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Guglielmo Ferrero
Grandezza e decadenza di Roma
Vol. II
Giulio Cesare
Indice generale
I.
LA GUERRA CONTRO GLI ELVEZI
E CONTRO GLI SVEVI.
(Anno 58 a.
C.)
II.
L’ANNESSIONE DELLA GALLIA.
(Anno 57).
III.
LA DEMOCRAZIA IMPERIALISTA.
IV.
IL SECONDO CONSOLATO DI CRASSO E POMPEO.
(Anni 56-55 a.
C.)
V.
LA PRIMA DELUSIONE
DELLA DEMOCRAZIA IMPERIALISTA:
LA CONQUISTA
DELLA BRITANNIA.
(Anno 54 a. C.)
VI.
LA GRANDE CATASTROFE
DELLA DEMOCRAZIA IMPERIALISTA:
LA INVASIONE
DELLA PERSIA.
(Anno 53 a. C.)
VII.
LA SUPREMA CRISI
DELLA DEMOCRAZIA IMPERIALISTA:
LA RIVOLTA
DELLA GALLIA.
VIII.
I DISORDINI E I PROGRESSI DELL’ITALIA.
IX.
I “RICORDI DI GALLIA”.
(Anno 51 a. C.)
X.
LE BRIGHE DI UN GOVERNATORE ROMANO.
(Anni 51-50 a.
C.)
XI.
“INITIUM TUMULTUS”.
(Anno 50 a. C.)
XII.
“BELLUM CIVILE”
(Gennaio-Febbraio 49).
XIII.
LA GUERRA DI SPAGNA.
(Anno 49 a. C).
XIV.
FARSAGLIA.
(48 a. C.)
XV.
CLEOPATRA.
(Anno 48-47 a. C.)
XVI.
I TRIONFI DI CESARE.
(Anno 46 a. C.)
XVII.
LE ILLUSIONI E LE DELUSIONI DI UNA DITTATURA.
(Anno 45-44 a.
C.)
XVIII.
LE IDI DI MARZO.
(Gennaio-marzo 44).
APPENDICI CRITICHE.
A.
Sul commercio dei cereali nel mondo antico.
(a pag. 63 del I
volume).
B.
Sulla cronologia delle guerre di Lucullo.
(a pag. 223 del I
volume).
C.
Crasso, Pompeo e Cesare, dal 70 al 60 a. C.
(a pag. 337 del I
volume).
INDICE DEGLI AUTORI CITATI.
INDICE.
MILANO
Fratelli Treves, Editori
1904
a mio padre
Ing. VINCENZO FERRERO
che mi ha insegnato con
l’esempio
la tenacia instancabile del lavoro
e il coraggio della
libera critica.
GIULIO CESARE
I.
LA GUERRA CONTRO GLI ELVEZI
E CONTRO GLI SVEVI.
(Anno 58 a. C.)
Cesare si avventurava in Gallia senza nessun disegno ben definito,
con scarsa conoscenza del paese e delle sue genti1, con non poca
trepidazione. Il caso gli aveva dato il governo delle due Gallie
così all’improvviso e all’impensata, nel febbraio dell’anno
precedente; egli era stato, tutto quell’anno, siffattamente preso
dalle turbolente contese e dagli arruffati intrighi politici, che
non aveva potuto informarsi a fondo sulla Gallia, sia leggendo i
libri dei viaggiatori, sia consultando i banchieri, i mercanti, gli
uomini politici che dalla Gallia narbonese erano in relazione coi
Galli liberi. Egli sapeva solo di andare tra genti bellicose, che
avevano una volta incendiato Roma, che avevano disputato a Roma con
lunghe guerre la valle del Po, che avevano contribuito all’invasione
dei Cimbri e dei Teutoni, respinta da suo zio. Nervoso e apprensivo,
incline a raffigurarsi come maggiori del vero le difficoltà
non ancora provate, nuovamente disposto alla prudenza dopo le
audacie del consolato, egli viaggiava veloce da Roma verso Ginevra e
i nuovi cimenti, meno tranquillo dentro che non apparisse di fuori,
sapendo che, dopo la improvvisa e radicale rivoluzione democratica
da lui fatta a Roma, l’anno innanzi, egli sarebbe caduto presto
vittima dell’odio implacabile del partito conservatore, se non
avesse compiute in Gallia considerevoli e prospere imprese.
Perciò egli andava in provincia risoluto ad applicare alla
Gallia il metodo di Lucullo: prendere e sfruttare a fondo ogni
occasione e ogni pretesto di guerra, per acquistare gloria, per
arricchire, per ingrandire, come Lucullo e come Pompeo, l’impero da
questo opposto lato del mondo; ma senza sapere ancora chiaramente in
qual misura l’impresa fosse possibile e quanti mezzi richiederebbe;
senza esser sicuro di avere le qualità militari necessarie;
risoluto a procedere sul principio, per tutte queste ragioni, con
cautela.
Giunto a Ginevra, Cesare, tra il 5 e l’8 aprile2, ricevè una
ambascieria di Elvezi, la quale gli disse che una parte del popolo
voleva emigrare3; fare, come direbbero nell’Africa Australe, un
grande treck, tutti insieme, uomini donne e fanciulli; e gli
domandava perciò il permesso di traversare pacificamente la
provincia, per recarsi nella Saintonge. Cesare aveva il diritto,
anzi il dovere di rifiutar loro il passaggio, perchè era poco
probabile che la promessa di traversar il paese senza far guasto
sarebbe stata mantenuta da una così grande moltitudine; ma
volendo anche irritare gli Elvezi a una guerra, chiese qualche
giorno per riflettere, sino al 13 aprile, dando a divedere che
avrebbe acconsentito4; e invece, appena gli ambasciatori furono
partiti, con la legione che aveva sotto mano e un certo numero di
reclute, prese a fortificare i punti del Rodano di facile passaggio
tra il lago di Ginevra ed il Giura5. Gli Elvezi si avvidero subito
di esser stati ingannati, e spinti dall’ira fecero qualche tentativo
di passare il Rodano a forza; ma poi, sbollito il primo furore,
capirono esser stolto impegnarsi in una guerra con i Romani; e si
lasciarono persuadere dai capi a cercare in un altro luogo, nel nord
della Gallia, purtroppo non sappiamo dove, le nuove sedi,
abbandonando l’idea di andare nel territorio dei Santoni, confinante
con la provincia. I Romani – era evidente ormai, dopo l’atto di
Cesare – non li avrebbero lasciati stabilirsi, aiutando invece i
Santoni a scacciarli6. Gli Elvezi aprirono allora trattative con i
Sequani per ottenere il passaggio attraverso le montagne del Pas de
l’Ecluse, a condizione di non far guasto; con l’intenzione di
volgersi poi verso la Saona, e passare, per favore o per forza,
attraverso il paese degli Edui, andando a nord: e conchiuso
l’accordo, la emigrazione, una gran torma di circa 150 000
persone tra uomini, donne, fanciulli7, si mosse, con tre mesi di
viveri e le poche masserizie di valore caricate sui carri. Gli
uomini atti alle armi dovevano essere circa 30 000 e li
comandava un vecchio capo: Divicone.
Gli Elvezi andandosene a cercar fortuna lontano dalla provincia, nel
nord delle Gallie, ogni ragione e pretesto di guerra veniva meno a
Cesare. Ma Cesare, che aveva bisogno di far una guerra, non si
confuse per questo; e lasciato Labieno a difendere il confine del
Rodano, prontamente tornò nella Gallia Cisalpina; mentre
aspettava le tre legioni già richiamate dai quartieri
d’inverno di Aquileia, diè alacremente opera a reclutare due
altre legioni; poi, appena ebbe pronte le sue cinque legioni,
valicò il Monginevra, scese a Grenoble, marciò
rapidamente a nord, intendendo sorprendere gli Elvezi al passaggio
della Saona e disfarli. Nei pressi del luogo dove poi sorse Lione fu
raggiunto da Labieno che gli portò la legione lasciata a
Ginevra; passò con lui il Rodano; e con tutte le sei legioni
e gli ausiliari, circa cioè 25 000 uomini8, si
incamminò lungo la riva orientale della Saona9, raccattando
per via qualche giustificazione legale della guerra che stava per
fare agli Elvezi. La emigrazione degli Elvezi aveva spaventata mezza
Gallia; si diceva che gli Elvezi fossero intesi con parecchi uomini
potenti di diverse nazioni galliche, cospiranti per divenire
ciascuno monarca del proprio popolo; gli Allobrogi d’oltre Rodano,
si erano rifugiati nel campo di Cesare; soccorso gli domandarono
ufficialmente gli Edui, a favore dei quali il Senato aveva
deliberato nel 61 che il governatore della Gallia li proteggerebbe
contro ogni nemico: quindi anche contro gli Elvezi, che ne violavano
il confine. Cesare domandò loro in cambio dell’aiuto 4000
cavalieri e frumento. Ma tante operazioni, trattative e marcie
richiesero tempo; onde sebbene gli Elvezi impiegassero 20 giorni a
passar la Saona, a quanto pare a Maçon; sebbene, quando
l’esercito romano fu vicino a Maçon tre legioni fossero
spedite avanti a marcie forzate, Cesare potè sorprendere e
annientare solo un’ultima e piccola retroguardia restata sulla riva
sinistra10. Egli dovette perciò far traversare all’esercito,
con la massima sollecitudine, la Saona; e mettersi alle calcagna
degli Elvezi, che si erano diretti a nord-ovest attraverso le
regioni montuose dello Charollais11.
Cesare avrebbe potuto raggiungerli, e assalirli subito,
perchè gli Elvezi camminavano molto lentamente; ma non
osò. Ora che doveva alla fine impegnare la prima sua grossa
battaglia contro un nemico così reputato, avendo alle spalle,
a Roma, l’invido partito conservatore, l’apprensivo generale romano
esitava, non trovava mai l’istante opportuno di risolversi,
abbandonava per un motivo o per un altro tutti i disegni di azione
più lungamente pensati, al momento di porli ad esecuzione;
cosicchè, gli Elvezi non volendo impegnar battaglia per non
sciupare le proprie forze, necessarie a compier bene l’emigrazione,
l’esercito Romano invece di scacciare innanzi il nemico, fu ben
presto tratto quasi passivamente a rimorchio, attraverso la Gallia,
dagli Elvezi, che avevano ormai piegato a nord verso la Costa d’Oro.
Questa condizione divenne in breve fastidiosa per i due eserciti:
per gli Elvezi, costretti a tener sempre tesa la vigile aspettativa
di un assalto; per i Romani, che si stancavano in lente e monotone
marcie, di cui nessuno conosceva lo scopo e prevedeva la fine. Un
momento trattative di pace furono avviate tra Cesare e Divicone; ma
Cesare domandò ostaggi e Divicone respinse sdegnosamente
questa proposta. Così per quindici giorni i due eserciti si
seguirono, a poca distanza, molestandosi con piccole scaramuccie di
cavalleria, quasi tutte favorevoli agli Elvezi12. Intanto, seguendo
gli Elvezi, Cesare aveva dovuto allontanarsi dalla Saona, per la
quale si era approvvigionato fino allora; cosicchè le
provviste caricate sui giumenti a Maçon cominciavano a
esaurirsi; le vettovaglie promesse dagli Edui non arrivavano, i
notabili Edui erano sempre più impacciati nello spiegare i
ritardi. Risoluto a chiarire il mistero, Cesare fece una inchiesta
rigorosa, e venne allora a sapere che se il partito aristocratico,
il cui capo era Diviziaco, quel Druida andato due anni prima a Roma,
parteggiava tra gli Edui per i Romani e ne aveva richiesto il
soccorso, il partito democratico era avverso all’intervento di
Cesare, e aveva a capo un fratello di Diviziaco, Dummorige, uomo
potentissimo e popolarissimo per ricchezze, il quale con i molti
clienti e il favore della plebe comprata ambiva conquistare nello
Stato una autorità quasi monarchica, e intanto impediva con
diversi maneggi che il grano arrivasse nel campo romano. Cosa ancor
più grave: non solo Dummorige, come Diviziaco, seguiva
l’esercito, ma comandava la cavalleria fornita dagli Edui, e ne
manteneva gran parte a sue spese. Cesare non osò procedere
contro il traditore temendo di inimicarsi troppa parte degli Edui,
quando già l’esercito suo si inquietava per la diceria che il
grano mancherebbe presto; ma capì che seguitando a quel modo
gli Elvezi, trascinato più che persecutore, scoraggiva i
soldati e imbaldanziva i traditori; che gli bisognava risolversi.
Per un caso avventurato, la sera di quel giorno stesso, gli
esploratori vennero a riferirgli che gli Elvezi si erano accampati a
circa 10 chilometri di distanza, sotto un monte, trascurando di
occuparne la vetta, alla quale si poteva salire nascostamente per
una via diversa da quella battuta dagli Elvezi. Cesare
deliberò questa volta di tentar la fortuna; e alla sera
mandò Labieno con due legioni a occupare il monte: egli un
poco più tardi si sarebbe mosso con il rimanente esercito per
la via percorsa dagli Elvezi, in modo da giungere all’alba in
vicinanza del loro campo; allora assalirebbe il campo, Labieno
piomberebbe dal monte, ambedue prenderebbero in mezzo i nemici al
risveglio. E così fece, mandando innanzi un drappello di
esploratori, con a capo un vecchio e provetto soldato, Publio
Considio: ma il nervoso imperator doveva essere molto inquieto
quella notte, mentre si avviava a tentare il primo suo stratagemma,
in condizioni così critiche, con i viveri quasi esauriti, con
i traditori tollerati per necessità nel campo, con le legioni
disanimate dalla faticosa passività di questo singolare
inseguimento a rovescio. Infatti quando, all’alba, già quasi
in vista del campo degli Elvezi, Considio arrivò di galoppo e
riferì che il monte era occupato non da Labieno ma dagli
Elvezi, Cesare, spaventato e agitatissimo, ritornò subito e
precipitosamente sui suoi passi, sinchè trovata una collina
acconcia vi dispose le legioni in ordine di battaglia, aspettando un
assalto. Solo qualche tempo dopo, quando già il sole era
alto, Cesare, vedendo tutto quieto intorno, mandò
esploratori; e ben presto seppe che Considio si era ingannato, che
Labieno aveva felicemente occupato il monte e aspettato invano di
lassù l’arrivo e l’assalto di Cesare, sinchè gli
Elvezi se ne erano tranquillamente andati. La nervosa precipitazione
con cui Cesare aveva creduto al rapporto di Considio, senza mandare
altri a verificare, e la paura di un assalto repentino degli Elvezi
avevano fatto fallire una sorpresa così ben preparata13.
La delusione tanto più irritava e snervava, perchè
l’esercito ormai non aveva viveri che per due giorni. Ma così
camminando i due eserciti eran giunti all’altezza di Bribracte (Mont
Beauvray presso Autun) la ricca capitale degli Edui, che si trovava
a circa 28 chilometri ad Occidente. Cesare, stretto dalla
necessità, deliberò allora di abbandonare le orme
degli Elvezi e ripiegare su Bibracte, per rifornirsi; e già
stava per prendere le disposizioni necessarie, quando il cimento, la
cui imminenza gli era da quindici giorni cagione di tanta
ansietà, sopravvenne a un tratto inaspettato. Gli Elvezi,
voltatisi all’improvviso, piombavano sull’esercito romano nei luoghi
dove ora sorge il villaggio di Ivry14. Divicone probabilmente, che
da un pezzo vedeva gli Elvezi inquieti per la continua vicinanza del
nemico, quando ebbe saputo che solo per un caso gli Elvezi avevano
scampata, la notte prima, una sorpresa micidiale, non volle
più avere i Romani così alle calcagna, e, per
ributtarli più indietro o fermarli, aveva deliberato
saviamente di dar loro battaglia15. Cesare ebbe appena tempo,
mandando la cavalleria a trattenere un poco il nemico, di far salire
sopra una collina, a sinistra della strada, e disporre a mezza costa
su tre file le quattro legioni anziane e più in alto, a
guardia dei bagagli, le due legioni novelle e gli ausiliari, con
l’ordine di preparare l’accampamento: quando la ondata delle falangi
elvetiche sopraggiunse piena, precipitosa, violenta, investendo le
legioni di fronte. Divicone pare fosse uno di quegli abilissimi e
astutissimi tattici che, nei popoli semplici viventi in mezzo a
piccole guerre continue (come oggi i Boeri) si formano senza studi
teorici per il lungo esercizio di facoltà naturali; e come
aveva risolutamente assalito, così seppe abilmente ingannare
l’elegante, erudito, ma novizio generale romano, che sino allora
aveva studiato la tattica soltanto sui manuali greci. Cesare, che
doveva essere in quella prima grossa battaglia molto agitato e
nervoso, credè serio l’attacco di fronte; e quando l’ondata
elvetica incominciò a rifluire, ordinò ai suoi di
incalzare, scendendo la collina, il nemico che si ritirava verso un
colle opposto. Ma l’attacco di fronte e la ritirata erano finte, per
trarre i Romani giù dalla collina16: chè appena questi
furono scesi dalla collina, Divicone lanciò loro sul fianco
destro una colonna di 15 000 Boi e Tulingi, nascosti, a quanto
pare, in una ripiegatura della via, mentre le falangi che parevano
ritirarsi si rivoltavano e ritornavano all’assalto. I Romani furono
assaliti di fronte, premuti a fianco, minacciati a tergo, con tanta
rapidità che Cesare non potè mandar ordine alle
legioni poste sulla vetta di volare al soccorso. Che cosa successe
allora, nella mischia terribile che si impegnò? È
difficile capirlo, dal confuso e contradditorio racconto di
Cesare17. Ma considerando che uno scrittore di solito così
meravigliosamente lucido e preciso non ha potuto essere confuso per
negligenza, nel racconto del suo primo grande fatto d’armi, è
lecito supporre che Cesare abbia voluto dissimularci l’esito poco
felice della battaglia. È probabile che le due legioni
novelle, spaventate, guardassero dall’alto la mischia violentissima,
ma non osassero correre al soccorso senza ordini; che Cesare
riuscisse a portare i soldati fuori della stretta, in qualche
posizione forte e sostenesse l’urto, ma perdendo molti soldati;
sinchè gli Elvezi, pensando di avere percosso il nemico
abbastanza, si ritirarono. Infatti, sebbene Cesare non ricevesse una
disfatta intera, dovè lasciare il nemico nella notte levar il
campo, continuar la sua via verso Langres, senza abbandonare nelle
sue mani prigionieri e senza molestie; mentre egli, costretto dal
gran numero dei morti e dei feriti, dalla stanchezza e forse dalla
impressione che la terribile mischia aveva fatto sui soldati dei
quali molti non eran stati mai a simigliante cimento, dovè
indugiare tre giorni sul campo di battaglia, sul quale forse egli
stesso eresse quegli ossari che furono ritrovati verso la
metà del secolo XIX18. Gli Elvezi erano quindi riusciti
pienamente nel loro disegno. Ma Cesare non poteva soggiacere a
questo insuccesso; e si disponeva perciò a rincorrere di
nuovo il nemico, per prendere la rivincita, a qualsiasi costo:
quando gli Elvezi, stanchi della lunga e randagia avventura,
persuasi esser difficile trovare una nuova sede, impensieriti dalla
loro stessa vittoria che poteva tirar su loro l’odio della
potentissima Roma, mandarono a trattar pace con Cesare,
dichiarandosi disposti a tornar nelle antiche sedi. Cesare,
lietissimo di questa offerta che lo dispensava dal continuare una
guerra pericolosissima, dandogli modo di far credere in Italia che
egli aveva costretto gli Elvezi al ritorno, largheggiò nelle
condizioni: non solo fece dar loro, dagli Allobrogi, larghe
provviste di grano con cui ricoltivare le terre e vivere fino
all’anno prossimo; ma indusse perfino gli Edui a concedere terre nel
loro territorio ai Boi, che non volevano più ritornare in
nessun modo. Gli Elvezi e Cesare si accordarono così a
scapito dei Galli19; e Cesare, sicuro che Divicone non lo avrebbe
smentito, potè raffazzonare un rapporto al Senato, in cui
raccontava a modo suo, come una vittoria, l’esito incerto di questa
guerra20. Solo un piccolo manipolo di arrabbiati si ostinò
nel proposito di continuare l’emigrazione, e si avviò verso
il Reno; ma fu facilmente distrutto per via, dai differenti popoli
nei cui territori passava latrocinando.
Insomma Cesare si era tratto alla meglio fuori dal pericolo in cui
si era avventurato un po’ alla cieca per inesperienza. Se gli Elvezi
avessero avuto minor timore non di lui ma di Roma, se avessero
voluto combattere a fondo, e assalito di nuovo il giorno dopo lo
stanco e disanimato esercito romano, essi avrebbero forse potuto
salvare la Gallia per sempre dal dominio romano. Per ventiquattro
ore Divicone aveva avuto in suo potere i destini dell’Europa; ma,
contento di aver trattenuto un poco Cesare, l’ignaro barbaro aveva
continuata la sua via. In ogni modo, Cesare non aveva potuto
cominciare il suo governo con quello splendido successo che forse
sperava e coll’annunzio del quale avrebbe in quel momento ricambiato
volentieri le notizie che gli giungevano da Roma. Queste notizie
erano molto cattive. In quei pochi mesi, il governo democratico da
lui fondato l’anno innanzi si era già mutato nella tirannide
di una combriccola di malviventi, che non solo i conservatori, ma
tutte le persone per bene, anche se di sentimenti popolari, dovevano
detestare, e la cui infamia riverberava in parte su lui. Cicerone
era andato in esilio, come Cesare aveva voluto: e si struggeva
allora a Tessalonica nella prima crisi di dolore a cui subito, dopo
la sventura, soggiaciono i temperamenti troppo sensitivi;
dimagriva21; aveva perduta la perseveranza del lavoro, il gusto
delle cose che gli erano di solito più care, dei libri, dei
viaggi, delle amicizie; si stancava subito di ogni cosa; non voleva
veder più gli amici e i parenti; non aveva testa se non per
crearsi e per distruggersi da un giorno all’altro speranze di
ritorno; si immaginava che tutti gli fossero diventati nemici;
tempestava gli amici di lettere, perchè si adoperassero a
farlo ritornare, ma senza indicar loro nessun mezzo efficace; a
volta a volta sperava, poi smaniava per la disperazione, poi tornava
a tranquillarsi e a sperare22. Per fortuna, il suo peggior nemico
ravvivava negli Italiani il desiderio di lui e l’avversione a coloro
che lo avevano esiliato, meglio che non egli stesso con le sue
lettere querimoniose. Alla testa delle sue bande, Clodio, appena
partito Cesare, aveva preso a malmenare Roma come un tiranno; e
trasportato dalla violenza frenetica del temperamento, esaltato
dalla inviolabilità tribunizia, non solo si era messo a
vender privilegi e concessioni ai sovrani dell’Oriente e alle
città dell’Impero, non solo calpestava tutte le leggi, ma si
era perfino rivoltato contro la triarchia, facendo fuggire per
denaro il figlio di Tigrane, che Pompeo aveva posto a vivere nella
casa di Lucio Flavio. Pompeo aveva protestato; Clodio per risposta
aveva minacciato di bruciargli la casa e di ammazzarlo,
cosicchè Gabinio era stato costretto ad arruolare bande di
bravi per difendere Pompeo; ma le bande di Clodio facevano per Roma
tante zuffe, prepotenze e disordini che Pompeo aveva dovuto alla
fine quasi fortificarsi in casa e non uscir più23. Crasso,
indifferente ed egoista, si era tenuto fuori da questa disputa; ma
l’indignazione per lo scandalo scoteva alla fine la vigliaccheria di
tanti, che avevano abbandonato Cicerone ai suoi nemici; disponeva,
quasi per emenda, lo spirito pubblico a una nuova e più
intensa benevolenza verso il grande oratore, il fiero nemico della
demagogia catilinaria, scacciato ingiustamente dai cittadini cattivi
perchè aveva salvato la repubblica. Incoraggiati dal
mutamento dello spirito pubblico, Varrone e altri amici di Cicerone
si studiavano di indurre Pompeo a proporne il richiamo; mentre i
conservatori tentavano di indurre Pompeo, impressionato da questo
scandalo, a divorziare da Giulia e ad abbandonare la parte di
Cesare24. Anzi il richiamo di Cicerone era stato l’argomento
principale delle elezioni per l’anno 57 il cui risultato era un
altro segno del tempo: perchè i due consoli, quasi tutti i
tribuni della plebe, tutti i pretori, fuori che Appio Claudio,
fratello di Clodio, erano favorevoli a Cicerone25.
Cesare incominciò a dubitare che la opinione pubblica
dell’Italia sarebbe presa, più presto che non credesse, da un
capriccio di avversione contro di lui; e fu nuovamente stimolato a
compiere qualche impresa, che facesse una grande impressione sulla
immaginazione del popolo italiano: sola medicina che egli potesse
adoperare dalla Gallia contro i malumori e i capricci di quella
fantastica sovrana. Siccome gli Elvezi erano tornati quasi tutti
nella loro patria, egli poteva raccontare da lungi agli Italiani di
averli vinti; ma il pubblico avrebbe facilmente osservato che la
vittoria non aveva fruttato nè schiavi nè oro
nè terra. Era necessario far qualche impresa più
grande: ma quale? Molte deputazioni di popoli gallici venivano a
complimentarlo allora, dopo la pace e lo sgombro degli Elvezi, e
anche questa premura poteva essere descritta agli Italiani come un
omaggio reso alla potenza romana per la sua vittoria; ma invece era
effetto soltanto della inquieta diffidenza dei popoli gallici o dei
loro partiti che, gelosi della indipendenza nazionale, ma discordi
tra loro e ognuno troppo debole da opporsi a Cesare, temevano e
nello stesso tempo speravano di poter giovarsi ciascuno dell’aiuto
di questo generale romano, entrato nel loro paese con proteste di
amicizia e con intenzioni poco chiare. La guerra con gli Elvezi,
così poco felice per Cesare, pareva invece, per una strana
contraddizione, avergli conciliata la Gallia intera; tutti i popoli
e tutti i partiti, anche Dummorige, aspettavano gli avvenimenti e
temendo meno Cesare, dopo quell’insuccesso, si mostravano ben
disposti verso lui; Cesare, non avendo ancora disegni ben definiti
ed inclinando a prudenza, era ridotto a non osar nulla. Per fortuna,
in parte per corteggiare Cesare, in parte per odio sincero, alcune
di queste deputazioni lo pregarono di protegger la Gallia contro
Ariovisto, il re degli Svevi, che chiamato in Gallia dai Sequani e
dagli Arverni in guerra con gli Edui, aveva usurpati vasti
territori, e quasi pretendeva all’alto dominio su tutta la Gallia.
L’idea di ricacciare i Germani oltre il Reno piacque a Cesare,
perchè compiendo questa impresa egli avrebbe potuto intanto
far qualche cosa, atteggiarsi a liberatore della Gallia, acquistar
maggior diritto a intervenir nelle faccende dei Galli e farsi
ammirare a Roma come il degno nipote del vincitore dei Cimbri e dei
Teutoni. C’era però una difficoltà; e cioè che,
egli stesso l’anno prima avendo fatto dichiarare Ariovisto alleato e
amico del popolo romano, ogni pretesto decente di guerra mancava.
Cesare tuttavia non si confuse per questo; mandò a dire ad
Ariovisto che venisse a lui perchè doveva parlargli26, e
quando lo ebbe irritato con questo insolente invito, a cui l’altero
barbaro naturalmente rispose che Cesare venisse da lui se di
parlargli aveva bisogno, gli richiese varie concessioni a favore
degli Edui e dei Sequani. Ariovisto rifiutò e Cesare allora
dichiarò di essere autorizzato a far la guerra ad Ariovisto
dal decreto del Senato in favore degli Edui. Ammaestrato dalla
guerra precedente, egli non volle questa volta correre il pericolo
di restar senza viveri per via; e occupata Besançon, la
città maggiore e più ricca dei Sequani, non si mosse
sinchè non ebbe disposto un sicuro servizio di
vettovagliamento a cui gli Edui e i Sequani dovevano provvedere.
Pensò anche a sostituire al mal fido Dummorige un comandante
della cavalleria più sicuro: Publio Crasso, il giovane,
ardito e intelligente figlio di Marco. Ma quando tutto era pronto,
ecco nascere un nuovo impedimento, e pericolosissimo: i soldati,
già impressionati dalla sanguinosa battaglia contro gli
Elvezi, dal pericolo che avevano corso di morir di fame, nella
spedizione precedente, erano stati addirittura sgomenti dalle
dicerie che correvano sui Germani e sulla Germania, tra i cittadini
e i mercanti di Besançon; e presi da panico non volevano
muoversi. Era possibile, dicevano, assalire in così pochi un
nemico così terribile? Come si sarebbe nutrito l’esercito
nelle solitudini selvaggie di quell’immenso paese senza vie? No:
questa guerra, contro un re che il Senato aveva dichiarato amico ed
alleato, era illegale, e gli Dei non avrebbero permesso che
riescisse felicemente27. Cesare dovè convocare ufficiali e
soldati, confutare i loro ragionamenti, sgridarli, stimolare il loro
amor proprio, dichiarando che, se gli altri non si sentivano
coraggio, egli sarebbe partito solo con la decima Legione. Quella
almeno non aveva paura! Il giorno dopo l’esercito ripartiva, un po’
rinfrancato, verso la valle del Reno; giungeva dopo una marcia di
sette giorni nella valle della Thur, e di lì a poco in vista
dell’esercito di Ariovisto. Cesare, fatto più ardito dopo le
prove della guerra Elvetica, offrì subito battaglia. Ma
Ariovisto, che aspettava un rinforzo di Svevi dalla Germania,
rifiutò per diversi giorni, dicendo ai soldati, per indurli a
tollerar con pazienza la clausura nel campo, che le indovine
proibivano di combattere prima della luna novella28; e frattanto
molestava le comunicazioni di Cesare con gli Edui e con i Sequani, e
manteneva i soldati alacri, ilari, animosi con scaramuccie di
cavalleria, con rapide sorprese, con sortite improvvise, senza
impegnarsi mai a fondo. Una di queste sorprese pare riuscisse sin
troppo felicemente e per poco non terminasse, forse per qualche
errore di Cesare, con la presa di uno dei due campi in cui Cesare
aveva dovuto divider l’esercito, per provveder meglio agli
approvvigionamenti29; dopo il quale scontro, il giorno seguente, sia
che Ariovisto avesse presa troppa confidenza nelle sue forze, sia
che non riuscisse più a trattenere i soldati, ormai troppo
baldanzosi e troppo fastiditi dalla lunga attesa, quando Cesare
schierò in campo aperto i suoi, Ariovisto accettò la
battaglia. L’ala destra romana ruppe il nemico, ma la sinistra non
sostenne l’urto e già incominciava a piegare, senza che
Cesare, il quale era sulla destra, se ne accorgesse: per fortuna,
Publio Crasso, che stava in disparte con la cavalleria, osservando
la battaglia, capì il pericolo e ordinò alla terza
linea di riserva di correre al soccorso. L’esperienza della guerra
elvetica aveva giovato a tutti. Così la battaglia fu vinta
dai Romani, gli Svevi fuggirono, lasciando molta preda e molti
prigionieri in potere dei Romani; e la dominazione di Ariovisto in
Gallia fu rovesciata. Cesare pensando di poter imporre alla Gallia,
in compenso di tanto servigio, il mantenimento delle legioni, le
mandò a svernare sotto il comando di Labieno nel territorio
dei Sequani, forse affermando che ivi sarebbero state più
pronte l’anno prossimo, se Ariovisto tentasse una rivincita. Quindi
tornò nella Gallia Cisalpina, sperando che questa seconda e
verace vittoria avrebbe restaurato il suo credito, sciupato dalle
scandalose tirannie di Codio.
Ma le cose volgevano di male in peggio in Italia. Nella Gallia
Cisalpina, Cesare aveva trovato un tribuno designato, Publio Sesto,
mandato da Pompeo a persuaderlo definitivamente di favorire il
richiamo di Cicerone30. L’opinione pubblica dimandava ormai
così imperiosamente questa riparazione del torto fatto al
grande oratore, che bisognava ne prendessero essi l’iniziativa, per
non lasciare tutto il merito al partito conservatore. Cesare per
necessità aveva acconsentito31; ma non per questo Cicerone
potè esser subito riammesso in Italia. Il violento Clodio,
quando seppe che Cesare aveva ceduto, si rivoltò anche contro
Cesare, e, tra lo stupore universale, propose un bel giorno che si
abolissero le leggi Giulie32; Crasso, che detestava Cicerone, non
faceva nulla; Pompeo, che a quella età matura consumava gran
parte del tempo a corteggiare la vezzosa Giulia e a sollazzarsi con
lei, aveva sì preferito, per amor di lei, anzichè
abbandonar Cesare, prender egli l’iniziativa del richiamo33, ma
agiva a intervalli, con stanchezza, senza la energia necessaria;
tutti gli altri rimandavano ogni deliberazione a quando Clodio non
sarebbe più tribuno; e Clodio soverchiava tutti. Tanto poco
erano atte a combattere la demagogia le classi alte dell’Italia, pur
così ricche, colte e potenti, ma fatte discordi, egoiste,
pavide e scettiche dalla cupidigia, dall’orgoglio, dalla passione
del lusso, dalla sete dei godimenti molteplici e a cui mancava quel
gran molo contro le burrasche della demagogia che ripara alla
meglio, nella civiltà moderna, le classi alte, indebolite
dagli stessi difetti: una salda burocrazia civile e militare! Solo
il console Gabinio dava prova di una certa alacrità, ma non
per difendere Cicerone, bensì per sfogare l’odio suo e di una
parte del partito democratico contro i capitalisti, facendo
approvare una legge che vietava ai capitalisti italiani di far
prestiti fuori d’Italia, per costringere il capitale a rimanere
nella penisola, e scemarne l’interesse a favore dei debitori34. In
mezzo a questo universale snervamento e disgusto, le vittorie di
Cesare su Ariovisto fecero così poca impressione, che non si
decretò nessuna festa o cerimonia religiosa per celebrarle.
Dopo le rapide, fruttuose, immense conquiste di Pompeo e di Lucullo
in Oriente, l’Italia era diventata esigente; e non si commuoveva per
ammirazione facilmente a ogni lettera di vittoria. Infine che cosa
aveva fatto Cesare se non vincere uno dei tanti capi barbari con cui
Roma era continuamente in guerra, su tutte le frontiere dell’impero?
Aveva forse conquistata qualche vasta regione? o qualche
città celebre? o qualche preda doviziosa? Finalmente il 9
dicembre Clodio scadde da tribuno e tutti i buoni cittadini trassero
un sospiro di sollievo35: giustizia sarebbe resa alla fine a
Cicerone, il quale frattanto un po’ tranquillato era venuto a
Durazzo. Infatti, nella tornata del primo gennaio del 57, si tenne
subito discorso in Senato del richiamo di Cicerone36. Ma tutti
avevan fatto troppo piccolo conto dell’ostinazione di Clodio. Clodio
incominciò subito una strategia implacabile di intrighi e di
violenze; e quando, il giorno 25 gennaio del 57, la legge sul
richiamo di Cicerone fu portata alla discussione nei comizi, ne
impedì la approvazione, alla testa delle sue bande; e la
battaglia fu così micidiale, che bisognò, dopo, lavare
con le spugne il foro, lordo di sangue in ogni parte37.
II.
L’ANNESSIONE DELLA GALLIA.38
(Anno 57).
Non potendo, dalla provincia, contribuire efficacemente a comporre
in qualche modo tanto disordine; prevedendo che questi scandali
avrebbero presto rovinato anche lui, accusato dai conservatori come
il maggior colpevole, per le riforme radicali compiute durante il
consolato, Cesare dovè, nell’inverno dal 58 al 57 riprendere
in considerazione il disegno di tentare qualche conquista clamorosa,
pari per grandezza a quelle di Lucullo e di Pompeo, che facesse
dimenticare all’Italia tanti disordini e scandali. Cesare aveva
già saputo dai rapporti di Labieno che la permanenza delle
legioni romane nel territorio di un popolo libero come i Sequani,
era cagione di molto malumore e di gravi inquietudini a tutta la
Gallia. Che cosa significava quel fatto? Cesare era entrato in
Gallia atteggiandosi a benefattore e liberatore, non aveva sin
allora mostrato alcuna chiara ambizione di signoria sui popoli
gallici, aveva domandato, non imposto i contingenti e le vettovaglie
per le guerre combattute a vantaggio della Gallia. Lasciando un
inverno il suo esercito in Gallia intendeva forse provare la
docilità della nazione e incominciare una politica di
dissimulate e graduali usurpazioni di autorità, in mezzo alle
comunità sino allora libere e rivali? Il fermento era
specialmente vivo – secondo scriveva Labieno – tra i Belgi, tra i
popoli cioè misti di Celti e Germani che abitavano tra il
Reno, la Schelda, l’Oceano e la Senna. Queste notizie indussero
Cesare a tentare una spedizione contro i Belgi, la quale, essendo
questi quasi tutti più barbari e più bellicosi dei
popoli della Gallia centrale e meridionale, non sarebbe
probabilmente spiaciuta alle nazioni più ricche e civili,
come gli Edui e i Sequani; e poteva esser cagione di una conquista
gloriosa e lucrosa. Presa questa deliberazione egli preparò
alacremente nell’inverno l’impresa: mandò agenti in Africa, a
Creta, nelle Baleari ad assoldare saettatori e frombolieri,
aumentò il proprio esercito, reclutando nella Gallia
Cisalpina due nuove legioni, le mandò in Gallia sotto il
comando di Quinto Pedio, e tenne lor dietro poco dopo, raggiungendo
l’esercito nella Franca Contea; donde raccolte le vettovaglie
andò in quindici giorni, con una rapida marcia, sino al
territorio nemico. Con questa improvvisa apparizione ai confini,
egli potè indurre i Remi a sottomettersi e a dargli
informazioni, probabilmente esagerate ad arte o per paura, sulle
popolazioni belgiche, le quali unendo, come allora facevano per
opporsi a Cesare, le loro forze, avrebbero potuto mettere in campo
circa 350 000 combattenti. A queste notizie, vere o false che
fossero, la prudenza istintiva di Cesare si risvegliò a
tempo. Evidentemente egli stava per affrontare un cimento
pericolosissimo; onde, abbandonata la strategia delle sorprese e
trattenuta la fretta di prima, si fece dar ostaggi dai Remi,
persuase gli Edui a fare una invasione nel territorio dei Bellovaci,
il più forte dei popoli Belgi, per richiamarli indietro a
salvare la roba loro, e si avviò con otto legioni verso
l’Aisne. Ivi giunto stabilì sull’altra riva un vasto campo
fortificato appoggiandolo al fiume; munì il vicino ponte
ponendoci a guardia sei coorti al comando di Quinto Titurio Sabino;
e aspettò il nemico che si avvicinava. Ben presto l’esercito
nemico apparve; ma Cesare, la cui prudenza non si stancava dal
vigilare, volle prima di dar battaglia confrontare il valore del
nemico e dei suoi in piccole scaramuccie; poi, quando si
risolvè a tentare la battaglia, avendo gran paura, dopo
l’inganno di Divicone, degli attacchi di fianco, preparò
prima con grandi lavori il campo di battaglia, facendo scavare due
grandi fosse lunghe 400 piedi e fortificandole, per schierare in
mezzo ad esse l’esercito e impedire gli avvolgimenti. Fatica inutile
però: i nemici che accampavano al di là di una piccola
palude si schieravano essi pure in ordine di battaglia, tutti i
giorni, come i Romani, ma aspettavano di essere a loro volta
assaliti. Alla fine i Belgi, stanchi di aspettar la battaglia,
tentarono di guadare il fiume un poco più in basso, sotto
l’accampamento, per tagliare alle spalle le comunicazioni di Cesare;
ma Titurio se ne accorse dal ponte, avvisò Cesare, il quale
in gran fretta prese la cavalleria, i frombolieri e gli arcieri,
lasciando nel campo le legioni; passò il ponte di corsa,
arrivò mentre il nemico cominciava a guadare e con una
grandine di sassi e saette lo costrinse a tornare indietro. Il
nemico pareva respinto. Cesare però tutto il giorno fece
vigilare inquieto le sponde del fiume, temendo qualche sorpresa;
sinchè alla sera si venne a dirgli che l’esercito nemico si
ritirava. Questa ritirata, dopo una scaramuccia, parve così
strana a Cesare, che sospettò un’insidia e per tutta la notte
contenne l’esercito nell’accampamento; ma, quando alla mattina dopo,
egli ricevè la conferma della notizia, lanciò sulle
peste del nemico tre legioni al comando di Labieno, e la cavalleria
al comando di Quinto Pedio e di Lucio Arunculeio Cotta. Ben presto
egli seppe la cagione di quella ritirata improvvisa, che terminava,
con una breve scaramuccia di avamposti, una guerra che egli aveva
creduta terribile. I Bellovaci, avendo saputo da qualche giorno
della invasione degli Edui nel loro territorio, volevano tornare a
difendere i loro villaggi, e per trattenerli si era tentato
quell’assalto alle comunicazioni dei Romani; fallito il quale e i
viveri incominciando a scarseggiare a un così grosso
esercito, i Bellovaci si erano mossi traendosi dietro tutti gli
altri popoli, e ciascuno ormai tornava alle proprie sedi.
Così, in pochi giorni, questo esercito numeroso si era
disfatto.
Cesare allora, rifatto audace, capì che, cogliendo con
prestezza quel momento di stanchezza e di scoraggiamento, avrebbe
potuto sottomettere facilmente uno dopo l’altro i singoli popoli; e
subito, senza indugiare, entrò nel territorio dei Suessioni,
li trovò che appena erano ritornati dalla spedizione; li
sorprese, li indusse facilmente ad arrendersi; ripetè la
sorpresa felicemente sugli Ambiani; fatto ancor più sollecito
e audace entrò nel territorio dei Nervii. Erano costoro i
più bellicosi dei Belgi, e così barbari, che
respingevano dal loro paese selvoso, paludoso e semideserto, i
mercanti stranieri, i Greci e gli Italiani che cercavano di vender
loro il vino, la perfida bevanda che snerva le anime e indebolisce i
corpi. I Nervii, unitisi agli Atrebati e ai Viromandi, sorpresero
nelle foreste l’esercito romano, mentre, credendosi in una
solitudine sicura, si disponeva a costruire il campo per la notte; e
impegnarono una battaglia violentissima nella quale perfino Cesare
dovette combattere come un soldato semplice, e i Romani poterono
respingere il nemico solo per la pratica della guerra che i soldati
avevano già acquistata nei due anni precedenti. Arresisi
anche i Nervii, non restavano in armi che gli Aduatuci, i quali,
saputa della disfatta dei Nervii, incendiarono i villaggi e si
ridussero in un solo castello, in una forte posizione che alcuni
vogliono fosse dove ora è Namur. Cesare ve li assediò
e dopo qualche tempo ricevè l’offerta della resa, che egli
accettò, ponendo come al solito, per condizione, la consegna
delle armi. Per tutto un giorno gli assediati portarono armi fuori
del castello; ma sopraggiunta la notte tentarono con armi tenute
nascoste un nuovo assalto; respinto il quale e ripresa la
città, furono tutti – erano 53 000, secondo Cesare –
venduti schiavi ai negozianti che seguivano l’esercito39.
Con questa rapida vittoria sopra tanti popoli barbari, che avevano
così grande reputazione di valore, Cesare stupiva tutta la
Gallia, che l’aveva visto l’anno innanzi così poco fortunato
contro gli Elvezi; e compiva la sua prima considerevole impresa di
guerra, riuscendo a far riconoscere da un gran numero di uomini la
signoria di Roma. Forse anche conquistava una preda cospicua;
perchè non solo egli aveva venduto un gran numero di
prigionieri, ma nella devastazione del territorio dovette trovare
una certa quantità di metalli preziosi, che i Belgi, come
tutti i popoli barbari, anche i più poveri, accumulavano
cupidamente. Ma avrebbero queste vittorie commossa oltre i Galli
anche l’Italia, restata così fredda l’anno innanzi? Purtroppo
le notizie venute da Roma durante la guerra facevano temere che il
governo democratico precipitasse senza speranza verso una
catastrofe. Cicerone era finalmente ritornato, accolto in tutta
l’Italia da entusiastiche dimostrazioni; ma solo dopo che Pompeo
ebbe trovato tra i tribuni della plebe del 57 un nobile di famiglia
non molto illustre, di grande ambizione, di grandissimi debiti e di
un’audacia violenta pari a quella di Clodio, Tito Annio Milone40, il
quale, protetto dalla inviolabilità tribunizia e allettato
dalla promessa del consolato, aveva raccolto una banda di gladiatori
e di bravi41. Solo con l’aiuto di queste bande, tra tumulti, zuffe e
sangue, si era potuto votare, il 4 agosto42, la legge che richiamava
Cicerone e ordinava un risarcimento. Ma Clodio, furioso per il
trionfo di Cicerone, non si era dato per vinto: aveva annunziata la
sua candidatura alla edilità per l’anno prossimo; quando
Cicerone aveva fatto approvare dal Senato che per cinque anni Pompeo
avesse l’alta sorveglianza di tutti i porti e di tutti i mercati
dell’Impero e potesse nominare fino a quindici legati per provvedere
all’annona di Roma dove il grano scarseggiava sempre più43;
aveva tentato di sollevare il popolo contro Pompeo, spargendo la
voce che questi faceva la carestia per essere creato re di Roma;
cercava di impedire per mezzo di tribuni amici che si ripagasse a
Cicerone la casa distruttagli e aveva assaltato perfino gli operai
che ne cominciavano la ricostruzione44. Non soddisfatto ancora di
queste mezze vendette aveva, nelle elezioni per il 56, portato
l’inatteso soccorso delle sue bande elettorali ai conservatori,
facendo loro conquistare tutti i posti di pretore e i due
consolati45. Pompeo temeva tanto che Clodio, il quale era
segretamente aiutato dai conservatori, sarebbe eletto, che,
d’accordo con Milone, differiva continuamente la elezione degli
Edili46. Anche i capitalisti erano malcontenti contro il partito
democratico e i suoi tre capi, per la politica di guerra al capitale
che Gabinio e Pisone continuavano nelle provincie: Pisone,
concedendo facilmente, per denaro, riduzioni di interesse alle
città indebitate47; Gabinio, dando sempre torto ai
capitalisti italiani e angariandoli in tutte le maniere, per
persuader loro che l’Italia era luogo più acconcio
all’impiego dei capitali che non la Siria48. Come se tanti guai non
bastassero, Tolomeo Aulete era stato cacciato dal trono dell’Egitto
da una rivoluzione popolare ed era venuto a Roma, a dire ai suoi
creditori che se volevano esser pagati l’aiutassero a ritornare nel
regno. Pompeo che, per compiere bene la missione annonaria,
desiderava molto di avere amico il re del più fertile granaio
del Mediterraneo, lo aveva ospitato in casa sua e cercava di
aiutarlo; ma l’avversione all’impresa era grande, in Senato e nel
pubblico49. Se il partito conservatore era debole e incoerente, la
democrazia radicale costituita da Cesare rischiava, non ostante la
sua maggiore energia, di esaurirsi in pochi anni; perchè
tranne pochi capi di gran nome, si componeva di avventurieri, di
farabutti, di violenti. Presto o tardi il partito conservatore,
più ricco, più colto, forte di un maggior numero di
persone rispettabili, sarebbe tornato in grazia del pubblico
imparziale, avrebbe riconquistato il potere, abolite le leggi
Giulie, presa vendetta dei triarchi e specialmente di Cesare.
Bisognava che Cesare in qualche modo, con qualche atto ardito,
interrompesse dalla Gallia questa rapida dissoluzione. La condizione
del suo partito era critica, il pericolo imminente, l’urgenza
estrema.... In questo frangente apparve ancora una volta come il
carattere di Cesare fosse una singolare alternativa di
qualità opposte, di tenacità riflessiva e di slancio
immaginoso, di eccitabilità e di equilibrio, di prudenza e di
avventatezza, di cui ciascuna prevaleva a volta a volta, sotto gli
stimoli esteriori, sulla qualità opposta, parzialmente e ad
intervalli, ma senza sopraffarla interamente e per sempre. Nel primo
anno della guerra e sino allora, egli era stato cauto e molto
riflessivo per opposizione alla audacia del consolato e per la prima
apprensione dei nuovi cimenti che affrontava; ma ora, dopo un anno e
mezzo, il successo nella guerra dei Belgi, la fiducia ormai
acquistata nelle proprie attitudini di capitano, la osservazione
delle discordie tra i popoli gallici, lo sbalordimento di cui le sue
rapide vittorie erano state loro cagione, il pericolo che minacciava
a Roma la sua potenza, la smania di rivaleggiare con Lucullo e
Pompeo, compiendo una conquista egualmente immensa, convertirono
alla fine questa riserva prudente in un nuovo impeto subitaneo di
audacia immaginosa. Quasi improvvisamente, sul finire della campagna
belgica, Cesare si risolvè a sgominare il partito
conservatore, definitivamente, con un atto arditissimo, inaspettato
da tutti: proclamare e annunziare a Roma la annessione di tutta la
Gallia sino al Reno! Stupefatta, l’Italia avrebbe udito che gli
antichi e terribili nemici di Roma erano ormai sottomessi, dopo due
anni
di grandi guerre; che l’opera incominciata dal primo Caio della
democrazia romana, il conquistatore della Cisalpina, era stata
compiuta un secolo e mezzo dopo da Caio Giulio Cesare; che l’Impero
aveva acquistato un nuovo territorio, popoloso e fertile, immenso
come le provincie che Lucullo e Pompeo avevano conquistate in
Oriente. È vero che questa conquista in gran parte era ancora
immaginaria. Tutta l’Aquitania e la Gallia meridionale ancora libera
non avevano veduto nè un soldato nè un magistrato
romano; anche nella Gallia centrale e occidentale molti popoli non
si erano sottomessi, molti si erano sottomessi per forma; molti
altri, e tra questi i più ricchi e potenti come i Sequani,
gli Edui, i Lingoni, avevano accolto amichevolmente il generale
romano, ma come un potente alleato, senza mostrarsi in nessun modo
disposti ad accettare la signoria romana. Costretti a scrivere
questa storia con i soli documenti lasciati dai conquistatori, noi
non possiamo sapere come fu accolta la notizia dell’annessione da
questi popoli; ma non è inverosimile supporre che essi,
sebbene avessero sempre sospettato delle intenzioni di Cesare,
dovettero esserne sopratutto stupefatti, tanto quest’atto
così grave arrivava all’improvviso, senza preparazione
sufficiente, nei fatti e negli spiriti. Ma nella impressionevole e
volubile democrazia italiana, lo sforzo per il successo immediato,
lo studio di confondere il pubblico con gli espedienti più
veloci, poco importa se pieni di pericoli lontani, erano la
condizione stessa della vita per i partiti e per le clientele; onde
Cesare, impegnato come era in questa politica di impressioni fugaci
e di violente ciarlatanerie, dovè servirsi della sua potente
intelligenza a immaginare il più temerario di questi
espedienti, la più grande di queste ciarlatanerie. Per
colorire un poco la cosa, egli mandò Publio Crasso con una
legione a percorrere rapidamente i paesi della Gallia occidentale
tra la Senna e la Loira e a ricevere in fretta la sottomissione
formale di diversi piccoli popoli, che, deboli e spaventati dalle
vittorie belgiche, non osarono resistere; mandò Servio
Sulpicio Galba con una legione nell’Alto Vallese, verso il Gran San
Bernardo, a sottomettere le nazioni che facevano pagare pedaggi
troppo cari, per persuadere i mercanti dell’Italia che egli non solo
aveva loro aperto un nuovo immenso mercato, ma sgombrate le vie per
andarci; e poi, lasciate le altre legioni a svernare nel paese dei
Carnuti, degli Andi, dei Turoni, tornò nella Cisalpina dopo
aver fatto gridare ai quattro venti la gran notizia: che il Senato
poteva nominare i dieci commissari incaricati di ordinare a
provincia romana l’immenso paese, le cui genti avevano fatto tremare
Roma. Egli pensava certo che, sorpresa così all’improvviso,
la Gallia sarebbe stata tranquilla almeno sino alla primavera
prossima; e durante l’inverno, quando tutta l’Italia si beerebbe
nell’idea che la Gallia era conquistata davvero e per sempre, egli
avrebbe tempo a ricostituire la potenza sua e quella del partito
democratico. Così la conquista romana della Gallia, non fu,
nell’intenzione prima del suo autore, se non una manovra elettorale,
per impressionare, in mezzo al tumulto di una confusa lotta di
partiti e clientele, il Senato, gli uomini politici, gli elettori e
la borghesia dell’Italia; la conseguenza fatale e involontaria di
quella rivoluzione democratica, che Cesare era stato costretto a
compiere durante il suo Consolato. Eppure proprio in quei giorni in
cui egli non pensava che a confondere il partito conservatore di
Roma, Cesare fu davvero l’“uomo fatale” della storia europea; lo
strumento inconsapevole del destino per un’opera immensa. Senza
saperlo egli aveva scatenata, con quella proclamazione, una guerra
di indipendenza lunghissima e micidiale; senza volerlo, in questa
guerra, egli avrebbe in parte distrutta, in parte rovinata
l’aristocrazia gallica; sparita questa classe, che conservava le
tradizioni celtiche, la civiltà greco-latina sarebbe stata
facilmente adottata dalle classi nuove che ne presero il posto, e
avrebbe trovata, aperta da lui, senza che egli lo volesse o lo
sapesse, la via verso l’interno del continente europeo, preparando
così una condizione essenziale della civiltà in cui
viviamo50.
