregi della vita campagnuola, la cui ammirazione era quasi una moda. Le Georgiche non sono una accademica imitazione di poemi didascalici greci; sono il poema nazionale di quel rinnovamento agrario dell’Italia, che fu l’opera massima del secolo e mezzo seguito ai Gracchi; sono la celebrazione poetica di quella grande opera del tempo suo, di cui Varrone studiava come agronomo ed economista le contradizioni, simile all’inno alle macchine, che un poeta scrivesse oggi in mezzo al fervore dell’industria moderna; sono la vibrazione di una cetra armoniosa, investita dal vento di una gagliarda passione popolare.

XVII.
LE NOZZE DI CLEOPATRA E DI ANTONIO.

[37 a. C.] Frattanto, nel luglio del 37 a quanto pare, Gerusalemme era caduta in potere di Erode e di Sossio983, e la fine di questa guerra mutava la situazione, rendeva inutili in parte le laboriose trattative di Taranto. L’esercito che aveva assediata la città, era libero; e Antonio, che già aveva scaricata sul collega una parte della sua spesa navale, fu contento di risparmiare il soldo e il vitto dei 21 000 soldati di Ottaviano, di cui non aveva più bisogno. Egli correva infatti pericolo di essere intralciato nell’impresa dalla scarsezza non degli uomini, ma dei denari; occorrendo una grossissima spesa per eseguire il piano di Cesare, che era una geniale amplificazione del consiglio dato inutilmente a Crasso dal re di Armenia, nel 55. Per conquistare la Persia era necessano distruggere l’esercito dei Parti, e specialmente quella loro cavalleria così mirabilmente addestrata a trarre il nemico lontano dalla base di operazione fuggendogli innanzi, a passargli a tergo, ad assalirlo di fronte, a molestarlo sui fianchi, schivando i cimenti risolutivi. Come eluderne la tattica? Come costringere i Parti a battaglia campale, poco lontano dalla base di operazione, in luogo e in tempo favorevoli? Ricalcando la via di Crasso e minacciando Seleucia, no. Ai Parti non importava di perdere per qualche tempo le città mesopotamiche; e quanto a minacciare la capitale, Seleucia era così distante dall’Eufrate, che il nemico potrebbe seguire e molestare i romani per lungo spazio e per lunghissimo tempo. Perciò Cesare aveva deliberato di invadere la Persia per una via più lunga ma più acconcia, non da Oriente, ma da Settentrione; di raccogliere nell’Armenia minore, sul piano ora detto di Erzerum, circa 100 000 uomini tra legionari e contingenti orientali, grandi provviste di vettovaglie e un immenso parco di assedio; di muovere di là tra paesi ricchi, popolosi ed amici sino all’Arasse, che era il confine di un grande Stato vassallo dei Parti, la Media Atropatene; di marciare sulla metropoli della Media, che distava poco più di 400 chilometri dal confine984. Se i Parti accorressero al soccorso del re vassallo, l’esercito romano combatterebbe la battaglia o le battaglie risolutrici in luogo acconcio, con le spalle sicure; se i Parti lo abbandonassero al suo destino, la Media sarebbe la prima tappa della conquista, la base di operazione da cui ripartire per invadere la Persia. Che Antonio si sentisse l’animo di eseguire tanta impresa, prova che egli non era così ammollito dai godimenti come i suoi biografi dicono: ma per tanti soldati che si stavano armando, per gli approvvigionamenti che si raccoglievano, per le molte macchine che si costruivano, occorrevano immense somme, e a provvedergliele non bastavano nè i nuovi sovrani da lui creati in Oriente nel 39, nè le copiose miscele di rame e di ferro nell’argento con cui coniava i denarii per le legioni985, nè le piccole spedizioni o razzie ordinate a questa o a quella parte dell’esercito. Così intorno a quel tempo incaricava Canidio di portare sei legioni nel Caucaso a guerreggiare gli Iberi e gli Albani, già visitati da Pompeo, per mantenerle a spese di questi barbari e per far loro passare l’inverno non lontano dall’altipiano di Erzerum, dove a primavera si radunerebbe l’esercito986.

Insomma Ottaviano non poteva più giovare in nessun modo ad Antonio; il quale perciò tanto più doveva esser profondamente sdegnato per la diffidenza e la doppiezza con cui il collega aveva trattato il baratto; sentire il bruciore dell’affronto che il cognato gli aveva inflitto a Taranto, costringendolo a implorare un accordo che era molto più vantaggioso ad Ottaviano che a lui. Egli era per natura proprio l’opposto di Ottaviano: vigoroso, orgoglioso, violento; ma semplice, e se talora pronto a ingannare con qualche facile e rapida astuzia, poco paziente e poco abile nell’ordire lunghi intrighi. Sospinto dallo sdegno e dal bisogno di denaro, Antonio prese rapidamente, nel breve viaggio da Taranto a Corfù, una grave risoluzione: accettare finalmente l’offerta di Cleopatra, sposarla e diventare, di fatto se non di nome, re di Egitto, per attingere a piene mani nel tesoro dei Lagidi. Giunto infatti a Corfù, rimandò in Italia Ottavia con i bambini987; e spedì Fonteio Capitone ad Alessandria a dire a Cleopatra di venirgli incontro in Siria988, senza perciò dar principio a un nuovo episodio di un lungo romanzo di amore. Antonio era stato lontano da Cleopatra quasi tre anni senza dimagrire, e sinchè ciò gli conveniva: tornava a lei di nuovo, regina del solo paese ancora non rovinato dalle guerre civili che fosse in Oriente, quando si accingeva a una impresa dispendiosissima, in tal bisogno di denaro da dover cedere una parte della flotta al collega. Sposando Cleopatra egli ambiva solo aggiungere agli altri paesi da lui governati l’Egitto, scansando il passo pericoloso della conquista, con un espediente usato ed abusato dalle monarchie asiatiche, ma inconciliabile con la natura dello stato romano e dell’autorità proconsolare: un matrimonio dinastico. Egli compiva perciò un atto rivoluzionario gravissimo, e all’improvviso, senza prepararlo, come si trattasse di un nonnulla; dando prova non di un romantico amore per la regina d’Egitto, ma della facile spensieratezza con cui affrontava l’ignoto e si appigliava all’insolito che tanto spaventa i più. Colpa in parte del suo temperamento geniale ma poco ponderato; in parte della soverchia fortuna goduta negli ultimi anni e della confusione dei tempi, in cui era facile scambiare l’impossibile per reale e la stravaganza per saggezza.

In Italia intanto, in quegli ultimi mesi dell’anno 37, Ottaviano dava esecuzione all’accordo di Taranto, facendo approvare dai comizi una legge che prolungava i poteri triumvirali fino al 1° gennaio del 32 a. C.; e continuava alacremente i preparativi della guerra contro Sesto, ormai definitivamente deliberata per l’anno prossimo. Certamente l’opinione pubblica era sempre contraria all’impresa; si ostinava nella ammirazione del vecchio Pompeo; si compiaceva di interpretare i disastri del 38 come vendette della collera divina, come una protezione dei numi sull’ultimo discendente della nobile e infelice famiglia. E Ottaviano che, arrobustendo con gli anni e con l’esperienza l’ingegno e il volere, incominciava a moderare la sua squilibrata violenza, a subire l’influsso benefico di Livia, del suo maestro Didimo Areo, degli amici più savi, Ottaviano temeva di irritare troppo l’opinione pubblica, e forse le avrebbe dato, potendo, soddisfazione. Ma capiva che non avrebbe distrutta la popolarità del nome di Pompeo, così pericolosa per il figlio di Cesare, se non distruggendo Sesto; e perciò si risolveva a fare violenza allo spirito pubblico: ma la grandezza dei preparativi dimostra quanto temesse una nuova esplosione di Roma e dell’Italia simile a quella del 39, come non intendesse accingersi all’impresa se non essendo sicuro di riuscire. Il successo era il solo mezzo di convertire il pubblico incaponito; mentre un nuovo insuccesso poteva rovinarlo. Cercava infatti di indurre Lepido ad aiutarlo con le sue navi e le sue sedici legioni; faceva terminare la flotta e il porto di Agrippa; studiava forse la storia della prima guerra punica, nella quale pure si era combattuto per terra e per mare contro la Sicilia; e preparava un piano di guerra, al quale i nuovi Cartaginesi dovevano senza fallo soggiacere. Il maggior numero possibile di legioni sarebbero avviate verso l’estrema punta dell’Italia, per passare in Sicilia; in uno stesso giorno Lepido muoverebbe dall’Africa, Agrippa con la sua nuova flotta da Pozzuoli; da Taranto, con le navi di Antonio, Statilio Tauro, un homo novus, uno dei tanti giovani di oscura origine che era riuscito a introdursi nella clientela di Antonio e si era segnalato in modo da essere posto da lui a capo della armata lasciata in Italia.

Cosicchè quando, sul finire dell’autunno dell’anno 37, la navigazione e lo scambio delle notizie tra le due parti dell’impero furono sospesi, Antonio in Siria e Ottaviano in Italia erano in gran faccenda. Antonio, mentre aspettava Cleopatra, preparava alacremente la spedizione dell’anno venturo; spediva ai sovrani di Asia l’ordine di mandare sull’altipiano dell’Armenia minore gli uomini, il materiale, le provvigioni per la primavera seguente; mutava re al Ponto, sostituendo, non sappiamo per quale ragione, Polemone a Dario989; arruffava frettolosamente un intrigo diplomatico, di cui il caso gli aveva messo in mano i fili, per avere aiutatori all’impresa sua anche nella aristocrazia partica, malcontenta del nuovo re Fraate successo ad Orode, che aveva abdicato per il dolore della morte di Pacoro990. Ottaviano invece riusciva, non sappiamo con quali promesse, a persuadere Lepido; preparava con grande minuzia e alacrità la sua spedizione, si accingeva a muovere l’Africa e l’Europa contro la Sicilia, cercava di incuorare i soldati e le ciurme, maldisposte dalle precedenti disgrazie e dalla universale riprovazione, persuadendo loro che questa guerra era la conclusione necessaria della vendetta di Cesare, da lui impresa otto anni prima come un sacro dovere di figlio, tra il favore popolare991. Ma una disdetta implacabile pareva accanirsi contro di lui. In quell’inverno una epidemia decimò le ciurme di Antonio a Taranto, cosicchè ventotto navi non poterono esser più adoperate992. Inoltre Menodoro, capitato a Roma tra gli antichi suoi compagni di servitù nella casa del Magno, tra i numerosi liberti di Pompeo tutti fedeli alla memoria del morto, era stato così aspramente rimbrottato pel suo tradimento che aveva ritradito, fuggendo di nuovo in Sicilia all’antico signore993.

[36 a. C.] Ma tra queste cure Ottaviano non immaginava che, dopo tante successe in Italia, un’altra rivoluzione avveniva in Oriente in quell’ inverno dal 37 al 36, e non meno grave delle precedenti, sebbene senza guerra e senza sangue, con un semplice matrimonio. Al principio del 36 Cleopatra e Antonio avevano celebrato tra grandi feste le loro nozze in Antiochia994. Antonio aveva date alla sposa, come dono nuziale e a compenso delle somme che prenderebbe nel tesoro di Alessandria, alcune particelle dell’antico regno di Egitto, tolte a sovrani vassalli e a provincie romane: Cipro, una parte della costa della Fenicia, i ricchi palmeti di Gerico, certe parti della Cilicia e di Creta molto fruttuose, perchè folte di boschi995. Cleopatra, secondo il costume seguito dai re di Egitto quando contraevano un nuovo maritaggio, aveva inaugurato una nuova era, incominciando dal primo settembre del 37 – il principio dell’anno egiziano – a numerare da capo gli anni del regno suo996. Cleopatra aveva vinto; ma solo a metà, perchè Antonio, se aveva acconsentito a confondere la sua persona con la autorità proconsolare compiendo questo matrimonio dinastico, non voleva rinunciare al vantaggio di poter presentarsi dappertutto come un proconsole romano, che era titolo ben più formidabile che non re di Egitto; onde si ingolfò con la consueta temerità in uno strano ginepraio di contradizioni. Sulle monete di Egitto fece coniare la effigie sua e quella di Cleopatra, ma chiamò sè stesso triumviro e autocrator (αὐτοκράτωρ) – la traduzione greca di imperator – non re di Egitto997; non ripudiò Ottavia, la matrona che egli aveva sposato con i riti sacri della monogamia latina e che a Roma gli educava amorosamente i figlioli, dandosi a vivere in poligamia come un re dell’Oriente998 e arrogandosi quella facoltà di aver più mogli legittime, che secondo una diceria Cesare voleva farsi concedere negli ultimi anni. A questo bizzarro matrimonio insomma ognuno dei due sposi si era indotto per fini propri e con l’intento di servirsi dell’altro per questi, ricambiandogli il meno che potesse: Cleopatra, per ingrandire fuori il regno di Egitto e per conculcare più facilmente le interne opposizioni al suo governo; Antonio, per avere i mezzi alla spedizione partica. Incominciava tra Antonio e Cleopatra una alleanza per aiutarsi e nel tempo stesso una lotta, per decidere chi sarebbe lo strumento e la vittima dell’altro. Cleopatra, che certamente desiderava sin dal principio il divorzio di Ottavia e che era avversa alla spedizione di Persia, si acconciò in principio a subire e Ottavia e la spedizione; ma subito dopo le nozze sollecitò il dono di nuove signorie, prese a intrigare contro Erode, che voleva far deporre per aver la Giudea999, ambiva l’Arabia, Tiro e Sidone1000. Ma Antonio, che allora era ancora saldo contro i fascini della astuta egiziana, non le concedè nulla, anzi l’ammonì a non intromettersi troppo nelle faccende degli stati vassalli1001. Affrettò invece i preparativi suoi.

Ottaviano fu molto malcontento di questo bizzarro matrimonio politico, perchè dopo avere aggiunto il ricco Egitto alle sue provincie Antonio sovrasterebbe senza confronto a lui e a tutti, se anche la spedizione di Persia gli riuscisse prosperamente. Ma per il momento che altro poteva egli fare, se non affrettarsi alla guerra di Sicilia e terminarla prima che Antonio tornasse dalla Persia? L’Italia invece non si commosse molto, sebbene questo matrimonio fosse un nuovo passo sulla via della separazione tra le provincie di Oriente e quelle di Occidente, che doveva rovinare la metropoli! La nazione pareva accasciarsi definitivamente nel suo malumore sconfortato; l’accesso di furore che aveva sollevato Roma nel 39 non si ripeterebbe; l’egoismo e il dissolvimento politico facevano troppi progressi; e se dagli avanzi degli antichi partiti, dal principio delle nuove classi fermentavano opinioni e sentimenti comuni, questi si volatilizzavano ormai in un malcontento cronico ma poco preciso contro tutte le cose presenti, in una vaga e non motivata simpatia per il lontano Sesto, in un generico rimpianto del buon tempo antico, che dai costumi incominciava ad allargarsi alle istituzioni politiche. Quanto ai mali e ai rimedi presenti, nessuno aveva idee sicure e precise; nè era più possibile alle classi agiate che avevano perduto il potere una intesa e una azione comuni contro la cricca sia pur screditata che lo aveva conquistato. Ottaviano potrebbe prendersi la rivincita della capitolazione del 39. Predominava in tutta l’Italia una inerzia agitata, nella quale continuava ad ondeggiare, come una povera alga in balìa di un mare in tempesta, il giovane Orazio. Virgilio, solido figlio di contadini duro alle fatiche della penna, come i suoi antenati alle fatiche della vanga, continuava pertinace il poema senza risparmiare travagli, leggendo, consultando, trascrivendo dai libri georgici, facendo e disfacendo un infinito numero di versi per finirne pochi perfetti.1002 Orazio invece, sempre incerto, sempre pauroso, sempre in soggezione di Mecenate, continuava a scrivere piccole cose e disparate, senza una idea preconcetta, sopra quisquilie personali e soggetti poco pericolosi, non su grandi argomenti. Si arrischiava allora a tentare alcuni metri di Archiloco – i giambi – non ancora usati a Roma: ma solo per verseggiare qualche ricordo della guerra civile1003, per insolentire qualche nemico letterario di Virgilio1004, per raccontare un intriguccio galante vecchio di tre anni1005, per trattare anche qualcuno di quei motivi turpemente comici, che tanto piacevano alla triviale oscenità degli antichi, come l’amore delle vecchie. Su questo scrisse anzi due poesie1006, che sono tra le più oscene della letteratura universale e che inclino a credere non raccontino avventure vere del poeta, ma turpitudini non infrequenti, che il poeta, indulgendo al cinismo dei giovani, assume in propria persona. La forma, concisa e espressiva, è bellissima, e mostra già quell’arte sovrana di maneggiare lingua e stile, dicendo e dipingendo ogni cosa in poche parole, in cui Orazio supererà tutti i poeti antichi: ma la materia è tenue. E tenue era anche nelle nuove satire; nelle quali verseggiava un altro ricordo – comico questo – della guerra civile1007, o raccontava una sconcia avventura capitata alla celebre fattucchiera, Canidia1008, o si compiaceva di descrivere quanto era invidiato e sollecitato per la sua amicizia con Mecenate1009. Infine riscriveva un’altra difesa delle sue satire, contro coloro che lo accusavano di offendere le persone, facendo sapere che Virgilio, Plozio, Vario, Mecenate, Pollione, Messala lo approvavano1010. Neanche avesse assalito, invece di gente umile e oscura, tutta la cricca di Ottaviano, un altro avrebbe sentito il bisogno di tanto giustificarsi innanzi al pubblico! Solo una volta fece una piccola incursione nella politica, inveendo con i giambi archilochei contro un liberto diventato tribuno militare nell’esercito di Ottaviano1011 e dimenticando che aveva scritto poco prima una satira per gloriarsi di essere figlio di un liberto. Egli insomma non si orientava in tanta incertezza degli spiriti, in quella universale dubbiezza, che lasciava coloro i quali avevano il potere, liberi di osare ogni ardimento, ma a loro rischio e pericolo. Le cose più temerarie potevano essere tentate: ma guai a colui che non riuscisse!

XVIII.
LA GRANDE SPEDIZIONE PARTICA.

[36 a. C.] E dei triumviri, Antonio era quello che osava le cose maggiori. Nel marzo del 36 egli muoveva con l’esercito e con Cleopatra verso Zeugma1012, dove si separò dalla regina; simulò di forzare il passaggio del fiume1013, lasciò forse qualche legione a minacciare l’Eufrate, e con dieci legioni e 10 000 cavalieri1014 incominciò verso la metà di aprile le prime tappe di un immenso cammino a semicerchio, lungo quasi mille e novecento chilometri1015, al cui termine sarebbe giunto poco prima di cinque mesi. Valicato il Tauro, egli giungeva ai primi di maggio a Melitene e si avviava verso Satala, dove era ai primi di giugno; di là ripigliava la lunga via verso l’altipiano di Erzerum, dove in giugno trovava tutto il suo grande esercito già radunato: le sei legioni di Caninio ritornate dal Caucaso, il nuovo re del Ponto Polemone, il re d’Armenia Artabaze (o Artavasde) venutogli incontro con una parte del suo contingente – 6000 cavalieri e 7000 fanti –; i minori contingenti orientali, il meraviglioso parco d’assedio, l’infinita turba dei valletti e delle bestie1016. La rimanente parte del contingente armeno era già collocata ai confini del regno, sulla via della Media1017, Le sedici legioni dovevano numerare circa 50 000 uomini; ai quali si aggiungeva la cavalleria di Antonio, i contingenti alleati presenti che sommavano a circa 30 0001018, quello del re di Armenia che numerava 16 000 cavalli: in tutto quasi 100 000 uomini, e cioè uno dei più grandi eserciti del tempo antico. Antonio, prima di muoverlo, lo passò tutto in rivista. Lo accompagnavano molti insigni romani, tra gli altri Domizio Enobarbo e Quinto Dellio, un antico ufficiale di Cassio, passato poi ai servizi di Antonio.

In quel tempo stesso il governo triumvirale riconquistava in Italia, nella lotta contro l’opinione pubblica, una parte del terreno perduto nel 39: incominciava la guerra di Ottaviano contro Sesto Pompeo, senza che l’Italia si movesse in alcun modo, come si temeva, a impedirla. Al l° luglio del 36 Lepido muoveva dall’Africa con settanta navi da guerra, con dodici legioni e 5000 cavalieri numidi caricati su mille navi da trasporto; Tauro da Taranto con 102 navi; Ottaviano con Agrippa da Pozzuoli, dopo avere fatta dalla nave ammiraglia una solenne libazione ai Venti, a Nettuno, alla Calma, scongiurandoli di assisterlo nella paterna vendetta1019. Senonchè Nettuno, ostinatamente pompeiano, sconcertò subito lo studiato accordo dei tre assalti convergenti a un tempo sull’isola, scatenando un gran vento e muovendo le onde. Tauro, dopo aver cercato invano di contrastare al vento avverso, se ne tornò a Taranto; Ottaviano, che volle continuare la rotta, perdè al capo Palinuro ventisei navi pesanti e molte leggere ed ebbe guasta la flotta in modo da dovere rifugiarsi in una rada1020; Lepido, dopo aver perduta qualche nave, giunse alla fine del terzo giorno in vista di Lilibeo (Marsala), ma al 4 luglio, quando si accinse a sbarcare, si trovò da solo alle prese con il nemico. Tuttavia Sesto, possedendo solo otto legioni e circa 200 navi, non poteva parare a un tempo tutti e tre gli assalti; e perciò aveva sì cercato di intralciare la via a tutti e tre gli assalitori, presidiando Pantellaria e le Egadi, munendo molti luoghi della costa, mandando una legione a Lilibeo; ma aveva raccolte le forze maggiori nel triangolo formato da Milae (Milazzo), il capo e Messina, dove era tutta la armata1021; contro Ottaviano insomma, il nemico più provvisto di armi, più implacabile e inesorabile. Se egli fosse riuscito a vincere Ottaviano, non gli sarebbe stato difficile venire a composizione con Lepido. Perciò Lepido soverchiò facilmente la legione di stanza a Lilibeo, sbarcando; e se Sesto Pompeo, appena seppe del caso toccato a Ottaviano, prontamente mandò un certo Papia con una parte della armata contro Lepido, questa giunse a sbarco compiuto1022.

Ma Sesto non osò assalire Ottaviano; e solo una piccola scaramuccia avvenne per mare, allorchè Papia affrontò le ultime quattro legioni di Lepido che erano partite più tardi, e ne seppellì nel mare due intere, insieme con molte navi da trasporto, cariche di materiale e di vettovaglie1023. Pochi giorni dopo il teatrale principio di questa grande guerra, tutti erano fermi di nuovo come in piena pace: Sesto vigilava in Messina, Statilio Tauro indugiava in Taranto, Ottaviano e Agrippa riparavano la flotta presso Palinuro; e anche Lepido aspettava ozioso a Lilibeo, che i suoi alleati fossero in grado di riprendere il mare1024. Pare anzi che Sesto, forse illuso da esagerati racconti sui danni di Ottaviano, sperasse che il suo nemico rimanderebbe la guerra all’anno prossimo1025. Ma il tenace Ottaviano era troppo fermo nel proposito di finire in quell’anno l’interminabile duello. L’Italia, inerte sino ad allora, si era mossa non appena aveva saputo che la grande spedizione preparata con tanta cura falliva ancora prima di cominciare; a Roma si erano fatte grandi dimostrazioni contro Ottaviano ed erano scoppiati dei disordini!1026 Se non tornava a Roma vittorioso, egli era spacciato. Aiutato da Agrippa, provvide a riparare alla meglio la flotta sconquassata; mandò a Taranto le ciurme superstiti delle navi affondate per imbarcarle sui 28 legni di Antonio restati vuoti nel porto; spedì Mecenate a Roma a mantenere l’ordine1027; mandò a dire a Lepido di avviarsi sulla via che da Lilibeo conduceva a Messina lungo la costa meridionale e orientale dell’isola, per Agrigento, Catania, Taormina, dove si fermerebbe ad aspettare uno sbarco di milizie caricate sulla flotta di Taranto1028. Egli invece tenterebbe di impadronirsi delle isole Lipari, di Milazzo e di Tindaride, per sbarcare un altro esercito sulla costa settentrionale e chiudere Pompeo nell’estrema punta dell’isola. Tra questi preparativi sopravviene con poche navi Menodoro per passare di nuovo alle parti di Ottaviano, tanto lo avevano irritato le non irragionevoli diffidenze di Sesto, che gli aveva preferito l’oscuro Papia per la spedizione contro Lepido! E Ottaviano lo accolse amicamente, restringendosi solo a non dargli più alcuno incarico di fiducia1029: unico castigo per i tre tradimenti di questo liberto, le cui infedeltà ripetute e impunite dimostrano meglio di cento ragionamenti quanto la autorità si fosse infiacchita in mezzo alle guerre civili. Anche con i propri liberti, nella casa loro, dovevano in certi casi transigere i signori del mondo! Così verso la fine di luglio Ottaviano si muoveva di nuovo con le navi riparate alla meglio, Tauro andava ad ancorare nel golfo di Squillace, le milizie di terra si addensavano nell’estrema punta d’Italia1030. Ma l’accordo dei movimenti fu anche questa volta turbato, non più dal vento e dal mare, ma dalla superbia di Lepido. Amareggiato dalla trascuranza dei due colleghi, pieno di rancore contro Ottaviano che, più giovane di lui, lo trattava con tanta superbia, per ripicco, per mostrare che faceva di testa sua ed era pari al collega, egli si avviava verso Messina, ma non per la via indicata da Ottaviano, bensì per l’altra, che segue la costa settentrionale dell’isola per Trapani, Partinico, Palermo, Cefalù. La congiunzione a Taormina era perciò cosa ormai impossibile. Ottaviano allora, quando fu giunto a Vibo (Bivona), concertò con Agrippa un nuovo disegno: Agrippa si impadronirebbe delle isole Lipari e cercherebbe, minacciando tra Milazzo e Tindaride, di dar travaglio a tutta la flotta nemica, cosicchè Sesto non potesse da Messina vigilare la costa sino a Taormina; Ottaviano approfitterebbe del mare sgombro per sbarcare a Taormina le legioni che stavano sulla riva del golfo di Squillace e che non sappiamo precisamente quante fossero: cinque o sei forse1031.

Il disegno era bello; ma tra il dire e il fare questa volta c’era di mezzo proprio il mare, alla lettera e non in metafora. Ottaviano andò a Squillace e prese il comando della armata, mentre Agrippa s’impadroniva facilmente delle isole Lipari1032 e faceva esplorare da leggeri navicelli il mare. Sesto era a Messina con il grosso della flotta; Democare a Milazzo con 30 navi1033. Per distrarre l’attenzione di Sesto dall’altro fianco, Agrippa incominciò a tormentare il nemico con ricognizioni, finte e scaramuccie1034, sinchè uscì un mattino con mezza flotta dall’isola Vulcano, per sorprendere nelle acque di Milazzo Democare solo. Ma con sua grande sorpresa trovò che Democare aveva già ricevuto un primo rinforzo di 40 navi e un secondo di 70, al comando di Sesto in persona1035. Sesto commetteva dunque quasi spontaneamente l’errore a cui egli voleva costringerlo, abbandonando Messina! Accortosene, Agrippa spedì un navicello ad Ottaviano per avvertirlo che Messina era sgombra; fece venire il resto della sua armata e, risoluto a occupare più che potesse l’ammiraglio nemico per dar tempo a Ottaviano di fare lo sbarco, assalì risolutamente il nemico1036. Le navi di Agrippa, costruite apposta per la guerra, erano quasi tutte grosse, pesanti, munite di grandi torri e provviste di potenti macchine di getto; corazzate, diremmo adesso; mentre Sesto Pompeo comandava, per usare una parola moderna, una flotta di incrociatori, di navi mercantili quasi tutte convertite ad uso di guerra, più leggere, più corte, meno protette e meno armate, ma più snelle e veloci. Le navi di Pompeo si gettarono attraverso i lunghissimi remi dei legni nemici, tentarono di romperne i timoni, di urtarle a prora o a poppa; mentre le navi di Agrippa cercavano o di afferrare con gli arpioni questi mordenti levrieri del mare o di scacciarli con una pioggia di grevi sassi1037. La sveltezza lottò a lungo contro la forza; sinchè alla sera Sesto Pompeo, che aveva perduto una trentina delle sue piccole navi, si ritirò verso i porti di Milazzo in buon ordine, con animo franco, come al cadere di una giornata in cui si è pugnato con esito incerto dalle due parti1038. Poco prima Ottaviano che, ricevuto l’avviso di Agrippa, aveva caricato in fretta sulle navi tre legioni, 1000 fanti leggeri, 500 cavalli, 2000 veterani congedati, a cui si erano promesse terre in Sicilia1039, giungeva verso sera a Leucopetra (Capo dell’armi)1040: ma qui fu assalito da molti dubbi che lo fermarono, come gli succedeva così spesso quando doveva eseguire nei particolari qualche impresa bene immaginata nel suo disegno generale. Doveva continuare la rotta per Taormina e sbarcare di notte, o aspettare il dì dopo? Mentre Ottaviano dubitava a Leucopetra, Agrippa, il quale aveva perdute cinque navi grandi, non si sentiva rassicurato dallo strano contegno del nemico, che troppo opportunamente per lui aveva abbandonato Messina e troppo facilmente gli lasciava la palma della vittoria; onde dubitando di uno stratagemma, voleva inseguire Sesto, non lasciargli respiro, anche dovesse passare la notte all’ancora in mare aperto o continuare nella notte la battaglia del giorno, temendo il nemico si proponesse di recarsi a disturbare Ottaviano1041. Disgraziatamente gli amici gli descrissero così vivamente la stanchezza dei soldati, il pericolo di passare la notte in mare aperto, che Agrippa cedè, vinto dal vero che si conteneva in queste osservazioni, e tornò all’isola Vulcano1042, proponendosi di ricomparire il dì dopo a minacciare Milazzo e Tindaride, per distrarre Pompeo, forse argomentando che Ottaviano già fosse sbarcato. Ottaviano invece aveva alla fine rimandato lo sbarco al dì seguente1043.

Agrippa aveva avuto ragione di dubitare. La comparsa di Sesto Pompeo nelle acque di Milazzo, la battaglia, la ritirata, erano tutte finte per trarre in un tranello Ottaviano: indurlo cioè a sbarcare a Taormina, facendogli credere che Sesto non vigilava e sorprenderlo, appena sbarcato, per terra e per mare, con il proposito di catturare e di uccidere proprio Ottaviano, che era il più accanito nemico. Lui sparito, egli potrebbe, aiutato dal favore dell’Italia, accordarsi con Antonio e con gli altri. Difatti Sesto aveva già mandato notevoli forze di fanti e di cavalli su Taormina; e alla sera si ritirava, fingendosi vinto, per appostare Ottaviano e piombar di sorpresa il dì dopo a Taormina, in mezzo alle operazioni di sbarco1044. Distolto Agrippa dall’inseguirlo, l’insidia riuscì pienamente. Nella notte probabilmente Ottaviano ricevè notizia della battaglia; e credendo a una vittoria di Agrippa, all’alba veleggiò sicuro verso Taormina e sul mezzogiorno incominciò a sbarcare i soldati in un golfo vicino alla città, mentre Agrippa tentava un assalto sopra Tindaride.... Ma nel pomeriggio, quando i soldati di Ottaviano incominciavano a fare il campo, comparve a un tratto al largo la fiotta di Sesto e da più parti sbucò sul campo la sua cavalleria e la sua fanteria1045. A quell’improvvisa apparizione il debole e nervoso Ottaviano perdè la testa e non seppe più provvedere a nulla. Il suo esercito sarebbe forse stato sterminato, se il nemico assaliva con audacia maggiore o se il giorno fosse stato più lungo. Per fortuna la tenebra calò a interrompere la mischia; ma non a portare consiglio allo sgomento del generale. Fuori di sè per lo spavento, credendosi circondato, dubitando della sorte di Agrippa, comprendendo che Sesto mirava non tanto a distruggere l’esercito quanto a pigliare proprio lui, Ottaviano cedette alla folle concitazione della sua natura imbelle e pavida, non pensò che a salvare sè, abbandonando l’esercito. Questo e non altro significava il disperato proposito di dare battaglia alla flotta nemica subito il giorno dopo, per liberarsi dalla parte del mare. Nella notte, mentre i soldati lavoravano a finire l’accampamento, Ottaviano cedè il comando dell’esercito a un ufficiale di nome Cornificio, ordinò alla flotta di prepararsi a salpare; e prima dell’alba, ammainata sulla sua nave l’insegna del comando, precipitò a dar di cozzo come un cavallo adombrato, nella flotta pompeiana1046. Questa, meglio comandata, sebbene molto meno numerosa, resistè salda all’urto; cosicchè la sua si sfasciò. Una sessantina di navi furono prese e catturate1047; le altre fuggirono nel disordine, ciascuna da sè. Tuttavia Ottaviano, sia pure per miracolo, scampò alla sera con una sola nave in un piccolo golfo solitario, dove fu raccolto e soccorso da Messala, che vigilava le coste1048; e sebbene il suo piano fosse di nuovo fallito, riuscì a far fallire a sua volta quello di Sesto. Soltanto la morte di Ottaviano poteva salvare il figlio di Pompeo, che in guerra regolare doveva soccombere, non ostante tutti gli errori degli avversari, avendo forze troppo minori. Infatti Agrippa aveva potuto nei due giorni in cui Pompeo combatteva a Taormina prendere non Milazzo, ma Tindaride1049, e incominciava allora sotto gli occhi dei pompeiani il trasporto delle milizie in Sicilia, mentre Lepido, sia pure a passi di tartaruga, si avvicinava con il suo esercito a Tindaride; e Cornificio. per non morir di fame nell’accampamento presso Taormina, osava porsi in cammino verso Milazzo, che credeva in potere di Agrippa. Ottaviano si riebbe presto dalla sua paura, capì che, se si poteva salvare Cornificio, lo spavento sarebbe stato maggiore del pericolo; e mandò ordine ad Agrippa di spedire da Tindaride soccorsi incontro a Cornificio. Per quattro giorni Cornificio camminò, combattendo senza tregua, soffrendo penuria di viveri, ignorando che si cercasse soccorrerlo, perseguitato accanitamente dal nemico, con le milizie di giorno in giorno più stanche, sinchè al quarto giorno, addirittura esausto, era in procinto di soccombere.... Quando il nemico a un tratto prese a fuggire. Erano giunte le tre legioni spedite da Agrippa al comando di un certo Laronio, un’altra delle tante oscure persone salite in quel disordine agli alti comandi1050.

Così, non ostante le disgrazie e gli errori, se era fallito il disegno di assalire Pompeo sui due fianchi, Ottaviano era riuscito a sbarcare in Sicilia un esercito. Da quel momento la forza del numero riprese i suoi diritti. Ogni giorno nuovi soldati toccavano terra a Tindaride e l’esercito ingrossava. Sesto Pompeo, raccolte insieme tutte le sue forze di terra, cercò in ogni modo di intralciare gli sbarchi e le operazioni del nemico1051; ma si accorse presto, specialmente dopochè Lepido ebbe raggiunto con il suo esercito le milizie sbarcate a Tindaride, che egli potrebbe a questo modo ritardare di qualche giorno, non mutare il destino. Egli poteva impedire questo continuo arrivo di legionari in Sicilia soltanto con una nuova battaglia sul mare, se gli riuscisse di distruggere o catturare la flotta nemica; onde appigliandosi alla fine a questo disperato consiglio – il solo che gli restasse – uscì fuori negli ultimi giorni di agosto1052 con circa 180 navi a dare battaglia nelle acque di Nauloco a un nemico più numeroso, imbaldanzito dalla sicurezza della vittoria. Naturalmente fu vinto, perdè 160 delle sue navi, che furono o distrutte o catturate, e fuggì con sole 17 a Messina; donde, imbarcati i tesori e la figlia, fece vela verso l’Oriente. Democare perì nella battaglia; Apollofane si arrese1053. A stento, con immane fatica, con poca gloria: ma alla fine Sesto Pompeo era vinto.

Mentre si combatteva in Sicilia, Antonio, passate in rivista le sue forze sul’altipiano di Erzerum, aveva avviato l’esercito verso il confine della Media per due strade1054; i contingenti armeni e pontici, il parco d’assedio, due legioni al comando di Oppio Staziano, per la via più comoda e più lunga della valle dell’Arasse; il resto dell’esercito al suo comando per una scorciatoia più aspra. Così verso la fine di luglio egli giungeva al confine della Media. Gli eventi seguiti dimostrano che Antonio avrebbe dovuto aspettare qui l’altra parte dell’esercito, per invadere con forze unite il paese nemico: ma ingannato, a quanto pare, da false notizie che facevano credere lontani il re dei Medi e il re dei Parti, facile una sorpresa nella capitale1055, si avviò senza indugio per assediarla, seguito a qualche giorno di distanza dal parco di assedio e dal resto dell’esercito. Giunse infatti alla metropoli verso la fine di agosto, senza incontrare il nemico e senza molestia. Ma nella Media collinosa, se era difficile ai Parti di adoperare la cavalleria, era facile nascondere un grosso esercito agli esploratori di un nemico, che non poteva fare grande assegnamento sulle informazioni degli abitanti: e difatti, mentre Antonio sicuramente incominciava le opere d’assedio, il re Fraate gli sgusciava vicino a sua insaputa con grandi orde di cavalleria, e gli passava alle spalle andando ad assalire il secondo esercito che scortava più lentamente a Gazaca il parco di assedio. Che cosa avvenne allora è poco chiaro. Il re di Armenia faceva doppio giuoco, come tante volte in queste guerre i re di Oriente? L’esercito raccogliticcio del nuovo re del Ponto valeva poco? Certo è che il parco d’assedio fu preso e distrutto, le milizie di Oppio annientate, Polemone catturato; e il re di Armenia, sia che si spaventasse davvero, sia che fingesse di spaventarsi, tornò in patria, conducendo seco la maggior parte della cavalleria e la più esercitata alla tattica nemica1056. Antonio tuttavia non si scoraggì e si dispose a proseguire l’assedio anche senza le macchine, sperando di provocare a battaglia le mobili schiere dei cavalieri parti, che, ritornati sulla metropoli, comparivano ora e scomparivano di continuo, con la solita tattica, sempre presenti, sempre molesti, sempre inafferrabili. La legione era un arnese di guerra vigoroso come una clava; ma una clava massiccia avrebbe servito a sterminare quegli sciami volanti di vespe? Antonio tentò in vari modi di tirare il nemico a battaglia; una volta si allontanò perfino con tutta la cavalleria, dieci legioni e tre coorti pretorie a un giorno di cammino dalla città, a raccogliere immense quantità di vettovaglie, a saccheggiare e a bruciare; simulò anche con finte espressive la paura e la timidezza, per provocarli. E i Parti alla fine ingannati assalirono, sperando in una nuova battaglia di Carre! Ma non appena si accorsero che le legioni balzavano pronte all’attacco, si diedero alla fuga e invano la fanteria li rincorse per circa dieci e la cavalleria per circa trenta chilometri; non si potò ucciderne o catturarne che un piccolo numero1057. Bisognò tornare all’assedio, sperando che, ridotta la città agli estremi per fame, i Parti si precipiterebbero sulle schiere romane. Ma frattanto era passato il settembre1058. Gli assediati facevano frequenti sortite1059, mostrando di essere animosi e ben provvisti; la mancanza del grande parco d’assedio rendeva più deboli le operazioni; incominciavano le pioggie e le nebbie dell’ottobre; esauste le regioni vicine, i distaccamenti dovevano andar più lontano a fare vettovaglia1060; l’esercito si stancava, diventava impressionabile, facile al panico. Non si smuoveva però Antonio e manteneva con straordinario vigore la disciplina1061, risoluto a mettere a estrema prova la pazienza dei nemici, che agili, forti, valorosi, non erano però avvezzi alla disciplina romana e non volevano restare in campo d’inverno. Se l’esercito romano si stancava, anche Fraate era inquieto, vedendo le giornate scorciarsi e Antonio non dar segno di voler levare l’assedio1062. Alla fine, non intendendo rischiare una battaglia, si risolvè a imitare la perfida astuzia già adoperata dal Surena e prese a far spargere tra le stanche legioni la voce che il re dei Parti era disposto a conchiudere una pace onorevole, se Antonio non si ostinasse a prolungare la guerra. I distaccamenti che uscivano a foraggiare non incontrarono più torme di feroci nemici pronti a slanciarsi su loro, ma drappelli di cavalieri che si avvicinavano in atteggiamento amichevole, i cui ufficiali cercavano di attaccare discorso e dicevano che i Parti volevano la pace; la notizia di queste proferte si diffuse tra i soldati, ingrossando per via, e fu loro cagione di grande gioia e di vive speranze; sorprese anche Antonio nelle prime incertezze. I triumviri erano i servitori dei propri soldati e non potevano opporsi ai loro desideri oltre una certa misura. A ogni modo egli verificò prima con un’inchiesta se queste dicerie erano vere; e poi mandò a proporre a Fraate di fare la pace se gli restituiva le insegne e i prigionieri di Crasso; quanto cioè bastava per dare ad intendere ai Romani che egli aveva riportata una straordinaria vittoria. Ma Fraate rispose che, se Antonio voleva ritirarsi subito, egli era pronto a lasciarlo partire senza molestie; di più non poteva concedere1063. Che fare? La città resisteva caparbiamente; i soldati erano stanchi e volevano ritirarsi; la carestia vicina. Antonio era orgoglioso e ostinato, ma non pazzamente, così da non capire che egli doveva cedere alla volontà delle legioni. Negli ultimi giorni di ottobre, accettate le proposte di Fraate, Antonio ordinò la ritirata.

Senonchè Fraate intendeva ripetere in ogni sua parte la perfidia del Surena incalzando spietatamente il nemico nella ritirata; e forse sarebbe riuscito, se Antonio prima di partire non fosse venuto in sospetto, non è ben chiaro in qual modo, dell’intenzione del nemico. Egli risolvè allora di mutare via e di non ritornare più per la via seguita venendo, ma per un’altra più collinosa e ineguale, e perciò più aspra ai cavalli, che alcuni credono di riconoscere in quella moderna che per Tabriz giunge all’Arasse ad Julfa. Tuttavia Fraate non rinunciò all’inseguimento; e si slanciò a tribolare il nemico in una avventurosa ritirata di ventiquattro giorni, nella quale Antonio fece la sua ultima e più splendida prova di generale. Infaticabile, sempre pronto ad accorrere là dove la lunghissima colonna dell’esercito fosse minacciata, a confortare i soldati con le parole e l’esempio, partecipe dei pericoli e delle privazioni, egli confortò, animò, tenne insieme l’esercito, alimentandone la fiducia con uno sforzo eroico; cosicchè per merito suo questa grande moltitudine, pur consumando tutte le sue provvigioni, pur cibandosi a certi momenti di radici e dissetandosi con acqua putrida, pur perdendo molti uomini e abbandonando per via quasi tutta la preda fatta, camminò unita combattendo senza tregua; e non solo resistè agli assalti e alle insidiose proferte di pace con cui il nemico tentava di trarla dalla via arida e faticosa della montagna nella pianura abbondante d’acqua; ma osò di tempo in tempo, pur ritirandosi, slanciarsi ad assalire il nemico; e portò in salvo oltre l’Arasse le aquile delle legioni. Ventimila tra legionari e ausiliari e 4000 cavalieri erano periti nella spedizione. Antonio non era riuscito a conquistar la Media, ma Fraate non aveva potuto ripetere la strage di Crasso1064.

Antonio, scolaro di Cesare anche in questo, scrisse al Senato un racconto della sua impresa a modo suo, in cui naturalmente narrava che tutto era andato a meraviglia1065. Tuttavia, se Antonio falsificava allora il racconto, il giudizio degli antichi e dei moderni su questa spedizione è stato troppo severo1066. Antonio commise un solo vero errore: lasciar sorprendere da Fraate il suo parco di assedio. Nel resto, grandioso ed eccellente (nè fa meraviglia, era di Cesare) deve essere giudicato il piano della guerra, audace il proposito di eseguirlo, accurata e minuziosa la preparazione, vigoroso e spedito il maneggio di un così numeroso esercito: tanto è vero che fece con prestezza e senza inconvenienti una delle marcie più gigantesche e si pose in salvo dopo una ritirata faticosa, aspra, difficile di quasi 500 chilometri. È vero che Antonio non riuscì a prendere la capitale della Media o a costringere i Parti a battaglia; ma ci sarebbe riuscito un altro? Cesare per esempio? Se a questa domanda non si può rispondere sicuramente di no, è anche lecito esitare a rispondere di sì; quando si considera, ad esempio, che Cesare rischiò di perdere la guerra contro Vercingetorice perchè non riuscì nemmeno egli, neanche con gli assedi, a costringere il nemico a battaglia; e fu salvo solo perchè alla fine il nemico fu obbligato, non da lui ma dalle condizioni in cui si trovava, ad affrontarlo. A ogni modo non è dubbio che se Antonio commise errori, la cagione principale della mala riuscita deve cercarsi nelle difficoltà dell’impresa che era impossibile prevedere. La milizia partica era molto più forte che tutti gli altri eserciti orientali, distrutti da Lucullo e da Pompeo; e la distanza aggiungeva a questa una nuova difesa; onde era impresa più ardua conquistare la Persia che non il Ponto o la Siria. Roma non poteva compiere questa impresa nel disordine politico e sociale in cui allora versava. Antonio avrebbe forse messo insieme un esercito sufficiente, se avesse avuta maggiore lunghezza di tempo e se non avesse temuto, per motivi politici, di scontentare i soldati; se avesse riposato per quell’anno le milizie in Armenia, conquistata la Media alla primavera prossima, rimandata all’anno dopo la invasione della Persia. Ma egli precipitò l’invasione prima e poi la ritirata, non perchè, come favoleggiano gli antichi, avesse fretta di tornare da Cleopatra, ma perchè, malsicuro signore di un potere conquistato rivoluzionariamente, sprovvisto di strumenti di dominazione saldi, costretto a badare nel tempo stesso alle cose d’Italia e d’Oriente, ridotto a procurarsi una qualche abbondanza di denaro con il periglioso espediente del matrimonio egiziano, era incalzato a far presto, come già Cesare in Gallia, e a badare troppo ai desideri dei soldati. La precipua cagione dell’insuccesso non deve essere cercata già nella sua inettitudine strategica, ma nelle difficili condizioni politiche dell’impero. Il programma di Cesare non poteva più essere attuato.

XIX.
ANTONIO E CLEOPATRA

Congedati i contingenti asiatici, lasciata la maggior parte dei soldati in Armenia, Antonio tornò velocemente in Siria; e seppe per via i gravi avvenimenti successi in Italia dopo la fuga di Sesto Pompeo. Ottaviano aveva ottenuto un inaspettato compenso all’acquisto dell’Egitto fatto da Antonio: aveva cioè spodestato Lepido, prendendosi non solo la Sicilia, ma le provincie africane e le legioni del terzo triumviro. La catastrofe era stata repentina e singolare. Dopo la fuga di Pompeo, le sue otto legioni, assediate in Messina da Agrippa e da Lepido, avevano avviate pratiche con ambedue per la resa; ma mentre Agrippa aveva domandato tempo a consultare Ottaviano che era a Nauloco, Lepido aveva accettata la resa per conto suo il 3 settembre e indotte le otto legioni a passare sotto le proprie bandiere, permettendo loro di saccheggiare insieme con i soldati suoi Messina1067. Allora alla testa di ventidue legioni aveva creduto di poter rifarsi alla fine di tutte le umiliazioni subite, imponendo a Ottaviano di lasciargli la Sicilia e di restituirgli le provincie possedute al principio del triumvirato. Così per un momento tutti avevano temuto che una nuova guerra civile nascerebbe in Sicilia. Ottaviano però con abili intrighi era riuscito a ribellare le milizie di Lepido, che stimavano poco il loro capo e speravano ricompense migliori dall’altro; e Lepido, abbandonato dai soldati, aveva dovuto accontentarsi di non essere ucciso e di tornare a vita privata in Roma, a godersi le grandi ricchezze ammucchiate nel triumvirato1068. Era Pontefice Massimo e Ottaviano non osò fargli violenza. Così alla fine dopo molte vicende era ristabilita la proporzione tra la grandezza di Lepido e la sua capacità, tanto e sì stranamente perturbata negli ultimi anni dai capricci della rivoluzione. Anche la sua armata si era arresa; Statilio Tauro aveva poi senza fatica sottomessa la Sicilia1069, a cui fu imposta una contribuzione di 1600 talenti1070; e Ottaviano era entrato in possesso dell’ultimo avanzo delle confische: i latifondi dell’interna Sicilia, appartenenti ai cavalieri proscritti nel 43.

È vero che subito dopo era scoppiata una grossa rivolta nelle legioni, esasperate dagli arretrati del soldo che si ammucchiavano, dalle cupidigie che si acuivano, quanto più i questori erano costretti a contentare i soldati con magri acconti e con buone parole. Ma Ottaviano era riuscito a rabbonirli, promettendo, insieme con molte altre cose, di congedare una parte dell’esercito1071. Non senza ragione poteva dunque oramai il figlio di Cesare considerare sè stesso come l’uomo che in tutti i tempi aveva goduto maggiore fortuna dopo Alesandro; perchè nessun altro era stato a ventisette anni capo di quarantatrè legioni, di immense torme di cavalleria e di una flotta di seicento navi1072; signore di un impero che comprendeva gran parte dell’Africa settentrionale, la Spagna, la Gallia, l’Illiria e l’Italia; arbitro di un potere quasi assoluto in una repubblica ormai rovinata. Non è difficile capire, considerando ciò, come appena giunte le notizie di Sicilia, tutto il mondo politico di Roma, così numeroso e così scadente, si affrettasse a mostrare ammirazione, devozione, entusiasmo per il figlio di Cesare; non apparirà strano che il Senato gli decretasse i più grandi onori. Anzi alla fine, non sapendo più in che altra maniera adularlo, approvò che potesse ornarsi da sè di tutti gli onori che gli piacesse avere1073: accorgimento ingegnoso per esaudire sicuramente tutti i desideri del vincitore; ma smaccata adulazione e prosternazione, che offendeva quella parte della nazione italica, ahimè purtroppo impotente, la quale non viveva ogni giorno di mendicità e di rapina politica. Ottaviano era stato sino ad allora un tiranno ambizioso, sospettoso, perfido e falso, implacabile con i nemici; e sebbene da qualche tempo, dopo il matrimonio con Livia e sinchè durava la paura di Pompeo, fosse un poco migliorato, non era da aspettarsi che la crudeltà e la violenza di lui si esalterebbero ora nuovamente, per la cresciuta sicurezza e potenza? Affrettarsi a corteggiare il prepotente e crudel vincitore era il consiglio più savio, per la torma di ambiziosi e di bisognosi che aveva invasa la repubblica.

E invece l’Italia, che aspettava qualche nuova violenza simile a quelle subite dopo Filippi e dopo Perugia, udì allora e vide il violento figlio di Cesare parlare e operare quasi come il vecchio e sempre rammaricato Pompeo! Prima di entrare in Roma, Ottaviano radunò il popolo fuori del pomerio e rese conto con un discorso dei suoi atti come si faceva ai bei tempi della repubblica1074;entrò poi in città il 13 di novembre1075 e subito proclamò una amnistia fiscale – come si direbbe adesso – che condonava gli arretrati delle imposte e degli affitti pubblici: gli arretrati cioè che non si potevano più riscuotere, ma il cui condono, se non faceva grande beneficio, almeno rincuorava l’Italia alla speranza che l’êra delle crudeli estorsioni fosse finita1076. Abolì anche alcune imposte minori1077; diffuse nel popolo un racconto delle sue imprese in cui dimostrava di aver compiuta la conquista della Sicilia, soltanto per chiudere definitivamente l’êra delle guerre civili1078; nominò augure fuori numero l’antico proscritto Valerio Messala Corvino1079; emanò una legge contro l’abuso invalso tra i ricchi di vestire la porpora dei senatori1080. Astuzia? Finzione? Cabale politiche? In parte sì, certamente; ma in parte principio di un vero ravvedimento interiore e di un grande mutamento politico che, se allora sorprese i più come un prodigio quasi incredibile, si preparava da un pezzo in lui e nelle cose; ed è il fatto più importante della vita di questo uomo, uno anzi dei fenomeni più singolari di tutta la storia del mondo. Bisogna quindi comprenderne bene i complicati motivi interiori ed esterni. Ottaviano non era uno di quegli uomini di azione, dotati dalla natura di passioni veementi come Alessandro, Cesare, Napoleone, nei quali con il successo crescono l’ambizione, l’avidità di godere, la baldanza, la spensierata fiducia di vincere sempre, la inettitudine a frenare gli impeti della passione e della fantasia, le violenze dell’orgoglio, gli appetiti della sensualità. Cagionevole di salute, debole di membra e maldestro negli esercizii corporei, dotato di poco coraggio e impressionabile, egli rassomigliava a Cicerone più che a Cesare, era piuttosto un uomo di studio e di scrittoio, una di quelle persone dotate per natura di fiacche passioni e di complessione poco forte, che riescono bene, nella misura delle loro forze, in tutti i lavori sedentari, pacati, di pertinacia; che difficilmente trasmodano e se spesso sono poco eroici nella cattiva fortuna, sanno conservarsi equanimi nella buona, diventando, ad ogni ingrandimento di ricchezza o di potere, più solleciti di conservare con la prudenza l’acquistato, anzichè temerari a rischiarlo per avere di più.

Certamente è più difficile trovare tra costoro uomini di grande intelligenza, perchè il genio è quasi sempre agitato e veemente; ma Ottaviano, che univa a questa fiacchezza di passioni un ingegno potente, avrebbe potuto diventare, in tempi e in condizioni simili a quelli del grande oratore di Arpino, un insigne letterato e un forte dilettante di filosofia: implicato invece dalla fortuna, ancora giovinetto, nelle gare civili, aveva dovuto affrontare pericoli, esercitar poteri, godere di fortune straordinarie, smisuratamente sproporzionate al suo coraggio, alla sua forza, al suo merito: onde l’ambizione, la vendetta, la sensualità, la cupidigia si erano esaltate; ed egli era stato sino ad allora ambizioso, violento, sensuale, cupido, vendicativo, invidioso dei meriti altrui. Ma erano questi i traviamenti passeggeri di un uomo di carattere debole, a volta a volta sbigottito da spaventi terribili e inebriato da fortune inverosimili. Per indole egli inclinava invece a quelle idee ragionevolmente conservatrici sui funesti effetti del lusso, della cupidigia, delle ambizioni politiche, della corruzione, che dai libri di Cicerone si spandevano nelle alte classi dell’Italia. Era sobrio, non amava il lusso e lo sperpero, sapeva amministrare il suo con una parsimonia, nella quale sarei tentato di riconoscere il nipote dell’usuraio di Velletri: onde più che ad accumulare nuove ricchezze, incominciava invece a sospirare il giorno in cui, sedate le guerre, potrebbe pagare tutti i debiti del triumvirato. Il pensiero di questi tormentava troppo le notti del degenere figlio di quel Cesare, che aveva così placidamente dormito sopra i tanti suoi debiti! Aveva ormai ricevuto tutte le magistrature e tutti gli onori, sino il trionfo e le statue dorate sul Foro; avrebbe potuto avere, con un solo cenno del capo, il pontificato massimo, che il popolo voleva togliere a Lepido per darlo a lui1081: ma questo giovane freddo, poco vanitoso, che se non amava obbedire non provava nemmeno grande diletto a comandare, avrebbe desiderato, anzichè nuovi onori, la fine di quei continui spaventi che lo tenevano in orgasmo da dieci anni: rivolte in Italia, sedizioni militari, tradimenti di amici, guerre civili e straniere. Egli aveva lette le opere di Cicerone, di cui era ammiratore fervente1082, per quanto avesse contribuito a farlo ammazzare; e non è dubbio che la lettura del De Officiis affrettasse, schiarendo la percezione dei motivi, questo ravvedimento interiore, come l’aiutavano i consigli del suo maestro Didimo Areo, che era membro di quella setta neo-pitagorica, i cui seguaci predicavano nello sconvolto mondo romano una morale di moderazione e di astinenza.

Anche nella prosperità piena e vera un uomo dotato di questa indole, invece di dimenticare, inebriandosi, gli immensi pericoli che aveva felicemente scampati con il favore della fortuna, si sarebbe allora fatto cauto a non cimentare di nuovo i capricci della volubile dea. Ma tanto più facile ci riesce di spiegare il mutamento avvenuto in quell’uomo, quando noi consideriamo che egli non si trovava nella prosperità piena e vera, e che, nonostante la sua stentata vittoria di Sicilia, doveva sentire malsicuro, piccolo, vacillante, insidiato il suo potere immenso in apparenza. Vincendo Sesto, egli aveva fugato un pericoloso rivale, ma aveva anche accresciuto, se pur era possibile, l’odio della pubblica opinione contro il triumvirato; odio profondo che nasceva da un fatto, la cui evidenza ormai si imponeva a tutti, anche a Ottaviano. La prova era fatta ormai definitivamente; non era più possibile illudersi: il triumvirato non era riuscito a nulla. Una sola cosa grande era tentata allora da Antonio: la conquista della Persia; ma nonostante gli ampollosi bollettini del generale già si incominciava a sussurrare che le cose volgevano male. Quanto a Ottaviano, egli aveva consumato dopo Filippi nientemeno che sei anni, sei lunghi anni, per conquistare la Sicilia, e vincere il suo nemico di famiglia. Nessuno dei due aveva fatta altra cosa, che potesse essere ammirata dal pubblico; non una riforma, non una grande opera pubblica, non una conquista. Ma che riforme e conquiste! Il triumvirato non era nemmeno riuscito a continuare i più semplici servizi pubblici di Roma, così mediocremente come la cadente repubblica. Mentre si erano moltiplicate tutte le altre magistrature, mentre si era empito il Senato nientemeno che di 1200 senatori, non si trovava più alcuno che volesse in quell’anno esercitare l’edilità: la carica da cui dipendeva il benessere materiale del popolo di Roma, ma nella quale bisognava spendere molto e non si poteva guadagnare nulla1083. Tanto l’egoismo civico era cresciuto e così poche erano ormai le grandi fortune! L’Italia era stata messa a ferro e a fuoco e separata dall’Oriente, l’impero sconvolto da capo a fondo, lo Stato ridotto al fallimento, la costituzione secolare della repubblica rovesciata; tutte le faccende pubbliche erano state insomma arruffate in uno spaventoso e cruento disordine dalla rivoluzione, per dare un po’ di terra a 5 o 6000 veterani, per fare posto in Senato e nella repubblica a qualche migliaio di oscuri plebei. La sproporzione tra l’incostituzionale grandezza dei poteri triumvirali, conquistata per il breve pazzo furore dei veterani e degli eserciti nel 43, e la meschinità degli effetti era troppo grande: tragica e risibile nel tempo stesso. Certamente se la spedizione di Antonio riuscisse prosperamente, se la Persia fosse conquistata, questa sproporzione apparirebbe a molti più tollerabile: ma della gloria che ridonderebbe al governo triumvirale profitterebbe anche egli o soltanto Antonio? Quali erano i propositi del collega? Ottaviano doveva domandarsi se al matrimonio di Antonio e di Cleopatra non seguirebbe il divorzio di Ottavia, e se questo non fosse il segno che Antonio si volgeva contro di lui, per vendicare la offesa di Taranto. Tante volte già erano stati per azzuffarsi! Nè gli eventi della Sicilia potevano rasserenarlo, se già era maldisposto. Ottaviano faceva fare dei sacrifici agli Dei per il prospero successo della spedizione, volendo salvare le apparenze e nascondere al pubblico la scandalosa latente discordia1084; ma doveva domandarsi se a lui nuocerebbe più l’insuccesso della spedizione o la riuscita. A ogni modo Ottaviano capiva che, sinchè la Persia non fosse conquistata, nè egli nè il suo collega potrebbero illudersi di essere ammirati dall’Italia. Potevano almeno sperare di essere temuti come capi di tante legioni? Ma il fervore cesariano dei soldati, che nel 43 aveva aiutato tanto la rivoluzione a vincere, si era raffreddato da un pezzo in un sordo malcontento per le speranze deluse, per il soldo stentato, per le gravi fatiche. Nemmeno i denari promessi alle nuove reclute della guerra di Modena erano stati ancora interamente pagati!1085 Cosicchè neanche i soldati, per i quali pure i triumviri avevano tanto malmenata l’Italia e l’impero, erano contenti; e l’equilibrio psicologico delle legioni vacillava di continuo per una instabilità pericolosissima, come dimostrava la recente rivolta; e mantenere i soldati era impresa non meno difficile che pensionarli. Anche allora Ottaviano aveva acconsentito volentieri a congedare otto legioni, tra le quali anche quelle reclutate nel 43 da lui e da Decimo, che avevano solo nove anni di servizio, perchè egli non poteva mantenere 43 legioni e nemmeno 35; ma doveva dar loro la pensione delle terre nè osava fare una nuova confisca, come nel 42; onde dovrebbe affaticarsi non poco per trovar queste terre! E le notizie della spedizione partica suonavano di corriere in corriere più infauste sul finire dell’anno; e peggiori ancora – almeno per Ottaviano – quelle di Sesto, che fuggendo nell’autunno del 36 dalla Sicilia, si era fermato al promontorio Lacinio e vi aveva saccheggiato il tempio di Giunone; provvedutosi così di denaro si era recato a Lesbo e stabilito a Mitilene, nella città dichiarata libera da suo padre, che lo aveva accolto con rispetto e dove era stato lasciato in pace dai governatori di Antonio. Gli animi di tutti erano così sospesi ed incerti, che nemmeno i personaggi più autorevoli nel seguito del suo cognato e collega osavano molestare senza ordini quel suo mortale nemico, che il nome faceva così popolare e rispettato1086. Inoltre, dopo la violenta deposizione di Lepido, il triumvirato non aveva più nemmeno un sicuro fondamento giuridico, essendo stato mutato arbitrariamente in un duumvirato: difetto innocuo, per un potere ammirato e popolare; difetto pericoloso, per un governo discreditato e discorde.

Ottaviano aveva quindi capito esser necessario, dopo la vittoria, fare qualche cosa che, piacendo all’Italia, rifacesse popolare il nome quasi odioso di Cesare; e perciò aveva cercato di dare qualche soddisfazione al nuovo sentimento conservatore delle classi agiate. Nè si restrinse a quello che aveva fatto subito dopo il ritorno; ma procedè a una mezza restaurazione repubblicana, restituendo ai singoli magistrati molte facoltà prima usurpate dai triumviri1087; cercò anche di favorire gli interessi della classe possidente sino allora così malmenati, provvedendo innanzi tutto senza confische ai 20 000 soldati congedati. Trattandosi non di soldati di Cesare invecchiati in Gallia, ma di soldati che avevano militato minor tempo e che o avevano appena o non avevano conosciuto il dittatore, non era necessario dare loro duecento iugeri a testa, ma bastavano campi più piccoli e non posti nella parte più bella d’Italia. Perciò assegnò loro terre a poco a poco fuori d’Italia, nella Gallia Narbonese, a Beterrae (Beziers)1088, in altre provincie1089; ad alcuni anche in Italia, ma terre comprate, tra le quali il vasto demanio municipale di Capua, con i cui redditi la città provvedeva alle spese pubbliche. Egli persuase i Capuani a barattare il loro demanio con un ricco territorio posseduto dalla repubblica a Creta presso Gnosso, di cui la città diventerebbe proprietaria e i cui redditi, contati a 1 200 000 sesterzi, provvederebbero alle spese pubbliche1090. Fece inoltre restituire ai loro padroni le numerose navi mercantili requisite da lui o da Sesto durante la guerra1091; e siccome non ostante questi congedi l’esercito era pur sempre troppo numeroso e dispendioso, deliberò di sbarazzarsi di altre otto legioni, quelle di Sesto Pompeo, in un modo molto perfido ma poco costoso e graditissimo alla borghesia italiana. Abbiamo visto che queste legioni erano in gran parte composte di schiavi dei latifondi siciliani e di schiavi fuggiti dall’Italia, a cui per il trattato di Miseno era stata data la libertà. Oblivioso di questa promessa, Ottaviano sciolse le legioni, fece cercare gli antichi schiavi fuggiti e ordinò di restituirli, forse con quelli che furono trovati nelle flotte – circa 30 000 in tutto – ai padroni1092. Così risparmiava il soldo e la pensione di questi soldati, faceva un bel presente alla classe agiata d’Italia, restituiva ai latifondi siciliani confiscati i loro schiavi, aumentandone il valore. Si propose poi di reprimere il brigantaggio in tutta Italia e la delinquenza a Roma; di istituire una specie di gendarmeria, le cohortes vigilum, probabilmente imitate dall’Egitto1093; di innalzare sul Palatino un gran tempio ad Apollo con un grande porticato1094, per dare lavoro al negletto proletariato dell’Urbe. Veramente i vecchi templi cadevano in rovina, e i nuovi a cui si era posto mano, il tempio di Cesare e quello di Marte Vendicatore sul Campidoglio, procedevano a rilento, per la scarsezza del denaro e il disordine dei tempi: ma tant’è, per occupare nuove braccia e accontentare il pubblico, si incomincierebbe a edificarne un altro! Inoltre, per dimostrare che le legioni non servivano solo a sostenere la tirannia dei triumviri, deliberava di intraprendere un seguito di spedizioni contro i barbari delle Alpi e della Illiria, sempre indipendenti a metà e sempre molesti alle popolazioni del piano e della costa. Infine – e fu la cagione della maggiore sorpresa – fece un discorso in cui si dichiarò pronto a deporre il potere triumvirale e restaurare la repubblica appena si fosse inteso con Antonio; non dubitava egli che Antonio consentirebbe, perchè, finite le guerre civili, era finita la ragione del triumvirato1095. Migliorava insomma la sua politica e migliorava sè stesso, comprimendo in sè la superbia, l’ira, la vendetta, la gelosia e tutti gli altri suoi vizi degli anni cattivi; ricompensava questa volta Agrippa splendidamente per le sue vittorie, facendogli decretare onori inusitati e dandogli grandi beni in Sicilia, tra quelli appartenenti ai cavalieri proscritti nel 431096; si proponeva di scandagliare cautamente le intenzioni di Antonio, senza provocarlo, con un ingegnoso espediente: mandargli, sul principio del 35, 2000 uomini scelti e molto materiale da guerra, a compenso delle sue navi distrutte nelle acque di Sicilia, che non poteva rendergli; e mandarglieli per mezzo di Ottavia.... Non si poteva immaginare un mezzo migliore e più abile, per far capire ad Antonio che egli desiderava non fossero rotti i vincoli di parentela e durasse la pace. Tanta moderazione ebbe subito un premio: l’inviolabilità e gli altri privilegi onorifici dei tribuni, che gli furono conferiti poco dopo il suo ritorno a Roma1097.