Ma Cesare voleva allora soltanto recuperare il credito perduto per
colpa dei suoi seguaci, specialmente di Clodio. E il proposito gli
riuscì pienamente51. La notizia della conquista della Gallia
commosse, come egli aveva previsto, profondissimamente tutta
l’Italia; il popolo, la classe media, i finanzieri, la gente
istruita, tutta la borghesia che di solito si teneva fuori delle
contese politiche, lusingata nell’orgoglio, fiduciosa che la
conquista delle Gallie frutterebbe come le guerre d’Oriente, fu
presa da uno di quei brevi ma violenti deliri d’ammirazione, che
ormai ricorrevano periodicamente, per questo o quel personaggio. Una
deputazione di senatori fu inviata dal popolo di Roma a Cesare nella
Cisalpina, per congratularsi con lui52; molti di quegli uomini
politici, che cercano sempre di star con il partito più
potente e che nell’ultimo anno cominciavano a giudicar severamente
lui e la sua politica, ridivennero ammiratori di Cesare, si
affrettarono ad andarlo a trovare nella provincia53; il Senato,
cedendo come sempre alla opinione pubblica, deliberò molte
feste pubbliche e una supplicazione di 15 giorni, la più
lunga di tutte le supplicazioni decretate sino allora54. L’enfasi,
che teneva ormai luogo, nelle grandi questioni pubbliche, del
ragionamento, del buon senso, della saviezza, intronò e
inebriò, per tutto l’inverno dal 57 al 56, la credula Italia,
dove ben pochi dubitavano che la Gallia fosse conquistata davvero;
la esaltò a un breve delirio.... E Cesare ne
approfittò con prestezza meravigliosa per i suoi fini. Nelle
due guerre già combattute, Cesare aveva ricevuto molto
beneficio dalla vita all’aria aperta, dall’esercizio corporale,
dalla forzosa morigeratezza del campo; si era accorto con lieta
meraviglia che la sua complessione delicata resisteva agli strapazzi
della guerra molto meglio che egli non sperasse in principio; aveva
sentito il continuo fastidio caliginoso della sua costituzione
sempre infermiccia fugato da una onda gioiosa e luminosa di salute,
scaturita dalla azione55. Sopratutto pare che la epilessia,
aggravatasi al tempo del suo governo in Spagna, migliorasse in
quegli anni56. Nel tempo stesso aveva sperimentata definitivamente
un’altra qualità che è propria, anche fra gli uomini
superiori, di solo un piccolo numero: quella facile, progressiva,
intensa sovreccitazione dello spirito nel lavoro, per cui le forze
del corpo e dello spirito, la lucidezza e la rapidità del
pensiero, la facilità e la fertilità della
immaginazione aumentano a mano a mano che l’opera già
compiuta ingrandisce; quella fretta divina nel concepire e nel fare,
che si infervora a mano a mano che l’uomo alacre si inebria della
voluttà di profondere la propria energia in una piena
più larga di pensiero e di opere, e si esalta nell’orgoglio
della mirabile fatica propria. Così allora, egli era venuto
nella Gallia Cisalpina non a riposo ma a nuove e maggiori fatiche:
percorreva la provincia per render giustizia e tenere le radunanze
dei notabili, viaggiando di giorno e di notte per far più
presto; ascoltava commissioni, inquisiva sui lamenti, giudicava
processi, accettava inviti a pranzo e a feste dai notabili; riceveva
i rapporti dei suoi generali dalla Gallia; provvedeva ai bisogni
dell’esercito distribuendo ai cupidi appaltatori e mercanti italiani
che lo seguivano ordinazioni di armi, di cavalli, di vestiti;
preparava i piani delle campagne future e reclutava soldati;
riceveva da Roma una voluminosa corrispondenza e dettava un gran
numero di risposte; leggeva le novità letterarie e la cronaca
degli avvenimenti pubblici e privati di Roma, che si faceva mandare
minuziosissima; riceveva e spediva ogni giorno corrieri a Roma;
accoglieva innumerevoli raccomandati e postulanti, convitava
splendidamente gli amici che venivano da Roma a trovarlo57.
L’esaltazione che nasce in ogni uomo dalla consapevolezza della
propria forza, la gloria acquistata con la vittoria sui Belgi, il
successo della annessione della Gallia, anche la gioia fisica della
recuperata salute lo incitavano a una maggiore alacrità, a
una audacia più sicura....
In mezzo a tante faccende, Cesare prese anche a ricostituire il
governo democratico, sebbene negli ultimi mesi del 57 e nei primi
del 56 la dissoluzione precipitasse a rovina, specialmente per
cagione degli scandali egiziani. I creditori di Tolomeo e in special
modo il ricco banchiere Caio Rabirio Postumo intrigavano per lui e
gli avevano prestato altro denaro, affinchè potesse vivere a
Roma con sfarzo regale e corrompere i senatori58; e difatti avevano
ottenuto alla fine che il console Lentulo fosse incaricato di
ricondurlo con l’esercito di Cilicia59. Ma il partito conservatore,
sempre avverso all’impresa di Egitto, aveva fatto trovare nei libri
sibillini, chi sa con quali iutrighi, un responso, secondo il quale,
se un re di Egitto avesse domandato aiuto, bisognava concederglielo,
ma senza mandare un esercito. Siccome il maggior numero dei senatori
non osava far aperta violenza alla superstizione popolarissima degli
oracoli sibillini, il decreto che incaricava Lentulo di ricondurre
Tolomeo era stato rimesso in discussione. In quella, ecco si
annuncia una ambasciata di cento notabili di Alessandria che viene
ad accusare Tolomeo e ad esporre la vera condizione delle cose. Si
aspettano di settimana in settimana gli ambasciatori, ma gli
ambasciatori non arrivano; si spiega da principio il ritardo in
vario modo; ma in breve il segreto trapela e comincia a correre una
diceria terribile: che Tolomeo faceva uccidere gli ambasciatori alla
spicciolata sulle vie dell’Italia, che i sicari ricevevano il
salario nella casa di Pompeo. Il partito conservatore
protestò con violenza; Favonio domandò una inchiesta,
promise di far venire il capo della ambasceria, un certo Dione che,
scampato al pericolo era a Roma, ospite in casa di Lucceio. Ma
neppur Dione fu trovato e poco dopo si disse che anche costui era
stato ucciso60. Se l’annessione della Gallia non avesse in parte
annullata l’indignazione di questo scandalo, l’Egitto sarebbe stato
un’altra volta quasi fatalmente funesto al partito democratico. Ma
la condizione di questo era pur sempre cattiva: Catone stava per far
ritorno con i tesori e gli schiavi del re di Cipro; e la vecchia
discordia tra Crasso e Pompeo rinasceva: perchè Crasso,
ambizioso di esser mandato in Egitto e amico mal sicuro, lavorava
segretamente contro Pompeo; Pompeo, stanco e annoiato, non compariva
quasi più in Senato e accusava Crasso di pagar Clodio,
affinchè lo ammazzasse61. Dopo molte discussioni il Senato
deliberò, nella prima metà del gennaio 56, che Tolomeo
fosse ricondotto da un magistrato romano senza esercito; ma
l’incarico di ricondurlo era disputato da molti; Crasso lo ambiva,
lo ambiva Lentulo; Pompeo non diceva e non faceva nulla,
apertamente; ma i suoi amici lavoravano alacremente per lui62. Si
arrivò così, tra discussioni confuse, intrighi
arruffati, differimenti ed imbrogli, sino al 15 gennaio, senza
conchiuder nulla, quando le sedute del Senato furono sospese per le
elezioni degli edili, così a lungo rimandate. Pur troppo in
queste Clodio vinse Vatinio con l’aiuto dei conservatori; non solo,
ma subito dopo, sfrontatamente, accusò il protetto di Pompeo,
Milone, di violenza. E quale giornata, il processo! I partigiani di
Milone e di Clodio vennero in folla al fôro; quando Pompeo si
levò a parlare per Milone i clodisti fischiarono;
allorchè venne la volta di Clodio i milonisti lo tempestarono
di atroci invettive, in prosa e in verso. Il processo fu sospeso per
lo spaventoso tumulto; ma a un tratto, in una pausa del chiasso,
Clodio si leva e rivolto ai suoi grida: Chi è che vi fa morir
di fame? E i suoi, ammaestrati, a una sola voce: Pompeooo! E Clodio:
Chi è che vorrebbe andare in Egitto? E i suoi: Pompeooo! E
Clodio: Chi bisognerebbe mandare? E i suoi: Crassooo!63.
L’aristocratico Pompeo tornò a casa, furioso e avvilito per
questi insulti della canaglia; Milone fu di lì a poco
assolto, ma fu anche assolto, intorno allo stesso tempo, Sesto
Clodio, il cliente di Clodio che Milone accusava di violenza; e fu
assolto perchè tutti i senatori che sedevano nel collegio
giudicante votarono a suo favore64. Ormai, per rovinare la
triarchia, i conservatori aiutavano apertamente Clodio, il demagogo
frenetico. Il loro coraggio era tanto cresciuto che, discutendosi di
lì a poco in Senato dei 40 milioni di sesterzi da assegnare a
Pompeo per gli acquisti del grano, molti senatori lamentarono con
violento linguaggio (pareva di essere, dice Cicerone, in una
radunanza popolare) che Cesare avesse tolti allo Stato i redditi
dell’agro campano, e domandarono se non si potesse sospendere la
legge di Cesare65: anzi Cicerone aveva proposto che si risolvesse la
questione nella seduta del 15 maggio66. Bisognava agire; e
poichè Crasso già era venuto a trovar Cesare nella
Gallia Cisalpina, a Ravenna, per consigliarsi con lui, poichè
Pompeo si recava in Sardegna e in Africa per gli approvvigionamenti
di Roma67, Cesare diede convegno a Lucca ad ambedue. Aveva imaginato
un ardito disegno per salvare la democrazia e il loro potere dalla
imminente rovina.
III.
LA DEMOCRAZIA IMPERIALISTA.
La conquista della Gallia, sebbene l’annuncio ne fosse ancora acerbo
e non verace, aveva tanto commosso l’Italia, perchè era
avvenuta in un momento propizio. Cesare aveva avuto, questa volta,
fortuna. Appunto perchè nella storia dell’Italia antica
l’imperialismo equivaleva all’industrialismo dell’Europa moderna, la
politica di conquista seguiva nel giudizio pubblico le vicende della
gran lotta tra le tradizioni dell’antica e rustica semplicità
italica e la civiltà voluttuosa, sfarzosa, artistica,
sapiente, nel tempo stesso raffinata e pervertita dell’Oriente
ellenizzato. L’antico spirito latino non era morto, no: viveva
ancora, nelle molte famiglie del ceto medio e dell’alto, che, pur
cercando arricchire, accoglievano i nuovi costumi con ragionevole
discernimento e conservavano la parte, eternamente sana e bella,
dell’antica semplicità68; viveva, anzi contrastava alla
diffusione delle stravaganze orientali, non solo con le sacre
memorie del buon tempo antico, ma con i sussidi della filosofia, che
l’Orientalismo stesso aveva divulgata per l’Italia. Non solo molti
filosofi antichi e specialmente Aristotele, allora tanto letto e
studiato, erano nemici del lusso, del troppo rapido aumento dei
bisogni, della cupidigia mercantile di cui avevano dimostrato il
pericolo69; non solo Varrone scriveva il suo dotto trattato di
Antichità civili e religiose, per restaurare la parte
più venerabile del passato con l’erudizione; ma proprio in
quei tempi incominciava a divulgarsi in Roma una setta
mistico-morale, nata al principio dell’ultimo secolo a. C. in
Alessandria, che si era detta dei neo-pitagorici, perchè
divulgando libri e precetti di morale attribuiti al vecchio e quasi
mitico filosofo, predicava tutte le virtù che venivano meno
nelle alte classi dell’Italia: la pietà verso gli Dei, il
rispetto dei genitori, la dolcezza, la temperanza, la giustizia, il
sollecito e scrupoloso esame, al cader della sera, delle azioni
compiute nel dì70. Pure in quegli anni, queste dottrine e
queste propagande appena potevano trattenere un poco la furia con
cui il sibaritismo orientale, simile a un torrente allo sciogliersi
primaverile della neve, inondava l’Italia da tutte le parti. Le
conquiste compiute da Pompeo in Oriente, l’aumento delle pubbliche
entrate, l’abbondanza dei capitali e la prosperità che dopo
la crisi del 66-63 erano state l’effetto di quelle conquiste,
avevano di nuovo inebriato la democrazia signora del mondo. L’Italia
era ormai non la Amazzone o la Minerva, ma la Baccante del mondo.
Afrodite, il dio Dionisos e l’Orgia con la torma delle Menadi
avevano invaso Roma, la scorrevano in pazze e sfrenate processioni
il dì e la notte, chiamando fuori a feste, a gozzoviglie, a
dissolutezze uomini e donne, patrizi e liberti, schiavi e cittadini,
poveri e ricchi. I banchetti delle società operaie e dei
circoli elettorali erano così frequenti, numerosi e
grandiosi, che ogni momento facevano rincarire a Roma il prezzo dei
viveri71; per quanto la repubblica ne comprasse dappertutto, il
grano scarseggiava sempre a Roma; i coltivatori degli orti
suburbani, gli allevatori di ammali, gli innumerevoli tavernieri e
vinai dell’Urbe arricchivano; arricchiva smisuratamente Eurisace, il
re delle farine e il maggior fornaio di Roma; un oscuro liberto che
aveva un immenso forno con moltissimi schiavi, e accaparratesi le
forniture dello Stato e forse anche di tutti i grandi banchetti
popolari, trionfali, politici, avrebbe potuto un giorno lasciare nei
secoli, a monumento della sua fortuna e della sua ricchezza, quel
bizzarro sepolcro a forma di forno, che sorge ancora quasi intero a
Porta Maggiore, mentre del mausoleo dei Giulii resta appena qualche
avanzo. Insieme con la Gallia, con i lucri, la gloria, le feste che
avrebbe fruttata la nuova conquista, l’altro massimo oggetto
dell’aspettazione pubblica era allora il teatro di Pompeo. Roma
spiava impaziente tra le grandi impalcature dietro le quali era
edificato, a poco a poco, sotto la direzione degli architetti greci,
dalle mani di un infinito numero di poco laboriosi muratori, nel
luogo dove ora sono il Campo dei fiori e le vie adiacenti, il primo
grande teatro di pietra che sorgesse in Roma, non ostante la antica
e austera legge che ne vietava la costruzione. Ma perissero queste
leggi delle stolide generazioni passate! Quando quel teatro fosse
finito, Roma, anche in questo, sarebbe stata a pari delle più
celebri metropoli dell’Oriente; e il popolo n’era orgoglioso, come
di una vittoria. Già si sussurrava, in tutta Italia, delle
grandi feste che sarebbero celebrate per l’inaugurazione; e intanto,
per intrattenere sino a quelle feste il popolo sempre più
avido di sollazzi, di giochi sanguinari, di pompe magnifiche, gli
ambiziosi si rovinavano per dargli spettacoli in teatri posticci;
per affittare gladiatori, suonatori, ballerini, mimi; per comprare
in ogni parte leoni, pantere, tigri, elefanti, scimmie, coccodrilli,
ippopotami, rinoceronti da far combattere o da mostrare72. Tutti i
governatori dell’Asia e dell’Africa diventavano per forza sensali di
fiere, per conto dei loro amici di Roma73. Scauro nel 58 aveva,
nelle feste dell’edilità, speso quasi tutti i guadagni di
Oriente, per adornare magnificamente con 3000 statue, con
meravigliosi quadri di Sidone, con 360 colonne di marmi finissimi,
un teatro di legno capace di 80000 spettatori, che doveva durar solo
un mese!74.
Troppa parte delle alte classi viveva ormai in una
promiscuità sfrontata di adulterî venali, di orgie
licenziose, di villeggiature gaudenti, di feste notturne, marine,
cittadine, di discussioni filosofiche e letterarie profuse di vino
nella notte75. In questa vita di dissipazione, le donne, che non
fossero nate con istinti di virtù nel tempo stesso delicati e
fortissimi, perdevano presto la vergogna e la serietà,
diventavano leggere lascive venali, rovinavano i mariti e si
vendevano ad amanti per soddisfare la smania degli adornamenti,
delle stoffe preziose, delle lettighe sontuose, dei begli schiavi
stranieri ben pettinati e vestiti, della mobiglia costosa.
Sopratutto tutte andavano pazze per le perle e le pietre preziose,
dopochè avevano visto nel trionfo di Pompeo le gemme di
Mitridate e potevano rimirarle ogni dì nel tempio di Giove
sul Campidoglio, dove Pompeo le aveva esposte76. Gli uomini
gareggiavano tra loro a chi avesse la cantina meglio fornita di
ottimi e carissimi vini greci, i vivai più abbondanti e
costosi, le ville più sontuose, la biblioteca meglio
provvista, l’amante più in voga. Peggiori di tutti i giovani:
cinici, avidi, spensierati, volubili, indocili all’autorità
paterna, impazienti di godere e di guadagnar presto, molto e senza
fatica77, simiglianti al modello dei cinque rompicolli più
celebri: Marco Antonio, figlio del pretore che nel 74 aveva
così male combattuto contro i pirati; Caio Scribonio Curione,
figlio dell’illustre conservatore e console del 76, che aveva fatto
le spedizioni in Tracia; Caio Sallustio Crispo, figlio di un ricco
proprietario di Amiterno; Marco Celio, figlio di un grande banchiere
di Pozzuoli; Catullo, il poeta senza giudizio. Antonio e Curione
erano così amici che i maligni li chiamavano marito e moglie;
e insieme avevano fatto tanti debiti, tante orgie, tante ribalderie,
sinchè Curione era stato obbligato dal padre ad abbandonare
Antonio; e Antonio, sopraffatto dai creditori, era fuggito in
Grecia, dove era parso mettere giudizio e darsi agli studi; ma
presto annoiatosi, era andato da Gabinio, che lo aveva fatto
ufficiale di cavalleria78. Sallustio, che pure aveva ingegno e studi
e coltura, sciupava tutto il suo con le donne; e acquistava in
compenso, tra gli amici, il nome di fortunato, per il gran numero di
avventure. Celio era stato un ardente ammiratore di Catilina, tanti
debiti aveva già allora; ma scampato alle repressioni, aveva
continuate le dissipazioni; era diventato amante di Clodia, si era
poi guastato con lei, e ora ne era accusato di aver avuto parte
nell’assassinio degli ambasciatori mandati da Alessandria ad
accusare in Senato Tolomeo Aulete79. Catullo, ormai in rotta con la
famiglia stanca delle sue prodigalità80, pieno di debiti,
afflitto dal tradimento di Clodia e dalla morte di un fratello,
perito non si sa come in Asia, era andato al seguito del pretore
Caio Memmio in Bitinia, per dimenticare i suoi crucci e per riempire
un poco la borsa. Presto però aveva sentita la nostalgia
della sua Roma81; e allora già si disponeva al ritorno, ma
dopo aver soddisfatto con i denari guadagnati un fantastico
capriccio di lusso; dopo aver cioè comprata, in una
città marinara del Mar Nero, forse ad Amastri, una elegante
navicella, un yacht diremmo adesso82. Che il mare ridesse presto,
per le carezze voluttuose degli zeffiri primaverili!83. Egli avrebbe
messo la vela al suo legno con la compra ciurma e mandatala in un
porto del Mar di Marmara, l’avrebbe raggiunta da Nicea84, dopo aver
pianto nella Troade sul cenere deserto del fratello85; poi
placidamente, come un re, nella nave sua, e non in un rozzo legno di
mercante, avrebbe costeggiato l’Asia Minore, passato attraverso le
Cicladi, e lungo le rive della Grecia sarebbe entrato nell’Adriatico
sino alle foci del Po, per risalirlo, e far poi portare per terra la
nave sul Garda86. Uno dei pochi giovani che sembrasse serio e
virtuoso era Marco Bruto, il figlio di Servilia: ma anche Bruto era
stato preso, accompagnando Catone all’impresa di Cipro, dalla smania
degli affari, dopochè ebbe conosciuti alcuni di quegli
affaristi italiani che infestavano l’Oriente; e aveva prestati
denari, ma senza comparire, al re Ariobarzane e alla città di
Salamina in Cipro all’interesse del 48 per 100: anzi, siccome la
legge di Gabinio vietava simili affari, intrigava allora presso il
Senato per ottenere una deliberazione che convalidasse il
prestito87.
Come Roma, le città minori, le campagne, tutta Italia, in
misura maggiore o minore, fervevano per una simigliante impazienza
di godere, che faceva smarrire alla nazione il senso del giusto e
dell’ingiusto, del verace e dell’irreale, della saggezza e della
follia, sospingendola ad avventurarsi nell’avvenire, senza prudenza,
senza preparazione, senza scrupoli, con il solo proposito di andar
sempre innanzi, a qualunque costo. Un orgoglio sconsiderato, una
temeraria fiducia nella fortuna, una pericolosa inclinazione a
considerare la prepotenza e la frode come prove di energia si
diffondevano insieme con questo orgiastico furore; e quindi una
facile ammirazione della politica aggressiva e dell’amministrazione
prodiga; una spensieratezza di debiti maggiore e più rovinosa
ancor dell’antica. Quasi tutti erano ormai nel tempo stesso debitori
e creditori; prestavano agli altri, quando possedevano qualche somma
libera e ne prendevano a prestito, quando ne avevano bisogno; onde
la società italiana era diventata un inestricabile arruffio
di debiti e di crediti, di syngraphae, come allora si chiamavano le
carte di credito, le quali il più spesso erano rinnovate alla
scadenza e si commerciavano, come oggi i titoli o le cambiali,
perchè la scarsezza del capitale in confronto alla domanda
avrebbe reso rovinoso il troppo frequente rimborso dei capitali. Chi
aveva bisogno di denaro cercava di vendere il suo credito verso una
terza persona a qualche finanziere, il quale naturalmente lo
scontava con un ribasso più o meno grande, secondo la
solidità del credito, il bisogno del creditore e l’abbondanza
del capitale88. I facinorosi, gli indebitati, i cupidi scacciavano
da tutte le magistrature gli uomini onesti e ragionevoli senza
fatica, perchè i più si ritraevano per disgusto
spontaneamente; e la moltitudine mediocre, vedendo i potenti far
legge il piacere, il capriccio, la cupidigia e le ambizioni proprie,
prendeva coraggio a esprimere fuori la perversità e la
follia, insita nella natura umana e contenuta di solito dal timore
della pena e dell’infamia.
Cesare capì che, in quel momento, l’Italia avrebbe seguito,
come ammaliata, gli uomini e il partito che ne avessero esaltato
ancor più l’orgoglio, la cupidigia, la avidità di
piaceri; e propose a Crasso e a Pompeo di inebriare la Baccante sino
alla frenesia89. Come tutti gli uomini politici di tipo
intellettuale, che non sono violenti per natura e non riescono
facilmente a incuter timore, Cesare era destinato a diventare un
gran corruttore, più abile a vincere le volontà
trattando il flessibile strumento dell’oro, che trattando il duro e
rigido ferro. Egli sapeva che l’arte del corrompere consiste non in
lasciarsi strappare con preghiere faticose il denaro, ma nel darne
facilmente o addirittura in offrirne, tentandoli, a coloro il cui
aiuto sia utile o necessario. Già in quell’inverno infatti
egli aveva profuso il denaro guadagnato nelle guerre belgiche,
largheggiando in prestiti e sussidi con gli uomini politici venuti a
riverirlo da Roma90; favorendo il commercio e la agricoltura
italiana nelle forniture; comperando, ad esempio, i cavalli per
l’esercito in Italia, quando avrebbe potuto procurarsene nelle
Gallie, che ne eran tanto provviste91. Ma intendeva far cose
maggiori, negli anni seguenti: ingrandire ancora l’imperialismo
aggressivo inventato da Lucullo; fare egli e incitare gli amici a
fare grandi conquiste; moltiplicare le occasioni di guadagno ai
fornitori militari, ai numerosi mercanti che seguivano l’esercito in
Gallia, ai soldati, agli ufficiali; intraprendere grandi lavori
pubblici in Italia e in Roma; istituire a Capua scuole di gladiatori
per i sollazzi del popolo92; profondere il denaro tra tutte le
classi sociali. Crasso riconcilierebbe Clodio con Pompeo ed ambedue
si proporrebbero candidati al consolato per l’anno 55; Cesare li
aiuterebbe mandando a Roma molti soldati per le elezioni; durante il
consolato essi farebbero prolungare a lui per cinque anni il comando
delle Gallie e assegnargli i fondi per pagare le legioni che egli
aveva reclutate oltre quelle assegnategli dal Senato dopo il
principio della guerra: egli conquisterebbe in quei cinque anni la
Britannia e porterebbe le legioni oltre il Reno; uno di loro, dopo
il consolato, avrebbe avuta la provincia della Siria e compiuta la
conquista della Persia; quanto all’Egitto, ambedue ne deporrebbero
l’idea, ma si incaricherebbe Gabinio di ricondurre, senza
autorizzazione del Senato, Tolomeo nell’Egitto, a condizione che
pagasse a ciascuno di loro una somma considerevole. Sembra che la
somma chiesta da Cesare fosse di 17 milioni e mezzo di sesterzi
(più di 4 milioni di lire nostre)93. L’uomo che aveva come
console cercato di guarire, con una magnifica legge, quella malattia
cronica delle società civili che è la venalità,
si preparava a corrompere l’intera Italia. Cesare non era uno
scellerato per natura; ma non possedeva nemmeno la
sensitività di Cicerone, per la quale certi scrupoli almeno
non venissero mai meno, neanche quando fosse necessario distruggerli
per soddisfare l’ambizione. Immaginoso, ambizioso, eccitabile, la
sua morale era quella del successo incondizionato, ottenuto con il
minor male possibile.
Noi non sappiamo quali discussioni ebbero luogo allora tra Cesare,
Pompeo e Crasso; ma è verisimile supporre che Crasso
approvasse questo disegno più presto che Pompeo. Agli egoisti
che hanno avuta molta fortuna accade sovente che, sazi di tutti gli
altri beni goduti facilmente e in abbondanza, avidi di nuove
soddisfazioni, gelosi dei successi altrui, si esasperano alla fine
nell’ostinazione di riuscire in qualche cosa che è loro, per
una ragione o per un’altra, impossibile, sciupandosi così
tutta l’altra felicità. Crasso stava per scontare
definitivamente, con questo tormento, l’insaziabile egoismo. Egli
aveva avuta la potenza e la ricchezza, non la popolarità di
Lucullo, di Pompeo, di Cesare, appunto perchè era troppo
freddo, chiuso, intento al proprio bene; ma la popolarità
aveva desiderata per tutta la vita, e aveva fatto, a varie riprese,
grandi sforzi per conseguirla, senza riuscirvi mai. Più volte
perciò si era rasserenato a restarne privo, contentandosi del
potere e della ricchezza. Ma ora, nella esaltazione universale, la
antica smania si era di nuovo riaccesa. La grande politica
imperialista creata da Lucullo aveva fruttata troppa gloria al suo
autore e a Pompeo, cominciava a fruttarne troppa a Cesare; l’enfasi
contagiosa dei tempi faceva credere ai più smisurati sogni di
grandezza; Crasso non voleva, non poteva restare con la semplice
gloria di vincitore di Spartaco, quando gli altri avevano compito
imprese tanto più grandi, quando tutti credevano che egli
avrebbe facilmente potuto eguagliar la gloria di Alessandro Magno.
La speranza di conquistare la Persia bastava a fargli approvare
l’accordo. Pompeo invece, che solo dei tre conosceva un poco i
Parti94, che avrebbe potuto ma che non aveva voluto compir l’impresa
nel 63, abbandonò facilmente la Persia al collega; e forse
considerò in principio con avversione tutto questo disegno di
democrazia conquistatrice e corrompitrice. Egli incominciava
già a spaventarsi della demagogia; e come tanti ricchi
soddisfatti inclinava a considerar buona per gli altri una morale di
semplicità, di austerità, di prudenza. Ma poteva egli
romper l’unione con Cesare e Crasso? Egli amava sua moglie; il
Senato era pieno di nemici suoi; Clodio, già così
audace, che cosa non avrebbe osato, il giorno in cui Cesare e Crasso
lo avessero apertamente incitato ad assalirlo? Egli non poteva
restaurare il suo credito in decadenza, se non ridiventando console,
compiendo bene la sua missione annonaria, facendosi attribuire
qualche nuovo comando straordinario. Solo, non avrebbe potuto
ottener tante cose. Per questo egli accettò alla fine,
sebbene con malavoglia, le proposte di Cesare.
Come Caio Gracco quasi settantacinque anni prima, Cesare nel 56, per
rinvigorire il partito democratico, tentava di formare intorno alla
sua persona una vasta e potente coalizione di interessi mercantili.
IV.
IL SECONDO CONSOLATO DI CRASSO E POMPEO.
(Anni 56-55 a. C.)
Poco dopo il convegno di Lucca, Cesare dovè abbandonare il
pensiero di una lunga dimora nella Cisalpina e valicare in fretta le
Alpi. Parecchi dei popoli dell’Armorica, arresisi nell’autunno
precedente, si erano già ribellati, con a capo i Veneti, che
avevano messi in catene gli ufficiali mandati tra loro a requisire
viveri. Incominciavano presto, le rivolte, nella provincia
“pacificata!” La annessione aveva irritato i popoli gallici,
specialmente i Belgi e i Treviri; di più, le popolazioni
dell’Aquitania, non ancora sottomesse, si disponevano ad aiutare i
Veneti, temendo che Cesare intendesse di comprendere anche loro
nella “pacificazione” della Gallia95.
Cesare non poteva, quando i suoi amici magnificavano a Roma con
tanta enfasi, per confondere i conservatori, la conquista della
Gallia, dare ai Galli motivo o pretesto di supporre che egli
esitasse nel considerare e trattare il loro paese come provincia
già conquistata. Perciò non solo impose subito allora
alla Gallia la contribuzione annua di 40 milioni di sesterzi96; non
solo si dispose a reprimere severamente la rivolta dei Veneti; ma
deliberò di sottomettere senza indugio i popoli ancora
indipendenti. Mandò Labieno con la cavalleria nel territorio
dei Treviri, per tener questi e i Remi e i Belgi in rispetto;
spedì Quinto Titurio Sabino con circa diecimila uomini a
devastare il territorio dei Venelli, dei Curiosoliti e dei Lessobii,
alleati dei Veneti, per impedir loro di unire a questi le proprie
forze; incaricò Publio Crasso di costringere l’Aquitania a
sottomettersi, percorrendo il paese con molta cavalleria e con circa
4000 soldati. Egli stesso si assunse l’impresa di domare i Veneti97.
Siccome questo popolo aveva una flotta numerosa, ordinò di
costruire navi sulla Loira: arruolò piloti e rematori
dappertutto; ordinò ai Pictoni e ai Santoni, che non si
univano ai ribelli, ma che non si erano ancora sottomessi, di
fornire navi, dichiarandoli così sudditi di Ronia98; e messo
a capo della flotta Decimo Bruto, un giovinetto, figlio del console
del 77 e di quella Sempronia che aveva avuto parte nella congiura di
Catilina, entrò con l’esercito, quando ancora la flotta si
stava raccogliendo, nel territorio del Veneti. Ma se Titurio e
Publio Crasso riuscirono facilmente e prontamente, ciascuno
nell’impresa sua, più difficile fu quella di Cesare. I Veneti
si rifugiarono in castelli edificati su lingue di terra sporgenti
nel mare, in tal posizione che il ritmo quotidiano delle grandi
maree oceaniche li difendeva meglio che ogni opera umana; scacciando
periodicamente, con la inondazione dell’alta marea, l’esercito che
li assediasse per terra; lasciando in secco alla bassa marea la
flotta che intendesse oppugnarli per mare. Cesare infatti
consumò molta parte dell’estate in vani tentativi contro
questi strani castelli imprendibili, a volta a volta marini e
terrestri, che non si potevano assediare nè per terra
nè per mare.
In quegli stessi mesi Pompeo, riconciliato con Clodio, e Crasso,
sempre più invasato dall’idea della sua conquista,
signoreggiavano Roma, l’Italia e l’Impero. Il rinnovato accordo dei
tre potenti aveva soggiogata di nuovo in un baleno la maggioranza
del Senato, e ridotta l’opposizione conservatrice a un piccol numero
di senatori troppo orgogliosi, ostinati o compromessi: Catone,
Favonio, Domizio Enobarbo. Anche Cicerone era stato voltato a tempo.
Pompeo, andato da Lucca in Sardegna a cercar grano per Roma, gli
mandò il fratello Quinto Cicerone, cui Cesare aveva promesso
un comando in Gallia, a dirgli che il suo discorso in Senato sulla
legge agraria di Cesare gli era spiaciuto99; e Cicerone si era
lasciato facilmente persuadere ad andare in campagna, quando si
sarebbe dovuto, il 15 maggio, discorrere in Senato, come egli aveva
proposto, delle leggi agrarie100; non solo, ma si era impegnato
anche a parlare per Cesare, quando ai primi di giugno101 verrebbe in
discussione in Senato la proposta di mandare dieci legati a ordinare
la Gallia, di confermare Cesare nel governo della Narbonese, di
assegnargli i fondi per mantenere le quattro legioni nuove. Ormai il
grande oratore diventava scettico; e a cinquanta anni, stanco per le
traversìe degli ultimi tempi che ne avevano acuita la
sensibilità a un pavido orrore di ogni ansia e commozione
violenta, impedito di primeggiare nella politica dalla sua
svogliatezza e dagli avvenimenti che lo avevano posto in disparte,
quasi si rassegnava al riposo, dimenticava le ambizioni politiche,
sentiva rinascere le prime ambizioni letterarie della giovinezza,
dimenticate nel vorticoso tumulto degli anni seguiti alla accusa di
Verre. Egli aveva incominciato, come ogni giovane, scrivendo versi
su tutti i soggetti, perfino un poemetto epico sul suo concittadino
Mario; aveva anche raffazzonato un trattatello di rettorica, de
inventione, breve e asciutta compilazione scolastica; ma poi,
diventato uno degli avvocati e dei politici più affaccendati
di Roma, non aveva potuto più comporre che discorsi e scritti
d’occasione, come quelli sul suo consolato, nella stretta dei
giorni, spesso delle ore contate. Soltanto al ritorno dall’esilio
aveva incominciata un’opera di lunga lena: quel bel dialogo de
oratore, così vivo di figure, di stile, di narrazioni, di
considerazioni, di ricordi personali; e nel riposato scrivere di un
vasto lavoro trovava allora un diletto nuovo, che lo invogliava al
riposo. La sua rettitudine provinciale e borghese gli faceva inoltre
sentire per Pompeo, che lo aveva richiamato dall’esilio, un debito
di gratitudine, che in quella dissoluzione dei partiti si mutava
facilmente in obbligazione politica. Perchè avrebbe offeso
Pompeo, per compiacere una piccola fazione di aristocratici
arrabbiati, che lo aveva abbandonato con tanto egoismo, nei giorni
del pericolo; e altrettanto, se pur diversamente, piena di vizi,
quanto il partito nemico? E Cesare, se in molte cose aveva torto,
non attendeva allora a una delle più grandi imprese di
guerra?102 Infine egli pure, vinto dall’esempio universale, si era
dato allora a ornare la semplicità del suo vivere con qualche
lusso; e cominciava a prenderci gusto103; ad ammollirsi; a diventar
scettico ed egoista. Perchè cercar fastidi senza ragione? Non
era meglio imitare la signorile e forte serenità di Varrone?
Questo ricco, dotto e nobile signore, nuotatore vigoroso che si era
tuffato a più riprese nel fiume rapido della politica senza
lasciarsi mai travolgere dalla corrente e uscendone sempre a
piacere, aveva esercitate molte magistrature, era stato legato nella
guerra piratica, aveva ricevuto anche egli il bel milione di
ricompensa, e ne era riconoscente a Pompeo; ma non avvinto a nessuna
clientela, aveva, giudicato severamente la politica dei triarchi nel
59; e perciò ora si teneva in disparte, tranquillamente,
migliorando la coltivazione delle sue terre, professando idee
ragionevolmente conservatrici, e contribuendo con gli studi e gli
scritti così a rinnovare la parte migliore delle tradizioni
antiche come a diffondere la cultura greca a Roma, in quella forma
in cui questa generazione frettolosa di dilettanti e di uomini
d’azione la desiderava: enciclopedie, riassunti, manuali. La sua
grande opera in nove libri, Disciplinae, era infatti una
enciclopedia. Si dilettava anche di arte; e faceva lavorare molto
Archesilao, uno dei primi scultori di Roma, a cui aveva ordinato tra
le altre cose una magnifica leonessa di marmo, circondata da
prepotenti amorini che la legano: grazioso simbolo dell’amore104.
Cicerone, che gli era amico, si invogliava a seguirne l’esempio, non
desiderando più che due cose: mostrarsi grato a Pompeo e
vendicarsi di Clodio, con il quale continuava una baruffa di
contumelie, di dispetti, di scandali che divertiva Roma105.
Perciò, sebbene egli approvasse poco la convenzione di Lucca,
pronunciò in Senato il discorso de provinciis consularibus,
nel quale magnificò anche egli, come allora era moda, la
definitiva conquista della Gallia; rispondendo a coloro i quali
domandavano come mai si chiedessero nuovi denari e soldati per una
conquista finita, che le grandi operazioni militari erano terminate,
ma restavano ancora i piccoli avanzi della guerra106. L’opposizione
dei conservatori fu facilmente vinta; si deliberò l’invio dei
dieci legati per riordinare la nuova conquista; e la Gallia fu,
nella primavera del 56, definitivamente dichiarata dal Senato
provincia romana. Si deliberò anche che Pisone sarebbe
richiamato, alla fine dell’anno, dalla Macedonia; che il governo di
Gabinio in Siria finirebbe con l’anno 55; che la Siria sarebbe data
come provincia a uno dei consoli di questo anno.
Intanto si avvicinava il luglio, il mese delle elezioni. Lucio
Domizio Enobarbo aveva già annunciato, e tutti aspettavano
che Crasso e Pompeo dichiarassero anche essi di proporre la
candidatura, di cui si parlava nel pubblico sin dopo il convegno di
Lucca. Ma i giorni passavano; Crasso e Pompeo tacevano. La diceria
della candidatura era falsa? Crasso e Pompeo avevano mutato
pensiero? Ma non passò molto tempo che due tribuni della
plebe incominciarono a rimandar le elezioni, interponendo il veto
ogni volta, che si voleva fissarne il giorno107: e ben presto si
seppe lo scopo di questo maneggio. Siccome il console che presiedeva
le elezioni poteva escludere, ad arbitrio, ogni candidatura che non
gli piacesse, Crasso e Pompeo non volevano che le elezioni
avvenissero sotto la presidenza nè di Gneo Cornelio Lentulo
nè di Lucio Marcio Filippo, conservatori ambedue. L’opinione
pubblica imparziale biasimava le due troppo ambiziose
candidature108; e il console presidente dei comizi poteva essere
incoraggiato dalla disapprovazione degli alti ceti a cercar che
fallissero109. Perciò Crasso e Pompeo avevano pensato di far
differire le elezioni dai tribuni, senza apparire essi stessi, sino
all’anno nuovo, quando le elezioni sarebbero fatte, secondo la
costituzione, sotto la presidenza di un interrege, nominato dal
Senato. Con tanto maggior zelo il piccolo manipolo conservatore
cercò, agitando il pubblico disgustato da questi maneggi, di
costringere Pompeo e Crasso ad abbandonar l’ostruzionismo, o almeno
a dichiararsene autori. Lentulo li provocò in Senato in varie
maniere, per far loro dichiarare se intendevano concorrere alla
suprema carica; e convocò perfino un gran meeting popolare,
in cui, alla presenza dei senatori di parte conservatrice convenuti
tutti con gli abiti di lutto, accusò Pompeo di essere un
tiranno110. Invano però. Il pubblico imparziale biasimava le
faziose ambizioni di Crasso e di Pompeo, ma scettico e indifferente
badava solo a divertirsi e ad arricchire; nel mondo politico quasi
tutti avevano tanta paura di affrontare l’ira dei tre potentissimi,
che molti senatori non si facevano più vedere nella curia111;
cosicchè, non ostante tanti sforzi, i mesi passavano senza
che i comizi potessero tenersi, e Crasso e Pompeo continuavano ad
affettare di non essere in colpa per l’ostruzionismo dei tribuni. I
conservatori cercarono di vendicarsi facendo processare, per
usurpata cittadinanza, Lucio Cornelio Balbo, l’abilissimo ed
alacrissimo agente di Cesare e di Pompeo. Ma Pompeo pregò
Cicerone di difenderlo; e Cicerone, con un discorso che noi
possediamo ancora, lo fece assolvere112.
Frattanto la rivolta de’ Veneti era stata domata, allorchè
finalmente Decimo Bruto era comparso nelle loro acque con la flotta,
raccolta e messa in ordine mentre Cesare si affaticava inutilmente
ad assediarne i castelli. I Veneti, sia che spregiassero quella
flotta raccogliticcia, sia che stanchi dei lunghi assedi sperassero
di finir la guerra, montarono subito sulle navi lasciando i castelli
con piccola guardia, e offrirono battaglia sul mare; ma Decimo
Bruto, sebbene giovane e novizio, seppe comandare molto bene,
infliggendo loro una grave sconfitta e molte perdite di uomini e di
navi, che li indussero ad arrendersi. Cesare, per dimostrare
nuovamente che la Gallia era ormai provincia romana, condannò
a morte tutti i notabili. Poi, siccome i Morini e i Menapii non si
erano ancora arresi, intraprese, sul cadere della estate, una
spedizione nel loro paese, la quale però non riuscì.
Questi barbari bellicosi non andarono in grandi moltitudini a farsi
macellare dalle legioni; ma si dispersero per le foreste e le paludi
in piccole bande portandosi via i tesori più preziosi; e
incominciarono la guerriglia delle sorprese sui piccoli
distaccamenti romani. L’inverno si avvicinava; Cesare capì
che non era prudente avventurarsi troppo lontano, in un paese
così selvaggio; e devastate un poco le terre per cui passava,
tornò indietro mandando l’esercito a svernare ne’ paesi che
si erano ribellati in quell’anno. Così finiva il terzo anno
di guerra, felicemente e con molto lucro; perchè queste
repressioni erano state pretesto di devastazioni e rapine, con le
quali Cesare, gli ufficiali superiori (specialmente Mamurra e
Labieno), tutto l’esercito incominciarono a rifarsi dei travagli e
dei pericoli, troppo scarsamente ricompensati, dei due primi
anni113. Tuttavia Cesare, che dopo due anni di osservazioni, di
inchieste, di pratica incominciava a conoscere il paese,
incominciava pure a dubitare che la conquista da lui annunciata come
definitiva, fosse precaria e malsicura. La improvvisa annessione
aveva fatto sparire in tutti i popoli gallici il partito amico dei
Romani che esisteva prima, togliendo autorità agli uomini che
lo rappresentavano114; onde, se non voleva esser costretto a domare
ogni anno insurrezioni, egli doveva crearne un altro; opera
difficile e lenta per sè, che egli tentò in mezzo a
tante faccende, non con metodo e perseveranza, ma frettolosamente,
con diversi espedienti, come potè. Nella Gallia ferveva,
effetto di una rovinosa concentrazione delle fortune, una intensa
lotta politica tra gli avanzi di una numerosa nobiltà
proprietaria ed una piccola plutocrazia, che si era formata in mezzo
a questa nobiltà. Un piccolo numero di nobili, approfittando
dell’indebitamento di molte famiglie aristocratiche, veniva
riducendo in suo potere, specialmente nelle nazioni più
forti, la maggior parte delle terre e dei capitali, monopolizzava
l’appalto delle gabelle e dei pedaggi, prestava denaro a uomini di
tutti i ceti; e potente per il gran numero di debitori, di clienti,
di servitori e dipendenti, guadagnando con largizioni molto favore
in mezzo alla plebe povera, si sforzava di acquistare un potere
quasi monarchico nelle antiche repubbliche aristocratiche della
Gallia115. La Gallia insomma era piena di demagoghi milionari, che,
proprio come Crasso, Pompeo e Cesare a Roma, cercavano di costituire
governi personali contro l’opposizione della nobiltà
conservatrice; che si servivano della ricchezza per conquistare
maggior potere politico e del potere politico per accrescere la
ricchezza, riserbandosi gli appalti più lucrosi, spingendo la
propria nazione a guerre che fruttassero loro. Infatti i popoli
più potenti della Gallia si facevano senza tregua guerre116,
fomentate probabilmente da questi grandi, per rendersi tributari i
popoli più piccoli: feroce fra tutte la rivalità tra
gli Edui e i Sequani, che guerreggiavano ostinatamente per il
dominio della Saona e dei suoi fruttuosi pedaggi117. Cesare aveva
nel primo anno parteggiato piuttosto per la nobiltà
conservatrice, impedendo l’impresa degli Elvezi, che pare fosse
favorita dai grandi plutocrati della Gallia con scopi non ben
chiari118; ma a questo punto, con l’opportunismo temerario di cui a
più riprese diè prova nella sua vita, mutò
politica. Giudicando questa plutocrazia più potente che la
nobiltà in decadenza, e forse anche sentendo che pure in
Gallia gli era più facile andar d’accordo, per il suo
temperamento e la sua condizione, con questi pochi demagoghi
anzichè con i conservatori, egli cercò di amicarsi i
più potenti di loro e favorirne le ambizioni politiche: mise
nel numero dei suoi amici Vercingetorice, il giovane capo della
più potente famiglia nobile degli Arverni119; creò
Tasgeto re dei Carnuti120, Cavarino re dei Senoni121, Commio re
degli Atrebati122; pare avesse idea di far Dummorige, il suo nemico
del 58, re degli Edui123. Nel tempo stesso pensò, applicando
il principio divide et impera, di aiutare gli Edui e i Remi a tenere
il primato a scapito dei rivali, come i Senoni, i Sequani, gli
Arverni124. Egli sperava di consolidare così il dominio
romano in Gallia125.
A ogni modo, quali che dovessero essere gli effetti di questa
politica, per il momento gli eventi eran prosperi in Gallia per la
triarchia; e prosperi pure nella metropoli; dove Crasso e Pompeo
eran riusciti, senza parere, a far differire le elezioni sino
all’anno 55, a far nominare un interrè di loro fiducia, che
procederebbe alle elezioni! Cesare aveva mandato in congedo, a
votare, molti soldati, condotti da Publio Crasso: tuttavia Lucio
Domizio Enobarbo, incoraggiato da Catone, non si ritrasse; e la
mattina della votazione, all’alba, mosse di casa sua, con un
corteggio di schiavi e di clienti, per recarsi a sollecitare i voti.
Ma ad un tratto, allo svolto di una strada, la comitiva fu assalita
da una torma di bravi; lo schiavo che precedeva con la torcia, per
illuminare il cammino, fu ucciso e molti del seguito feriti.
Spaventato da questo avviso chiarissimo, Domizio scappò a
casa126; Crasso e Pompeo furono eletti senza contrasto; ed eletti si
accinsero subito a porre in esecuzione la parte più
importante della convenzione di Lucca. Un tribuno della plebe, Caio
Trebonio, figlio di un ricco uomo di affari127 che voleva segnalarsi
nella politica, e dopo aver cominciato come conservatore si era
volto al partito di Cesare, propose e fece approvare, non ostante i
tumulti scatenati dai conservatori, che ai due consoli dell’anno si
dessero per Provincie, all’uno la Siria, all’altro le due Spagne,
per cinque anni e con il diritto di dichiarare la guerra. Approvata
la legge i consoli proposero che si desse per altri cinque anni il
governo delle tre Gallie a Cesare; e la proposta fu approvata senza
scandali e tumulti, sebbene Cicerone cercasse di dissuadere Pompeo
in colloqui amichevoli128. Dopo un breve riposo in campagna, tornati
a Roma in aprile129, Pompeo e Crasso proposero leggi che avrebbero
dovuto, nella intenzione dei loro autori, ricomporre un poco il
disordine dei tempi: Crasso una legge contro la corruzione; Pompeo
una legge più severa sul parricidio e una riforma giudiziaria
per la quale i giudici fossero scelti meglio; voleva anche proporre
una legge contro il lusso, che mostra come egli già allora
inclinasse a idee che negavano, nella sua essenza, la fastosa
politica imperialista di Cesare. Ma Ortensio l’indusse a ritirarla,
con un grande discorso in lode del lusso e della magnificenza,
naturale ornamento della potenza130.
Le riforme però non servivano a nulla. Il disordine dello
Stato cresceva, come una tempesta più violenta di ora in ora.
Ai primi di aprile a Pozzuoli, porto ormai molto frequentato da navi
e da mercanti egiziani per i progressi del commercio diretto tra
l’Italia e l’Egitto, era corsa una diceria singolare: che Tolomeo
fosse stato ricondotto ad Alessandria da un esercito romano131. Come
era ciò possibile, se il Senato non aveva presa nessuna
deliberazione? Difatti non arrivò alcuna notizia ufficiale
dell’avvenimento. Eppure la diceria era vera; Gabinio aveva compiuta
di proposito proprio l’impresa. Tolomeo, stanco di pagare, come gli
aveva predetto Catone132, senza ottener nulla a Roma, era andato ad
Efeso; ad Efeso, dopo il convegno di Lucca, lo aveva raggiunto
Rabirio; e insieme si erano recati con lettere di Pompeo in Siria a
Gabinio, il quale, obbedendo agli ordini di Pompeo, aveva
acconsentito ad abbandonare il disegno di una guerra contro le
popolazioni arabe e contro i Parti, per ricondurre Tolomeo, senza
ordini del Senato, a queste condizioni: egli riceverebbe una lauta
ricompensa e Rabirio sarebbe nominato ministro delle finanze
dell’Egitto, a garanzia dei creditori italiani del re. Infatti tra
la fine del 56 e il principio del 55 Gabinio aveva invaso l’Egitto,
e rimesso sul trono Tolomeo, con l’esercito nel quale militava anche
M. Antonio133. Immaginarsi le proteste dei conservatori! Ma causa di
commozione ancor maggiore fu di lì a poco la notizia, presto
divulgatasi, che Crasso, come governatore della Siria, avrebbe
tentata la conquista della Persia. In breve infatti Crasso si
accinse a fare i preparativi della campagna apertamente; a reclutar
soldati, a scegliere gli ufficiali, a ordinare le sue faccende per
una lunga assenza, compilando un accurato inventario della propria
fortuna. Egli potè constatare di aver raddoppiati
ventiquattro volte i 300 talenti lasciatigli dal padre, di possedere
ora un patrimonio di 7000 talenti, che corrisponderebbero a circa 31
milioni di nostra moneta134. Eppure egli non era contento: anzi
l’universale inclinazione all’enfasi, l’orgoglio, la
temerità, il fervore contagioso dei tempi, la vecchia
ambizione ridesta al fine ed esaltata dal fervore dei preparativi
dopo tanti anni di riposo, le adulazioni che sogliono molcer sempre
le orecchie di un gran signore in procinto di commettere una follia
risvegliavano nel vecchio una baldanza straniera all’indole sua,
sino allora così prudente: voler egli superare Lucullo, che
si era spento dolcemente, come un bambino, nella demenza senile,
l’anno innanzi; rifar la via di Alessandro sino all’India;
conquistar l’universo135. A poco a poco il pubblico si era
infervorato; molti giovani cercavano farsi accettare come ufficiali,
tra gli altri Caio Cassio Longino, che frattanto aveva sposata una
figlia di Servilia e perciò era cognato di Bruto: solo il
piccolo partito conservatore, che per opposizione alla democrazia
imperialista avversava ormai apertamente la politica di conquista,
prediceva che la guerra sarebbe finita con un disastro, tanto il
paese era lontano e ignoto, il nemico terribile; affermava che la
guerra era ingiusta, perchè i Parti non ne avevano dato
motivo136. Un simigliante argomento non era più usato in Roma
da un pezzo. Ma nessuno studiava seriamente, nell’uno o nell’altro
partito, le difficoltà dell’impresa.
Meno ancora di Crasso e di Pompeo, riposava Cesare. Ritornato dalla
Cisalpina nella Gallia, nella primavera del 55, per preparare la
conquista della Britannia, ne era stato distolto da una invasione di
popoli germanici, gli Usipeti e i Tencteri, che probabilmente i capi
del partito gallico avverso ai Romani avevano segretamente incitati
a passare il Reno. Queste orde pare fossero molto numerose; e
Cesare, perdendo anche egli, nella fretta di riuscire, gli scrupoli,
per non impegnarsi in una guerra difficile contro un nemico
numeroso, era riuscito a infligger loro una disfatta con uno
stratagemma sleale: assalendoli all’improvviso, mentre li teneva a
bada con fallaci trattative di pace137; poi aveva risalita la valle
del Reno sino al luogo dove ora è Bonn, e, costruito in dieci
giorni un ponte, aveva fatta una rapida corsa nel territorio degli
Svevi e dei Sicambri. Solo allora, quando già la stagione era
molto avanzata, egli poteva, preparare un rapido sbarco in Britannia
con due legioni, che sarebbe preparazione all’impresa più
vasta della conquista per l’anno prossimo. A Roma queste notizie
destarono immenso entusiasmo, sebbene la impresa fosse di poca
importanza; si diceva che Cesare avesse sconfitto 300 000
Germani; la scesa in Britannia sopratutto pareva meravigliosa. Se
Cesare sapeva poco della Britannia quando si mosse, a Roma nessuno
ne sapeva niente; eppure tutti sognavano già a occhi aperti
immense ricchezze che si troverebbero nella lontana isola, fortune
colossali che si sarebbero fatte138; tanto l’imperialismo popolare
è in tutte le età stupido e fanciullesco; tanto Cesare
conosceva l’arte di impressionare da lontano le moltitudini ignare e
pacifiche, con imprese che la distanza faceva apparire immense ed
eroiche! L’orgiastica Roma non ragionava più, voleva solo
divertirsi, commuoversi, inebriarsi, e qualunque pretesto era buono.
Sul finire dell’estate si erano finalmente abbattute le impalcature
del teatro di Pompeo; e la immensa, magnifica, splendente mole
marmorea aveva abbagliato Roma139. Per eludere la legge che vietava
in Roma la costruzione di teatri in pietra, Pompeo aveva fatto
costruire in cima alla cavea un tempio di Venere, in modo che i
banchi marmorei su cui potevano pigiarsi gli spettatori avessero
apparenza di una curva e immensa gradinata conducente al piccolo
tempio; di faccia era la scena; dietro la scena un portico, dove il
popolo poteva rifugiarsi dal teatro, se un aquazzone interrompesse
lo spettacolo: un immenso portico quadrato retto da colonne
grandiose, adorno di quadri e di statue; pitture di Polignoto,
statue simboliche delle nazioni vinte da Pompeo, secondo una
tradizione anche la statua, opera di Apollonio figlio di Nestore, di
cui ci è giunto il meraviglioso frammento che ha nome Torso
del Belvedere140. In una parte del portico le colonne erano chiuse,
formando una bellissima sala, la Curia di Pompeo, dove avrebbe
potuto radunarsi anche tutto il Senato141. Magnifiche feste
celebrarono la inaugurazione di questo primo monumento, veramente
degno della grandezza imperiale di Roma: tra le altre una caccia di
belve nella quale gli elefanti feriti barrirono con lamentazioni
così umane, che il pubblico, quel pubblico che si scannava
nelle zuffe del fôro e si beava a veder correre il sangue dei
gladiatori si intenerì142. La sensibilità nervosa che
incominciava a diffondersi, aveva strani capricci!
Ma il partito conservatore, che quanto più rimpiccioliva
tanto più si faceva ostinato, non abbandonava la lotta: si
era battuto disperatamente in ottobre143 nelle elezioni, ed era
riuscito a mettere accanto ad Appio Claudio, fratello maggiore di
Clodio e amico di Pompeo, Domizio Enobardo, come console per l’anno
54; aveva fatto elegger pretori, insieme a Caio Alfio Flavo amico, e
a Servio Sulpicio Galba generale di Cesare, Catone e Publio
Servilio, il figlio del vincitore degli Isauri; e adesso rispondeva
alle dimostrazioni del giubilo popolare per le vittorie di Cesare,
facendo proporre dal più intrepido misovulgo della storia,
Catone, che Cesare fosse consegnato agli Usipeti e ai Tencteri, per
aver violato il diritto delle genti, come la religiosa e austera
Roma dei tempi antichi soleva fare. Osava infine, questo partito,
un’audacia maggiore. Crasso arruolava soldati in Italia, per
formare, aggiungendoli alle legioni di Gabinio, un esercito
sufficiente all’impresa; e non trovando bastevole numero di
volontari, procedeva ad arruolamenti obbligatori con una fretta
senza riguardi, troppo brutale per una nazione ormai tanto svogliata
dalla milizia come l’Italia. Anzi queste leve furono cagione di tal
malcontento, che il partito conservatore osò tentar di
impedirle per mezzo di due tribuni, Caio Ateio Capitone e Publio
Aquilio Gallo144. Ma Crasso, già impaziente e smanioso, fu
incitato ancor più da questi intrighi a far presto e a partir
per la provincia, ancora in novembre. Non potendo far altro, Ateio
lo accompagnò, il giorno in cui Crasso uscì di Roma
con il seguito e il figlio Publio, che Cesare gli aveva mandato con
un corpo di cavalieri galli, sino al Pomerio, perseguitandolo di
maledizioni ed esecrazioni infauste; che l’orgoglioso banchiere
invasato dall’ambizione ascoltò senza batter ciglio. Ma
è probabile che l’esercito non fosse così impassibile
come lui; e che i soldati novizi, che egli si traeva dietro a forza,
nella lontana avventura, già di malavoglia e pavidi dei
pericoli, ne fossero un po’ sconcertati. Il seguito di questa guerra
e la progressiva decadenza militare dell’Italia, che voleva godere
le conquiste al sicuro più che farle, inducono a supporre
così.