[36-35 a. C.] L’accorgimento era felice e propizia l’occasione. Antonio, non avendo ottenuto nella spedizione persiana quello splendido successo che avrebbe giustificato ogni atto suo, incominciava a sentire in molteplici difficoltà gli effetti dei temerari espedienti di cui si era servito. L’insuccesso, ingrandito dalla voce pubblica, aveva per un momento tanto sconquassato nel mutevole Oriente il suo sistema di nuovi regni e principati, che nell’inverno dal 36 al 35 Sesto Pompeo veniva nella speranza nientemeno che di rovesciare Antonio, facendo assegnamento sulla fama del suo nome in Oriente. Incominciò infatti di soppiatto pratiche con i re di Armenia, del Ponto e dei Parti; si die’ a raccogliere navi e a reclutare soldati, sinchè accozzato un certo numero di legni e di uomini, sbarcò sul continente; andò a Lampsaco e – tanto poteva ancora il nome di Pompeo – trovò soldati perfino tra i coloni che Cesare aveva dedotti. Tentò allora di prendere Cizico e incominciò una vera guerra in Bitinia. In Oriente insomma Antonio si trovava alle prese con una piccola guerra civile, che lo costringeva a mandar contro Sesto il governatore della Siria, Tizio, con flotta e legioni1098. In Italia invece, dove già l’insuccesso della spedizione faceva apparire più incresciosa la straordinaria grandezza del suo potere, egli ritrovava Ottaviano messo in sospetto dal suo matrimonio con Cleopatra e accresciuto di forze. Per tutte queste ragioni Antonio era disposto a far buon viso alle profferte amiche di Ottaviano, tollerando anche, almeno per il momento, il rivoluzionario sconvolgimento del triumvirato, che il collega aveva fatto a suo vantaggio. Anzi pensò di mandargli L. Bibulo, il figlio del famoso console collega di Cesare, con ambascerie d’amicizia a proporgli di aiutarlo nella spedizione illirica1099. Ma nel tempo stesso, irritato e scontento, pensava di cancellare questa incertezza dagli spiriti di tutti, ritentando la prova; e infatti deliberava subito, mentre attendeva a far reprimere la rivolta di Sesto, di aumentare il numero delle legioni e mandava agenti in Italia e in Asia a reclutare soldati1100. Senonchè la seconda prova era più difficile dopo il primo insuccesso. Era possibile far ripetere alle legioni o ai principi orientali lo sforzo immane del lungo cammino? Possibile spremere all’Egitto il denaro necessario alla seconda impresa, dopo la prima che aveva costato tanto e non aveva reso nulla? L’Egitto, sebbene retto da una monarchia assoluta, non era uno strumento inanimato, che potesse adoperarsi da chi l’impugnava per qualunque lavoro. La avversione delle alte classi contro Cleopatra e il suo governo doveva essere accresciuta dagli eventi degli ultimi anni; perchè quel matrimonio con un proconsole romano era uno espediente troppo insolito e bizzarro anche per la politica dinastica dell’Oriente; perchè il vecchio e industrioso Egitto badava soltanto alle ricchezze, alle arti, alle scienze e ai piaceri; voleva che i denari fossero spesi a pagare artisti e scienziati, a costruire templi e palazzi, a scavare canali, a dar feste, ad aumentare il numero dei funzionari, non a conquistare un impero così lontano e di cui nessuno si interessava. Perciò Cleopatra voleva, ora che la spedizione di Persia, bene o male, era stata fatta, distogliere Antonio da nuovi tentativi e adoperarlo per i fini suoi: indurlo a chiarire l’equivoca doppiezza della sua condizione, a non essere più un re d’Egitto nascosto sotto il paludamento di proconsole romano, a divorziare da Ottavia, a dichiararsi apertamente suo marito e sovrano, a ingrandire l’impero dell’Egitto. Essa giustificherebbe così davanti al suo popolo la propria politica e il matrimonio con Antonio. Il decrepito Egitto, se non amava le guerre, amava le apparenze non dispendiose e non laboriose della potenza e della grandezza; e quindi avrebbe ammirato un ingrandimento dell’impero ottenuto senza altre fatiche, che quelle muliebri della sua bella regina1101.

[35 a. C.] Nella primavera del 35, la dolce e buona Ottavia, che si sarebbe così volentieri appartata nella sua casa ad allevare i bambini, si accingeva a partire per l’Oriente, come una generalessa, alla testa di 2000 uomini1102; e in Illiria incominciava la guerra. Una flotta, a quanto pare al comando di Agrippa, risalendo l’Adriatico dal sud, snidava i pirati e le genti barbare dalle piccole isole della costa dalmatica e pannonica, catturava le navi dei Liburni e gli uomini validi, per venderli come schiavi1103 – erano molto stimati come pastori –; mentre dall’Italia del nord un esercito marciava su Trieste e di qui in parte si avviava a nord contro i barbari Carni e Taurischi, in parte piegava a sud-est verso Senia (Segna). A Senia probabilmente l’esercito e la armata si incontrarono1104; e da Senia Ottaviano, a capo di forze considerevoli, si internò nella moderna Croazia, in un vasto territorio popolato da varie popolazioni chiamate con il nome comune di Japidi, sottomettendo prima i Mentini (Modrush) (?), poi gli Avendeati, poi gli Arupini (Otochacz)1105, poi gli altri Japidi delle regioni più interne, a cui prese due città chiamate Terpone e Metuno, che non si sa dove fossero1106. Infine entrò in quella parte ultima della moderna Croazia, che gli antichi chiamavano Pannonia; e mettendo tutto a ferro e a fuoco giunse sino al più grosso villaggio, Siscia (Siszeg) posto sulla confluenza della Culpa e della Sava; lo assediò e lo prese dopo trenta giorni, perdendo in questo assedio quel bravo uomo di Menodoro, che lo aveva accompagnato e che restò ucciso in uno scontro1107. L’impresa dunque riusciva bene e fruttava una considerevole preda di schiavi, di denari, di navi. Nel crocchio degli amici di Ottaviano questi successi accesero tante speranze che, mentre egli nell’autunno lasciava l’Illirico per svernare in Gallia, si discutevano proposte molto più grandiose: conquistare il vasto regno indipendente dei Daci, posto oltre il Danubio nella moderna Ungheria; conquistare la Britannia, che Cesare aveva appena toccata; eseguire insomma tutti i disegni, che a torto o a ragione si attribuivano al dittatore1108. Invece Antonio, nei mesi in cui Ottaviano combatteva nella selvaggia Illiria, aveva vinto Sesto e lo aveva fatto uccidere, in modo però da far apparire la sua uccisione come l’effetto di un fatale errore nella trasmissione degli ordini. Così sperava di non incorrere nell’odio che l’Italia avrebbe conservato all’ultimo sterminatore della stirpe di Pompeo1109. Si era poi prese e aveva fatte passare sotto i suoi vessilli le tre legioni di lui, riparando così largamente i danni ricevuti nella campagna di Persia. Ma passato questo pericolo, subito nacquero difficoltà maggiori e più intricate, perchè il desiderio di restare amico di Ottaviano e quello di ritentare la prova in Persia contrastavano inconciliabilmente tra loro. La notizia che Ottavia veniva in Oriente con i doni del fratello aveva inquietato vivissimamente Cleopatra; e ancora più la inquietò una ambasciata del re del Ponto, il quale nella primavera del 35 trasmise ad Alessandria una proposta ben singolare del re di Media: nientemeno che la proposta di una alleanza contro il re dei Parti!1110 I due alleati, venuti in discordia per la preda fatta ai Romani, affilavano ora le armi l’uno contro l’altro. Antonio era stato lietissimo di questa offerta, che in maniera impensata pareva accorciargli e spianargli di tanto la via della Persia; e si era di nuovo scaldato straordinariamente all’impresa partica, disponendo di andare subito in Armenia a conchiudere la alleanza e a preparare la guerra1111. Le speranze di Cleopatra erano dunque in estremo pericolo, se Antonio si impegnava di nuovo nella guerra contro la Persia, se Ottavia poteva rivederlo e parlare con lui. Non potendo tuttavia subito trattenerlo, la regina domandò di accompagnarlo e Antonio acconsentì: grave errore, perchè in quel viaggio essa seppe usare tutti gli accorgimenti con cui una donna astuta può ammollire la risoluzione di un uomo più violento che forte. Smesso il suo solito portamento di altera, sicura, lieta compagna di feste e di dominio, si mostrò afflitta, si studiò di dimagrire e di impallidire, si atteggiò a malata; non disse lamento, ma procurò copertamente che Antonio fosse di continuo avvisato da questo o da quello dei cortigiani, che la regina era così afflitta ed inferma, perchè temeva di essere abbandonata; che era risoluta ad uccidersi, se egli davvero la abbandonasse1112. Un certo Alessi di Laoclicea sembra averla molto aiutata in questo lungo maneggio1113. Antonio, nella cui natura violenta era insita una certa bonarietà e molta debolezza, che era infiacchito dal lungo abuso dei piaceri, che incominciava ad abituarsi alle delizie e al lusso della corte egiziana e a subire l’influsso della astuta e intelligente regina, come già aveva subito quello di Fulvia, cedette alla fine, sebbene Ottaviano gli avesse date frattanto nuove arre di amicizie, e avesse mostrato quanto aveva a cuore la concordia tra il cognato ed Ottavia, facendo votare ad ambedue grandi onori dopo la morte di Sesto1114. Mandò a dire a Ottavia, ad Atene, di non venirgli incontro, perchè intendeva tornare in Persia1115; ma alla guerra di Persia non andò poi, e tornò invece ad Alessandria, rimandando tutto all’anno seguente1116.

[35-34 a. C.] Cosicchè l’anno 34 avrebbe dovuto andar insigne per grandi conquiste, di tante si parlava in Italia e in Oriente sul finire del 35: la Persia, la Britannia, la Dacia. Ma nell’inverno questi grandiosi propositi impicciolirono come turgide vesciche bucate. Ottaviano pensava piuttosto esser tempo, dopo tanto dispendio militare, di provvedere in qualche modo ai trascurati servizi civili, soddisfacendo anche in questo il giusto malcontento del pubblico; e difatti proprio allora poneva mente al modo di terminare la scandalosa vacanza dell’edilità, nominando edile Agrippa, appena fosse libero dalle cure della guerra illirica e sebbene già fosse stato console. Dopo il dono delle terre siciliane, Agrippa, che viveva con semplicità romana, ben diversa dal lusso sfondolato di Mecenate, era ricchissimo, e poteva fare assegnamento sulla non lontana eredità di Attico, ormai decrepito; egli dunque così operoso e versatile era in grado di far da solo e con il suo denaro le veci di tutti gli edili mancati negli ultimi anni, provvedendo ai grandi bisogni della città e del popolo, il quale avrebbe ammirato questo consolare acconciatosi a occupare una magistratura di grado inferiore, pur di spendere una parte del suo patrimonio in mezzo al popolo.... Si aggiunsero nell’inverno dal 35 al 34 vaghe dicerie, secondo le quali i Pannoni sarebbero insorti di nuovo. Ottaviano deliberò quindi di confermare nell’anno prossimo la signoria romana nella Pannonia, se la rivolta era scoppiata; e di domare poi definitivamente la Dalmazia, sempre a metà indipendente, se restava tempo. In quello stesso inverno Cleopatra si sforzava con astuzia indefessa di far abbandonare interamente la spedizione persiana, sino allora solo rinviata, e di convertire del tutto Antonio a quel suo strano imperialismo donnesco. Essa cercava di persuaderlo non essere possibile imporre all’Egitto le spese di un’impresa così lunga ed ingente come la conquista della Persia, senza correre il rischio di suscitare torbidi e rivoluzioni; esser necessario arrivare alla meta per una via più lunga ma più sicura: conquistasse l’anno prossimo l’Armenia, più vicina e più facile, il cui re aveva meritato questa sorte per il tradimento del 36, i cui tesori ingenti sarebbero compenso adeguato alle perdite della prima spedizione imputabili al suo re e mezzo efficace a tutte le grandi imprese future; ripudiasse Ottavia e, se non si risolveva a divenire re di Egitto per soggezione dei Romani, prendesse un partito di mezzo. Ricostituisse intorno all’Egitto l’antico impero dei Faraoni, spartendolo tra i figli loro, costituendo per la propria discendenza una grande monarchia ellenizzante, simile a quelle fondate da Alessandro. Inebriato dalla nuova grandezza di imperio, il popolo egiziano contribuirebbe volentieri i suoi tesori alla conquista della Persia1117. Consigli arditi, ardentemente inculcati da una donna ambiziosissima e ingegnosissima! Ma il triumviro esitava. E allora Cleopatra ad adoperare tutti i mezzi di persuasione, di cui disponeva come regina e come donna: inebriarlo con feste di meraviglioso splendore; variargli senza fine i sollazzi; metterlo a capo della società degli inimitabili, una specie di jeunesse dorée della corte, che affettava di sola conoscere e praticare le supreme raffinatezze della sensualità orientale1118; studiarsi di vincere l’opposizione degli amici romani che Antonio aveva condotto con sè ad Alessandria. Era questa una difficoltà nuova, che si aggrovigliava a mano a mano che le intenzioni di Cleopatra si schiarivano. Tutti i romani insigni che attorniavano Antonio, da Domizio Enobarbo a L. Bibulo e a T. Munazio Planco, avevano la roba, la famiglia, gli amici, il cuore in Italia; ambivano le magistrature latine che erano conferite e si esercitavano in Italia: onde se si acconciavano a dimorare in Oriente quanto bastava per fare fortuna, non ci volevano mettere radice, sdegnavano di vivere sempre in una corte di liberti e di eunuchi, non desideravano che Antonio ripudiasse Ottavia e venisse in discordia con il cognato, temendo di dover essere essi a rimetterci tra i due litiganti. Per il solo fatto che Ottaviano viveva in Italia, già parecchi amici di Antonio, come Statilio Tauro, erano entrati a far parte del seguito di lui, preferendo restare vicino a Roma. Cleopatra si studiava di fissarne quanti più potesse in Egitto con l’interesse; ad alcuni dava denari, ad altri cariche nella corte – uno di costoro, un certo Ovinio, uno dei tanti senatori dozzinali creati in quegli anni, accettò di esser capo delle tessiture della regina1119 –: ma i più resistevano; onde essa si studiava di disgustarli in tutti i modi, maltrattandoli, insultandoli, calunniandoli presso Antonio, cercando di spaventarli anche con vaghe minaccie1120. Infuriavano perciò le discordie e le sorde guerre tra gli amici di Antonio, divisi in due partiti, fautori e avversari della regina. Ma non ostante lo zelo di questi Antonio cedeva, cedeva, cedeva; gli ultimi avanzi della sua forza di mente e di volere, già dissipata in una vita di tante avventure, evaporavano nell’ardore di quella ebbrezza continua di adulazioni, di feste, di piaceri. Cleopatra potè in quell’inverno indurlo a tentare prima, nell’anno 34, la conquista dell’Armenia.

[34 a. C. ] Perciò la primavera e l’estate dell’anno 34 furono consumate, così in Oriente come in Occidente, a fare piccole guerre. Ottaviano mandò Messala Corvino a domare i Salassi, abitanti in quella che oggi si chiama la valle d’Aosta, ed egli ritornò nell’Illirico con un esercito per liberare Fufio Gemino che veramente era assediato in Siscia dagli insorti pannoni: ma ancora in via seppe che Fufio era libero, perchè i barbari stanchi avevano abbandonato l’assedio; onde portò l’esercito nella stretta lingua di terra compresa tra il mare e le alpi Dinariche, a combattere le barbare e valorose popolazioni dalmatiche1121. Forse anche spedì qualche suo generale nella valle della Sava e da questa per le valli degli affluenti in quelle regioni che ora son dette Bosnia e Serbia occidentale a far rapide scorrerie e a ricevere dedizioni formali1122. Antonio nella primavera era partito da Alessandria, aveva raggiunto il suo esercito che non doveva essere di stanza molto lungi dall’Armenia, aveva mandato al re d’Armenia Dellio a domandare in sposa la figlia di lui per Alessandro, figlio suo e di Cleopatra. Egli voleva nascondergli le sue vere intenzioni, per riuscire più facilmente e sicuramente nell’impresa; onde, giunto a Nicopoli nella piccola Armenia, invitò il re a venire da lui per consultarlo sulla guerra di Persia. Il re d’Armenia, che era in sospetto, si scusò con vari pretesti; ma il generale romano, avanzandosi rapidamente con le legioni verso Artassata, ripetè l’invito. L’Armeno dovè rassegnarsi ed andò nel campo di Antonio, dove fu ricevuto con onore ma trattenuto in cattività: dopodichè l’Armenia fu dichiarata conquista romana e i ministri riceverono l’intimazione di consegnare i tesori reali. Tentarono costoro di resistere; l’erede della corona cercò di difendere il regno paterno; ne nacque una guerra, che non durò molto ma finì con la vittoria del Romani e nella quale le legioni saccheggiarono tutto il paese e tra gli altri l’antico venerato ricchissimo santuario di Anaitide nell’Acelisene, nel quale era una statua della dea di oro massiccio, che fu fatta a pezzi e divisa tra i soldati1123. Tra questi eventi Antonio aveva avviate pratiche con il re di Media per maritare Alessandro alla figlia di lui Jotape, e conchiuso il fidanzamento, se ne tornò nell’estate ad Alessandria, portando seco il re di Armenia, la sua famiglia, i suoi ingenti tesori, e cioè una grande quantità di oro e di argento1124. Ottaviano continuava intanto a combattere le guerriglie dei Dalmati1125.

XX.
IL NUOVO IMPERO EGIZIANO.

[34 a. C.] La spedizione d’Armenia non era stata una vera conquista, ma una fortunata rapina di metalli preziosi. Con quell’oro e con quell’argento Antonio potrebbe ormai coniare immense somme, pagare soldati, far guerre, corrompere senatori, anche senza ricorrere al sussidio delle finanze dell’Egitto. Infatti tornava dall’Armenia lieto e superbo della conquista1126, ma non perchè, meno bisognoso degli aiuti egiziani, potesse rompere la pericolosa alleanza con la regina, bensì pienamente risoluto a stabilire in Oriente un nuovo regno e una nuova dinastia per i figli suoi e di Cleopatra, e a riprender poi subito, con grandi mezzi, la conquista della Persia, che farebbe di lui l’arbitro di tutto l’impero. Dopo il prospero evento di Armenia, che in parte era l’effetto dei suoi consigli, Cleopatra acquistò un grande imperio sopra di lui, prevalse su gli altri consiglieri romani, potè persuaderlo a fare quasi tutto quello che desiderava da tanto tempo. Antonio non solo entrò in Alessandria celebrando il trionfo, come si usava a Roma1127; ma subito dopo, nell’autunno del 34, con pochi tratti di penna trasferì dall’Italia ai figli suoi e di Cleopatra una considerevole parte dell’eredità di Alessandro Magno. La grande cerimonia ebbe luogo nel Ginnasio, una specie di immenso parco, pieno di edifici e di portici, che era posto vicino al Museo e al mausoleo del conquistatore macedone. Antonio e Cleopatra, i loro figli, e cioè i due gemelli di sei anni, Cleopatra e Alessandro, e Tolomeo che ne aveva due1128, comparvero con Cesarione, tra la immensa folla del popolo, salirono sopra un palco d’argento innalzato nel mezzo e si sedettero sui seggi d’oro, due grandi per Antonio e Cleopatra, più piccoli gli altri per i fanciulli: e allora Antonio proclamò Cleopatra regina dei re, dichiarò Cesarione figlio di Cesare e partecipe con la madre del regno di Egitto, ingrandito agli antichi confini con l’aggiunta di Cipro e della Celesiria1129, proclamò Tolomeo ed Alessandro re dei re; diede al primo la Fenicia, la Siria, la Cilicia; al secondo l’Armenia, la Media, che doveva toccargli per eredità come futuro genero del re dei Medi, e la Persia, quando sarebbe conquistata1130; a Cleopatra la Libia, compresa la Cirenaica, probabilmente sino alla grande Sirti1131.

Così Cleopatra poteva illudersi di avere finalmente risollevato il suo regno dalla prostrazione in cui da due secoli lo conculcava la politica romana, ricostituendo l’antico impero di Egitto, senza che la nazione avesse dovuto sostenere il più piccolo travaglio! È facile immaginare di quanta ammirazione diventasse idolo per un momento Cleopatra in quella nazione così mobile; con che tripudio essa dovesse lusingarsi di aver vinte per sempre tutte le opposizioni al suo governo, tutte le avversioni alla sua persona; esaltarsi, tra le adulazioni e il rinnovato fervore del culto tributato a lei come a Iside1132, nell’orgoglio di essere diventata la sovrana più potente del Mediterraneo. Soltanto due cose non aveva potuto ottenere: che Antonio divorziasse da Ottavia e che smettesse di essere un uomo a doppia faccia, come il Dio Giano; di atteggiarsi ad Alessandria come re dell’Egitto, mentre a Roma scriveva e operava come un proconsole romano. Antonio non solo non osava fare una così aperta violenza alle tradizioni latine, al sentimento e agli interessi dei suoi amici romani; ma con la consueta audacia continuava ad adoperare Ottavia come strumento per maneggiare le faccende di Italia, mandava a lei gli amici suoi che si recavano a Roma a brigare cariche e favori, la faceva intercedere presso il fratello tutte le volte che ne aveva bisogno. E la dolce Ottavia si prestava, continuava ad allevare con amore anche i figli di Fulvia!1133 Intanto egli ad Alessandria faceva impartire ai suoi figli una educazione da principi orientali, scegliendo a loro precettore un dotto insigne, Nicola di Damasco1134, e intorno a loro, sebbene ancora bambini, istituiva il cerimoniale dei re1135; esercitava con Cleopatra l’autorità reale, giudicando le cause con lei, accompagnandola nei viaggi; accettava la carica di gimnasiarca; adottava abiti, foggie, pompe orientali e si faceva adorare come Osiride e come il nuovo Dionysos1136; permetteva si cominciasse a costruire in Alessandria un tempio in suo onore1137; e perfino dava a Cleopatra una guardia di legionari1138. Ma nella donazione di Alessandria, non aveva attribuito a sè alcun titolo o carica, cosicchè nessuno avrebbe potuto definire chi e che cosa egli fosse ad Alessandria. Forse il marito privato della regina? Inoltre, sebbene tutti i suoi atti fossero stati ratificati in precedenza, voleva far approvare dal Senato le donazioni di Alessandria con una deliberazione speciale; per far credere a Roma che anche quelle erano soltanto uno dei consueti rimutamenti di principati, una nuova applicazione della tradizionale politica romana che senza tregua aveva fatti e disfatti e rifatti i regni nelle provincie asiatiche. Perciò scrisse una relazione sulla guerra di Armenia e sul riordinamento di Alessandria, che sul finire dell’anno mandò al suo fedele Enobarbo e al suo devoto Sossio, affinchè la leggessero in Senato a tempo opportuno e la facessero approvare1139.

Infatti la notizia degli eventi di Alessandria non appena si diffuse, prima della comunicazione ufficiale, per il veicolo della voce pubblica, pare fosse accolta in Italia con molto stupore e malumore1140. Per la prima volta la irritazione accumulata da lungo tempo nell’Italia per la strana politica orientale di Antonio osò mostrarsi un pochino. Il pubblico, rispettando Antonio più che Ottaviano, aveva per lungo tempo tollerato con rassegnazione ogni atto suo: ma troppo si facevano sentire gli impacci finanziari allo stato e ai privati, la gravezza delle imposte che i più imputavano anche in misura maggiore del vero ai cessati contributi delle provincie orientali; troppo cresceva la suscettibilità dell’orgoglio nazionale in quella rinascenza delle antiche tradizioni.... Se Antonio avesse conquistata la Persia, avrebbe potuto forse imporre ancora il silenzio; ma era invece fallito a metà, non aveva compiuta neppur lui la grande impresa; e l’Italia, a mano a mano che il triumvirato si disgregava, riacquistava l’ardire, perdeva la lunga pazienza, mormorava contro tutti, anche contro Antonio! Quelle stesse notizie furono invece cagione di grande inquietudine nel crocchio degli amici di Ottaviano. Tra tutte le cose compiute da Antonio ad Alessandria, una doveva offendere e inquietare maggiormente Ottaviano: il riconoscimento di Cesarione come figlio legittimo di Cesare. Con questo atto Antonio, come già con l’abbandono di Ottavia e dei suoi figli d’Italia, provava di non curare più in nessun modo l’amicizia di Ottaviano, lo dichiarava quasi un usurpatore del nome e dei beni del dittatore. Se tante discordie erano nate tra Ottaviano e Antonio allorchè Ottavia era la dolce amica e consigliera del triumviro, quanto più facilmente e quanto più aspre nascerebbero ora che Antonio pareva diventare schiavo della regina che doveva considerare Ottaviano come un molesto rivale del suo Cesarione! Inoltre Antonio aveva allora deliberato di crescere a trenta per la guerra di Persia il numero delle legioni, e molti agenti suoi erano già all’opera in Italia e in Asia: alla testa di trenta legioni, dei contingenti asiatici, della flotta sua e dell’Egitto, disponendo del tesoro del re di Armenia e di quello dei Tolomei, Antonio disporrebbe di una potenza formidabile, specialmente se riuscisse a conquistare la Persia. Se nel 36 poteva dubitarsi che il vantaggio della conquista persiana soverchiasse per Ottaviano il danno, ora era chiaro che Ottaviano doveva ingegnarsi di impedire in tutti i modi l’impresa, perchè egli sarebbe alla mercè del rivale, se questi, come era probabile con tante forze, riusciva. C’era un mezzo di intralciargli l’impresa, che poteva riuscire di qualche efficacia: opporsi alla domanda fatta da Antonio al Senato di approvare le donazioni di Alessandria. Dal rifiuto del Senato nascerebbero certo ad Antonio gravi difficoltà in Oriente, che lo distoglierebbero dalla conquista. Ma non si provocherebbe anche una guerra civile e qualche grande guaio?

Indotto non solo dal desiderio di assumere in persona al 1° gennaio il suo secondo consolato, ma forse anche da queste nuove difficoltà, Ottaviano era tornato sul cadere del 34 a Roma, lasciando in Dalmazia a finire la guerra Statilio Tauro1141. Egli voleva consultarsi con i suoi consiglieri più fidi. La deliberazione era grave perchè potevano procedere da quella grossi eventi: onde importerebbe assai di conoscere per documenti diretti le considerazioni con cui Ottaviano e i suoi amici si governarono in frangente sì difficile: ma mancando notizie, siamo necessitati a fare congetture, desumendole dalla condizione dei tempi. Quel movimento che sospingeva tanti spiriti, spaventati dalle turbinose correnti in cui precipitava la rivoluzione, a risalire alle sorgenti storiche della nazione, a ritornare ai piccoli principi del grande impero, si era diffuso ancora più, dopochè Ottaviano aveva mutato metro e stile di governo alla fine del 36, mostrando di inclinare a quelle idee; e diventava un largo movimento conservatore delle classi colte ed agiate, dal quale a poco a poco erano vinti anche i vecchi rivoluzionari. Molti avevano preso a professare quelle idee; dappertutto si discuteva della vera e sana morale necessaria a guarire i mali del tempo; la letteratura ne era piena; non solo Virgilio scioglieva nel secondo libro delle Georgiche il grande inno al contadino laborioso, religioso, parco, austero, modesto, che non empie di guerre civili lo Stato per “bevere in coppe preziose o per vestirsi di porpora”; ma anche Orazio prendeva finalmente coraggio ad abbandonare i soggettini trattati sino allora per maggiori argomenti. Si era alla fine risoluto a pubblicare le diverse satire sino allora lette a pochi amici, ma aveva premessa alla raccolta una satira scritta per ultima, che è la prima delle grandi satire morali da lui composta; perchè non racconta fatterelli ed inezie, ma studia una tormentosa malattia della civiltà, che in verso o in prosa, con mistica solennità o con leggere ironie, fu spietatamente analizzata da tanti grandi spiriti, da Gesù Cristo sino allo Spencer e al Tolstoi: la ricchezza mutatasi da mezzo di godimento in fine a sè stessa; la smania del possedere infuriata sino al punto di togliere la facoltà di gioirne1142. Nè ebbe a pentirsi di aver vinte le sue ritrosie; perchè intorno a questo tempo, e probabilmente in seguito alla pubblicazione del libro primo delle satire, ricevè da Mecenate in dono un buon podere nella Sabina, con otto servi che lo coltivavano e con un bel pezzo di bosco1143; uno di quei medi poderi di cui Varrone aveva studiata l’economia e sui quali tanta parte della classe media in Italia desiderava campare di rendita. Rinfrancato da questo dono, rassicurato dal mutamento di Ottaviano, incoraggiato dal crescente favore pubblico per le idee conservatrici, egli era allora occupato a scrivere il secondo libro delle satire: infinitamente superiore al primo non solo per l’arte della composizione, dei dialoghi, degli aneddoti, delle descrizioni, delle ironie, ma per l’importanza degli argomenti, che pur senza toccar mai le scabrose questioni politiche, svolgono in briose conversazioni e in piccole scene della vita comune quella morale di moderazione, di semplicità, di schiettezza, che Cicerone aveva esposta con togata solennità derivandola dalle tradizioni dei padri e dalla filosofia greca; che Didimo Areo inculcava ad Ottaviano in nome di Pitagora, e nella quale venivano a poco a poco riassumendosi le aspirazioni conservatrici di quanti volevano godere in pace quello che avevano salvato o quello che avevano arraffato in mezzo alla rivoluzione. Certo l’ardita veemenza di Lucilio era una qualità di altri tempi, non di questi nipoti rammolliti, e Orazio, che era un uomo prudente, parlerebbe dei vizi anonimamente, o nominando solo persone di poco conto, non viziosi potenti. Egli introdurrebbe Ofello, un piccolo possidente di Venosa spogliato con lui nel 41 e che si era acconciato a diventare il colonus o mezzadro o fittavolo del suo spogliatore, a rampognare quelle numerose e vane e sterili spese di apparenza, per cui in tutte le civiltà tanti uomini diventano schiavi dell’oro; a raccomandare la semplicità della vita e la sobrietà, come il mezzo di conservare sano il corpo, di schivare quei catarri gastrici, che ad Orazio, debole di stomaco, incutevano tanto terrore e che guastano a tanti nelle civiltà troppo raffinate la salute e la gioia di vivere; a inveire contro i ricchi che non spendono nulla per la patria. Seguirebbe un mercante fallito di antichità, Damasippo, a raccontare come uno dei tanti bizzarri filosofi da trivio, Stertinio, lo distogliesse da buttarsi in Tevere e ad esporne la dottrina, una balzana esagerazione dello stoicismo. Sono tutti pazzi a questo mondo; pazzi i cupidi, pazzi gli avari, pazzi i prodighi, gli ambiziosi, gli innamorati; pazzo infine Orazio.... “Meno di te, in ogni caso”, finge di conchiudere alla fine il poeta: ma quante aspre verità sui vizi degli uomini intanto non ha messo in bocca al matto! Ed ecco Cazio fare con solennità, come trattasse il più serio argomento, una lunga dissertazione sull’arte di cucinare e di imbandire: caricatura della grossolana gozzoviglia e ghiottoneria, che si era diffusa, tra lo scompiglio della rivoluzione, nell’Urbe piena di tanti villani rifatti. Il bravo maestro ammonisce fra le altre cose che non è necessario dare pranzi sontuosissimi, ma è bene badare che i piatti siano puliti e le sale bene spazzate! In un’altra satira la avidità del denaro “senza cui i natali, la virtù, l’onore non valgono un fuscello di paglia” è assalita in una delle sue forme più luride: la caccia dei testamenti. La villetta di Mecenate inspirerà infine al poeta molte saggie considerazioni sulla tranquilla vita rustica, gli farà detestare le pestilenti città, gli ricorderà la favoletta del topo di campagna e del topo di città.... Timido, desideroso di poco, delicato di salute, non ambizioso, questa dottrina della vita conveniva al suo temperamento.

Anche questo secondo libro delle satire è un segno dei tempi, una prova della crescente diffusione delle idee politiche e morali di Cicerone e di Varrone, del rinascere in forma nuova che facevano i sentimenti e le idee tradizionali, tra cui pure l’ideale repubblicano, a mano a mano che la potestà triumvirale si indeboliva e si raffreddava con la soddisfazione dei maggiori appetiti il fervore rivoluzionario. Gli innumerevoli sovvertitori pullulati da ogni parte nel 44 o erano periti o si erano rimpannucciati con i beni dei proscritti, i doni di denaro, le assegnazioni e le ruberie; i veterani di Cesare, i principali agitatori della guerra civile, vivevano ormai per l’Italia come agiati rentiers; si formava una classe di parvenus satolli della rivoluzione, che incominciavano a diventare conservatori, a desiderare il ristabilimento di un ordine sicuro e, non temendo più una restaurazione conservatrice, a disinteressarsi del triumvirato, a consentire volentieri con quel movimento degli spiriti che invocava la restaurazione dei costumi e delle istituzioni tradizionali. La rivoluzione trionfante si ammansava dopo il pasto; gli odi, i rancori, i rammarichi vicendevoli, tutti gli strascichi dolorosi delle grandi crisi sociali cadevano in oblio! Ora a secondare questo movimento Ottaviano era già spinto parte dalla simpatia, parte dall’interesse, perchè se dopo la riforma del 35 non era più così detestato come un tempo, troppo vivi erano ancora i ricordi del passato, i rancori, la diffidenza. Ciò è così vero che se Virgilio, il quale lo conosceva da un pezzo, parlava di lui in più luoghi delle Georgighe e con grandi lodi, Orazio manteneva ancora un grande riserbo con il vincitore di Filippi, non ostante l’amicizia con Mecenate, sebbene forse già Ottaviano gli avesse fatto sapere che approvava la propaganda morale da lui intrapresa con le satire e lo incitasse a continuarla. Ma il sospetto che Antonio si preparasse nel tempo stesso a distruggere lui e a far violenza alle grandi tradizioni e ai grandi interessi nazionali con la fondazione di una dinastia in Oriente, lo persuase ad atteggiarsi anche per difesa propria addirittura a campione della causa e della tradizione nazionale opponendosi alla approvazione dei doni di Alessandria. Risoluzione ardita, giudichiamo noi che conosciamo quello che avvenne poi; mezzo di acquistar popolarità con poca fatica e pericolo, pensava forse Ottaviano. L’impero e l’Italia erano esausti; Antonio non provocherebbe alla leggera una guerra, che lo costringerebbe a desistere in ogni caso dall’impresa di Persia; si acconcierebbe a rinunciare al suo grande disegno, che del resto non era senza pericoli, e ad accordarsi con il collega. In ogni caso l’opinione pubblica era questa volta per lui. Difatti Domizio e Sossio, impressionati dalla disapprovazione pubblica e forse anche informati delle intenzioni di Ottaviano, non comunicarono al Senato nè la relazione, nè la domanda di Antonio. Senonchè a questo modo Ottaviano correva il rischio di perdere una bella occasione di atteggiarsi a difensore della causa nazionale, solo perchè nessuno leggerebbe in Senato le lettere e riferirebbe sugli atti del collega. Sollecitò quindi gli agenti di Antonio a dar lettura di ogni cosa nella seduta del 1° gennaio 33; ma costoro si schermirono; Ottaviano insistè; gli altri acconsentirono a leggere solo la relazione della guerra di Armenia1144. La fine dell’anno era vicina. Disperando di persuaderli, Ottaviano si appigliò a un partito più risoluto e spedito: il 1° gennaio del 33, presiedendo il Senato come nuovo console, fece un discorso de summa repubblica, nel quale narrò egli le donazioni di Alessandria biasimandole severamente1145.