V.
LA PRIMA DELUSIONE
DELLA DEMOCRAZIA IMPERIALISTA:
LA CONQUISTA
DELLA BRITANNIA.
(Anno 54 a. C.)
Questo vecchio, che a sessant’anni ricingeva spada e corazza per
saziare una bramosìa troppo a lungo inappagata di gloria
popolare, aveva fretta. Egli si avviava alla conquista della Persia
diritto e difilato, sospinto ad affrontare in linea retta, senza
abili e lunghi giri, anche gli impedimenti maggiori, dalla
irascibile impazienza senile, dal desiderio di tornar presto a Roma
a godersi il successo, dall’orgogliosa fiducia nella riuscita, in
cui l’avevano indotto i tempi, la fortuna, il potere. Giunto a
Brindisi volle subito passare il mare pur nella cattiva stagione e
perdè infatti nella traversata molte navi ed uomini145;
sbarcato a Durazzo si avviò senza indugio, per la via
Egnazia, pur nell’inverno, attraverso l’Epiro, la Macedonia, la
Tracia verso il Bosforo, non badando che questi sinistri e la
frettolosa marcia invernale scoraggivano i suoi soldati novizi,
già tanto svogliati.
Più avveduto, Cesare aveva rimandato all’anno seguente la
invasione della Britannia, e intorno a quel tempo, sul finire del
55, se ne veniva in Italia dopo avere immaginato un tipo nuovo di
nave e avere ordinato di costruirne un certo numero durante
l’inverno. Mentre i soldati prendevano la pialla e la sega, sotto la
direzione di Mamurra e degli ufficiali che sapevano qualche cosa
dell’arte del costruire146, egli andava nell’Illiria, ritornava
nella Cisalpina a radunare le assemblee locali e ad accogliere i
postulanti che venivano da Roma a domandare aiuti per le future
elezioni, un comando nella prossima guerra, denaro. La guerra
incominciava a rendere; e Cesare, disponendo ormai di larghi mezzi,
poteva alla fine soddisfare i suoi istinti di profusione e di lusso:
mandar grandi somme a Roma, a Balbo e all’altro suo fido agente
Oppio, perchè le tenessero a disposizione dei senatori
bisognosi; far costruire ville suntuose; comprar terre in Italia,
gemme, quadri, statue, antiche opere d’arte, schiavi147; impersonare
lo spinto mercantile, rapace e prodigo, rovinoso e creatore, che
devastava il mondo, distruggeva la famiglia, sconvolgeva lo Stato e
adornava l’Italia di una nuova cultura. Sopratutto voleva, con i
tesori della Gallia, emulare Pompeo nell’abbellire Roma,
soddisfacendo l’inclinazione universale al lusso pubblico, dando
lavoro agli appaltatori e agli operai, di cui tanti erano elettori.
Cesare aveva incaricato Oppio e Cicerone di allargare il Foro troppo
angusto, comprando le case private che nella sua parte
settentrionale, alle falde del Capitolino, ingombravano il Comizio;
aveva dato ordine di pagare senza taccagneria le vecchie catapecchie
ai loro padroni, spendendo sessanta milioni di sesterzi148; siccome
il popolo si radunava ancora nei comizi tributi sul Campo di Marte
in recinti provvisori circondati ogni anno da palizzate, suddivisi
in tante sezioni quante erano le tribù da corde attaccate a
pali e che rassomigliavano ad ovili, volle edificare al popolo
deliberante un gran palazzo di marmo – i saepta Julia! L’edificio
avrebbe avuto forma di un immenso rettangolo, la cui fronte
corrispondeva alla linea attuale dei palazzi del Corso, a destra di
chi viene da Piazza del Popolo, a cominciare di faccia al palazzo
Sciarra, sino alla Piazza Venezia149; sarebbe circondato da un
magnifico portico di mille passi e adorno da un gran giardino
pubblico150. Anche per questo lavoro Cicerone ed Oppio dovevano
scegliere gli architetti, appaltare e sorvegliare la costruzione....
Cesare badava infine con special cura a comprare anche a gran prezzo
su tutti i mercati e a scegliere tra i prigionieri gli schiavi che
potessero essergli utili151. Egli aveva bisogno di un numeroso
personale di computisti, di segretari, di scrivani, di corrieri, di
amministratori, di archivisti, di sorveglianti e servitori, per
amministrare le grandi somme del governo e del patrimonio privato;
per governare l’immensa provincia; per provvedere agli eserciti,
agli intrighi politici, ai lavori pubblici; e se lo formava, questo
personale, con compre in ogni paese; lo distribuiva a Roma, in
Italia, nella Gallia Cisalpina e Transalpina, nelle città,
presso le legioni, lungo le vie, dovunque fosse bisogno; lo
perfezionava a poco a poco, sorvegliandolo tutto, sino agli schiavi
più umili e nelle minime cose, stabilendo una gerarchia di
promozioni, variando le ricompense dal solo vitto e vestito a un
salario in denaro, alla libertà, al dono di case e tenute e
capitali, mantenendo una disciplina terribile di castighi
crudeli152. Così aveva messo tra l’infimo servidorame di casa
un ragazzo catturato in una spedizione in Germania. Ma saputo un
giorno per caso che il ragazzo prestava ad usura ai suoi compagni
gli avanzi del cibo, ingegnandosi di tenere una rozza
contabilità, lo aveva subito promosso dal basso servidorame
negli uffici di amministrazione153, pensando forse che un
così precoce usuraio, se non finiva su una croce, sarebbe
arrivato lontano. E non si ingannava.
Nella primavera del 54 Cesare ritornò in Gallia, conducendo
seco molti nuovi ufficiali tra i quali Quinto, fratello di Cicerone;
unitisi a lui per seguirlo in Britannia, nel paese dei tesori! In
quel tempo stesso Crasso, passato il Bosforo, entrava in Siria dal
Nord, nei primi mesi del 54, rilevava Gabinio dal comando e si
disponeva a invadere la Mesopotamia senza dichiarazione di guerra.
Pompeo invece, mandati i suoi legati nella Spagna, restò
vicino a Roma, con la scusa di provvedere agli approvigionamenti
della metropoli, in verità perchè non parve opportuno
alla cricca che tutti e tre restassero lontano da Roma, dove il
piccolo partito conservatore si atteggiava ormai, per antitesi allo
sfrenato imperialismo dei democratici, a difensore dei popoli
oppressi da Roma. Si lamentava, nei salotti conservatori di Roma, la
brutale rapacità di Cesare, le sùbite e scandalose
fortune degli ufficiali, specialmente di Mamurra e di Labieno154; si
domandava se gli eroi dell’imperialismo popolare non ambissero di
far altro che rubar e divorar patrimoni155; si tentava di
sollecitare l’assopita coscienza morale della nazione. Ma la
nazione, trasportata da un entusiasmo contagioso di speranze e di
desiderî, voleva denaro, conquiste, feste; considerava la
Britannia e la Persia come già sottomesse; già
spendeva o impegnava i tesori che vi si sarebbero conquistati,
indebitandosi spensieratamente; ammirava Cesare, Crasso, Pompeo:
Cesare specialmente, il più popolare di tutti per il momento,
il generale unico156, come lo chiamavano i suoi ammiratori, l’uomo a
cui si volgevan tutti gli occhi, di cui tutti, bene o male,
parlavano. In tutte le età troppo cupide di piaceri e di
denaro il carattere si indebolisce; gli uomini non sanno restare a
lungo nella minoranza, compiacendosi alteramente di darsi ragione da
sè; tutti mutano facilmente opinioni ed affetti. Così
allora solo pochissimi, ostinati o già troppo compromessi,
avevano forza di non convertirsi alla ammirazione della triarchia,
che pareva destinata a meravigliosi ed eterni successi; quasi tutti
cedevano, come aveva interamente ceduto Cicerone.... Crasso si era
voluto riconciliare con lui prima di partire157; Pompeo mostrava in
molti modi la considerazione in cui lo teneva158; Cesare, sempre
più sollecito di guadagnare pienamente il massimo oratore e
letterato della democrazia italica, ne trattava splendidamente il
fratello, lusingava abilmente la sua vanità letteraria
lodando gli scritti che gli mandava, accoglieva con premura tutte le
persone che Cicerone gli raccomandava159. Questo borghese che temeva
sempre di esser spregiato dai grandi, e che, anche a quella
età, era sempre caloroso ed ingenuo nelle amicizie, si
commoveva per tante lusinghe e benevolenze; concepiva una viva
gratitudine e tenerezza verso quei tre grandi egoisti che lo
trattavano così bene per interesse, una smania sincera di
mostrare loro la propria riconoscenza, di lodarli, di far loro cose
gradite, illudendosi di essere amato davvero. Solo di tempo in tempo
qualche scandalo troppo grande lo commuoveva ancora. Così
allora egli pensava di accusare Gabinio in Senato160; ma poi il
desiderio di quiete, il contagio dell’altrui scetticismo, il
sentimento della inutilità di tutto lo inducevano a lasciar
correre; a sfogare il suo inquieto bisogno di lavoro nelle difese
forensi161 e in molteplici opere di letteratura. Egli attendeva in
quel tempo a un pietoso ufficio: riordinare i manoscritti di
Lucrezio che si era ucciso l’anno innanzi, in un accesso della sua
melanconia, esasperata, a quanto sembra, da abuso di bevande
afrodisiache, lasciando non finito il poema162. Non solo: ma
intendeva comporre un poema sulle gesta di Cesare in Britannia; e si
raccoglieva a meditare e a scrivere – consolazione accademica di
tutti gli uomini di Stato intelligenti esclusi dal potere e che
disperano di riaverlo – un grosso libro di politica, il De
Republica163, per esporre le idee che lo studio degli antichi
filosofi, l’osservazione dei fatti presenti, le discussioni coi
contemporanei gli avevano suggerito. Della democrazia pura si
vedevano a Roma le convulsioni nel vuoto; l’aristocrazia non
esisteva più; la monarchia era detestata a tal segno, che
nessuno avrebbe potuto seriamente considerarla come un rimedio ai
mali presenti. Restava la conciliazione aristotelica della
monarchia, dell’aristocrazia, della democrazia; la costituzione
nella Repubblica di una magistratura suprema, da confidarsi a volta
a volta e per elezione a un cittadino eminente, munito di larghi
poteri, che facesse rispettare a tutti le leggi del popolo e del
Senato. Intanto nel mezzo di queste vaste contemplazioni Cicerone
affettava eleganza con sì gran zelo, da rimproverare a Pisone
in un discorso politico perfino di avere una brutta casa con pochi e
sordidi servi che facevano tutti gli uffici164; e si lasciava andare
a seguire il facile andazzo dei tempi, anche in cose di denaro.
Cesare colse destramente il momento in cui egli si trovava in
istrettezze e gli fece accettare un prestito considerevole165.
Invano prestava ai conservatori i giambi violenti, il volubile
Catullo. Ritornato a Roma, egli aveva rotto definitivamente con
Clodia, congedandosi da lei con una poesia amara e dolente166. Si
era dato invece, cambiando argomenti metri e stile, alla poesia
erudita, mitologica, raffinata degli Alessandrini e alla politica
conservatrice: aveva composto nel selvaggio metro galliambo quello
strano carme 63 sul culto orgiastico di Cibele; componeva
l’Epitalamio di Teti e di Peleo167; esprimeva in brevi poesie
violentissime i furori dei salotti aristocratici che frequentava,
contro Cesare, contro Pompeo, contro i loro principali
partigiani168, senza badare che Cesare era il governatore della
provincia dove viveva suo padre; affettava, egli giovane
provinciale, sentimenti ultra aristocratici, dinanzi alla democrazia
vittoriosa, che ormai confondeva i ceti anche nelle altissime
cariche. “Perfin Vatinio giura: quanto è vero che
diventerò console! – Che più ti resta o Catullo se non
morire?169” Ma la sua salute era rovinata; e a volte a volte cupi
scoramenti lo assalivano, mentre attendeva a raccogliere la parte
migliore delle sue poesie per farne un volumetto da dedicare a
Cornelio Nipote. “Sta male, o Cornificio, il tuo Catullo; sta male
ed è pieno di guai....”170
La primavera volgeva verso l’estate. Crasso aveva, senza
dichiarazione di guerra, invasa la Mesopotamia, e ne occupava le
diverse città; Cesare invece indugiava ad invadere la
Britannia; e a Roma incominciavano i maneggi per le elezioni.
Numerosissimi candidali si disputavano le varie magistrature, e non
meno di cinque il consolato: Gaio Memmio Gemello, antico nemico ed
ora nelle elezioni favorito di Cesare; Marco Valerio Messala, nobile
di antica famiglia gradito ai conservatori; Marco Emilio Scauro;
Caio Claudio, un altro fratello di Clodio, allora governatore
dell’Asia; e Gneo Domizio Calvino171. Ma più che il numero fu
cagione di scandalo e di spavento la mischia selvaggia di ambizioni
e di bramosie che divampò a un tratto. Roma non aveva mai
veduto frenesia simigliante. Tutti i magistrati in carica
domandarono denaro ai concorrenti per aiutarli172; i due consoli
conchiusero un regolare contratto con Memmio e Calvino, impegnandosi
ad aiutarli a condizione che Memmio e Calvino, se eletti, avrebbero
fatte avere a loro, con una complicata falsificazione, le Provincie
che volevano, o pagati, non riuscendo, 400 000 sesterzi173; la
corruzione superò ben presto tutte le folli profusioni di cui
si avesse memoria; qualche candidato avendo fatto accusare di
corruzione un rivale, tutti usarono la stessa minaccia; onde ben
presto furon tutti sotto processo174. La gente savia considerava
trasecolata questo pandemonio; nessuno avrebbe mai creduto che
l’audacia, le cupidigie, le ambizioni, il cinismo potessero
esplodere a un tratto in una gara così frenetica. Ma lo
sbigottimento non guariva il male; anzi le accuse, le invettive, le
minacele raddoppiarono di violenza e la corruzione di sfacciataggine
all’avvicinarsi dei comizi; il denaro rincarì, tanto se ne
cercava da tutte le parti175; le zuffe e gli assassinî tennero
ben presto dietro alle invettive. I candidati e le loro cricche
percorrevano Roma come forsennati; le elezioni sarebbero state una
carneficina; molti si auguravano la nomina di un dittatore: ultimo
scampo! Eppure nessuno faceva nulla contro le mene dei candidati,
tranne che lamentarsi. L’intrepido Catone, che in quell’anno era
pretore, riuscì a far deporre nelle sue mani, da tutti i
concorrenti al tribunato, mezzo milione di sesterzi, minacciando di
confiscarli a chi corromperebbe gli elettori176. Ma Pompeo,
aristocratico dilettante di politica, lasciava fare, disgustato e
irritato; i senatori non volevano prendere nessuna iniziativa
pericolosa e non riuscivano a intendersi, sebbene tenessero lunghe e
laboriose sedute177; sopravvennero i calori estivi, insopportabili
ormai a questi troppo sensitivi discendenti di quei vecchi Romani
che si abituavano a non sentire nè calore nè gelo;
tutti dissero che non “aveva mai fatto tanto caldo178”; che
bisognava fuggire in villa. Il Senato rimandò a settembre le
elezioni consolari, sperando che frattanto la febbre elettorale
darebbe giù, mentre si sarebbero discussi i numerosi
processi179.
Anche Cicerone se ne andò ai freschi dell’Arpinate, a
sorvegliare frattanto la costruzione d’una bella villa ed altre
importanti migliorie agricole, ordinate da suo fratello Quinto, in
Gallia con Cesare180. Cicerone, che amava teneramente il fratello,
era allora molto inquieto per la spedizione britannica, che pareva
imminente e di cui riceveva continue notizie del quartier generale
di Cesare: temeva l’Oceano tempestoso e pauroso ai figli del
Mediterraneo; temeva le difficoltà di uno sbarco in paese
nemico181. Ma si farebbe davvero la spedizione? Al principio di
luglio Quinto gli aveva scritto che Cesare era quasi in procinto di
abbandonarne l’idea; perchè si era saputo che i Britanni si
apparecchiavano a difendersi con gran vigore, che la conquista non
avrebbe fruttato nè abbondanti metalli preziosi nè
schiavi di pregio182. Ma un’altra cagione – che Quinto o non
conosceva o non osò scrivere al fratello – faceva esitare
Cesare: la malsicura condizione delle Gallie183. Appena tornato in
Gallia Cesare aveva dovuto fare una breve spedizione nel territorio
dei Treviri, che non avevano mandati i rappresentanti alla dieta; e
trovando il paese in procinto di fare una guerra civile per la
rivalità di Cingetorice e di Induziomaro, ambedue ambiziosi
del supremo potere, aveva fatto nominar Cingetorice e costretto
Induziomaro a sottomettersi: ma ciò facendo si era inimicato
il partito di Induziomaro. Inoltre in tutta la Gallia la
nobiltà tollerava così a malincuore le sue
inframmettenze, le sue contribuzioni, la sua politica monarchica,
che Cesare aveva ordinato ai più cospicui Galli di seguirlo
in Britannia, per non lasciarsi pericoli alle spalle: ma questo
ordine era stato cagione di nuovo malcontento; e Dummorige
sollecitava i nobili Galli a disobbedire, spaventandoli che Cesare
voleva farli tutti perire nel viaggio184. Impensierito da questo
sordo malumore, Cesare era stato in forse, un momento, di abbandonar
l’impresa; ma poi, sospinto dalla straordinaria aspettazione
dell’Italia, dalla confidenza nella fortuna, dagli apparecchi
già fatti185, aveva avviato cinque legioni e 2000 cavalli
verso le coste dell’Oceano, a un porto che è difficile
ritrovare sulle carte moderne, lasciando Labieno a sorvegliar la
Gallia e gli approvvigionamenti, con altrettanti cavalli e tre
legioni. Non era possibile fidarsi troppo della fedeltà
gallica. Difatti, durante il viaggio verso il mare, Dummorige aveva
tentato di fuggire con i suoi clienti; ma inseguito per ordine di
Cesare, aveva dato battaglia ai persecutori ed era stato ucciso. Del
resto Cesare intendeva ormai di fare, non una vera conquista, ma una
breve scorreria, per soddisfare l’Italia: tanto è vero che
tra i numerosi schiavi del quartier generale ne portò seco
soltanto tre186, probabilmente un segretario e due corrieri. Sul
cader di agosto187 Cicerone aveva saputo che alla fine di luglio188
(le lettere mettevano circa 28 giorni a giungere dalla Britannia a
Roma) l’esercito aveva salpato ed era sbarcato felicemente. Ormai
era tranquillo. Avvenuto lo sbarco, il generale unico non poteva non
vincere189.
Intorno a questo tempo, verso la fine di agosto o il principio di
settembre, Giulia, la moglie di Pompeo, morì, poco tempo dopo
che già era morta la nonna, la veneranda madre di Cesare190.
Morti immature avvenivano spesso, tanto i giovani erano fragili; in
questo anno morì anche Catullo, trentenne; ma la morte di
Giulia commosse Roma come un grande evento, perchè la
giovinetta aveva uniti per quattro anni i destini dei due uomini
più celebri del tempo.... Poi nuovi scandali distrassero
un’altra volta il pubblico. Invano si era sperato, rinviando le
elezioni, che il tempo fosse apportatore di buon consiglio agli
ambiziosi. Dopo breve pausa, le mene, gli scandali, il mercimonio
dei voti avevan ricominciato con maggior furore; sinchè
Memmio venuto in discordia con Calvino lesse un giorno pubblicamente
in Senato il contratto con i due consoli in carica191. Immaginarsi
lo scandalo! Fastiditi da tanti imbrogli, i più non
desideravano ormai se non che si facessero le elezioni, tanto per
finirla, una volta: ma no, quando il termine si avvicinava, i
tribuni della plebe incominciarono a rinviarle. Memmio, temendo dopo
lo scandalo di non riuscire, voleva aspettare che Cesare fosse
tornato nella Gallia Cisalpina, per esserne meglio aiutato192.
Disgraziatamente per lui, Cesare aveva allora ben altre cure.
Cicerone aveva ricevute lettere dal fratello e da Cesare sino alla
fine di settembre (l’ultima di Cesare portava la data del 1°
settembre), con notizie se non lietissime non inquietanti193: Cesare
aveva costruito un campo in riva al mare e incominciata una
spedizione all’interno; ma dopo pochi giorni aveva dovuto lasciar
Quinto e il corpo di spedizione per ritornare alla costa, a
provvedere alla flotta che una tempesta aveva sconquassata194.
Poscia Cicerone non ricevendo più lettere, aveva incominciato
a impensierirsi: sinchè al 20 ottobre, mancando notizie da 50
giorni, non solo a lui ma a tutti in Roma, era inquietissimo195. Che
cosa succedeva nella lontana isola favolosa? L’ansietà era
grande a Roma. Per fortuna di lì a qualche giorno le lettere
arrivarono; e il 24 ottobre Cicerone potè riscrivere
più tranquillo196. Cesare si era avventurato verso il Tamigi
contro il re Cassivellauno; ma costui, spopolato il paese e diviso
l’esercito in piccole schiere tutte a cavallo, lo aveva,
provocandolo con scaramuccie e fuggendogli innanzi, tratto lontano
dal mare, per selve e paludi; poi aveva dato ordine ai re delle
regioni che Cesare si era lasciate alle spalle di prendere le armi.
Così le comunicazioni di Cesare con il mare e l’accampamento
erano state interrotte; e le legioni, pur vincendo nelle piccole
scaramuccie, si estenuavano a combattere contro le piccole e veloci
bande a cavallo di Cassivellauno, che ronzavano loro intorno come
sciami di vespe, a inseguire e distrugger le quali non bastava la
poca cavalleria. Cesare si accorse che la fatica era vana e
l’impresa pericolosa, perchè i viveri si sarebbero esauriti e
gli approvvigionamenti erano difficli; Commio l’Atrebate che era
amico di Cassivellauno si interpose; la pace fu fatta197. Cesare
dice che impose un tributo alla Britannia198, ma è certo che
Cassivellauno se anche promise non pagò nulla, dopochè
Cesare ebbe salpato con l’esercito alla volta della Gallia, nella
prima metà di ottobre199, con l’unica preda di molti schiavi.
La conquista della Britannia era stata una delusione200.
Sbarcando in Gallia, Cesare apprese la morte di Giulia201. Era una
sventura per il padre amoroso, cui la bella fanciulla ricordava il
primo e forse unico amore della vita, i begli anni lontani della
giovinezza, Cornelia, la figlia di Cinna per cui aveva rischiato
morire, e che era come la figlia caduta anche essa, fragile fiore
reciso ancor fresco dalla morte, sull’orlo della giovinezza. Era una
sventura per il capo del partito democratico, cui Giulia aveva
mantenuta fedele, con i vezzi pudichi, l’amicizia di Pompeo. Ma non
ebbe tempo di abbandonarsi al dolore. Troppe gravi faccende lo
incalzavano: in Gallia, dove la minaccia di una carestia lo
costringeva a dislocare le legioni in molti quartieri d’inverno; a
Roma, dove Gabinio era tornato quasi di nascosto in settembre202,
seguito poco dopo da Rabirio, il ministro delle finanze egiziane,
che, partito Gabinio, era stato costretto a fuggire da una
sollevazione popolare; aspettati ambedue dal piccolo manipolo
conservatore che voleva assalire in loro, non potendo in Cesare,
Crasso e Pompeo, la democrazia bellicosa e arruffona. Gabinio fu
infatti accusato di maiestas e di concussione, Rabirio soltanto di
concussione. Ma anche questi processi furono cagione di intrighi e
di imbrogli203. Pompeo tentò, ma invano, di indurre Cicerone
a difendere Gabinio204; pure Gabinio fu assolto con debole
maggioranza, nel primo processo205; e si preparò a rispondere
al secondo. Pompeo tentò una volta ancora Cicerone, riuscendo
questa volta a persuaderlo; egli stesso parlò in difesa di
Gabinio al popolo, lesse lettere di Cesare in suo favore: ma Gabinio
questa volta fu condannato206. Pare invece che a Cicerone riescisse
di far assolvere di lì a poco Rabido, con il discorso che
possediamo ancora.
Ma Memmio attese invano, di settimana in settimana, il ritorno di
Cesare. Cesare era già stato costretto a mandare una legione
nel territorio dei Carnuti, dove Tasgeto era stato ucciso; ma quando
era sulle mosse per venire nella Cisalpina, egli ricevè a
Samarobriva (Amiens) la notizia che gli Eburoni, piccolo e oscuro
popolo dei Belgi, erano insorti sotto la condotta di due nobili,
Ambiorige e Catuvolco; avevan sorpreso, fatto uscire con un inganno
dagli accampamenti e trucidate in via le quindici coorti – circa
5000 uomini – svernanti nel loro paese, al comando di Titurio e di
Arunculeio; poi sollevati altri popoli erano corsi contro Quinto
Cicerone, che svernava tra i Nervii, assediandolo nell’accampamento.
Egli sospese il viaggio e corse subito a liberar Quinto: ma poi,
altre piccole insurrezioni essendo scoppiate qua e là,
dovè rinunziare definitivamente a visitare la Cisalpina, per
quell’anno. Così e Cesare troppo distratto dalle cure della
guerra lontana; e Pompeo sopraffatto dalle brighe necessarie a
salvare i suoi amici; e i consoli esautorati dallo scandalo di
Memmio; e il Senato impotente abbandonarono lo Stato alla ventura;
onde si arrivò alla fine dell’anno senza aver fatta nessuna
elezione. L’anno 53 incominciò con tutte le cariche vuote e
la sfrenata anarchia di un interregno impotente.
VI.
LA GRANDE CATASTROFE
DELLA DEMOCRAZIA IMPERIALISTA:
LA INVASIONE
DELLA PERSIA.
(Anno 53 a. C.)
Ma al disordine interno si sarebbero presto aggiunti gravi pericoli
esterni. Cesare, ormai nel pieno vigore delle forze e nel pieno
favore della fortuna, ricco potente ammirato, poteva riprendere
senza sforzo ogni mattina l’immenso, molteplice e frettoloso
cómpito di lavoro necessario a governare l’Italia, la Gallia
e l’impero, tanto aveva indurito il fragile corpo ed esercitata la
elastica vigoria dello spirito. Eppure la lunga inquietudine per la
condizione della Gallia, crescendo sempre, incominciava a irritarlo.
Egli aveva anche, in quegli anni operosi, studiata la società
gallica; e poichè la lucidezza e la penetrazione del suo
pensiero, la divina facoltà di concentrare le sparse
osservazioni di una realtà vasta in dense immagini
sintetiche, crescevano con l’esercizio sempre più intenso e
rapido e vario delle sue facoltà era riuscito a raffigurarsi
idealmente, nei fatti essenziali, il gran paese, in cui vivevano,
sopra una terra fertile ma ancora troppo ingombra di selve e paludi,
da quattro a cinque milioni di uomini207. La Gallia non era
più quella che aveva tanto spaventato Roma nei secoli lontani
e ai tempi di Mario. Cesare ne aveva ancora osservato qualche avanzo
tra i Belgi e gli Elvezi: ma nelle altre nazioni vedeva invece la
vecchia Gallia agricola, aristocratica, bellicosa mutarsi, come
l’Italia un secolo prima, in nazione mercantile e industriale;
dissolversi a poco a poco per opera dei mercanti transmarini, che
facevano conoscere ai Galli molte cose della civiltà ellenica
e della latina, dagli alfabeti al vino e ai conii artistici delle
monete208. Infatti l’abbandono dei vecchi costumi celtici, in mezzo
a cui Cesare capitava nel paese, l’aumento del costo della vita e lo
sforzo più intenso di guadagnare, eran cagione alla Gallia di
una crisi, somigliante a quella che aveva imperversato in Italia,
nei cinquant’anni dopo i Gracchi. La vecchia nobiltà
possidente che aveva formato una specie di medio ceto politico e
guerresco, e la piccola proprietà libera si indebitavano e
sparivano; cresceva di potenza e di ricchezza quella plutocrazia
arricchita con le usure, le guerre, l’appalto delle pubbliche
gabelle, che Cesare cercava fare sostegno del governo romano; dei
numerosi Galli che la concentrazione delle proprietà, i
debiti, le guerre rovinavano, molti si buttavano alla campagna,
formando quei perditi homines et latrones, cui Cesare allude
così spesso; altri si davano al commercio tra le varie
nazioni galliche, con i Germani, con i Britanni, con i Romani209;
altri si riducevano nei villaggi, formando a poco a poco un
artigianato.... Tra la moltitudine dei piccoli e poveri villaggi
sparsi per la Gallia, già cresceva qualche città
più popolosa e più ricca, come Avarico, Gergovia,
Bibracte; il commercio degli schiavi con l’Italia fioriva; alcune
industrie progredivano, come la ceramica, la metallurgia dell’oro,
dell’argento e del ferro, la tessitura, la preparazione dei
prosciutti....210 Ma questa popolazione industriale, in una
società semibarbara e in crisi, abbisognava di protezione e
di capitale211; che trovava indebitandosi con i pochi potenti
plutocrati, aiutandone in cambio le ambizioni politiche, qualche
volta seguendoli alla guerra. Alla clientela di questo popolino i
pochi ricchi aggiungevano il proprio servidorame: gli uomini che per
la ricompensa del vitto e di qualche dono coltivavano le loro terre,
li seguivano nelle spedizioni, li servivano nelle vaste case
solitarie, poste quasi sempre sulla riva di un fiume, in mezzo a una
foresta; le torme di cavalieri che essi mantenevano a proprie spese
e che conducevano alla guerra212; turbando così, con tanta
potenza personale, l’antico equilibrio politico delle istituzioni
repubblicane.
Certo, la decadenza della antica aristocrazia celtica e l’aumento
dell’artigianato urbano scemavano il vigore militare della Gallia.
Cesare si era accorto da un pezzo che le milizie galliche erano
molto degenerate da quelle di un tempo213. Quel popolino di
servitori e di artigiani viventi nelle città era, come la
plebe italica, poco atto alle armi; agli avanzi della plebe
campagnuola scarseggiavano ormai i capi, i numerosi ed autorevoli
nobili che in antico li avevano condotti alla guerra; le torme di
cavalieri assoldate dai ricchissimi plutocrati componevano la parte
migliore dell’esercito, ma erano corpi quasi privati, che non
riconoscevano altra autorità che quella del proprio signore.
Eppure Cesare era inquieto a tal segno, che nell’inverno si
risolvè ad aumentare l’esercito reclutando, in luogo delle
quindici che Ambiorige aveva distrutte, trenta coorti, che in parte
fece reclutare nella Gallia Cisalpina egli stesso, in parte gli
furon cedute da Pompeo, tra le coorti che anche egli aveva reclutate
nella Gallia Cisalpina214. Fondare un governo straniero in quella
società in crisi, era così difficile come piantare le
pile di un gran ponte tra i vortici di un fiume precipitoso.... Non
solo la lingua e le tradizioni erano comuni in tutta la Gallia, ma
la religione druidica, che un potentissimo sacerdozio scelto tra la
nobiltà215 governava; onde, non ostante le guerre continue
tra i vari popoli, il sentimento nazionale era intenso nella Gallia;
e sotto lo stimolo dell’intrusione straniera si risvegliava
visibilmente, di anno in anno. Questo solo pericolo era già
grave; ma lo accresceva la fatale necessità in cui Cesare si
era trovato, in quel disordine sociale, di offendere interessi
locali, di partito, di classe. Infatti la aristocrazia repubblicana,
adirata per la sua politica monarchica, già si volgeva contro
di lui.... Sul finire del 54 i Carnuti avevano trucidato Tasgeto216;
e nell’inverno del 53 Cavarino, il re da lui dato ai Senoni, era
costretto a fuggire, perchè un partito, con a capo Accone,
minacciava di metterlo sotto processo217. Eppure non per questo la
plutocrazia demagoga gli diventava sinceramente amica. La
aristocrazia repubblicana, rovinata dalle guerre continue,
minacciata dalla prepotente plutocrazia demagoga, avrebbe potuto, se
non troppo vivamente offesa nel sentimento nazionale, accettare il
protettorato romano, che ristabilisse l’ordine nella agitazione
perenne di quella dissoluzione sociale: non l’avrebbero invece
accettato mai, definitivamente, quei pochi potentissimi signori di
terre e di capitali, che la ricchezza, lo sterminato stuolo dei
clienti, il favor della plebe facevano orgogliosi, ambiziosi,
intolleranti di leggi; che spingevano continuamente la propria
nazione a guerre con i vicini, per impadronirsi di schiavi, di
metalli preziosi, di territori soggetti a tributi, di fiumi chiusi
da pedaggi. Si aggiungevano infine ad accrescere il malcontento i
danni della signoria straniera. La Gallia doveva pagare una
contribuzione in denaro; provvedere molta parte delle cose
necessarie all’esercito romano; esser sempre pronta alle nuove
richieste di contingenti militari, che obbligavano i nobili ad
armare una parte dei loro clienti, a mantenerli con grave spesa alla
guerra, a perderne un certo numero senza profitto. Nè
mancavano guasti e soverchierie dei soldati, spese necessarie a
offrir l’ospitalità agli ufficiali superiori, nei loro giri.
Già in parecchie città della Gallia e al seguito
dell’esercito abbondavano i negotiatores italiani, che – è
facile indovinarlo – non compravano solo le prede; ma esercitavan
l’usura, facendo concorrenza ai pochi ricchi capitalisti indigeni; a
quei plutocrati che Cesare voleva amici. Nel disordine di questa
decomposizione e ricomposizione sociale, non solo le istituzioni e
le dottrine, ma anche gli spiriti dei singoli e delle folle
diventavano instabili, come un’atmosfera primaverile....
Intanto in quell’inverno le notizie suonavano inquietanti da ogni
parte. I Nervii, gli Aduatici, i Menapii, si armavano; i Senoni
rifiutavano i contingenti e trattavano con i Carnuti; Ambiorige si
studiava di riattizzar la guerra. Cesare, inquieto ed irritato,
senza nemmeno aspettar la primavera, fece con le quattro legioni
più novizie una improvvisa irruzione nel territorio dei
Nervii, per spaventare tutti i ribelli; catturò un’immensa
quantità di bestiame e moltissimi uomini, che
distribuì ai soldati218; poi riunì, nel mese di marzo,
a Samarobriva (Amiens) l’assemblea delle nazioni galliche. Ma non vi
trovò i rappresentanti dei Treveri, dei Senoni, dei Carnuti;
onde in un impeto d’ira, con prontezza violenta, annunciò di
portar l’assemblea a Lutezia dei Parisii, che era vicina ai confini
dei Senoni, per castigar subito i ribelli; e partì il giorno
stesso con le legioni a marcie forzate. Ormai era stanco di questa
prolungata irrequietezza di tanti popoli; e voleva dare un esempio,
senza indugio. Ma la rapidità dell’invasione scoraggì
i ribelli; i Senoni domandarono perdono e l’ottennero, a condizione
di dare ostaggi; i Carnuti impressionati ne seguiron tosto
l’esempio. Allora Cesare volendo finirla almeno con Ambiorige,
mandò a Labieno, che svernava nel territorio dei Treveri,
tutti i bagagli dell’esercito e due legioni; ed egli con cinque
legioni invase il territorio dei Menapii, presso i quali temeva
potesse rifugiarsi il ribelle. Questi abbandonarono al suo
avvicinarsi i villaggi e si dispersero in piccole bande nelle paludi
e nei boschi; per i quali Cesare slanciò l’esercito diviso in
tre colonne, di cui una al comando suo, una di Caio Fabio, una di
Marco Crasso, un altro figlio del gran banchiere, incominciando una
caccia accanita agli uomini e al bestiame e una guerra di incendi
contro i villaggi, sinchè i Menapii spaventati mandarono a
domandar pace. Ma Ambiorige non fu catturato.
Nello stesso tempo a Roma continuavano le zuffe e i tumulti,
cosicchè le elezioni non avevano luogo; e il vecchio,
fortunatissimo, ricchissimo banchiere e soldato s’avviava verso la
Persia, tratto dalla fretta e dall’orgoglio, in linea diritta, quasi
prima vittima predestinata, a espiare lo smisurato delirio di
grandezza in cui vaneggiava l’Italia. Unendo le milizie portate
dall’Italia con quelle trovate in Siria, Crasso aveva radunato un
esercito di 5000 cavalieri, di 4000 ausiliari e di nove legioni,
ciascuna composta di circa 3500 uomini; in tutto 40 000
uomini219, con i quali si accinse subito a invader la Persia.
Veramente, appena fu giunto in Siria, nel 54, la fretta che lo
incalzava fin da Roma sulla via del destino si era quetata un
momento, nella calma preparazione ed esecuzione di un piano di
guerra eccellente, che è prova della sua intelligenza. Egli
si era impadronito subito e aveva fortificato il ponte sull’Eufrate
a Zeugma; aveva varcato il fiume e occupate le città greche
della Mesopotamia, Apameia, Carre, Iene, Niceforio, sconfiggendo
facilmente un generale partico, che si trovava nella regione con
poche forze; poi lasciati settemila uomini (due legioni
probabilmente) e mille cavalieri nelle città, era tornato a
svernare in Siria220. Questo ritorno in Siria fu severamente
biasimato dagli antichi come un gravissimo errore221, perchè
diè tempo al nemico di prepararsi. Ma è probabile che
Crasso, prendendo le città greche della Mesopotamia, mirasse
ad attirare il nemico dal fondo della Persia verso l’Eufrate, per
venire a battaglia meno lontano che fosse possibile dalla provincia,
con le spalle sicure, con una base d’operazione vicina e una buona
via di ritirata; mentre sprofondandosi nella Persia avrebbe commesso
l’errore che molti secoli dopo commetterà Napoleone avanzando
su Mosca, e si sarebbe esposto al rischio di essere assalito con
l’esercito stanco da una lunga marcia, sgomento per la lontananza
dal proprio paese, mal provvisto per linee di comunicazioni
lunghissime e poco sicure. Saviamente perciò Crasso si
ritrasse ad aspettare l’effetto della sua provocazione in Siria,
dove si diè a far denaro, vuotando, tra gli altri, il tesoro
del tempio di Gerusalemme; a far pratiche per intendersi con il re
di Armenia e gli altri principi indipendenti o semi-indipendenti
della Mesopotamia, come l’Abgaro d’Edessa, che era stato molto amico
di Pompeo.
In principio la sua strategia parve riuscire: nella primavera del 53
giunse notizia che le guarnigioni lasciate da Crasso in Mesopotamia
erano assediate dai Parti. I Parti venivano dunque a tiro.... Il re
dei Parti aveva deliberato infatti di dividere le sue forze; invader
egli con il fiore delle fanterie partiche la montuosa Armenia e
mandare quasi tutta la cavalleria, leggera e pesante, sotto il
comando del Surena o generalissimo nella Mesopotamia222. Quale fosse
lo scopo cui i Parti miravano sino d’allora con questa mossa verso
la Siria, noi non sappiamo; e sarebbe temerario volerlo argomentare
dall’effetto che sortì. A ogni modo è certo che
l’impazienza del vecchio romano, sopita per un momento, si
risvegliò a un tratto all’avvicinarsi del nemico; che quando
seppe i Parti vicini Crasso, felice di veder riuscire il suo piano,
non ebbe più che un pensiero: slanciarsi loro addosso,
subito; che una paura: non giungere a tempo. Qualche profugo dagli
assedi portò notizie strane che commossero quell’esercito
novizio: erano grandi moltitudini di cavalieri, tutti bardati di
ferro, velocissimi, fierissimi, abilissimi nel lanciare freccie dai
grandi archi con forza prodigiosa! Alcuni dei generali, scossi da
queste notizie, proposero di riconsiderare da capo a fondo tutto il
piano dell’impresa prima di avventurarsi223; e come a confermare
l’opportunità del consiglio, arrivò di lì a
poco il re d’Armenia Artabase con 6000 cavalli, che si
dichiarò pronto a fornire altri 10 000 cavalieri e
30 000 fanti, purchè Crasso invadesse il paese nemico
dall’Armenia, dove i Parti non avrebbero potuto, in mezzo ai monti,
usare la cavalleria224. Ma il vecchio banchiere, di giorno in giorno
più impaziente, protestò di non potere abbandonare
alla loro sorte i Romani assediati; passò l’Eufrate a Zeugma
con sette legioni, 4000 cavalieri e gli ausiliari; e si
incamminò per la via interna della Mesopotamia alla volta di
Carre, incontro all’esercito partico225. Le sette legioni, la
cavalleria, gli ausiliari, i 500 giumenti che ogni legione si traeva
dietro, condotti da schiavi e carichi di grano e di tende, dovevan
formare sulla gran via mesopotamica una processione lunga più
di 21 chilometri226. Ma l’avanzata era incominciata da poco, quando
gli esploratori portarono al comando singolari notizie: i Parti
avevano levato l’assedio in ogni luogo e si ritiravano; il paese era
sgombro e il terreno, per immense estensioni, coperto di orme di
cavalli, come di un grande esercito in ritirata. Queste notizie
generarono una certa agitazione nel quartier generale romano: a che
cosa miravano i Parti? Cassio, quel genero di Servilia che seguiva
Crasso come questore e che era un giovane intelligente,
consigliò il generale o a ricondurre l’esercito in una delle
città già conquistate per raccogliere più
precise informazioni sul nemico; o ad abbandonare, poichè le
città erano salve, l’inseguimento e marciare su Seleucia
lungo l’Eufrate, per la via seguita dai diecimila e descritta da
Senofonte, con il fianco destro dell’esercito difeso dal fiume e gli
approvvigionamenti sicuri. Crasso, un poco impressionato,
esitò e convocò un consiglio di guerra....227 Anche
questa esitazione era savia. Il Surena, quali fossero le intenzioni
prime con cui si era mosso, aveva ora, probabilmente per
informazioni avute dall’Abgaro di Edessa che era d’accordo con i
Parti, concepito un piano audace e ingegnoso: come Crasso aveva
cercato di tirare i Parti sin presso alla frontiera siriaca, tentare
a sua volta di trarre i Romani, fuggendo loro innanzi, più
lontano che potesse, oltre il fiume Cabur, dopo il quale incomincia
il deserto228. Al comando romano si intuiva l’insidia; ma
disgraziatamente l’Abgaro di Edessa, l’antico amico di Pompeo in cui
Crasso fidava senza sospetto, prese a stimolare abilmente la fretta
e l’avarizia di Crasso, dicendogli che i Parti già si
disponevano a trasportare i tesori nelle montagne, che rincorrendo
il Surena potrebbe disfarlo prima che unisse le sue forze con quelle
del re229; e lo incitò a commetter l’errore che gli storici
rimproverano a Crasso di non aver commesso l’anno avanti. Pur troppo
l’impazienza ridesta dalla vicinanza del nemico, la cupidigia, la
orgogliosa confidenza nella propria fortuna, la ripugnanza a mutare
idea poteron più, questa volta, che i consigli della
prudenza; e Crasso avventò l’esercito sull’orme dei Parti,
forzandolo a marcie lunghissime nella caldura del maggio, sperando
di raggiungere presto il nemico. Ma i giorni passavano, la faticosa
marcia continuava, e il nemico non si vedeva; l’esercito si stancava
e si avviliva, in questo inseguimento affannoso di un nemico
invisibile, che nessuno sapeva quando sarebbe raggiunto; Crasso
incominciava a inquietarsi e a irritarsi, impedito di tornare
indietro dalla via già fatta e temendo di andar troppo
avanti; voci di tradimento presero a girare; Cassio, che aveva vista
acuta e mente sagace, pose gli occhi addosso all’Abgaro di Edessa e
lo maltrattò più volte, ma senza poter farlo uscire
dall’umile rispetto in cui si teneva, specialmente verso di lui230.
Un giorno giunsero corrieri del re d’Armenia ad avvisare che il re
dei Parti aveva invaso il suo regno e che perciò non poteva
mandar soccorsi; ripeteva il consiglio di portar la guerra in
Armenia o, se questo disegno proprio spiaceva, di evitare il deserto
e il piano, dove la cavalleria parta poteva agire. Cassio
capì subito la saviezza dell’avviso; ma Crasso, che gli anni,
la fatica, il caldo, le incipienti inquietudini facevano irascibile,
che il fato destinava ad espiare primo il delirio di grandezza della
generazione sua, andò in furia contro chi dava il buon
consiglio, come avviene spesso agli orgogliosi che incominciano ad
accorgersi di aver commesso un errore e non vogliono confessarlo;
anzi ci si ostinano. Egli congedò brutalmente gli
ambasciatori, dicendo che, finita la guerra, avrebbe punito il
tradimento del re armeno come meritava231. E continuò ad
avanzare, senza veder mai il nemico o averne notizie. Alla fine,
dopo molti giorni di marcia estenuante232 – era la fine di maggio o
i primi giorni di giugno – oltrepassata da poco la città di
Carre, quando l’esercito stava per giungere al fiume Belik, alcuni
esploratori tornarono trafelati, dicendo di aver incontrato a poca
distanza un grande esercito nemico che si avanzava rapidamente per
assalirli di sorpresa e che aveva ucciso il maggior numero degli
esploratori. Qual motivo aveva indotto i Parti a questo assalto?
Forse qualche segreto avviso dell’Abgaro di Edessa che l’esercito
romano era disanimato e spossato? Certo è che i soldati
già nervosi per la fatica furono un poco agitati dalla
notizia; gli ufficiali avrebbero voluto che l’esercito piantasse il
campo sul fiume; ma Crasso, che la stanchezza, la inquietudine per
la condizione dell’esercito, la paura che il nemico ricominciasse a
fuggire rendevano pronto a risoluzioni precipitose, si
risolvè, dopo breve esitazione, a tentar subito la battaglia.
Da principio egli aveva ordinato che, secondo consigliavano i
tattici romani quando un esercito stava per essere assalito da
grossi nembi di cavalleria, le settanta coorti si disponessero su
una sola linea, composta di dieci file, continua, senza intervalli,
come un nastro. Ma a spiegare così, sopra una fronte di circa
12 chilometri (tanto spazio occupavano settanta coorti poste l’una
accanto all’altra233) un esercito sorpreso in colonna di marcia
lunga 21 chilometri, era necessario molto tempo; onde il frettoloso
e inquieto Crasso perdè nel bel mezzo del rivolgimento la
pazienza e mutato consiglio dispose che le quattro legioni
più vicine si ordinassero in quadrato con una fronte di
dodici coorti, ciascuna rinforzata di cavalleria, un fianco di otto,
i giumenti e i bagagli nel mezzo234; diede il comando di un’ala al
figlio, quello dell’altra a Cassio; egli si pose al centro; fece
fare colazione ai soldati alla svelta, in piedi; e ordinò al
quadrato di passare il ruscello e di spingersi contro il nemico,
rapidamente235, seguito dalle tre legioni. Ben presto si videro
gruppi oscuri di cavalieri apparire all’orizzonte, avanzar
lentamente. Non parevan numerosi: era questo il terribile e
sterminato esercito dei Parti? Ma in breve quelle turbe crebbero;
grosse frotte di cavalieri apparvero sfolgoranti nelle corazze di
acciaio; e poi altre e poi altre, sinchè la testa
dell’esercito che il Surena aveva nascosto dietro una collina, la
cavalleria pesante, si mostrò tutta e si precipitò con
le lancie tese contro il quadrato romano, tentando di romperlo.
Nè le grida nè l’impeto subitaneo scossero le coorti
romane che ricevettero, lanciando i giavellotti, le cariche che si
seguivano; poi le cariche rallentarono, come l’impeto dei cavalieri
che si raccoglievano a qualche distanza fosse già stanco.
Crasso credè che la battaglia sarebbe presto finita; e
mandò fuori di corsa gli arcieri, i frombolieri e la fanteria
leggera a perseguitare i fuggenti. Ma furono ricevuti a mezza corsa
e respinti da una grandine di saette, fittissime, ronzanti,
sibilanti, lanciate con una forza prodigiosa dalla cavalleria
leggera composta di arcieri, che frattanto si avvicinava,
spiegandosi, a quanto pare, in gran semicerchio ai due fianchi della
cavalleria pesante, e quasi sospingendo questa, rivoltatasi di
nuovo, a correre e ricorrere addosso alle linee romane. Ben presto
le freccie lanciate dai fianchi e sopra i capi dei cavalieri pesanti
con tiro parabolico236, volarono oltre, caddero nelle prime file,
sibilarono su le teste, caddero nel mezzo del quadrato, tempestarono
da tutte le parti, fitte ronzanti violente, spaventando con le ombre
ed i sibili, rompendo gli scudi, piantandosi nelle carni. Crasso e
gli ufficiali incoraggiarono i soldati: avessero pazienza, il nemico
presto esaurirebbe gli strali; slanciarono anche qualche coorte
contro il nemico per muovere un poco i soldati e animarli. Ma appena
i Romani si avvicinavano, i Parti fuggivano pur continuando, volti
indietro sul cavallo, a lanciar freccie; e le coorti doveano
ritornare nel quadrato, che la pioggia degli strali flagellava
implacabile, come se i Parti non vuotassero mai i loro turcassi. Gli
ufficiali capirono alla fine la cagione, osservando lontano
all’orizzonte una lunga fila di cammelli, verso la quale di tempo in
tempo accorreva un gruppo di cavalieri; era un immenso carico di
freccie che aveva seguito l’esercito237. Le legioni, costrette a
ricevere passivamente una grandine di saette micidiali, si
scoraggivano; Crasso voleva fare e non sapeva che cosa; quando si
accorse che il nemico tentava di avvolgere, con un largo giro, l’ala
comandata da suo figlio Publio. Subito egli ordinò a questi
di ributtare il nemico; e Publio, radunati in frotta 1300 cavalieri,
tra i quali i suoi 1000 Galli, 500 arcieri e 8 coorti, si
slanciò con foga violenta. Il nemico parve ritirarsi,
spaventato; già spariva tra nembi di polvere all’orizzonte,
incalzato dai Romani; la terribile pioggia di freccie quetava;
l’esercito e Crasso credettero la battaglia finita e aspettarono di
miglior animo il ritorno di Publio. Ma ecco di lì a poco,
arrivare a gran carriera dei messi: Publio domandava soccorso; i
Parti fuggendo l’avevan tratto lontano; e poi d’improvviso,
voltatisi, avevano accerchiata la piccola schiera; si era impegnata
una mischia terribile, nella quale il giovane eroe sarebbe oppresso
se non riceveva pronto soccorso. Crasso si affrettò ad
accorrere con tutto l’esercito; ma si era appena mosso, quando ecco
riapparire una gran nuvola di polvere, rilucere tra quella lampi di
acciaio, suonare un tumulto di grida selvaggie.... I Parti
ritornavano, veloci, feroci, violenti; un cavaliere li precedeva,
portando sulla lancia un oggetto nero.... I Romani dovettero
fermarsi, aspettare; e quando le schiere si furono ancora
avvicinate, gli occhi più acuti riconobbero che quella cosa
nera issata sulla punta della lancia era la testa di Publio Crasso.
Tutto l’esercito capì subito che la schiera era stata
distrutta e rabbrividì di orrore; ma l’orgoglioso banchiere,
che aveva sfidato sino allora tanta procella, non si avvilì;
corse i ranghi dei soldati gridando loro che la morte di Publio era
una disgrazia sua; essi facessero il loro dovere e ributtassero il
nuovo assalto. Difatti tutto intorno all’esercito si era allargato
un semicerchio di saettatori che fulminavano le coorti romane,
mentre dal centro prorompevano una dopo l’altra ondate di cavalieri
con le lancie tese per sfondare, disperdere, trucidare l’esercito
romano. Ma anche questa volta le coorti romane stettero salde; e
alla fine i cavalieri parti, stanchi da tante corse furibonde,
vuotati i turcassi, spuntate le lancie e ottuse le sciabole, si
ritirarono238, quando videro il sole declinare.
È probabile che alla sera i Parti credessero di aver perduta
la giornata. Questa cavalleria di arcieri, che doveva portarsi
dietro l’acqua e i carichi delle freccie, che avea bisogno di larghi
pascoli e che non poteva indugiare a lungo in un paese, aveva certo
sperato di scompigliare con un assalto improvviso l’esercito romano,
gettare il panico fra le legioni, trucidarle nel disordine che
sarebbe seguito. Invece, pur ricevendo crudeli ferite, le legioni
avevan resistito, senza sbandarsi239. Fortunatamente per i Parti
però le perdite considerevoli, la insolita maniera di
combattere, la lontananza dalla Siria, la morte di Publio Crasso
avevano esausti i nervi dei Romani, nel cui campo alla sera tutti,
dai soldati allo stato maggiore, credettero di essere stati vinti.
Crasso stesso, che durante la giornata aveva comandato con energia
meravigliosa, la sera si ritrasse nella tenda, affranto per la morte
del figlio diletto e per la sciagura dell’esercito. Per fortuna
Cassio vegliava; e credendo che i Parti esultanti per la vittoria
assalirebbero di nuovo il giorno dopo l’esercito stanco e
disanimato, pensò che bisognava nella notte stessa ritirarsi
su Carre; trasse Crasso dal suo dolore; lo indusse a dar subito
l’ordine della ritirata240. Nella notte l’esercito abbandonò,
in gran disordine, il campo di battaglia e circa 4000 feriti, che i
Parti uccisero il giorno dopo: ma potè all’alba ripararsi
tutto a Carre, salvo quattro coorti che nel disordine della notte
oscura perderono la via e furono il giorno dopo sorprese e trucidate
dal nemico241. Esso poteva ora facilmente porsi in salvo, rifacendo
a ritroso con rapide marcie la strada percorsa, sulla quale i Parti
avrebbero presto dovuto tralasciar di inseguirlo, per mancanza di
acqua e foraggi. Difatti il generalissimo dei Parti fu molto
inquieto, quando venne al suo orecchio la diceria che a Carre si
eran rifugiati solo i dispersi, mentre l’esercito camminava veloce
verso l’Eufrate242. Pur troppo invece i soldati romani erano
così avviliti, avevano concepito un tal terrore dei Parti,
che gli ufficiali capirono esser pericoloso avventurarsi fuori dalla
città, nella pianura infestata dai terribili cavalieri, senza
aver avuto rinforzi; e un consiglio di guerra risolvè di
domandare aiuti al re d’Armenia, di aspettarli in Carre, e poi
ritirarsi, probabilmente per la via dell’Armenia243. A ogni modo una
lunga dimora in Carre poteva egualmente costringere i Parti a
ritirarsi, senza un successo decisivo.... Ma il generalissimo dei
Parti voleva tornare alla Corte con una vittoria autentica, a tutti
i costi; e quando avanzatosi sin sotto Carre venne a sapere che
tutto l’esercito vi si trovava e scoraggito profondamente,
concepì l’ astuto disegno di far sapere, in vari modi, ai
soldati romani che lascerebbe loro la ritirata libera, se gli
consegnassero Cassio e Crasso, contentandosi, se non aveva potuto
distrugger l’esercito nemico, di portar nella reggia del suo re
l’autore della guerra. E la perfidia fu immaginata abilmente. Questi
incitamenti alla rivolta misero in scompiglio lo stato maggiore
romano già inquieto: bisognava non indugiar più in
Carre ad aspettare gli incerti soccorsi armeni, ritirarsi subito per
impedire che l’esercito, già stanco e spaurito, prestasse
orecchio alle perfide seduzioni244; Crasso, troppo turbato ormai
dall’impensata vicenda della guerra, si lasciò smuovere dalle
sollecitazioni affannose degli ufficiali, e mutando idea,
ordinò precipitosamente la ritirata. Ma per qual via? Cassio
consigliava di rifar la via dell’avanzata; Crasso invece, sia che
fosse ingannato da un notabile di Carre, Andromaco, sia che temesse
avventurare i soldati nella pianura, sia che dopo aver ceduto alle
sollecitazioni altrui nella questione della ritirata si impuntasse
in quella della via, scelse la strada montuosa dell’Armenia.
L’esercito romano si avviò verso le montagne dell’Armenia per
strade difficili e regioni paludose, camminando di notte; e il
generalissimo parto, inquieto di vederlo sfuggire si mise a
perseguitarlo come poteva; ma l’inseguimento era malagevole e fiacco
in quel terreno cattivo per la cavalleria. Eppure i Romani,
disanimati e ormai impressionabili come fanciulli, ne eran sgomenti;
con la fatica cresceva l’avvilimento dei soldati, la
nervosità, l’irritabilità, la discordia degli
ufficiali; lo stato maggiore si disfaceva; Crasso perdeva la calma,
la sicurezza delle deliberazioni, l’autorità sugli ufficiali,
mentre il Surena continuava ad incitare con vari artifici i
legionari al tradimento. Un giorno – tanto i nervi di tutti eran
irritati, nello stato maggiore – egli ebbe un diverbio violento con
Cassio, che non ristava dal criticare e ammonire; e nell’ira gli
disse che se non voleva seguirlo, si prendesse una scorta e si
ritirasse per la via che voleva: offerta che Cassio accettò
subito, ritornando con 500 cavalieri a Carre, e di là
rifacendo verso l’Eufrate la via percorsa venendo245. L’esercito si
dissolveva.... Crasso continuò la sua via; sinchè il
generalissimo dei Parti, vedendosi ormai sfuggire la preda – le
montagne erano vicine – non volendo tornare alla corte senza un
successo definitivo246, deliberò di usare una nuova astuzia
più orribile; e una mattina, mandò nel campo romano un
ambasciatore a dire che voleva parlare con Crasso per conchiudere la
pace e far ritornare tranquillamente l’esercito in patria. Crasso,
che ormai era sicuro dell’esito della ritirata e temeva una insidia,
non voleva accondiscendere; ma quando lo stanco esercito seppe che
si poteva tornare a casa pacificamente, non ascoltò
più ragioni e minacciò una sommossa se Crasso non
fosse andato al colloquio.... Al vecchio banchiere, in quel momento
terribile, non giovarono più nè il nome, nè
l’età, nè l’autorità quasi sacra di imperator,
nè gl’immensi tesori che aveva lasciati in Italia.... Egli si
vide côlto in una insidia strana; spinto a rovina
precipitosamente dall’esasperazione cieca di una soldatesca, cui le
sofferenze e il pericolo avevano sconvolto il senno, distrutto il
senso della disciplina, ottenebrato lo stesso istinto di
conservazione. Crasso era un uomo forte, non ostante i suoi difetti;
e innanzi alla morte che gli apparve a un tratto, in vista dei monti
d’Armenia, lontano dalla famiglia, dalla casa, da Roma, come un
condannato alla pena estrema, non concedendogli che pochi minuti per
prepararsi, non si smarrì; chiamò gli ufficiali, disse
loro che andava al colloquio, ma sapendo che gli si tendeva una
insidia, preferendo essere ucciso dai Parti che dai soldati.
Andò con una scorta e fu ucciso247 il 9 giugno248. Uomo di
grande ingegno, operoso, molteplice, sebbene poco generoso e troppo
egoista, egli aveva condotta questa guerra con abilità e
intelligenza; ma la fretta, la fiducia, la poca attenzione allo
stato d’animo dei suoi soldati, il disordine militare dei tempi, un
seguito di accidenti fatali, gli fecero subire la sorte che Cesare
aveva scampato miracolosamente nella guerra contro gli Elvezi.
Morendo così, egli espiava le molte colpe sue e l’orgoglio di
tutta Italia. La sua testa fu recisa e mandata alla corte del re dei
Parti; le sue ossa non ebbero sepoltura; l’esercito restato senza
capo si disperse; e dei soldati molti furono uccisi alla
spicciolata, molti scamparono, in piccoli gruppi, sino in
Siria....249
La notizia di questa terribile sventura giunse a Roma, in luglio250,
quando da poco si eran fatte, finalmente, dopo sette mesi di
interregno e di anarchia, le elezioni per le cariche dell’anno
stesso. Il lungo disordine era stato accresciuto dalle dispute sul
modo di comporlo: chi aveva voluto rinnovare dalla antica storia di
Roma i tribuni militum consulari potestate, chi creare, per
disperazione, Pompeo dittatore. Questo ultimo consiglio era alla
fine prevalso; ma Pompeo, per paura della opinione pubblica che dopo
Silla detestava il nome di dittatore, non aveva accettata la carica;
acconsentendo invece a far entrare in Roma soldati dell’esercito
suo, che avevano aiutato l’interrex a tenere i comizi. Così
le elezioni erano state fatte, ed erano risultati consoli Marco
Valerio Messala e Gneo Domizio Calvino251. Ma è facile
immaginare di quanta commozione fosse cagione la notizia della fine
di Crasso all’Italia appena rimessasi dall’interminabile scandalo
delle elezioni! Avevano dunque avuto ragione i pochi conservatori,
ostinati avversari dell’impresa! In Gallia intanto si combatteva,
con miglior fortuna – è vero – ma con procedimenti sempre
più barbari. Labieno aveva vinti i Treviri; Cesare aveva
passato un’altra volta il Reno e fatta una scorreria nel paese degli
Svevi, per impedir loro di soccorrere i Galli; poi, tornato in
Gallia, aveva dovuto di nuovo combattere gli Eburoni, i quali,
divisi in piccoli gruppi, uccidevano alla spicciolata i soldati e i
piccoli distaccamenti. Cesare, esasperato da tante rivolte e
minacci, inferocì; e per sterminare gli Eburoni consumando il
minor numero possibile di suoi soldati, pubblicò per tutte le
città delle Gallie un editto che permetteva a chiunque
volesse di recarsi a rubare e a uccidere nel territorio dei ribelli.
Da tutte le parti della Gallia accorsero bande di saccheggiatori,
formatesi tra i disperati, i perditi homines atque latrones, di cui
la Gallia era piena; e Cesare, lasciati ad Aduatuca i bagagli
dell’esercito sotto la guardia di una legione, invase il paese con
nove legioni divise in tre colonne, al comando suo, di Trebonio e di
Labieno, mettendolo a ferro e fuoco. Ma il furore delle rapine
è simile al fuoco, che spesso divampa oltre le intenzioni e
anche contro colui che lo accende! Una banda di 2000 predoni
sicambri, venuta all’invito di Cesare a saccheggiare il paese degli
Eburoni, quando seppe che ad Aduatuca era il campo romano con i
ricchi bagagli di dieci legioni e i depositi dei mercanti che
seguivano l’esercito, tentò e per poco non riusci a prenderlo
e saccheggiarlo. Pure, per quanto il paese fosse frugato a ferro e a
fuoco, Ambiorige non potè essere catturato; e Cesare,
all’avvicinarsi dell’inverno, tornò indietro, raccolse
l’assemblea delle Gallie, fece il processo delle rivolte dei Senoni
e dei Carnuti, condannò a morte Accone, all’esilio e alla
confisca molti di quei nobili compromessi nella rivolta e fuggiti
oltre il Reno. I loro beni furono divisi tra i nobili restati fedeli
e tra gli alti ufficiali romani252. Poi si dispose a tornare in
Italia.
La pacificazione delle Gallie degenerava in una selvaggia guerra di
devastazioni; alla diplomazia conciliante dei primi anni succedeva
il regime del boia. Cesare non era crudele; ma siccome il suo
credito riposava tutto sulla leggenda che egli avesse conquistato in
un baleno la Gallia, non poteva lasciare che la leggenda apparisse
fallace; e nell’ansia che la sua gloria svanisse si corrucciava e
inaspriva. A Roma però le notizie di queste repressioni
sanguinose sgomentavano e disgustavano, ora che la infatuazione
imperialista dopo il disastro di Crasso incominciava a venir meno; e
il malessere era cresciuto dalla scandalosa ostentazione che molti
dei generali di Cesare facevano delle ricchezze conquistate
saccheggiando la Gallia. Così Cicerone era sempre in faccende
per le costruzioni ordinate da suo fratello; Mamurra si faceva
costruire sul Celio – egli oscuro cavaliere di Formia – una
magnifica palazzina di cui tutte le pareti erano ricoperte di marmi
finissimi, lusso ancora non veduto in Roma253; Labieno, che aveva
comperato vaste possessioni nel Piceno, vi faceva costruire a sue
spese addirittura una piccola città fortificata: Cingoli254.
Il sentimentalismo morale, nato dai progressi della civiltà,
educato dalla filosofia greca, scuoteva il sopore infuso dai
narcotici della corruzione e dell’orgoglio; e reagì con
maggiore energia, allorchè, dopo breve pausa, le elezioni per
l’anno 52 riscatenarono di nuovo l’anarchia. Erano candidati al
consolato Milone, Publio Plauzio Ipseo e Quinto Cecilio Metello
Scipione, figlio adottivo di Metello Pio; alla pretura l’immancabile
Clodio; alla questura Marco Antonio che dopo il ritorno di Gabinio
in Italia era stato chiamato da Cesare in Gallia, il quale ne aveva
presto ben giudicate le attitudini militari e ora gli aveva dato un
congedo per concorrere alla prima delle magistrature.255 Ma presto
la gara delle ambizioni infuriò di nuovo; Pompeo, che, come
spesso i gran signori, era lacheur con gli amici, aveva abbandonato
Milone; Clodio per far dispetto a costui sosteneva gli altri due
candidati; e i candidati partigiani degli uni e degli altri
incominciarono a battagliare per le vie con tal violenza che una
volta Cicerone corse pericolo di essere ucciso sulla via Sacra256 e
un’altra Marco Antonio per poco non ammazzò Clodio257. Invano
i consoli tentarono a più riprese di tener i comizi; alla
fine il Senato, non potendo altro, proibì il culto egiziano
di Serapide e di Iside, le cui stravaganze accrescevano il
perturbamento morale già grande della città258, e
deliberò di proporre al popolo una legge per la quale in
avvenire un magistrato non avrebbe potuto ottenere una provincia, se
non cinque anni dopo esercitata la magistratura259. Si sperava di
quetare così un poco la furibonda concorrenza alle
magistrature, con quanta ragione è facile immaginarlo! Pur
troppo Pompeo, udendo sempre ripetere dai suoi adulatori esser
d’uopo di un magistrato autorevole ed unico per ristabilire
l’ordine, incominciava a desiderare questo nuovo onore
straordinario; e pensò di aiutare gli avvenimenti, non
facendo nulla per impedire che il disordine divampasse; anzi quando
si giunse al primo gennaio del 52 senza che i consoli fossero
eletti, egli fece impedire da Tito Munazio Planco, che era stato
eletto tribuno per il 52 insieme con Sallustio, che il Senato
nominasse l’interrè260. Lo Stato rimaneva così senza
capo.
Ma un evento imprevisto precipitò le risoluzioni. Il 18
gennaio Milone, andando con una sua scorta a Lanuvio,
incontrò sulla via Appia, nelle vicinanze di Boville, Clodio
che con un piccolo seguito tornava dalla campagna a Roma. Le due
piccole schiere vennero alle mani e Clodio restò
ammazzato261. Finalmente! dissero i conservatori. Ma questo
terribile facinoroso, che vivo aveva eccitati tanti disordini,
continuò a sovvertire lo Stato anche morto. Clodio era
popolare, per la sua legge sul grano, per i suoi modi triviali, per
la sua audacia e prodigalità; il popolino minuto fu
perciò facilmente esasperato dai suoi clienti e bravi che gli
dicevano essere il valente difensore dei poveri caduto per l’odio
dei grandi e dei ricchi; il suo cadavere fu visitato nella casa da
processioni immense; i tribuni di parte popolare e la moglie Fulvia
rinfocolarono abilmente il furore; e i funerali furono celebrati con
una solennità grandiosa e quasi selvaggia. Il popolo
accompagnò il corpo nella Curia Ostilia e per dispetto ai
senatori gli fece un rogo di banchi, di tavole, di registri usati
dai senatori; il fuoco divampò nella Curia, si appiccò
alla basilica Porcia; finchè il corpo del demagogo incestuoso
sparì nel rogo solenne di due tra i più antichi e
venerabili monumenti romani, mentre il popolo quasi impazzito empiva
Roma di dimostrazioni, acclamando Pompeo e Cesare dittatori.
Spaventato Pompeo abbandonò l’ostruzionismo contro la nomina
dell’interrè, e il Senato nominò Marco Emilio Lepido;
ma l’esaltazione del popolo, invece di calmarsi, crebbe a tal segno
che quando si fece il solenne banchetto funerario in onore del
demagogo, la folla tentò di appiccar fuoco alla casa di
Milone e di Lepido sospetto di favorirlo; una dimostrazione popolare
andò a offrire i fasci consolari a Ipseo e a Scipione;
un’altra acclamò Pompeo console o dittatore. Roma impazziva
tra risse, dimostrazioni, tumulti, delle quali i malandrini
approfittavano; bande di malviventi entravano a forza nelle case con
il pretesto di cercare gli amici di Milone e le svaligiavano262.
VII.
LA SUPREMA CRISI
DELLA DEMOCRAZIA IMPERIALISTA:
LA RIVOLTA
DELLA GALLIA.
Mentre questi tumulti avvenivano in Roma, Cesare valicava le Alpi
per tornare nella Gallia Cisalpina. La fretta, l’ira,
l’ansietà per la rapida decadenza del partito democratico, la
sua natura a volte temeraria e precipitosa, la impossibile grandezza
dell’opera impresa lo costringevano fatalmente ad aggiungere errore
ad errore: prima a compiere una repressione feroce, anche a costo di
inasprire gli odi, per aver almeno una tregua durante la quale
attendere alle cose d’Italia; poi ad abbandonar la Gallia subito
dopo la repressione263. Probabilmente appena in viaggio egli seppe
da Labieno che il suo amico Commio preparava anche egli una rivolta;
e, sdegnato, mandò ordine a Labieno di invitare
amichevolmente l’Atrebate al campo e di ammazzarlo264. Labieno
obbedì; ma l’insidia riuscì a mezzo; perchè
Commio, sebbene ferito, riuscì a porsi in salvo; e
fuggì, ormai nemico mortale di Cesare e di Roma. Anche questa
perfidia non era riuscita! Per aver messo mano a un’impresa che a
poco a poco era smisuratamente cresciuta, troppo spesso Cesare era
costretto ad abborracciare in una parte con espedienti
contraddittorii, per passar presto ad un’altra; ma di lì a
poco vedeva la parte creduta perfetta rovinare; e si inaspriva e
inferociva, in questa fatica di Sisifo, smarrendo tra tanti pericoli
che riapparivano senza interruzione la sua fredda ed equilibrata
prudenza. Per il momento però poco gli importava di Commio,
fuggito tra le selve profonde della Gallia settentrionale: di ben
altre inquietudini gli era cagione l’Italia.
Il partito democratico decadeva di nuovo come nel 57, per non aver
mantenute le sue stravaganti promesse. Le speranze sulla Britannia
erano state deluse: in Persia le armi romane avevano ricevuta una
disfatta inaudita; la Gallia che tutti avevano creduta sottomessa in
due anni dal “generale unico” era in piena rivolta; l’antico odio di
classe tra il popolino e gli alti ceti, un poco sopito negli ultimi
anni dalla prosperità orgiastica e dalla esaltazione
dell’orgoglio nazionale per le conquiste, ridivampava in seguito
alla morte di Clodio; Crasso era morto e la potente triarchia si
decomponeva nello screditato governo di due, che non sapeva nemmeno
reprimere le rivolte croniche del popolaccio di Roma. Subito dopo
l’assassinio i conservatori ragionevoli avevano giudicata
severamente la ferocia con cui Milone aveva fatto uccider dagli
schiavi Clodio ferito265; ma quando il popolino inferocito a
perseguitare Milone minacciò incendi, stragi, tumulti,
avvenne un rivolgimento di spiriti; i conservatori intransigenti,
che avrebbero volentieri onorato l’uccisore di Clodio, prevalsero; e
Milone fu per reazione protetto quasi da una tacita dichiarazione di
solidarietà ufficiale. La sera del dì dei funerali il
Senato, radunatosi per provvedere all’ordine pubblico, indisse lo
stato d’assedio e incaricò Pompeo, i tribuni della plebe,
Milone stesso di eseguire il decreto266; Milone imbaldanzito da
questo mutamento in suo favore, subito venne a Roma, risoluto a
sopraffare la viltà universale con una audacia quasi
incredibile e riprese apertamente a domandare il consolato267; il
popolino ancor più esasperato minacciò violenze nuove
e maggiori. Lo spirito pubblico cominciava a impaurirsi; ad ammirare
meno Cesare, al quale i nemici implacabili, ripreso coraggio,
apponevano ora, come al primo autore di questa politica, tutti i
mali presenti: il disastro di Crasso che egli aveva spedito in
Persia, la corruttela universale che egli aveva fomentata con le sue
profusioni, la guerra interminabile nella Gallia che egli aveva
provocata con le rapine268. Ultima disgrazia, ma non minore delle
altre, egli aveva perduto Clodio, l’organizzatore e l’agitatore
insuperabile del popolino; e non essendo facile trovare altri che
unisse le diverse qualità necessarie all’ufficio, numerosi
collegia elettorali, forza del suo partito, si disfacevano. Il
pugnale di Milone non aveva ferito solo il corpo di Clodio, ma la
politica di Cesare e di Pompeo.
Cesare doveva dunque ricostituire per una terza volta la sua
clientela; e prima di tutto rinsaldare l’unione con Pompeo: impresa
difficile ora che Crasso non era più; dopochè Giulia
era morta, la fanciulla che aveva tenuto Pompeo fermo nella
fedeltà a Cesare, nei primi anni dell’unione, gettandogli al
collo la catena delle belle braccia. A torto gli storici hanno
considerata la discordia che incominciò tra Cesare e Pompeo
da questo momento, come effetto di una rivalità d’ambizioni
latente da anni e scoppiata non appena sparve il terzo partecipe
della signoria; quando invece la discordia covava, non nelle
ambizioni, ma nei temperamenti dei due uomini, e gli eventi, non la
volontà dell’uno o dell’altro, la fecero esplodere. Pompeo
non era, come Cesare, un creatore impetuoso, ma un dilettante
intelligente; il quale se per impazienza di ambizioni giovanili
aveva parteggiato per la democrazia temperata e signorile, diventava
allora di nuovo, invecchiando e per reazione al disordine
demagogico, un conservatore, cui l’audacia, la corruzione, la
politica popolare ed avventurosa di Cesare incuteva spavento. I
rancori e le insidie dei conservatori, la difficoltà di
primeggiare essendo in guerra con i conservatori da una parte, con
Cesare, Crasso e Clodio dall’altra, lo avevan costretto sino allora
a partecipare, riluttante, alla lega. Ma la tragica rovina di
Crasso, il disordine dello Stato, le rivolte del popolino lo
inquietavano; risvegliavano in lui gli istinti autoritari insiti in
ogni nobile; lo piegavano verso le idee diffuse ormai nella parte
migliore delle alte classi: conciliazione ordinata di aristocrazia e
di democrazia; repressione della corruzione pubblica e privata;
restaurazione della autorità e di un costume di vita
più semplice e virtuoso. Come spesso avviene ai milionari nei
tempi di ricerca tumultuosa e universale del denaro, egli sentiva la
vanità delle ricchezze e del lusso per gli altri e si
meravigliava che per conquistarle empissero di tanto disordine lo
Stato: non si poteva continuare così; la repubblica aveva
bisogno di ordine, di pace, di giustizia; se le magistrature
ordinarie non bastavano, si creasse una magistratura nuova, che
potesse comprimere la sfrenata licenza dei tempi. Queste idee si
divulgavano nelle alte classi; Cicerone esprimeva, quasi senza
saperlo, scrivendo il De Republica, il nuovo stato d’animo delle
alte classi; e in quell’uomo cui la fortuna aveva persuaso di esser
atto a compire le più straordinarie e difficili cose, si
risvegliava, insieme con gli scrupoli conservatori, una nuova
ambizione: esser il riordinatore e il pacificatore della travagliata
repubblica.
Cesare sentì da lungi questa esitazione del collega; e da
Ravenna269, dove era andato a passar l’inverno, aiutò Pompeo
che il Senato aveva autorizzato a fare una leva in tutta Italia270,
a reclutar soldati anche nella Cisalpina271, proponendogli nel tempo
stesso, per consolidare la loro unione, un nuovo e doppio
matrimonio: egli avrebbe sposata la figlia di lui, allora fidanzata
al figlio di Silla; e Pompeo la seconda figlia di una sua nipote: di
quella Azia, che aveva sposato Gaio Ottavio, morto ancor giovane
quando stava per diventar console, e che oltre un figlio Caio nato
nel 63 e allora di undici anni, aveva due figlie più
grandi272. La famiglia e i maritaggi non erano ormai altra cosa che
uno strumento di intrighi politici nelle alte classi di Roma. Ma
Pompeo rifiutò. Segno infausto, questo rifiuto! Ed ecco di
lì a poco i corrieri delle Gallie portare a Cesare notizie
inaspettate e terribili. Egli si era illuso credendo, con una feroce
repressione, di ottenere una tregua in cui attendere alle cose
d’Italia: appena partito di Gallia, gli uomini più insigni di
molte nazioni, adirati per le devastazioni dell’anno precedente, per
la condanna di Accone e degli altri nobili, si eran dati convegno
nei boschi, avevan discusso della condizione della Gallia, scambiate
intese, agitato i clienti e le classi popolari.... E già i
Carnuti erano insorti di nuovo, sotto il comando di Gutuatro e di
Conconetodumno trucidando a Genabo i mercanti italiani, tra gli
altri il cavaliere Caio Fufio Cita che era il direttore dei servizi
di approvvigionamento dell’esercito romano: nella Alvernia il
giovane Vercingetorice, il suo amico, si era impadronito con una
rivoluzione del governo e aveva alzato lo stendardo della rivolta: i
Senoni, i Parisii, i Pictoni, i Cadurchi, i Turoni, gli Aulerci, i
Lemovici, gli Andi e tutti i popoli abitanti sulla costa dell’Oceano
si erano ribellati, scegliendo a capo Vercingetorice, che aveva
già mandato un esercito sotto il comando del Cadurco Lucterio
verso le frontiere della Gallia narbonese, mentre egli in persona
invadeva il territorio dei Biturigi. tributari degli Edui273. Gli
avanzi della nobiltà e la plutocrazia si univano contro
l’invasore; il suo opportunismo seminatore di discordie tra i ceti
gli aveva alla fine inimicato tutti; la rivolta scoppiava di nuovo,
senza che nè egli nè i suoi generali ne avessero avuto
sentore; e minacciava sorprendere gli eserciti dispersi nei
tranquilli ozi dei quartieri d’inverno, quando egli era a centinaia
di miglia lontano, prima che avesse potuto neanche incominciar
l’opera di restaurazione politica, per la quale aveva abbandonata la
Gallia con tanta fretta.
La stretta degli eventi, precipitati ad un tratto così
rovinosamente, era terribile. Egli doveva tornare in Gallia subito;
eppure non poteva abbandonare l’Italia in quelle condizioni, con il
suo partito in tanto disordine. Ma l’immenso pericolo concitò
tutte le energie del suo agile e molteplice spirito, la
velocità, la audacia, la previdenza, la potenza immaginativa,
in uno dei più meravigliosi impeti di azione che la storia
ricordi. Egli pensò che la nuova guerra a cui muoveva poteva
andargli male; che in tal caso, quando il primo marzo dell’anno 49 i
suoi poteri proconsolari sarebbero cessati, i conservatori lo
avrebbero fatto processare e mandare in esilio, se non riacquistava
l’inviolabilità facendosi rieleggere console. Ma per la legge
di Silla che proibiva le rielezioni prima dei dieci anni, egli
poteva esser console per la seconda volta soltanto nel 48. Cesare
non volle partire, senza prepararsi sin da allora in fretta e furia
uno schermo, che gli proteggesse le spalle; e siccome molti a Roma
volevano che egli e Pompeo fossero eletti consoli insieme, abilmente
pregò gli amici di abbandonar la sua candidatura, ma chiese
in cambio gli fosse concesso di domandar il consolato assente da
Roma274, affermando che la guerra poteva non esser ancora finita al
1.° marzo del 49 e pieno di pericoli cambiare allora il
comando275. Era strana una simile domanda, fatta con anticipazione
di tre anni; ma appunto per questo molti la considerarono come di
poca importanza; Pompeo, lieto che Cesare non volesse esser console,
la sostenne276; Cicerone, pregato da Cesare, si interpose
affinchè Celio, allora tribuno della plebe e sempre
conservatore, non interponesse il veto277. In pochi giorni Cesare
potè esser sicuro che i tribuni avrebbero proposta e fatta
approvar la legge, e subito partì, volò per la
Narbonese278, probabilmente verso la metà di febbraio279,
camminando notte e dì.
A mano a mano però che si avvicinava, le notizie divenivano
più gravi; gli Edui, i Remi, i Lingoni, restati fedeli al
centro della Gallia, erano circondati da popolazioni ribelli, come
da un immenso cerchio di fuoco, rotto solo ad est dai Sequani ancora
incerti; e nel cui sommo arco settentrionale eran poste le dieci
legioni di Cesare. Che risolvere? Chiamare le legioni nella
Narbonese? Esse avrebbero dovuto traversare la Gallia in rivolta
sotto il comando dei generali. Andare egli a raggiungerle? Gli era
necessario di traversare con piccole forze questa cerchia di fuoco,
un vasto paese in rivolta. L’alternativa era ansiosa e terribile; ma
l’immaginazione, la velocità, l’audacia di questo poeta
geniale della guerra e della politica prorompevano ormai da ogni
parte, con impeto meraviglioso, concitate dal pericolo e dal fervor
dell’azione. Appena giunto, in pochi giorni, lavorando senza riposo,
Cesare provvide alla meglio alla difesa della Gallia Narbonese, con
una parte della guarnigione e con i soldati reclutati recentemente
in Italia; poi mandato un piccolo corpo di cavalleria a Vienna, con
la parte rimanente della guarnigione narbonese tentò una
audacia straordinaria: valicare le Cevenne ancor coperte di neve;
minacciare una finta nell’Alvernia, per attrarre Vercingetorice a
difendere la sua patria e poi egli, con la piccola squadra di
cavalieri mandata a Vienna, attraversar la Gallia e raggiungere le
legioni, quando tutti lo crederebbero a guerreggiare in Alvernia.
Percorrendo, dalla frontiera gallica, circa 135 miglia (200
chilometri)280, valicò le Cevenne a gran fatica, facendo
aprire dai soldati una strada nella neve; e comparso all’improvviso
in Alvernia, mandò la cavalleria a saccheggiare il paese,
spaventando siffattamente gli Arveni, increduli potesse dai monti
nevosi sbucare un esercito, che essi mandarono affannosamente a
richiamare Vercingetorice al soccorso della patria invasa da un
immenso esercito. Vercingetorice, che aveva da poco conquistato il
potere con una rivoluzione, dovè accorrere; ma Cesare, dopo
due giorni, senza svelare a nessuno le sue intenzioni, dicendo che
sarebbe stato assente tre dì per cercare rinforzi, cedette il
comando a Decimo Bruto, raccomandandogli di scorrazzare l’Alvernia
più che potesse; rivalicò con poco seguito le Cevenne;
percorse in un baleno le cento miglia (150 chilometri) che lo
separavano da Vienna; a Vienna si mise alla testa del piccolo
squadrone mandato là innanzi e con quello attraversò a
galoppo cavalcando giorno e notte la Gallia, inosservato e quindi
non molestato; finchè giunse inaspettato alle due legioni
svernanti nel paese dei Lingoni. Il primo portento di audacia e di
velocità era avvenuto. Mandò allora ordini alle altre
legioni di raccogliersi nei pressi di Agendico (Sens); e verso la
metà di marzo281, andato anche egli ad Agendico con le due
legioni, era alla testa di tutto il suo esercito, 11 legioni, circa
35 000 uomini, gli ausiliari gallici essendo spariti quasi
tutti e la cavalleria essendo ridotta a ben poca282. Egli aveva
fatto, da Vienna ad Agendico, in parte a cavallo, in parte alla
testa di due legioni, altre 300 miglia (circa 450 chilometri).
Vercingetorice intanto, accortosi come Cesare l’avesse ingannato,
aveva fatto ritorno nel territorio dei Biturigi e posto l’assedio a
Gorgobina con il suo piccolo esercito, composto di Arveni e di
qualche contingente mandato dagli altri popoli: forse 7 od 8000
cavalieri e altrettanti (e forse meno) pedoni283. Il maggior numero
probabilmente servitori e clienti suoi e di altri nobili. A che cosa
doveva risolversi Cesare? La ragione politica consigliava di correre
subito contro Vercingetorice, per salvare i possedimenti degli Edui
e trattenere questi in fedeltà, per spaventare in tutta la
Gallia i nemici di Roma, finire presto la guerra e presto far
ritorno in Italia. La ragione militare consigliava invece di
aspettare la buona stagione284, in cui l’esercito potrebbe trovar
provvigioni abbondanti per via. Anche allora, però, come
tante volte in tante guerre, la ragione politica prevalse sulla
ragion militare. Cesare temeva la ribellione degli Edui più
che il pericolo di una campagna invernale, e nel fervore operoso che
lo agitava voleva agire subito, finir la guerra più presto
che fosse possibile: onde esortati gli Edui a fare supremi sforzi
per provvedergli il grano e lasciate due legioni e tutti i bagagli
ad Agendico, risolvè di incominciar subito la guerra con il
maggior vigore e la maggiore prestezza. In pochi giorni
piombò su Vellaunoduno e la prese; poi incendiò e
distrusse Genabo; varcò la Loira ed entrato nel territorio
dei Bituringi, pose l’assedio a Novioduno. Già si trattava
della resa, quando Vercingetorice, che alla notizia dell’avanzata di
Cesare si era mosso incontro a lui da Gorgobina, sopravvenne. Le
cavallerie dei due eserciti si azzuffarono e la romana un momento
parve piegare: ad un tratto però quattrocento cavalieri
germanici, che Cesare aveva tra i suoi soldati, irruppero, mettendo
in fuga i Galli, dopo breve scaramuccia, con l’impeto della carica e
con la paura che alla Gallia declinante incuteva ogni milizia
germanica. Cesare, ancor più incitato alla velocità da
questo primo successo, per quanto piccolo, mosse prontamente verso
Avarico (Bourges), la capitale dei Biturigi, una delle più
ricche di quelle città che incominciavano a ingrandire in
mezzo al lento mutarsi della vecchia Gallia agreste in civile e
mercantile.
Vercingetorice, la cui milizia di servitori a cavallo era poco
solida e che per impedire le diserzioni aveva dovuto stabilire una
disciplina ferocissima, non volle arrischiarsi più in campo
aperto dopo quel primo e poco fortunato incontro; e deliberò
di combattere contro l’invasore facendo il deserto intorno
all’invasore, incendiando a mano a mano che egli procedeva i
villaggi, le città, anche Avarico; distruggendo le
provvigioni e con la cavalleria catturare i convogli, annientando i
distaccamenti in cerca di vettovaglie, molestando senza riposo i
Romani mentre egli si approvvigionerebbe dai paesi ancora intatti
alle spalle. Savio consiglio e semplice; ma consiglio terribile, che
richiedeva nel popolo un fiero coraggio! Nè questo coraggio
mancò in principio ai Biturigi. Appena entrato nel loro
territorio, Cesare avanzò attraverso un paese deserto e
devastato, sempre vedendo lontano all’orizzonte le colonne di fumo
dei villaggi incendiati, seguito a breve distanza da Vercingetorice,
che evitava ogni occasione di battaglia, accampava il suo piccolo
esercito con prudenza tra boschi e paludi in modo da essere
naturalmente difeso contro gli assalti, e cercava di catturare i
convogli di grano. Se anche Avarico fosse stata distrutta,
l’esercito romano avrebbe potuto smarrirsi in una marcia senza
scopo, attraverso la desolazione ardente di un paese messo a ferro e
fuoco. Ma i Biturigi non si erano sentito l’animo di incendiare
anche la bella Avarico; e tanto avevano pregato e promesso di
difenderla eroicamente, che avevano indotto Vercingetorice a
risparmiarla. Cesare potè porre l’assedio ad Avarico; e i
Biturigi difendendo bene davvero la loro città, dovè
far intraprendere dai soldati, nella stagione ancor fredda e
piovosa, sotto il grigio cielo della Gallia, grandi lavori di
investimento, mentre la negligenza degli Edui e la guerriglia di
Vercingetorice rendevano precario l’approvvigionamento. Spesso il
pane mancò nel campo per intere giornate. Ma l’impeto di
Cesare, trattenuto dalla resistenza della città, si
convertì e trasfuse allora in una mirabile alacrità
manuale dei soldati. Conoscitor dei soldati migliore che Lucullo,
egli sapeva che in certe angustie terribili il loro zelo è
stimolato più da una fraterna cordialità di
commilitone che dalla aspra durezza generalizia; onde abilmente
dichiarò più volte ai soldati che avrebbe levato
l’assedio se essi trovavano troppo penoso il travaglio, riuscendo
invece a mandarli nelle trincee più alacri e vogliosi285;
così, non ostante il freddo, la fame, le frequenti sortite
dei nemici, i terrapieni si alzarono; e alla fine, nella seconda
metà d’aprile286, le torri furono rizzate, l’assalto dato, la
città presa, la popolazione trucidata, senza che
Vercingetorice osasse muovere al soccorso.
In poco più di un mese Cesare aveva prese e castigate tutte
le città mutatesi in focolari e baluardi di rivolta; segnata
la via di castighi terribili, come l’incendio di Genabo e di
Avarico; empita la cassa d’oro e d’argento, devastando nella rapida
marcia vittoriosa i tesori delle città dei templi dei
privati; risvegliata nelle legioni la animosa fiducia, così
necessaria a un piccolo esercito che combatte in mezzo a un vasto
paese, in rivolta. L’impeto geniale che si era mosso da Ravenna
aveva vinto tutto, attraverso le Alpi e per la Gallia: lo spazio, la
stagione, la fame, le mura fortificate, gli uomini; ed ora un poco
posò in Avarico, come per riprender lena all’ultimo slancio.
Cesare pensava che ormai con la presa di Avarico la parte più
faticosa dell’opera fosse compiuta, la Gallia riconquistata, la
rivolta se non spenta del tutto definitivamente domata per lo
scoramento che seguirebbe necessariamente a questa disfatta:
riposerebbe ora e provvederebbe l’esercito ad Avarico; poi
porterebbe la guerra nel paese degli Arverni, distruggerebbe
Gergovia, loro metropoli, e la guerra sarebbe finita. Ma una
discordia sorta tra gli Edui per la elezione del magistrato supremo,
che minacciava di far scoppiare una guerra civile, lo costrinse a
andar prima a Decezia per comporla. Un partito aveva eletto alla
somma magistratura Coto, un altro Convictolitavo; e siccome questo
partito accusava come illegale l’elezione di Coto, Cesare, temendo
che scoppiasse una guerra civile e che uno dei due partiti si unisse
a Vercingetorice, intervenne risolutamente a far giustizia; e
riconobbe per valida l’elezione di Convictolitavo, che sola era
davvero legale. Passò così qualche settimana, durante
la quale le forze dell’insurrezione avrebbero dovuto dissolversi e
disperdersi, nello spavento dell’ultimo assalto che la
minacciava.... Invece le notizie che giungevano a Cesare indicavano
chiaramente che la rivolta non era stata tanto scoraggita dalle sue
vittorie, quanto forse era lecito presumere. Nel nord della Gallia i
Senoni e i Parisi erano in armi ed alacri; Commio preparava un
esercito; Vercingetorice dopo aver rinfrancato il coraggio dei suoi,
che nell’avvilimento dei primi giorni lo avevano perfino sospettato
di tradirli, attendeva alacremente a rinnovare la guerra: aveva
ricevuto aiuti dall’Aquitania, reclutava arcieri, insegnava ai suoi
a fare il campo alla romana; tentava alla rivolta i personaggi
insigni dei popoli ancor fedeli, come gli Edui e i Sequani, mandando
loro grandi quantità di quell’oro, di cui l’Alvernia, il
paese dove erano le maggiori miniere, tanto abbondava. Tuttavia
Cesare, fiducioso fosse quella la ultima energia della disperazione,
rimase così fermo nella opinione che la guerra volgeva alla
fine, che divise l’esercito287: mandò Labieno con quattro
legioni nel Nord contro i Parisi e i Senoni; ed egli con sei legioni
si pose in cammino, forse alla metà di maggio, verso il Sud,
per invadere Alvernia, costringere Vercingetorice a battaglia e
finir la guerra.
Vercingetorice, con le sue milizie rinfrancate e accresciute, era
venuto a sorvegliare, dopo averne fatto rompere i ponti, il corso
dell’Allier selvaggio e vorticoso, per impedire a Cesare di passare.
Cesare riuscì una mattina a nascondere in un bosco, presso un
ponte distrutto, venti coorti, due tolte da ciascuna legione; e
quando il resto dell’esercito si fu allontanato lungo il fiume,
seguito sull’altra sponda da Vercingetorice, le venti coorti usciron
fuori, ricostruirono e presidiarono il ponte; sinchè le altre
legioni avvisate tornarono indietro e passarono. Vercingetorice, non
volendo dar battaglia, lo lasciò fare: e di nuovo prese a
fuggirgli dinanzi, con la consueta tattica. Cinque giorni dopo
Cesare giungeva in vista di Gergovia, città costruita sopra
un monte dirupato; ma fiducioso nell’esito prossimo della guerra non
si spaventò per la difficoltà di assediare una
città così splendidamente munita dalla natura e
dall’arte e fece subito incominciare le opere di investimento e di
approccio; mentre Vercingetorice si teneva sempre vicino, sempre
molesto, sempre inattaccabile, tra selve e paludi. Ben presto
però egli cominciò a dubitare di aver commesso un
errore dividendo l’esercito: sei legioni non parevano bastare ad
assediare efficacemente la città; la nobiltà Edua,
corrotta dall’oro di Vercingetorice, malcontenta del recente
intervento di Cesare nelle faccende interne del paese, incoraggiata
dalla divisione dell’esercito, incominciava a tentennare. Cesare un
poco inquieto incitò lo zelo dei soldati, raddoppiò di
alacrità, cercò nella poliorcetica e la ingegneria
greca, di cui lo schiavo bibliotecario gli portava dietro i testi
migliori, consigli, idee, malizie per stringere l’assedio con le
forze insufficenti di cui disponeva. Invano: Gergovia non cadeva, i
nemici acquistavano baldanza, la condizione del suo esercito
diventava ogni giorno più grave, finchè parve
precipitare a un tratto, quando un corpo di soldati mandato dagli
Edui per poco non passò al nemico, nelle vicinanze di
Gergovia. Cesare si corrucciò, perdè la calma, volle
atterrire la Gallia distruggendo Gergovia; e lanciò le sue
legioni a un assalto generale, per espugnarla a forza. Ma l’assalto
fu respinto con gravi perdite288. Cesare, che come tutti gli uomini
di vero genio non ancora guastati dal successo e dall’orgoglio
poteva un momento ingannarsi, ma sapeva ravvedersi a tempo,
riconobbe allora il suo errore e il pericolo di ostinarsi; e
deliberò di levar l’assedio e di tornare, forse nella seconda
metà di giugno, nel Nord, a cercare Labieno.
La deliberazione era savia, ma come tutte le deliberazioni prese per
riparare un grosso errore, conteneva un pericolo immediato. Nella
universale concitazione degli animi, questo insuccesso – il primo
palese insuccesso di Cesare, dopo la sua guerra incerta con gli
Elvezi – parve essere il principio di una rovina subitanea e
definitiva. Gli spiriti esaltati si immaginarono che Cesare fosse
ormai disfatto; Vercingetorice apparve come l’eroe liberatore della
Gallia; molte esitazioni precipitarono. Per via Cesare seppe che
anche gli Edui, dopo tante incertezze, si erano ribellati; e
trucidati i mercanti romani, preso a Novioduno il suo tesoro di
guerra gli ostaggi delle Gallie i bagagli e i cavalli, portato via
bruciato e gettato nel fiume il suo frumento, speravano ora di
costringerlo per fame a ritirarsi nella Narbonese, e a questo fine
guardavano la Loira; mentre l’invito di convenire a una grande dieta
nazionale a Bibracte era accolto favorevolmente da un capo all’altro
della Gallia. In quel momento Cesare trepidò davvero per la
sorte sua e dell’esercito289. La rivolta degli Edui, del più
ricco e potente popolo della Gallia, del popolo da lui più
favorito, annullava tutti i vantaggi conseguiti; faceva dimenticare
le sue vittorie precedenti, accresceva il numero e il coraggio degli
insorti, spaventava i soldati suoi, gli toglieva una delle migliori
basi di vettovagliamento, rimpiccioliva quasi a nulla la parte delle
Gallie, dove egli potesse rifugiarsi, sostare, rifornirsi tra genti
amiche. La guerra stava forse per divampare in tutta la Gallia,
ravvolgendo e consumando nel suo fuoco i due piccoli eserciti che
egli aveva imprudentemente separati? Ma nel nuovo pericolo apparso
all’improvviso, l’impeto geniale che si era mosso di Ravenna, che si
era rallentato in Avarico, proruppe di nuovo. Cesare non si
sgomentò per la rivolta degli Edui; capì che se si
ritirava solo nella Narbonese lasciando Labieno nel Nord, i Galli
avrebbero potuto facilmente distruggere l’uno e l’altro; e
trascurando ogni altro scopo per quello di congiungersi al
più presto con Labieno, a qualunque costo, non perde tempo a
fabbricare un ponte sulla Loira, che pure correva gonfia e rapida
nel suo letto naturale per la turgidezza primaverile; trovò
con la cavalleria un guado in cui i soldati potevano passare
tuffandosi fino alle ascelle e portando sul capo armi e fagotti;
spinse a quel modo nel fiume tutto l’esercito, facendo rompere la
corrente da un molo vivente di cavalieri; raccolse quanto grano e
bestiame trovò, caricò i valletti, i muli, i soldati
stessi più che potè e traendosi dietro il bestiame
catturato camminò a marcie forzate, sinchè raggiunse
Labieno nel territorio dei Senoni, probabilmente nelle vicinanze
d’Agendico (Sens). Da Gergovia ad Agendico Cesare aveva percorso
altre 200 miglia (300 chilometri); onde, supponendo vi impiegasse
quindici giorni, nella prima metà di luglio egli si trovava
alla testa dell’intero esercito. Per fortuna, se egli era stato
vinto a Gergovia, Labieno aveva combattuto felicemente contro i
Senoni ed i Parisi.
Intervenne allora una pausa, che i “Ricordi” di Cesare non ci dicono
quanto durasse; ma che non potè esser più breve di un
mese; e nella quale i due avversari si prepararono al nuovo cimento.
La sconfitta di Gergovia pareva aver mutato le condizioni e le
probabilità della guerra. Gli Edui avevano sospinto alla
rivolta, con il loro esempio, quasi tutti i popoli gallici; solo i
Remi, i Lingoni, i Treviri e qualche popolazione belga restavano
fedeli o neutrali; Bibracte, la capitale edua, era diventata la
metropoli dell’insurrezione, dove era venuto il giovine eroe
arverno, dove convenivano ambasciatori da ogni parte della Gallia e
si preparava una gran dieta, per deliberare sulla formazione di un
esercito nazionale. Il desiderio e la speranza di una immediata
liberazione animavano all’improvviso tutti gli spiriti, anche quelli
più scettici e indifferenti sino ad allora! Cesare invece,
per reazione all’audace fiducia di prima, inclinava a considerar la
propria condizione come molto cattiva; e perduto con il suo piccolo
esercito in fondo all’immenso paese diventato nemico, sentendo la
rivolta minacciarlo da tutte le parti, rallentava ancora una volta
l’impeto della sua strategia, si attardava in provvedimenti di
prudenza, non pensava più che a trar fuori i suoi uomini da
quel braciere, non sapeva ancora dove: ma lo scampo di questa
ritirata pareva ora difficilissimo, pieno di nuovi pericoli,
all’uomo che due mesi prima credeva di aver riconquistata per sempre
la Gallia. Non solo i soldati, sgomenti dalla insurrezione degli
Edui, erano molto scoraggiti290; non solo gli approvvigionamenti,
sempre difficili, sarebbero divenuti difficilissimi, nel paese tutto
in rivolta; ma la esperienza della guerra di Britannia, la sorte
recente di Crasso ingrandivano agli occhi suoi il pericolo di cui
venivano accorgendosi tutti in Italia: che la mancanza di cavalleria
era una cagione di gran debolezza per gli eserciti romani in guerra
con i barbari. Se fino allora egli si era audacemente slanciato a
inseguire con le sue legioni la cavalleria di Vercingetorice, ora,
rifatto prudente, non voleva in nessun modo arrischiar le legioni
disanimate attraverso la Gallia, esposte con così poca e
inferma cavalleria agli assalti della cavalleria gallica, rischiando
di perir come Crasso. Sembra che, sospinto da questo timore, egli
muovesse l’esercito e si avvicinasse alla Germania, chi suppone
verso il luogo ove ora è Vitry sur Marne291; e chi verso Bar
sur Aube292, per reclutare un gran numero di cavalieri germanici. Il
generale che sette anni prima era entrato in Gallia come il
distruttore della potenza germanica, arruolava ora i Germani contro
i Galli, pagandoli con l’oro dei saccheggi gallici! Tutto il luglio
e forse parte dell’agosto furon consumati da Cesare ad arruolar
Germani, a farne un corpo di cavalieri numeroso, a preparare la
ritirata; ma i soldati erano scoraggiti dalle dicerie, dalla
condizione in cui si trovavano, dal brusco rivolgimento della
fortuna, quanto i Galli erano fiduciosi e animosi!
Poco doveva durare lo sconforto degli uni e la gioia degli altri.
Cesare si illudeva ora, in un accesso di prudenza, sul pericolo,
come prima si era illuso per soverchia baldanza. Vercingetorice era
riuscito a ridurre il nemico a mal partito, tormentandolo con la
guerriglia di piccole schiere veloci; e certo se in molte parti
della Gallia fossero apparsi altri capi di guerriglia Cesare poteva
alla fine esser costretto a fuggire, per non perire di fame, con
tutti gli uomini suoi. Ma l’infatuazione nazionale per la sconfitta
toccata alle legioni sotto Gergovia salvò Cesare e il dominio
romano, mutando la piccola nella grande guerra regolare, nella quale
la Gallia divisa e discorde, senza istituzioni antiche e salde, non
poteva vincere gli eserciti di un sistema politico e militare
così vecchio quale l’Italia. Infatti i primi guai
incominciarono subito nella dieta di Bibracte, quando si discusse la
nomina del generalissimo, perchè gli Edui volevano eletto un
loro concittadino e un altro partito proponeva conservare il comando
a Vercingetorice. Questo partito prevalse; ma Vercingetorice, che
era certo un giovane di molto ingegno, in parte per non far sentire
troppo agli Edui la sua autorità, in parte perchè non
credeva che la grande guerra riuscirebbe come la piccola, propose
una guerra mista: una di quelle transazioni così pericolose e
pur così frequenti nella storia, perchè imposte
fatalmente anche agli uomini più risoluti e intelligenti
dalla ignavia e dalla stoltezza degli altri. Gli Edui e i Segusiani
manderebbero 10 000 pedoni e 800 cavalli sotto il comando di un
nobile a invadere il territorio degli Allobrogi nella provincia
Romana; i Gabali e gli Arverni saccheggerebbero il territorio degli
Elvi; i Ruteni e i Gadurchi il territorio dei Volci Arecomici per
rompere da tutte le parti il confine della provincia Romana e
attrarre dal nord Cesare alla difesa; mentre egli trasporterebbe il
quartier generale ad Alesia (Alise-Saint-Reine)293, piccola
città fortificata dei Mandubii ed eccellente vedetta da cui
spiare e molestare il nemico, perchè intorno ad essa si
incrociavano tutte le vie in cui Cesare poteva passare, per scendere
dal Nord nella Narbonese: la vettovaglierebbe, la fortificherebbe e
con un corpo di 15 000 cavalli e la fanteria che già
possedeva, cercherebbe di rallentare la marcia del nemico, di
affamarlo, di tormentarlo. Cesare infatti, probabilmente nella prima
metà di agosto, dopo aver ordinato un forte corpo di
cavalleria germanica e aver saputo che si minacciava la Narbonese,
si era risoluto a portarle soccorso294 e incominciava alla testa
delle dieci legioni stanche e disanimate la ritirata verso la
provincia: con che cuore, è facile immaginarlo, anche se egli
e gli altri scrittori antichi non lo dicono! La conquista della
Gallia, l’opera faticosa di sette anni che doveva metterlo a pari di
Lucullo e di Pompeo, era stata in un baleno distrutta; la sua gloria
di guerriero si mutava in ciurmeria di politicante, agli occhi
dell’Italia; il partito conservatore esultava e già si
preparava a fargli scontare gli onori trionfali del 57. Quei
trentamila uomini che partivano, scorati e tristi, traendosi dietro
sui muli in lunga processione tutte le macchine da guerra, gli
attrezzi e i bagagli delle legioni, gli schiavi del campo e degli
ufficiali, le prede avanzate, i mercanti italiani scampati alle
stragi popolari, quanto insomma restava ancora di italico – uomini e
cose – nel paese conquistato per un momento, rappresentavano la fine
del dominio romano oltre le Alpi e l’ultima rovina della politica
conquistatrice che Cesare aveva pensato imitare da Lucullo e
ingrandire.
Incertissime invece sono le notizie sulla via che egli tenne. Chi lo
fa partire dai luoghi ove ora è Troyes e volgersi per Graj e
Digione su Besançon295; chi invece lo fa partire da Joigny,
traversare l’Armaçon a Tonnere, l’Aube a Dancevoir, con lo
scopo di passare la Saona a Pontarlier o a Chalons per andare a
Besançon296; chi invece lo fa partire da Vitry-Sur-Marne, per
discendere la valle della Tille, toccar Digione, passar la Saona
presso Saint-Jean de Losne e avviarsi verso la Narbonese lungo la
riva sinistra della Saona297; chi infine lo fa partire da Bar sur
Aube, nella direzione di Pontaillier-sur-Saone298. Certo è
che, a quanto pare, la mattina del quarto giorno di marcia299,
quando fu giunto a Beneuvre, tra Brevon e l’Ource secondo von
Göler, sulle rive della Vingeaume secondo Napoleone III, nelle
vicinanze di Montigny secondo il Duca d’Aumale, o presso Allofroy
secondo l’anonimo scrittore dello Spectateur Militaire, Cesare fu
all’improvviso assalito da Vercingetorice, in battaglia
campale....300
Che cosa era avvenuto? Perchè Vercingetorice abbandonava la
antica idea di continuare una lunga e piccola guerra di molestie, e
tentava la grande guerra delle battaglie campali? Il generale gallo
apparisce, anche dal racconto di Cesare, come un giovane d’ingegno e
d’energia; onde è da supporre, in mancanza di notizie
precise, che egli più che commettere un errore personale,
scontasse allora l’infatuazione nazionale per il piccolo successo di
Gergovia e fosse costretto dalle condizioni dell’esercito a far
questo mutamento calamitoso. La guerriglia si può fare da un
esercito più piccolo, con mezzi minori, senza grandi
generali; ma è terribilmente faticosa e richiede
perciò dei soldati coraggiosi, risoluti, pazienti.
Sinchè Vercingetorice era stato a capo di piccoli corpi di
cavalleria e fanteria, composti quasi interamente d’Arverni, clienti
e servitori propri o degli amici suoi, sopra i quali possedeva
grande autorità, aveva potuto indurli alla interminabile
fatica delle molestie continue. Ma ora che si trovava personalmente
alla testa di un esercito più numeroso ed eterogeneo; e capo,
almeno nominalmente, dei numerosi corpi che tentavano di invadere la
Gallia Narbonese, egli non potè più continuare nella
antica guerriglia. Probabilmente le discordie tra i molti capi di
questi corpi e le rivalità nazionali crescevano di giorno in
giorno nel grosso esercito accozzato insieme in un momento di
esaltazione e non retto da una disciplina sistematica, imposta da
regole e da organi antichi e saldi; i soldati, i più clienti
di gran signori avvezzi alle piccole razzie delle brevi guerre,
altri reclutati in fretta in tutti i ceti, senza preparazione
militare sufficiente, si stancavano e si disanimavano nella inerzia
della lunga pausa sopravvenuta dopo Gergovia, per l’ignoranza delle
intenzioni dei capi, della durata della guerra, del pericolo vero
cui andavano incontro. Vercingetorice dovè temere, a un certo
momento, che il furore patriottico si spegnerebbe presto e
l’esercito si disperderebbe, come un’ondata che rifluisce, se egli
non ravvivava l’entusiasmo con un altro successo simile a quello di
Gergovia; pensò forse che l’esercito romano era disanimato e
stanco, che i Parti avevano l’anno innanzi distrutto le legioni di
Crasso assaltandole stanche in via con grosse torme di cavalleria.
Se egli tentasse lo stesso assalto? Non potrebbe anche egli, meglio
provvisto che Cesare di cavalleria, disperdere e tagliare a pezzi le
legioni romane? E difatti egli lanciò addosso all’esercito di
Cesare in marcia, di sorpresa, la sua cavalleria, mentre trattenne
indietro, divisa in tre campi ed inerte, la fanteria.
Ma Vercingetorice ignorava forse che Cesare avesse reclutata nuova
cavalleria oltre il Reno; e si trovò di fronte non le poche e
deboli turmae romane, ma i vigorosi squadroni germanici. Si
impegnò tra le due cavallerie una violenta zuffa, nella quale
i Germani di Cesare, aiutati dalle legioni, misero in fuga alla fine
i Galli, uccidendone molti. La battaglia non era stata molto
terribile; eppure il mutamento nelle sorti della guerra che
seguì, fu così grande e repentino, che non si
può spiegare se non ammettendo che il raccogliticcio esercito
gallo possedesse poca virtù di resistenza e pazienza; e che
Cesare avesse prima giudicata la sua condizione più
pericolosa che non fosse in verità. Vercingetorice
ripiegò subito dopo la battaglia con le sue schiere in
Alesia: segno evidente che credeva necessario di rinfrancarle
alquanto nel sicuro riparo di una città munita; Cesare, per
una delle oscillazioni consuete nella sua natura inquieta e nervosa,
si riebbe, dopo la piccola vittoria, dalla prudenza, dalla
incertezza, dalla riserva difensiva delle ultime settimane, a un
impeto, a una velocità, a una audacia anche maggiori di
quelle mostrate sino allora. La sera stessa della battaglia aveva
abbandonata l’idea di ritrarsi, deliberato di sfruttare sino
all’estremo questa vittoria, ripigliando audacemente l’offesa e
tentando senza esitazioni l’estrema fortuna: o finirebbe la guerra
subito e forse potrebbe ristabilire il suo credito a Roma; o
perirebbe con l’esercito e affronterebbe in Gallia stessa quel fato
che certo lo aspettava, allorchè fosse apparso come profugo
con le vinte legioni nella Provincia. Il giorno dopo egli si mise
sulle peste dell’esercito gallo; e quando, giunto davanti ad Alesia,
ebbe osservata la rupe su cui era costruita, non esitò ad
assediare, con 30 000 uomini, in mezzo a un vasto paese nemico
e senza apppovvigionamenti sicuri, quasi altrettanti uomini in
Alesia301; a tirarsi addosso gli eserciti andati nella Narbonese,
che era facile supporre sarebbero accorsi in aiuto; ad aspettare
lì, sotto le mura d’Alesia, la Gallia insorta e impegnar il
cimento supremo. Il disegno era di una temerità quasi
disperata; ma l’uomo fatale della storia d’Europa, il poeta della
guerra a volta a volta prudente e avventato, era ormai risoluto a
rischiare le estreme alternative della fortuna. I legionari
sciolsero di sui giumenti che li avevan seguiti i grossi fasci di
vanghe e di zappe; e ancora una volta incominciarono a scavar fosse
e a drizzar terrapieni intorno alla città.