Il dado era tratto. Ottaviano, per cattivarsi il favore della malevola Italia, si atteggiava a oppositore della politica orientale di Antonio. Ma nessuno immaginava allora i terribili effetti che nascerebbero da quella opposizione: nè Ottaviano, che di lì a poco, abdicato il consolato per far posto ad un amico, ritornò in Dalmazia1146; nè Agrippa, che in quell’anno prendeva a esercitare la edilità, provvedendo alla fine lavoro al popolino degli artigiani, così negletto dai potenti dopo la morte di Clodio e di Cesare, con una profusione quasi mostruosa in quella neghittosità mediocre in cui tutto affogava. Assoldò del suo un gran numero di lavoranti a riparare le strade e a racconciare gli edificii pubblici più guasti, a ripulire le cloache, a restaurare l’acquedotto dell’acqua Marcia, ridotto quasi inservibile1147; intraprese con denaro proprio la continuazione dei Saepta Julia, incominciati da Cesare durante le guerre galliche1148; distribuì olio e sale ai poveri1149; concepì e incominciò ad eseguire un disegno anche più vasto. Il popolo minuto di Roma aveva imparato ad amare i bagni, non i semplici bagni freddi che gli antichi scendevano a prendere alla buona nel Tevere per salute o per nettezza, ma i bagni per piacere, tepidi o caldi, seguiti da frizioni d’olio, che quanti non avevano il bagno in casa prendevano in umili e sudici stabilimenti, tenuti da privati speculatori e serviti da schiavi. Ce ne erano di tutti i prezzi e per tutte le borse; anche per chi non voleva spendere più di un quadrante1150. Agrippa non solo dispose affinchè in quell’anno i poveri potessero lavarsi nei bagni privati a sue spese1151; ma pensò di costruire nella parte più bassa del Campo di Marte nella palude Caprea, che egli probabilmente colmò, risparmiando così il denaro per comperare il terreno, un elegante sudatorio o bagno a vapore – un laconico, dicevano gli antichi – nel quale un gran numero di modesti plebei potessero bagnarsi1152: a questo sarebbe unito il Gran Sacrario, il Pantheum, che doveva essere non il tempio di tutti gli Dei (così molti hanno male tradotto il nome, che significa solo “divinissimo”1153) ma probabilmente un tempio di Marte e di Venere, le divinità tutrici della famiglia Giulia1154. Si studiò inoltre di rallegrare i giuochi pubblici, da troppo tempo fatti meschini; e già fin dai primi che diede assoldò tutti i barbieri di Roma, affinchè radessero gratis i poveri1155. In tanta miseria anche questa piccola spesa era grave a molti; e i barbieri, numerosi allora a Roma come ora a Napoli e a Londra, guadagnavano poco: cosicchè Agrippa beneficava a un tempo barbieri e clienti.

Nella primavera del 33 dunque, mentre Ottaviano si affrettava a conchiudere la pace con le popolazioni dalmate1156, Antonio impartiva gli ordini per raccogliere di nuovo in Armenia dalle varie parti dell’Oriente sedici e forse più legioni (un certo numero vi erano state lasciate l’anno innanzi); ed egli stesso si avviava per tempo da Alessandria alla volta dell’Armenia, per conchiudere definitivamente la alleanza con il re di Media. Egli era così lontano dal supporre che nascerebbero difficoltà in Italia per la approvazione dei doni di Alessandria, che voltava l’animo sicuramente all’impresa di Persia. Egli fu quindi molto sorpreso quando in viaggio, probabilmente in marzo, ricevè da Roma notizia del discorso di Ottaviano. Per qual ragione il suo collega che negli ultimi tempi pareva desideroso di vivere in buon accordo con lui, si opponeva ora alla approvazione dei suoi atti di Alessandria, mettendo così a rischio il suo prestigio di triumviro in tutto l’Oriente? La diffidenza è il sentimento che più si acuisce in mezzo ai pericoli; onde Antonio spedì subito a Roma agenti i quali spiassero la cricca di Ottaviano meglio dei sonnecchianti agenti ordinarii, e rispondessero in Senato e nelle concioni al discorso di Ottaviano ritorcendo le accuse. Ottaviano si era presa la Sicilia e le provincie di Lepido; aveva preferito i suoi veterani nella divisione delle terre; non aveva spartito lealmente con lui i soldati arruolati in Italia; facesse dunque, invece di accusare, il dover suo e gli desse di tutto la parte che gli spettava1157. Scrisse anche una letteraccia ad Ottaviano, nella quale rispose alle allusioni da lui fatte a Cleopatra dicendo francamente che Cleopatra era sua moglie, come Ottavia non esistesse, e con una oscenità di forma che mi impedisce di tradurre il frammento conservato1158; ed è peccato, perchè mostrerebbe i due principali personaggi dell’impero alle prese con un turpiloquio da beceri o da studenti ubriachi. Tanto gli antichi ignoravano quel sentimento che noi chiamiamo decenza! Tuttavia, non giudicando la difficoltà così grave da abbandonare l’impresa partica, egli continuò il suo viaggio verso l’Armenia.

Al suo ritorno dalla Dalmazia, in giugno o in luglio probabilmente, Ottaviano ricevè a Roma la lettera di Antonio e seppe delle spie e dei messaggi mandati a sorvegliare, a intrigare e a rispondergli. La ritorsione di Antonio era abile e non poteva non essere giudicata giusta dal pubblico imparziale, che, se non approvava gli atti compiuti da Antonio ad Alessandria, non si muoveva però a quello sdegno, che sarebbe tanto piaciuto agli avversari di Antonio. Ancora più riservato del pubblico e più circospetto era il mondo politico. In teoria, quando la gente chiacchierava sul foro o nei crocchi, tutti ammiravano la repubblica, adoravano le gloriose tradizioni latine, invocavano una politica veramente romana: ma allorchè si trattava di passare dalle chiacchiere private alle opere palesi, nessuno era così devoto alla integrità e maestà dell’impero di Roma da affrontare per quelle la collera di un uomo in tanta potenza. Si pensi: Antonio aveva non solo un formidabile esercito, ma un tesoro ricchissimo, del quale qualche rivoletto scendeva pure in Italia a confortare questo o quel senatore in strettezze! I più quindi, se non approvavano apertamente Antonio, non incoraggiavano nemmeno la opposizione di Ottaviano. Senonchè, Antonio avverso, incerto il mondo politico, freddo e svogliato il pubblico, che cosa avrebbe fatto alla fine dell’anno Ottaviano? La scadenza della legge triumvirale accresceva in modo terribile la difficoltà del presente. Rinnovare il triumvirato, come nel 37, era cosa ormai impossibile in quell’universale insoddisfacimento di ogni classe: lo capivano tutti, per quanto non sarebbe stato difficile far approvare dal popolo la legge. Il triumvirato si era troppo infiacchito e screditato, aveva perduta ogni ragione; gli stessi veterani, gli stessi magistrati e senatori degli ultimi anni, gli stessi compratori dei beni confiscati, per assicurare i cui diritti il triumvirato era stato costituito, sentendosi ormai sicuri, diventavano avversi a quel regime disordinato e illegale durato tanti anni. D’altra parte, a ritirarsi a vita privata, restaurando senz’altro le vecchie istituzioni, nè i suoi principali amici nè Ottaviano stesso pensava, non ostante che le sue ambizioni fossero di molto sbollite: perchè Ottaviano non aveva il terribile prestigio di Silla, da potersi concedere il riposo della vita privata! I rancori e gli odi della guerra civile si sarebbero avventati subito su lui e i suoi amici. Insomma non era possibile assestare la repubblica senza andarne di mezzo essi, se non si intendevano con Antonio, con Antonio il quale si mostrava adirato e metteva innanzi assurde pretese. Per indurlo a smettere non c’era altro mezzo: opporre alle sue accuse altre accuse, alle sue domande altre domande. Ed ecco Ottaviano – è l’eterna legge di tutte le lotte – costretto a impegnarsi di più nella mischia, scegliendo a oggetto di invettive e di accuse non Antonio, troppo rispettato e potente, ma Cleopatra, odiosa per tante ragioni ai romani. Alle recriminazioni di Antonio egli rispose e fece rispondere da amici con discorsi in Senato e nelle concioni popolari, nei quali rimproverava ad Antonio di vivere con Cleopatra, di considerare come figli i bastardi avuti da lei, di aver fatto alla regina immensi doni a spese di Roma, di aver riconosciuto come figlio di Cesare il piccolo Cesarione; gli consigliava di dare ai suoi veterani le terre conquistate in Armenia e in Persia; biasimava la perfidia usata contro il re di Armenia; dichiarava che avrebbe spartito con lui le provincie di Lepido, quando Antonio gli avrebbe dato la parte sua dell’Armenia e – si noti – dell’Egitto1159. Quest’ultima era la provocazione più ardita; perchè ciò dicendo Ottaviano veniva quasi a dichiarare che l’Egitto doveva già considerarsi come una provincia romana.

Le faccende si intorbidavano, e molti a Roma incominciavano ad essere inquieti. Troppe volte già da piccole e miserabili discordie erano nate guerre micidiali tra cittadini! Ma ben maggiore doveva essere la commozione nella corte di Alessandria. Cleopatra vedeva formarsi a Roma, intorno ad Ottaviano, un partito avverso alla ricostituzione del regno di Egitto; che ne nascerebbe presto o tardi una guerra, era cosa probabilissima. Fece Cleopatra conoscere per messaggi questi suoi timori ad Antonio e agì anche a distanza sull’animo suo? o Antonio mentre viaggiava verso l’Armenia si persuase da sè, che quell’opposizione, come già le trattative di Taranto, mirava a intralciargli l’impresa di Persia; che era opportuno perciò di assestare prima della guerra – definitivamente questa volta – le faccende d’Italia, annientando la opposizione alla sua politica orientale? L’una e l’altra supposizione sono verosimili. Certo è che nell’estate del 33, mentre si avvicinava con una parte dell’esercito all’Arasse per incontrare il re di Media, Antonio mutò i suoi propositi e si risolvè a impiegare l’anno prossimo, invece che a conquistare la Persia, a ordire un intrigo politico con cui togliere di mezzo il suo rivale ed oppositore. Egli si restringerebbe per il momento ad offrire al re di Media solo un contingente di soldati romani per aiutarlo nella guerra contro il re di Persia, domandando in cambio aiuti di cavalleria; avvierebbe un grosso esercito e una flotta numerosa nell’Asia Minore, ad Efeso e, nella scadenza del triumvirato, ripeterebbe i maneggi di Cesare nel 50: manderebbe al Senato la proposta di rinunciare al comando se anche Ottaviano rinunciava. Delle due, una: o Ottaviano acconsentiva e allora Antonio, approfittando del tempo necessario a trasmettergli la deliberazione, si farebbe con qualche abile pretesto prolungare il comando, quando l’altro già lo avesse deposto; o non acconsentiva, e allora egli potrebbe incominciare una guerra atteggiandosi a restauratore della libertà conculcata, a distruttore della tirannide triumvirale contro Ottaviano1160; continuare quindi l’obliqua e doppia politica sino allora seguita, di fondare in Oriente una dinastia, dando ad intendere di servire gli interessi dell’Italia. La presenza di un grande esercito ad Efeso rinforzerebbe gli argomenti diplomatici. Più fortunato di Cesare, egli poteva fare assegnamento per questo intrigo sui due consoli del 33, Domizio Enobarbo e Sossio. Egli diede loro ad intendere che voleva abolire il triumvirato e restaurare la libertà; e così li persuase a proporre, appena al principio del 32 ripiglierebbero il governo della repubblica come magistrati supremi, di nominare subito i successori di Ottaviano al comando degli eserciti, se Ottaviano, come era probabile, uscendo di Roma continuasse ad esercitarlo in qualità di promagistrato. Nel tempo stesso si accordava con Cleopatra, affinchè si preparassero armi, denari e materie in Egitto.

Così al ritrovo con il re di Media Antonio mutò le sue proposte. Il re di Media accettò le nuove, ma mercanteggiò astutamente e domandò anche una parte dell’Armenia1161. Antonio cedè e nel tempo stesso, per ingraziarsi anche più Polemone, diè a costui la piccola Armenia1162. Poi in agosto o settembre scrisse a Cleopatra di venire ad Efeso, e si rimise in viaggio alla volta di Efeso, verso cui già camminava una parte dell’esercito. La marcia era lunga: 1500 miglia1163. In Italia intanto Ottaviano si sforzava di ben disporre a suo favore la opinione pubblica, corteggiando in tutti i modi il nuovo movimento conservatore. In mezzo a tanta rinnovata ammirazione per le vecchie cose di Roma, accadde che proprio uno dei più antichi templi dell’Urbe, quello di Giove Feretrio, che si diceva eretto da Romolo e che era pieno di vecchissimi trofei delle prime guerre, rovinò, quasi a mostrare quanta cura si avesse degli avanzi che ricordavano i piccoli principii del grande impero. Vivo fu il dolore di tutti gli ammiratori dell’antico tempo; Attico, il grande dilettante di archeologia, scrisse a Ottaviano di riparare il tempio; e Ottaviano fu felice di mostrare ancora una volta la sua pietà zelante per i grandi morti della patria1164. Agrippa invece pensava ai vivi e continuava a beneficare e a divertire il popolino, aggiungendo in settembre alle corse dei Ludi romani una rozza lotteria, facendo gettare nel pubblico delle tessere su cui era scritto il nome di un oggetto – chi arraffava la tessera, aveva diritto alla cosa1165. – Dispose anche nel mezzo del circo delle tavole ingombre di doni, che dovevano essere saccheggiate dal popolo, dopo lo spettacolo. Immaginarsi il furibondo assalto, il divincolarsi frenetico della mischia, i pugni, i calci, i morsi! Ma il più spedito mezzo di signoreggiare le moltitudini fu sempre il corromperle. Nel tempo stesso si continuava a incitare il pubblico all’odio di Cleopatra, a cui si incominciava ad attribuire l’intenzione di conquistare l’Italia e di regnare su Roma, diffondendo le più strane invenzioni pur di atteggiarsi a campioni del partito nazionale. A ogni modo se l’odio di Cleopatra era meno pericoloso che quello di Antonio, non era però senza pericolo. Cleopatra non ambiva conquistare l’Italia e regnare su Roma, come favoleggiavano i suoi nemici di Italia; ma vedendo che il partito di Ottaviano cercava, per conservare il potere, aizzare l’Italia contro il suo regno, si accingeva con la consueta risolutezza a difendere il ricostituito impero egiziano; faceva raccogliere in tutto il suo regno grano, vesti, metalli e ogni altra specie di cose necessarie alla guerra; prendeva dal tesoro dei Lagidi 20 000 talenti – circa 100 milioni –; raccoglieva la flotta egiziana composta di circa 200 navi; e con tutto questo apparecchio veleggiava verso Efeso incontro ad Antonio1166. Essa si proponeva con ardito consiglio di mettersi a fianco di Antonio e di accompagnarlo nella guerra, il cui oggetto sarebbe la conservazione o la distruzione del nuovo impero egiziano; così per aiutare Antonio a vincere, come per impedire che i due triumviri si mettessero d’accordo, immolando il suo regno.

Così verso la fine del 33 Cleopatra muoveva incontro ad Antonio dall’Egitto; Antonio si avvicinava ad Efeso e, per spaventare gli avversari con un apparecchio di guerra veramente insolito, ordinava ai principi dell’Oriente di mandare nell’inverno milizie e navi ad Efeso, e alla sua flotta di venire in quelle acque; Ottaviano a Roma spiava i segni del tempo. La fine del triumvirato si avvicinava: che cosa succederebbe allora? Ed ecco, sul finire dell’anno, giungere la lettera in cui Antonio dichiarava di rimettere al popolo e al Senato i suoi poteri, se Ottaviano faceva altrettanto1167. Naturalmente, se gli uomini esperti dei maneggi politici sorrisero di questa finta, il gran pubblico ingenuo ne fu invece molto commosso, credè Antonio sincero e riprese ad ammirarlo, persuadendosi che le accuse mossegli negli ultimi tempi erano calunnie dei suoi nemici. In fondo, siccome Antonio era sempre stato rispettato più di Ottaviano, il pubblico si fidava più di lui che dell’altro, avrebbe preferito che egli e non il collega si accingesse a restaurare la repubblica. Perciò alla fine dell’anno, per non ridiventare uomo privato, Ottaviano dovè usare lo stesso espediente dell’anno 37: uscire di Roma alla sera del 31 dicembre e conservare come promagistrato il comando degli eserciti1168. Finalmente il triumvirato era finito – pensarono tutti con gioia! [32 a. C. Gennaio.] Il giorno dopo infatti, il 1° gennaio del 32, il Senato si radunò sotto la presidenza dei consoli che erano diventati di nuovo i primi magistrati della Repubblica; e Caio Sossio diede subito esecuzione al disegno concertato con Antonio; ricordò cioè le dichiarazioni di costui sul ritiro a vita privata, concludendo, dice l’antico scrittore, con una proposta contro Ottaviano1169. Probabilmente propose di nominargli i successori nel comando dell’esercito. Che cosa pensassero i senatori di questa proposta, non ci dicono gli storici; ma è verosimile che i più ne fossero spaventati. Ritornavano forse i tempi di Cesare e di Pompeo, allorchè prima di sguainare le spade si erano fatte tante finte simili da una parte e dall’altra, proponendo a vicenda di ritirarsi a vita privata, ma ambedue insieme o nessuno? E difatti, come tante volte era successo allora, uno dei tribuni della plebe, appostato in precedenza da Ottaviano, ritrovò la voce della potestà tribunizia fioca da dieci anni, e si levò a porre il veto1170. Così in quella seduta non si conchiuse nulla. La repubblica era proprio restaurata, tanto è vero che ricominciava quel leggiadro vicendevole ostruzionismo, con cui i partiti avevano un tempo usato paralizzarsi a vicenda! Ma ahimè per poco. Ottaviano non tardò ad accorgersi che, continuando così, si sarebbe impigliato in una confusa e inestricabile lotta di ripieghi parlamentari senza venire a capo di nulla; temè che, se non avviliva i suoi avversari con un atto di vigore, questi prenderebbero coraggio a togliergli il comando con qualche provvedimento, che farebbe vacillare la fedeltà dei soldati, paurosi non di Domizio o di Sossio, ma di Antonio; e si risolvè a un colpo di stato. Il 10 o l’11 gennaio1171 rientrò in Roma a capo di una piccola schiera di soldati; con questi e con un manipolo di amici armati di pugnale sotto la toga, entrò in Senato e vi tenne un discorso, riassumendo, ma con moderazione, i suoi lagni contro Antonio e biasimando gli atti di Sossio. Nè Sossio nè altri osarono rispondergli; e allora egli fissò una seduta, probabilmente al 15, nella quale promise di dimostrare con documenti le sue accuse contro Antonio1172.

Costretto a smettere per un momento la moderazione mostrata da tre anni, Ottaviano aveva cercato di compiere il suo colpo di stato con la minore violenza possibile. Eppure l’atto suo fu mal giudicato dal pubblico sospettoso, il quale, credendo alla sincerità delle dichiarazioni di Antonio, inclinò a considerarlo come una nuova illegalità intesa a prolungare la tirannide triumvirale1173. Ricominciava forse Ottaviano, il cui passato era dimenticato solo per metà, a incrudelire dopo il breve ravvedimento? Quindi ebbero tutti paura, anche i due consoli, sconcertati nei loro piani da questa violenza che probabilmente non aspettavano. Antonio era troppo lontano; che cosa potevano osare essi contro chi comandava tutti gli eserciti allora di stanza in Italia? Non sapendo a che altro risolversi, non volendo ricomparire in Senato solamente per tacere, come avevano fatto nella seduta ultima, prima del giorno 15 ambedue abbandonarono segretamente Roma con l’intenzione di andare da Antonio1174. La fuga dei consoli, altro segno dei prossimi cataclismi politici, commosse ancor maggiormente il pubblico già inquieto; molti senatori, che erano o si credevano in sospetto di Ottaviano, partirono per raggiungere Antonio; Orazio osò per la prima volta verseggiare di cose politiche, ed espresse rudemente in giambi veementi la opinione degli imparziali, trattando gli uni e gli altri di scellerati:

Quo, quo scelesti ruitis?1175

Ben indebolita doveva essere la autorità triumvirale, se uno scrittorello che viveva per la protezione di Mecenate, osava giudicare con tanta imparzialità il capo del suo protettore! Infatti Ottaviano, inquieto per la riprovazione del suo colpo di Stato e per queste fughe, capì che i rigori avrebbero esasperato ancora più l’Italia, a cui pure tra poco bisognerebbe domandare uomini e denari; e non sentendosi la forza di incrudelire, con felice ardimento dichiarò che lascierebbe partire senza molestia tutti coloro che volessero recarsi da Antonio1176. Queste dichiarazioni tranquillarono un poco gli animi; ma pure circa 400 senatori partirono. Ne restarono fra 7 ed 800.

[32 a. C.] A Efeso intanto era giunto Antonio, e a poco a poco arrivavano da ogni parte dell’Oriente e dell’Occidente, dall’Illirico come dalla Siria, dall’Armenia come dal Mar Nero, le navi cariche di grano, di stoffe, di ferro, di legno e di tutte le cose necessarie alla guerra1177; arrivavano i soldati e i cavalieri dalle foggie più strane, i re, i dinasti, i tetrarchi dell’Asia e dell’Africa: Bocco re di Mauritania, Tarcondimoto dinasta della Cilicia superiore, Archelao re di Cappadocia, Filadelfo re di Paflagonia, Mitridate re di Commagene, Sadala re di Tracia, Aminta re di Galazia1178. Giunse alla fine con la flotta egiziana, con il tesoro di 2000 talenti, con tutto il gran codazzo dei suoi servi anche Cleopatra. Si mescolavano nelle viuzze e nelle osterie di Efeso i soldati delle diciannove legioni romane accampate vicino, i cavalieri armeni, i forti e barbari Galli dell’Asia, i guerrieri mauri, i soldati cappadoci e paflagoni, i marinai egiziani; per ogni dove risuonavano per i trivii le più diverse favelle; accorrevano da ogni parte dell’Oriente non solo gli uomini d’arme, ma gli artigiani del piacere, le etère, i giocolieri, i citaredi, i commedianti, le danzatrici, le mime ed i mimi, a sollazzare i soldati e i loro sovrani. La antica città asiatica non aveva albergato mai nei suoi maestosi palazzi e nei pubblici edifici tanti grandi della terra; che si invitavano di continuo a feste e gareggiavano tra loro di splendore e di fasto, cosicchè ogni giorno si seguivano banchetti, processioni, spettacoli: più magnifica e fastosa di tutti Cleopatra, che pareva voler animare alla guerra imminente questa torma così disparata di umani, inebriandola di sollazzi1179. Tutto l’impero era in angoscia e in dolore; l’Italia trepidava nell’ansia di una nuova profusione di sangue romano; eppure in mezzo a tanto dolore e a tanta ansietà, nell’imminenza della caduta del più antico, del più operoso colto e civile stato di Oriente, Efeso risuonava dì e notte di allegri canti e di liete brigate; nella confusione delle armi, delle favelle, delle razze pareva si celebrasse – ahi troppo presto – una grande orgia trionfale, come se la vittoria fosse già stata conquisa. Spietata con i vinti, la storia ha giudicate turpi e pazze queste orgie efesine alla vigilia del gran cimento: ma a chi intende meglio e più a fondo gli eventi, la eco lontana di questi sollazzi risuona roca e dolorosa come un rantolo di agonia. La lotta che stava per incominciare non era il duello decisivo per la conquista del potere monarchico in Roma, come hanno detto tutti gli storici, ma la guerra di fondazione e consolidazione del nuovo impero egiziano; non era la guerra di Ottaviano contro Antonio, ma la guerra di Cleopatra contro Roma, l’ultimo e disperato tentativo della unica dinastia superstite tra i discendenti di Alessandro per riacquistare la potenza rovinata in due secoli dall’espandersi della forza fatale di Roma nel mondo. La cultura, il mercantilismo, il lusso, i piaceri, quel che si suol dire la civiltà, avevano siffattamente snervata e sconnessa la politica dell’Egitto che, dopo tanti inventori di strani e complicati raggiri diplomatici, era comparsa sul trono dei Tolomei una donna a osare questa suprema riscossa con raggiri più strani e complicati ancora che quelli dei suoi predecessori, e a fare almeno perire il regno dei Lagidi non così sonnolentemente come quello degli Attalidi, con la firma di un protocollo reale, ma in una bizzarra e rumorosa e commovente catastrofe, che gli uomini non hanno potuto dimenticare mai più. Con tutte le arti che poteva adoperare una donna e una regina egiziana, Cleopatra aveva cercato di sfruttare a beneficio dell’Egitto il gran disordine politico in cui pareva disfarsi Roma, tentando di rubare alla grande città dell’Italia due di quei potenti condottieri nella cui signoria pareva ridursi ormai la repubblica; era riuscita così a raccogliere intorno a sè, per servire alla sua ambizione, trenta legioni, ottocento navi, i più potenti sovrani dell’Oriente, sotto il duce più valente e l’uomo più celebre del tempo suo. Ma si disponeva a fare di più, una cosa davvero inaudita nella storia del mondo: ad accompagnare l’esercito alla guerra, trasportando nei campi e in mezzo alla soldatesca il sontuoso apparato della reggia, le sue donne, i suoi schiavi, i suoi eunuchi, i suoi tappeti, il suo vasellame d’oro, le sue suppellettili preziose; a passare tra gli uomini coperti di ferro ravvolta nel “turpe conopio” nel fine velo delle zanzariere che difendevano la sua pelle dalle punture delle zanzare. Non un capriccio femmineo, ma una suprema necessità la costringeva a compiere questa audacia inaudita. I sovrani dell’Oriente seguivano Antonio per rispetto e paura, non per l’ambizione di ricostituire la potenza dell’Egitto; Antonio era fermo ormai nel proposito di consolidare il nuovo ordine di cose stabilito in Oriente, ma era costretto a fingere di difendere la repubblica, per non alienarsi una parte considerevole degli amici romani; questi si disponevano ad aiutarlo, ma si sforzerebbero di trattenerlo quando lo scopo della guerra apparirebbe ben chiaro. La apparente concordia del campo nascondeva i semi di infiniti dissensi e tradimenti. Persisterebbe Antonio in ogni frangente? La assurdità dello scopo che Cleopatra si era proposto, volendo risolvere un conflitto di forza con un prodigioso sforzo di astuti ripieghi, e la stravaganza singolare dei mezzi troppo muliebri sino allora adoperati, la costringevano di bizzarria in bizzarria a questa suprema stranezza: a farsi innanzi arditamente tra i generali, a seguire gli eserciti, a sedersi nei consigli di guerra, a discutere i piani strategici, per vigilare che la guerra non deviasse dallo scopo che solo premeva a lei: la difesa del nuovo impero egiziano contro Roma.

XXI.
AZIO1180.

Infatti i senatori romani che in marzo e aprile arrivavano ad Efeso a raccontare il colpo di stato di Ottaviano, stupivano di trovarci anche Cleopatra; e non confusa tra gli altri principi ma inframmettente in ogni faccenda, a fianco e a pari, in vista di tutti, di Antonio. Per quale ragione la regina dell’Egitto prendeva parte e contribuiva denaro e consigli a una guerra, che doveva restaurare la repubblica in Roma e abolire il triumvirato? Le accuse di Ottaviano erano dunque meno immaginarie, che non si giudicasse in Italia? Ma nessuno osava fare aperte rimostranze ad Antonio. Per fortuna tra tanti oscuri politicanti c’era uno dei pochi grandi signori di Roma ancora superstiti, che solo non riconosceva nessuna delle leggi d’etichetta a cui Cleopatra avrebbe voluto piegare anche i Romani, ostinandosi ad esempio a non chiamarla mai la regina, ma per nome1181: Domizio Enobarbo. Domizio, che si sentiva pari suo, non ebbe soggezione di Antonio, ma gli disse apertamente quello che i più pensavano: esser necessario rimandare Cleopatra in Egitto1182.

Con che feroce lotta di intrighi Cleopatra e il partito romano si disputarono allora ad Efeso Antonio! Il momento era favorevole al partito romano. Ottaviano pareva accettare la sfida e con il suo colpo di stato costringeva Antonio, poichè la radunata dell’esercito ad Efeso non aveva servito, ad una nuova e più efficace minaccia; ma questa nuova minaccia non sarebbe riuscita efficace davvero, se non era il segno chiaro, non equivoco, inoppugnabile dell’intenzione di far guerra, non per distruggere solo un rivale, ma per restaurare la repubblica. La presenza di Cleopatra offriva troppo il destro di calunnie, di ritorsioni, di malignazioni agli avversari. Perciò alla fine, aiutato da Dellio, da Planco, da Tizio, da Silano, da tutti i più autorevoli romani, Domizio era quasi riuscito a persuadere il triumviro; ma l’ostinata regina corruppe con una grossissima somma Publio Canidio, in cui Antonio aveva grande fiducia, e lo persuase a perorar la sua causa1183. La gioia di Domizio e dei suoi amici durò poco: quando si aspettavano di vedere Cleopatra salpar per Alessandria, seppero che la regina restava, perchè Antonio si era disdetto. Da quel momento la sorda inimicizia, che da un pezzo covava tra Cleopatra e i Romani più riguardevoli del seguito di Antonio, divampò in aperta discordia; e nel piccolo senato dei sopraggiunti da Roma si formò definitivamente un partito egiziano della guerra e un partito romano della pace. I più autorevoli amici di Antonio venuti ad Efeso, se si erano dichiarati per lui al momento della rottura, non erano però nemici di Ottaviano e non volevano la guerra senza quartiere: anzi solleciti di tornar presto in Italia a rigodere tranquillamente le grandezze acquisite, desideravano e speravano una terza conciliazione dei due rivali, simile a quella di Brindisi e di Taranto, pronti a immolare alla pace Cleopatra e le sue ambizioni. Perciò Cleopatra, che non tardò ad accorgersi di queste intenzioni, si adoperò con ogni mezzo a precipitare la guerra. Antonio aveva già deliberato di rispondere al colpo di stato di Ottaviano, avvicinando le sue minaccie e portando l’esercito in Grecia; ma immaginandosi che il ripudio di Ottavia invelenirebbe mortalmente la inimicizia dei due cognati, la regina prese a sollecitare Antonio affinchè spedisse le lettere di divorzio alla sua moglie d’Italia; e si studiò di dividere il partito romano, corrompendone con grandi somme il maggior numero per mutarli in partigiani suoi e della guerra1184. Naturalmente, quando si seppe che Cleopatra spingeva al divorzio, il partito romano prese sotto la sua protezione Ottavia.... Combattuto da tanti contrari consigli, verso la fine di aprile, Antonio si persuadeva a partire con Cleopatra e con i senatori romani per Samo1185, donde veleggerebbero verso la Grecia, lasciando per il momento una parte dell’esercito in Asia: ad Atene, in maggior vicinanza all’Italia, si risolverebbe definitivamente quel che converrebbe di fare. Egli era ancora irresoluto tra la pace e la guerra, tra la poligamia e il ripudio.... Ben diverse invece erano le condizioni in cui Ottaviano e il suo partito versavano. Certamente la presenza di Cleopatra nel campo nuoceva a Antonio; ma costui aveva ancora tanti amici in Italia, pareva così formidabile alla testa delle legioni e dei contingenti asiatici! In Italia invece i consoli mancavano, e dei due altri designati per l’anno L. Cornelio sarebbe entrato in carica al 1° giugno, M. Valerio al 1° novembre1186; molti magistrati erano fuggiti. Impossibile o almeno difficilissimo sarebbe indurre il Senato, se pure si poteva chiamare così la radunanza dei senatori non fuggiti di Roma, a dare a Ottaviano un incarico legale della guerra contro Antonio. Insistendo troppo, non si rischierebbe di far scappare per paura anche i rimasti? Ora, se la situazione non mutava, accadrebbe questo: che Antonio si troverebbe a capo delle sue milizie con un titolo legale, non essendo stato ancora nominato il suo successore; mentre Ottaviano, dopo il suo ingresso in Roma, non aveva più nessun diritto di comandare ai soldati. Avrebbero i soldati acconsentito a portare le armi contro il vincitore di Filippi, specialmente se mancava il denaro necessario a cancellare gli scrupoli costituzionali? E questo denaro, come estorcerlo all’Italia? Imponendo arbitrariamente nuove tasse, Ottaviano annullava l’effetto degli errori di Antonio, rinfrescava i terribili ricordi del triumvirato. Infine Antonio disponeva di molto denaro; e i suoi agenti dovevano già essere in giro per l’Italia a corrompere senatori e soldati, a operare improvvise conversioni1187. Insomma rispettare la legalità era impossibile, e pericoloso fare un altro colpo di stato, dopo avere tante volte promesso di ristabilire l’ordine legale delle antiche magistrature. Per fortuna però, e quasi a compenso, e diversamente dalle discordie del partito di Antonio, Ottaviano possedeva ormai, a mano a mano che il suo ravvedimento maturava, non l’oro e la rinomanza del rivale, ma molte qualità utilissime a mantenere la concordia sopra una nave, che dovrebbe tra poco affrontare una tremenda tempesta. Meno iroso puntiglioso e sospettoso di un tempo, più paziente, largo di lodi e di ricompense, più cordiale nel trattare gli amici come pari, più arrendevole agli altrui suggerimenti, egli ispirava ormai una grande fiducia non solo a Agrippa e a Mecenate, legati a lui da vincoli che il tradimento non poteva più rompere, ma anche ai partigiani più recenti come Valerio Messala Corvino, Lucio Arrunzio, Statilio Tauro. Tra questi amici si discusse certo a lungo in quei primi mesi del 32 sul modo di dare una qualche giustificazione legale al potere di Ottaviano, che era la cosa più urgente; ma alla fine si accordarono nel pensiero di mandare agenti in tutte le città dell’Italia e, adoperando a questo scopo i numerosi veterani del primo Cesare e del triumviro, di predisporre le città a prestare a Ottaviano, quando ne fossero richieste, il giuramento che nei grandi pericoli pubblici esigeva dai cittadini il magistrato incaricato dal Senato di vegliare alla sicurezza della repubblica. Questo giuramento sottoponeva tutti i cittadini alla disciplina militare e quindi attribuiva pieni poteri al magistrato1188. In altre parole essi avevano pensato di far dichiarare, come diremmo noi, lo stato d’assedio dal popolo stesso: stranissima pensata, che è la più eloquente prova della singolare situazione in cui si trovavano; bizzarro sotterfugio costituzionale non mai praticato prima, per fare apparire questa nuova dittatura come consentita dall’intera Italia; e per riuscir nel quale essi dovettero, nei mesi di febbraio, di marzo e di aprile, predisporre gli animi, inviando uno dopo l’altro agenti e lettere di sollecitazione in tutta Italia, adoperandosi a istigare tutti gli interessi, a commuovere tutte le passioni.... Il pericolo urgeva.

Difatti nel seguito di Antonio le cose volgevano male per la causa di Roma e della pace. Durante il viaggio erano infuriate le lotte tra il partito romano e il partito egiziano per Ottavia: ma Antonio, dominato sempre più da Cleopatra, si risolveva al ripudio. Egli capiva però che questa deliberazione sarebbe grave al maggior numero dei senatori romani; onde per vellicarne un poco a compenso l’amor proprio, li convocò a consiglio1189, quando fu giunto ad Atene, nella seconda metà di maggio. Molti, tutti quelli che volevano la riconciliazione di Antonio e di Ottaviano, parlarono contro il divorzio che significava la guerra; ma non mancò nemmeno chi parlasse a favore1190 – potenza di Cleopatra e dell’oro suo! Alla fine della discussione, Antonio firmò le lettere di ripudio, le mandò a Roma per mano di agenti incaricati di intimare ad Ottavia di uscire dalla sua casa1191; spedì ad Efeso il comando di imbarcare l’esercito e di traghettarlo in Grecia. Cleopatra aveva vinto; e subito non senza intenzione si fece tributare dai cittadini di Atene onori simili a quelli già tributati ad Ottavia1192. Ma il partito romano ne fu sgomento e sdegnato; onde per tranquillarlo Antonio tenne un discorso ai soldati, promettendo solennemente che avrebbe deposto il potere e restaurata la repubblica due mesi dopo la vittoria finale1193. Egli perseverava nella sua doppia politica di presentarsi all’Italia come il vendicatore della libertà; quando invece affilava la spada di Roma per Cleopatra e per la sua politica egiziana. Senonchè la contradizione incominciava ad apparire chiara a qualcuno; e due personaggi considerevoli, Tizio e Planco, già offesi da Cleopatra, abbandonarono Antonio dopo quelle deliberazioni per venire in Italia1194, immaginando forse che in Italia le cose fossero giudicate nello stesso modo che ad Atene da coloro che le avevano viste con gli occhi propri. Invece in Italia l’opinione pubblica, sebbene il ripudio di Ottavia avesse fatto cattiva impressione1195, era molto incerta; non si commuoveva a quello sdegno veemente, in mezzo al quale sarebbe stato più facile proporre la coniuratio con sicurezza di riuscire; non sapeva giudicare tra i campioni di questa bizzarra guerra civile, che dicevano ambedue di combattere per la libertà e per la salvezza della repubblica. Chi mentiva? Antonio? Ottaviano? Ambedue? Tizio e Planco trovarono Ottaviano e il suo partito in grande ansietà, inquietissimi per l’ordine mandato da Antonio all’esercito, che induceva a supporre l’intenzione di assalirli subito e impreparati1196; affaccendati a accelerare alla meglio gli apparecchi, a raccogliere soldati e vettovaglie, a mettere in assetto le navi, a immaginare possibili e impossibili espedienti.... Pare perfino che, argomentando la guerra dovesse combattersi al nord della Grecia, nella moderna penisola balcanica, essi immaginassero di proporre una alleanza al re dei Geti, offrendogli in moglie Giulia, la figlia di Ottaviano e – se si deve credere alle affermazioni di Antonio – domandandogli in moglie per Ottaviano una figlia1197. Ma la loro volontà era ritardata in ogni cosa dalla mancanza di un titolo legale di autorità, che li costringeva ad essere in ogni atto assai circospetti. Fu ripresa perciò con nuovo vigore la agitazione contro Antonio e contro Cleopatra, per predisporre l’opinione pubblica alla coniuratio; e non solo si divulgò un infinito numero di aneddoti sulla corte di Alessandria, su Cleopatra ed Antonio, più o meno veri, spesso lubrici o osceni, che scandolezzassero la parte meno corrotta del ceto medio; non solo si insinuò che Antonio era quasi ammattito per un filtro somministratogli dalla regina; ma si continuò a tessere la grande favola delle ambizioni di Cleopatra, che voleva rovesciare il Campidoglio, asservire Roma all’Egitto, trasportare a Alessandria la metropoli dell’impero1198. Antonio le aveva regalato la biblioteca del re di Pergamo, aveva permesso agli Efesini di chiamarla regina: raccontò in un discorso Calvisio Sabino1199 con grande enfasi ed esagerazione; non era chiaro che Cleopatra ambiva quella provincia d’Asia, in cui gli Italiani avevano i maggiori interessi? Senonchè Antonio aveva ancora molti amici; e non pochi, nell’incertezza dell’esito, non volevano trovarsi poi troppo a mal partito con lui, se vincesse: onde Ottaviano non poteva impedire che a questa propaganda si contrapponesse una propaganda avversa; che i fatti più gravi fossero messi in dubbio, che a tutte le accuse si trovassero scuse1200. Da una parte e dall’altra lo sforzo si faceva rabbioso. Tizio e Planco raccontarono a Ottaviano che Antonio aveva deposto presso le vestali un testamento, in cui, oltre nuove e smodate donazioni ai figli, disponeva che il suo corpo fosse consegnato a Cleopatra e seppellito in Alessandria1201: non era questa la migliore prova che Antonio era stregato ormai dalla fatale egiziana, se nemmeno morto voleva essere separato da lei? Sperando di nuocere molto ad Antonio, Ottaviano costrinse la vestale massima a dargli il testamento e lo lesse in pieno Senato....1202 Grande fu la meraviglia e la commozione del pubblico; ma gli amici di Antonio cercarono di sviare l’indignazione dal testamento al modo con cui Ottaviano lo aveva preso; protestarono – e non a torto – che Ottaviano aveva violato un segreto privato, che era sacro. Tuttavia, non potendo negare che il testamento fosse indegno di un grande romano, essi riuscirono ad ottenere, perorando nelle concioni, che il popolo di Roma mandasse ad Antonio un certo Geminio come suo ambasciatore, a supplicarlo di non rovinarsi con atti inconsiderati1203.

Ma non si poteva perdere troppo tempo in questi stiracchiamenti, dopo l’affronto del ripudio e allorchè le forze nemiche erano già quasi tutte trasportate in Grecia. Alla fine Ottaviano dovè rompere gli indugi, e probabilmente nell’ultimo di luglio si risolvè a dare a tutti i suoi agenti nelle diverse parti dell’Italia l’ordine di spingere le città alla coniuratio. Come fu eseguita questa singolare operazione, noi non sappiamo: ma possiamo congetturare che il primo magistrato municipale o qualche cittadino insigne convocò il popolo in ogni città, spiegò con un discorso che l’Italia era minacciata di guerra da Cleopatra, la quale voleva asservire Roma; che la repubblica era in grande pericolo e quasi senza Senato; che l’Italia doveva salvarsi da sè, prestando ad Ottaviano il giuramento di fedeltà e sottoponendosi alla disciplina militare. Non è improbabile che Ottaviano promettesse anche, più o meno esplicitamente, di restaurare la repubblica a guerra finita. A una domanda così insolita, l’incerta e diffidente Italia non poteva rispondere con unanime, entusiastico slancio; e noi sappiamo difatti che qualche città rifiutò, come Bologna, e possiamo supporre che molti in ogni città si schermissero. Ma il prudente Ottaviano si astenne da imporre ai restii il giuramento; finse quasi di non accorgersi che mancavano molte voci al pieno coro; affermò che tutta l’Italia aveva giurato in sua verba, giudicando che coloro i quali non avevano giurato, contenti di non ricevere molestia, non contesterebbero con atti la costituzionalità dell’altrui giuramento1204. Cosicchè, con il giuramento degli uni e l’acquiescenza degli altri, Ottaviano potè arrischiarsi a trattare tutta l’Italia come legalmente sottoposta al suo imperium: militarizzata, diremmo adesso.

E allora subito indusse il Senato, i cui membri erano essi pure sottoposti a lui come soldati, a dichiarare la guerra a Cleopatra: a Cleopatra, si noti, e non ad Antonio, che fu soltanto spogliato del comando degli eserciti e di tutte le dignità, ma non dichiarato nemico pubblico1205. Tanto poco ancora l’Italia prestava fede alle accuse che Ottaviano e i suoi amici diffondevano contro Antonio! Senza indugio bandì pure nuove imposte: una contribuzione eguale all’ottava parte del loro patrimonio, per tutti i liberti che possedevano più di 200 000 sesterzi; la contribuzione della quarta parte del loro reddito annuale, per tutti i possidenti liberi1206. Senonchè questa volta l’Italia, stanchissima di imposte, non si spaventò nemmeno della giurisdizione militare e dello stato d’assedio; rifiutò le nuove contribuzioni, proruppe nel mese di agosto in tumulti e rivolte sanguinose, che Ottaviano, in quella incerta condizione di cose, non osò reprimere con vigore1207. Le difficoltà nascevano le une dalle altre; ed è meraviglia – dicono gli antichi – che Antonio non approfittasse di questo disordine, per assalire proprio allora l’Italia1208. Ma dopo la vittoria del partito egiziano nella questione del ripudio e dopo la frettolosa avanzata in Grecia, alla concitazione delle ultime lotte era succeduto nel campo di Antonio un intorpidimento che paralizzava l’esercito. Il partito egiziano poteva, per mezzo di Cleopatra, comandare nella tenda del generale, ma non riusciva a vincere le occulte resistenze dell’esercito, i cui ufficiali inclinavano quasi tutti verso il partito romano. La testa era egiziana, romano il braccio. Scoraggito e scontento il partito romano, gli ufficiali si lasciavano trascinare contro voglia a una guerra che non volevano e sul cui scopo avevano ormai tanta dubbiezza; se i più non osavano imitare l’esempio di Tizio e di Planco, seguivano però l’esercito straccamente, senza fiducia e senza zelo; Antonio, il quale pure era stanco e disorientato, non poteva più fare assegnamento sui propri collaboratori più abili, a cominciare da Domizio. Canidio non bastava a supplire alla malavoglia degli altri; tutto si faceva a caso, in gran disordine; nessuno pensava ai provvedimenti più necessari, come a raccogliere grano per nutrire all’inverno l’esercito nel luogo dove svernerebbe, che nessuno del resto sapeva quale fosse. Osare grandi cose in simile condizione era impossibile. Inoltre tutti, egiziani e romani, erano certo d’accordo almeno in una cosa: che Antonio, largamente provvisto di denaro e sicurissimo del suo esercito per la ammirazione dei soldati e per la povertà dell’avversario che non era in grado di corromperli, poteva con suo vantaggio aspettare che Ottaviano venisse a disputargli la vittoria sui campi della Macedonia e della Tessaglia, come Cesare nel 48 e come i triumviri nel 42. Ottaviano non poteva imporre per lungo tempo all’Italia il dispendio e la violenza dello stato di guerra, senza far nascere torbidi e difficoltà gravissime, in mezzo a cui la fedeltà degli eserciti, sempre irregolarmente pagati, sarebbe facilmente corrotta dall’avversario. E difatti subito dopo la dichiarazione di guerra a Cleopatra, egli e i suoi amici avevano divisato di tentare senza indugio la sorte delle armi: sebbene poi non avessero fatto nulla, non osando risolversi, quando l’Italia recalcitrava con tanto furore alla equivoca dittatura di Ottaviano e dappertutto aleggiava il sospetto e la paura della corruzione di Antonio1209. Antonio invece deliberava di passare l’inverno con l’esercito in Grecia, di mandare nuovi agenti in Italia a seminare denaro, per suscitare torbidi tra le popolazioni e scuotere la fedeltà delle legioni1210; di appostare il grosso della sua flotta – più che trecento navi – nel golfo di Ambracia (d’Arta) tra Corfù e Leucade, un vasto porto naturale comunicante con il mare per un canale largo poco più di un chilometro1211, collocando un avamposto a Corfù. L’armata vigilerebbe quindi, come scolta avanzata, l’Adriatico, se il nemico tentasse alla primavera seguente di passarlo. Il consiglio era savio, sebbene fosse eseguito in fretta e con grande confusione, come era possibile nel babelico disordine del campo pieno di tanti odii e discordie: e lo stesso partito romano che voleva la pace non aveva motivo di lagnarsene, poichè per esso la guerra andava per le lunghe e con la guerra si prolungavano il tempo e la speranza. Ma di quel rabbioso torpore del partito romano potè approfittare il partito egiziano, che comandava nella tenda del generale, per fare accettare il piano strategico che più gli conveniva. Chi osservi una carta del Mediterraneo, facilmente si persuade che un generale il quale, avendo in suo potere, come Antonio allora, la Cirenaica, l’Egitto, la Siria, la Anatolia, e grande parte della penisola balcanica, si appresti a una guerra in Tessaglia, in Macedonia o in Epiro, deve collocare le sue riserve di uomini e di materiali nell’Asia minore, vicina, collegata alla penisola balcanica da una fila di isolette simili a pietre di traghetto in mezzo a un corso d’acqua e separata solo da due bracci di mare. Perciò Antonio, che aveva lasciata una squadra con quattro legioni a Cirene sotto il comando di Pinario1212, quattro legioni in Egitto, tre in Siria1213, avrebbe dovuto richiamarle nell’Anatolia. Invece non solo le lasciò dove erano, nel lontano Egitto: ma proprio allora prese a stendere attraverso il Mediterraneo una vera catena di presidii terrestri e navali che univano la Cirenaica con l’Epiro: presidiava cioè Cirene, poi Creta, poi il capo Tenaro e Metone, pensava di svernare a Patrasso disseminando l’esercito di terra per tutta la Grecia, fortificava Leucade, poneva la flotta nel golfo di Ambracia e gli avamposti a Corfù. Non si potrebbe spiegare questa strana disposizione delle forze di Antonio, se non riconoscessimo l’effetto della politica egiziana di Cleopatra che voleva principalmente difendere l’Egitto così da probabili controattacchi di Ottaviano come da rivoluzioni interne, e mantenere aperte le comunicazioni con il cuore del suo impero. Certo questa disposizione dell’esercito era un poco disagiata, perchè offriva a un avversario ardito il destro di assalire con forze soverchianti questo o quel punto della lunga linea; ma si poteva fare altrimenti, dovendo combattere in Epiro per l’Egitto?

Difatti, forse sul finire di ottobre, quando a Roma si conobbe questa disposizione, per un momento si agitò la proposta di tentare una sorpresa sulla flotta ancorata nel golfo di Ambracia: ma poi per le tempeste, se si deve credere allo storico antico, il proposito fu abbandonato1214, mandando soltanto una flottiglia sulla costa dell’Epiro a osservare luoghi acconci a uno sbarco1215. Quando l’inverno dal 32 al 31 chiuse i mari, Antonio si ridusse a svernare a Patrasso in compagnia di Cleopatra, dei senatori romani, dei principi orientali: Ottaviano, Agrippa, Mecenate, radunata la flotta e le legioni a Taranto e a Brindisi1216, se ne vennero a Roma, per vigilare l’Italia e prendere le deliberazioni definitive. Nessun inverno dovè essere angoscioso per Ottaviano e per i suoi amici, come quello. Malcontenta e inquieta l’Italia, avide le legioni e tentate al tradimento dal ricco avversario, Ottaviano aveva bisogno di un pronto successo, con il quale rincuorare i soldati, tenere queta l’Italia, consolidare il suo potere: ma erano lontani i tempi in cui Cesare, alla testa del suo piccolo esercito di Gallia, poteva porre in atto con tanta risolutezza e veemenza il precetto massimo dell’arte di guerreggiare: cercare il principale corpo del nemico e disfarlo! Nè Ottaviano nè Agrippa si sentivano l’animo di sbarcare una ventina di legioni in Epiro, di cimentare il nome di Cesare in una nuova Farsaglia. L’esito della battaglia era incerto; e alla prima disfatta l’Italia si ribellerebbe, l’esercito passerebbe al nemico, non resterebbe più loro altro scampo che la morte. Inoltre era cosa rischiosa di portare commilitoni a combattere contro commilitoni! Eppoi, era proprio vero che non si potesse più conchiudere una nuova pace? Antonio pareva questa volta inesorabile, e aveva a fianco Cleopatra; ma se si trovasse qualche modo di intendersi, non era meglio? Perciò, dopo mature deliberazioni, si scelse un mezzo termine e si deliberò di contentarsi in principio di un mezzo successo non definitivo sulle carcasse delle navi: lascerebbero nel porto quasi tutte le grosse navi turrite, troppo corpulente e pesanti; raccoglierebbero i numerosi incrociatori di Sesto Pompeo e quelli presi nella guerra illirica ai Liburni, più leggeri, più veloci e più agili ad affrontare le tempeste: per tempissimo, in marzo. Agrippa simulerebbe un attacco sulle coste della Grecia meridionale, in modo da dare ad intendere al nemico che essi volevano sbarcare laggiù l’esercito; intanto Ottaviano, caricate sulla rimanente flotta quindici legioni, le sbarcherebbe sulle coste dell’Epiro, e di lì navi ed esercito scenderebbero verso il golfo di Ambracia, per sorprendere e bruciare la flotta di Antonio. Essi speravano, riuscendo in questa impresa, di poter sfruttare la grande impressione della notizia, che la flotta di Antonio era stata annientata: sia per indurre costui a condizioni ragionevoli di pace, sia per persuadere l’Italia a tollerare con pazienza il dispendio e il disagio di una guerra più lunga. Pare intanto che preparassero la spedizione, le navi, le armi, gli approvvigionamenti con maggior cura che non si fosse fatto nelle altre guerre. Ma capivano tutti di porre a un repentaglio così decisivo quello che avevano acquistato – grandezze e ricchezze – in tredici anni di guerre civili, che Ottaviano ordinò a tutti i settecento senatori restati a Roma di seguirlo, non volendo lasciar a Roma gente capace di capeggiare una rivoluzione in favore di Antonio1217. Solo pochi rifiutarono, e tra questi Asinio Pollione che disse di essere troppo amico dei due nemici e di voler restare neutrale; e con lui, per amore di pace, Ottaviano non insistè. Designò anche, in virtù dei suoi pieni poteri, i magistrati per l’anno seguente: a consoli sè stesso per tutto l’anno e M. Valerio, Tito Tizio, Gneo Pompeio.

[31 a. C.] E difatti, se la fatale politica egiziana non avesse perturbato profondamente la strategia di Antonio, oggi il Pantheon non ostenterebbe ancora sul frontone il nome superbo di Agrippa; nè alcun sovrano si chiamerebbe Cesare! Intanto già nell’inverno era successa una disgrazia alle ciurme dell’armata ancorata nel golfo di Ambracia, in un paese sterile. Restate senza viveri sufficienti quando la navigazione fu sospesa, quasi un terzo di queste ciurme era stato distrutto dalla fame e dalle malattie; e non potendo soccorrere alla loro penuria, Antonio aveva ordinato ai capi delle navi di riempire i vuoti facendo rapire dappertutto i contadini, i viandanti, i carrettieri, gli schiavi1218. Ma se questo accidente era grave, un’altra cosa ancor più grave avveniva in quell’inverno: si invertivano cioè le parti tra il partito romano e l’egiziano. Cleopatra, che Ottaviano e i suoi descrivevano come ambiziosa di distruggere Roma, diventava ora avversa alla continuazione della guerra, si sforzava di troncarla a mezzo e di indurre Antonio a ritornare nella primavera in Egitto, senza aspettare il nemico; mentre il partito romano prendeva a consigliare la guerra. I motivi di questo mutamento, senza il quale non sarebbe possibile spiegare il seguito degli eventi, noi non possiamo cercarli che per congettura in quell’incomponibile discordia dei due partiti, che è il movente supremo di tutti questi eventi. In quell’inverno, in mezzo a tanti senatori di Roma, Cleopatra potè meglio rendersi conto delle condizioni dell’Italia e di quello che l’opinione pubblica richiedeva; sentì molti di quei senatori discorrere della comune speranza, che Antonio dopo la vittoria riordinerebbe l’Italia, dove tante cose erano a farsi; capì che quei senatori avevano presa sul serio la promessa di restaurare la repubblica e che dopo la vittoria Antonio resterebbe prigioniero del partito romano, sarebbe da questo e dalla necessità delle cose costretto a ritornare in Italia, come Cesare dopo la presa di Alessandria. Che cosa accadrebbe allora del suo fragile impero egiziano? Dovrebbe essa ritornare a Roma a tentare di nuovo Antonio, come sedici anni prima era andata per persuadere Cesare? Cleopatra incominciava ad avere paura della vittoria, non meno che della sconfitta; e poichè ormai, dopo il ripudio di Ottavia, aveva inimicati irreconciliabilmente i due antichi cognati, si risolveva a cercar di fare sospendere la guerra, e di ricondurre Antonio in Egitto, a fondare apertamente la nuova dinastia, lasciando l’Italia e le barbare provincie europee a Ottaviano, al suo partito, a chi le volesse. Se Ottaviano voleva ricomporre l’unità dell’impero, dovrebbe assalirli in Oriente; impresa a cui non gli basterebbero mai nè le forze nè il coraggio. Insomma essa intendeva di compiere intera e definitiva quella separazione dell’impero d’Oriente e d’Occidente, che Antonio aveva solo adombrata. Con quali arti e sofismi essa cercasse di insinuare questo proposito nell’animo di Antonio, noi pur troppo non sappiamo: ma è probabile che essa incominciasse a tentarlo copertamente già in quell’inverno, come non è improbabile che Antonio abbia in principio obiettato a Cleopatra la difficoltà di muovere di nuovo in mezzo alla guerra tanta moltitudine a ritroso del cammino già fatto; il giudizio dei soldati, degli alleati e dei nemici, i quali strombazzerebbero questo ritorno come una fuga; infine il pericolo di dichiarare così apertamente, prima della vittoria, che si combatteva non per Roma ma per l’Egitto. Anche ammettendo che dei numerosi senatori venuti a lui da Roma ben pochi fossero devoti sul serio e non solo a parole alla grandezza di Roma, bisognava tener conto che tutti avevano in Italia i beni, la famiglia, la ragione della potenza; che se egli tralasciasse la guerra, nessuno potrebbe tornare in Italia se non ad arbitrio di Ottaviano ma tutti sarebbero rovinati e costretti a vivere in Oriente come in esilio; che, appena temessero di essere abbandonati così a tradimento sulla via dell’Italia, si rivolterebbero contro di lui.

Ma sul finire dell’inverno queste dubbiezze e discussioni furono all’improvviso interrotte dall’improvvisa comparsa di una armata nemica nelle acque della Grecia. Ai primi di marzo Agrippa aveva lanciata la muta dei suoi levrieri di mare contro la Grecia meridionale, incominciando la caccia alle navi che portavano dall’Asia e dall’Egitto il grano; aveva preso Metone e frugava con gli agili incrociatori la costa, come cercando un luogo acconcio allo sbarco dell’esercito e facendo un gran frastuono e tumulto alle spalle di Antonio1219, per costringerlo a voltare l’attenzione verso di lui. E difatti Antonio fu ingannato; credette proprio che Ottaviano venisse a disputargli la vittoria in Grecia; e mettendo in disparte le discussioni sul guerreggiare o ritrarsi, incominciò a dare le disposizioni per raccogliere tutto il suo esercito1220. Pare che Cleopatra da principio cercasse di tranquillarlo e di impedirgli di avventarsi così precipitosamente nella guerra. Quando, in mezzo ai preparativi giunse la notizia che Ottaviano aveva sbarcato in Epiro un esercito e che esercito e flotta discendevano rapidamente verso il sud....1221. Antonio capì allora che Ottaviano voleva distruggere la flotta di Ambracia; si spaventò forse più che non fosse vero e grande il pericolo – anche lui i disagi, le fatiche e gli stravizi facevano impressionabile –; mandò subito ordine all’esercito disperso di marciare su Ambracia, e con grande prestezza vi accorse in persona, giungendo, come pare, quasi insieme con Ottaviano, ma quasi solo1222. Cosicchè quando la flotta nemica si ancorava nel golfo di Comaro e l’esercito si accampava sul promontorio che chiude a nord il golfo, sopra una collina che oggi si chiama Mikalitzi, sulle navi erano soltanto le ciurme imbelli, affrante, assottigliate.... La sorpresa era pienamente riuscita, per merito di Agrippa. Ma la prontezza di Antonio fece all’ultimo fallire lo studiato stratagemma. Antonio mascherò alla meglio da legionari le ciurme, le fece salire sul ponte, e ostentò la sua flotta in atteggiamento di battaglia. Ottaviano, come al solito, si impaurì, credè la flotta difesa da soldati, non osò assalirla; e uscì fuori ad offrir battaglia per terra1223. Antonio invece lo tenne a bada con scaramuccie, aspettando che dalle varie parti della Grecia arrivassero le coorti e le legioni; e come furono giunte, stabilì un grande accampamento sul promontorio meridionale che chiudeva il golfo e che era detto di Azio, fortificando il canale1224. Giunse anche Cleopatra che, non avendo potuto più trattenerlo, lo seguiva sin nell’accampamento, non volendo lasciarlo un dì solo in balìa del partito romano.

Frattanto Ottaviano aveva richiamato Agrippa dalle coste della Grecia meridionale, per raccogliere tutte le sue forze davanti al nemico. I due rivali accampavano ora di fronte, sul finire di maggio – è probabile che tra questi avvenimenti fosse passato l’aprile e una parte di maggio – come nel 48 Pompeo e Cesare, come nel 42 i triumviri e i due capi della congiura, in quella penisola balcanica che è il grande campo di battaglia in cui si azzuffarono sempre l’Oriente e l’Occidente, l’Asia e l’Europa. Ma una nuova pausa intervenne. Questa volta nessuno dei due avversari pareva aver fretta di combattere. Ottaviano, il quale pure non poteva restare in armi così a lungo come Antonio, si raccolse in una difesa aspettando, nel campo munito come una vera fortezza e unito da grandi muraglioni con il porto di Comaro; tentò anche di avviare nuove trattative di pace perchè, dopo l’insuccesso della sorpresa che aveva sconcertati tutti i suoi disegni, non osava di sforzare il nemico a combattere nè per terra nè per mare, se pur ci sarebbe riuscito. Inoltre egli si trovava allora in condizioni migliori che Cesare nel 48 e i triumviri nel 42, perchè poteva con la flotta far venir grano dall’Italia e dalle isole per i soldati; e quindi mancando alla sua irresoluta natura l’incitamento del pericolo e della fame, non sapeva più risolversi a nulla. Antonio a sua volta rifiutò di entrare in trattative; ma non fece nessuno sforzo per costringere il nemico a battaglia, si restrinse ad accampare una parte del suo esercito al di là dello stretto per minacciare più da vicino il campo nemico, a far circuire il golfo da forti squadroni di cavalleria, che cercassero di tagliare l’acqua al nemico, forse a tentare copertamente le legioni di Ottaviano. L’onnipotente Cleopatra gli impediva così di far guerra come di conchiudere pace. In un campo e nell’altro, nei due gruppi di uomini che dirigevano i due partiti in guerra, le discordie o la diffidenza o la paura impedivano ogni opera ed atto; cosicchè i due immensi eserciti erano venuti dalle due opposte parti del mondo per vigilarsi a vicenda in una inerzia, che è la prova suprema dell’esaurimento senile, da cui era sfinito il governo del triumvirato e l’ordine di cose stabilito nel 43 dalla trionfante rivoluzione popolare. In poco più di dieci anni tutta l’eredità di Clodio e di Cesare era stata consumata e dispersa! D’altra parte troppo manifesti erano per Ottaviano i pericoli della neghittosità piena che snerverebbe i soldati, disporrebbe questi a lasciarsi corrompere e fomenterebbe gli umori rivoltosi dell’Italia! Egli cercò di aiutarsi con qualche astuto ripiego e con dimostrazioni, là dove non poteva con la sostanza delle cose. Mandò agenti in Grecia e in Macedonia a cercar di suscitare torbidi contro Antonio tra le popolazioni malcontente per le esazioni della guerra1225 che in alcune parti facevano nascere gravi carestie1226. Anzi la più grande famiglia del Peloponneso, quella di Euricle, per odio del padre ucciso da Antonio, aveva armata per Ottaviano una nave al comando di Euricle stesso. Tizio e Statilio, avendo sorpreso e fugato un piccolo corpo di cavalleria nemica, magnificò in Italia questa vittorietta come un gran fatto d’armi1227. Agrippa osò una impresa maggiore: piombò d’improvviso sulla piccola squadra che presidiava Leucade e la vinse1228, girò intorno all’isola, scacciò un altro piccolo presidio posto al capo Ducato1229. Ottaviano scrisse allora a Roma che la flotta di Antonio era tappata nel golfo di Ambracia1230; vana iattanza, perchè questa flotta ancora intatta avrebbe potuto uscire a ogni momento e piombare sulla sua. È probabile che Agrippa non lasciasse nessun presidio a Leucade; e se pure ve lo lasciò, questo non poteva in nessun modo intralciare l’arrivo delle navi cariche di frumento per Antonio; se no, non si spiegherebbe come costui non facesse nulla per ricuperare l’isola. Insomma tutte queste operazioni erano solo schermaglie, dimostrazioni, finte per nascondere al nemico e all’Italia la propria debolezza e paura.

Ma non vince un duello chi fa solo finte e non osa assestare mai un colpo. Ottaviano avrebbe alla fine provocato con la sua pavidità il nemico ad assalirlo, se per sua fortuna il vizio insito nella politica di Antonio, quella contradizione tra lo scopo vero – la consolidazione dell’impero egiziano, – e lo scopo allegato a giustificazione – la restaurazione della libertà, – non avesse sconcertate le operazioni di Antonio in un seguito di assurde incoerenze, precipitando una catastrofe così strana e impensata, che nè i contemporanei nè i posteri l’hanno capita. Cleopatra ricominciava a cercare di distogliere Antonio da ogni proposito di battaglia, perchè già prima avversa alla guerra per motivi politici, diventava ora avversa anche per motivi militari. Poichè Ottaviano si ostinava a restare chiuso nel campo bisognerebbe ritirarsi verso la Macedonia per costringerlo a muoversi e a seguirli, e quindi allontanarsi dal mare per cui comunicavano rapidamente con il lontano Egitto; essa stessa avrebbe dovuto correre i rischi e tollerare le fatiche delle numerose marcie e contromarcie che, come nel 48, i due eserciti farebbero prima di azzuffarsi. Eppoi, la sorte delle battaglie è sempre incerta: ora, se Antonio ricevesse una sconfitta a tanta distanza, l’Egitto insorgerebbe, i suoi figli correrebbero estremo pericolo.

Perciò con la tenacità, la sicurezza, la foga di una donna ambiziosa e intelligente, di una regina avvezza a credere sè infallibile e a imporre sempre agli altri e anche ad Antonio il proprio volere, essa si sforzò di persuadere il triumviro, ormai molto infiacchito dagli anni e dai vizi, a ritirarsi in Egitto per mare; sinchè, chi sa con quali ragionamenti e persuasioni, ci riuscì. Al principio di luglio pare che Antonio fosse già venuto nel pensiero di interrompere la guerra e di tornare in Egitto, senza combattere. Solamente non era possibile dichiarare apertamente la intenzione di abbandonare l’Italia a Ottaviano, di rinunciare a restaurare la repubblica, di tradire i senatori romani che per Antonio avevano abbandonata l’Italia.... L’ingegnosa Cleopatra immaginò allora un altro imbrogliato accorgimento: nascondere la ritirata in una battaglia navale. Si caricherebbe una parte dell’esercito sulla flotta, si manderebbe l’altra a presidiare i luoghi più importanti della Grecia, si uscirebbe fuori come a dare battaglia sul mare; e se il nemico si facesse innanzi, si darebbe battaglia veramente e poi si navigherebbe in Egitto1231. Così la parte almeno dell’esercito caricata sulle navi – una metà – verrebbe sicuramente in Egitto: se i contingenti orientali e le altre legioni, quando fossero abbandonate, si sfasciassero, il danno non sarebbe gravissimo. D’altra parte – le guerre contro Sesto Pompeo lo dimostravano – i combattimenti navali non terminavano quasi mai, se le forze si bilanciavano, con la sconfitta definitiva dell’uno o dell’altro, perchè lo sbandamento e il panico erano molto più difficili. Antonio, probabilmente al principio di luglio, propose quindi ai generali e ai grandi dell’Oriente di dare battaglia sul mare. Ma questa proposta inaspettata e singolare fu cagione di grande stupore a tutti. Domizio Enobarbo, Dellio, Aminta, tutti si domandarono con inquietudine e sospetto di dove Antonio avesse cavata una idea così bislacca; perfino Canidio osservò che combattendo sul mare si sciupavano inutilmente gli uomini. Era evidente: una vittoria navale non poteva scoraggire a tal segno il nemico, da disfarne l’esercito; se si voleva finir presto la guerra, occorreva portare l’esercito in Macedonia per trarsi dietro Ottaviano1232. Tutti sospettarono subito che anche questa improvvisa proposta fosse suggerita da Cleopatra; le discussioni si accesero; se non proprio tutta la verità, qualche sentore delle vere intenzioni di Cleopatra trapelò, tanto la proposta era assurda; parecchi subodorarono che la regina volesse combattere sul mare per finire più presto e presto tornare in Egitto con Antonio, anche lasciando insolute le gravi difficoltà politiche della repubblica che questa guerra doveva sciogliere in Italia; la discordia tra il partito egiziano e il partito romano ridivampò di nuovo furibonda; delle scenate terribili avvennero tra Cleopatra e i principali romani, specialmente tra Cleopatra e Domizio1233. Le cose giunsero a tale che anche Canidio, il quale aveva persuaso Antonio a condurre seco Cleopatra, ora lo consigliò di rimandare la regina in Egitto per mare, se proprio non si sentiva l’animo di continuare la guerra, ma di non immolare alle sue paure la ragione militare in modo sì stolto. In pochi giorni il gruppo di uomini eminenti che stavano attorno ad Antonio fu sconvolto da un furore di discordie, di odii, di calunnie terribili; in mezzo alle quali Antonio, sentendosi sospettato e impotente a ricomporre la pace, fu costretto a cedere, rinunciando a dare battaglia sul mare. Forse per tranquillare i romani inquieti per la paura del tradimento mandò Dellio e Aminta in Tracia ad assoldare cavalieri1234. Tanto era vero che voleva disputare al nemico la vittoria in Epiro! Ma non quietarono perciò le discordie; anzi durante il mese di luglio si invelenirono a tal segno che, stanco alla fine della insolenza di Cleopatra, malsicuro di Antonio che ormai si lasciava in ogni cosa governare da quella donna, Domizio Enobarbo montò una mattina in una navicella dicendo di voler fare una gita sul golfo per salute – aveva le febbri – e invece si recò nel campo di Ottaviano. Di lì a poco, probabilmente per un motivo non molto diverso, lo seguì il re di Paflagonia1235. Irritatissimo e stanco delle interminabili discordie, Antonio pensò di adoperare il terrore; si diè a spiar tutti e al primo sospetto di tradimento fece uccidere il senatore Q. Postumio e un reattolo arabo di nome Jamblico; ma poi si inquietò anche dell’effetto di queste violenze, temè che Dellio e Aminta non tornassero più, e per un momento ebbe l’intenzione di tener loro dietro; poi si contentò di richiamarli1236.