Vercingetorice tentò sulle prime di disturbare il lavoro con
irruzioni di cavalleria; ma presto si accorse che avrebbe potuto a
quel modo rallentarlo, non impedirlo. Che fare? Tentare una sortita,
rischiare tutto in una battaglia campale era troppo pericoloso;
lasciarsi chiudere significava immolarsi. Alla fine un consiglio di
guerra deliberò dopo vive discussioni che si tentasse di fare
uscire di nascosto, prima che la città fosse tutta
circondata, la cavalleria; e di mandarla in squadroni per ogni parte
della Gallia, a domandare contingenti d’aiuto a tutti i popoli. Il
numero, il luogo, il tempo della missione erano determinati:
più di 250 000 uomini dovevano raccogliersi, accorrere,
piombare sulle trincee romane. Una notte quasi tutta la cavalleria
galla uscì chetamente, riuscì a eludere la vigilanza
delle sentinelle romane, a passare attraverso le opere di blocco
ancora incompiute e a spargersi in molti stuoli ai quattro canti
dell’orizzonte. Cesare fu molto spaventato quando seppe come
felicemente fosse riuscita questa fuga audacissima, quando apprese
l’immenso pericolo che gli sovrastava. La Gallia si muoverebbe al
grido supremo di libertà e di riscossa che partiva dalla
rocca di Alesia? Si accenderebbero su tutte le vie, attraverso le
solitarie foreste druidiche, per le paludi tristi e deserte, di
villaggio in villaggio, i fuochi annuncianti il pericolo e
imploranti il soccorso? Annuncierebbero gli araldi della rivolta sin
negli estremi villaggi delle montagne, che la patria gallica
domandava un sacrificio supremo di sangue? Precipiterebbe sullo
scoglio d’Alesia questa formidabile ondata di corpi e di armi?
Ma ormai la sorte era gittata: egli non poteva più ritirarsi;
non poteva, come aveva fatto Lucullo sotto Tigranocerta, lasciare
una parte dei suoi 30 000 soldati a continuar l’assedio e uscir
con l’altra contro all’esercito di soccorso, perchè
l’esercito era già troppo piccolo e dividendolo ogni parte
rischiava perire; e non poteva nemmeno lasciarsi coglier
così, da un grosso esercito, sotto Alesia. Un’altra volta
ancora egli si trovava in una condizione critica.... E allora questo
uomo, il cui spirito da sette mesi ferveva e ribolliva come una gran
sorgente che balza impetuosa attraverso un meato troppo angusto,
concepì ed eseguì senza prender respiro, in una
concitazione suprema, una delle più strane e grandiose idee
della antica guerra: chiudersi anche egli in una gran fortezza
eretta a cerchio dal nulla; costruire verso la pianura un nuovo
terrapieno, lasciando tra questo e quello che aveva già
costruito verso la rupe della città un largo spazio, munendo
il terrapieno di fuori di torri e di vedette. Tra le due trincee
avrebbe vissuto e dimorato l’esercito come in una lunga fortezza; e
correndo da un terrapieno all’altro, dall’una all’altra torre,
voltandosi nel breve spazio medio, avrebbe tentato resistere agli
assalti uniti degli assediati di Alesia, dei duecentocinquantamila
uomini che sarebbero venuti dalla Gallia. Ma avrebbero i soldati
avuto tempo di compiere l’immane lavoro, per il quale era necessario
smuovere, come ha calcolato un moderno, due milioni di metri cubi di
terra?302 Non avrebbe Cesare potuto essere a sua volta assediato
dall’esercito di soccorso, come Mitridate sotto Cizico, e ridotto a
morir di fame? Questioni ansiose, a cui Cesare non poteva
rispondere. Anche allora, quando il nemico era lontano,
l’approvvigionamento dell’esercito era difficile e scarso, sebbene i
Remi e i Lingoni lo aiutassero303. Che cosa avverrebbe quando
un’immensa moltitudine di armati occuperebbe tutto il paese,
chiuderebbe tutte le vie? Ma la sorte era tratta; e Cesare
instancabile, da mattina a sera, aiutato da Mamurra, da Antonio, da
Labieno, da Decimo Bruto, da Caio Trebonio, da Caio Caninio Rebilo,
da Caio Antistio Regino, dirigeva l’immane lavoro trasfondendo
l’impeto suo nell’esercito; studiava i testi di poliorcetica, si
consultava con Mumurra e con gli schiavi orientali più abili
nell’ingegneria militare, faceva loro fare i disegni, li distribuiva
ai centurioni mutali in capi mastri, faceva cercare per ogni parte
legno e ferro; mentre novemila soldati lavoravano infaticabili,
accatastavano terra, facevano buche oltre i terrapieni, mettevano
dentro uncini di ferro e pali acuminati, le ricoprivano di fascine e
di erbe, per seminare il terreno di trappole feroci.
Così passarono le settimane. Intanto per tutti i villaggi
della Gallia la gioventù era scelta; i contingenti preparati,
le armi forbite, i giumenti tratti fuori dalle stalle e caricati di
grano; per tutte le vie della Gallia si incontravano i giovani, le
processioni dei convogli che si avviavano ai luoghi di riunione, da
dove sarebbero mossi verso Bibracte; a Bibracte si radunavano i
nobili delle principali nazioni galliche, si discuteva del comando
dell’esercito e del piano di guerra. Ma intorno ad Alesia era lo
squallore silente e minaccioso di un deserto. Dell’esercito di
soccorso non giungevano a Cesare che vaghe notizie; e invano le
vedette di Vercingetorice spiavano dalle mura di Alesia l’orizzonte.
In Alesia si cominciò a soffrir la fame; e il giorno venne in
cui Vercingetorice, dopo aver messo a razione tutti, dovè
sbarazzarsi delle bocche inutili: mandar tutta la popolazione della
città fuori delle mura, nello spazio compreso tra queste e la
trincea interna dei Romani. Egli sperava che Cesare li catturerebbe
per venderli e quindi li salverebbe.... E difatti quella torma di
vecchi, di donne, di fanciulli, gettata fuori alle intemperie e alla
fame, implorò pane dai Romani, tendendo le braccia alle
catene. Ma Cesare che non aveva pane che bastasse ai suoi
soldati304, diè ordine di lasciarli morir di fame. Ogni
giorno i Galli da Alesia e i Romani dalle loro fortezze vedevan
donne, vecchi, fanciulli rosicchiar l’erba, piangere, lamentarsi,
cadere estenuati; lo spazio tra le trincee e il monte mutarsi in un
cimitero di cadaveri già quasi ischeletriti dal digiuno, nel
campo di una disperata agonia famelica.... Ma i lamenti di tante
donne, di tanti vecchi e fanciulli affamati non commuovevano nessun
cuore romano e gallico, tutti induriti dal pericolo, dalla scarsezza
dei viveri, da questa spaventosa e furiosissima convulsione della
lotta dell’uomo contro l’uomo; se tra Alesia e le trincee si moriva
d’inedia, in Alesia la guarnigione era ridotta agli estremi; nelle
trincee romane i soldati lavoravano con il ventre vuoto; vincitori e
vinti, assedianti e assediati, rischiavano di precipitare nella
suprema disperazione della fame. Se in quei giorni terribili, invece
di raccogliere un grande esercito di soccorso, numerose bande di
guerriglieri implacabili avessero devastato tutto intorno il paese,
avessero catturato i convogli dei Lingoni e dei Remi, l’esercito di
Vercingetorice e la popolazione mandubia sarebbero forse morti di
fame; ma sarebbero scesi nel nulla, spettri ischeletriti,
trascinandosi dietro trentamila soldati romani, morti come loro di
fame e di stenti, intorno alla rocca di Alesia.
Invece la grande guerra salvò ancora Cesare. Alla fine se non
250 000 uomini, un grosso esercito gallico apparve al
soccorso305; un esercito reclutato in fretta in tutte le classi
della società gallica, comandato da quattro generali,
l’implacabile Commio, Vercassivellauno, Eporedorice, Viridomaro;
numeroso, eterogeneo, faragginoso, con comando discorde e poco
fiducioso. È stato giustamente osservato che due di questi
generali erano Edui; e che gli Edui, come avevano seguito il moto
rivoluzionario tardi, per imitazione più che per deliberata
volontà, così possono aver combattuta questa suprema
battaglia con una mollezza che consentisse una riconciliazione con
Roma. A ogni modo, se questo esercito fosse stato un vero esercito
regolare e ben comandato, avrebbe potuto facilmente distruggere
Cesare, purchè avesse immolato Vercingetorice: assediandolo,
come Lucullo aveva assediato Mitridate sotto Cizico, costringendolo
ad aprirsi una via con la forza o a morir di fame. Invece la
discordia del comando, la poca coesione della milizia, la fretta di
salvare Vercingetorice indussero i capi a tentare replicati assalti
contro le trincee romane, mentre Vercingetorice le assaltava dal
dentro; sette giorni306 furono così consumati, senza poter
rompere il gran baluardo di terra e di uomini che il genio di Cesare
aveva eretto in un mese; Antonio, Labieno, Trebonio, Antistio e
Caninio respinsero energicamente sotto gli ordini di Cesare gli
assalti da tutte le parti delle trincee a cui furono diretti;
l’esercito di soccorso si stancò e si scoraggì in
questi inutili tentativi, che costarono molte perdite; e alla fine
si sbandò, lasciando molti prigionieri in potere dei romani,
senza aver potuto rompere la cerchia di baluardi che stringeva
Alesia. Vercingetorice dovè allora capitolare. L’esercito
suo, i superstiti dei Mandubii, gran parte dei prigionieri furono
distribuiti ai soldati, di cui ciascuno ebbe uno schiavo. Verso la
fine di settembre la guerra era finita, in un modo singolare e
inaspettato da tutti.
La Gallia, ondeggiante tra una barbarie che veniva meno e una
civiltà che incominciava a divulgarsi ma non aveva ancora
rinnovato il paese, non seppe nè fare la terribile e ostinata
guerriglia dei barbari, nè la sapiente guerra metodica dei
popoli civili. Alternò guerra a guerriglia, si contradisse
nell’azione, come era discorde la sua natura; e fu vinta da un
piccolo esercito di 30 000 uomini. Vercingetorice fu l’eroe e
la vittima di questa contraddizione, che poteva risolversi solo
attraverso una grande rovina. Ma l’esercito romano e il suo duce
avevano vinto, con la resa di Alesia, un gran cimento, che poteva
terminare in una catastrofe, non solo se il generale fosse stato
meno audace, immaginoso, infaticabile di corpo e di mente; ma se i
soldati fossero stati meno fermi. Quei trentamila uomini avrebbero
potuto essere presi da panico, sarebbero certamente stati presi da
panico, se inesperti e novizi come quelli che Crasso si era tratto
dietro alla conquista della Persia, quando si trovarono soli in un
vasto paese di più milioni d’uomini diventato subitamente e
furiosamente nemico, minacciati da ogni parte, senza comunicazioni
con l’Italia e senza approvvigionamenti sicuri e base di operazione.
Terribilmente efficace sarebbe stato, contro un esercito sgomento in
mezzo a un paese in rivolta, anche l’alterno scambio di guerra e
guerriglia che fecero i Galli; le legioni di Gallia avrebbero potuto
essere sbandate e distrutte come quelle di Persia; Cesare perire
sulla via della Narbonese, come Crasso sulla via dell’Armenia; e la
storia dell’Europa mutar corso e destino. Ma la prudenza con cui
Cesare era entrato in Gallia e un poco anche la fortuna gli
giovarono. Egli potè esercitare a poco a poco le legioni con
sette anni di guerra, prepararle al pericolo, avere nel supremo
cimento un esercito degno del suo genio e quindi adoperare tra
alcuni errori, nelle fauste e nelle infauste vicende, tutte le sue
virtù. La fiducia reciproca tra generali ufficiali e soldati,
nata e consolidata in tante guerre, quella fiducia che mancava
all’esercito di Crasso, salvò le legioni dal furore della
Gallia ribellata, dopo una lunga e faticosissima campagna, nella
quale Cesare dovè camminare, in sette mesi, non meno di mille
e cinquecento chilometri.
VIII.
I DISORDINI E I PROGRESSI DELL’ITALIA.
Intanto, mentre in Gallia imperversava la crisi suprema
dell’imperialismo democratico, a Roma Pompeo era stato nominato
console solo. Poco dopo la partenza di Cesare, la violenza dei
tumulti che non finivano e il timore d’una candidatura di lui
avevano vinti gli ultimi scrupoli dei conservatori arrabbiati, i
quali, proprio perchè costretti a scegliere il male minore,
preferirono alla fine la dittatura di Pompeo a quella di Cesare. Ma
Catone era riuscito a persuadere il Senato di nominare Pompeo,
anzichè dittatore, console unico, perchè in tal
maniera sarebbe stato responsabile alla fine della magistratura,
secondo il rigido principio costituzionale307. Pompeo potè
così aggiungere al seguito di onori straordinari ricevuti
anche il privilegio, contrario alle più severe norme
costituzionali, di essere nel tempo stesso console e proconsole; e
ne fu così lieto, così orgoglioso, così grato
ai conservatori e a Catone i quali glielo avevano consentito, che,
invitato Catone nel suo giardino, lo ringraziò con molta
effusione, gli disse sperare che l’avrebbe aiutato con il consiglio
nelle difficili contingenze.... Catone gli rispose semplicemente ed
asciuttamente che aveva inteso non di far piacere a lui, ma di
giovare allo Stato; e che quanto alle faccende pubbliche gli avrebbe
manifestato il suo pensiero, anche se egli non lo avesse
desiderato308. Ma più che per queste cerimonie la crescente
inclinazione di Pompeo verso i conservatori apparve nelle leggi che
propose. Egli fece concedere per legge a Cesare la facoltà di
domandare assente il consolato; ma rivide con rigore le liste dei
cittadini tra cui si estraevano a sorte i cento giudici di ogni
processo politico, riducendoli a 950, in parte senatori in parte
cavalieri in parte plebei309, tutte persone su cui aveva grande
autorità; e propose una lex Pompeia de ambitu e una lex
Pompeia de vi che accorciavano i processi, inasprivano le pene di
tutti i reati di corruzione politica commessi dal 70, comprendendo
così il tempo in cui Cesare aveva più largamente
profuso l’oro in tutta Italia; che abbreviavano e rinvigorivano la
procedura contro i reati di violenza310. Propose inoltre una lex
Pompeia de provinciis, che confermò a legge il
senatusconsulto dell’anno innanzi: le Provincie non poter essere
governate se non cinque anni dopo deposta la pretura e il
consolato311; una lex Pompeia de iure magistratuum, nella quale, tra
molte disposizioni che non conosciamo, si riconfermava il divieto di
domandare il consolato lontano da Roma, eccezione fatta per coloro
cui il popolo avesse accordata o accorderebbe l’esenzione312. I
più zelanti e diffidenti amici di Cesare non accolsero con
egual favore tutte queste proposte; ma siccome Cesare e Pompeo erano
allora amici, le leggi furono approvate dal popolo, sia pur dopo
molte discussioni; e riuscirono gradite ai conservatori, alle classi
alte, alle persone ragionevoli e dabbene, come Cicerone, che
ammiravano in esse il proposito di restaurare l’ordine politico e
morale nella nazione scompigliata dalla corruzione, dalla demagogia,
dalle sfrenate ambizioni dell’imperialismo. Ma ancor più che
le leggi accrebbero reputazione a Pompeo, tra i ceti alti e ricchi,
i processi fatti in seguito a queste sue leggi; le numerose condanne
e i numerosi esilii di uomini turbolenti e corrotti, che egli fece
deliberare in fretta e furia, quasi rivoluzionariamente, dai
tribunali, usando di tutta la sua autorità per indurre e
quasi imporre ai giudici sentenze di condanna; il piccolo terrore
giudiziario di cui fu autore, con grande ammirazione dei
conservatori. Tra i condannati fu anche Milone. L’irritazione e il
disgusto disponevano le alte classi e tutte le persone che avevano
desiderio di ordine all’ammirazione della severità pronta,
poco importa se strettamente giuridica: bisognava ripulire Roma
senza riguardi, colpir duramente! Ma poi, come avviene sempre nelle
età civili, ricche, voluttuose, corrotte dallo spirito di
clientela, ciascuno applicava questa severità generica agli
sconosciuti; non mai ai propri amici o parenti, per i quali i
più spietati giudici si convertivano in protettori.
Così Pompeo si atteggiava a castigatore severissimo dei
ribaldi; e con diversi condannati delle alte classi si mostrò
di una durezza quasi feroce, dicendo per esempio a Memmio, venuto a
domandargli protezione in un processo, quando dal bagno si recava a
pranzo: “insistendo, non otterrai che di far raffreddare il mio
pranzo.” Ma poi salvava i suoi amici; e quando era stato accusato
Scipione, di cui aveva sposata in quel tempo la figlia, la bella e
giovane Cornelia, vedova di Publio Crasso morto in Mesopotamia, non
solo egli lo aveva fatto assolvere, ma lo aveva scelto a collega nel
consolato. A ogni modo anche questa giustizia grossolana non fu
senza efficacia; le elezioni poterono farsi senza disordini: e se
Catone non fu eletto console, perchè non volle spendere un
sesterzio, furono eletti Marco Claudio Marcello, di nobilissima
stirpe e nemicissimo di Cesare; e Servio Sulpicio Rufo, quel
giureconsulto, che era stato candidato dieci anni prima contro
Catilina, e che, diventato con l’età e con l’esperienza
più opportunista, era adesso, se non amicissimo, benevolo a
Cesare. Meglio ancora: la reazione contro le stravaganze e le
corruzioni dell’imperialismo cresceva. Anche Cicerone, che allora
finiva il suo libro sullo Stato, aveva, scrivendo tante nobili cose
e recapitolando la più eletta saggezza politica greca, scosso
l’accidioso scetticismo in cui era impigrito negli anni precedenti;
ammirava caldamente Pompeo, incominciava a sperare, e, per uno
scrupolo che dimostra il fondo onesto dell’animo suo, pensava a
pagare il debito contratto con Cesare, che egli giudicava ora con
maggior severità.
In quest’anno però, pieno di tanti torbidi, crucciato da
tante ansietà, avvenne un fatto piccolo per i contemporanei
che appena se ne accorsero: per la prima volta i mercanti
esportarono nelle provincie olio fabbricato in Italia313. Sino
allora la Grecia e l’Asia avevano provvisto i mercati del
Mediterraneo e l’Italia stessa; ora l’Italia poteva far loro
concorrenza, tanto la coltivazione si era perfezionata e diffusa;
tanto i prezzi dell’olio erano rinviliti per la grande produzione
soverchia al bisogno. Questo piccolo fatto, di cui uno dei
più diligenti e laboriosi eruditi del mondo antico ci ha
conservata la preziosa notizia, mostra come pure in mezzo a tante
guerre, a tante discordie, a tanto disordine continuasse la lenta
opera degli ignoti e degli umili schiavi orientali al servizio e
sotto la guida degli Italiani; ci lascia intravedere ancora una
volta, al di là dei pochi guerrieri e politici ingombranti la
storia di sè, una moltitudine di uomini senza nome,
affaccendata nel molteplice lavoro necessario a trasformare l’Italia
in una nazione industriosa e capitalista. In tutte le città
minori dell’Italia, liberti, figli di liberti, piccoli e medi
possidenti, immigrati, antichi legionari e centurioni in congedo
tornati dai lontani paesi al luogo natio o stabilitisi con qualche
amico della milizia in paesi conosciuti durante il servizio, si
ingegnavano di accrescere la propria ricchezza, accumulavano
risparmi, acquistavano qualche particella delle terre che le grandi
famiglie aristocratiche indebitate vendevano, compravano schiavi,
miglioravano le colture, avviavano commerci, importavano arti e
mestieri, aprivano officine.
I progressi della coltura delle olive di cui quel fatto narrato da
Plinio è segno; i progressi contemporanei della vigna, che
tra poco altri fatti ci mostreranno; non sarebbero stati possibili
se tra la grande possidenza assenteista e gli avanzi della antica
piccola possidenza manovale e ignorante non si fosse allora formata
una media possidenza che tentava con piccoli capitali e con schiavi
ingegnosi le sapienti culture intensive dell’Oriente. La antica
piccola possidenza non avrebbe saputo perfezionare a questo modo la
coltivazione; i grandi possidenti assenteisti non possedevano gli
immensi capitali necessari a ricoprire vaste regioni di ulivi, di
vigne, di alberi fruttiferi, di stalle, di case coloniche, e non
potevano quasi mai prestare l’opera personale, necessaria alla buona
riuscita. Qualche speculatore enciclopedico, qualche ricco usuraio e
studioso cercatore di ogni occasione di lucro, qualche latifondista
di gran lignaggio, qualche letterato o uomo politico o generale
celebre potevano o per capriccio o per brama inappagata di lucri o
per seguire la moda dei rinnovamenti agricoli tentare su qualche
terra loro queste nuove culture314; ma ai grandi proprietari
conveniva sopratutto, salvo nelle terre vicine alle città e
specialmente a Roma, esercitare la pastorizia, sia pure con maggior
cura che nella antica età barbara. Nelle selve infatti e
nelle praterie ancor vaste della valle del Po, nell’Italia
meridionale dove lo spopolamento della guerra annibalica non era
stato più riparato, gli schiavi dei grandi di Roma
pascolavano armenti numerosi315; grandi proprietari di pascoli erano
gli ultimi superstiti ricchi della nobiltà romana, come
Domizio Enobarbo, che formavano il nucleo più vigoroso del
partito conservatore. Ma tra questi latifondi, specialmente
nell’Italia settentrionale e centrale, le coltivazioni intensive, i
vigneti e gli uliveti facevano continui progressi, per opera di medi
capitalisti, che non vivevano più, come l’antico medio ceto
rustico, in campagna, poveramente, con numerosa prole e lavorando
con le proprie braccia la terra; ma passavano molta parte dell’anno
nella vicina città, sorvegliando da vicino gli schiavi,
lasciando a questi tutti i lavori manuali, vivendo in celibato o con
pochi figli, cercando molteplici guadagni, piaceri e comodi. In
questo stesso tempo noi possiamo ragionevolmente supporre che nelle
minori città dell’Italia incominciassero quei progressi delle
arti e delle industrie, che vedremo tra cinquanta anni prorompere da
un capo all’altro d’Italia in una magnifica primavera di
civiltà, di ricchezza, di lusso. I progressi infatti
dell’agricoltura di cui Plinio racconta erano effetto di un
perfezionamento più generale di civiltà, che
necessariamente promuoveva una maggiore divisione del lavoro in
tutta la vita sociale e quindi anche nella industria. Nella antica
Italia rustica il possidente faceva da sè quasi ogni cosa, le
vesti, i mobili, gli attrezzi rustici; era il proprio artigiano e
industriale; si sforzava affinchè la propria famiglia
bastasse a sè stessa.... Ma il nuovo possidente, più
colto, più intelligente, più raffinato nei suoi
bisogni voleva vesti più fini, strumenti più perfetti,
guadagni più sicuri, e capiva che i suoi schiavi non potevano
riuscir bene in ogni cosa; che gli conveniva perfezionarli in
qualche opera e provvedersi invece al mercato di molti oggetti che
prima si fabbricava in casa. Così il commercio e l’industria
progredivano; e schiavi orientali potevano essere comprati e
impiegati nelle industrie non solo in Roma ma nelle città
minori dell’Italia; liberti o emigranti o avventurieri randagi a
caso per l’Italia in cerca di pane trovavan spesso lavoro in
qualcuna di quelle colonie latine, di quei municipi, di quelle
città federate che ancora chiuse tra le torve mura ciclopiche
parevano minacciar morte, come in antico, allo incauto straniero che
si avvicinasse loro senza la garanzia dell’ospizio. È
probabile che in questa età cominciò a formarsi quel
ceto di mercanti e quell’artigianato che vedremo prosperare nelle
città minori dell’Italia mezzo secolo dopo; che in tutta
l’Italia del nord, da Vercelli a Milano, a Modena, a Rimini
incominciarono ad aprirsi le fabbriche di stoviglie, di lucerne, di
anfore che poi divennero così celebri316; che a Padova e a
Verona nuovi artigiani e mercanti tentarono di fabbricare ed
esportare quei celebri tappeti e quelle coperte che più tardi
tutta l’Italia doveva conoscere e usare317; che a Parma e a Modena
una piccola plebe cercò di vivere tessondo in casa stoffe con
le magnifiche lane dei grandi armenti pascolanti nei dintorni per
conto di lontani signori e che molti si diedero al commercio di
queste lane per l’Italia318; che intorno a Faenza si piantò
lino e nella città si cominciò a filarlo ed a
tesserlo319; che Genova, a piè delle sue montagne selvose,
diventò emporio frequentato del legname, delle pelli, del
miele e del bestiame, che i Liguri diradati ma ancora selvatici e
ostinati nei vecchi costumi portavano dalle valli solitarie320; che
ad Arezzo i proprietari delle antiche officine ceramiche di origine
etrusca rinnovarono, approfittando dell’abbondanza degli schiavi, il
personale e la fabbricazione, comprarono schiavi greci abili nel
disegno e incominciarono a far quelle patere, quelle lucerne, quei
vasi rossi così celebri più tardi321; che la
metallurgia prosperò all’Elba; che Pozzuoli cominciò a
essere un gran centro del commercio del ferro, dove ricchi mercanti
compravano i ferri dell’Elba, li facevano convertire da fabbri in
spade, in elmi, in chiodi, in spranghe, in oggetti varii, per poi
spedirli in tutta Italia322; che Napoli diventò la
città dei profumi e dei profumieri, Ancona sede di fiorenti
tintorie di porpora323. Dappertutto cresceva anche il popolino degli
artigiani per i bisogni locali; i tintori, i lavandai, i fabbricanti
di sagae e di toghe, i calzolai, i facchini, i carrettieri324;
cresceva il numero delle navi e dei mercanti di schiavi. Le
città dell’Italia che avevano languito dolorosamente nei
cinquanta anni della gran crisi, quando le antiche nobiltà
locali e i medi ceti rustici si consumavano, rifiorirono adesso,
albergando il nuovo ceto medio dell’Italia, quella borghesia di
possidenti e di mercanti che voleva vivere nella città e
consumare nei piaceri cittadini il frutto di speculazioni sagaci, di
migliorie agricole sapienti, del lavoro di schiavi bene educati e
ben scelti. Questa nuova borghesia era la erede delle vecchie
istituzioni locali dell’Italia: nelle colonie e nei municipi, degli
antichi ordinamenti dati da Roma aristocratica; nelle città
alleate, delle secolari istituzioni politiche, che avevano servito a
reggere le città quando erano stati autonomi ed indipendenti,
e che dovevano, dopo la concessione della cittadinanza, servire come
istituzioni municipali, sebbene tante cose essenziali fossero state
mutate, sconvolte, rinnovate negli ultimi cento anni. Dappertutto la
sua parte migliore e più agiata formava l’ordine dei
decurioni, tra i quali si sceglieva con procedimenti diversi il
piccolo senato e i magistrati che governavano le città325.
Del resto questa classe si teneva appartata dalla politica non
soltanto perchè quasi tutti i suoi membri vivendo lontano da
Roma si trovavano nella metropoli solo per caso qualche volta in
tempo di elezioni e non potevano far uso dei diritti elettorali; ma
sopratutto perchè in quella democrazia formatasi sulle rovine
di una aristocrazia gloriosa non si poteva acquistar potenza,
occupare le magistrature, prender parte attiva alla vita politica se
non possedendo o un gran nome o una grande ricchezza o una grande
cultura. Era meglio faticare ad arricchire, procurare di aver pochi
figli, farli studiare; e avviarli così con la ricchezza e con
l’istruzione per la via della gloria e della potenza.
In tutta Italia cresceva il fervore del rinnovamento civile e
intellettuale, che era nel tempo stesso causa ed effetto della
politica di conquista; il consumo, i bisogni, il lusso, lo sforzo di
tutte le classi per accrescere la propria ricchezza, la propria
cultura, la propria potenza. Non posava la emigrazione degli
Italiani in tutte le provincie dell’impero, dovunque fosse un lucro
facile ed abbondante; Cesare accoglieva nelle legioni la
gioventù di tutta l’Italia che volesse arricchire e
segnalarsi con gli affari e la guerra, così i discendenti
delle nobili stirpi di Roma come i figli delle agiate famiglie delle
città secondarie, di Piacenza, di Pozzuoli o di Capua326,
perfino un antico impresario di trasporti, Ventidio Basso, un piceno
catturato bambino nella guerra sociale, poi liberato, poi datosi
all’industria dei trasporti, poi stancatosi di affittar giumenti e
schiavi ai governatori in viaggio e andato in Gallia con Cesare327;
la carica di praefectus fabrum o capo del genio in un esercito
poteva essere per appaltatori che avessero pratica dell’arte di
costruire comodo passaggio dagli affari al ceto politico328; ormai
in tutte le scuole – ce ne erano anche nelle città piccole ed
erano tenute da privati, liberti i più, a cui gli scolari
pagavano un salario – si confondevano tutti i ceti, i figli dei
liberti poveri e i figli di senatori, i contadini e i cavalieri329.
A Roma conveniva una folla di giovani d’ogni parte d’Italia, di
diversa condizione e progenie, a tentare la via della fortuna
attraverso gli studi: dall’Etruria era forse già venuto un
certo Caio Cilnio Mecenate, un giovane probabilmente ventenne di
un’antica famiglia reale etrusca, datasi poi agli affari e agli
appalti; dalla Cisalpina un certo Cornelio Gallo diciottenne, nato
di modesta famiglia; dal paese dei Marsi un certo Asinio Pollione,
giovane di ventitré anni, nato di nobile famiglia, uno dei
cui antenati si crede fosse stato generale degli insorti nella
guerra sociale; e da Cremona Quintilio Varo e da Verona Emilio Macro
e da Mantova un certo Publio Vergilio Marone che aveva allora
diciotto anni, ed era figlio, a quanto pare, di un antico vasaio di
un paesello vicino a Mantova, che con l’apicultura e il commercio
del legname si era fatto una discreta fortuna così da poter
mandare il figlio agli studi prima a Cremona, poi a Milano e nel 53
infine a Roma330. Tra questi giovani, i quali incominciavano sin
d’allora a stringere la rete di amicizie intense e durevoli, che li
ha fatti celebri tutti, conoscendosi nelle scuole di eloquenza e di
filosofia, quello spirito di innovazione, che era stato ancora in
Catullo audacia quasi solitaria, si propagava quale largo moto
rivoluzionario della gioventù, che investiva per rovinarli,
come un torrente, i vecchi monumenti del pensiero latino: la vecchia
epica monumentale di Ennio e Pacuvio, gli stentorei drammi classici,
le rozze commedie di Plauto, i sali grossolani di Lucilio, i gravi
poemi didascalici in pesanti e monotoni esametri. Valerio Catone, il
gran maestro di poesia di tutta la gioventù colta
d’Italia331, e qualche greco, tra gli altri Partenio, un orientale
catturato a Nicea da Lucullo, venduto in Italia, liberato e finito a
Napoli poeta, maestro di letteratura greca e amico dei giovani
letterati italiani, avevano incominciato a divulgare il gusto di
un’arte più fina e più snella; Catullo aveva, con
l’impeto selvaggio del suo estro, precipitata questa rivoluzione
latente; e lui morto, il suo spirito sopravvisse negli amici e nei
seguaci appassionati della nuova poesia: Caio Elvio Cinna, a quanto
pare della Gallia Cisalpina; Caio Licinio Calvo, Caio Memmio, Quinto
Cornificio, di nobili famiglie romane; che volevan tutti gettare
alle fiamme il vecchio ciarpame nazionale; dare il volo per tutta
Italia sulle ali dei metri snelli a sciami di leggiere poesie
personali di intensa potenza lirica; intonar flebili elegie,
compiacersi nelle raffinatezze erotiche, esercitarsi nel difficile e
squisito psicologismo, sfoggiare la rara erudizione mitologica della
poesia alessandrina332. Qualche giovane, come Asinlo Pollione,
serbava un poco di fedeltà all’antica letteratura
classica333; ma i più eran travolti dall’entusiasmo
rivoluzionario, deliravano per i nuovi modelli e per la letteratura
nuova. Anche Virgilio, che era arrivato dalla sua scuola di Milano
con idee antiquate e con l’ingenuo proposito di scrivere, sul
modello di Ennio, un gran poema nazionale intorno alle gesta dei re
di Alba334, aveva cominciato a studiare eloquenza presso il celebre
Epidio, il maestro di tutti i giovani delle alte classi; ma ben
presto prese in orrore la sua grossolana fatica e depose l’idea; e
scoraggiato dalla sua timidezza, dall’impaccio che soffriva nel
parlare, abbandonò la eloquenza per la filosofia, andò
alla scuola di un epicureo amico di Cicerone, Sirone, e si
buttò con fervore a indagare il gran mistero del Tutto.
Leggere, studiare, empirsi lo spirito di grandi idee generali e di
immense teorie, frugare a fondo l’Essere, divenivan passioni comuni
dei giovani; ma si divulgava nel tempo stesso una vaghezza indocile
di cose nuove, una nuova ammirazione della forma, una ricerca di
finitezza, di delicatezza, di perfezione nei particolari che la
generazione invecchiante non aveva conosciuta.
Gli uomini maturi e di inclinazioni conservatrici, come Cicerone,
giudicavano severamente il nuovo disprezzo insolente dei giovani per
tutto il venerabile passato di Roma335. Non era questa un’altra
forma di quello spirito rivoluzionario che travagliava, sconvolgeva,
non lasciava requie all’Italia? Questi giovani che consideravano
Ennio e Plauto come grossolani impiastrafogli, non erano animati
dallo stesso spirito che sospingeva Cesare e il suo partito a
mettersi sotto i piedi la vecchia costituzione? Che cosa rimaneva
più dell’antica Roma? La costituzione repubblicana si era
mutata in una vicenda vertiginosamente rapida di dittature
rivoluzionarie. Il vecchio costume, se sopravviveva ancora in molta
parte del vivere, era spregiato dalla giovane generazione
impaziente. Molte città, come cominciavano a sentire la
stretta delle immense muraglie in cui le avevan chiuse le antiche
generazioni al tempo in cui la guerra era dappertutto, così
soffrivano per l’invecchiamento soverchio delle istituzioni.
L’imitazione greca diventava mania; e lo spirito rivoluzionario
minacciava divampando distruggere l’Italia e l’impero, come il rogo
di Clodio aveva incenerito la Curia. Anzi i conservatori illuminati,
sempre pavidi e pessimisti, si domandavano se l’espiazione non fosse
già incominciata. Che cosa restava dell’infatuazione
bellicosa e democratica degli anni precedenti? Una grossa guerra in
Oriente, una grossa guerra in Gallia e il fastidio dei debiti
contratti spensieratamente in quegli anni in cui tanti, pensando
già di possedere i favolosi tesori della Persia e della
Britannia, si erano dati allo spendere sconsiderato. I debiti pareva
non finirebbero dal travagliare mai la nazione signora del mondo;
tanto rapidamente era venuto meno il sollievo dei capitali portati
da Pompeo, tanto poco bastavano ai nuovi bisogni i capitali che
Cesare mandava dal saccheggio delle Gallie. Molti miglioramenti
nella agricoltura e nella industria erano stati ottenuti con nuovi
denari presi a prestito, ad alti interessi; ai vecchi debiti non
pagati se ne erano aggiunti altri e più grandi; tutto
l’edificio della nuova società pareva riposare sulle
fondamenta di un credito fragile. Anche le alte classi, salvo un
piccolo numero di capitalisti, erano oberate; oberate le famiglie
nobili, il maggior numero dei personaggi politici, che avevano per
patrimonio vaste terre e case in Roma, ma possedevano pochi
capitali. I fattori rubavano sulle terre lontane appena il padrone
si lasciasse troppo distrarre dalla politica; gli inquilini delle
case spesso ritardavano i pagamenti; gli schiavi che essi dovevano
tenere a Roma per i servizi di casa, per le lotte politiche, per
ostentazione di lusso erano una grave spesa, in una città
specialmente come Roma, dove il grano costava così caro336;
le speculazioni tentate, senza aver tempo e voglia di sorvegliare
gli schiavi che avrebbero dovuto eseguirle, riuscivano spesso
rovinose. Non tutti sapevano disciplinare il proprio servidorame
così bene come Cesare! Non di rado senatori che possedevano
un gran patrimonio e una celebrità considerevole si trovavano
in impiccio, per sborsare la dote della figlia, per pagare somme
relativamente piccole; e dovevano prenderle a prestito con grave
usura.... Non di rado un personaggio illustre, come Cicerone, doveva
parlare nel consesso sovrano del vasto impero con in cuore l’ansia
delle vicine scadenze, la noia delle angustie continue, il fastidio
della regale mendicità di grosse somme, obbligatoria per
tanti di quei partecipi alla signoria del mondo! I prestiti di
favore agli uomini potenti nello Stato e lo sconto grazioso di
crediti poco solidi erano un obbligo per i ricchi finanzieri che
volevano avere amicizie nel ceto politico, come l’amicizia di ricchi
finanzieri era un espediente necessario per gli uomini di Stato. Gli
uni e gli altri parevano così aiutarsi amicamente e
generosamente; quando invece i politici bisognosi cadevano in
soggezione degli uomini potenti dell’oro: tra i quali potentissimo
era Attico, cui molti uomini politici di Roma, Catone, Cicerone, il
fratello di Cicerone, Ortensio, Aulo Torquato e molti altri avevano
affidata tutta la intricata amministrazione dei loro patrimoni,
facendo di lui non solo il proprio banchiere nei momenti di impiccio
e il proprio computista, ma il consigliere intimo in tutte le
contingenze difficili, private e pubbliche337. Così
l’arruffio dei debiti e dei crediti si intricava sempre
più338.
IX.
I “RICORDI DI GALLIA”.
(Anno 51 a. C.)
Cesare era uscito dalla guerra contro Vercingetorice vittorioso ma
screditato. La sua gloria di conquistatore delle Gallie e la sua
riputazione di generale unico erano ormai sciupate. Durante quei
sette lunghissimi mesi, nell’alterna e ansiosa vicenda del primo
spavento, poi delle buone novelle successive, poi della
calamità di Gergovia, poi delle notizie quasi disperate degli
ultimi mesi, l’Italia aveva finalmente capito che la conquista della
Gallia, annunziata da Cesare nell’anno 57 e ratificata dal Senato
nel 56, era ancora da compiere; e precipitando dalla confidenza
antica in uno sconforto altrettanto soverchio, temeva ora che Cesare
non sapesse rapidamente finire l’impresa cominciata con tanta
temerità339. Nelle democrazie mercantili il pubblico,
composto di nobili, di possidenti, di mercanti, di professionisti,
di uomini colti, di gente insomma profana alla milizia, giudica gli
eventi della guerra dal successo; considera come eroe chi vince,
maledice come infame chi perde: e per questo così spesso
disturba da lontano le operazioni degli eserciti con scoraggiamenti
ed entusiasmi soverchi. Così accadde allora. L’Italia aveva
visto la Siria e il Ponto diventar sicuri possedimenti romani dopo
le conquiste di Lucullo e di Pompeo; vedeva ora invece la Gallia
invasa, annessa e sempre piena di nuove rivolte; e ne concludeva che
la guerra di Gallia durava così a lungo perchè Cesare
non sapeva finirla; non discernendo che, a differenza di Pompeo e di
Lucullo, Cesare aveva per sua disgrazia affrontato non stati ed
eserciti regolari, ma un popolo, nel quale era forte ancora il
sentimento della propria stirpe e l’amore dell’indipendenza;
ignorando che le guerre contro grandi eserciti sono giochi da
fanciulli e quasi divertimenti in confronto alle guerre contro un
popolo anche piccolo, del quale una parte sia risoluta a non dar
quartiere all’invasore. La conquista della Gallia, che i posteri
considerarono come la grande gesta di Cesare, pareva invece un
insuccesso ai contemporanei, ne screditava l’autore, ridava alla
fine coraggio ai conservatori, che rinnovavano ora, con maggior
successo presso il pubblico, le antiche accuse. A rovine come quelle
di Persia e di Gallia doveva necessariamente condurre la politica
aggressiva, corruttrice, ingiusta, rivoluzionaria dei capi
popolari....
Cesare sentì da lontano questo mutamento della opinione
pubblica del quale tanto più doveva dolersi, dopochè
si era proposto di farsi ridare il governo della Gallia Transalpina
per il comando proconsolare che gli toccherebbe alla fine del
secondo consolato340. Egli ambiva far ciò che sino allora tra
tante guerre non aveva potuto: creare una provincia, come aveva
fatto Pompeo ordinando un nuovo governo nel Ponto e nella Siria con
leggi sapienti e stabili; dare anche egli alla Gallia ordinamenti
amministrativi che potessero durare: ma tanto più desiderava
questo nuovo comando, dopochè Pompeo aveva ottenuto dal
popolo con legge, per comando proconsolare del suo nuovo consolato,
il governo della Spagna per altri cinque anni con due legioni di
più, e dal Senato, riconoscente a lui per l’ordine
ristabilito, l’assegno di 1000 talenti per il mantenimento delle
legioni nel prossimo anno341. Del resto era ormai necessario a
Cesare restar proconsole a vita di grandi provincie: come avrebbe
altrimenti potuto procurarsi i mezzi per mantenere la sua clientela,
egli che non aveva nè la reputazione, nè le parentele,
nè le ricchezze di Pompeo? Bisognava perciò ben
disporre a tempo l’opinione pubblica, rassicurandola; e a questo
scopo egli die’ mano allo strumento di dominazione sulle anime che
dopo l’oro è il più potente nelle democrazie
mercantili ed istruite: la penna. Negli ultimi mesi del 52342,
sebbene fosse oppresso da innumerevoli brighe, Cesare trovò
il tempo di scrivere i “Ricordi di Gallia”; un libro popolare
destinato al gran pubblico e abilissimamente composto, con cui
voleva persuader l’Italia che egli era un valente generale e che non
aveva fatta in Gallia quella politica violenta, aggressiva, rapace,
di cui lo accusava il partito conservatore. Con studiata modestia
egli rimpicciolì in ogni parte la persona e la opera propria,
per risposta a quei conservatori che lo accusavano di essere un
ciarlatano insaziabile di popolarità; si descrisse come un
benefattore entrato in Gallia con quattro legioni e pieno di buone
intenzioni per i Galli, costretto poi contro voglia dalle loro
provocazioni a far la guerra e sempre vittima della loro
ingratitudine; nascose gli insuccessi e ingrandì i successi
ma abilmente, con leggere alterazioni, senza lasciarsi mai cogliere
in fallo di menzogna sfrontata e in modo da illudere facilmente
l’incauto lettore343; cercò di far credere che aveva vinte
sterminate moltitudini di nemici, ma senza affermar mai egli le
inverisimili cifre: ora quelle cifre erano state lette da lui in
tavole trovate nel campo nemico344, ora dette da informatori345, ora
messe in bocca a qualche nemico in un discorso346. Egli sembra
riferire imparzialmente le bugie altrui; e intanto senza dirle egli
stesso le ha fatte credere alla posterità. Delle prede non fa
parola, tranne delle vendite degli schiavi che sapeva non gli
sarebbero severamente rimproverate; non si dilunga a raccontar i
movimenti strategici, che al lettore, ignaro della geografia della
Gallia, sarebbero riusciti poco chiari; descrive invece con molti
particolari battaglie ed assedi, il cui racconto poteva piacere ai
pacifici borghesi d’Italia, beati, come sono sempre le classi agiate
e pacifiche, di trovarsi con la fantasia a battaglie e a pericoli,
leggendo un libro sotto il portico dipinto di un bell’atrio inondato
di sole. Il libro insomma era un saggio di letteratura militare e
politica ad uso dei profani; e mirava ad illudere ancora una volta
l’Italia con uno stile meravigliosamente lucido semplice rapido.
Il libro fu scritto con una velocità che stupefece gli
amici347; probabilmente in non più di due mesi. Ma la
narrazione che è abbastanza riposata nei primi libri diventa
precipitosa verso la fine. Cesare aveva dovuto affrettarsi a
raccontar la guerra di Vercingetorice, perchè un’altra ne
cominciava. I grandi della Gallia sfuggiti l’anno precedente
cercavano di rattizzar la rivolta; e le popolazioni del nord e
dell’ovest insorgevano di nuovo. Questa guerra non finirebbe dunque
mai; i successi più faticosi sarebbero sempre precari;
avrebbe egli dovuto ricominciare ogni anno, sino a perdere ogni
prestigio? Furibondo, Cesare non volle nemmeno aspettare questa
volta la primavera; e in pieno inverno lanciò le legioni nel
paese degli insorti Biturigi, non a guerra, ma a carneficine, a
saccheggi, a ruberie, a incendi. Finite queste stragi egli
entrò nel paese dei Carnuti, insorti anche essi di nuovo
sotto il comando di Gutuatro; e ripetè medesime devastazioni
furiose. A Roma invece l’anno era incominciato più quetamente
del solito; e in marzo il Senato si radunò per provvedere
alle Provincie vuote: alla Cilicia e alla Siria in special modo,
perchè i Parti avevano già fatto nel 52 un’incursione
nella Siria per vendicarsi della invasione di Crasso; e Cassio, che
era soltanto questore, l’aveva respinta assai bene comandando come
proconsole. Ma si aspettava una nuova invasione per il 51; e
bisognava mandare in quelle provincie i proconsoli. Siccome
però per la legge approvata l’anno prima non potevano essere
proconsoli o propretori se non coloro che erano stati consoli e
pretori cinque anni avanti, bisognò cercare tutti quei
magistrati che non erano andati al governo di una provincia,
all’uscir dal Consolato e dalla Pretura, e metterne i nomi nel
bossolo da cui si estraevano a sorte i comandi. La sorte capricciosa
assegnò la Siria a Bibulo, il collega di Cesare nel
consolato, e la Cilicia a Cicerone348.
Cicerone ne fu seccatissimo349. Aveva appena finito allora di
scrivere il “De Republica” e lo metteva in giro; volgeva in mente
l’idea di altri lavori; ed ecco la cieca sorte lo sbalzava dalla sua
Roma, dalle belle ville sul mare e sui colli in fondo all’Impero:
lui, uomo di penna e non di spada, di biblioteche più che di
campo, a comandare una guerra contro il nemico che aveva distrutto
uno dei maggiori eserciti di Roma! Ma non era possibile rifiutare il
carco, in quel frangente, senza ricorrere in biasimi meritati; e
Cicerone dovè interrompere le sue faccende, incominciare i
preparativi, disporsi alla partenza. Riuscì a persuadere il
fratello Quinto tornato di Gallia e il suo amico Caio Pomptino,
più esperti di lui in cose di guerra, ad accompagnarlo, per
essergli consiglieri se disgraziatamente dovesse combattere i Parti;
e compose subito l’editto350, cioè il corpo delle
prescrizioni di diritto privato e amministrativo che gli parevano
più urgenti per la provincia, sebbene poco potesse
conoscerla, e che i governatori pubblicavano, dando loro forza di
legge per l’anno del loro governo; scelse tra i suoi schiavi e
liberti quelli che eran necessari ad aiutarlo nel governo della
provincia: i segretari, tra i quali un liberto che portava il suo
stesso nome M. Tullio351 e un giovane schiavo, Tirone; i corrieri
che avrebbero portato a Roma e riportate le lettere; i portantini
per il viaggio, i domestici che lo servissero, che andassero innanzi
a ogni tappa a far preparare gli alloggi, per lui e per il seguito,
nelle città in cui si fermerebbero e che erano obbligate a
offrire ospitalità in casa di qualche signore. Un proconsole
del resto trovava facilmente in ogni città ricchi signori che
lo ospitavano graziosamente con il seguito.... Poi si intese con uno
dei tanti impresari che affittavano ai governatori i giumenti
necessari a trasportare i bagagli352; caricò su quello i
bagagli suoi e del seguito, le anfore piene di monete d’oro
contenenti la somma che l’aerarium gli aveva assegnata per il
governo della provincia353, e che egli non lasciò a Roma a
frutto presso qualche banchiere, come molti tacevano; affittò
gli schiavi necessari a guardar questo tesoro nel viaggio;
incaricò Celio di mandargli notizie minute di tutto
ciò che succederebbe; e si mise in viaggio, portando seco,
come Quinto, il giovane figlio354 e lasciando in Italia la moglie.
Quinto non fu molto afflitto di lasciar per qualche tempo Pomponia,
una sorella di Attico, permalosa, isterica, puntigliosa, che faceva
sempre delle scene355. Del resto nell’alta società romana le
signore erano avvezze a vedersi periodicamente abbandonate dai
mariti in viaggio per guerre o governi lontani; e tutte, a stento o
facilmente, dovevano rassegnarsi a queste vedovanze temporanee e
periodiche, perchè la famiglia era ormai piuttosto una
convenzione che un sentimento o un dovere, nella aristocrazia
signora del mondo.
Ma prima di partire, in aprile, Cicerone aveva già vedute le
prime avvisaglie della nuova guerra tra Cesare e i conservatori356.
La guerra in Gallia non terminava, nonostante le crudelissime
devastazioni; Ambiorige, Commio, Lucterio erano apparsi di nuovo in
armi; i Bellovaci erano insorti, insorti gli Atrebati, i Cadurchi, i
Veliocassi, gli Aulerci, i Senoni; e Cesare costretto a correre
disperatamente la Gallia, stanco di tante lotte, inquietissimo per
lo spavento che queste nuove rivolte, dopo quella di Vercingetorice,
farebbero nascere in Italia, s’imbestialiva, perdeva la poca calma
che ancor gli restava in una esasperazione terribile. Avuto in suo
potere Gutuatro, il capo de’ Carnuti, lo fece uccidere a colpi di
verga in presenza delle legioni; quando ebbe presa la città
di Uxelloduno, ove si era rifugiata l’estrema resistenza dei
Cadurchi, fece tagliare le mani a tutti i prigionieri. Per fortuna
nella rivolta di Vercingetorice e in quelle del 51 egli aveva fatto
gran bottino saccheggiando senza misericordia, confiscando beni,
forse anche vendendo il perdono ai nobili compromessi357; e tutto
quell’oro poteva profondere sull’Italia e l’Impero. Generoso di
solito, l’ansietà del pericolo lo faceva prodigo: non
rifiutava rifugio e aiuto a nessun condannato a Roma per le leggi di
Pompeo; prestava largamente a tutti i giovanotti scapestrati e ai
senatori – erano tanti! – angustiati dai debiti; raddoppiò lo
stipendio ai soldati, fece doni anche ai servi ed ai liberti dei
personaggi potenti di Roma per avere nelle case loro amici o spie;
imbandì al popolo in memoria di sua figlia Giulia un
colossale banchetto, che die’ gran lavoro ai macellai ed ai
venditori di vettovaglie; fece doni alle città della Grecia;
mandò in regalo ai re dell’Oriente migliaia di prigionieri
Galli; usò ed abusò delle prerogative della Lex
Vatinia, facendo cittadini ogni sorta di liberti d’ogni paese, per
aumentare il numero degli elettori a lui favorevoli358. L’aiuto dato
ai condannati doveva in special modo significare riprovazione di
quella specie di terrore giudiziario stabilito a Roma e tanto
ammirato dai conservatori. Con la ansiosa precipitazione dell’uomo
che si sente in pericolo egli cercava amici da ogni parte, in tutti
i modi; e proseguendo il suo piano di non tornare a Roma se non il
primo gennaio del 48 già console, per riavere poi la Gallia,
mandava in aprile una lettera al Senato a domandare che gli si
prolungasse sino al primo gennaio del 48 il comando almeno della
Gallia Transalpina. I suoi amici lavoravano molto per fargli
ottenere questo onore, dicendo esser giusto lasciare l’onore del
riordinamento definitivo a chi aveva faticato tanto per conquistare
la Gallia, non interrompergli neanche di un giorno il governo. Ma
questa volta il partito conservatore era meno disanimato che tre
anni avanti. Era console in quell’anno Marco Claudio Marcello, un
nobile di gran lignaggio, provvisto delle qualità e dei
difetti comuni agli aristocratici superstiti in mezzo ai torbidi
delle democrazie con il desiderio del dominio ma senza le
qualità necessarie ad esercitarlo: intelligenza discreta,
coltura, quell’orgoglio autoritario e quella debolezza di carattere
che mescolandosi insieme prendon forme diverse nei contrasti con la
democrazia progrediente nello stato, nei costumi, nelle idee: ora di
indifferenza signorile e di altero disprezzo per tutto ciò
che costerebbe troppa fatica a conquistare contro cui manca
l’energia di combattere; ora di bel coraggio e bella tenacia
intermittenti, quando l’orgoglio è impegnato; ora di violenza
e di caparbietà. Sino allora Marcello, che pur era certamente
da un pezzo come tutti i conservatori intransigenti uno dei
più severi spregiatori del popolaresco Cesare, non aveva mai
partecipato alla lotta contro di lui alacremente, nè
primeggiato nella politica, percorrendo il corso degli onori a poco
a poco oscuramente, più che per sforzo energico di ambizione,
per la forza del nome, delle parentele, delle amicizie. Questa volta
però, essendo console nell’anno in cui nel suo mondo si
risvegliavano gli spiriti pugnaci, non avendo le volgari ambizioni
che facevano prudenti tanti altri senatori, provando anche un
aristocratico diletto nel provocare le collere dei popolari e della
piazza, non si trattenne dal mostrare e sfogar l’odio che aveva per
Cesare, quando in Senato vennero in discussione le sue proposte; e
rompendo alla fine la acquiescente debolezza di tutti i consoli
degli ultimi anni, non solo fece respingere in aprile le domande di
Cesare359, ma propose che si ritogliesse la cittadinanza a coloro,
cui Cesare l’aveva concessa. Il Senato pare approvasse; i Tribuni si
interposero e la deliberazione non potè essere approvata, ma
solo registrata360. Ben presto circolò una diceria grave, e
cioè che Cesare volesse concedere – per risposta – la
cittadinanza romana a tutti gli abitanti della pianura del Po;
diceria di cui si spaventò Cicerone, quando gli venne agli
orecchi nel mese di maggio, mentre viaggiava verso Taranto361. Altre
dicerie più gradite ai conservatori seguirono: che Cesare
avesse perduta la cavalleria e una legione, che stretto dai
Bellovaci si trovasse in condizioni disperate362. Ora che la sua
gloria di generale si era mutata in sfiducia, ogni voce di sconfitta
trovava facilmente credito in quella Roma, che pochi anni prima lo
acclamava come “il generale unico”. I conservatori presero
nuovamente coraggio; si disse che Marcello porterebbe presto in
Senato la questione del richiamo di Cesare; Celio interrogò
il console direttamente e seppe che difatti egli aveva questa
intenzione, per la seduta del primo giugno363. L’altero Marcello,
ora che si era impegnato nella lotta, ci si impuntava; e per
provocare ancor più apertamente Cesare e la piazza, verso la
fine di maggio fece punire con le verghe – castigo del quale i
cittadini romani non potevano esser colpiti – un comasco che Cesare
aveva fatto cittadino. Se non si era potuto annullare le sue
concessioni, egli almeno voleva mostrare in qual conto le tenesse!
Ma le persone ragionevoli disapprovarono questa violenza364.
Intanto Cicerone viaggiava verso Taranto; ma poco lietamente. Aveva
saputo per via che il suo predecessore Appio Claudio congedava
numerosi soldati, che a Roma il console Servio, probabilmente per
vendicarsi delle malignità dette da Cicerone contro di lui,
undici anni prima, ai tempi di Catilina, nella difesa di Murena da
Servio accusato, impediva che il Senato decretasse l’invio di
rinforzi in Cilicia e in Siria365. Mandare un oratore a combattere i
Parti era una strana politica; ma mandarlo senza esercito era
raffinata vendetta; e una prova dello sfrenato egoismo in cui i
membri di quella aristocrazia signora di impero troppo grande
smarrivano il senno. A Taranto Cicerone fece visita a Pompeo, presso
il quale sostò, ospite, tre giorni; e nelle lunghe
conversazioni che ebbe con l’illustre politico si rallegrò di
udire dalla bocca di Pompeo tanti propositi eccellenti: che
bisognava farla finita con la demagogia turbolenta e faziosa;
restaurare l’autorità di un corpo veramente aristocratico
come il Senato, la giustizia, l’ordine, l’imperio delle leggi366.
Poi era andato a Brindisi ad aspettare una buona nave mercantile su
cui imbarcarsi.
Venne il primo giugno; ma Marcello, pregato da Pompeo, aveva avuto
un momento di debolezza, tralasciando di proporre in Senato la
questione del comando delle Gallie, come intempestiva367,
perchè la legge Licinia Pompeia del 55 vietava di trattarla
avanti il primo marzo 50. L’attenzione del pubblico si volse allora
alle elezioni per l’anno 50, che si fecero tra il giugno e il
luglio. Cesare mandò molti soldati alla spicciolata a votare;
ma il suo candidato al consolato, Marco Calidio, cadde, e furono
eletti consoli Caio Claudio Marcello, cugino del console in carica
ma pur esso ardente nemico di Cesare, sebbene fosse suo parente,
avendo sposato quell’Ottavia che Cesare aveva offerta a Pompeo, e L.
Emilio Paolo, in voce di conservatore, ma non così sicuro,
perchè Cesare gli aveva dato il lucroso incarico di costruire
per suo conto grandi edifici in Roma. Invece le altre elezioni erano
state più favorevoli a Cesare; anzi tra i dieci tribuni uno
solo, Caio Furnio, era favorevole al partito conservatore. I
conservatori fecero perciò intentare un processo per
corruzione ad uno degli eletti, Servio Pola; lo fecero condannare e
lavoravano allora per far riuscire in suo luogo Curione, arrabbiato
nemico di Cesare368. Le elezioni a pretore invece erano state
differite. Finita l’agitazione elettorale, i nemici di Cesare
ripigliarono la loro guerra di molestie; ed il 22 luglio,
discutendosi in Senato sull’assoldamento delle legioni di Pompeo,
che pareva volesse andare in Spagna369, gli domandarono conto della
legione ch’egli aveva prestata a Cesare. Pompeo ammise di doverla
ridomandare, non subito però, per non parere di dar ragione
ai nemici dell’amico suo. Gli domandarono anche che cosa pensasse
del richiamo di Cesare ed egli rispose vagamente che tutti dovevano
obbedire al Senato, senza dire di più, rimandando ogni cosa
al ritorno di un viaggio a Rimini, dove intendeva recarsi a
sorvegliare i reclutamenti fatti per lui nella valle del Po370. Si
aspettava perciò da tutti che se ne parlasse nella seduta del
13 agosto: ma questa fu rimandata per la discussione del processo di
corruzione intentato ad uno dei consoli designati; e quando si
radunò la volta dopo, al primo settembre, il Senato non era
in numero371. Questo club di affaristi, professionisti e dilettanti
incominciava a spaventarsi. Che cosa si voleva ottenere con questi
maneggi? Pompeo continuava a dichiarare Cesare amico suo; coloro che
conducevano la guerra contro Cesare erano, non ostante la gloria
gentilizia dei loro nomi, persone poco potenti, che cimentavano
Cesare per passatempo e la cui amicizia a ogni modo non sarebbe
stata compenso all’odio del potente, munifico, audace, per quanto
ormai malfamato condottiero delle Gallie. Tuttavia in questa seduta
Pompeo fece intendere come non approvasse una candidatura di Cesare
assente; e Scipione propose che il primo marzo si trattasse della
provincia gallica e di nessuna altra cosa; ciò di cui
Cornelio Balbo si dolse assai, considerando come Pompeo si
avvicinava sempre più visibilmente ai conservatori372.
Intanto, fatte le elezioni rimanenti, il candidato dei conservatori
alla pretura Favonio era caduto, ma in compenso Marco Celio Rufo e
Marco Ottavio erano stati eletti edili Curuli e Curione tribuno
della plebe: tutti nemici di Cesare373. Infine intorno allo stesso
tempo il Senato prese una grave misura: impensierito dal grande
numero dei debitori e dalla carestia del denaro, conseguenza
necessaria della pazza esaltazione degli anni 55 e 54, ordinò
che l’interesse legale massimo fosse quello del 12 % e che gli
interessi non pagati si aggiungessero al capitale, ma non
fruttassero374.
Deliberazione strana in apparenza. Il Senato faceva dunque sua,
dieci anni dopo, sia pure addolcendola, la politica di Catilina? Gli
uomini del denaro infatti brontolarono: se il Senato dava a quel
modo l’esempio di toglier valore alle leggi e annullare la
santità dei contratti, non avrebbe avuto ragione la parte
più violenta del partito popolare di domandar di nuovo che si
bruciassero tutte le syngraphae?375 In certe cose è troppo
difficile fermarsi a mezzo; transigere significa cedere. Eppure
anche questa mollezza del Senato era un segno dei tempi, come era un
segno il gran successo del nuovo libro politico di Cicerone, il De
Republica, che messo in giro quando egli stava per partire era
allora cercato e letto avidamente da tutte le persone colte376,
copiato e ricopiato un gran numero di volte dagli schiavi e liberti
che facevano professione di amanuensi e librai, come quelli di
Attico, che in casa aveva una grande e lucrosa officina libraria. A
mano a mano che il rammollimento delle ricchezze del piacere della
coltura si spandeva nell’antica rigidezza, a mano a mano che lo
spirito mercantile si divulgava, il sentimento pubblico inclinava a
comporre gli antagonismi politici ed economici con transazioni e
conciliazioni, perchè nessuna classe o partito sentiva
più in sè le energie, il coraggio, la durezza
necessaria ad arrischiarsi in una lotta senza quartiere, di vita o
di morte, con i propri rivali. Tale è sempre, del resto, il
progresso della civiltà. Era lontana la terribile età
di Mario e di Silla! Perciò il pubblico desiderava allora di
finire i contrasti tra creditori e debitori non distruggendo quelli
o rovinando questi, ma con amichevoli accordi; e ammirava nel De
Republica non solo la magnificenza dello stile, ma lo splendido
disegno di un governo armonicamente composto di democrazia,
aristocrazia e monarchia.
Ma questo spirito di conciliazione placava molti odii, non quello
del piccolo gruppo dei nemici di Cesare. Il 30 settembre costoro
riuscirono con un grande sforzo a far discutere nel Senato, in
presenza di Pompeo, la questione del suo comando. Invano il console
Servio ammonì di non essere precipitosi in una questione che
poteva diventar causa di grossi guai; il suo collega propose si
decretasse che al primo marzo dell’anno seguente i consoli
metterebbero in discussione il comando delle Gallie, che il Senato
dovrebbe radunarsi tutti i giorni sinchè non avesse
deliberato, che anche i senatori facienti ufficio di giudici
dovessero essere presenti. Questa proposta fu approvata. Ma quando
Marcello propose che il Senato dichiarasse fin da allora nullo in
precedenza ogni veto dei tribuni e che i tribuni i quali si
opponessero fossero considerati nemici pubblici; quando propose che
si prendessero in considerazione le domande di congedo che i soldati
di Cesare presenterebbero, quasi per invitare a presentarle, diversi
tribuni, tra i quali Caio Celio e Caio Vibio Pansa opposero il veto.
La votazione del resto sarebbe stata di poco momento, senza il
contegno di Pompeo. Non solo egli dichiarò che se prima del
prossimo marzo non si poteva deliberare sulle provincie allora
occupate da Cesare senza recargli offesa, dal primo di marzo in poi
si sarebbe potuto e dovuto deliberare; ma disse anche che, secondo
il suo parere, Cesare, ove facesse interporre il veto dai tribuni,
dovrebbe considerarsi come ribelle. Un senatore, fatto ardito da
questa dichiarazione, gli domandò allora che cosa farebbe se
Cesare volesse restare al comando dell’esercito; al che Pompeo
rispose: “Che cosa farei se mio figlio mi desse uno schiaffo?377”
Egli non aveva mai così chiaramente annunciata la sua
separazione definitiva da Cesare; l’ambizione di essere a capo della
parte della società italiana eletta per coltura per censo per
natali, il riordinatore dello Stato romano. La conversione di Pompeo
alle idee conservatrici progrediva veloce, affrettata dalla
vecchiaia, dal rispetto che i grandi gli mostravano, dallo sgomento
per le rovine e i pericoli dello Stato, dalla opinione pubblica,
forse anche dal gran successo del De Republica. Era evidente, se
tutti leggevano il libro con tanta passione, che l’Italia domandava
un illustre, intelligente, elegante salvatore. Chi, se non egli,
avrebbe potuto essere l’uomo presentito da Cicerone, desiderato da
tutti? Si aggiunga infine il dispetto per la protezione accordata da
Cesare a tutti i condannati dai suoi giudici e in seguito alle sue
leggi.
Cesare compieva allora la sua ultima campagna nelle Gallie; ma Roma
fu di lì a poco, in novembre, messa in ansia da cattive
notizie dell’Oriente; da lettere di Cassio e di Deiotaro che
annunciavano i Parti aver attraversato l’Eufrate in gran numero.
Qualche conservatore scettico o maligno mostrava di diffidare:
Cassio, che era in sospetto di cesarianismo, aveva inventato
l’invasione per attribuire ai Parti i saccheggi fatti da lui. Ma la
lettera di Deiotaro toglieva ogni dubbio378. Il pubblico, come al
solito, si commosse: era una grossa guerra; l’onore di Roma era
impegnato; bisognava prendere subito provvedimenti: chi voleva
spedire Pompeo e chi Cesare; ma i consoli si trovarono nella
peggiore ansietà, temendo che il Senato, per non scegliere
tra Cesare e Pompeo, incaricasse uno di loro di questa guerra, che
nè Marcello nè quel vecchio leguleio di Servio
volevano andare a comandare, perchè i Parti, dopo la sorte di
Crasso, spaventavano non poco gli impressionabili signori del mondo.
Essi quindi incominciarono a differire le radunanze del Senato,
impedendo così ogni deliberazione, mentre tutti a Roma
credevano di essere minacciati da una guerra terribile379. Gli amici
di Cicerone sopratutto erano in grande ansia: che cosa accadrebbe
del vecchio scrittore, il quale nuovo alla guerra si trovava a
governare con così pochi soldati una provincia invasa da tal
nemico? E difatti il grande scrittore aveva passato poco
allegramente i principî del suo governo. In viaggio, a Samo,
gli era venuta incontro una deputazione di pubblicani italiani
residenti nella provincia a complimentarlo e a pregarlo di
conservare nel suo editto alcune disposizioni del predecessore380;
sbarcato nella provincia, si era trattenuto un poco a Laodicea per
vigilare il cambio in moneta paesana delle somme portate
dall’Italia, affinchè fosse fatto onestamente381. Questi
cambi, disonestamente fatti con la complicità dei
governatori, erano uno dei maggiori lucri dei finanzieri italiani in
Oriente. Ma in mezzo a queste cure era stato ben presto sgomento dal
disordine in cui giaceva la milizia: aveva trovata la provincia
infestata, come dalle cavallette, da nugoli di usurai italiani, e
l’esercito, che avrebbe dovuto servire a difenderla contro
l’invasione dei Parti, dislocato dal suo predecessore Appio Claudio
in piccoli distaccamenti al servizio di questi uomini d’affari,
affinchè potessero, manu militari, costringere al pagamento i
debitori restii; anzi in questa dispersione dell’esercito tre coorti
si erano perdute; nessuno sapeva dove fossero!382 Immaginarsi con
che cuore egli dovè ricevere nel mese di agosto la notizia
che il nemico aveva varcato con grandi forze l’Eufrate. In principio
aveva pensato che il suo collega di Siria provvederebbe a
respingerli, ma di lì a poco avendo saputo che Bibulo non era
ancor giunto in Siria, Cicerone si spaventò, scrisse il 18
settembre una lettera supplicante al Senato, sollecitando
provvedimenti: le provincie ed i loro redditi erano in pericolo; si
mandassero soldati dall’Italia, perchè le reclute asiatiche
non valevano nulla e degli alleati, stanchi del malgoverno romano,
non era prudente fidarsi383. Tuttavia egli – ed è una prova
del suo zelo civico come della sua abilità – cercò di
far quanto poteva, raccolse i suoi pochi soldati, tralasciò i
giri di amministrazione e si portò a difendere la via della
Cappadocia, caso mai i Parti volessero invadere la provincia d’Asia,
considerando che la frontiera della Cilicia verso la Siria era
facile a difendersi con pochi soldati. Ma di lì a poco,
saputo che i Parti avevano invasa la Siria e si avanzavano verso
Antiochia, corse verso questa frontiera, giunse a Tarso il 5
ottobre, da dove si mosse verso la catena dell’Amano; sinchè
verso il 10 ottobre seppe che Cassio aveva battuti i Parti sotto
Antiochia e che il nemico si ritirava. Per quel gusto che le persone
intelligenti provano talora a fare qualche tempo un mestiere diverso
dal proprio, come per giuoco, Cicerone volle allora tentare una
piccola spedizione contro le barbare tribù brigantesche della
catena dell’Amano; e consigliato da suo fratello e da Pomptino,
diede una battaglia, assediò la città di Pindenisso,
ricevè dai soldati il titolo di Imperatore; catturò
schiavi e cavalli; vendè gli schiavi a Pindenisso stesso,
distribuendo la somma ricavata ai soldati. Contento di aver
così fatto anch’egli per due mesi il generale, se ne
tornò nella provincia384.
A Roma la lettera di Cicerone che domandava soccorso e quella di
Cassio che annunciava la vittoria giunsero insieme e furono lette
nella stessa seduta del Senato verso la fine di novembre385: l’una
annullava l’impressione dell’altra; il terribile nemico parve vinto
ed a Roma nessuno ci pensò più.
X.
LE BRIGHE DI UN GOVERNATORE ROMANO.
(Anni 51-50 a. C.)
Torbidi giorni cominciavano invece per Cesare. Gli sforzi per
recuperare il favore del gran pubblico imparziale, riusciti un
momento nel 56 e nel 55, erano definitivamente falliti. Dalla morte
di Giulia in poi tutto gli era andato a rovescio: il disastro di
Crasso, la morte di Clodio, la rivolta di Vercingetorice,
l’alienamento di Pompeo, le nuove guerre galliche del 51.
Disgraziatamente gli uomini personificano sempre, nelle vicende
della storia, la cagione dei beni che godono o dei mali che soffrono
in qualche loro simile; e perciò, come qualche anno prima si
attribuiva a Cesare il merito di tutti i felici eventi che
allietavano la repubblica, ora i più, disillusi e scontenti,
inclinavano ad apporgli la colpa di tutti i mali: i pericoli che
parevano minacciar dall’Oriente, la guerra interminabile di Gallia.
le frontiere indifese, la corruzione e il disordine incurabile dello
Stato, la rinnovata lotta di classe tra ricchi e poveri. Questo
disfavore del pubblico rinfocolava gli antichi rancori delle alte
classi contro di lui; e ormai sparlare di Cesare e disprezzarlo era
quasi un obbligo di tutte le persone dabbene, nella aristocrazia,
tra i ricchi proprietari e i capitalisti, tra i giovani eleganti e
alla moda; un obbligo non politico e morale, ma mondano, che
è peggio ancora, perchè gli obblighi mondani sono i
più tirannici per le alte classi, nei tempi in cui la
ricchezza, il piacere e la cultura ammolliscono il carattere. La
cricca conservatrice era così imbaldanzita, che Catone
dichiarava ormai senza ambagi di volere trarlo in giudizio e far
condannare all’esilio appena avesse smesso il comando386: quanti
avevano avuto rapporti amichevoli con lui negli anni precedenti, se
ne vergognavano a segno, che intorno a questo tempo perfino il
prudente Attico gli domandò la restituzione di 50 talenti,
prestati a lui ancor prima che fosse console387. La rinnovata
avversione delle alte classi incoraggiava a sua volta il malcontento
di tutto il pubblico; e ahimè! troppo scarso compenso a
questo era l’ammirazione dei piccoli appaltatori388 cui egli aveva
dato e dava tanto lavoro, del popolino di artigiani e di liberti
inasprito contro i grandi dalla morte di Clodio.
Cesare capì da lontano questo gran mutamento del pubblico e
le sue cagioni profonde. Sebbene il suo spirito eccitabile si
lasciasse qualche volta portare al di là del vero, del
ragionevole e del giusto dalle contagiose esaltazioni dei tempi, non
si immagini lui, a 50 anni – tanti ne aveva allora – somigliante a
Napoleone trentacinquenne, invasato da un orgoglio inumano della
propria grandezza, tormentato da una insaziabile bramosia di potere!
Non solo il romano era più equilibrato e possedeva
intelligenza più complessa, più duttile, più
fine; ma gli era mancato il successo troppo rapido; aveva dovuto
conquistare quanto possedeva, la ricchezza la gloria la potenza, con
25 anni di fatiche ininterrotte, ed a 50 anni ancora era l’uomo
più odiato, spregiato, vilipeso dalle alte classi. Egli aveva
potuto a più riprese, per la plastica sensitività del
suo spirito, sentire ed esprimere stati diversi del sentimento
pubblico: la democrazia conciliante e signorile dal 70 al 65; la
concitazione degli odii democratici dal 65 al 60; l’imperialismo
enfatico, rapace, corruttore e prodigo dal 58 al 55; ma pur
mutandosi proteicamente a questo modo, per una mirabile
plasticità di commozioni, era restato pur sempre uomo
semplice e possente; che possedeva una intelligenza profonda e
lucida di scienziato indagatore della realtà; che non
desiderava la ricchezza come Crasso per sè stessa ma come
mezzo; che amava le donne ma in compenso era sobriissimo e quasi
astemio; che aveva fatto e rifatto ville e palazzi in Italia per dar
lavoro, senza goderli, continuando a vivere senza lusso nella
barbara Gallia; che amava la gloria, ma non le adulazioni servili,
le enfasi gloriose, le esagerazioni spavalde; che aveva faticato
sopratutto per appagare un sublime bisogno di esercitare le mirabili
facoltà sue. Questo uomo dalla intelligenza così
lucida, penetrante ed equilibrata non poteva ostinarsi per cieco
orgoglio; capì gli errori suoi tanto più facilmente
perchè in gran parte li aveva commessi per necessità
più che per inclinazione; sentì esser necessario dar
soddisfazione allo spirito pubblico; e con un altro di quei suoi
mutamenti meravigliosamente rapidi, dall’esasperazione furente con
cui aveva percossa in quell’anno la Gallia si volse verso l’Italia
con fronte rasserenata, disposto alla moderazione e alla
conciliazione. Cesare era, per temperamento e per necessità,
più conservatore che non apparisse dalla demagogica e
rivoluzionaria politica cui era stato costretto dopo la congiura di
Catilina: per temperamento perchè, come tutti gli uomini di
grande ingegno educati nelle alte classi, non poteva rassegnarsi a
restar privo tutta la vita dell’ammirazione del proprio ceto,
ambizione suprema delle sue fatiche; per necessità,
perchè sebbene avesse sperimentata più volte,
vincendola, la inerzia politica delle alte classi, capiva che la
folla cosmopolita di artigiani e liberti, la torma di avventurieri,
di ambiziosi, di speculatori, di cui soltanto si comporrebbe il suo
partito se Pompeo lo abbandonava, non sarebbe mai saldo e potente
strumento di signoria. Alla testa del popolino artigiano di Roma
egli aveva potuto conquistare per sorpresa un gran posto nello
Stato; ma non potrebbe mantenerlo a lungo, senza godere, come
Lucullo, come Pompeo, come Cicerone ammirazione e credito in mezzo
alle classi medie ed alte, alla borghesia agiata ed istruita, che
non ostante lo scetticismo politico possedeva i due strumenti di
dominazione più potenti nelle democrazie mercantili, la
ricchezza e il sapere; e contro la volontà delle quali nessun
governo poteva lungamente durare. Riacquistare la perduta
ammirazione delle alte classi era stato dopo la congiura di Catilina
ed era allora l’intento supremo che spiega il maggior numero delle
sue azioni: per quello aveva dichiarata la Gallia provincia e
combattute tante guerre; per quello si disponeva ora a una politica
di abile moderazione che avrebbe stupita l’Italia. Egli non voleva
allora in nessun modo – sarebbe stato pazzo, se l’avesse pensato –
conquistare il potere assoluto389; ma solo diventar console per
l’anno 48 senza abbandonare prima il comando per sfuggire al
processo che i suoi nemici gli minacciavano; e intendeva riuscire a
questo scopo rinnovando l’alleanza con Pompeo, volgendo di nuovo a
suo favore l’opinione pubblica con le maggiori concessioni e con una
moderazione straordinaria. Se il pubblico imparziale e Pompeo
parteggiavano per lui, la cricca conservatrice sarebbe di nuovo
impotente, come nei giorni della grande infatuazione imperialista.
Ma la fretta avuta nel 59 di farsi dare il comando delle Gallie il
primo marzo, subito dopo morto Metello, era adesso cagione che la
legge, votata nel 52 per concedergli di domandare assente il
consolato, rischiasse di non servirgli a nulla. Egli era costretto,
per rassicurare la opinione pubblica angustiata dalla interminabile
guerra, ad affermare energicamente che la conquista della Gallia era
finita: ma i conservatori traevano da questa affermazione la
conseguenza rigorosamente logica, che il privilegio aveva perduta la
sua ragione di valere, e cioè la necessità di
prolungare a Cesare il comando per motivi militari. La legge non era
forse stata votata per lo spavento delle rivolte di Vercingetorice?
Ma se la Gallia era tranquilla, se i suoi poteri venivano meno al
primo marzo del 49, se non c’era ragione di prolungarli,
perchè mai avrebbe egli dovuto domandare il consolato lontano
da Roma?390 Cesare non poteva dubitare che questo argomento, cui del
resto non mancava fondamento di ragione, prevarrebbe in Senato nella
seduta del primo marzo 50. Bisognava perciò guadagnar tempo,
far rinviare questa deliberazione, non però con violenze o
mezzi scandalosi che sdegnassero le alte classi; e nemmeno con il
vecchio ed abusato espediente delle intercessioni tribunizie, il
quale dopo le ultime dichiarazioni di Pompeo non sarebbe senza
pericolo. A questo scopo gli bisognava anzitutto trovare un nuovo
Clodio. Troppo aveva sentito, negli ultimi anni, la mancanza di
questo potentissimo agente! Con quella audacia immaginosa di
sùbite e straordinarie sorprese, un poco vaga di stravaganze
quasi inverisimili, che era propria della sua natura geniale ed
ardita e che in questa materia era accresciuta dalla lunga
esperienza della universal corruzione e dalla persuasione ormai
fatta che il mondo si governava con il ferro e con l’oro391, egli
pose gli occhi, per farsene uno strumento, addirittura sul suo
più accanito nemico: Curione. Era costui un giovane
intelligentissimo e coltissimo, un grande oratore e letterato; ma
dissipato, insaziabile di denaro, ambizioso, smanioso di far parlare
di sè, cinico, squilibrato e violento; un “briccone di genio”
come lo ha definito un antico392; un Clodio più intelligente
e più fino; un uomo figurativo, ripugnante e piacevole nel
tempo stesso, della ultima depravazione in cui si dissolveva la
estenuata nobiltà romana. Offrendo di pagargli gli immensi
debiti e di dargli altre grosse somme di denaro, Oppio lo trasse
alle parti di Cesare; e insieme convennero, segretamente, che
Curione, simulando di restar nemico, avrebbe intorbidate le cose in
modo che il primo di marzo non si sarebbe votato sulla questione del
comando di Gallia393. Come nel 59 aveva tentato di nascondere
l’alleanza con Crasso e Pompeo, così allora, per non irritare
il pubblico con una nuova corruzione più audace delle
precedenti e per meglio sorprendere gli avversari, Cesare voleva
tener segreta l’alleanza con Curione, il quale doveva da solo,
almeno in principio, come Cesare aveva fatto per Crasso nel 65,
affrontare il pericolo e l’odio dei maneggi necessari a conseguire
l’intento. La dissimulazione del resto era agevole; perchè il
pubblico non avrebbe facilmente indovinato che due avversari
così antichi si fossero rappacificati.
Difatti Curione, appena entrato in carica, il 10 dicembre del 51,
sorprese tutti proponendo diverse leggi, di cui alcune dovevano
spiacere ai conservatori, altre ai popolari, e la cui discussione fu
con molti pretesti rinviata per i due primi mesi dell’anno, sin
quasi al principio di marzo394. Allora Curione, che era Pontefice,
propose di interporre, tra il 23 e il 24 febbraio, il mese
Mercedonius, che secondo il vecchio costume si doveva intercalare
ogni due anni, per assestare il calendario sul corso del sole:
così non mancherebbe il tempo di discutere le sue proposte
prima che, arrivando il mese di marzo, ogni argomento fosse posposto
alla discussione sui comandi delle provincie. Ma non avendo ottenuta
l’intercalazione, egli si finse sdegnato con il partito
conservatore, propose due leggi molto popolaresche sulle vie e sulle
frumentazioni395; la necessità di discuter le quali fu buon
pretesto al console Lucio Emilio Paolo, che in quel mese presiedeva
il Senato e che era amico di Cesare, di rinviare la discussione
delle provincie....396 Cesare aveva ottenuto il suo scopo, per il
bizzarro intervento di un suo nemico, pareva: e nessuno poteva
muovergli rimprovero....
Pompeo tollerò questo rinvio, non ostante le dichiarazioni
dell’anno innanzi; e si contentò di far sapere privatamente
che, secondo la sua opinione, si potrebbe conciliare il diritto
acquisito da Cesare e la rigida osservanza della costituzione,
lasciando Cesare nel comando sino al 15 novembre, quando le elezioni
sarebbero già state fatte397. Pompeo, che gli agi e
l’età – aveva allora 56 anni – ammollivano, che incominciava
a sentire nella salute l’effetto delle fatiche militari durate in
gioventù e della tensione nervosa di tante brighe politiche,
che era pieno di incomodi e tutti i momenti cadeva ammalato398, non
voleva, come non voleva Cesare, precipitare gli eventi. Era allora
rispettato da tutti: dai popolari ancora, dai conservatori di nuovo;
era l’uomo più celebre e potente dell’impero; perchè
guastarsi questa condizione privilegiata irritando troppo gli amici
di Cesare? Quanto al maggior numero dei senatori, a quella folla di
politicanti meno illustri che avevano saputo farsi eleggere alle
magistrature, acquistar potere, considerazione, ricchezza
destreggiandosi abilmente tra i due partiti, corteggiando i popolari
e i conservatori, Catone e Cesare, Pompeo e Cicerone secondo
l’opportunità del tempo, senza mai dichiarare guerra aperta
nè agli uni nè agli altri, tutti costoro non volevano
arrischiarsi in perigliose avventure ed erano intimiditi dalla
invisibile e onnipotente opinione pubblica, non meno di Cesare;
capivano che se l’Italia giudicava severamente la politica
turbolenta di Cesare, con maggior severità avrebbe giudicata
la politica di provocazione e di guerra civile che gli arrabbiati
del partito conservatore desideravano. L’Italia, i possidenti ricchi
e medi, i mercanti, i capitalisti, i liberti denarosi, i maestri, i
letterati che osservavano imparziali questa contesa volevano
pace399. Tutti si immaginavano la futura guerra civile dalle memorie
della passata, orrenda per questa generazione nella quale, non
ostante la corruzione ed i vizi, pure il sentimento umano, il
patriottismo benevolente, l’orrore delle tirannidi sanguinarie e
capricciose erano cresciuti, per i benefici influssi della filosofia
greca, della ricchezza diffusa, del vivere più raffinato. Si
voleva dunque veder riapparire in Roma la mostruosa figura di Silla,
abominazione di tutti i partiti? Poi la guerra civile avrebbe
incendiate le fattorie, devastate le case, rubati nei templi, che
erano le banche d’allora, i denari deposti dai privati; avrebbe
sospeso il credito di cui tanti avevano bisogno in tutte le classi
come di aria e di pane; avrebbe, come un terremoto, spezzata la
roccia su cui quella borghesia mercantile riposava: la
fedeltà degli schiavi. Come tutte le società a
schiavi, questa Italia così orgogliosa della sua potenza
mondiale, così fiduciosa nella propria fortuna, era
tormentata dentro, senza tregua, da una sospettosa inquietudine....
Che cosa sarebbe avvenuto in una guerra civile di questa moltitudine
di servi tanto cresciuta che ogni casa ne albergava qualcuno; venuta
da tutti i paesi, composta di ogni sorta di uomini tenuti nella
subordinazione alla meglio, nel gran disordine dei tempi, dagli odii
e dalle gelosie che li dividevano pur nel servaggio, dalle
differenze di lingua e di razza, dagli sforzi personali dei padroni:
dagli uni con la crudeltà, le verghe, le catene, la croce; da
altri, come Cesare, con una giudiziosa distribuzione di pene e di
ricompense; da qualcuno, come Cicerone, con una umanità quasi
affettuosa; da non pochi con uno spensierato abbandono della propria
casa e fortuna alle loro astuzie e cupidigie? L’Italia, angustiata
dai debiti, stancata dalla gran fatica del rinnovamento civile delle
conquiste militari del progresso intellettuale, sfiduciata di tutti
i partiti, disgustata dalla anarchia dalla corruzione dalla sfrenata
gara delle ambizioni, esausta dalla fretta di fare e di godere, si
chiudeva in un egoismo trepido, si sgomentava al pensiero che da un
momento all’altro, in mezzo a tanto disordine, imperversasse il
ciclone di una rivoluzione....
Ma nelle età di decomposizione e ricomposizione sociale
l’equilibrio degli spiriti è instabilissimo; e gli eventi
prorompono a volte, tra la disperazione dei savi, contro la
volontà del maggior numero ed oltre la previsione degli
uomini più esperti, per impulsi piccoli in apparenza. Curione
potè da solo, con la sua turbolenta ambizione, scatenare la
tempesta da questa bonaccia. Non era costui uomo da lavorare
soltanto per conto altrui; ma intelligente, avido di potere di
ricchezza e di fama, avventato, sicuro di sè, beffardo
spregiatore degli altri, vago di stupir la gente con stravaganze
inaspettate e quasi incredibili, andò ben presto,
imbaldanzito dal primo successo, oltre il segno voluto da Cesare400;
e primo osò assalire di fronte Pompeo, l’uomo rispettato da
tutti; assalirlo non come partigiano di Cesare, ma come critico
imparziale, pieno di buon senso e di giustizia. Perchè mai
Pompeo affettava tanta severità costituzionale, quando egli
aveva creata la presente situazione, con le leggi del 55?401 Poteva
egli essere il pedantesco guardiano della costituzione, quando ne
aveva violate tutte le leggi, ed era stato perfino console e
proconsole nel tempo stesso? Questi rimproveri tanto più
fastidivan Pompeo, perchè, se nessuno aveva osato
muoverglieli per timore, eran tanto giusti e inconfutabili nella
loro semplicità che gli imparziali dettero ragione all’audace
critico. Difatti i discorsi di Curione ebbero tanto successo402 tra
la gente imparziale e desiderosa di qualche audace denunzia del vero
in mezzo a tanta abiezione di menzogne consapevoli, che Pompeo si
rimise a far esercizi di eloquenza, per rispondere al veemente
agitatore delle popolari concioni403. Ma poi si stancò di
tante brighe; e sentendosi poco bene pensò di andarsene a
Napoli, dove appena giunto ammalò gravemente404;
cosicchè quando in aprile405 il console Marcello che
presiedeva invitò il Senato a trattar delle provincie – e
quindi anche dell’assegnamento per un altro anno dei fondi necessari
all’esercito di Pompeo e del comando delle Gallie406 – egli era
assente. Curione, sapendo che il Senato, di solito pavido e incerto,
avrebbe perduto nell’assenza di Pompeo anche il poco coraggio che
gli restava, non ebbe più riguardi; e tagliò netto
nella discussione con un veto, dichiarando la proposta di Marcello
giusta, ma ingiusto che Cesare dovesse abbandonar l’esercito quando
Pompeo restava al comando del suo e proponendo il richiamo di
ambedue407. Questa proposta parve al pubblico imparziale
straordinariamente equa, opportuna, savia; e fu accolta con tanto
favore da tutti i desiderosi di pace, che quando Marcello propose si
desse esecuzione alla deliberazione dell’anno precedente, secondo la
quale la intercessione tribunizia non sarebbe tollerata in questo
argomento, il Senato, pavido e incerto, non approvò408.
Curione era diventato ormai, in pochi mesi, uno dei personaggi
primari della politica romana; e continuava a battagliare
così, come un solitario eroe della causa giusta, percuotendo
senza riguardi popolari e conservatori. Solo i maligni e i
conservatori intransigenti osservavano che troppo spesso egli
colpiva i conservatori con il filo, e i popolari con il piatto della
spada. Ma mentre diventava celebre difendendo con così poca
sincerità la causa della pace, egli provocava la guerra;
perchè questa proposta e il veto con cui aveva sospesa la
votazione dei fondi per l’esercito di Spagna, misero definitivamente
Pompeo in gran sospetto di Cesare e affrettarono il suo passaggio ai
conservatori intransigenti409. Il mutamento non apparve subito: anzi
Pompeo, impressionato dal gran successo della propaganda di Curione,
scrisse ancora convalescente da Napoli al Senato, dichiarandosi
pronto a rinunciare al comando410. Ma non intendeva affatto di
accettare il compromesso. Egli aveva avuto l’esercito di Spagna per
cinque anni con una legge, e non voleva rinunciare ai suoi diritti
per compiacere la petulanza di Curione: se Cesare, che egli come
tutti sospettava incitasse Curione, voleva infliggergli questa
umiliazione, non la tollererebbe, a nessun costo. Le grandi feste
con cui le città e le popolazioni si congratularono per la
recuperata salute, nel viaggio di ritorno a Roma, accrebbero in lui
l’orgoglio della propria grandezza, la risoluzione di non decaderne,
la fiducia nella sua potenza411. Tuttavia giunto a Roma
ripetè in un discorso di esser pronto alla conciliazione
proposta da Curione e aggiunse non dubitare che Cesare
consentirebbe: ma il tribuno non si quetò; e in molti
discorsi mostrò di dubitare che Pompeo dicesse sul serio;
aggiunse che a ogni modo le parole non bastavano, ma ci volevano
fatti; e quasi per metterlo alla prova, aggiunse alla sua precedente
proposta si dichiarasse nemico pubblico quello dei due che non
obbedirebbe; e si preparasse un esercito per fargli la guerra412.
Crebbe l’irritazione di Pompeo413, il suo sospetto, la inclinazione
verso i conservatori estremi; e quando in maggio o in giugno414 il
Senato deliberò che egli e Cesare spiccassero ciascuno una
legione del loro esercito e la mandassero in Siria contro i Parti,
colse l’occasione per ridomandare a Cesare la legione che gli aveva
prestata nel 53415. Poi le discussioni furono sospese; perchè
si avvicinavano le elezioni, nelle quali la lotta sarebbe stata
vivace e il cui risultato era atteso da tutti i partiti come un
segno del tempo. Per un momento la gran discordia parve posare.
Cesare intanto era trattenuto in Gallia dalla sollecitudine di
riparare un poco i guasti delle furiose ultime guerre e di
consolidare la signoria romana; e Cicerone tentava nella sua
provincia una qualche riforma, con zelo sincero se pure con poca
fortuna. Durante il viaggio egli aveva osservato quanto fosse
celebre per tutto l’impero, anche nei paesi ellenici; e questa
ammirazione mondiale, più ancora il gran successo del De
Republica di cui Celio lo informava, la gioia e l’orgoglio di aver
profondamente commossa l’anima dell’Italia colta e ricca esprimendo
i segreti e indistinti desideri dei più, avevano risvegliati
in lui il coraggio, la fiducia, l’illusione, quasi svanita nei dieci
anni dopo il consolato, di essere un gran reggitore di uomini e un
gran riformatore di Stati. Egli voleva ora apparir nella provincia
degno del libro che aveva avuto tanto successo, mostrare ai
contemporanei le proprie singolari attitudini al governo con una
amministrazione perfetta416. Ma l’impresa era difficile oltre ogni
credere. Un governatore di provincia era ormai l’agente
dell’affarismo italico che sfruttava l’impero, il commissionario di
tutti gli uomini potenti e ricchi di Roma; e nemmeno Cicerone poteva
scuotersi di dosso il carico di tanti offici obbligatori per ogni
membro della oligarchia politica e mercantile di Roma, che era ormai
unita soltanto da una rete inestricabile di raccomandazioni, di
servigi, di compiacenze, di complicità vicendevoli. Ma
avrebbe l’uomo, che doveva esser strumento degli oppressori, potuto
portar sollievo agli oppressi, essere esempio di virtù ai
contemporanei? Eppure la miseria della provincia era tanta,
così urgente il bisogno di aiuto! Se al primo entrar nella
provincia, nell’ansia della gran guerra partica che pareva
imminente, Cicerone era stato sgomento sopratutto dal disordine
dell’esercito, in seguito, appena potè considerare con animo
più riposato le condizioni del paese, egli vide stendersi
sotto gli occhi a perdita di vista, da un capo all’altro della
Cilicia, la immensa desolazione di una provincia romana devastata
dalla rapace plutocrazia e dalle bande dei politicanti venuti
d’Italia. Popolata da una gente mista di greci immigrati e di
indigeni; i primi abitanti quasi tutti nelle città,
possidenti mercanti professionisti artisti filosofi maestri, gli
altri per lo più contadini pastori umili artieri o briganti
nelle montagne; la Cilicia come tutta l’Asia minore aveva una
costituzione municipale: era cioè divisa in tanti distretti
con a capo una città considerevole, nella quale un Senato o
consiglio doveva essere scelto dalla popolazione tra i ricchi e
quindi quasi tutto tra gli Elleni, ad amministrar gli interessi
materiali e morali della città con leggi proprie, sotto il
controllo del governatore e del Senato di Roma417. Questo
ordinamento municipale era eccellente; e i Romani, fastiditi dalla
varietà delle anticate istituzioni con cui si reggevano le
città italiane, lo venivano da un pezzo studiando: ma la
miseria, le lunghe guerre, l’anarchia, il rimescolamento di uomini e
cose avvenute nell’ultimo secolo avevano fatto tralignare anche
questi istituti in un mostruoso strumento di tirannide e di
spoliazione. In ogni senato cittadino dominavano camorre di
consiglieri, che cercavano di lucrare sui redditi della città
– imposte e beni immobili, quasi sempre; che facevano decretare
lavori pubblici, feste, missioni, ogni sorta di spese inutili, per
favorire gli appaltatori e partecipare ai loro guadagni; che
facevano contrarre alle città, d’accordo con i finanzieri
italiani, prestiti rovinosi, per lucrare la senseria418. Appena
arrivato, Cicerone aveva trovate le camorre di molte città in
gran movimento per decretare l’invio di legati a Roma che
recitassero in Senato le lodi di Appio Claudio – era un mezzo comodo
di fare un bel viaggio a spese pubbliche; per erigere monumenti e
templi in suo onore, secondo i riti servili che gli Orientali
avevano trasportato dagli antichi monarchi ai governatori romani419.
Naturalmente queste camorre di greci quasi sempre si intendevano con
i pubblicani e i finanzieri italiani che infestavano l’Oriente; e
con questi godevano il frutto di una scellerata dilapidazione dei
demani municipali, di un aumento rovinoso delle imposte420; salvo
quando le finanze delle città non bastavano più a
soddisfar tutti, e gli uni e gli altri si disputavano per ottenere
che i redditi fossero usati a continuare le spese pubbliche o a
pagare gli interessi421. Sopravvenivano infine ogni anno, a colmare
la misura del male, i famelici politicanti di Roma, i governatori, i
loro amici, gli ufficiali delle legioni che spremevano in tutti i
modi privati e città; che si facevano mantenere da queste nel
lusso e vendevano loro ogni sorta di favori a carissimo prezzo
sopratutto l’esenzioni degli alloggi militari. Tanto era temuta da
tutti la presenza dei legionari prepotenti e rapaci!422 E intanto
gli umili, i piccoli artigiani e mercanti delle città, i
piccoli possidenti delle campagne, i contadini liberi erano a poco a
poco ridotti alla disperazione, cacciati nei debiti, costretti a
vendere le gioie di famiglia, i gruzzoli di monete accumulati da
generazioni, il campo, la casa, i figli423...
Come l’austero ed eroico Publio Rutilio Rufo, come l’appassionato
Lucullo, Cicerone fu sgomento da questa depredazione spietata; ma
non dichiarò guerra senza quartiere ai finanzieri
dell’Italia, come Lucullo e Rufo. Uomo figurativo del tempo suo
anche in questa lotta contro l’usura, egli mostra come il contrasto
inconciliabile di grandi vizi e di grandi virtù che aveva
sconvolto l’età di Silla si temperasse già nella sua
generazione più raffinata dalla civiltà e dalla
cultura in una agilità infaticabile di composizioni e
transazioni, fatte disfatte rifatte senza tregua, tra le forze del
bene e le forze del male. Egli fu, nella misura dell’onesto, un
governatore servizievole: trattò con i cacciatori di pantere,
per contentar l’amico Celio che aveva bisogno di fiere per i giochi
di Edile424; sbrigò ad Efeso affari di Attico425 e gli
comprò vasi artistici426; accolse gentilmente gli amici, gli
amici e i parenti degli amici, che venivano a lui con lettere di
raccomandazione per qualche affare; invitò qualche volta a
pranzo il figlio di Ortensio che invece di studiare sciupava denari
in bagordi427; accolse gentilmente tra gli altri un elegante
giovane, Marco Feridio, figlio di una agiata famiglia del ceto medio
che andava in Cilicia come amministratore di una società
appaltatrice di beni di città428; uno dei tanti giovani
usciti da quella ricca borghesia italiana che, pur tenendosi fuori
dalla politica, poteva dare ai suoi figli splendidi posti, grazie
alla potenza mondiale di Roma. Trattò infine tutte le
faccende che un governatore doveva assumersi: liquidazione di
eredità, riscatti di italiani catturati dai privati,
riscossione di interessi di somme prestate da Italiani in Asia. Era
questo uno dei massimi obblighi e delle brighe più noiose di
tutti i governatori. Di gran fastidio gli furon infatti i prestiti
di Bruto ad Ariobarzane. Il vecchio re di Cappadocia, ormai sfinito
dagli usurai italiani, spendeva il poco denaro restatogli a pagare
gli interessi che doveva a Pompeo e che, forse per effetto di
arretrati accumulatisi, ammontavano ormai a 33 talenti ogni mese429.
Ogni mese, sia pure con qualche interruzione, i numerosi procuratori
che Pompeo aveva in Asia spedivano su muletti scortati da un forte
drappello di servi armati, verso il mare, per essere imbarcata,
questa somma, che oggi varrebbe più di 120 000 franchi.
Ma per gli altri non restava quasi più nulla; e Cicerone
poteva pur scrivere e riscrivere al re430: si diceva in tutta l’Asia
che Pompeo sarebbe presto stato mandato in Oriente con un grande
esercito a combattere i Parti; e Ariobarzane non voleva vederselo
capitare in Asia, creditore corrucciato per la sua lentezza a
pagare431. Ad ogni modo Cicerone cercava di contentar gli amici di
Roma e i potenti affaristi italiani; ma si studiava nel tempo stesso
di far sì che le afflitte popolazioni ne avessero qualche
compenso. Rifiutò le feste e i doni delle città; visse
e fece vivere il suo seguito con semplicità per non obbligare
le provincie a spese soverchie; usò cortesie ai cittadini
più insigni; invece del fasto consueto ai governatori
affettò una modestia studiata in ogni atto; a Laodicea usci
ogni mattina all’alba dal palazzo del governo, a dare ascolto a
chiunque si presentasse; cercò che ogni persona, anche umile,
potesse parlargli432 e che i processi fossero sbrigati
sollecitamente; si rifiutò ostinatamente, non ostante le
continue e fastidiose richieste, di mettere riparti dell’esercito a
disposizione di finanzieri italiani per estorcere denari ai
debitori433. Misura più grave, dichiarò nell’editto di
non riconoscere, in nessun debito, non ostante le convenzioni
private, interessi annui superiori al 10% e di non ammettere
interessi arretrati fruttiferi; riducendo così tutti gli
interessi, come aveva fatto il Senato a Roma434: ma rivide nel tempo
stesso con gran rigore tutti i conti delle città degli ultimi
dieci anni, annullò senza pietà le spese superflue, i
contratti rovinosi, i prestiti ladri, le imposizioni inique;
costrinse molti concussionari a restituire alla città il mal
tolto e provvide che gli interessi ridotti dei prestiti alle
città fossero pagati puntualmente435. In questo modo egli
sperava di giovare all’Asia e di non scontentare i potenti
pubblicani, con una transazione fatta ai danni delle camorre
locali436.
Ma fare il bene non era cosa facile, in quel tempo....
L’annullamento di tanti dispendiosi decreti in onore di Appio
Claudio gli procurò una lettera insolente di costui, che
molto afflisse Cicerone, sempre sollecito di essere in buoni
rapporti con i nobili437; la riduzione degli interessi al 10% fu
cagione di dissapori con Bruto. Due uomini di affari, Scapzio e
Matinio, che figuravano come creditori dei Salaminii, si erano
presentati a domandargli il pagamento dell’enorme interesse del 48%
pattuito e non avendolo ottenuto gli avevano fatto alla fine sapere
che essi erano solo agenti, ma che il vero creditore era Bruto.
Cicerone, molto sorpreso che un giovane così reputato per le
sue virtù prestasse a usura e a quell’usura, non cedè;
non cedè nemmeno, quando Bruto gli scrisse lettere insolenti:
ma allorchè i debitori gli domandarono l’autorizzazione di
versare in un tempio l’interesse del 10%, che Scapzio e Matinio non
volevano accettare, e di essere così dichiarati liberi da
ogni obbligo, mancò di coraggio, non osò affrontar
così apertamente Bruto e lasciò in sospeso la cosa.
Questo, non potendo ottener di più, volevano appunto Scapzio
e Matinio, certi che il governatore seguente non sarebbe stato
così testardo e sciocco, ma avrebbe costretto i Salaminii a
pagare secondo il contratto438.
Come poteva del resto un governatore far giustizia piena e intera,
quando tutti partecipavano a questi imbrogli e a queste rapine?
Cicerone si studiava di dar il buon esempio, non voleva maneggio di
denaro, non toccava nemmeno un sesterzio delle somme della preda e
di quelle assegnategli dal Senato per il governo, facendo
amministrare le prime dai prefetti e le seconde dal questore439. Ma
intorno a lui tutti speculavano e trafficavano: il questore era
fratello di un gran commerciante residente ad Elide440 e lo aveva
preso a consigliere per la sua amministrazione441; perfino uno dei
suoi legati e Lepta, il capo del genio, si erano impigliati
siffattamente in un imbroglio di affari che egli dovè, per
liberarli, rallentare una volta il rigore della propria
amministrazione. Era antica pratica dell’amministrazione romana di
non conchiudere mai contratti senza che l’appaltatore presentasse un
certo numero di mallevadori, i quali si impegnassero a pagare le
multe stabilite in caso di imperfetta esecuzione del contratto, se
l’appaltatore per fallimento o per altro motivo non pagava.
Perciò quando nella êra mercantile gli affari crebbero
di numero e di grandezza, la ricerca di questi mallevadori
diventò essa stessa un commercio; buoni mallevadori che per
la ricchezza o per il credito politico non potessero esser rifiutati
dai magistrati erano cercati con tutti i mezzi efficaci, dalle
preghiere dell’amicizia alla solidarietà politica, al lucro,
e con lo zelo con cui ora si cercano nel commercio delle cambiali
gli avalli di persone che godan credito presso le grandi banche.
È probabile che molti uomini politici guadagnassero
metodicamente su queste malleverie, senza cui non si potevano
ottenere appalti, prestando garanzia per un compenso
dell’appaltatore; salvo poi a non pagare, mercè
l’intercessione di amici politici, quando lo Stato avesse diritto di
rifarsi sul mallevadore della negligenza dell’appaltatore. A un
imbroglio di questo genere dovè provvedere Cicerone, quando,
giunto nella provincia, trovò che il suo capo del genio Lepta
e uno dei suoi generali avevan prestato malleveria per un certo
Valerio, il quale aveva appaltato non sappiamo bene quale servizio
pubblico; ma poi a mezzo del contratto era venuto meno ai suoi
impegni e aveva ceduto, probabilmente per una somma minima, il suo
appalto a un usuraio di nome Volusio, che a sua volta era forse
d’accordo con il questore Rufo. Volusio era tenuto a eseguire il
contratto di appalto, non a pagare la multa in cui Valerio era
incorso, della quale restavano responsabili i mallevadori; onde
questi, disperati, ricorsero a Cicerone, che impietosito
trovò un cavillo giuridico per dichiarare nulla la cessione
di Valerio a Volusio, sciolse l’appalto, versò nel tesoro la
somma che ancora restava a pagare all’appaltatore e liberò i
mallevadori, con gran noia di Volusio, che perdette la somma con cui
si era fatto cedere l’appalto442. Come si vede, Cicerone poteva
persuadersi per esperienza, che le malleverie non avevano gran
forza. Eppure con quale altro mezzo si poteva in tanto disordine
garantire l’interesse dello Stato? Anche il trasporto a Roma delle
somme di denaro pagate dalle provincie era curato dai pubblicani; ma
troppo spesso avveniva che gli appaltatori giunti al mare
dichiarassero che i convogli erano spariti per via, depredati dai
briganti. Cicerone, per non far correre questo pericolo ai tributi
di quell’anno, era risoluto a non appaltare la riscossione, se non a
condizione che qualche mallevadore si assumesse anche il rischio del
trasporto443. Ma la frode e la concussione eran così comuni
in quella società in cui il denaro era ormai il solo vincolo
morale tra gli uomini, che mentre si affaticava ad amministrare
onestamente la sua provincia Cicerone riceveva spesso lettere
d’amici, che gli domandavano prestiti, aggiungendo che dopo la preda
della sua guerra non doveva esser scarso di denaro. Ed egli era
costretto a mandar loro, ma con gentilezza, questa strana
incredibile risposta: che la preda era non sua ma della repubblica,
e che egli non poteva far su quella nessun prestito a nessuno!444
Il governo della Cilicia è una gloria di Cicerone, che invano
gli storici moderni a lui nemici hanno cercato di scemare, con
ironie e critiche senza ragione445. Certo gli anni seguenti
passarono sull’opera sua di riforma come l’onda del mare sui disegni
che un fanciullo tracci con un bastone nella arena della spiaggia,
cancellando ogni cosa. Ma Cicerone era un uomo, non un Dio; e solo
non poteva curare l’immenso male, di cui il travagliato mondo era
stanco. Non l’opera in sè è significativa, ma il
pensiero e il sentimento che l’informarono; la sollecitudine ansiosa
della gran rovina che l’ingiustizia cronica e spietata minacciava al
mondo; lo spirito di giustizia, di solidarietà, di
misericordia che tentava mutarsi di contemplazione filosofica in
opera restauratrice. Come nelle Alpi all’alba, poche roccie poste
sulle vette più alte, che si indorano di un roseo lume quando
la valle bassa dorme ancora nel buio e la montagna è oscura,
annunciano allegre al fiumi, alle selve, ai campi, alle case ancor
sepolte nell’ombra che sopraggiunge il sole e il nuovo dì,
così la coscienza di questo timido letterato e poche altre
anime solitarie riflettevano dall’alto al mondo, giacente ancora
nella notte di un immenso pervertimento morale, l’alba di una nuova
giornata.
Ma Cicerone non lo sapeva; e tanta moltiplicità di carichi
quasi tutti sgradevoli lo annoiavano oltre ogni credere. Che
l’impero non potesse durare a lungo, senza distruggere la
civiltà, nelle condizioni in cui allora versava, è
provato non solo dalla trascurata amministrazione delle altre
provincie, ma dalla stanchezza onde era vinto, dopo un anno, il solo
che si fosse studiato di governar bene. Il proconsolato di Cicerone
dimostra come la enciclopedica universalità di funzioni
contenuta nelle magistrature romane, per cui a volta a volta lo
stesso uomo doveva essere generale, oratore, giudice,
amministratore, costruttore di opere pubbliche, era ormai un avanzo
di una età più semplice; e non poteva durare nella
cresciuta civiltà, in cui gli uomini erano spinti a spartirsi
i lavori e a perfezionarsi in questo od in quello dalla
necessità di far meglio ciascuno l’opera sua. Si era trovato
alla fine un governatore onesto, zelante, integro; ma proprio quello
non vedeva l’ora di andarsene, si raccomandava a tutti gli amici
affinchè impedissero il prolungamento del comando446,
smaniava di uscir presto da questo roveto di cifre, di syngraphae,
di malleverie, di contratti, per far ritorno in Italia, dove lo
chiamavano molte faccende private e le pubbliche. La figlia, la sua
diletta Tullietta, era stata fidanzata dalla abile Terenzia a Gneo
Cornelio Dolabella, un giovane scapestrato ma di famiglia
nobilissima. Cicerone non ignorava che giovane fosse il suo futuro
genero e quanti debiti avesse447; ma l’ambizione di imparentarsi con
una famiglia di antica e autentica nobiltà soverchiava o
meglio illudeva la tenerezza paterna. Non aveva egli sempre sognato,
come supremo compenso alle sue fatiche, la dimestichezza dei grandi?