Ma tra queste oscillazioni e incertezze il tempo passava – si era giunti ai primi di agosto – senza che si facesse nulla, nè in un campo nè nell’altro. Solo ebbero luogo due scaramuccie di poca importanza: una sul mare e una di cavalleria1237. Antonio, non potendo mettere d’accordo Cleopatra e il partito romano, non si risolveva nè a muovere il campo nè a battagliare sul mare: Ottaviano informato da Domizio e dagli altri personaggi dell’intenzione di Antonio di assalirlo con la flotta, raccoglieva tutte le sue navi nel porto di Comaros, invano aspettando da un giorno all’altro l’assalto annunciato. Senonchè al principio di agosto Cleopatra riprese a sollecitare Antonio, incitata dal nuovo spavento della malaria. Il campo di Antonio era posto in luogo poco salubre e molti ammalavano per il caldo; onde la regina, già turbata dai disagi della guerra, fu presa dall’impazienza di partire al più presto da quel luogo pestilenziale1238. Resistè probabilmente Antonio, perchè dopo tante discordie erano cresciuti i pericoli di una così insolita e ardita operazione: ma incalzava Cleopatra, la quale pare riuscisse con il denaro a riguadagnare un’altra volta ai suoi disegni Canidio; e alla fine disperando forse egli stesso di potere mai indurre o Cleopatra ad accompagnarla nella spedizione all’interno o i maggiorenti romani a ritornare in Egitto, deliberò di fare uno sforzo e di imporre al suo esercito e ai suoi alleati i disegni a cui due mesi prima aveva rinunciato; e senza più consultare nessuno, il 29 di agosto, diede i primi ordini per la battaglia navale1239.

Ma questi ordini erano troppo singolari, equivoci, strani; e risvegliarono negli spiriti acuti il vecchio sospetto, che con la battaglia navale si volesse dissimulare una ritirata precipitosa in Egitto e l’abbandono del partito romano. Non si ordinava infatti soltanto a 22 000 soldati – forse dieci legioni – di salire sulle centosettanta grandi navi le cui ciurme erano intere1240; ma i piloti ricevettero con stupore l’ordine di porre a bordo anche le grandi vele1241, pesanti, ingombranti e carissime. Per qual motivo portarle a una battaglia che si combatterebbe a qualche miglio dal golfo? La spiegazione data da Antonio, che egli volesse servirsene a inseguire i nemici, persuase poco. Anche maggior stupore destò l’ordine di bruciare le navi che non potevano essere portate alla battaglia e una parte della flotta egiziana1242. Non era più prudente di conservare queste navi per sostituirle a quelle guaste nella battaglia? Tutte queste disposizioni sarebbero state o assurde inutili, se Antonio intendeva soltanto di dare battaglia sul mare. Antonio, sentendosi sospettato di nuovo, tentò il 30 agosto un assalto al campo nemico con qualche coorte, per mostrare l’intenzione sua di combattere sul serio. Naturalmente l’assalto fu respinto1243: ma era difficile ingannare con queste malizie gente astuta e in sospetto, come Dellio e Aminta, quando nel golfo di Ambracia gli indizii crescevano di numero ogni ora. Bisognava portar via il tesoro: ma come caricarlo nelle sessanta navi egiziane senza gridare a tutto l’esercito la propria intenzione? Nascostamente, di notte, per mano di schiavi fidati, il tesoro fu portato nelle navi1244. Occorse qualche giorno: per fortuna il tempo si era certo messo al brutto e una orribile tempesta infuriava sul mare1245; onde si potè aspettare senza dar sospetto. Ma di questi furtivi trasporti notturni qualche cosa certamente si riseppe; e quel poco confermò definitivamente i sospetti dei più diffidenti. Probabilmente il 31 agosto Dellio e Aminta si erano formata la persuasione che Antonio voleva fuggire, cioè che era ammattito; e prevedendo ne seguirebbe una catastrofe unica, scapparono quel giorno ambedue da Ottaviano: Dellio da solo1246, Aminta con 2000 cavalieri galati.

Frementes verterunt bis mille equites
Galli canentes Caesarem.1247

Anche i soldati erano malcontenti di combattere sul mare: ma essi non sospettavano di nulla e, devoti ad Antonio, obbedirono1248.

Frattanto Dellio e Aminta raccontavano nel campo romano quel che succedeva nel campo di Antonio1249, spiegavano il loro sospetto che Antonio e Cleopatra si preparassero, non a combattere sul serio, ma a ritirarsi in Egitto. Che commozione destassero queste notizie non è difficile immaginare. Il nemico che aveva mosso tanto apparecchio di armi, di cui essi avevano tanta paura, stava proprio per abbandonare loro l’Italia e la repubblica? Sarebbe vera quella inverisimile ritirata? nascondeva una insidia? Innanzi a notizie così bizzarre e a dubbi così gravi, Ottaviano non si sentì di deliberare da solo e convocò, probabilmente il 1° settembre, un consiglio di guerra. Timido come sempre e poco risicoso, il figlio di Cesare proponeva di lasciar libero il passo ad Antonio, per mostrare così ai soldati e agli alleati che veramente fuggiva; e poi ritornando ad Azio invitare l’esercito, disanimato dall’abbandono del generale, a passar sotto le loro bandiere. In quelle estreme convulsioni di un mondo agonizzante, anche le cose più tragiche terminavano in parodia; parodia diventava questa guerra terribile in cui, dopo aver mosso con tanto fracasso tanta mole di armi, i due avversari si minacciavano a lungo allontanandosi l’uno dall’altro e alla fine si accingevano a voltarsi le spalle e a fuggire ambedue! Ma Agrippa, più avveduto, dubitò che così facilmente i soldati abbandonerebbero i vessilli; onde giudicò più opportuno contrastargli il passo e dargli battaglia. Poichè Antonio voleva andare in Egitto, non combatterebbe con accanimento e sul serio; e siccome poi a ogni modo si ritirerebbe dopo la battaglia, sarebbe loro facile, qualunque fosse la riuscita, strombazzare in Italia che avevano riportata una grande vittoria e che lo avevano fatto fuggire in Egitto1250. In nessuna battaglia mai il rischio era stato sì piccolo, sì grande il vantaggio. Ottaviano, persuaso da quelle ragioni, si arrese al consiglio del suo luogotenente, ordinò il 1° settembre ad otto legioni e cinque coorti pretorie1251 di montare sulle navi. Alla sera il mare si calmò; i preparativi parevano finiti.... Tutto indicava che lo scontro avverrebbe il giorno dopo. E difatti al mattino del 2 settembre Agrippa si allargò in mare sul tranquillo Adriatico, andò ad appostarsi all’erta e pronto, a circa un chilometro dall’uscita del canale, dividendo la sua flotta in tre squadre: un’ala sinistra al suo comando, il centro al comando di L. Arrunzio, la ala destra al comando di M. Lurio e di Ottaviano. Solo verso mezzodì le grandi navi turrite di Antonio incominciarono a uscire dal golfo, si allinearono, si disposero esse pure in triplice ordine: a sinistra contro Lurio C. Sosio, di fronte, contro Arrunzio, Marco Insteio e un certo Marco Ottavio, a destra, contro Agrippa, Antonio e L. Gellio. Dietro, al centro, uscirono le sessanta navi di Cleopatra, al comando della regina. Quale intesa era corsa tra Antonio e Cleopatra? Pur troppo noi non lo sappiamo; ma a giudicare dagli eventi, è verisimile che la regina, esasperata dalle interminabili lotte e impaziente di ritornare nel suo regno a ogni costo, temendo che qualche accidente potesse ancora trattenerlo, persuadesse all’ultimo momento l’infiacchito generale a fuggire con lei appena si leverebbe il vento del nord, che ogni giorno soffia su quel mare nel pomeriggio. Essa ne avrebbe dato il segnale, muovendo la sua piccola flotta, anche se la armata romana fosse ancora impegnata nella battaglia; Antonio salterebbe dalla sua nave in una quinqueremi preparata apposta e la seguirebbe; Canidio, che conosceva il loro disegno e a cui fu affidato l’esercito rimanente con l’incarico di portarlo in Grecia e farlo passare in Asia, darebbe alla flotta restata indietro l’ordine di seguirli. Si trattava solo di precedere di qualche ora il grosso dell’armata! Anzi, per essere sicura di lui, essa pose sulla nave ammiraglia, a fianco di Antonio, Alessi di Laodicea, certo con l’incarico di indurlo a saltare nella quinqueremi, se nel momento supremo esitasse.... Comunque sia, dopo un breve indugio, la sinistra di Antonio, spinta da una breve brezza, si avventò contro il nemico, Agrippa tentò di avvolgerne la destra, tutta la armata di Antonio si mosse; e in breve le due flotte si azzuffarono al largo. Come quelli di Sesto nella battaglia di Milazzo, i veloci incrociatori di Ottaviano volteggiavano intorno alle alte navi turrite di Antonio tentando di rompere loro i remi e il timone, fuggendo via prestamente la grandine di sassi e saette che le macchine lanciavano dai ponti pesanti; cercavano di dar loro dei colpi ai fianchi, sfuggendo ai raffi e arpioni di ferro che gli altri lanciavano per incatenarle e sfondarle: dardi, fiaccole, sassi volavan per l’aria; si combatteva con vigore da tutte le parti, mentre Cleopatra, fremente ed ansiosa, guardava questa battaglia insensata, in cui tanti Romani perivano per salvare a lei il suo regno d’Egitto.... Pure i soldati di Antonio combattevano valorosamente per fedeltà al generale; e forse avrebbero vinto, certo avrebbero potuto alla sera ritirarsi nel porto, dopo aver inflitto danni al nemico non minori di quelli ricevuti, quando a un tratto Cleopatra, levatosi il vento aspettato, ordinò di aprir le vele e a vele spiegate, arditamente, passò in mezzo alle flotte combattenti e filò verso il Peloponneso. Antonio saltò allora nella quinqueremi e le corse dietro1252.

Grande fu lo stupore fra tutti i combattenti a questo improvviso evento: ma nella flotta di Antonio ben pochi si accorsero della fuga del generale; onde la battaglia continuò accanita con reciproche offese, senza esito definitivo, sicchè al cadere del sole le navi di Antonio si ricondussero nel golfo da loro, una dopo l’altra, e perciò un poco in disordine. Ottaviano, non rendendosi conto precisamente di quello che era avvenuto, temendo qualche sorpresa e qualche fuga nelle tenebre, restò la notte con la flotta sul mare e dormì a bordo della sua nave1253. Solo il giorno dopo egli invitò la flotta e l’esercito di Antonio ad arrendersi, significando loro che Antonio era fuggito e che quindi essi non avevano più motivo di combattere1254. Ma sebbene le dicerie sulla scomparsa di Antonio già corressero nel campo, sebbene il generale non comparisse, i soldati erano troppo fermi nell’opinione che Antonio non poteva essersi allontanato se non per poco tempo e per qualche serio motivo, e che presto ritornerebbe; onde non soltanto gli inviti di Ottaviano restarono vani, ma Canidio non osò manifestare gli ordini lasciatigli da Antonio, e comandare alla flotta di forzare il passaggio e di andare in Egitto. Se il partito egiziano aveva potuto spadroneggiare nella tenda del generale, il partito romano era signore dell’esercito per mezzo degli ufficiali; e questa discordia tra il braccio e la testa produsse ora, improvvisamente, i suoi effetti terribili, Canidio non osò svelare che il generale era davvero fuggito in Egitto, temendo che o lo sdegno rivolterebbe i soldati o che lo scoraggiamento li prostrerebbe o che non crederebbero nemmeno a lui1255. Passò un giorno; qualche senatore romano o qualche principe orientale, intravedendo il vero, fuggì1256; ne passaron due, tre: i soldati non si muovevano, Canidio non sapeva che fare; Ottaviano, disperando di far ribellare l’esercito, per un momento pensò di inseguire Antonio1257. Ma era già tanto lontano! Allorchè il quarto e il quinto e il sesto giorno nè Antonio comparve nè giunsero sue notizie, la fiducia degli eserciti incominciò a vacillare; le diserzioni dei Romani autorevoli e dei principi orientali con i loro contingenti diventarono più numerose1258. Tuttavia non cedevano ancora i legionari: Antonio presto ricomparirebbe tra i suoi fedeli soldati! Ma le voci della fuga si confermavano, ingrandivano; i contingenti alleati partivano ormai precipitosamente, come in una rotta; al settimo giorno anche Canidio non sapendo a che risolversi fuggì e allora l’animo dei soldati cadde. Una parte si disperse in Macedonia, una parte si arrese, con la flotta1259.

Il 9 settembre e non il 2, quando diciannove legioni, più di 10 000 cavalieri e una flotta, si furono o arresi o dispersi, Ottaviano ebbe vinta davvero la battaglia d’Azio. E l’ebbe vinta senza quasi aver combattuto. Antonio soccombè in questo duello supremo, non per il valore dell’avversario, non per i suoi errori strategici o tattici; ma per le insolubili contradizioni della sua doppia politica, egiziana e monarchica di fatto, repubblicana e romana di apparenza.

XXII.
LA CADUTA DELL’EGITTO.

Ma in principio nè Antonio nè Ottaviano capirono la gravità degli eventi successi ad Azio. Partito a malincuore, come chi sa di commettere un gravissimo errore, Antonio aveva navigato per tre giorni con Cleopatra sino al Capo Tenaro, dove si era fermato e aveva apprese le vaghe poco precise notizie già portate dalla voce pubblica: secondo le quali la flotta sarebbe stata distrutta, ma l’esercito si conservava integro e pronto. Antonio spedì subito dei messaggi a Canidio, sollecitandolo a trasportare l’esercito in Asia1260; e riprese a navigare verso Alessandria. Ottaviano a sua volta, nemmeno dopo la resa delle legioni nemiche, osava quello che Cesare aveva fatto dopo Farsaglia: sfruttare subito la notizia della vittoria e slanciarsi ad inseguire il nemico. Antonio si era tante volte salvato da pericoli tremendi, era ancora così possente e ammirato: poteva Ottaviano considerare come definitiva la vittoria di Azio, riportata in modo così singolare e quasi senza combattere? Del resto troppe cure lo trattenevano in Grecia: in special modo la mancanza di denaro cresciuta a tanto da fargli contrarre dei prestiti perfino con i suoi tribuni militum; e che convertiva in un grave impaccio anche la resa delle diciannove legioni di Antonio. Con quale denaro pagarle, quando non ne aveva nemmeno per le sue? Ma intanto le notizie della battaglia navale, dell’esercito arresosi, della fuga di Antonio – i tre fatti insieme facevano credere facilmente a una straordinaria vittoria di Ottaviano – si divulgavano in Europa ed in Asia, mutando repentinamente la disposizione di tutti gli spiriti. Il primo effetto fu in Grecia, che era la regione più vicina. Tutte le città che avevano prima adulato Antonio e Cleopatra si arresero senza combattere, tranne Corinto che fu espugnata da Agrippa1261; e non ostante la immancabile contribuzione che fu loro imposta, innalzarono statue, deliberarono decreti onorifici per Ottaviano1262, spiarono, denunciarono, catturarono, in un furore di odio servile per il vincitore, i partigiani di Antonio. Nasceva così una nuova difficoltà per Ottaviano. Antonio e i suoi partigiani non erano stati dichiarati nemici pubblici e l’imperium attribuito dalla conjuratio a Ottaviano valeva solo per gli Italiani e per i suoi soldati. Ma dopo la vittoria l’irritazione per il pericolo corso, che covava nei maggiorenti del partito vittorioso, volle vendetta; cosicchè Ottaviano, che avrebbe inclinato a moderazione, fu costretto dagli odii e dalle ire della sua gente a fare un nuovo macello1263, ma a malincuore, saltuariamente, oscillando da un giorno all’altro con giudizi capricciosi, in cui la vita o la morte dipendevano spesso da un accidente fortunato, da un ritardo di ore, da un nonnulla. Non pochi furono condannati a morte, tra gli altri il figlio di Curione, a cui essere figlio dell’amico di Cesare mutò in delitto l’aver seguito il patrigno1264. Intanto dalla Grecia la notizia giungeva in Asia; la ricca provincia, sgombra di soldati, già sentendosi in potere di Ottaviano, si dispose pure a onorarlo con decreti e statue, a domandargli protezione ed aiuto; dei sovrani asiatici che dal golfo di Ambracia erano in viaggio per le loro case, già molti cercavano di avviar trattative con il vincitore1265. Di bocca in bocca la notizia si espandeva, giungendo infine anche ad Alessandria, dove nella seconda metà di ottobre la portò lo stesso Canidio1266. Incoraggiato da questo movimento degli spiriti a suo favore, Ottaviano si risolvè a tentare una cosa ardita: congedar tutti i soldati che avevano compiuto gli anni del servizio, senza dar loro nessuna ricompensa. Difatti in ottobre e in novembre rinviò grandi torme di soldati in Italia1267, facendoli accompagnare non solo da Mecenate ma anche da Agrippa1268. Ma rimaneva in Grecia incerto sul partito a cui appigliarsi, perdendo il tempo a farsi iniziare ai misteri di Eleusi; e mentre Antonio giungeva ad Alessandria, non si risolveva nè a mantenere le promesse fatte durante l’agitazione per la coniuratio e a guerreggiare a fondo contro Antonio e Cleopatra, nè a cercare ancora una volta di intendersi con Antonio.

Ma alle esitazioni dell’incerto vincitore venne ben presto a fare violenza una forza esteriore: la opinione pubblica dell’Italia, nella quale la battaglia d’Azio fece a un tratto un imprevedibile e smisurato rivolgimento. L’Italia aveva seguita quella lenta guerra, ruminando dentro sè rabbiosamente i suoi rammarichi innumerevoli ed inutili. Si poteva nutrire ancora alcuna speranza? Invece della promessa restaurazione della repubblica, si aveva il più disordinato e confuso governo di due fazioni in guerra tra loro senza nemmeno più una parvenza di giustificazione legale; tutti, i membri e i capi delle fazioni non esclusi, erano scontenti di questo stato di cose, eppure l’Italia non aveva mezzo o forza per imporre il suo malcontento e finire il disordine; intanto il prestigio di Roma era così scaduto, che in Oriente succedevano qua e là dei piccoli eccidi di Italiani, e la condizione economica dell’Italia era non meno cattiva della condizione morale e politica. La decennale diarchia, che l’aveva separata dalle provincie ricche e civili dell’Asia, faceva soffrire troppo l’Italia e le rendeva ancor più aspro quel riordinamento delle fortune, che da dieci anni avveniva; il governo triumvirale aveva esaurito non solo tutto l’impero ma anche la pazienza dell’Italia, indebitandosi con un infinito numero di persone, dovendo arretrati ai soldati, agli appaltatori, ai fornitori; l’erario era vuoto. Eppure occorrevano immense somme per provvedere ai servizi pubblici spaventosamente negletti; e l’interesse del denaro era carissimo. Che l’Italia avrebbe sfogato questi sordi rancori sopra quello dei due rivali che soccomberebbe, come sopra l’autore di tutti i mali lamentati, era cosa facile a prevedersi; ma nessuno forse aveva previsto che dopo Azio tutta l’Italia insorgerebbe con tanto furore contro Antonio, il quale sino al dì precedente era stato il favorito tra i due rivali. Antonio aveva troppo abusato della sua fortuna e potenza; aveva con la sua politica orientale troppo spensieratamente offeso l’orgoglio nazionale e recato troppo nocumento agli interessi dell’Italia; se, sinchè parve il più potente, quasi nessuno osò muovere lamento, appena la fortuna si accinse ad abbandonarlo, egli pagò in un attimo il fio di tutto. L’Italia sfogò su lui tutti i sentimenti buoni e malvagi che l’agitavano: il bisogno di odiare qualcuno come causa delle proprie sventure, la fretta servile di adulare il vincitore, il desiderio sincero di ricomporre la unità dell’impero, di restaurare la repubblica e il prestigio di Roma nel mondo, di ritornare al vero costume latino; la speranza che, unito di nuovo l’impero, quando i tributi dell’Oriente rifluirebbero di nuovo in Italia, tutti in Italia sarebbero sollevati da ogni imposta come in passato, lo stato riprenderebbe con l’oro asiatico i lavori pubblici, i ricchi senatori e cavalieri ritornerebbero ad abitare in Italia e farebbero riprosperare il commercio e gli studi. Tutti ripeterono allora con sdegno le accuse che la cricca di Ottaviano si era per tanto tempo ed invano affaticata a divulgare; detestarono i costumi e gli atti di Antonio come indegni di un Romano; credettero a tutte le calunnie sparse dai suoi nemici su lui, su Cleopatra, sui loro rapporti, sulle loro intenzioni parricide. In pochi giorni, per contagio, l’adulato triumviro diventò un grande traditore della causa nazionale. Anche Orazio finalmente uscì dal suo riserbo e nell’Epodo nono celebrò la vittoria di Ottaviano su quel “condottiero di schiavi” lamentando di aver dovuto assistere all’incredibile scandalo di soldati romani obbedienti al cenno di una regina e ai comandi di eunuchi rugosi, quando persino i duemila Galati di Aminta avevano alla fine sdegnato tanto servaggio. A Roma si decretò a Ottaviano il trionfo, un arco onorario a Brindisi, un arco trionfale nel Foro; si deliberò che il tempio del Divo Giulio sarebbe adornato con i rostri delle navi catturate, che si celebrerebbero dei giuochi quinquennali a ricordo della battaglia, che nel giorno natalizio di Ottaviano e in quello in cui era giunta la notizia della vittoria si farebbero supplicazioni; che al suo ingresso in Roma, le Vestali, il Senato, il popolo gli andrebbero incontro; che il giorno natalizio di Antonio fosse considerato nefasto e che si proibisse a tutti i membri della famiglia degli Antonii di portare il nome di Marco1269. La conquista e l’annessione dell’Egitto, lo spodestamento di Cleopatra furono universalmente domandati come una soddisfazione e una vendetta necessaria. Ottaviano, che da un pezzo desiderava una occasione per acquistare definitivamente la popolarità invano sino allora sospirata, capì che il momento era giunto, che la guerra a fondo contro l’Egitto e contro Antonio gli sarebbe fonte di grandissima gloria; e non esitò a immolare l’uno e l’altro. Sul cadere dell’anno, dopo avere conosciuto questo grande rivolgimento della pubblica opinione d’Italia, andò in Asia dove pensava di passar l’inverno a preparare la conquista dell’Egitto.

La potenza di Antonio rassomigliava a un superbo edificio, che un terremoto improvviso abbia spaccato di larghe fenditure. Ma l’edificio non era ancora caduto. Antonio aveva undici legioni, una flotta, un tesoro, degli amici, delle speranze, sopratutto del tempo.

Se Antonio avesse potuto operare con il vigore mostrato dopo la sconfitta di Modena, si sarebbe forse ancora tratto a salvamento. Ma in Alessandria tutti, Cleopatra, i funzionari della corte, i liberti, gli amici romani, gli ufficiali delle legioni, erano pieni di spavento, incerti, irrequieti, poco sicuri, volubili. Apparivano ora, nella sventura, gli effetti funesti di quelle contradizioni, in cui Antonio si era così spensieratamente avventurato negli anni della fortuna; nelle cose incominciava la reazione alla violenza da lui usata così audacemente alla ragione logica delle cose. Egli si trovava a non avere più sui soldati, sugli ufficiali, sulla corte nè il prestigio di un proconsole romano nè l’autorità di un re egiziano; ad essere un personaggio incerto, che aggiungendo a questa debolezza l’infiacchimento dell’età e dei vizi, non poteva agire che incertamente. Erode era corso ad Alessandria, aveva parlato a lungo con Antonio e gli aveva dato un consiglio atroce ma eccellente: uccidere Cleopatra, annettere all’impero di Roma l’Egitto, sbugiardare i nemici i quali l’accusavano di tradire la repubblica per la regina egiziana: allora, l’ammirazione dell’Italia rinascerebbe, Ottaviano sarebbe costretto a sospendere la guerra e ad accordarsi con lui1270. Ma Antonio non ebbe il cuore di seguire questo consiglio, restò fedele a Cleopatra, e d’accordo con lei pensò di difendere l’Egitto; senza però appigliarsi a nessun piano definitivo, confusamente, come si poteva in una corte governata da una donna intelligente ma eccitabilissima, da un uomo ormai tanto indebolito; facendo oggi una cosa e domani la cosa contraria; immaginando i più stravaganti disegni; generando il più grande disordine e diffondendo così dintorno la sfiducia, anche in coloro che ancora credevano in Antonio e Cleopatra. Alla fine tutti incominciavano a vedere la stranezza di quella coppia. Erano re e regina? Marito e moglie? Per indebolire l’opposizione rianimata dalla sventura e arricchire il tesoro di guerra, essi fecero uccidere i personaggi più ricchi e più avversi a Cleopatra; spogliarono i templi più doviziosi e ne portarono l’oro e l’argento nella reggia; dichiararono maggiorenni Cesarione e Antillo, il figlio di Antonio e di Fulvia, per indicarli come i re, e rinfocolare il sentimento dinastico del popolo egiziano, che si disperava di riscaldare per Antonio e Cleopatra; incominciarono a costruire navi in Alessandria e nel Mar Rosso, per prepararsi a fuggire con i tesori, chi diceva in India e chi in Spagna; ordinarono arruolamenti per varie regioni e mandarono ambascerie a re e a sovrani, per riconfermare le antiche alleanze1271. Ma non si risolvettero a raccogliere in Egitto tutte le forze, le quattro legioni di Cirene e le tre di Siria, che furono lasciate là dove erano per timore che anche quei paesi passassero al nemico, e che svanisse così l’ultima apparenza del grande impero egiziano, a cui Cleopatra non sapeva rinunciare....

[30 a. C.] Così l’inverno dal 31 al 30 sopraggiunse a interrompere la navigazione, senza che la guerra tra l’Egitto e Roma fosse incominciata. Era tra i consoli scelti per questo anno Marco Licinio Crasso, il figlio del triumviro. Ad Alessandria incominciò, come al solito, un gran tripudio di feste, Cleopatra e la corte volendo ostentare a questo modo sicurezza e tranquillare il popolo1272. Ma lo scoraggiamento era profondo e si faceva in tutti maggiore, quanto più Cleopatra si affaccendava febrilmente, accrescendo con la sua faragginosa alacrità la confusione; e ne erano prova perfino le lugubri facezie della frivola gioventù della corte, che, quasi sentendo passare in mezzo alle feste un presentimento di rovina imminente, aveva mutato il nome della Società degli Inimitabili in quello dei Morituri in compagnia1273. Anche Antonio ondeggiava tra accessi di fervore operoso, in cui attendeva a feste ad armi a brighe, e prostrazioni neghittose, in cui si appartava in luoghi solitari abbandonando ogni cura1274. Ottaviano intanto, tra Samo e le città asiatiche della costa1275, continuava i giudizi dei prigionieri, assestava le faccende dell’Asia, come di provincie ormai sue, preparava la guerra all’Egitto, per dare soddisfazione all’Itafia. Caio Sossio fu perdonato, per l’intercessione di Lucio Arrunzio1276; Aminta e Archelao ricevettero la ricompensa meritata passando a tempo al vincitore; ma gli altri principotti che avevano parteggiato per Antonio furono tutti spodestati.1277 L’Italia li considerava come rei di lesa romanità; e dovevano essere puniti. Ma tra queste deliberazioni ecco giungere in Asia, poco dopo il 1° gennaio del 30, una piccola nave che aveva osato varcare il mare in quei mesi di inverno, quando i marinai solevano ridursi tutti intorno al fuoco domestico nelle piccole case delle piccole città marinare. Quale urgenza sollecitava così la nave attraverso il mare tempestoso e deserto? Essa portava lettere di Agrippa e di Mecenate, nelle quali si annunciava che i soldati congedati senza ricompensa empivano di tumulti l’Italia e minacciavano i più gravi disordini, se non erano trattati come i commilitoni dei precedenti congedi; che neppure Agrippa era riuscito a calmarli; che era perciò necessario il pronto ritorno di Ottaviano in persona1278. Fu questo, senza dubbio, l’ultimo grande spavento di Ottaviano. Il pericolo era gravissimo: se Antonio conoscesse questa notizia ripiglierebbe animo, manderebbe in Italia agenti ad arruolare i veterani disperati, tenterebbe chi sa quale audacia. E lo spavento fu così grande che, spedita innanzi una nave con una lettera in cui ordinava di far venire il maggior numero di veterani a Brindisi, Ottaviano si imbarcò subito, affrontò il viaggio invernale, considerato allora come una delle imprese più temerarie; e pericolando un paio di volte di naufragare, arrivò verso la fine di gennaio1279 a Brindisi, dove lo aspettavano innumerevoli senatori, cavalieri, postulanti, venuti da ogni parte a fargli omaggio e a disturbarlo nelle sue trattative1280, di per sè già molto difficili. Egli si persuase senza indugio che bisognava cedere e dare terre e denari ai veterani: ma quali terre e quali denari, se non aveva nè le une nè gli altri? Ricorrere a nuove confische egli non voleva e non poteva, ora che intorno a lui anche tanti rivoluzionari, satollatisi, erano diventati conservatori amanti dell’ordine. E bisognava far presto, definire la questione, ritornare in Asia prima che con le navi riprendessero a circolare le notizie, affinchè quando Antonio conoscesse questo tumulto, il tumulto già fosse quetato.... Egli promise denari a tutti e dispose di comprare dai municipi gran parte delle loro proprietà, quelli che oggi si chiamerebbero i demani comunali; di togliere alle città che non avevano preso parte alla conjuratio – quelle cioè nei cui territori erano stati dedotti molti soldati di Antonio – le terre, dando in cambio ai possidenti spogliati terre in città mezzo abbandonate fuori d’Italia, come Durazzo e Filippi. Ma tutte queste somme sarebbero pagate e queste promesse mantenute.... dopo la conquista dell’Egitto e con i tesori di Cleopatra. Per incoraggiare gli Italiani alla pazienza, egli distribuì qualche anticipazione, spremendo sè stesso e gli amici; e mise in vendita le sue terre di Italia e quelle dei suoi amici, che del resto nessuno si presentò a comprare1281.

Poi ripartì alla fine di febbraio alla volta dell’Asia; e per fare presto, invece di circumnaviare la Grecia, fece portare le navi attraverso l’istmo di Corinto su carri1282. Riusci così a ritornare in Asia poco dopo la riapertura della navigazione e a tempo, affinchè Antonio potesse trarre poco o nessun profitto da queste notizie, che gli giunsero tutte insieme o a breve distanza1283. E subito sì accinse all’impresa di Egitto, così risoluto quanto l’avversario era incerto, perchè ormai lo sospingeva diritto al suo scopo l’opinione dell’Italia, il suo desiderio di conquistare il favore pubblico, la necessità. La conquista dell’Egitto era ormai necessaria, ancora più che per considerazioni politiche, per considerazioni finanziarie; perchè era il solo modo di impedire il tremendo fallimento di Ottaviano e del suo partito, che avrebbe tratto con sè il fallimento della repubblica e di mezza Italia. Ai tanti debiti già contratti si era aggiunto il nuovo debito con le città d’Italia cui gli agenti di Ottaviano prendevano le terre promettendo di pagarle; l’impegno con i numerosi veterani che si acconciavano a ritornare alle case loro a mani vuote, ma facendo sicuro assegnamento sulle somme promesse da Ottaviano. In simili condizioni, se Antonio, già vinto a metà, si ostinava a difendere Cleopatra, l’Egitto e i suoi tesori contro il generale che si avvicinava per pagare con quelli ancora una volta i debiti dell’Italia, era sicuramente perduto. Anche per questa ragione il consiglio di Erode era buono. Ma tanto maggiormente Ottaviano doveva essere inquieto, per le diverse dicerie che correvano nella primavera del 30: Cleopatra voleva trafugare nel Mar Rosso i suoi tesori; li aveva raccolti nella grande tomba erettasi presso il tempio di Iside per bruciar tutto, se la città era presa1284. Aveva ordinato a Cornelio Gallo di marciare contro Cirene, ed egli si avviava contro la Siria: ma vincere non bastava; occorreva non perdere la preda della vittoria, cómpito forse più difficile del vincere Antonio, che tra le continue oscillazioni della corte di Alessandria non riusciva a operare con vigore e coerenza. In Africa, abbandonate a loro stesse senza fiducia e senza un vigoroso comando, le quattro legioni di Cirene si arresero senza combattere; cosicchè Cornelio Gallo, aggiuntele alle sue, potè muovere su Paretonio e prenderlo1285. In Asia Erode, oramai sfiduciato della causa di Antonio per la ostinazione di costui a non abbandonare Cleopatra, venne incontro a Ottaviano in Rodi; e con bei discorsi, con grandi doni di denaro, con l’offerta di aiuti e di vettovaglie per la prossima guerra, riuscì a conservare il regno1286. Anche la Siria cadde facilmente in potere di Ottaviano, perchè il governatore Didio passò ai suoi servizi e si accinse a mostrargli il suo zelo, persuadendo gli Arabi a bruciare la flotta che Cleopatra faceva fabbricare nel Mar Rosso per trafugare i tesori1287. Nel tempo stesso però incominciavano strane trattative. Antonio all’annunzio del tradimento dell’esercito di Cirene aveva voluto uccidersi; ma poi, ripreso animo, si era disposto ad andare a Paretonio per cercare di ricondurre alla fedeltà i soldati, e aveva mandato delle ambascerie a Ottaviano a proporgli la pace e a offrirgli dei doni, per guadagnare tempo, finchè potesse tornare ad Alessandria1288. Altre ambasciate consimili mandò pure Cleopatra. Ma Ottaviano, invece di rispondere chiaramente, inviò un suo liberto, Tirso, con l’incarico di far capire a Cleopatra che egli era innamorato di lei e che sarebbe disposto a lasciarle l’Egitto, se ella acconsentisse ad uccidere Antonio1289. Non ostante il furore dell’Italia, Antonio non era uno dei tanti senatori dozzinali, che ogni giorno erano dati a sgozzare ai soldati: se Antonio avesse potuto sparire come Pompeo, senza che egli fosse l’autore della sua morte, sarebbe stato molto meglio anche per lui! Riuscendo a ingannare Cleopatra, egli si liberava di Antonio senza odio, avrebbe trovati intatti ad Alessandria i tesori dell’Egitto e potuto anche atteggiarsi a vendicator di Antonio, facendo poi uccidere pel suo delitto Cleopatra. Andavano e venivano così i messi furtivi e le ambascerie dissimulate; e mentre Antonio combatteva con poca fortuna a Paretonio senza riuscire a guadagnare i soldati, anzi perdendo una parte delle navi, Cleopatra prestò orecchio alle perfide menzogne di Ottaviano; incominciò, vedendo il suo impero precipitare in rovina, a illudersi di conservare almeno l’Egitto, tradendo Antonio per Ottaviano. La sorte di Antonio era ormai decisa. Ritornando da Paretonio, egli sospettò per più segni il mutamento di Cleopatra; ma la scaltra regina seppe addormentare i sospetti del semplice romano. Di lì a poco però Ottaviano essendo giunto a Pelusio, la città cadde in suo potere senza quasi opporre resistenza. Antonio tornò a sospettare che Cleopatra avesse dato ordine di consegnarlo al nemico; di nuovo Cleopatra trovò modo di rasserenarlo1290; cosicchè, Ottaviano avvicinandosi, egli si accinse con ardore a difendere Alessandria, aiutato in apparenza da Cleopatra, che emanò un gran numero di editti calorosi. Gli episodi e la storia della difesa sono raccontati molto confusamente dagli antichi scrittori; ma questo solo è sicuro, che il 1° agosto doveva aver luogo una grande battaglia intorno ad Alessandria; che al momento supremo le milizie e la armata di Antonio tradirono, a quanto sembra per segreto ordine di Cleopatra; che la regina, temendo la ira del tradito, fuggì nella sua tomba; e che Antonio, considerando la sua causa perduta, si uccise. Quel giorno stesso Ottaviano entrava in Alessandria accompagnato dal suo maestro Didimo Areo, che era alessandrino1291. All’ultima vittoria seguì ancora un macello, l’ultimo, grazie al cielo, di questa sanguinosissima storia! Furono uccisi dal vincitore Cesarione, Antillo, il figlio maggiore di Antonio e di Fulvia, che era troppo adulto e aveva gustato gli onori reali; fu ucciso Canidio, che conosceva il segreto della vittoria di Azio; Cassio Parmense, l’ultimo dei congiurati ancora vivo; e Q. Ovinio, il senatore che aveva accettato l’ufficio di capo delle tessiture reali ad Alessandria1292.

Così morì l’ultimo e il più celebre dei generali di Cesare. La posterità, sempre spietata con i vinti, l’ha giudicato troppo severamente. Marco Antonio ebbe molti difetti e commise molti errori; ma deve essere giudicato come il vero continuatore ed erede di Cesare. Egli ne conobbe gli ultimi pensieri, ne possedè le carte più importanti, tentò di applicare i disegni ideati dal dittatore nell’estrema parte della vita, spingendo Roma verso l’Oriente e la civiltà asiatica, tentando di adoperare le forze dell’Italia alla fondazione di una grande monarchia, simile a quelle dei successori di Alessandro. Che con il suo temperamento ineguale e sensuale, con il suo spirito potente ma inconseguente, con la inconcludenza geniale che isteriliva quasi ogni suo atto, egli abbia sciupato in parte il programma di Cesare, è indubitabile. Ma non può considerarsi effetto di un accidente che il tentativo orientale e monarchico, due volte intrapreso, sia due volte fallito e con Cesare e con Antonio. Se Antonio non era un uomo di così vasta mente come Cesare, ebbe anche a vincere ostacoli minori; non si trovò più di fronte una aristocrazia repubblicana potente e tenace nelle sue idee, ma un mondo politico oscuro, senza autorità, docile a subire il potere di chi comandava, incapace del sacrificio con cui dalle idi di marzo a Filippi il fiore di Roma sparse il suo sangue per la idea repubblicana. Nemmeno lo spavento della dominazione egiziana, agitato da Ottaviano, aveva commosso l’Italia, cosicchè ad Azio il suo nemico vinse quasi senza combattere. Non dunque soltanto dagli errori, dalle sventure, dalle debolezze degli uomini che tentarono questa rivoluzione procede la rovina di Cesare e di Antonio; ma anche dalla immaturità del tentativo, dagli impedimenti che ancora esistevano: così numerosi, che non potevano essere vinti in pochi anni dalla forza di un uomo; così oscuri che non potevano essere scoperti neppure da un uomo di genio, nel tumulto confuso degli eventi, prima che la necessità persuadesse tutti con la prova e la riprova dei fatti. Così la roccia su cui Antonio aveva voluto poggiare la leva per rovesciare le antiche istituzioni latine, il regno di Egitto, si sfasciò come un blocco di creta friabile. Da principio Cleopatra trattò dal suo ricovero, per ottenere migliori condizioni, minacciando di bruciare i tesori. Ma Ottaviano riuscì a farla ritornare nel palazzo reale togliendole tutti i mezzi di nuocersi, e ve la fece custodire quasi come prigioniera, tenendola a bada con discorsi ambigui, per imbarcarla d’improvviso e portarla a Roma al trionfo. Cleopatra però diffidava; e se si acconciò a vivere finchè conservò la speranza di salvare qualche parte del suo potere, quando invece fu persuasa che il vincitore la destinava al trionfo, fu più scaltra dei suoi carcerieri. Un giorno il liberto incaricato di sorvegliarla ricevè da lei una lettera destinata ad Ottaviano, – una delle tante lettere che essa gli scriveva, pensò il servo avviandosi. Ma quando Ottaviano, letta la lettera, corse in gran fretta a salvare la sua preda, che le annunciava di uccidersi, la trovò sul letto adorna della sua più bella veste di regina, addormentata per sempre, tra uno schiavo già spirato e uno schiavo agonizzante. Non si seppe mai come si fosse uccisa. Facendosi mordere il braccio da serpentelli velenosi, mandati a lei in un paniere di frutta, si narrò; e fu la versione più creduta1293.

Anche l’ultimo avanzo dell’impero di Alessandro, il regno antico e glorioso dei Tolomei, era caduto. Dopo Pergamo, dopo Antiochia, Alessandria. La politica mondiale romana, incominciata al finire della seconda guerra punica, aveva riportato il suo ultimo grande trionfo: dopo centosettanta anni nell’anello mediterraneo era incastonata la gemma egiziana. Il paese non fu maltrattato; anzi il vincitore ebbe riguardo all’orgoglio nazionale e alla secolare tradizione dinastica, ancora così viva nel popolo; e non ridusse la terra dei Faraoni a provincia romana. Imitando in misura più ragionevole la politica di Antonio, mentre diceva a Roma di aver conquistato l’Egitto per lei, finse di essere egli il nuovo re dell’Egitto, successore della dinastia estinta; e pose a governarlo non un propretore o un proconsole, ma un rappresentante suo, il praefectus – il primo fu Cornelio Gallo – che rassomigliava molto più a un governatore asiatico che a un proconsole romano1294. Ma tutti i cittadini dovettero pagare una imposta eguale al sesto dei loro beni; altre somme furono estorte con diversi pretesti ai ricchi; l’immenso tesoro dei Lagidi, l’infinita collezione di oggetti d’oro e d’argento finamente lavorati e cesellati, tutto il museo fabbricato in due secoli dagli innumerevoli Cellini dell’Oriente fu brutalmente gettato nelle fornaci della zecca, fuso e coniato1295. Troppa fame d’oro dopo i lunghi digiuni avevano gli ufficiali che furono subito ricompensati con grandi somme, i soldati che furono finalmente pagati, l’Italia che aspettava una pioggia d’oro sulla lunga siccità!1296

Nunc est bibendum, nunc pede libero
Pulsanda tellus....

cantò lieto Orazio, ormai pienamente convertito all’ammirazione di Ottaviano, ripetendo a gloria del vincitore la favola delle ambizioni di Cleopatra, descrivendo la regina che

Capitolio

.... dementes ruinas

Funus et imperio parabat
Contaminato cum grege turpium
Morbo virorum....

Se non l’impero e Roma, almeno la sua villetta sabina era stata salvata dalla battaglia di Azio, onde egli d’ora innanzi potrebbe scrivere in pace le sue odi e le sue epistole: se non le catene egiziane di cui nessuno la aveva minacciata mai, il fallimento fu risparmiato all’Italia. Perciò un diluvio di onori si rovesciò sul capo del fortunato vincitore: il giorno della sua nascita e quello della presa di Alessandria furono dichiarati festivi; un altro trionfo gli fu decretato; furono convalidati con giuramento tutti gli atti da lui compiuti sino a quel tempo; gli fu concessa la facoltà di giudicare in appello tutte le cause e di risolvere con il suo voto quelle in cui i suffragi si bilanciassero; gli furono concessi altri privilegi di tribuno ma non è ben chiaro quali; si deliberò che le trentacinque tribù gli offrirebbero ciascuna mille libbre di oro!1297 Uno strano fervore agitava l’Italia; il passato di Ottaviano cadeva in oblio; il figlio di Cesare era l’oggetto dell’ammirazione di tutte le classi. La vittoria di Azio e la conquista dell’Egitto parevano il principio di una grande ripresa della politica conquistatrice; si sperava che ora, finite le guerre civili, Roma vendicherebbe gli insulti e le umiliazioni subite negli ultimi anni, farebbe di nuovo tremare il mondo! E intanto nel mese di settembre assumeva il consolato il figlio di Cicerone: atto di riconciliazione, con cui probabilmente Ottaviano intendeva rendere omaggio al divulgatore delle nuove idee conservatrici verso cui egli inclinava. La vittoria ingrandiva smisuratamente la persona, prima così detestata, di Ottaviano, come già le persone di Silla e di Cesare, in questa vecchia e degenerata repubblica aristocratica, in cui il mercantilismo e la democrazia avevano distrutto l’antico equilibrio oligarchico tra i membri della classe dominatrice. Chi osava più opporsi all’uomo riconosciuto come capo di tutte le milizie, che disponeva dei tesori di Cleopatra; all’arbitro supremo dei due metalli che governavano il mondo, l’oro ed il ferro? Di questa popolarità e di questa potenza, per la quale gli era lecito allora fare tutto quello che voleva, Ottaviano approfittò per rendersi, con un’ardita usurpazione, l’uomo più ricco del mondo, pigliandosi tutto il patrimonio privato dei re dell’Egitto. Si componeva questo di un infinito numero di campi coltivati, di palmizi, di acque da pesca, di miniere e dei redditi di alcune tasse sulla religione. Il nipote dell’usuraio di Velletri fece sua la immensa fortuna dei Lagidi; su quella largì grandi doni ai suoi amici – Mecenate si ebbe una grande tenuta – conservò in Egitto l’amministratore regio dei demani, l’Idiologos, ne fece l’amministratore dei beni ormai suoi, accanto al governatore, con l’incarico di mandargli ogni anno a Roma i fitti dei campi, delle case, delle miniere, il denaro delle tasse sacre, tutte le rendite insomma del patrimonio reale, che negli ultimi tempi della monarchia egiziana, non ostante il disordine e la decadenza in cui era l’Egitto, sommavano ancora a seimila talenti, ossia a circa venticinque milioni di franchi1298. Poi si rivolse al ritorno per la stessa via per cui era venuto, dappertutto ordinando, disponendo, ricevendo omaggi, come il vero sovrano dell’impero. Pose Artaserse, già re della Media Atropatene, nella piccola Armenia, diede ad Erode la Samaria, la costa siriaca dai confini dell’Egitto a Tiro, riconobbe Cleone come principe di Comana nel Ponto; accolse amichevolmente Tiridate, che pretendeva al trono dei Parti: quasi per mostrare all’Italia che egli intendeva compiere l’impresa fallita ad Antonio1299. Ripose inoltre nei templi dell’Oriente molti ornamenti presi da Antonio e da Cleopatra1300; e avendo domandato alcune città, come Nicomedia e Pergamo, di costruire a lui dei templi come agli antichi sovrani, acconsentì, a condizione che i templi fossero dedicati insieme a lui ed a Roma1301.

[29 a. C.] Tra queste faccende e questi omaggi Ottaviano terminò l’anno 30 e incominciò l’anno 29 in Oriente, per volgersi a primavera al ritorno in Italia. Sul finire del 30 il figlio di Lepido aveva tentato pazzamente una rivolta in Italia; ma fu facile a Mecenate di reprimerla1302. L’Italia ormai ammirava con troppo ardore colui che tornava, guidando tante navi cariche della moneta coniata con la supellettile di Cleopatra! Difatti nuovi onori erano a ogni momento decretati: che il suo nome fosse iscritto nel carme saliare, che le sacerdotesse pregassero anche per lui nelle preghiere pubbliche, che in tutti i banchetti, pubblici e privati, si facessero libazioni in suo onore1303. Ed egli finalmente arrivò in Italia, accolto dal favore universale; si fermò qualche tempo, per curarsi una laringite buscatasi probabilmente nella guerra, ad Atella, dove gli venne incontro Virgilio, e in quattro giorni consecutivi gli lesse le Georgiche allora finite1304, gli manifestò il desiderio di cantare in un poema le sue imprese1305. Solennissimi furono i trionfi consecutivi che furon celebrati, alla fine, il 13, il 14, il 15 agosto del 291306; grandi e solenni le feste, con cui nella seconda metà di agosto si dedicarono i monumenti che simboleggiavano la definitiva vittoria di Cesare in mezzo a tante guerre civili: il tempio del divo Giulio il 18 agosto1307 poi la Curia Julia, con il sacrario di Minerva; l’ara Victoriae nella curia Julia1308. Tutta l’Italia era beata e abbagliata; e a quest’ultimo, fortunato superstite di tanti grandi emuli che avevano combattuto per la signoria dell’impero, sembrava toccar definitivamente l’eredità di Alessandro e di Roma; nella smisurata grandezza sua e dei pochi amici di lui pareva terminare lo sforzo di due secoli di guerre e conquiste, nel mondo devastato, afflitto, scorato....

XXIII.
LA RESTAURAZIONE DELLA REPUBBLICA.

E invece Ottaviano pensava di ritirarsi a vita privata; di imitare non l’esempio di Cesare ma quello di Silla1309.

Se Ottaviano fosse stato, come Cesare e come Alessandro, un veemente uomo di guerra e di azione, si sarebbe allora infervorato a nuove e maggiori ambizioni, invece di contentarsi del potere, della gloria, della grandezza già conquistate. Ma egli era un uomo di temperamento debole e poco appassionato, un “intellettuale” più simile a Bruto e a Cicerone che a Cesare, che valeva per la potenza della mente profonda, tenace, lucidissima, e non per il vigore della volontà; uno studioso diligente e un sagace amministratore più che un conquistatore e un monarca. Egli era così malandato in salute, da non poter sostenere nemmeno la fatica delle feste con cui si celebravano le sue vittorie e da cascare ammalato in mezzo a quelle a più riprese1310; era sazio di ricchezze, di gloria, di potere, e desideroso solo di pace, di riposo, di tranquillità per rifare la salute rovinata dagli strapazzi, dalla interminabile attesa, dal carco dei tremendi pensieri. Dopo tante fatiche e perigli, scampato da una delle più tremende bufere, egli aveva paura del governo del mondo, non si sentiva nè il vigore del corpo nè la ferma fiducia nè il fervore ambizioso necessari ad assumerlo. Gli storici contemporanei possono affermare che nelle acque di Azio finì l’ultima guerra civile; ma Ottaviano, che non era un profeta, non poteva confortarsi nel medesimo pensiero con eguale sicurezza, negli ultimi mesi dell’anno 29 e nel 28 a. C, mentre si accingeva a profondere i tesori di Cleopatra. Certo con queste profusioni egli salvava l’Italia dal fallimento che l’aveva minacciata per tanto tempo: annullava tutti i crediti dello Stato e quindi non solo gli arretrati delle imposte, ma anche i crediti privati dei cavalieri proscritti nel 43, che lo Stato aveva confiscati, dando infine valore legale alla mezza abolizione dei debiti già avvenuta di fatto; estingueva tutti i debiti suoi e della repubblica1311; pagava ai municipii le terre comprate l’anno innanzi distribuendo loro in denaro sonante una somma forse maggiore di 300 milioni di sesterzi1312; distribuiva a tutti i plebei – più di 250 000 – 400 sesterzi a testa e quindi altri 100 milioni1313; altri 120 milioni di sesterzi – 1000 a testa – divideva tra i suoi 120 000 veterani da lui dedotti in colonie1314: i 6 o 7000 veterani di Cesare congedati dopo Filippi, i 20 000 legionari rimandati a casa dopo la guerra di Sicilia; i 90 000 uomini circa delle 37 legioni, sue o di Antonio, che aveva congedate da poco e a cui stava dando terre. Egli aveva infatti ridotto a 23 legioni tutto l’esercito dell’impero1315. Dopo tanta scarsità, il denaro riprendeva finalmente a circolare, l’interesse rinviliva1316. Ma restaurare un discreto governo in mezzo alle rovine ancora fumanti della rivoluzione, era impresa molto più difficile che assestare la fortuna della nazione. Se a questo scopo bastava una preda vistosa, non bastava a quello la volontà di uno o di pochi uomini. Si giudica male – a mio credere – la riforma augustea allorchè si dice che il mondo antico si trovava dinanzi l’alternativa o del governo repubblicano o del governo di un solo. Troppo è facile fraintendere, quando si parla del governo di un solo, che è impossibile così con la repubblica come con la monarchia; perchè neppure un nuovo Ercole o Atlante avrebbe potuto reggere da solo e senza collaboratori un così vasto impero. Meglio è dunque dire che l’alternativa pendeva sul numero, sulla qualità, sulla scelta, sull’ordinamento dei collaboratori necessari al governo. Doveva l’impero essere governato, come le monarchie asiatiche dei successori di Alessandro, da una burocrazia reclutata dal capo dello Stato a suo piacere, in tutte le classi sociali e in tutte le nazioni, dipendente da lui, priva del diritto di opporsi legalmente al suo capo? Oppure doveva l’impero essere ancora governato dai magistrati repubblicani, scelti dai comizi e dal Senato, solo tra i cittadini romani che nell’impero formavano una piccola aristocrazia, secondo le norme di successione e di tempo determinate dalle antiche leggi? si doveva tentare una contaminazione, una miscela dei due sistemi? Il governo monarchico avrebbe essenzialmente significato la usurpazione totale o parziale, compiuta da una famiglia, del diritto di designare i magistrati e di determinare le regole del governo, che la tradizione repubblicana attribuiva alle famiglie cospicue della aristocrazia senatoria, alla turba più numerosa dei cavalieri e del medio ceto votante nei comizi. Giulio Cesare aveva infatti tentato negli ultimi tempi di fondare un principio di burocrazia cosmopolita mettendo in molte cariche servi e liberti suoi; di servi e liberti si erano largamente serviti i triumviri e Sesto Pompeo durante le guerre civili, nel disordine di quell’universale arraffa arraffa: ma si potrebbe ora, per fare loro maggior posto, distruggere una parte delle istituzioni, tradizioni e consuetudine latine?

[28 a. C.] Il debole governo triumvirale aveva dovuto nei momenti critici popolarizzare la repubblica, aumentando a dismisura il numero dei senatori e dei magistrati, distribuendo gli onori della nobiltà romana tra la folla oscura del ceto medio di tutta Italia: cosicchè, se era sparita la aristocrazia che aveva ucciso Cesare per la sua inclinazione ai servi e ai liberti orientali, si era formata una nuova oligarchia di senatori, di cavalieri, di antichi questori, pretori, consoli, molto più scadente ma anche molto più numerosa, che non intendeva per nulla rinunciare ai privilegi e ai diritti del rango; si eran diffuse in tutto il ceto medio dell’Italia, per l’esempio della fortuna di costoro, le speranze di nobilitare un dì la propria famiglia a quel modo. Certamente questa oligarchia raccogliticcia, in gran parte composta di persone oscure, ignoranti, senza prestigio, non molto ricche, ambiva le funzioni pubbliche, non per esercitarle signorilmente a beneficio del popolo, ma per arricchirsi! L’egoismo era cresciuto in tutte le sue forme negli ultimi venti anni, dal celibato all’orrore della milizia, alla noia dei carichi pubblici non remunerati; le persone disposte a faticare gratuitamente per lo Stato erano poche; l’edilità, la magistratura nella quale si poteva solo spendere senza nulla lucrare, restava abbandonata e deserta da tutti1317. Ma se la attitudine a ben governare era scarsa, grande, vivo, tenace era il desiderio di conservare così gli onori come i lucri del potere; e la crescente diffusione del nazionalismo conservatore, quella disposizione ad ammirare l’antica Roma, a ritornare ai piccoli principî del grande impero, era effetto in parte anche di questa ambizione delle classi agiate dell’Italia di conservare per sè il monopolio del governo. Quel nazionalismo dilagava ora dappertutto, come un torrente in piena che ha rotto gli argini, rinfocolato da una nuova esaltazione di imperialismo. Ottaviano stesso aveva riscaldato questo sentimento durante le lotte contro Antonio; e ora molti, che non avevano nessuna intenzione di vivere come Cincinnato o di morire come Decio Mure, si esaltavano per la grandezza di Roma, celebravano la conquista dell’Egitto, volevano il castigo di tutti i popoli che negli ultimi anni si erano ribellati, ammiravano la virtù e la saggezza dei vecchi, intravedendo, con quella vaga intuizione del proprio vantaggio così viva nelle classi sociali, che più fosse ammirato e temuto il popolo italico, migliore sarebbe la condizione di ogni italiano nell’impero; che più fosse ammirato il passato di Roma e più sarebbe difficile scemare i diritti della oligarchia italica al governo della repubblica. L’ammirazione per la vecchia repubblica, per le sue istituzioni, i suoi costumi, le sue virtù dilagava in tutte le classi; ne erano imbevuti gli amici di Ottaviano, i parvenus della rivoluzione, gli uomini di pensiero, la letteratura, indice del pubblico sentimento. Virgilio, finite le Georgiche, ritornava, per una specie di ravvedimento letterario, alla idea giovanile di comporre un gran poema nazionale al modo di Ennio, ma adoperando il suo stile raffinato in tanti anni di libertinaggio con le poco austere ed elegantissime Muse della Grecia. Il giovane padovano Tito Livio già preparava i materiali per la sua storia di Roma, che doveva essere un grande inno al passato, per la forma e per lo spirito: per la forma, perchè dalla rivoluzione letteraria di Sallustio il nuovo storico ritornerebbe all’annalistica tradizionale, ma vivificandola con le grazie e le luci di un’arte potente; per la sostanza, perchè idealizzerebbe l’antico governo aristocratico, la antica diplomazia, la antica saggezza, rivendicando senza paura la memoria dei vinti nella grande contesa, e dando perfino un severo giudizio di Cesare1318. Ma più importanti ancora come segno dei tempi erano le nuove composizioni poetiche a cui dava mano Orazio. Questo grandissimo stilista non era un lirico, ma un critico. Aveva molto maggiore impeto lirico di lui Cicerone. Non si lasciava quindi ingannare da questa contagiosa smania di ritornare a parole ai piccoli principî del grande impero; ne vedeva tutte le contradizioni, le falsità, le menzogne; intravedeva anche quale interesse si nascondeva in questa moda idilliaca. Così, sebbene nel secondo libro delle Satire si fosse dato anche egli a propagare la nuova morale, qualche volta si interrompeva a mezzo della sua propaganda come per canzonare sè stesso: e nel secondo degli Epodi aveva descritto l’usuraio Alfio che recita una grande lode della vita rustica, ma alla fine.... corre a strangolare i suoi debitori; e nella settima satira del secondo libro quasi si era divertito a distruggere le precedenti, facendosi deridere nelle feste dei Saturnali dal suo schiavo. “Tu celebri gli antichi tempi, ma se poi ci dovessi vivere, saresti disperato.... Tu lodi la campagna; e quando ci sei, non vedi l’ora di tornare in città.... Dici che non vuoi noie di inviti e di cerimonie; e se devi andare a cena da Mecenate, che smanie, che grida, che improperi! Su, presto, l’olio; spicciatevi, poltroni, che fate?” Eppure anche questo critico, scuotendosi dalla consueta pigrizia a una maggiore alacrità, incominciava allora a scrivere un seguito di odi eroiche e civili, in cui, con una ricca varietà di metri greci non ancora usati in latino, verseggiava la grandezza degli antichi tempi, la necessità della riforma morale, la comune aspirazione a ritornare ai piccoli principî del grande impero, la speranza di nuova gloria guerresca e militare. La forma è meravigliosa per la pittoresca potenza della sua concisione; l’ispirazione fredda; soverchia e troppo pesante la erudizione storica e mitologica; poco spontanei i voli pindarici: ma le poesie sono un importante documento dei pubblici sentimenti. In questi tempi pare sia stata scritta l’ode XXIV del terzo libro, in cui il poeta lamenta i malanni della civiltà, idealizza la vita barbara, dice che non finiranno le guerre civili finchè non si guarisca la corruzione dei costumi, non si spenga la sordida cupidigia nei cuori, non si rifaccia con una educazione virile l’infrollita generazione dei giovani, che sanno giuocare a dadi e non sanno andare a cavallo; incita infine chi voglia esser chiamato padre dei popoli – allusione a Ottaviano – a frenare la licenza universale. Qualche volta questo grande problema si rimpicciolisce a un caso personale, come nell’ode XXXI del primo libro, in cui Orazio si compiace di vivere semplicemente e sobriamente, nutrendosi di olive, di cicorie, di malve; ma nell’ode XV del secondo libro di nuovo egli torna a lamentare il grande lusso universale, a rammaricare i tempi in cui i privati erano poveri e ricco lo stato, in cui i cittadini vivevano in capanne e i templi erano sontuosi, non cadevano in rovina, come allora in ogni parte di Roma. E le stesse idee ripete in forma diversa nell’ode XVIII.

Aveva Ottaviano, dopo gli scandali, gli insuccessi, i disastri, il lungo e inconcludente disordine del triumvirato, l’autorità e il potere necessari a contrastare a tanti interessi e a un sentimento così diffuso, quando non ne era bastata la forza a Cesare dopo la conquista della Gallia e dopo la tempestosa guerra civile? No. La sua condizione era delle più singolari. Certamente con la battaglia di Azio e la conquista dell’Egitto Ottaviano si era meritata molta ammirazione e aveva fatto dimenticare il suo brutto passato: ma non aveva nè il prestigio terribile di Silla presso i conservatori dopo il ritorno dall’Asia nè quello di Cesare presso il popolo dopo Farsaglia; e non poteva illudersi che la conquista, fruttuosa ma facile, dell’Egitto fosse compenso adeguato agli infiniti mali di cui, se non egli personalmente, il partito che aveva capitanato e il governo triumvirale erano stati cagione all’Italia. Un uomo più immaginoso e imprudente avrebbe potuto illudersi, non egli. Del resto l’esempio di Antonio, precipitato a un tratto da così solida fortuna in tanta rovina, per aver offeso gli interessi e i pregiudizî della oligarchia italica, doveva incutergli uno straordinario terrore. Sì, egli era allora portato alle stelle come Antonio qualche anno innanzi, e avrebbe potuto farsi attribuire anche il potere assoluto: ma per questo appunto egli si sentiva tanto più obbligato a mantenere la promessa tante volte fatta, e così solennemente negli ultimi anni, di restaurare la repubblica. Certo lì per lì l’Italia avrebbe tollerato in pace che egli dimenticasse la sua promessa; ma l’esempio di Antonio ammoniva: se poi egli fosse colpito da qualche sventura – e le cose erano così piene di imprevisto! – se qualche grave insuccesso sopravvenisse, il rancore per la mancata promessa scoppierebbe, si risveglierebbero forse anche gli odî ora dimenticati della guerra civile! E un insuccesso era tanto più facile, perchè la oligarchia italica, se era tenacemente ambiziosa di conservare i suoi privilegi, non aveva le qualità e gli uomini necessari a imprendere la grande opera di rigenerazione, universalmente riconosciuta per necessaria. A parole tutti volevano la riforma; ma per la riforma nessuno voleva faticare e soffrire. Quando Ottaviano, sul principio del 28, ordinò come console il censo che da quarantadue anni non si faceva più1319, e pensò di ripulire il Senato dalle persone troppo ignobili, egli compilò una lista di circa duecento: misura necessaria, per addolcire la asprezza della quale, per risparmiare agli indegni lo scandalo e l’onta della cacciata, li invitò a rinunciare spontaneamente alla carica, non venendo più in Senato e non usando i distintivi del rango. Vana illusione: solo sessanta accondiscesero; ma gli altri centoquaranta aspettarono di esser scacciati!1320 Viceversa, per ogni grave e dispendiosa faccenda pubblica, il Senato si affrettava a scaricarsi su Ottaviano, a cui commise perfino la riparazione di ottantadue templi di Roma, mezzo minati dall’incuria delle guerre civili1321. Orazio scrisse subito una bella ode, la VI del terzo libro:

Delicta maiorum immeritus lues,
Romane, donec templa refeceris
Aedesque labentes deorum....

in cui diceva che la prosperità e la pace fluirebbero solo dal fonte della rinnovata purezza sessuale e familiare; inveiva contro l’educazione frivola e mondana delle donne che conduceva tante matrone di nobili famiglie impoverite a prostituirsi a ricchi mercanti; ricordava i giovani di un tempo allevati così duramente e cresciuti così forti; e finiva con un triste sguardo alla fuga delle generazioni che peggiorano:

Aetas parentum, peior avis, tulit
Nos nequiores, mox daturos
Progeniem vitiosiorem.

Ma intanto, quando gli si porgeva il destro celebrava anche l’ozio beato della vita privata, la gioia di essere libero dai fastidi delle cariche pubbliche, la libertà del cittadino che non si occupa di politica. La stessa contradizione era nelle poche grandi famiglie superstiti. Asinio Pollione era molto amico di Ottaviano, ma si considerava come un suo pari1322 e non voleva più attendere che alla letteratura e all’arte, proponendosi di scrivere una grande storia delle guerre civili1323. Marco Crasso, il figlio del gran milionario, che aveva sposata la figlia di Metello Cretico, combatteva allora nei Balcani, ma avrebbe voluto – lui così ricco – continuare a caricarsi di brighe per lo Stato? Su Valerio Messala si poteva forse far maggiore assegnamento: ma Messala era anche il più repubblicano di tutti e non faceva, nemmeno con Ottaviano, mistero della sua fedele ammirazione per Bruto. Mecenate non par si curasse molto di monarchia e di repubblica, ma desiderava ritrarsi dalle brighe a godere le sue grandi ricchezze; e non voleva a nessun patto essere fatto nemmeno senatore. Agrippa, l’infaticabile e molteplice e ingegnoso Agrippa, era insomma il solo da cui Ottaviano potesse sperare aiuto a quel governo del mondo, cui l’invitava il Senato, ma con la condizione sottintesa che nessun privilegio dei senatori sarebbe toccato. E invece le condizioni dell’impero erano così spaventose! L’Italia e l’Oriente erano ingombre di rovine fumanti; la Gallia transalpina e la Spagna erano quasi tutte in rivolta1324; Marco Crasso aveva dovuto, per difendere le frontiere della Macedonia, fare delle spedizioni nella Misia e tra i Bastami1325; in Egitto erano scoppiate delle rivolte che avevano costretto Cornelio Gallo a fare una rapida marcia militare nell’interno1326. Le fondamenta del dominio imperiale parevano traballare e intanto il ridesto orgoglio nazionalista e bellicoso della opinione pubblica, che Ottaviano aveva vellicato nella sua lotta contro Antonio, domandava guerre di rivincita e di conquista. Ora se Orazio faceva facilmente queste conquiste sulla carta, se gli altri facilmente le facevano con i discorsi, Ottaviano invece era così persuaso che bisognava scemare senza indugio le spese militari, che aveva ridotte a sole ventitré le legioni, a meno di 150 000 uomini, compresi gli ausiliari e la cavalleria, tutto l’esercito di un così vasto impero e si affaccendava ad accelerare le deduzioni di colonie in Italia e fuori. Ripigliava anzi la idea di Cesare di colonizzare Cartagine e Corinto, cercava di mutare in agiati e pacifici possidenti il maggior numero di soldati che avevano seguito lui e Antonio. I demani comunali acquistati dopo Azio erano divisi in piccoli campi tra i soldati, di cui molti erano anche fatti decurioni dei piccoli senati municipali; e così a poco a poco i 90 000 veterani, con queste terre, con i risparmi delle guerre, si accingevano a tramutarsi in agiati borghesi di molte città, tra le quali è probabile fossero Ateste, Brescia, Parma, Tortona, Rimini, Fano, Spello, Pisa....