Non ostante i progressi della democrazia, il loro impoverimento e la
loro decadenza, le famiglie superstiti dell’êra aristocratica
godevano ancora di una grande considerazione; conservavano il
privilegio di salire alle supreme cariche con minor fatica,
perchè il maggior numero degli uomini energici del ceto medio
badava a far quattrini, non volendo, come Attico, arrischiarsi alle
lotte politiche; e quasi tutte imparentate tra loro448, formavano
una piccola casta, la cui famigliarità era molto invidiata
dai parvenus dell’impero. Il matrimonio di Tullia con Dolabella
nobilitava quasi l’homo novus d’Arpino, fatto celebre
dall’eloquenza. Anche le faccende pubbliche sempre più
aggrovigliate lo sollecitavano al ritorno. Egli aveva pregato Celio
di mandargli notizie frequenti; e Celio, da giovane che adottava
subito tutti gli usi nuovi, aveva pagato un certo Cresto, un
giornalista di professione, affinchè gli mandasse nella
provincia una minuta cronaca mondana e politica di Roma fin troppo
infarcita di pettegolezzi e quisquilie449; molte lettere gli
arrivavano anche per mezzo dei corrieri suoi che mandava innanzi e
indietro, per mano dei corrieri delle società dei publicani,
che spesso portavano le lettere dei personaggi illustri. Ma insomma
le notizie, a tanta distanza, giungevano tardi, spesso con ordine
invertito: e Cicerone non ne poteva più....
XI.
“INITIUM TUMULTUS”.
(Anno 50 a. C.)
Le elezioni si avvicinavano; e la lotta per il consolato si
accaniva. Dovendosi pur risolvere alla fine, nell’anno prossimo, la
questione del comando di Gallia, urgeva ai due partiti impadronirsi
della suprema magistratura. Cesare, che nelle condizioni presenti
dello spirito pubblico sentiva di non poter troppo volere e
inclinava a moderazione, si sarebbe accontentato di avere amico uno
solo dei consoli; e difatti si sforzava in tutti i modi, mandando
soldati a Roma in congedo450, di far riuscire il suo antico generale
Servio Sulpicio Galba. Ma i conservatori gli opponevano due
candidati, Lucio Cornelio Lentulo e Caio Claudio Marcello, cugino
del console allora in carica e fratello del console nell’anno
precedente, il terzo Claudio Marcello in tre anni e non meno degli
altri due nemico di Cesare. Nella reazione contro la democrazia si
tornava ad eleggere a consoli persone di grande famiglia. Sembra che
i conservatori riuscissero a far rimandare le elezioni ad agosto, in
un mese cioè in cui i fasci e quindi la presidenza dei comizi
eran tenuti non da Lucio Emilio Paolo troppo amico di Cesare, ma da
Marcello451; e infatti, tenutisi i comizi con un ordine di cui
Pompeo potè compiacersi come di un merito suo, Cesare
subì un rovescio. Potè fare eleggere a tribuno della
plebe Marco Antonio; ma non Servio Sulpicio Galba a console. Il
consolato, la carica più disputata e più importante,
cadde in potere dei conservatori.
Straordinario fu il giubilo dei conservatori per questa vittoria.
Nella esultanza del successo Cesare parve loro già
spacciato452: oramai nè la pavida maggioranza del Senato
avrebbe forza di opporsi ai nemici di lui; nè l’odiato
proconsole oserebbe prorompere ad aperta rivolta. E davvero questo
insuccesso era grave, non in sè, ma per l’impressione che
poteva fare sugli incerti e sui timidi; persuadendoli che la fortuna
di Cesare declinava proprio, come i suoi nemici affermavano. Cesare
infatti indugiava allora in Gallia intento a preparare – tanto era
lontano da credere imminente una guerra civile – i quartieri
d’inverno per le legioni453, che egli sperava potrebbero passare il
prossimo inverno a riposarsi e che a ogni modo contava di lasciare
in Gallia a mantener tranquille le popolazioni appena domate e non
di condurre a una conquista rivoluzionaria del potere. Ma
l’insuccesso delle elezioni e i maneggi dei suoi nemici per
sfruttarlo lo inquietarono a segno che, dovendosi in settembre454
eleggere un augure e proponendosi candidato, da una parte Antonio,
dall’altra Lucio Domizio Enobarbo, si risolvè a venire in
persona nella Cisalpina, per aiutare Antonio. A nessun costo voleva
subire la nuova disfatta che i conservatori gli preparavano,
incoraggiati dal successo precedente. In viaggio seppe che Antonio
era stato eletto455; ma essendo già a mezza via, pensò
di mettere allora ad esecuzione un disegno che forse meditava da un
pezzo. Egli era popolare nella Gallia Cisalpina, perchè si
sapeva quanto fosse favorevole alla concessione della cittadinanza;
perchè molti dei soldati arricchiti nella conquista della
Gallia erano nati nei villaggi o nelle piccole città della
vasta pianura padana, intorno a cui si diradavano da cinquanta anni
le selve e si prosciugavano le paludi; perchè le popolazioni
della valle del Po, con quell’intuizione dell’utile che si divulga
nelle êre mercantili, capivano che la conquista della
Transalpina arricchirebbe la Cisalpina, mutandola da paese di
frontiera in paese di transito per un vasto e popoloso hinterland,
come si direbbe oggi. Abili agenti mandati innanzi persuasero
facilmente i notabili della Cisalpina a preparare feste al
conquistatore della Gallia; e l’entusiasmo divulgandosi velocemente
per contagio, Cesare potè fare un rapido viaggio trionfale
per la provincia, accolto nei villaggi da deputazioni, invitato a
feste dai municipi e dalle colonie, salutato sulle vie da quelle
genti di campagna che gli avevan dato tanti soldati e che
conoscevano le sue gesta per i racconti di questi456.
Queste dimostrazioni erano intese, non a soddisfare la vanità
del guerriero ma a impressionare da lontano l’Italia, malcontenta
del conquistatore delle Gallie, mostrandole quanto la sua conquista
fosse invece ammirata dalle popolazioni che più avevan
ragione di temere e che meglio conoscevano i Galli. Ma Cesare era
sempre così risoluto ad affrettare la conclusione di un
accordo equo con una politica di moderazione e conciliazione, che
intorno a quel tempo mandava, obbedendo all’ordine del Senato, la
legione richiestagli per la guerra partica, restituiva a Pompeo
quella prestatagli457; e pur ordinando di reclutare due legioni
novizie invece di quelle, induceva Curione a tralasciare la guerra
accanita mossa a Pompeo, a non impedir più con il veto che si
votassero i fondi per le legioni di Spagna. Il ravvedimento di
Curione fu infatti accolto con gioia da tutta la gente savia458.
Cesare offriva pace ai nemici; e del resto era tanto persuaso che
questi non provocherebbero per un puntiglio una guerra civile, che
verso la fine di settembre si rimise in cammino, infaticabile,
attraverso le Alpi, per tornare nella Transalpina a dare le ultime
disposizioni per i quartieri d’inverno....
Intanto Cicerone aveva finito il suo anno di governo o piuttosto
d’esilio, e subito era partito, senza nemmeno fare egli i conti
dell’amministrazione. Aveva invitato il suo questore a venir subito
a Laodicea per far questi conti459; ma non avendolo trovato e non
potendone più per l’impazienza, aveva dato ordine al suo
scriba di prepararli d’accordo con il questore e di deporli, come
voleva la lex Julia del 59, in due pubblici edifici, a Laodicea e ad
Apamea, affinchè il pubblico potesse controllarli; poi era
partito460, portando dalla provincia solo i risparmi onestamente
fatti sulla somma assegnatagli dal Senato per le sue spese
personali. Anzi neanche tutti: perchè una parte ne
assegnò al suo questore, cui lasciava il governo, come
dotazione di un anno, affinchè non avesse pretesto a
depredare la Cilicia; e una parte – un milione di sesterzi –
versò nell’erario della provincia, con grande ira degli amici
e degli ufficiali che lo avevano accompagnato, malcontenti che il
grande oratore pensasse più alla borsa dei Frigi e dei
Cilici, che alla loro!461 A ogni modo, non ostante queste falcidie,
Cicerone potè salvis legibus, come egli dice, portare in
Italia una somma da spendere per il trionfo che egli sperava gli
sarebbe decretato per le sue vittorie e depositare presso i
publicani di Efeso due milioni e dugentomila sesterzi462, che oggi
varrebbero più di mezzo milione di franchi. Anche ai
proconsoli onesti del vasto impero le annue fatiche del governo non
erano mal compensate, come si vede. In viaggio ricevè una
lettera del questore, che protestava perchè il suo segretario
aveva versato nell’erario come denaro pubblico anche centomila
sesterzi che erano suoi463; ed egli rispose consolandolo e
dichiarandosi pronto in ogni caso a risarcirlo del suo;
viaggiò con una certa lentezza per far vedere i monumenti
dell’Asia e della Grecia ai ragazzi464; si trattenne qualche tempo
ad Atene, dove seppe che un suo amico, Prezio, era morto e lo aveva
istituito erede465. Disgraziatamente a Patrasso ammalò
Tirone, il giovane schiavo per il quale aveva concepito un amore
quasi paterno466; il viaggio fu ritardato di poco; poi siccome la
malattia perdurava, Cicerone dovè con grande rammarico
lasciarlo, dopo aver però disposto affinchè fosse ben
curato senza badare a spesa e aver pregato Manio Curio, un ricco
mercante italiano di Patrasso, amico suo e amicissimo di Attico, di
mettere a disposizione di Tirone, addebitandole a lui, tutte le
somme di cui potesse abbisognare467. Finalmente il 24 novembre
sbarcava a Brindisi468.
In Italia la tensione degli spiriti si era un poco rilassata dopo le
elezioni; ma il mondo politico e le alte classi erano state
frattanto sorprese non poco e un poco anche inquietate
dall’apparizione in Roma di un censore di severità antica, un
emulo addirittura del vecchio Catone! L’evento era sorprendente in
sè, ma più sorprendente ancora per la persona in cui
si era incarnato a un tratto lo spirito di severità e di
disciplina delle vecchie generazioni. Era costui quell’Appio
Claudio, fratello di Clodio e governatore della Cilicia prima di
Cicerone, del quale Cicerone aveva dovuto cercar di riparare i molti
guasti fatti o lasciati fare alla provincia. Publio Cornelio
Dolabella, il fidanzato di Tullia, lo aveva infatti accusato di
concussione; ma Appio era suocero di Bruto e di un figlio di Pompeo,
e Bruto e Pompeo non solo lo fecero assolvere ma eleggere perfino
censore469: e allora, eletto censore, Appio si era messo a fare il
terribile; vale a dire aveva sfogati i rancori personali di partito
di casta, l’orgoglio aristocratico offeso dal lusso insolente e
dall’audace inframmettenza di tanti parvenus, il comodo
dilettantismo morale dei signori che vogliono imporre agli altri
l’osservanza di doveri che essi trascurano, affettando una
severità che faceva ridere gli uomini di spirito, scacciando
dal Senato, facendo intentar processi, vessando i proprietari di
terre troppo vaste e gli indebitati, perseguitando il lusso dei
quadri e delle statue470. Tra le sue vittime fu Sallustio, che
perdè il seggio in Senato; tra i suoi perseguitati Celio e
Curione, cui tentò, ma invano, di nuocere. Del resto si
trattava, a giudizio di tutti, di un breve furore, che passerebbe
presto, lasciando appena lo strascico di qualche rancore e di molte
risate. L’Italia era più tranquilla, infatti; Pompeo se ne
era andato di nuovo a Napoli471, senza inquietarsi degli odî
che gli procuravano le persecuzioni di Appio, da molte vittime
apposte a lui come al campione supremo della nuova politica di
severità, che incominciata con i processi del 52 continuava
ora con la censura del nuovo Catone per burla; Cesare aveva ordinato
ogni cosa nella Gallia Transalpina ed ora tornava nella Cisalpina, a
passarvi l’inverno e a preparare la candidatura per l’anno prossimo.
Egli non dubitava di poter intendersi con il Senato: tanto è
vero che se ne veniva in Italia con una sola legione, poco
più di 3000 uomini, che dovevano presidiare la Cisalpina in
luogo di quella mandata in Italia per la guerra dei Parti; e
lasciava le altre otto legioni in Gallia, quattro al comando di C.
Fabio tra gli Edui e quattro al comando di Trebonio addirittura tra
i Belgi, lontanissimo cioè dall’Italia472. Certamente Pompeo
non era più amico suo come un tempo, ma era un uomo savio e
prudente; gli altri conservatori arrabbiati eran quasi tutti, tranne
Catone, uomini di gran famiglia ma senza autorità: non era
possibile osassero far violenza alla opinione pubblica, all’Italia
tutta che voleva la pace. Un’intesa si troverebbe, non era dubbio;
egli sarebbe nominato console, ritornerebbe in Gallia a compiere
l’opera interrotta da tante rivolte; gli animi a poco a poco si
tranquillerebbero.
Cesare ragionava da savio; e perciò aveva torto. Nel
disordine di una decomposizione e ricomposizione sociale
l’equilibrio spirituale dei partiti e delle classi è
così instabile, che la leggerezza e la petulanza dei
dilettanti di politica conservatrice o rivoluzionaria, i puntigli
dei pochi faziosi, i rancori personali e di cricca possono far
esplodere a un tratto, contro la volontà dei più, gli
antagonismi latenti, precipitando eventi immensi; e perciò
sono forze storiche di straordinaria importanza. Il console
Marcello, furente per la opposizione sino allora vittoriosa di
Curione, non voleva lasciare il consolato senza una rivincita; e
poichè nel mese di dicembre toccava a lui presiedere il
Senato, aveva deliberato d’accordo con i più scaldati di
tentare uno sforzo supremo per far approvare nella seduta del primo
dicembre che Cesare ritornasse, secondo la legge, a vita privata il
primo marzo, e di far respingere nel tempo stesso l’analoga domanda
per Pompeo. Riuscendo in questo disegno egli conseguiva un duplice
intento: umiliava Curione e costringeva Pompeo con un così
gran servigio ad unirsi apertamente ai conservatori, diventandone il
capo. Intanto voci che l’esercito di Cesare fosse stanco di guerre e
desiderasse il congedo erano messe abilmente in giro per smuovere
l’esitante Senato e forse anche Pompeo.... Arrivò finalmente
il primo dicembre e il Senato si radunò, presenti quasi 400
membri473, ma in quali condizioni di spirito! I senatori erano quasi
tutti in grande incertezza, i più non sapendo a che cosa
risolversi, paurosi di spiacere a Cesare, paurosi di offender
Pompeo, paurosi di scatenare qualche guaio, diffidenti l’uno
dell’altro, chiusi in una riserva che voleva parere
imparzialità ed era soltanto vigile ansia di non
compromettersi. Marcello e Curione soli eran venuti con propositi
deliberati; il primo di far votare il richiamo di Cesare, il secondo
di far votare anche il richiamo di Pompeo, continuando l’abile
politica che gli aveva procurata tanta popolarità. Aperta la
seduta, Marcello parlò ponendo apertamente la questione se
Cesare doveva tornare a Roma, uomo privato, il primo marzo. Tutti
aspettavano – desideravano anzi in segreto – che Curione
interponesse il veto, dispensandoli dal prendere una deliberazione
grave e pericolosa. Ma Curione, con sorpresa universale,
restò silenzioso ed immobile sul suo banco. Egli voleva che
la proposta fosse approvata, per farne poi approvare un’altra
analoga per Pompeo. La proposta di Marcello potè dunque
essere messa ai voti e fu approvata con una gran maggioranza. Ma
allora prontamente, prima che Curione potesse intervenire, Marcello
riprese la parola e dichiarò di sottoporre al Senato l’altra
proposta, che era pur stata fatta: se cioè Pompeo doveva
abbandonare il comando. Così formulata, la proposta colpiva
direttamente Pompeo e suonava come violazione di una legge approvata
dal popolo; Marcello lo sapeva e per questo aveva voluto prevenire
Curione: infatti il Senato, pavido di offendere Pompeo, la respinse.
La sorpresa era riuscita; Curione e Cesare erano stati vinti
dall’astuto console; Marcello stava già per sciogliere il
Senato, allegro della sua grande vittoria. Ma Curione pronto si
alzò a domandar la parola e con un abile discorso
presentò al Senato un’altra proposta: che Cesare e Pompeo
dovessero abbandonare insieme il comando. La proposta era
così formulata, non più come una intimazione a Pompeo,
ma come una misura di equità e di concordia suprema, che solo
i cattivi cittadini potevano disapprovare. Tuttavia Marcello la mise
in votazione, sicuro che il Senato già impegnato dalla
votazione precedente l’avrebbe respinta e che la disfatta di Curione
sarebbe così stata intera e definitiva. Ma un’assemblea come
il Senato romano di allora, composta di dilettanti, di politicanti e
di affaristi, si contraddice senza vergogna a pochi minuti di
distanza. Al di là di Curione i senatori videro l’Italia,
sentirono il gran favore pubblico di cui la sua proposta aveva
goduto; e quando si venne a votar per divisione, 370 passarono dalla
parte del sì, 22 dalla parte del no474. Curione aveva vinto
ancora! Marcello congedò il Senato, gridando sdegnato che
avevan votato per la tirannide di Cesare.
Se non per la tirannide, certo il Senato, per desiderio di pace,
aveva deliberata senza volerlo e saperlo la guerra; perchè
quella votazione fu la causa occasionale e diretta della guerra
civile. Marcello e gli altri conservatori intransigenti capirono che
più delle magistrature ridotte a nomi contava ormai la
potenza personale degli uomini; che soli, neanche avendo il
consolato, non sarebbero riusciti a far nulla contro Cesare, molto
potente ancora non ostante le sue molte disgrazie, se non avessero
tratto a loro Pompeo. Pompeo, con il grosso esercito cui comandava,
con le ricchezze, le clientele, le parentele di cui disponeva, con
la gloria acquistata contava più di tutti i magistrati e
possedeva un’autorità sua, costante se non eterna, soggetta a
mutamento ma non caduca ogni anno con il cambio delle cariche; una
autorità maggiore che quella di Cesare e sola sufficiente ad
abbattere il demagogo della Gallia. Lo Stato già si
impersonava in pochi uomini potenti.... Per loro fortuna questa
stessa votazione, che stimolava i conservatori a uno sforzo supremo
per guadagnare Pompeo, spingeva questo, per altre ragioni, verso i
conservatori. Pompeo, che non aveva mai seriamente voluto rinunciare
al comando proconsolare, andò in furia contro Curione e
Cesare, quando seppe della votazione del Senato: non poteva cedere a
una intimazione di Curione, che evidentemente era sobillato da
Cesare; rinunciare a un diritto conferitogli da una legge per una
votazione di sorpresa strappata al Senato con raggiri da un tribuno
loquace e in con tradizione con una deliberazione approvata pochi
istanti prima; avrebbe forse annullati spontaneamente i suoi diritti
per la pace desiderata da tutta Italia, non capitolato per le mene
di un tribuno indebitato, arruffone, spregevole come Curione, egli
l’uomo che aveva trionfato ed era stato eletto console senza avere
esercitata nessuna magistratura; che aveva reso tanti servigi a
Roma, distrutti i pirati, vinto Mitridate, conquistata la Siria,
raddoppiate le entrate pubblidie, ristabilito l’ordine! Se Cesare, a
corto di denari e incapace di mantenere le stravaganti promesse
fatte a tanti, voleva confondere tutto con una guerra civile, egli
era pronto475. Si avvicinava il momento in cui la straordinaria
fortuna e la grandezza insolita cui era salito diventerebbero per
lui un impegno mortale....
Per questo improvviso consenso di rancori e di sdegni, la
conciliazione tra Pompeo e i conservatori, invano tentata da tanti
dopo il 58, potè avvenire in pochi giorni. L’esasperato
Marcello, immaginando la collera di Pompeo, si risolvè a
proporgli un espediente rivoluzionario: egli proporrebbe in Senato
di dichiarare Cesare nemico pubblico e se i tribuni intervenivano o
il Senato disapprovava, dichiarerebbe di autorità propria lo
stato d’assedio, incaricando Pompeo di provvedere alla cosa pubblica
e di prendere il comando delle due legioni di Cesare destinate alla
Persia, che ancora erano a Lucera; se Pompeo accettava, se
dichiarava di volere a tutti i costi che Cesare abbandonasse il
comando al primo marzo prossimo, il Senato avrebbe certamente
ceduto. Lettere e ambasciatori furon mandati in gran fretta e in
gran segreto a Napoli; e Pompeo, sorpreso quando ancora era nel
primo sdegno per la vittoria di Curione, accettò476. In pochi
giorni la situazione venne mutando a vista di tutti, per molti
segni, senza che i più, ignari di queste trattative,
capissero bene come e per qual cagione. Quando Cicerone, che
frattanto per la via Appia si avviava verso Roma, si fermò a
Napoli e fece, il 10 dicembre, una visita a Pompeo lo trovò
irritatissimo; e fu assai sorpreso e addolorato di sentirlo dire che
la guerra era sicura, che non era più possibile intendersi
con Cesare477. Perchè sicura, si domandava egli che non
conosceva gli intrighi tra Roma e Napoli, e non poteva quindi
spiegarsi il nuovo atteggiamento di Pompeo? Gli amici di Cesare,
specialmente Cornelio Balbo, erano inquietissimi: era evidente, si
sentiva nell’aria che i vinti del primo dicembre macchinavano
qualche grossa sorpresa; e intanto Cesare viaggiava tranquillamente
alla volta della Cisalpina, ignaro di tutto, fiducioso di trovar al
suo arrivo la notizia che l’accordo con il Senato sulla questione
del comando era conchiuso. Il 6 dicembre arrivò a Roma un
ufficiale di Cesare, Irzio, portando messaggi per Pompeo riguardanti
probabilmente questo accordo; e scese a casa di Balbo. Ma costui non
lo lasciò proseguire per Napoli; si incaricò egli di
trasmettere il messaggio al suocero di Pompeo, Scipione; e lo fece
tornar subito indietro, la notte stessa, perchè a marcie
forzate raggiungesse Cesare e gli descrivesse meglio che non
facessero le lettere già mandate quanto era mutata a un
tratto la condizione delle cose e quanti pericoli minacciassero....
L’astuto spagnuolo non si ingannava. In quei giorni voci sinistre
cominciarono a correre, messe certo in giro dai conservatori, che
Cesare aveva dato ordine all’esercito delle Gallie di varcare le
Alpi; e appena giunto il consenso di Pompeo, probabilmente il 9478,
Marcello convocò il Senato, fece un discorso violento in cui
trattò Cesare di brigante, propose di dichiararlo nemico
pubblico, ordinando a Pompeo di prendere il comando delle legioni,
che a Lucera aspettavano di essere imbarcate per la Siria. Ma
Curione dichiarò che erano tutte frottole e pose il suo veto.
Allora Marcello diè principio alla spettacolosa parata
già prima disposta: disse che siccome gli s’impediva
faziosamente di difendere la repubblica avrebbe provveduto per altre
vie che quelle della legge; abbandonò il Senato, uscì
di Roma il giorno stesso con uno stuolo di aristocratici arrabbiati;
e viaggiando rapidamente andò a Napoli, dove giunse il 13
dicembre per presentarsi a Pompeo479.
Questa partenza dovè gettare il pubblico ignaro degli
intrighi che l’avevano preparata in una perplessità ansiosa.
Avrebbe Pompeo accettata la temeraria offerta? Curione pensò,
il 10 dicembre, appena ritornato cittadino privato esser in ogni
caso buon consiglio per lui allontanarsi da Roma; e partì per
raggiungere Cesare, che frattanto era arrivato nella Gallia
Cisalpina e da Piacenza, scaglionando la sua legione lungo la via
Emilia480, se ne andava a Ravenna, per passarvi l’inverno, sempre
fidente che la pace sarebbe conservata.... Curione probabilmente lo
raggiunse in viaggio481. Ma verso il 18 o il 19 dicembre una notizia
terribile arrivò a Roma482, tre o quattro giorni dopo a
Ravenna: che Pompeo aveva accettato l’incarico di Marcello, con un
discorso in apparenza modesto e che si era messo in viaggio per
Lucera, dove presto giungerebbe a prendere il comando delle legioni.
Lo stupore, il furore, il terrore furono immensi, dappertutto. Gli
uomini imparziali degli alti ceti, specialmente i ricchi finanzieri,
disapprovarono, come disapprovava Cicerone, l’atto di Pompeo che
provocava la guerra483; i capi del partito cesariano a Roma andarono
sulle furie; Antonio convocò una concione popolare e vi
pronunciò un violentissimo discorso contro Pompeo, ricordando
il gran numero di condannati che avevano dovuto andare in esilio per
le sue leggi, lanciando invettive contro le sue minaccie
presenti484; i pochi conservatori arrabbiati esultarono. Finalmente!
Ma sconcertato più di tutti fu Cesare, quando, appena giunto
a Ravenna il 24 o il 25 dicembre485, la gran notizia lo
sbalzò dalla sicura confidenza della pace in cui aveva
vissuto sino ad allora, in mezzo ai pericoli di una situazione
impreveduta e minacciosa. Egli non poteva illudersi: quell’atto
così risoluto muterebbe ad un tratto l’opinione di molti
senatori che il primo dicembre avevano votato per il contemporaneo
ritiro dei due generali, credendo Pompeo incline ad accondiscendere.
Con la conversione di Pompeo gli ultimi avanzi di favore per lui
nelle alte classi sparivano; la discordia tra l’uno e l’altro
prendeva sempre più nettamente la forma di una lotta tra le
alte classi ed il popolo, tra la élite e la feccia, nella
quale tutte le persone dabbene avrebbe parteggiato per Pompeo,
mentre chi stava per Cesare era necessariamente un uomo
spregevole486; ben pochi avrebbero osato sfidare la collera di
Pompeo e meno ancora quella taccia di volgarità e quello
spregio che in mezzo alle alte classi, in cui i più dei
senatori vivevano, perseguitava i partigiani di Cesare, come
perseguita sempre, nelle lotte dei ricchi contro i poveri, i capi
del partito dei poveri. Se Pompeo si ostinava a voler che egli
abbandonasse il comando il primo marzo prossimo, egli doveva porsi
in aperta rivolta: tornare a Roma ed affrontare il processo
minacciatogli dai conservatori egli non poteva più, avendo
nemico Pompeo, che, dopo la revisione delle liste dei giudici, era
padrone dei tribunali. Troppo facilmente avrebbe potuto farlo
condannare!
Nel consiglio di amici che Cesare convocò, Curione propose di
far venire d’oltre Alpe l’esercito e di marciare senz’altro su Roma.
La guerra era ormai inevitabile: precipitarla, dunque. Ma Cesare non
volle ancora. Egli sapeva che se la conversione di Pompeo volgeva
contro di lui il mondo politico, l’opinione pubblica restava
favorevole alla pace487; e sperò ancora di poter frapporre
tra sè e le smisurate forze che i nemici volevano muovergli
contro l’Italia intera, implorante quiete civile. La feroce
età di Silla era tramontata; erano venuti meno i contrasti
terribili di classe che avevan provocata l’ultima grande guerra
civile: scatenarne un’altra per i meschini puntigli di pochi
politicanti era cosa mostruosa. Egli richiamò subito in
Italia due legioni, la dodicesima e l’ottava, e mandò ordine
a Caio Fabio di andare con tre legioni da Bibracte a Narbona, per
opporsi a una possibile marcia delle legioni che Pompeo aveva in
Spagna488; ma volle ancora trattare. Era il 25 o il 26 dicembre; il
Senato si sarebbe radunato il primo gennaio; se una ambasciata
avesse volato sulla via Flaminia, si poteva ancora giungere a tempo
a parare il colpo che certo i nemici si preparavano ad assestare in
quel giorno. Curione si dichiarò pronto a compiere questo
portento di velocità; Cesare scrisse una lettera al Senato ed
una al popolo; e Curione all’alba del 27 partì489. Nella
lettera al Senato Cesare dichiarava di esser pronto a deporre il
comando se Pompeo pure l’avesse deposto; se no avrebbe pensato a
difendere il suo diritto; in quella al popolo si diceva pronto a
venire uomo privato a render conto dell’opera sua e invitava Pompeo
a fare altrettanto490.
Gli ultimi giorni dell’anno scorsero ansiosi e tormentosi per tutti.
La dichiarazione di Pompeo aveva rivoltato gran parte del Senato e
delle alte classi, ridando ardire ai conservatori; tutte le persone
per bene, i ricchi, i capitalisti, i nobili, i grandi proprietari
non osavano più disapprovar Pompeo come in principio, ora che
lo sapevano così risoluto; gli amici dichiarati di Cesare si
vedevano accolti con diffidenza, trattati freddamente, sfuggiti,
negletti, come uomini sui quali sta per piombar la sventura; questo
mutamento dello spirito pubblico incoraggiava a sua volta Pompeo,
che irritato anche più dalle virulente concioni di Antonio
aveva dichiarato a Cicerone, il 25, nei dintorni di Formia, di non
volere assolutamente che Cesare ridiventasse console, nè nel
48 nè mai, perchè un secondo consolato di Cesare
avrebbe rovinata la repubblica. Se era così pazzo da fare una
guerra, ci si provasse; egli non ne aveva paura491. Il popolino
riottoso, che aveva favorito e ammirato Catilina, parteggiava ancora
solo per Cesare. Ma il pubblico era nel tempo stesso inquieto, pieno
di paure e di speranze chimeriche. Che cosa sarebbe avvenuto, nella
seduta del primo gennaio? Cicerone soffriva dubbi crudeli,
così da rimpianger quasi di aver lasciata la provincia: egli
era personalmente legato da riconoscenza a Pompeo più che a
Cesare, inclinava ormai più al partito di Pompeo che a quello
di Cesare, sentiva più vivamente, nell’imminenza della
rottura, il fastidio di non avere ancora pagati interamente i suoi
debiti con il proconsole delle Gallie; ma sopratutto voleva la pace,
una transazione con cui evitar la più assurda e funesta
guerra civile, che Roma avesse ancora veduta, tanto più che
egli – altra prova che non era uno sciocco – non si illudeva, come
molti, sulle forze di Cesare492. E poi che cosa avverrebbe del suo
sperato trionfo, se la guerra scoppiava? Ma più di tutti
Cesare dovè passare giornate torbidissime, nella piccola
città di Ravenna, asilo predestinato dei grandi uomini
dell’Italia nelle ore tempestose della loro esistenza. Noi non
sappiamo se lo scettico fatalismo in cui, tra tante lotte,
corruzioni, frodi e menzogne si era indurito il suo sentimento, lo
aiutasse a considerare con indifferenza anche questa suprema
traversia: certo è che egli avrebbe avuto ragione di provare
allora una specie di sordo rancore contro gli uomini, il mondo e la
sorte. A lui non era forse andato a rovescio tutto quello che a
Pompeo era riuscito prosperamente? Ambedue avevano corteggiata la
moltitudine, lusingate le passioni democratiche, corrotto il
popolino, combattuto il Senato e cercato di distruggere le vecchie
istituzioni, per acquistar gloria, potenza, ricchezza. Ma Pompeo non
aveva faticato a salire gradino per gradino la lenta scala della
gerarchia; era stato console tre volte, aveva celebrato parecchi
trionfi, era considerato per le vittorie su Mitridate e per la
conquista della Siria come il più grande generale del suo
tempo; aveva accumulato un immenso patrimonio e se lo godeva
placidamente in Roma, in mezzo alla considerazione del popolo e dei
grandi; era diventato il rappresentante delle alte classi, senza
perder l’ammirazione della moltitudine. Tutta la vita di lui era
stata un seguito di successi. Egli invece.... Che cosa aveva
guadagnato con tante fatiche? Aveva dovuto percorrere lentamente il
faticoso curricolo delle magistrature, farsi largo con lotte, con
intrighi, con perigli, in mezzo a nembi di odio; e quando finalmente
era giunto ad ottenere più che quarantenne una provincia dove
acquistar gloria e ricchezza, era capitato male; gli era toccato un
paese molto povero a paragone dell’Oriente e di difficilissima
conquista, dove aveva dovuto faticare dieci anni contro insurrezioni
continue.... E che cosa aveva guadagnato, definitivamente? Gloria
forse? Egli era allora l’uomo più spregiato ed odiato dalle
alte classi; il generale a cui ogni pacifico italiano che avesse
letto Senofonte credeva di poter dare consigli sul modo di finir
presto la guerra di Gallia. Ricchezze? Egli usciva da questa lotta
titanica quasi così povero come l’aveva incominciata, dopo
aver profuso tutto il guadagno dei saccheggi gallici nel corrompere
il mondo politico, senza altro patrimonio utile che lo splendido
servidorame di schiavi e di liberti, ben scelti, bene istruiti, ben
disciplinati: modello a tutti i signori del tempo suo. Ora poi molti
dei suoi beneficati gli si volgevano contro; e l’Italia gli
rimproverava i saccheggi di cui aveva divorate avidamente le prede,
la politica di cui aveva goduti i benefici. Ma quando egli spingesse
il guardo nel passato a ricercar la cagione di questa sorte
così diversa, egli non poteva non riconoscere che Pompeo era
stato così fortunato perchè aveva partecipato alle
carneficine di Silla, acquistando in quella crisi terribile una
grande considerazione presso le alte classi, che gli aveva servito
poi per tutta la vita, prima a diventar popolare passando ai
democratici, poi, acquistata la popolarità, ad avere onori,
provincie, comandi in guerra, trionfi, sino ad esser riconosciuto da
tutti come l’uomo necessario in ogni cosa. Egli invece si era
attirato addosso l’odio dei potenti negli anni della reazione; e da
quell’odio eran nati tutti i guai della sua vita: i difficili
principii, i debiti contratti per farsi conoscere, le prime lotte
con i conservatori, la necessaria rivoluzione del consolato, la
sfrenata politica imperialista con cui aveva dovuto cercare di
sostenere la rivoluzione democratica; quella fatale compromissione
con la demagogia da cui non aveva potuto mai liberarsi e che
minacciava di trarlo a rovina. Tutte le sue disgrazie erano la
conseguenza fatale della sua discendenza dal vincitore dei Cimbri e
delle prime e veramente nobili azioni della sua vita; della fede che
aveva tenuto in mezzo al terrore della reazione alla figlia e alla
memoria di Cinna; della fierezza mostrata verso Silla; dell’orrore
per il sangue fraterno. Se egli avesse allora tradito i vinti,
sarebbe stato anche egli, probabilmente, grande, fortunato e
potente!
Nelle disgrazie che perseguitavano Cesare era una profonda
ingiustizia: ingiustizia di cose, di uomini, di eventi. Che questa
ingiustizia non lo abbia esasperato in quella crisi terribile a un
odio universale degli uomini, è nello stesso tempo una prova
della potenza serena del suo spirito e una delle sue glorie
maggiori. La guerra civile sino a Farsaglia è forse la parte
più bella della sua vita: perchè egli vi fece prova di
una moderazione, di un senno, di una previdenza a lunga vista, che
compensano molte imprudenze e ferocie della guerra di Gallia. Anche
allora egli aspettava, fiducioso ancora nella pace, pieno di
speranza che la sua lettera ferma e moderata giungerebbe a tempo e
farebbe rinsavire gli arrabbiati, mentre Curione cavalcava senza
ripigliar fiato sulla Flaminia, valicava il selvoso e nevoso
Appennino.... Al primo gennaio infatti, quando il Senato si
radunò, la lettera era nelle mani di Antonio. Ma i consoli ne
temevano tanto l’effetto, che cercarono impedirne la lettura;
Antonio tanto più insistette per darne lettura, sperando che
opererebbe un altro di quei subiti rivolgimenti che si eran visti
così spesso negli ultimi tempi; seguì una lunga e
violentissima discussione, alla fine della quale soltanto Antonio
potè ottenere di leggerla493. Ma l’effetto fu disastroso per
i Cesariani. I Senatori, che la soggezione di Pompeo costringeva ad
esser nemici di Cesare ma che seguivano con ansietà questa
politica pericolosa, erano irritati, di malavoglia; e come succede
spesso a uomini in condizione di spirito somigliante sfogarono il
malumore, al primo pretesto, su Cesare questa volta, la cui lettera
fu accolta da proteste sdegnose, come indegna, insolente,
minacciosa494. Antonio dovè tacere sconcertato; il partito
conservatore, dimenticando che aveva cercato di impedire la lettura
di quella lettera, proruppe vittorioso; Lentulo e Scipione fecero
discorsi violenti, dicendo esser tempo di finirla con le
chiacchiere; i difensori di Cesare non poterono parlare che tra
grandi rumori; M. Marcello, il console del 51, che, pur essendo
conservatore aveva un certo giudizio e che osò domandare se
non fosse meglio, prima di provocare una guerra, vedere se la
preparazione era bastevole, dovè tacere, tanto fu sopraffatto
dalle invettive e dagli strepiti495. Pompeo aveva rassicurato sempre
i dubbiosi che gli avevano mosso questioni consimili, dicendo che
tutto era pronto. Così la proposta che si considerasse Cesare
nemico della patria se non abbandonava il comando prima del primo
luglio fu approvata496; e se l’intercessione di Antonio e di Quinto
Cassio potè per il momento togliere effetto alla
votazione497, i conservatori se ne dolsero poco: essi erano ora
sicuri di far votare quando volessero il decreto di stato d’assedio,
che avrebbe annullato il veto dei tribuni.
Da tutte le parti incominciò allora un disperato lavorio; da
tutte le parti proruppero i conciliatori zelanti, gli istigatori
maligni, i consiglieri inopportuni, i profeti funerei, i piagnoni
inconsolabili, che compariscono alla vigilia delle grandi crisi
sociali. La sera stessa del primo gennaio Pompeo fece venire a casa
sua molti senatori, li lodò, li esortò, li
invitò a trovarsi in Senato il giorno dopo. Intanto si
cominciavan le leve, si chiamavano a Roma i veterani498. Tuttavia
nella notte parve avvenire una certa reazione nell’animo dei
senatori: il giorno dopo i tribuni avendo posto il veto, i consoli
non osarono violarlo; il suocero di Cesare ed il pretore Roscio
domandarono una sospensione di sei giorni per tentare un accordo;
altri domandarono che si trattasse per mezzo di ambasciatori499. La
fortuna volle che il 3 ed il 4 il Senato non tenesse seduta, che il
4 gennaio Cicerone giungesse ai sobborghi di Roma, accolto
festosamente dalla parte più ragionevole del Senato, che
desiderando pace sperava nell’opera sua500. Ed egli si mise subito
all’opera alacremente, parlò con i capi dei partiti e propose
che a Cesare si concedesse di domandare il consolato in assenza e
che durante l’anno del suo consolato Pompeo si recasse in Spagna501.
Nel tempo stesso Curione aveva ricevuto nuove proposte, più
moderate ancora, da Cesare: era pronto a contentarsi della Gallia
Cisalpina e dell’Illirico con due legioni502. L’incontro di queste
due proposte parve un momento precipitare in bene gli eventi.
Pompeo, che forse era impressionato dalla malavoglia con cui le
popolazioni si facevano arruolare, diede incarico segretamente ad un
giovane il cui padre era generale nell’esercito di Cesare, Lucio
Cesare, di andare a trattar pace: Lucio Roscio, cui Pompeo aveva
dichiarato che inclinava ad accettare le ultime condizioni di
Curione, partì per suo conto, per recarsi anch’egli da
Cesare503. Ma Lentulo, Catone, Scipione corsero alla riscossa;
circuirono ed intronarono Pompeo di proteste: Cesare gli tendeva
un’insidia, non fosse così stolto!504 L’esitazione di Pompeo
si era riflessa nella esitazione del Senato, che il giorno 5 e 6
aveva discusso senza deliberar nulla. Ma alla fine del 6 Pompeo era
riconquistato da conservatori arrabbiati, Cicerone e Curione
battuti; ed il giorno 7 lo stato d’assedio era decretato505; Antonio
e Quinto Cassio partivano precipitosamente da Roma, dove non si
sentivano più sicuri. Finalmente! Dopo un anno e mezzo di
lotte, di intrighi, di raggiri, l’odiato nemico era stato distrutto:
egli non sarebbe più console se non dopo una guerra civile;
la tentasse, se osava! Essi avevano l’impero, lo Stato, il suo
tesoro, il più celebre dei condottieri, il più
illustre dei cittadini; Cesare avea solo undici legioni, di cui due
novizie e le altre stanche di tante guerre, una piccola provincia e
la Gallia di recente domata e nemica. Egli non avrebbe mai osato, si
pensava comunemente, invadere l’Italia, lasciandosi alle spalle i
Galli appena vinti; si sarebbe al più tenuto sulla difesa
nella valle del Po506. Nei giorni seguenti si tennero sotto la
presidenza di Pompeo varie sedute del Senato quetamente e senza
soverchie molestie dei tribuni, si ascoltarono le rassicuranti
dichiarazioni di Pompeo sulla situazione militare, e da una
maggioranza docile si fecero approvare le buone misure: si mise a
disposizione di Pompeo il tesoro dello Stato, le casse dei municipi
e le casse private, autorizzandolo a far prestiti forzosi507; si
distribuirono ai favoriti del partito conservatore le migliori
provincie. Scipione ebbe la Siria, Domizio la Gallia Transalpina,
Considio Noniano la Cisalpina508. Si dispose infine per una gran
leva di 130 000 uomini e a questo scopo si divise l’Italia in
tante circoscrizioni, per ognuna delle quali si scelse un senatore
conosciuto e possidente nei luoghi che si incaricasse di farvi leve,
adoperando anche la autorità sua personale: Cicerone per
Capua509; Domizio per il territorio de’ Marsi; Scribonio Libone per
l’Etruria; Lentulo Spintere per il Piceno. Il governo conservatore
pareva già restaurato.
Quando la mattina del 14 gennaio510 tutta Roma fu sbalordita al
levarsi da una notizia inattesa, fulminante. Cesare aveva varcato il
Rubicone ed occupata Rimini con immense forze; i primi fuggiaschi
davanti all’invasione erano giunti a Roma trafelati e spaventati; il
capo della demagogia, degli avventurieri, dei disperati marciava su
Roma.
XII.
“BELLUM CIVILE”
(Gennaio-Febbraio 49).
Lo spavento esagerava smisuratamente le notizie; ma l’opinione che
Cesare si sarebbe tenuto sulla difesa nella valle del Po era una
illusione dei comodi strateghi del foro. Forse il 4 gennaio Cesare
sapeva già quale accoglienza il Senato avesse fatta alle
proposte di conciliazione; e ormai persuaso che le epistole non
operavano nessun mutamento, si era trovato a un tratto in
balìa di una tempesta di propositi mutevoli, di incertezze,
di esitazioni. Che risolvere? Aspettare senza far nulla o scrivendo
inutili lettere il termine del luglio fissato dal Senato, nella
speranza di qualche fausto mutamento, era pericoloso, perchè
i nemici si sarebbero imbaldanziti, avrebbero avuto agio a muovergli
contro le grandi forze di cui disponevano, a prepararne altre, a
seminar la discordia tra i soldati. Già da un pezzo gli si
sussurrava che Labieno stesse trattando in segreto con i suoi
nemici511... Bisognava fare qualche cosa, agire, adoperare la
medicina più vigorosa di una minaccia: ma come, senza
precipitare la guerra civile da lui non voluta? In mezzo
all’ondeggiamento dei vari propositi pensati, abbandonati,
ripensati, il suo pensiero si fermò in quei giorni qualche
volta sopra un disegno: prender all’improvviso Rimini, la prima
città dell’Italia oltre il confine del Rubicone, muovere da
Rimini ad occupare altre città importanti, mostrare al Senato
e a Pompeo con questo atto che non aveva paura di una guerra civile,
che se proprio lo provocavano a un duello mortale, si difenderebbe
disperatamente; e poi trattare di nuovo. La paura se non la ragione
li renderebbe forse più arrendevoli. Ma quale sarebbe stata
l’impressione immediata di quell’atto rivoluzionario, specialmente
sui soldati? Il contegno di questi, a mano a mano che la bufera si
avvicinava, era la maggior cagione di ansietà per lui, per
gli amici, per i nemici. Questo esercito stanco di tante guerre lo
avrebbe seguito anche nell’avventura di una nuova guerra civile?
Cesare si era studiato nei dieci anni precedenti di cattivarsi i
soldati con una alterna vicenda di severità e di dolcezza:
richiedendo una disciplina rigorosissima e uno zelo straordinario
nel servizio, facendo frequenti sorprese alle legioni per verificare
se tutto era in ordine, castigando con una giustizia di inflessibile
fermezza e di prontezza fulminea tutte le mancanze agli obblighi
militari; ma compensando splendidamente servigi e fatiche,
prodigando ai soldati oro e regali, curandone il benessere
materiale, aumentando il numero delle legioni anche a costo di
assottigliarle per moltiplicare i posti di centurione, incoraggiando
nei soldati l’amore al lusso, il gusto delle armi, degli elmi, delle
corazze dorate, trattandoli con una amichevole cordialità,
permettendo loro ogni licenza fuori di servizio, cercando ricordarsi
il nome e la storia di tutti, esaltandone il valore nei documenti
pubblici e nei Ricordi. I soldati, quasi tutti poveri contadini
della valle del Po, dovevan sentirsi molcer soavemente le orecchie e
l’anima quando vedevano questo patrizio di Roma presentarsi a loro
con il purpureo paludamento proconsolare e lo udivano arringarli
chiamandoli, non “soldati”, ma “compagni miei!”512 E certo i soldati
lo amavano molto.... Eppure il rispetto di quella immensa finzione
legale a cui si era ridotto in gran parte il governo di Roma era
ancora così grande; il Senato, le magistrature, tutta la mole
monumentale della vecchia repubblica erano ancora tanto venerate,
specialmente dalla plebe italica! Un momento di esitazione, di
sfiducia, di paura al principio della guerra; e questi sentimenti
secolari potevano prorompere, soverchiare l’affetto per lui.
L’esercito di Gallia si sarebbe in tal caso disfatto e disperso....
I sei sette giorni che seguirono furon tra quelli più pieni
di ansietà e di esitazione che Cesare abbia vissuto513. Alla
fine però la notizia che lo stato d’assedio era proclamato a
Roma il 7 gennaio, mandatagli con corrieri celerissimi dai tribuni
fuggiaschi, risolvè il lungo dubitare in uno di quei
subitanei impeti di audacia, che di tempo in tempo lo avventavano
quasi fatalmente verso il futuro. In un baleno, probabilmente la
mattina del 10, egli prese la risoluzione suprema; e subito corse
all’azione con la consueta rapidità; comunicò il
disegno a quei pochissimi amici e ufficiali che eran con lui e che
dovevano accompagnarlo, tra gli altri ad Asinio Pollione; prese con
loro le disposizioni opportune: siccome nessuno ne doveva saper
nulla, perchè la voce non volasse sino a Rimini, ciascuno
uscirebbe al cader della notte dalla città solo, per una via
diversa; il ritrovo sarebbe presso le cinque coorti che aveva
già avviate, sotto il comando di certo Ortensio, verso il
Rubicone e con le quali prima dell’alba occuperebbero Rimini; egli
penserebbe a sviare nella giornata l’attenzione del pubblico.
Infatti si mostrò tutto il dì per Ravenna; andò
a prendere un bagno; assistè a uno spettacolo pubblico;
esaminò i disegni di una scuola di gladiatori; diede la sera
un gran pranzo, mostrandosi dovunque sereno e tranquillo, per tutta
questa giornata suprema della sua vita, quando stava per affrontare
un rischio terribile. Se la sua intenzione era conosciuta, se Rimini
chiudeva le porte, egli non avrebbe con 1500 uomini potuto
prenderla; ma violando il confine d’Italia inutilmente, senz’altro
frutto che lo scorno di un insuccesso, avrebbe provocata subito la
guerra. A metà del pranzo disse di dover lasciare per poco
tempo i convitati per una faccenda improvvisa del suo ufficio;
montò sopra un carretto di mercante; uscì da Ravenna
per un’altra via che quella di Rimini; ma fatta un poco di strada
volse il cammino, giunse alle coorti, trovò gli amici, fece
svegliare i soldati, ordinò loro di porsi in via senza altra
arma che la spada; e quando gli Ariminesi si svegliarono all’alba
dell’11 gennaio, egli era già con 1500 legionari nella
città514. L’audacia aveva avuto felice riuscita. Trovato a
Rimini Antonio, l’antico generale di Gallia, il tribuno scacciato da
Roma, Cesare lo mostrò ai soldati, pateticamente vestito
degli abiti di schiavo con cui era scappato; pronunciò un
vigoroso discorso, promettendo grandi ricompense, protestando di far
per loro quanto poteva, affermando che voleva difendere la
libertà del popolo contro la tirannia delle fazioni; ottenne
dai legionari sorpresi ed esultanti il giuramento di
fedeltà515; mandò Antonio alle altre cinque coorti che
erano sulla via Emilia, probabilmente vicino al luogo dove ora
è Forlimpopoli516, con l’ordine di valicare l’Appennino e
prendere Arezzo; e con le sue cinque coorti occupò nei giorni
successivi le principali città della costa: Pesaro, Fano,
Ancona....517 Egli non intendeva, ciò facendo, di cominciar
la guerra. L’avrebbe potuto con poco più di 3000 soldati?518
Voleva solo accaparrarsi un pegno con cui trattar pace a condizioni
migliori; mostrare ai suoi nemici che, se provocato, avrebbe
risposto alla violenza con la violenza. Difatti quando Roscio e
Lucio Cesare, intorno al 19 gennaio519, lo trovarono, certo in una
delle città della costa adriatica già occupate, egli
propose loro queste condizioni: Pompeo si recasse in Ispagna, si
congedassero tutte le milizie reclutate in Italia, si lasciassero
fare i comizii in Roma vuota di milizie; ed egli abbandonerebbe le
provincie e verrebbe a Roma a domandare il consolato in persona520.
Ma avvenne a Cesare quel che avviene così spesso in tutte le
lotte della vita, quando due nemici cercano di spaventarsi a vicenda
per costringersi l’un l’altro a conchiudere pace: che egli
fallì lo scopo suo non perchè non riuscisse a
spaventare abbastanza, ma perchè spaventò troppo. Il
14, il 15, il 16 gennaio le notizie delle successive occupazioni
lungo la costa adriatica si seguirono a Roma come fulmini, che
scoppiavano sopra, a destra, a sinistra, uno più sfolgorante
e tonante dell’altro, spaventando in modo indicibile. Rimini
occupata, Pesaro occupata, Fano occupata; l’Etruria sgombrata da
Libone che impaurito si era ritirato precipitosamente a Roma!521 Era
evidente: Cesare incominciava la guerra senza nemmeno aspettare la
primavera; lanciava sull’Italia le legioni e i barbari cavalieri di
Gallia, per prendere Roma; tra pochi giorni, arriverebbe!522 Nessuno
sapeva o rifletteva che Cesare aveva solo 3000 uomini; e nello
spavento l’accordo tra Pompeo e il Senato che pareva pochi giorni
prima profondissimo, saldissimo, eterno, si ruppe; l’egoismo, la
diffidenza, il disprezzo reciproco, la vigliaccheria latenti in
quella come in tutte le classi dirigenti delle età mercantili
risaliron dal basso, intorbidando e confondendo ogni cosa, simili
alle melme putride di uno stagno di cui si rimescola il fondo.
Cesare non avrebbe mai supposto tanto effetto a così piccolo
atto. Giammai si era visto in Roma così repentino mutamento
di spiriti e una confusione più grande. Il maggior numero dei
senatori, che era stato tratto a forza e riluttante alla guerra,
inferocì contro la piccola minoranza conservatrice e
specialmente contro Pompeo; accusò costui di imprevidenza e
avventatezza; si pentì di non aver accettate le proposte di
Cesare; trovò giusto che i due più potenti cittadini
deponessero insieme il comando523. Questo improvviso rivolgimento e
questa violenta esasperazione sconcertò profondamente i
consoli, i capi del partito conservatore, tutti coloro che erano
responsabili della rottura, anche essi già turbati dalle
notizie di Rimini: i preparativi che il giorno 12 erano fatti
alacremente524 furono interrotti: il Senato non fu convocato
nè il 14, nè il 15, nè il 16 perchè i
consoli temevano che i senatori impauriti voterebbero una resa a
discrezione; i consoli e Pompeo non potevano mettersi d’accordo per
nessun provvedimento525; i colloqui tra i capi del partito
conservatore si seguivano senza che si venisse a nessuna
conclusione; da mattina a sera senatori e magistrati spauriti
venivano nelle case di Pompeo a domandar notizie, a lamentarsi, a
chiedere e a dar consigli, a raccontare come sicure le più
stravaganti dicerie che correvano per Roma; e nella confusione di
quelle giornate i liberti e i servi non riuscivano a trattener
più nessuno: tutti passavano e andavano a sfogare su Pompeo
le proprie ansie, lo spavento delle voci che correvano, la sorda
irritazione del pericolo in cui intravedevano di trovarsi;
compiacendosi amaramente di ingrandire davanti a lui la propria
disperazione, infuriandosi e rispondendo arrogantemente quando non
trovavano corrispondenza o conforto alla propria ansietà526.
Grande era anche lo spavento tra tutti i ricchi, paurosi di una
rivoluzione sociale che li spogliasse dei beni527. Ma Pompeo subiva
una crisi ben altrimenti terribile! Sorpreso e sconcertato da questo
pandemonio di notizie, di recriminazioni, di sbigottimenti, di
eventi inaspettati, a un tratto, quando da lungo tempo era
disavvezzo dagli intensi e rapidi sforzi nervosi di cui Cesare aveva
fatto tanto esercizio in Gallia; indebolito dalle malattie, persuaso
che ci sarebbe tempo di pensare comodamente alla guerra, Pompeo era
come paralizzato nella volontà e nel pensiero, proprio quando
in mezzo allo sbigottimento universale egli avrebbe dovuto essere la
volontà ferma di tutto; non riusciva ad orientarsi tra tante
notizie e consigli contradittori, a sapere quante forze avesse
Cesare528, se Roma era minacciata davvero; temeva, ma non voleva
mostrarlo, e perciò non deliberava, non faceva nulla; si
sdegnava ma non reprimeva nemmeno la insolenza improvvisa dei
senatori che quasi lo insultavano; riceveva passivamente le
recriminazioni, gli sfoghi disperati, i consigli, la pioggia di
notizie infauste: Pesaro occupata, Fano occupata.... L’aristocratica
indifferenza della sua natura e l’orgoglio della propria grandezza
gli davano la forza di contenersi spregiando: ma sotto quella
apparente tranquillità e negligenza gonfiava una collera
sorda contro il Senato e il partito che lo aveva spinto alla guerra
e che ora, al primo cimento, quasi lo abbandonava; in quella inerzia
ansiosa si irritava una straordinaria esasperazione d’orgoglio e di
vendetta contro Cesare, che infliggeva la umiliazione di quelle
giornate a lui, il primo personaggio dell’impero; una smania
inquieta di mostrare al mondo che egli saprebbe vendicare
terribilmente la sua grandezza offesa dal demagogo.... Tre giorni
passarono, senza che si deliberasse nulla; senza che nessun
magistrato facesse niente.... Ma quando il 17529 giunse alla fine
notizia che non solo Ancona ma anche Arezzo era occupata, questa
inerzia ansiosa proruppe in un tumulto di deliberazioni precipitose.