[28 a. C.] Non è quindi strano che, al principio del 28, un uomo per natura di passioni poco veementi, desideroso di riposo, infermo, volgesse in mente di imitare l’esempio di Silla e di tornare a vita privata, sebbene il Senato lo colmasse di onori, lo nominasse suo princeps, gli conferisse, come a Cesare, il titolo trionfale ed ereditario di imperator1327. Tuttavia, quali si fossero le definitive intenzioni di Ottaviano, era urgente di provvedere in qualche modo alla cassa dello Stato che continuava ad essere vuota.... Ottaviano contribuì del suo una grossa somma, ma non approfittò dell’occasione – e gli sarebbe stato così facile – per impadronirsi, come aveva fatto Cesare, della cassa pubblica; non ne volle assumere l’amministrazione; e non volendo nemmeno che l’erario restasse in potere degli antichi magistrati che lo avevano così male amministrato, scelse una via di mezzo, deliberando che l’erario sarebbe amministrato da due praefecti aerarii saturni, scelti dal Senato ogni anno tra persone che fossero già state pretori1328. Così egli rinunciava alla parte più cospicua della preda delle guerre civili: il tesoro dell’impero. E di rinunzia in rinunzia avrebbe restituito tutto, se tornare a vita privata fosse stato possibile a chi aveva vinto ad Azio senza combattere. Ottaviano era l’uomo più autorevole e potente e ricco della repubblica; e che egli restasse a capo della repubblica era cosa necessaria a troppe persone: ai veterani che avevano ricevute le terre, ai compratori dei beni dei proscritti, ai magistrati che avevano ottenute cariche o erano stati scelti a senatori: a tutti quelli insomma che avevano arraffato qualche cosa in quel tumulto di diciassette anni, da Agrippa all’ultimo e più oscuro dei centurioni. Non è strano quindi che in quell’anno 28 si facessero grandi sforzi dagli amici per dissuaderlo dal suo proponimento: ai quali non facevano difetto buoni ragionamenti, che non è temerario indurre dall’effetto che i consigli sortirono. Non si poteva ricostituire la repubblica latina così come era stata in antico, rinnovando i due principii fondamentali – la collegialità e la brevità di tutte le magistrature ordinarie – su cui la repubblica aveva posato fin che la vita era stata semplice, i costumi virtuosi, la aristocrazia forte, la tradizione vigorosa. Ora che le tradizioni erano così obliterate, la brevità delle magistrature interrompeva a ogni momento la continuità del governo: ora che così furibonda era la gara per la conquista del potere, la collegialità diventava un terribile strumento di disordine in potere dei partiti e delle cricche, di cui ciascuno riuscendo quasi sempre a conquistare qualcuno dei posti, si serviva poi del suo magistrato per intralciare l’opera del magistrato avverso. Non si sarebbero questi guai scatenati di nuovo, se si fosse ridata alla repubblica la libertà nelle forme antiche? Era necessario costituire almeno una autorità che contenesse le fazioni e le magistrature. Anche Cicerone, uomo più incline ai conservatori che ai rivoluzionari, non aveva forse svolta nel De Republica, prendendola da Polibio e da Aristotele, l’idea che negli stati troppo travagliati dalle interne discordie fosse necessario fare eleggere dai poteri legittimi un magistrato supremo per un tempo determinato; un magistrato sottoposto alle leggi comuni e quindi repubblicano; ma unico, ma investito di un potere più lungo per tempo e più largo per competenza dei magistrati comuni; che per l’autorità personale e per quella a lui conferita dalla legge fosse in grado di contenere gli altri magistrati nel dovere e di impedirne così le usurpazioni arbitrarie come le negligenze criminose? Chi altri poteva esercitare questa magistratura nuova se non il vincitore di Azio? Un’altra considerazione dovette poi avere grande peso sulle deliberazioni di Ottaviano. Nell’universale disordine e povertà in cui giaceva l’impero, l’Egitto, come aveva con i suoi tesori aiutato a schivare un fallimento tremendo e una nuova rivoluzione, così doveva apparire come la principale e più sicura sorgente di denaro almeno per i bisogni del futuro non lontano. La parte migliore della stessa fortuna di Ottaviano e forse anche di quella di parecchi cospicui amici suoi, come Mecenate, consisteva ormai di beni posti in Egitto. Ma appariva cosa rischiosa il porre l’Egitto sotto un proconsole, offendendo l’orgoglio e il sentimento monarchico di quel paese, che fin dai primi ricordi era stato governato da re; appariva necessario continuare a quel popolo l’illusione di essere governato da un monarca, sia pure lontano e residente a Roma, che mandasse ad Alessandria il suo ministro; e quel monarca non poteva essere che il conquistatore dell’Egitto. Ora come si potrebbe dar l’illusione all’Egitto che Ottaviano ne fosse il monarca, se Ottaviano non restava a capo della repubblica?

Ottaviano si dovè arrendere alla fine a queste considerazioni e si acconciò a tentar di applicare le idee del De Republica, ritenendo una parte di autorità: la minima possibile, affinchè l’ordine ristabilito potesse durare. Il principal pericolo alla pace pubblica derivava dalla divisione dei comandi militari, per cui ogni esercito aveva il suo duce sottoposto alla sola vigilanza del Senato: fiacca, intermittente, inefficace vigilanza, che non aveva impedito ad abili e arditi capitani di servirsi degli eserciti per le loro ambizioni e sino per guerre civili. Ottaviano acconsentì quindi ad assumere il comando di tutti gli eserciti, per modo che gli ufficiali e i soldati dipendessero da lui e verso di lui fossero responsabili: ma lo volle assumere non con procedimenti nuovi e rivoluzionarii, bensì facendosi decretare dal Senato per dieci anni il proconsolato di tutte le provincie in cui per una ragione permanente o temporanea si dovessero tenere milizie; e queste furono solo tre in principio: la Siria, che da un momento all’altro poteva essere invasa dai Parti, con Cipro; la Gallia transalpina, sempre inquieta e con frontiera malsicura; la Spagna, in rivolta da qualche tempo. Le altre provincie invece, le più ricche cioè, sarebbero amministrate dai magistrati ordinarii della repubblica, dai proconsoli e dai propretori nominati dal Senato, come nel tempo antico; il Senato riacquisterebbe tutti i suoi poteri; i comizi ritornerebbero a eleggere i magistrati e ad approvare le leggi1329. Anche a Roma però era necessaria una autorità che raffrenasse i magistrati urbani, vigilasse, spronandolo o trattenendolo secondo il bisogno, il Senato.... Ottaviano acconsentì ad assumersi anche questo carico, accettando di essere nominato console per i dieci anni in cui sarebbe proconsole. Egli insomma sarebbe nel tempo stesso console e proconsole, e potrebbe o rimanendo come console in Roma amministrare le sue provincie per mezzo di legati, o andando come proconsole nelle provincie, governare da lontano Roma e l’Italia: intanto, restando a capo dello Stato romano, potrebbe atteggiarsi davanti agli Egiziani come il loro re e l’erede legittimo dei Tolomei. Continuerebbe così nella misura ragionevole la bizzarra politica di Antonio, che, per quanto troppo esagerata, corrispondeva a una necessità, se per opera del rivale sopravviveva in parte alla sua rovina! Questa unione di due autorità, che si escludevano a vicenda secondo il vecchio diritto costituzionale, era certo una innovazione rivoluzionaria, una aggiunta originale alla vecchia costituzione; ma non era senza precedenti perchè già era stata sperimentata nel 52 per pochi mesi, quando nello spavento per i tumulti seguiti alla morte di Clodio e per la rivolta di Vercingetorice, si era nominato Pompeo console e proconsole nel tempo stesso; ma era una rivoluzione ben minore della fondazione della monarchia, perchè lasciava intatta l’essenza della repubblica. Si ripigliava insomma una idea vagheggiata prima della guerra civile dal partito conservatore; si costituiva un nuovo magistrato unico, ma repubblicano, il cui nome nuovo fu quello di princeps: parola e concetto schiettamente latini e repubblicani, che a torto è stata tradotta con la parola principe, la quale ha assunto ben altro significato nella nostra lingua, mentre significa primo, principale, e deve essere tradotta per presidente. Ottaviano metteva in pratica il consiglio che invano il 2 settembre del 44 Cicerone aveva dato in Senato ad Antonio: libertate esse parem caeteris, principem dignitate, – essere il primo cittadino in una repubblica di eguali; ed accettava la nomina a presidente unico per dieci anni della repubblica latina con il comando di tutti gli eserciti e con poteri larghi ma costituzionali, che lo fanno rassomigliare piuttosto al presidente della confederazione americana, che a un monarca asiatico.

Quando Ottaviano si fu risoluto, Orazio lo annunziò con la seconda ode del libro primo, nella quale invocava a proteggere Roma e a finire le guerre civili, Apollo il dio della coltura, Venere la dea della fecondità, Marte il dio della guerra, Mercurio il dio del commercio e della prosperità materiale; e nelle forme giovanili di Mercurio raffigurava Ottaviano, il vendicatore di Cesare che aveva versato sull’Italia i tesori di Cleopatra:

Hic ames dici pater atque princeps.

Intorno a questo tempo probabilmente egli scriveva anche la famosa ode

Odi profanum vulgus et arceo

nella quale mi par verisimile che alluda alla rinuncia del potere semiassoluto che Ottaviano stava per fare, mostrando la vanità della potenza, i tormenti dei tiranni, che non possono gustare nemmeno i piaceri più umili della vita. E aggiungeva a questa una altra ode, la seconda del libro terzo, per incitare i Romani a far più virile l’educazione dei giovani; per celebrare il valore militare, l’amore della patria, la religiosità. Intanto, prestamente, sulla fine del 28, fu stabilita l’intesa tra Ottaviano e la docile maggioranza del Senato. [27 a. C.] Il 13 gennaio del 271330 Ottaviano, che era console per la settima volta, andò in Senato, e in una solenne seduta dichiarò di rinunciare a tutti i poteri straordinari goduti sino allora e di rimettere al Senato e ai comizi il governo della repubblica: e allora, non sappiamo su proposta di chi, il Senato conferì per dieci anni a lui già console il governo proconsolare della Siria, della Spagna e della Gallia1331. Il 16 gennaio, a mostrargli la riconoscenza del Senato e del popolo, gli fu conferito il titolo di Augustus1332. Con questo titolo si attribuiva un carattere quasi sacro alla nuova magistratura del princeps, che Pompeo aveva invano tentato di esercitare tra i tumulti dei fautori di Clodio, venticinque anni innanzi. Cicerone trionfava, la repubblica era salva, l’utopia monarchica in cui Cesare si era illuso negli ultimi mesi svaniva per un secolo ancora! Gli storici moderni a torto, secondo me, si ostinano a considerare questa riforma come una finzione intesa a nascondere la monarchia in forme repubblicane; a torto, secondo me, considerano la riforma di Augusto come una diarchia, una spartizione cioè del potere tra il Senato ed il princeps. La riforma di Augusto mirava invece a ricostituire la unità dello stato romano, sconnessa con infinita iattura dell’Italia da quella vera diarchia, che fu il triumvirato dopo la deposizione di Lepido; mirava a riporre tutto l’impero sotto l’autorità del Senato e il Senato sotto la vigilanza di un presidente moderatore e custode delle instituzioni; mirava a restaurare non la forma, ma l’essenza della repubblica, e cioè a conservare, per quanto era possibile, il governo dell’impero in potere della piccola oligarchia italica, secondo le forme, le tradizioni, gli ordinamenti dei tempi antichi. Noi vedremo che tutta la storia di Augusto si spiega mirabilmente solo ammettendo ciò. Nè questa spiegazione dovrebbe apparire strana, ma verisimile e piana, se tutti gli storici moderni non si lasciassero indurre da un preconcetto ostinato a troppo impicciolire e ingrandire nel tempo stesso la riforma politica del 27 a. C.: a impicciolirla, quando la riducono a una commedia, recitata in Senato dal vincitore e dai senatori per ingannare il colto e l’inclita; a ingrandirla, quando la considerano come l’ultimo atto definitivo della fondazione della monarchia romana. Ottaviano nè intendeva di burlarsi dei suoi contemporanei, nè immaginava di compiere una rivoluzione, le cui conseguenze si ripercuoterebbero nei secoli. Egli mirava solo a risolvere le difficoltà dell’ora presente con un atto che, nell’intenzione sua, rispondeva ai bisogni dell’avvenire prossimo, che aveva valore quindi solo al più per i dieci anni fissati dal senatusconsulto, alla fine dei quali, se lo stato delle cose era mutato, muterebbe anche egli e condotta e propositi, tanto è vero che egli si riserbò la facoltà di deporre la presidenza anche prima dei dieci anni, se credesse di poter fare ciò senza pericolo della cosa pubblica1333. Ora è così strano che, due anni e mezzo dopo la battaglia d’Azio, egli si proponesse di soddisfare le aspirazioni e i sentimenti repubblicani del ceto medio e delle alte classi dell’Italia? Anche se non si volesse tenere conto – ed è invece una considerazione importantissima – dei grandi interessi politici ed economici, che spingevano tutta l’Italia a conservarsi con le istituzioni repubblicane il monopolio fruttuoso del governo dell’impero, si consideri che tutta la letteratura antica dimostra quanto tenaci e profonde fossero le idee, le tradizioni, i sentimenti repubblicani in tutte le repubblichette greco-italiche; quanto difficile fosse spogliarle delle loro libertà, anche quando queste eran ridotte solo a una meschina apparenza. In Grecia, non ostante tutti i mali da cui furono afflitte, le numerose piccole repubbliche non caddero definitivamente se non per la forza brutale di conquistatori stranieri. La repubblica di Roma invece non fu assoggettata da monarchie straniere, ma distrusse tutte le grandi monarchie fondate da Alessandro. Ora chi non sa che il successo consolida anche i governi peggiori? Chi può supporre che uno stato il quale aveva avuto un così smisurato successo, potesse perire da un giorno all’altro, per un colpo di stato fatto da una o da poche persone? Si pensi: le tradizioni repubblicane di Roma antica, pervenute a noi per il veicolo della coltura classica, sono ancora così potenti, che esse fomentarono la rivoluzione francese, la rivoluzione del 1848 e il movimento liberale del secolo XIX; che esse alimentano l’irrequietezza in cui si dibatte oggi l’immenso impero russo. Si può pensare che non avessero più forza alcuna ai tempi di Cesare e di Augusto, quando esisteva ancora l’impero che la repubblica aveva conquistato? La tenace resistenza delle tradizioni repubblicane era la conseguenza necessaria delle straordinarie vittorie diplomatiche e militari di Roma negli ultimi due secoli della Repubblica, da Canne alla presa di Alessandria; e non è meraviglia che l’incerto e stanco Augusto, dopo i disastri, gli scandali e il discredito del triumvirato, pensasse di non poter attentare alla essenza sacra della repubblica, se a quelle vittorie anche l’Europa moderna deve tanta parte del suo destino: deve in special modo di essere stata sempre agitata da certe grandi idee di libertà, per cui la sua storia non fu come quella dell’Oriente il monotono seguito di tante monarchie dispotiche, sorta l’una sulle rovine dell’altre.

E così, con queste tranquille sedute del Senato romano terminava una delle più gigantesche convulsioni che ricordi la storia; finiva la rivoluzione incominciata 106 anni prima con il tribunato di Tiberio Gracco, e incominciava, a poco a poco, senza che nessuno se ne avvedesse, una nuova storia del mondo. È un grande, un solenne momento della storia del mondo, questo a cui si chiude il racconto del gran secolo delle bufere. Quale spaventoso diluvio aveva tenuto dietro alle prime goccie di sangue cittadino, versato nel 132 sul suolo di Roma dal console Opimio e dai nobili, impauriti dalle rogazioni agrarie del giovane Gracco! Tutto l’impero ne era stato profuso e tutte le terre ne avevan bevuto: erano sparite in un immane macello, confusamente, le famiglie più illustri di Roma, un infinito numero di sovrani e di stati grandi e piccoli, il fiore della popolazione italica, delle stirpi asiatiche, delle più vigorose genti barbare dell’Europa continentale. Ed ora il potere si era ridotto alla fine in mano di una piccola e senile oligarchia di gente oscura salita rapidamente ai posti lasciati vuoti dalla grande aristocrazia di Roma, desiderosa solo di goder tranquillamente la propria grandezza, pronta per questo ad offrire i maggiori poteri ed onori al suo capo: il nipote di un usuraio di Velletri, precocemente vecchio a 36 anni, debole, esitante, malaticcio, tentennante, che rifiutava l’impero del mondo, l’eredità di Roma e l’eredità di Alessandro unite insieme dalla Fortuna. Una delle più terribili contese di cui racconti la storia, in cui perirono tanti grandi generali, era stata definitivamente vinta dall’uomo meno provvisto di qualità militari della storia di Roma, che non aveva mai saputo comandare una sola scaramuccia: il comando di quegli eserciti che avevano conquistato il più vasto impero di cui si avesse memoria, spetterebbe a un valetudinario, che non osava più esporsi al sole a capo scoperto, che non voleva più montare a cavallo per non stancarsi, che si farebbe trasportare sui campi di battaglia in lettiga1334! Ma queste apparenti contradizioni nascondevano una profonda necessità delle cose. Come sempre avviene, i rivoluzionari ben pasciuti diventavano conservatori, ora che si trattava di divorare in pace la preda spartitasi nelle guerre civili. Si dice e si ripete che Augusto fu l’erede e il continuatore di Cesare, che edificò la sua fabbrica sulle fondamenta incominciate da costui. È una affermazione arbitraria, che non ha prova alcuna nei fatti. Dalla restaurazione del 27 in poi Augusto si sforza senza interruzione, per 41 anni, di applicare il programma di rigenerazione politica e sociale esposto da Cicerone nel De officiis, e si volge a una politica conservatrice, che è l’antitesi di quella di Cesare: moderando il lusso, rimettendo in onore la religione, i costumi, le idee tradizionali, depurando per quanto era possibile l’amministrazione dagli stranieri e dagli uomini nuovi; restringendo la oligarchia dei cittadini romani; combattendo nella religione, nello Stato, nella vita il cosmopolitismo e gli influssi orientali a favore dell’idea strettamente nazionale; restringendo nello Stato le spese improduttive, di apparenza e di lusso, per usare i capitali accumulati in spese proficue al progresso materiale, politico e morale dell’impero; cercando perfino di ricostituire quella aristocrazia conservatrice schiettamente romana che Cesare aveva tanto combattuta e a cui egli stesso aveva portato il colpo di grazia. Già nel 28 Ottaviano aveva preso a ricostituire con doni la fortuna di famiglie senatorie impoverite, per ridar loro una parte del lustro e del potere perduto, e rimetterle in grado di aiutarlo nel governo della repubblica1335.

La rivoluzione era davvero finita. Incominciava una gran reazione conservatrice negli spiriti. Cicerone trionfava, scadeva Cesare, di cui il figlio sarebbe il continuatore di nome, l’antitesi di fatto. Dopo essere stato il fatal strumento dell’ultima distruzione della aristocrazia romana; dopo averla conculcata e annientata con le proscrizioni, a Filippi, nelle acque di Sicilia, l’uomo che aveva firmato la sentenza di morte di Cicerone si accingeva a rifare quello che aveva distrutto. È una sorte che tocca a parecchi, e non di rado, nelle turbinose vicende della storia. Senonchè Augusto doveva accorgersi presto che in ogni altra cosa le ragioni del bene e del male si bilanciano forse, fuori che in una, ed è quella che dà ragione definitivamente alle dottrine pessimiste della vita: che cioè all’uomo è facile il distruggere, ma difficile il creare. Una foresta vegetata in un secolo brucia in un mese. Un uomo cresciuto in venti anni, è spento in un attimo. Era stato facile con gli editti di proscrizione e i giudizi sommari trucidare, impoverire, mandar raminga quella nobiltà; ora che Augusto ne aveva bisogno per essere da lei aiutato a governare l’immenso impero, sarebbe difficile ridare agli uomini la ricchezza, la fiducia, la forza, lo zelo civico necessario alla loro missione. Nella grandezza di Augusto era insita una contradizione, che sarebbe piccolo seme di infiniti guai e dolori. I disinganni, le amarezze, lo sterile travaglio di questa restaurazione che non poteva riuscir che a metà, saranno la espiazione dei diciassette anni del ferro e del sangue sino allora vissuti; tragica espiazione, lunga come la seconda vita di lui, che da questo momento incomincia.

FINE DEL TERZO VOLUME.

INDICE.

Prefazione.
(Pag. vii-viii.)1336

I.
Tre giornate tempestose
– 15, 16, 17 marzo 44 a. C. –
(Pag. 1 a 23.)

La radunanza dei conservatori sul Campidoglio. – Il colloquio di Antonio e di Lepido. – La visita di Antonio a Calpurnia. – La notte dal 15 al 16 marzo. – Le trattative alla mattina del 16. – Il discorso di Bruto nel pomeriggio. – La mossa di Antonio alla sera del 16. – La notte dal 16 al 17 marzo. – La discussione del Senato, la mattina del 17. Proposte e controproposte. – L’ “amnistia”.

II.
I funerali di Cesare.
(Pag. 24 a 49.)

Il Senato e la repubblica. – Marco Antonio. – La seduta del Senato al 19 marzo. – Il testamento di Cesare. – Il legato di Cesare alla plebe. – I preparativi per il funerale di Cesare. – Il funerale di Cesare. – L’anarchia nei giorni seguenti al funerale. – Lo scompiglio universale dei partiti. – La ressa dei postulanti. – La ricomparsa di Erofilo. – Il supplizio di Erofilo.

III.
Dissoluzione universale.
(Pag. 50 a 70.)

La fuga di Bruto e di Cassio da Roma. – Cicerone a Pozzuoli. – Lucio Antonio e Fulvia. – Il voltafaccia di Antonio. – I primi falsi atti di Cesare. – L’arrivo di Caio Ottavio. – Il viaggio di Antonio in Campania. – Antonio raccoglie i veterani. – Bruto e Cassio a Lanuvio. – Tentennamenti universali.

IV.
Il figlio di Cesare.
(Pag. 71 a 92.)

Il figlio di Cesare. – Instabile equilibrio della società italiana. – Antagonismi delle classi sociali. – Il patrimonio di Cicerone, nel 44 a. C. – Il ritorno di Antonio a Roma. – Il primo colloquio di Antonio e di Ottaviano. – Gli ultimi dieci giorni di maggio. – La seduta del Senato il 1° giugno. – La “lex de provinciis” approvata il 2 giugno. – Il convegno di Anzio.

V.
La Legge Agraria di Lucio Antonio.
(Pag. 93 a 105.)

Antonio riordina il partito Cesariano. – Gli amici di Antonio. – Impacci finanziari del partito conservatore. – I conservatori aizzano Ottaviano contro Antonio. – L’approvazione della “lex agraria”. – I disegni di Cassio.

VI.
La “Lex de permutatione”.
(Pag. 106 a 123.)

Cicerone si accinge a partire per la Grecia. – I giuochi Apollinari. – La sorda guerra tra Antonio e Ottaviano. – La cometa di Cesare. – La promulgazione della “lex de permutatione”. – Cicerone interrompe il suo viaggio. – Riconciliazione di Ottaviano e di Antonio. – La “lex de permutatione” approvata. – Il ritorno di Cicerone a Roma.

VII.
I veterani all’incanto.
(Pag. 124 a 143.)

La “lex iudicaria” e la “lex de vi et maiestate”. – La grave crisi economica e morale dell’Italia. – Lo scandalo nella seduta del Senato il 1° settembre 44. – Il principio dell’odio tra Antonio e Cicerone. – Il falso attentato di Ottaviano. – Antonio parte per Brindisi. – Ottaviano parte per la Campania. – Antonio e le legioni di Macedonia. – Ottaviano domanda un colloquio a Cicerone.

VIII.
Il “De Officiis”.
(Pag. 144 a 158.)

Il “De Officiis”. – L’utopia di una perfetta aristocrazia. – Il carteggio tra Ottaviano e Cicerone. – Il ritorno di Antonio e di Ottaviano. – Il discorso di Ottaviano al popolo: suo insuccesso. – I giorni critici di Ottaviano. – La rivolta delle due legioni macedoniche.

IX.
Le Filippiche e la guerra di Modena.
(Pag. 159 a 200.)

La situazione a Roma, dopo la partenza di Antonio. – Il partito conservatore si riorganizza. – Gli ultimi dubbî di Cicerone. – La terza e la quarta filippica. – Le prime notizie dell’assedio di Modena. – La quinta filippica. – La sesta filippica e l’ambasceria del Senato ad Antonio. – La settima filippica. – Le controproposte di Antonio al Senato. – La ottava e la nona filippica. – Le lettere di Marco Bruto dalla Macedonia. – La controrivoluzione di Marco Bruto in Macedonia. – La decima filippica. – L’undecima filippica. – Il carteggio di Ottaviano, Irzio e Antonio sotto Modena. – La dodicesima filippica. – La tredicesima filippica. – Il principio delle discordie tra Marco Bruto e Cicerone. – La battaglia di “Forum Gallorum”. – La quattordicesima filippica e la battaglia di Modena.

X.
“Triumviri reipublicae costituendae”.
(Pag. 201 a 238.)

La proscrizione di Antonio. – Il colloquio di Decimo Bruto con Ottaviano. – La ritirata di Antonio. – Nuove discordie tra i conservatori a Roma. – Primi malumori tra Ottaviano e i conservatori. – Errori del partito conservatore. – Antonio giunge a Vado e si unisce a Ventidio. – Ottaviano è di nuovo risospinto verso i popolari. – Le mosse di Decimo Bruto. – Lepido. – Antonio e l’esercito di Lepido. – L’accordo tra Lepido e Antonio. – Ottaviano domanda il consolato. – Tentativi di ricomporre il partito cesariano. – Il colpo di stato di Ottaviano. – Ottaviano console e l’annullamento dell’amnistia. – La riconciliazione di Antonio e Ottaviano. – “Triumviri reipublicae costituendae”.

XI.
La strage dei ricchi e Filippi.
(Pag. 239 a 278.)

Il triumvirato. – La convenzione di Bologna. – La fortuna di Lepido. – La “Lex Titia”. – Le proscrizioni. – La grande confisca dei ricchi. – La morte di Cicerone. – La vera importanza storica di Cicerone. – Nuove confische e nuove imposte. – “Divus Julius!”. – Lo spavento e le crudeltà di Ottaviano. – Bruto e Cassio in Oriente. – L’Oriente contro l’Occidente. – Il principio della guerra. – La pianura di Filippi. – Il disordine dei due eserciti. – La prima battaglia di Filippi. – La morte di Cassio. – La seconda battaglia di Filippi. – Suicidio di Bruto.

XII.
Fulvia e la guerra agraria d’Italia.
(Pag. 279 a 320.)

Il trattato di Filippi. – Le terre ai veterani di Cesare. – Perchè Antonio scelse l’Oriente. – Fulvia e lo spirito rivoluzionario. – Le nuove correnti letterarie. – Le egloghe di Virgilio e la Catilinaria di Sallustio. – Il ritorno di Ottaviano in Italia. – Le confische delle terre in diciotto città italiane. – Prime discordie tra Fulvia, Lucio e Ottaviano. – Lucio difende i possidenti spogliati. – La prima egloga di Virgilio. – Antonio in Oriente. – Il primo incontro di Antonio e di Cleopatra. – Nuove lotte tra Fulvia, Lucio, Ottaviano. – Fulvia e Lucio preparano una rivoluzione. – La nuova guerra civile. – La parodia della guerra sociale. – L’assedio di Perugia.

XIII.
Cleopatra ed Ottavia.
(Pag. 321 a 344.)

L’Egitto. – Antonio e Cleopatra. – L’invasione dei Parti in Siria nel 40. – Lo scompiglio dell’Italia dopo la resa di Perugia. – Nuove violenze e crudeltà di Ottaviano. – Mecenate e Atenodoro di Tarso. – Antonio in Grecia. – Il matrimonio di Ottaviano e di Scribonia. – Il principio della guerra tra Antonio e Ottaviano. – Il trattato di Brindisi. – Il matrimonio di Antonio e di Ottavia.

XIV.
Il figlio di Pompeo.
(Pag. 345 a 366.)

Gli effetti economici della guerra civile. – Malcontento universale dell’Italia. – Intorpidimento dell’opinione pubblica. – Il giovane Orazio a Roma. – La prima rivolta popolare contro il triumvirato. – La popolarità di Sesto Pompeo. – Nuove difficoltà per il triumvirato. – Orazio è presentato da Virgilio a Mecenate. – Il dominio di Sesto Pompeo in Sicilia. – Il trattato di Miseno.

XV.
Il disastro di Scilla e la vendetta di Crasso.
(Pag. 367 a 389.)

La prima vittoria di Ventidio sui Parti. – Il divino Antonio, nuovo Dionysos. – Orazio e Sallustio. – Il successo delle ecloghe di Virgilio e sue ragioni. – La nuova moglie di Ottaviano: Livia. – Nuova guerra tra Sesto Pompeo ed Ottaviano. – Antonio impone a Ottaviano la pace. – Ottaviano persiste nella guerra. – Il disastro di Scilla e la vendetta di Crasso. – Ottaviano invia Mecenate ad Antonio. – Il viaggio di Mecenate descritto da Orazio.

XVI.
Le Georgiche.
(Pag. 390 a 410.)

La risposta di Antonio ad Ottaviano. – Agrippa fabbrica una armata. – Il convegno e l’accordo di Taranto. – La lenta trasformazione dell’Italia. – Le vecchie tradizioni tornano in onore. – Il “De re rustica” di Varrone. – Le idee fondamentali e le contradizioni del libro. – La città e la campagna, secondo Varrone. – L’economia della schiavitù secondo Varrone. – Le “Georgiche”.

XVII.
Le nozze di Cleopatra e di Antonio.
(Pag. 411 a 423.)

Il piano della guerra di Persia. – Antonio si risolve a sposare Cleopatra. – Ottaviano prepara la campagna definitiva contro Sesto. – Il matrimonio di Antonio e di Cleopatra. – L’opinione pubblica dell’Italia. – I primi Epodi di Orazio.

XVIII.
La grande spedizione partica.
(Pag. 424 a 443.)

La marcia di Antonio dalla Siria all’Armenia minore. – Il principio della guerra tra Sesto e Ottaviano. – Lepido perturba le mosse di Ottaviano. – L’abile stratagemma di Sesto Pompeo. – Ottaviano circondato a Taormina. – La ritirata di Cornificio. – La sconfitta finale e la fuga di Sesto Pompeo. – Le difficoltà della guerra di Persia. – Antonio è costretto a ritirarsi. – Le cagioni dell’insuccesso di Antonio.

XIX.
Antonio e Cleopatra.
(Pag. 444 a 469.)

La deposizione di Lepido. – Il voltafaccia di Ottaviano. – Ragioni interne ed esterne del mutamento. – Lo scredito e la debolezza del triumvirato. – Le ripercussioni politiche dell’insuccesso di Persia. – Le concessioni di Ottaviano alla opinione pubblica. – Politica moderata e pacifica di Ottaviano. – Antonio, dopo il ritorno dalla Persia. – La prima campagna illirica di Ottaviano. – La fine di Sesto Pompeo. – Grandi progetti e piccole opere. – Antonio e Cleopatra. – La guerra di Dalmazia e la conquista dell’Armenia.

XX.
Il nuovo impero egiziano.
(Pag. 470 a 501.)

La ricostituzione dell’impero egiziano. – Antonio ad Alessandria. – L’impressione in Italia sul nuovo impero. – Il progressivo mutamento dell’opinione pubblica. – Il secondo libro delle satire di Orazio. – Ottaviano si oppone alla politica orientale di Antonio. – L’edilità di Agrippa: il Pantheon. – Antonio si accinge di nuovo all’impresa di Persia. – Le prime avvisaglie della lotta tra Antonio d Ottaviano. – La lotta si accanisce: intrighi di Antonio contro Ottaviano. – Antonio sospende la impresa di Persia. – Il piano di Antonio contro Ottaviano. – L’ultimo colpo di stato di Ottaviano. – Antonio concentra l’esercito ad Efeso. – Le feste di Efeso. – Cleopatra segue l’esercito di’Antonio.

XXI.
Azio.
(Pag. 502 a 539.)

La lotta tra Domizio Enobarbo e Cleopatra. – Le difficoltà di Ottaviano in Italia. – Antonio ripudia Ottavia. – Ottaviano apre il testamento di Antonio. – La “coniuratio”. – Il disordine nell’esercito di Antonio. – Il piano strategico di Antonio. – Il piano strategico di Ottaviano. – Cleopatra vuole interrompere la guerra. – Il finto attacco di Agrippa e la sorpresa di Ottaviano. – I due eserciti nel golfo di Ambracia. – Inerzia dei due eserciti. – Antonio propone di dar battaglia sul mare. – Nuove discordie tra Cleopatra e i grandi romani. – Le disposizioni per la battaglia navale. – Ottaviano convoca un consiglio di guerra. – La battaglia di Azio. – La resa dell’esercito di Antonio.

XXII.
La caduta dell’Egitto.
(Pag. 540 a 563.)

I lenti effetti della vittoria di Azio. – Le incertezze di Ottaviano dopo Azio. – Il rivolgimento dell’opinione pubblica in Italia. – Antonio e Cleopatra in Alessandria. – Preparativi di offesa e difesa. – L’ultima rivolta dei veterani. – Lo sfacelo dell’impero egiziano. – La presa di Alessandria e la morte di Antonio. – Il giudizio su Antonio. – L’annessione dell’Egitto. – Ottaviano si impadronisce del patrimonio dei Lagidi. – Il ritorno di Ottaviano.

XXIII.
La restaurazione della repubblica.
(Pag. 564 a 590.)

Ottaviano vuol ritirarsi a vita privata. – Monarchia e repubblica. – Rinascenza delle tradizioni repubblicane. – Le odi civili di Orazio. – La monarchia impossibile a Roma. – Difficoltà di costituire un governo. – Le riforme di Ottaviano nel 28. – L’idea fondamentale della riforma politica di Ottaviano. – Ottaviano, presidente unico della repubblica. – Augustus. – La restaurazione della repubblica. – Il principio di una nuova storia. – Augusto non è il continuatore, ma l’antitesi di Cesare.

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Le Appendici critiche a cui si accenna nelle note saranno pubblicate tra poco in un volumetto a parte.