Anche Pompeo cedè allo spavento530; argomentò che
Cesare avesse grandi forze e volesse tentare una sorpresa su Roma,
facile dopo la ritirata di Libone dall’Etruria; pensò che
Roma non si poteva difendere; e deliberò ritirarsi a Capua,
dove si avrebbe avuto tempo a raccogliere un esercito. Catone si
indusse a proporre che Pompeo avesse i pieni poteri, i consoli a
proporre il decretum tumultus. Nel giorno stesso il Senato fu
radunato; e Pompeo ci venne, tranquillo e indifferente di fuori,
sdegnoso e irritato di dentro, ma senza propositi ben definiti,
tranne quello di abbandonar Roma e di spingere le torme riluttanti
dei senatori a una guerra, in cui provare a tutto il mondo la
superiorità sua sopra Cesare. Egli non poteva consentire a
una pace, cui paresse costretto dalla paura; e d’accordo con i
consoli con Catone e i pochi amici, aiutato dallo spavento dei
ricchi, che per paura del nuovo Cinna volevano misure energiche e
imploravano soltanto soldati e difese, seppe imporre al pavido e
incerto Senato la guerra. La seduta fu agitata, confusa, lunghissima
e piena di contradizioni: molti rimproverarono Pompeo di
imprevidenza531; Volcazio Tullo e Cicerone proposero di mandare
ambasciatori a Cesare per trattar la pace532; Catone invece propose
di dare i pieni poteri per il governo della guerra a Pompeo533.
Questi tollerò con flemma sdegnosa i rimproveri; non nascose
alcuna parte della verità534; disse tranquillamente che
provvederebbe alla difesa dell’Italia, ma si oppose energicamente
alla proposta di Tullo, affermando equivarrebbe a mostrar paura535.
E il partito della guerra prevalse per l’unione di Pompeo e dei
consoli; la proposta di Catone fu approvata536; fu decretato il
tumultus. Allora Pompeo dichiarò il suo piano: i consoli e il
Senato dovevano abbandonar Roma, ritrarsi a Capua e portarvi il
tesoro, per preparare con miglior agio i mezzi necessari a scacciare
l’invasore dall’Italia; aggiungendo che egli punirebbe le
città le quali aprissero le porte a Cesare e considererebbe
come nemici tutti i senatori che non lo seguissero fuori di Roma537.
Non si fidava più del Senato e voleva averlo in suo potere:
ma questa imposizione era un vero colpo di Stato, quale nemmeno
Silla aveva osato mai! Pompeo, sebbene si conservasse freddo in
apparenza, era troppo irritato dal pericolo, troppo sdegnato contro
il suo partito di cui non si fidava più, troppo vivamente
ferito nell’orgoglio; e precipitava a violenze, come tutti gli
uomini che hanno perduta la calma....
Sembra che Pompeo uscendo dal Senato partisse subito per Capua. Era
già sera538, e molti senatori, che non si erano fatti
accompagnare dagli schiavi portatori di lampade, restarono a passar
la notte nella Curia non volendo avventurarsi per Roma che non aveva
luci; mentre i colleghi andavano a casa: ma in quale agitazione, gli
uni e gli altri! I fastidi di così precipitosa partenza erano
innumerevoli: e l’aristocratico e ricchissimo Pompeo, che aveva
tanti schiavi, tanti procuratori, tanti denari, tanti amici e
clienti per il mondo, non aveva pensato che il maggior numero dei
senatori era molto più povero di lui, quando aveva intimato
così bruscamente lo sgombro. Delle numerose familiae di
schiavi che ognuno aveva in casa, che fare? Lasciarle in Roma senza
padrone, quando probabilmente il disordine della guerra civile
avrebbe rincarato il grano e fomentato lo spirito di rivolta nei
servi?539 Dove mandare le donne e i figliuoli?540 Bisognava inoltre
interrompere i propri affari e quel faticoso arruffio di compre e di
vendite, di debiti e di crediti con cui tanti differivano un
inevitabile fallimento. Molti non avevano nemmeno tanto denaro
pronto che bastasse a un viaggio probabilmente lungo e difficilmente
potevano procurarsene; gli amici erano in bisogno; il commercio
delle syngraphae quasi sospeso; i prestiti difficilissimi,
perchè i capitalisti paventavano l’imminente guerra
civile541. Tuttavia l’intimazione di Pompeo era inesorabile! E il
maggior numero si risolvette in quel tumulto a partire con Pompeo,
più che per sentimento sincero, per un pregiudizio di classe,
per la paura di esser considerati partigiani della folle demagogia
popolare e di esser travolti nella sicura rovina di questa: si
risolvè per Pompeo anche Caio Cassio, il questore di Crasso,
anche suo cognato Bruto, cui pure Cesare era stato quasi secondo
padre in luogo del padre vero, che Pompeo gli aveva ucciso a
tradimento nella rivoluzione di Lepido, a Modena. Bruto non aveva
sino allora voluto mai essere amico di Pompeo; ma in questa crisi
suprema anch’egli cedè. Solo pochi furon per Cesare: tra gli
altri Sallustio e Celio per vendetta delle persecuzioni di Appio
Claudio, Dolabella lo scapestrato genero di Cicerone, Asinio
Pollione, per amicizia. La notte istessa si cominciarono i
preparativi in molte case; e il dì dopo Roma fu piena del
tumulto di tanti signori e magistrati che si preparavano a partire;
ma straccamente, a rilento, tante disposizioni avevano da prendere;
tanto molti cercavano indugiare di proposito sperando che qualche
evento li trattenesse; tanto la malavoglia faceva tutti pigri! Per
avere il denaro del viaggio, molti ricorsero ad Attico, che mise a
disposizione degli amici le sue grandi somme nascoste nelle cantine
della casa o depositate nei templi di Roma542. Eppure pochi si
risolvevano a partire; e chi sa quanto molti avrebbero prolungato
ancora i preparativi, se per fortuna di Pompeo il 18 non fosse corsa
una voce falsa: che Cesare era già in via per Roma, alla
testa della cavalleria gallica!543 A Roma scoppiò un panico:
i consoli partirono subito senza vuotare e caricar sui muli il
tesoro; i più pigri misero le ali, i più impacciati
ruppero in un baleno tutti gli impedimenti; e nella giornata la via
Appia formicolò di lettighe, di schiavi, di carrette, di
giumente. Un gran numero di senatori, di cavalieri, di denarosi
capitalisti, di liberti e plebei agiati, tutta la società
ricca e colta544 usciva di Roma; lasciando – stranezze delle
rivoluzioni – le donne, i bambini, gli schiavi in una città
in cui si credeva piomberebbe Cesare e la cavalleria gallica!
Cicerone era già partito prima del panico, all’alba del
18545; ma molto di cattivo umore. Non aveva osato rifiutare la
missione di Capua, la settimana prima; ma ne era pentito,
desiderando mantenersi più che potesse imparziale tra i due
partiti, per motivi nobili e per motivi umani; per la paura di una
guerra civile in cui gli animi sarebbero presto inferociti; per la
noia di combattere in una contesa di cui non sentiva l’importanza;
per la speranza di poter pacificare i due guerrieri nemici, egli
l’uomo della penna, con la sola forza dell’ingegno e della dottrina.
Dopo l’abbandono di Roma egli aveva trovato il necessario pretesto
per rifiutare la missione: e recatosi da Pompeo, probabilmente prima
della partenza sua da Roma, gli disse che, ora che Capua diventava
il posto avanzato dell’esercito di Pompeo, egli non poteva
più governarla senza milizie, rinunciava quindi all’incarico,
accettando in cambio di sorvegliare la pianura e le coste del
Lazio546. In mezzo a tanta ansietà gli recava qualche
conforto il pensiero che suo genero Dolabella parteggiava per
Cesare: era una vergogna per la famiglia; ma sarebbe stata una
fortuna, se Cesare vinceva. Dolabella avrebbe interceduto presso il
vincitore....547
Cesare intanto, occupate Ancona e Arezzo, aveva ancora mandato
Curione il 19 gennaio a occupare Gubbio, facendo fuggire il pretore
Termo con cinque coorti548; e si era fermato, aspettando l’effetto
delle sue mosse e l’arrivo dei rinforzi: perchè con 3000
uomini non poteva avanzarsi più oltre. Ma ben presto gli
avvenimenti da lui mossi precipitarono, trascinandolo oltre il punto
a cui egli aveva mirato. La partenza da Roma di Pompeo, dei consoli,
di tanta parte del Senato lo inquietò: voleva forse Pompeo,
sequestrando i magistrati legittimi, togliergli modo di negoziare
con loro una pace equa e costringerlo a quella gran guerra
attraverso l’impero, che egli paventava? Subito egli scrisse e fece
scrivere a molti senatori partenti, tra gli altri a Cicerone,
affinchè restassero a Roma549. Ma un pericolo maggiore
minacciava da Osimo. Azio Varo armava rapidamente molte coorti e si
diceva volesse assaltare il nemico, che aveva soli 3000 uomini
dispersi in un largo triangolo tra Arezzo, Ancona e Rimini; onde
Cesare, per non esser sorpreso così malamente, dovè
radunare la sua legione sulla costa dell’Adriatico, forse ad Ancona,
ordinando a Curione e ad Antonio di sgombrare Gubbio ed Arezzo550,
tanto è vero che Arezzo era stata occupata solo per far
paura. In quella, ecco giungere, verso la fine di gennaio, la
risposta alle sue condizioni di pace. L’ambasciatore di Pompeo,
ritornando dal colloquio con Cesare, aveva incontrato i consoli e
molti senatori a Teano in viaggio per Capua551; i più
così malcontenti per la partenza improvvisa e per la
pericolosa avventura di cui nessuno vedeva chiaramente la fine, che
quasi tutti erano disposti ad accettare le proposte, non ostante che
Pompeo fosse assente. Cesare voleva la pace, il Senato voleva la
pace: come non sarebbe stato possibile conchiuderla? Ma gli uomini
non governavano più gli avvenimenti. Nella radunanza di Teano
si era infatti aggiunta alle proposte di Cesare la condizione che
Cesare dovesse ritirarsi nella provincia, affinchè il Senato
potesse deliberare con piena indipendenza552. Puntiglio o diffidenza
aveva suggerito questa condizione? Probabilmente l’uno e l’altro
motivo, come avviene in tutte le lotte. Ma se gli amici di Pompeo
avevano posto questa condizione per puntiglio e per diffidenza,
Cesare sapeva quanto facilmente i nemici suoi potrebbero cavillando
ritrovare un pretesto alla guerra, se un momento si sentissero
più forti. Azio Varo continuava ad armar soldati; e
affinchè la pace potesse concludersi bisognava che egli non
ricevesse, durante le trattative, nemmeno una piccola sconfitta, la
quale avrebbe imbaldanzito di nuovo i conservatori alla tracotanza
di condizioni impossibili. Egli doveva, per non perdere il vantaggio
dell’acquistato, procedere subito; onde, quando ebbe sotto mano
tutta la sua legione, probabilmente il primo febbraio, avanzò
verso Osimo, prese la città con una breve e poco sanguinosa
scaramuccia; sconfisse Varo, fece passare a sè con promessa
di buon stipendio molti dei soldati553; si impadronì di
Cingoli e di tutto il Piceno554; poi raggiunto di lì a
qualche giorno, forse il 3 febbraio555, dalla dodicesima legione556,
si avanzò verso Fermo557, con l’intenzione di marciare su
Ascoli, che Lentulo Spintere occupava con dieci coorti.
Queste mosse, a cui Cesare era stato costretto per non correre un
rischio supremo, distruggevano le trattative di pace, al momento in
cui parevano conchiudersi. Il destino spingeva a guerra gli uni
contro gli altri, anche i più riluttanti. Ma ogni giorno le
forze di Cesare parevano crescere, scemare e confondersi quelle dei
suoi nemici. Queste prime e ardite operazioni, il disordine che egli
aveva inopinatamente gettato tra gli avversari, la fuga di Pompeo,
la signoria di parte dell’Italia allenavano quasi alla guerra civile
l’esercito, conducendolo alla rivoluzione per gradi e dandogli
confidenza; a rinfocolare l’ardore del quale l’aiutava la fortuna,
era corsa voce che Cesare darebbe il censo di cavaliere a tutti i
soldati che lo seguirebbero; e la speranza di questo premio aveva
ancor più esaltata la vecchia ammirazione dei soldati di
Gallia per il loro imperator558. Invece Pompeo non poteva governare
efficacemente la guerra nemmeno con i pieni poteri. I magistrati e
tanta parte del Senato che egli aveva costretto per ira e per
diffidenza a uscir di Roma con lui gli erano divenuti presto un
impedimento, specialmente dopo che aveva saviamente risoluto di
recarsi a Lucera a prendere il comando delle due legioni e fare in
quella città la radunata di tutte le milizie che si
raccoglievano lungo la costa adriatica559. Come trasportarsi dietro,
per villaggi e per piccole città dove tanta moltitudine non
trovava alloggio, il Senato che non aveva nulla da fare, che lo
disturbava anzi con la baraonda dei discordi pareri? Egli per
ciò aveva abbandonato tutti a loro stessi dopo pochi giorni;
e il Senato si sparpagliava per la Campania; i consoli in un luogo,
i pretori e i tribuni in altri, la folla dei senatori dappertutto,
per le ville solitarie, nelle campagne invernali deserte e tristi,
aspettando ciascuno gli eventi. Ma è facile capire quanto
questa dispersione infiacchisse la difesa del partito conservatore.
I corrieri non sapevan più dove e a chi recapitare le
lettere; Pompeo e i consoli ignoravano a volte notizie
importantissime, già conosciute dagli altri560; gli ordini
arrivavano troppo tardi e quasi snerbati dalla distanza. Così
gli arruolamenti procedevano lenti, tra la malavoglia universale561;
e quando Pompeo aveva mandato da Lucera ai consoli a Capua il
tribuno Caio Cassio con l’ordine di andare a Roma a prendere
l’erario, i consoli non avevano obbedito, allegando la poca
sicurezza delle strade562. Anche l’erario era dunque abbandonato al
nemico! Gli animi dei senatori, già depressi per l’andamento
della guerra, per l’abbandono di Roma, per i danni che soffrivano da
tanto scompiglio, si avvilivano ancor più nella solitudine
delle ville e delle piccole città, dove le notizie arrivavano
tardi e come fioche voci di un mondo lontano lontano.... Chi avrebbe
potuto infervorare all’ardore della guerra questa gente stanca e
snervata? Un poco di conforto recò la notizia che Labieno
aveva davvero abbandonato Cesare ed era passato alla parte di
Pompeo, non sappiamo bene per quale motivo. Pare che da un pezzo
fossero incominciati dissapori e malumori tra Cesare e Labieno; che
dopo la guerra contro Vercingetorice nella quale Labieno aveva vinto
tra i Senoni e i Parisi le sole vere e grosse battaglie di quella
campagna, questo oscuro plebeo, che l’amicizia di Cesare aveva
arricchito e innalzato alla condizione di un gran personaggio del
tempo, si fosse illuso di essere maggior guerriero di Cesare e
indotto a credere anche egli, come tanti, che la fama guerresca del
suo generale era in gran parte immeritata. A ogni modo la defezione
di Labieno sollevò un poco gli spiriti dei pompeiani; ma
grande era pur sempre il malcontento di questi; anche di Cicerone
che andava e veniva continuamente da Formia a Capua, impaziente di
saper notizie e sempre agitato da sentimenti diversi; ora indignato
contro Cesare per la sua audacia, ora contro Pompeo per la sua
inerzia, ora ritornando ai suoi favoriti disegni di composizione e
interposizione. Il 10 febbraio si erano trovati sul suo podere di
Formia diversi amici e membri influenti del partito pompeiano: C.
Cassio, M. Lepido, L. Torquato e discutendo a lungo la condizione
delle cose avevano tutti conchiuso che, se una battaglia era
inevitabile, essa doveva esser la sola; dopo, tutti gli uomini di
buona volontà avevano a unirsi per far smettere al vinto il
proprio puntiglio e conchiuder la pace563.
A questa dispersione di voleri nei conservatori corrispondevano in
Cesare una splendida risolutezza, coerenza, rapidità. Giunto
a Fermo egli aveva saputo che Ascoli era sgombra, che Lentulo,
spaventato dalla rapidità e dalla forza doppia di Cesare, si
era ritirato, cedendo per via il comando a Vibullio Rufo564, su
Corfinio, dove Domizio Enobarbo raccoglieva un forte corpo e dove si
ritirava pure da Camerino, con molti soldati, Lucilio Irro. I
nemici, fuggendo, lo costringevano a slanciarsi innanzi. Ormai egli
capiva essere vano sperare che si potesse ancora conchiuder la pace
con trattative, senza combatter prima una battaglia che piegasse gli
orgogli e le ostinazioni degli uni, vincesse le esitazioni degli
altri; onde a Fermo immaginò un nuovo disegno, che pose
subito a effetto: fare una breve e veloce guerra in Italia,
distruggere con fulminea rapidità le forze che i nemici
raccoglievano, costringere Pompeo e i consoli a una pace
ragionevole, terminare tutto in brevissimo tempo, ridando quiete
all’Italia. Con la velocità consueta, dopo aver sostato a
Fermo un giorno per gli approvvigionamenti e aver spedito per
numerosi corrieri un suo manifesto alle principali città
dell’Italia in cui dichiarava le proprie intenzioni pacifiche e
rassicurava l’opinione pubblica, Cesare si rimise in cammino l’8
febbraio a grandi giornate lungo la costa del mare565 verso
Corfinio, dove frattanto e in Sulmona ed in Alba si erano raccolte
trentun coorti, un poco più di 10 000 uomini566. Ma
Pompeo aveva saviamente pensato di radunare tutte le sue milizie a
Lucera, più a sud; e se il suo disegno riusciva, Cesare
avrebbe trovato il paese dei Marsi sgombro.... Pompeo però
non aveva ancora scossa di dosso quella incertezza e lentezza in cui
si disperdevano i suoi migliori propositi. Egli aveva i pieni
poteri, ma esitava a servirsene con un gran signore come Domizio
Enobarbo, trattandolo come un centurione, un poco per sentimento di
classe, un poco per tema di non essere obbedito; onde non gli aveva
mandato l’ordine, bensì il consiglio, come si usa tra persone
dabbene, di ripiegare su Lucera567, ed era stato assai contento di
ricevere il 10 febbraio notizia che Domizio contava di muoversi il
9568. Ma poi Domizio non gli diede più notizia alcuna di
sè; e solo per altre vie, qualche giorno dopo, egli venne a
sapere che Domizio, mutato proposito, intendeva aspettare di
piè fermo Cesare. Pompeo, il quale conosceva i vizii delle
alte classi italiane, fece una supposizione: che nell’esercito di
Domizio fossero ricchi signori possidenti di terre nei dintorni di
Corfinio e che questi insistessero affinchè si difendesse il
paese, per salvare i loro campi dalla devastazione dei soldati di
Cesare569. Gran proprietario egli stesso, scettico e indulgente con
i vizii della sua classe come sono sempre i gran signori rammolliti
dalla ricchezza, egli pensò una transazione indegna di un
generale: pregò il 12 febbraio Domizio di mandargli
diciannove coorti e di tenere le altre a difesa570. Ma il 13 o il 14
febbraio571 egli disperava talmente di essere obbedito da Domizio,
era ormai così sicuro che costui sarebbe stato sorpreso da
Cesare, che si rassegnò a pensare a una ritirata in Grecia:
non era più possibile difendersi in Italia, bisognava
abbandonar la penisola, andare in Oriente, riordinare un esercito,
riprendere più tardi e con forze maggiori la guerra. Ma
quanta debolezza, anche in questa deliberazione! Il 13572 egli
mandò Decimo Lelio ai consoli, con una lettera in cui li
pregava, se così sembrava loro conveniente, che l’uno di essi
si recasse in Sicilia con le milizie reclutate intorno a Capua e con
dodici coorti di Domizio, per guardare questo importante granaio,
l’altro con le rimanenti forze a Brindisi per imbarcarsi573;
invitò pure Cicerone a raggiungerlo a Brindisi574. Le sue
paure per Domizio non erano, del resto, senza ragione; chè il
14 febbraio Domizio si lasciava sorprendere e assediare in Corfinio
con diciotto coorti. Grande fu la commozione dell’Italia a questa
notizia. Tutti aspettavano che Pompeo volasse al soccorso
dell’assediato....575
Ma l’annuncio dell’assedio di Corfinio e della imminente sciagura
che lo minacciava, risvegliarono alla fine in Pompeo le sopite
energie. Egli si scosse, si riebbe, e da questo momento
mostrò una fermezza e una energia molto superiori a quelle
delle ansiose settimane allora trascorse. A costo di precipitar
tutto l’impero in un disordine immenso, a costo di perire con i suoi
in una gigantesca rovina, egli voleva la rivincita su Cesare,
necessaria a ridiventare agli occhi di tutti il primo personaggio
dell’impero, a vendicare il suo orgoglio offeso! Egli resistè
fermo alle supplicazioni affannose di tutta la Roma elegante e
aristocratica, che per la fretta di salvare Domizio voleva si
avventasse ciecamente contro la sorte; e giudicando pericoloso
rischiare con le due sole legioni che aveva a Lucera una disfatta
che sarebbe stata irreparabile per il suo prestigio, ebbe la forza
di prendere la risoluzione più difficile, quella di
riconoscersi vinto per il momento: considerò le reclute della
costa adriatica come perdute, abbandonò Domizio al suo
destino, si risolvè definitivamente alla ritirata in Grecia,
smettendo però, per mancanza di forze sufficienti, l’idea di
conservare la Sicilia; e mandò ordini risoluti ai consoli di
portare a Brindisi tutte le reclute fatte a Capua e tutte le armi di
cui potessero disporre576. Domizio infatti, che non era un gran
guerriero, capitolò dopo sette giorni, mentre Pompeo si
ritirava verso Brindisi, dove già si raccoglievano le navi
che lo avrebbero portato in Grecia. Dopo Corfinio capitolava anche
Sulmona; e frattanto Cesare era raggiunto da un’altra legione di
Gallia, la ottava, da ventidue coorti di nuove reclute e da 300
cavalieri, mandatigli dal re del Norico577.
Le alte classi dell’Italia trepidarono alla notizia della resa di
Corfinio. Il terribile demagogo aveva catturato cinque senatori a
lui nemicissimi, un gran numero di cavalieri e di giovani nobili! Ma
Cesare invece lasciò tutti liberi, restituì a tutti le
ricchezze che avevano seco, li trattò tutti con gran
gentilezza. Più gli avvenimenti lo trascinavano nel folto di
una guerra che egli non voleva, più si confermava nel
proposito sincero di terminar subito la discordia in Italia,
costringendo Pompeo a un accordo onorevole, per soddisfare
l’opinione pubblica dell’Italia che voleva la pace, domandava la
pace, avrebbe adorato solo colui che avesse saputo fare la pace.
Già infatti il credito era diventato così difficile,
che i debitori eran costretti a vendere per pagare gli interessi;
già incominciava un’altra di quelle rovinose liquidazioni, in
cui tutto rinviliva; già il lavoro scemava, la miseria
cresceva specialmente a Roma, donde tanti signori erano assenti....
Pace, pace, pace implorava tutta l’Italia, tutta la borghesia, avida
di lucri e di godimenti. Cesare perciò doveva a ogni costo
accordarsi con Pompeo in Italia stessa, entro poche settimane; e
vertiginosamente alacre, mentre scriveva a Cicerone che egli era
disposto a ritornare a vita privata lasciando a Pompeo il primato
nello stato, purchè potesse viver sicuro578; mentre mandava
il nipote di Balbo al console Lentulo a pregarlo con grandi promesse
di tornare a Roma a trattar la pace579; mentre scriveva a Roma ad
Oppio, affinchè dichiarasse che egli non voleva essere il
Silla della democrazia, ma riconciliarsi con Pompeo e vincere con la
generosità;580 lasciava Corfinio il 21 febbraio, il giorno
stesso della presa, con sei legioni, tre sue, tre formate lì
per lì di nuove reclute e soldati di Domizio, liberava subito
tutti gli ufficiali e partigiani di Pompeo che catturava per via;
arrivava dopo una marcia precipitosa il 9 marzo sotto le mura di
Brindisi. Ma Pompeo, ormai riavutosi interamente dal suo stupore del
gennaio, aveva già prese molte disposizioni per la grande
guerra: si era ricordato di avere un esercito in Spagna; aveva
mandato a quello Vibullio Rufo, e Domizio a Marsiglia con l’incarico
di mantenerla fedele581; aveva già spedito una parte
dell’esercito con i consoli in Epiro, e aspettava le navi vuote di
ritorno per seguirle. Era possibile ancora la pace? Cesare si illuse
un’ultima volta, quando venne a lui582 Magio da parte di Pompeo con
proposte. Certo in quel supremo momento Cicerone, se fosse stato
presente a Brindisi, avrebbe potuto ancora tentare la conciliazione,
nel cui pensiero si era compiaciuto così a lungo; ma il
vecchio scrittore non aveva, protestando l’insicurezza delle strade,
seguito l’invito di Pompeo, perchè non voleva avventurarsi in
questa guerra civile, odiosa a lui come a tutti gli italiani di buon
senso; ed era restato nel podere di Formia, sonnecchiando
allorchè era d’uopo di correre, a dilettarsi con le sue
malinconie, le sue sfiducie, le sue speranze. Il perdono di Corfinio
lo aveva profondamente commosso; le lettere di Cesare e di Balbo gli
avevano fatto un gran piacere segreto, che egli aveva però
dissimulato sotto le apparenze di una diffidenza amara e pessimista,
per poterne più frequentemente parlare con gli amici, e
sentirsi ripetere da questi che Cesare non lo ingannava, che sperava
in lui per conchiudere la pace.
Ma intanto la occasione suprema gli sfuggì, seppure la pace
era ancora possibile. Invano Cesare aveva aspettato parecchi giorni
che Magio tornasse583, mentre cercava di chiudere il porto di
Brindisi; invano aveva mandato Tito Caninio Rebilo a parlare in
Brindisi a un amico intimo di Pompeo, Scribonio Libone. La risposta
fu che Pompeo non poteva trattare della pace, essendo i consoli
assenti584. L’invio di Magio era stata un’astuzia per guadagnar
tempo585; Pompeo, che sino allora le suggestioni altrui e gli eventi
avevano trascinato a rilento, voleva ora, di proposito deliberato,
una grande guerra a fondo. Dopo la capitolazione di Corfinio,
l’Italia lo considererebbe sempre come il vinto di Cesare, se egli
acconsentisse alla pace, prima di aver rivinto a sua volta Cesare.
La nefandità parricida di questa guerra civile, i mali
infiniti di cui sarebbe cagione, tutto spariva ormai, nella
coscienza di questo uomo guastato da soverchia grandezza, in una
esasperazione di egoismo tetra vasta e profonda come un abisso. La
conservazione della sua grandezza importava più che la salute
del mondo. La straordinaria fortuna di cui aveva goduto sino allora
diventava per lui un impegno mortale e lo traeva per le vie del
destino a rovina. Cesare non potè impedire che il 17 marzo
Pompeo partisse con tutta la flotta586. La vera guerra civile
incominciava.
XIII.
LA GUERRA DI SPAGNA.
(Anno 49 a. C).
Ancora una volta la freccia lanciata dal braccio troppo poderoso di
Cesare era volata oltre il segno. Egli aveva voluto intimidire il
Senato per costringerlo a pace; ma sin dove l’avevano ormai
trascinato, a precipizio, gli eventi! Con la rapida e splendida
campagna invernale del gennaio e del febbraio Cesare aveva
conseguito più e meno di quanto sperava: aveva conquistata
l’Italia e Roma, aveva costretto Pompeo a ritrarsi in Grecia, aveva
– vantaggio immenso in una guerra civile – allenati definitivamente
i soldati alla guerra civile e avviliti i nemici a una paura
superstiziosa della sua audacia. Era sicuro ormai che tutte le
legioni si lascerebbero trarre dovunque volesse, ad avventure e
pericoli. Ma non era riuscito a impedir la partenza di Pompeo, dei
consoli, del Senato, e si trovava bersaglio all’odio di un
avversario che possedeva quasi tutto l’impero, il mare e un forte
esercito in Spagna; che un altro ne recluterebbe formidabile in
Oriente; peggio ancora, era stato lasciato dai partenti sul mare di
Brindisi vano signore di una Italia senza magistrati587. Come
potrebbe farsi eleggere console per l’anno prossimo e ottenere una
giustificazione legale del suo potere e delle sue operazioni
militari per l’anno rimanente, se il Senato e i consoli erano
assenti?588 Egli sarebbe costretto, per difendersi, ad atti
rivoluzionari contro i magistrati legittimi, che gli procurerebbero
odio: eppure non aveva che quattordici legioni manchevoli, in parte
vecchie e stanche, in parte novizie; poco denaro; nessuna flotta;
una banda di amici, composta di nobili e di avventurieri, di persone
egregie e di condannati, in cui l’aristocratico Asinio Pollione e il
letterato Sallustio avrebbero dovuto adoperarsi d’accordo con
Ventidio Basso, l’antico impresario di muli, con l’oscuro Fufio
Caleno, con i tre scapestrati, Antonio Dolabella Curione, con Celio,
allevato negli agi e nella superbia e voltosi a Cesare per dispetto.
Che l’Italia si sollevasse al suo comparire, come quaranta anni
prima sul cammino di suo zio reduce dall’Africa e di suo suocero
profugo per le città alleate, non si poteva sperare. L’Italia
era troppo imborghesita negli ultimi quaranta anni; e non ostante
l’apparente irrequietezza, lo scontento amaro e molteplice, il
malumore rivoltoso di tutte le classi era diventata profondamente
conservatrice, detestava le rivoluzioni, voleva la pace. I figli e i
nipoti di quei nobili, di quei possidenti, di quei contadini ridotti
alla disperazione che mezzo secolo prima si erano immolati
inconsapevoli per l’avvenire dell’Italia; possedevano ora cascine
coltivate da schiavi e case nelle città; erano mercanti
alacri, usurai cupidi, uomini politici che destreggiandosi tra i
diversi partiti avevano acquistata reputazione e agiatezza; avvocati
e giureconsulti amici dei grandi; piccoli possidenti industriosi che
mandavano agli studi i figli ben vestiti, con uno schiavo, tra i
figli dei signori; e sebbene molti fossero malcontenti per i debiti
e per la crisi che tormentava l’Italia, paventavano sopra ogni cosa,
per l’abitudine e ancor più per la speranza della vita
signorile, i grandi sconvolgimenti rivoluzionari. Costoro avrebbero
osservata, timorosi e malcontenti, la guerra civile; non l’avrebbero
combattuta, nè in questo nè in quell’esercito. Non
incominciava una grande rivoluzione, come quaranta anni prima, un
gigantesco conflitto di due classi, di due età, di più
genti; ma una guerra tra due clientele politiche, ambedue detestate
o considerate con indifferenza dalla maggioranza, politicamente
scettica....
E difatti Cesare, ben lungi dal rallegrarsi per la fuga di Pompeo,
ne fu esasperato. Il contraccolpo di questo evento inaspettato su
quello spirito nervoso fu straordinario; una nuova oscillazione
avvenne; alla moderazione usata sino allora succedè un
accesso di furore violento contro il suo antico genero, contro il
Senato, contro tutto e contro tutti. Lo costringevano a guerra?
Ebbene l’avrebbero, senza quartiere: accettava la sfida; Pompeo o
egli morirebbe; non avrebbe paura di nulla; si mostrerebbe clemente
sinchè la clemenza fosse vantaggiosa, ma se tornasse di
danno, farebbe una carneficina. Curione e Celio, che lo avevano
veduto sino allora così tranquillo, signore di sè,
moderato, non credevan quasi ai loro orecchi, udendo i discorsi
violenti in cui Cesare prorompeva, irritato dal pericolo e dall’idea
delle infinite difficoltà tra cui fuggendo Pompeo l’aveva
lasciato589. Tuttavia, anche in mezzo a questa concitazione, il suo
spirito possente aveva già misurato da un capo all’altro, nel
solo giorno che passò a Brindisi, l’immensità
perigliosa del compito e immaginato un piano arditissimo590: andar
subito a Roma, radunare i pochi senatori e magistrati rimasti;
restaurar con questi alla meglio un governo che potesse dirsi legale
e che lo autorizzasse alla guerra; impadronirsi subito della
Sicilia, dell’Africa e dell’Illirico, per impedire una invasione
della Spagna e dell’Italia dall’Oriente; correre a distruggere
l’esercito di Spagna, che minacciava troppo da vicino la Gallia, poi
assalire il nemico in Oriente; distruggere insomma prima una parte,
poi l’altra, poi l’altra delle formidabili forze nemiche, per
fortuna sua ancor disperse, prima che si radunassero.... Ma quale
prodigioso sforzo di corpo e di spirito avrebbero dovuto compiere
egli, i suoi amici, i soldati! Pure non poteva esitare,
perchè nessun’altra speranza di salvezza più gli
restava.
E difatti, messosi in cammino per Roma con in cuore l’amarezza irosa
del terribile cimento cui l’obbligava il destino, nel viaggio stesso
finì nei particolari il gran disegno con alacrità
anche maggiore della solita e incominciò a dargli esecuzione,
spiccando messaggi e ordini per ogni parte, facendo con uno sforzo
supremo la sua volontà presente in cento luoghi:
collocò presidî nelle principali parti dell’Italia
meridionale591; ordinò a ciascuna città marinara
dell’Italia di mandare a Brindisi un certo numero di navi e altre
commise che fossero costruite, dando cura di tutto a Ortensio e a
Dolabella592; dispose subito per la conquista dei granai più
vicini all’Italia incaricando Q. Valerio di andare con una legione
in Sardegna, Curione di impadronirsi con due legioni della Sicilia e
poi di passare in Africa593, Publio Dolabella di recarsi
nell’Illiria594. Non poteva perdere nemmeno un’ora, tanto nella
concitazione dell’ira sentiva esser necessario affrettare gli
eventi.... Intanto, lungo il viaggio, molte città che un anno
prima avevano fatto onore a Pompeo accoglievano festosamente
Cesare595; molti senatori, non pochi dei quali avevano sino allora
parteggiato per Pompeo, precedevano Cesare a Roma596. Il successo
aveva disposto gli animi di quella generazione eccitabile alla
benevolenza e molti si godevano quasi a ingrandire i meriti, la
fortuna, la potenza del vincitore: egli poteva trarre, volendo,
dalle Gallie uno sterminato esercito, possedeva immensi tesori!597
Ma questa benevolenza delle popolazioni e questa timida
riconciliazione di parte del mondo politico non giovavano molto a
Cesare, e non l’aiutavano ad ottenere una giustificazione legale del
suo comando e della prossima guerra in Spagna; perchè
l’Italia avrebbe invece cercato di trattenerlo giudicando
severamente, come provocazione e criminosa ambizione, ogni atto suo
per preparare e affrettare la guerra; non avrebbe mai capita e
riconosciuta, tanto desiderava la pace, la necessità in cui
egli si trovava di assalire per non essere assalito e distrutto:
anzi appunto perchè in questa prima fase della guerra egli
aveva vinto, si aspettava da lui che conchiudesse subito la pace.
Cesare potè accorgersi di questa ripugnanza incondizionata
dello spirito pubblico alla guerra e delle difficoltà che gli
avrebbe procurate, nel colloquio che ebbe con Cicerone. Egli doveva
passare da Formia; e volendo dopo tanti anni riveder Cicerone e
amicarsi il più potente scrittore del tempo, gli fece una
visita, a quanto pare nella mattina del 28 marzo598: ma questo
colloquio, che un mese prima avrebbe potuto essere un avvenimento
della storia universale, non fu allora che una cerimonia inutile.
Cesare fu gentile e invitò cortesemente Cicerone a Roma a
trattar la pace; e quando Cicerone gli domandò: Ma
sarò io libero di adoperarmi nel modo che credo migliore? gli
rispose, sempre con rispetto: Potrei io imporre condizioni a un uomo
come te? Ma Cicerone, che voleva mostrare la sua indipendenza, gli
disse allora di volersi opporre in Senato alle spedizioni in Spagna
e in Grecia, che si diceva pensasse intraprendere. Cesare fu
costretto a rispondergli che questi consigli erano inutili. “Lo
sapevo. disse Cicerone: ma io non posso parlare in modo diverso.” Il
colloquio continuò freddo, banale, accademico sulla pace,
quando la pace non era possibile; Cesare, dopo vari discorsi, tanto
per conchiudere, disse a Cicerone che sperava ci penserebbe ancora;
Cicerone naturalmente rispose che ci avrebbe pensato; e Cesare
riprese il viaggio per Roma599. Ancor peggiore impressione aveva
fatto a Cicerone il seguito di Cesare: giovinastri, uomini perduti,
falliti, condannati: una banda di avventurieri.... Il colloquio lo
scoraggì profondamente: quell’uomo e quella banda
evidentemente volevano la rovina di Pompeo, la confisca dei beni dei
ricchi, il saccheggio della repubblica: no, egli non andrebbe alla
seduta del Senato, raggiungerebbe in Grecia l’amico suo, l’affetto
per il quale rinasceva quasi per contrapposizione600.
Il 29 marzo 49 a. C.601 Cesare arrivò in Roma: dieci anni
precisi dopochè n’era uscito, come proconsole, lasciandosi
dietro i rancori e le speranze del suo consolato rivoluzionario.
Come parevan lontani quei tempi! Quante cose erano successe, in quei
dieci anni così fitti di eventi! Quanto si era mutata e
abbellita Roma! Ma Cesare non ebbe agio di ammirare i progressi
dell’Urbe. Egli trovò tutta la popolazione, dai grandi che vi
avevano fatto ritorno sino alla plebe, spaventata dall’idea che la
guerra continuasse, dagli eserciti che accampavano per l’Italia,
dalle memorie ravvivate di Mario e di Silla; desiderosa di pace,
illusa che questa dipendesse da lui e sospettosa delle sue
intenzioni602. La difficoltà era grave: irritare le alte
classi dell’Italia e in generale il pubblico egli non voleva; ma nel
tempo stesso aveva fretta di partire per la Spagna e voleva metter
le mani sull’erario, che Pompeo aveva spensieratamente lasciato in
Italia e di cui, scarso come era di denaro, aveva gran bisogno.
Antonio e Quinto Cassio convocarono fuori del pomerio i senatori
rimasti a Roma; Cesare finse di trovarsi innanzi al Senato
legalmente radunato e tenne un discorso moderato, giustificando le
sue azioni, rassicurando che non userebbe violenze a nessuno e
lascierebbe libero chiunque volesse di raggiunger Pompeo; propose
che si mandassero in Grecia ambasciatori a trattar la pace; fece un
discorso analogo al popolo, ordinò di distribuir del grano,
promise trecento sesterzi a testa603. Cesare sperava con questi atti
di disporre gli animi riluttanti dei senatori ad autorizzare
legalmente la spedizione di Spagna; ma invece gli uomini savi
osservarono che la proposta di trattar pace non poteva considerarsi
seria se Cesare non sospendeva la guerra sino alla risposta604;
invano si cercarono gli ambasciatori, chè nessuno volle
andare per paura delle minaccie di Pompeo605; e in conclusione quasi
tutti credettero la proposta più menzognera che in
verità non fosse606. A ogni modo Cesare nei primi tre o
quattro giorni d’aprile attese certo d’accordo con il Senato a
riordinare il governo con i magistrati restati a Roma. Per sua
fortuna Marco Emilio Lepido, figlio del console morto nella
rivoluzione del 78, genero di Servilia, amico sin dall’infanzia di
Cesare e in quell’anno pretore, era rimasto a Roma. Per la parentela
con Servilia e per la vecchia amicizia, Cesare poteva fidarsi di
lui; onde fece disporre dal Senato che egli farebbe le veci dei
consoli607; Antonio fu messo a capo, certo con decreto del Senato,
delle milizie residenti in Italia; un decreto del Senato
approvò che a Q. Valerio fosse assegnata la Sardegna, a
Curione la Sicilia e l’Africa, a Marco Licinio Crasso la Gallia
transalpina, a Dolabella l’Illirico608. Tutto pareva procedere
quetamente; Cesare e l’opinione pubblica esser d’accordo, nei primi
tre o quattro giorni. Ma il malinteso latente scoppiò con
gran scandalo, quando Cesare domandò al Senato di usare i
fondi dell’erario: si intendeva, anche se non era detto, per la
guerra di Spagna. Sia che il Senato approvasse o non approvasse609,
l’opinione pubblica fu così indignata che i fondi pubblici
fossero usati da uno dei rivali a prolungar la guerra iniqua e
calamitosa, che un tribuno della plebe, non popolare a oltranza
nè arrabbiato conservatore, Lucio Cecilio Metello,
deliberò di opporre la sua sacrosanta persona ai fabbri e ai
soldati che Cesare avrebbe mandati a scassinar le porte del
sotterraneo nel tempio di Saturno, dove il denaro era deposto e di
cui i consoli avevano portate via le chiavi. Ma Cesare, il quale
aveva trattenuto sino ad allora soltanto con estrema fatica il
malumore irascibile che lo irritava da quando Pompeo era fuggito,
perdè la pazienza e proruppe, questa volta; si
presentò in persona all’erario alla testa dei soldati e
minacciò il tribuno di ammazzarlo, se non si levava subito
dinanzi....610
Per fortuna di Cesare, il tribuno non seppe morire per la difesa
della legge e del suo sacro diritto; e Cesare potè porre le
mani su 4135 libbre di oro e 900 000 libbre d’argento611 senza
versare il sangue di un magistrato inviolabile. Ma l’opinione
pubblica di tutte le classi, anche del popolino, fu
straordinariamente indignata da questa violenza contro il più
popolare e il più sacro dei magistrati. Non eran quelli i
primi segni di una nuova tirannide sillana? E il capo del partito
popolare osava affermare di aver impugnate le armi per difendere i
diritti dei tribuni? Presto si verrebbe alle confische e alle
rapine! Cesare fu talmente turbato da questo malcontento, che
deliberò da un giorno all’altro di partir subito, senza avere
ottenuta una autorizzazione legale della guerra, tralasciando di far
molte altre cose disegnate, rimandando tutto a quando tornerebbe
dalla Spagna con il prestigio della vittoria. Ma non osò
tenere al popolo il discorso già preparato612; cercò
soltanto di rassicurare la plebe che egli non sarebbe un nuovo
Silla, facendo proporre da Antonio ai comizi l’abolizione di quella
mostruosa legge di Silla, che pur essendo ormai quasi dimenticata
vigeva ancora di nome ed escludeva dalle magistrature i discendenti
dei proscritti613; e sei o sette giorni dopo l’arrivo, probabilmente
il 6 aprile614, partì per la Spagna con piccolo corteggio di
amici615, senza poteri legali, solo con il comando conservato
rivoluzionariamente sulle fide legioni di Gallia.
Insomma il breve soggiorno in Roma gli aveva nuociuto in luogo di
giovargli. La impensata precipitazione di eventi a cui gli uomini
assistevano da qualche mese, aveva accresciuta la nervosità
degli spiriti. Molte persone dabbene e ragionevoli rimaste sino
allora imparziali e sulle quali la moderazione da lui mostrata in
gennaio e in febbraio aveva fatta grande impressione, inclinavano di
nuovo a Pompeo, ora che sospettavano la sua sincerità nelle
proposte di pace, dopo le violenze contro il tribuno, dopo aver
visto il codazzo di avventurieri che lo seguiva. Non era possibile
che una simile banda sfrenata non ruzzolasse in qualche precipizio,
prima di sei mesi!616 Certo se vinceva, l’antico amico di Catilina
esaudirebbe le speranze poste in lui dalla feccia di Roma e
arrafferebbe i beni dei ricchi! Tanto più urgeva a Cesare
riportare subito un gran successo in Spagna. Pompeo aveva due
legioni nella Lusitania al comando del legato Marco Petreio, tre
nella Spagna Citeriore sotto il legato Lucio Afranio, due nella
Spagna Ulteriore, cui era preposto Varrone, riconciliatosi col suo
antico generale della guerra piratica, quando questi ritornò
a difender la buona causa617: sette legioni forse troppo avvezze
alla guerriglia di montagna contro i barbari618, ma provette,
comandate da generali sicuri ed abili. Difatti il partito
conservatore faceva grande assegnamento sull’esercito di Spagna, che
poteva minacciar la Gallia; anzi più volte si era detto che
Pompeo andrebbe a prenderne il comando per riconquistare con quello
l’Italia619.
Ma sette legioni avrebbero potuto solo con grande pericolo tentare
una invasione delle Gallie, dove erano rimaste ancora otto legioni;
onde Pompeo aveva saviamente mandato ordine agli eserciti di Spagna
di tenersi sulla difesa, inchiodando in Gallia, con la minaccia di
valicare i Pirenei, una parte dell’esercito di Cesare o
costringendolo a una pericolosa invasione della Spagna. I tre
generali concertarono una buona difesa: Varrone resterebbe
nell’Ulteriore con due legioni a tenere in rispetto le popolazioni
più barbare e ancor mezzo indomite620; Afranio e Petreio,
unite le cinque legioni, si avanzarono sino a Ilerda (Lerida),
città munita e buona posizione presso la frontiera dei
Pirenei, per aspettare il nemico, se osasse tentare una invasione.
Nel tempo stesso i notabili di Marsiglia, una repubblica autonoma
governata da Greci e alleata di Roma, erano stati lavorati da Pompeo
con molta energia, affinchè non parteggiassero per Cesare:
senza l’amicizia di Marsiglia – Pompeo l’aveva sperimentato nella
guerra contro Sertorio – era difficile poter nutrire in Spagna un
esercito, che avesse le popolazioni spagnuole così nemiche,
come certo le avrebbe Cesare621. Troppo gli Spagnuoli si
ricordavano, per il bene e per il male ricevuto, del vincitore di
Sertorio, mentre Cesare era quasi ignoto622; e per di più non
aveva autorità ufficiale. Se le legioni di Spagna non avevano
fatto il servizio che gli ingenui strateghi di Roma speravano, erano
però una formidabile barricata sulla via di Cesare....
Difatti Cesare fu in breve costretto a richiamare dalla Gallia
appena domata tutte le otto legioni che la presidiavano. Giunto,
probabilmente il 19 aprile623, sotto Marsiglia, trovò le
porte chiuse e il Senato ostinato a non aprirle, per il proposito –
diceva – di conservarsi neutrale nella contesa; onde, Marsiglia
essendo necessaria per fare una guerra vigorosa in Spagna, si
dispose subito a prenderla per forza e chiamò tre legioni di
Gallia; in quella ecco Domizio arriva per mare nella città ed
è accolto come il provvidenziale organizzatore della difesa.
Così la guerra tra Marsiglia e Cesare fu dichiarata: ma
Cesare, che sempre irritato e impaziente aveva fretta di finir
presto, appena le tre legioni furon giunte e l’assedio incominciato,
mandò Caio Fabio con le tre legioni già di stanza
nella Narbonese a forzare i passi dei Pirenei, proponendosi di farle
seguire al più presto dalle ultime due rimaste in Gallia e
già in via624. Egli intendeva combatter nel tempo stesso
intorno a Marsiglia e in Spagna, per guadagnar tempo; ardito ma
precipitoso e rischioso consiglio....
Mentre Cesare stringeva l’assedio di Marsiglia e faceva costruire
una piccola flotta, Fabio valicava i Pirenei, respingendo
così facilmente i presidii di Afranio e di Petreio, che vien
fatto di supporre una fuga simulata per imbaldanzire i nemici e
attrarli a una incauta avanzata; scendeva nel piano, si accampava
sulle rive del Segre a qualche miglio da Ilerda e incominciava
segretamente a trattare e a profondere immense somme di denaro nelle
città e nelle popolazioni vicine, per distoglierle dalla
amicizia di Pompeo. Di lì a poco le altre due legioni lo
raggiungevano625. La Gallia restava così, mentre Cesare era
occupato all’assedio di Marsiglia, senza un soldato romano! Ma le
misure che Cesare aveva preso e una felice congiuntura di eventi
scemarono il pericolo di questa deliberazione. Cesare già
negli ultimi due anni aveva, con la consueta rapidità e
agilità, mutata ancora una volta la politica del terrore in
dolcezza; e non solo si era studiato di riparare come poteva i
guasti delle ultime guerre, ma invece di perseguitare spietatamente
per vendetta i capi superstiti della rivoluzione, aveva cercato di
rappacificarsi con loro, conservando solo il suo odio contro
Vercingetorice, che teneva prigioniero sotto buona guardia. Pare
riuscisse a intendersi tra gli altri anche con Commio626. Ora fece
di più. Molti nobili eran periti nella guerra, e
perciò un gran numero di quei cavalieri e guerrieri che
vivevano agli stipendi dei ricchi erano disoccupati; molti nobili
mezzo rovinati avrebbero volentieri colta una occasione di ricchezza
e di gloria. Cesare, con i denari dell’erario e con quelli che si
fece prestare dai tribuni militari e dai centurioni – contributo
utile e pegno di fedeltà – arruolò in Gallia cavalieri
e pedoni, prese ai suoi servizi molti nobili, promettendo loro i
beni confiscati ai caduti; e potè mandare in Gallia, oltre
cinque legioni, anche 5000 ausiliari e 6000 cavalieri627. Egli
cresceva la forze sue e pacificava, davvero questa volta, la
Gallia....
Il maggio passò così senza eventi notevoli nei paesi
della guerra. Cesare assediava Marsiglia; Fabio scaramucciava a
distanza con Afranio e Petreio, cercando di sobillare alla rivolta
le popolazioni; gli altri cercavano mantener queste fedeli a Pompeo.
In Italia invece il sentimento delle alte classi, diventava
più avverso a Cesare. Curione era partito in aprile per la
Sicilia e l’aveva conquistata facilmente, perchè Catone, non
avendo soldati, si era ritirato quasi senza combattere628; ma in
compenso la notizia della rivolta di Marsiglia pareva gravissima per
Cesare e l’impresa di Spagna si giudicava di una temerità che
difficilmente poteva riuscire629; le più strane dicerie
correvano: che Pompeo per l’Illirico e per la Germania intendesse
recarsi ad affrontar Cesare in Gallia630. Molti erano irritati anche
dallo scandaloso contegno di Antonio. Questo ultimo discendente di
una famiglia tra le più nobili di Roma era una strana
mescolanza di finezza aristocratica e di rozzezza plebea; una specie
di barbaro, prodigiosamente vigoroso di corpo, sensuale, allegro,
gran mangiatore, gran bevitore, grande amatore, violento,
coraggioso, sanguinario; cresciuto in una selvaggia indipendenza da
ogni tradizione familiare e sociale, prima nei bordelli di Roma e
poi nei campi, indifferente alla vergogna e all’infamia degli
uomini, dotato di una viva intelligenza naturale, di una astuzia
sottile e di una finezza considerevole nel capire le passioni
elementari del cuore umano, nell’ordire intrighi, nell’ingannare,
nel lusingare e spaventare; ma ignorante e incapace di avere idee
generali o di servirsi della sua intelligenza per altro fine che
quello di soddisfare le ardenti passioni. Lasciato da Cesare quasi
signore a metà dell’Italia, egli aveva scandalizzato anche i
suoi contemporanei con la sfrenata licenza del vivere, tenendo in
Roma un harem di maschi e di femmine, portando in giro in lettiga
una etera greca, Citeride, quasi fosse sua moglie....631 Scandali
simiglianti si erano veduti già prima; ma gli uomini erano
adesso così inquieti, così irritabili, così
facili ai rimproveri contro Cesare e gli amici suoi, così
pronti a risoluzioni irose! Molti senatori sdegnati lasciaron
l’Italia; si bucinò che anche Cicerone – ed era vero –
volesse partire; Antonio irritato, non trovò altro rimedio
che ordinargli, prima con una lettera abbastanza gentile632, poi con
una seconda molto brusca633, di restare in Italia. Ma peggio assai
volsero le cose della guerra, verso la fine di maggio. Marsiglia non
cadeva; le sollecitazioni alla rivolta di Fabio restavano vane; le
popolazioni spagnuole erano trattenute in fedeltà dalla
gloria di Pompeo, dalle cinque legioni di Afranio e di Petreio, da
voci abilmente messe in giro, tra le altre che ben presto Pompeo
giungerebbe dall’Africa con un grande esercito634; Afranio e Petreio
per mezzo delle popolazioni disponevano insidie sulla via dei
Pirenei per il caso che Cesare vi passasse con poca scorta635; Fabio
stentava sempre più a mantenere l’esercito e temeva di dover
presto ritirarsi per carestia. Sarebbe stato necessario volgere con
una battaglia a favore di Cesare gli spiriti delle popolazioni
spagnuole, dalle quali dipendeva l’esito della guerra, secondo che
si risolvevano a portare o a vendere le vettovaglie all’uno o
all’altro partito.... In quel disordine universale, per cui
nè l’uno nè l’altro esercito poteva far venire da
lungi il grano, ma ambedue dovevano provvedersi sul luogo,
l’amicizia delle popolazioni spagnuole importava più che il
genio del generale e il valore dei soldati.
Cesare dovè prendere una risoluzione estrema: lasciare Decimo
Bruto e Trebonio a continuar l’assedio, andare ad assumere in
persona il comando dell’esercito e tentar la battaglia. Verso la
metà di giugno636 egli partì da Marsiglia con una
scorta di 900 cavalli per non cadere in qualche imboscata:
valicò i Pirenei, giunse all’esercito; e subito si spinse sin
sotto Ilerda e il colle su cui era accampato Afranio offrendo
battaglia. Ma Afranio, il quale era un buon generale, capì
che a lui non conveniva combattere e non accettò637. Cesare
allora dovè far fare il campo alle sue legioni; ma fisso nel
pensiero di costringere il nemico a combattere, adocchiò una
piccola altura posta tra Ilerda e il colle su cui era accampato
Afranio; riconobbe l’importanza della posizione, occupando la quale
si tagliavano le comunicazioni di Afranio con la città e il
ponte in pietra sul Segre, e un giorno all’improvviso lanciò
tre legioni all’assalto della posizione. Ma Afranio e Petreio pronti
mandaron fuori le loro coorti; e queste, combattendo con vigore di
legioni provette, buttaron giù dall’altura, dopo una lunga e
cruenta mischia, i legionari di Cesare. L’insuccesso dovè
essere abbastanza grave638, se Cesare, che pure aveva tanto bisogno
di una battaglia, non tentò più l’offesa; e ben presto
le conseguenze della sconfitta e dell’inerzia si fecero sentire:
anche le poche città spagnuole indotte da Fabio ad aiutar
Cesare non mandaron più viveri, gli approvvigionamenti si
fecero difficili, tutti credendo disperata la fortuna di Cesare: un
improvviso inturgidimento dei fiumi in mezzo a cui Cesare era
accampato ruppe i ponti e accrebbe ancora le difficoltà;
l’esercito si trovò ben presto di nuovo, come sotto Alesia,
alle prese con il nemico invisibile: la fame639. In pochi giorni la
situazione divenne disperata: i viveri mancarono, non ostante gli
energici sforzi di Cesare; i soldati, estenuati e scoraggiti dal
digiuno, non poterono esser più slanciati a una battaglia,
che sola, se vittoriosa, avrebbe mutate le sorti.
La notizia del gran periglio in cui Cesare si trovava volò in
un attimo per l’impero e giunse a Roma ancora ingrandita640. Nel
tempo stesso buone notizie di Pompeo arrivavano d’Oriente: egli
attendeva in Tessalonica alacremente a preparare la guerra;
raccoglieva in Oriente dagli Stati alleati una numerosa flotta, che,
sotto il comando di Bibulo e divisa in molte squadre,
signoreggerebbe l’Adriatico; aveva già richiamata una legione
dalla Cilicia, per aggiungerla alle cinque legioni portate
dall’Italia; un’altra ne faceva reclutare tra soldati romani che si
erano stabiliti a Creta o in Macedonia e due da Lentulo in Asia;
aveva dato ordine a Scipione di portargliene altre due dalla Siria;
assoldava cavalieri, frombolieri, arcieri tra i Galli, i Germani, i
Galati, i Cappadoci, i Dardani, i Bessi; imponeva contribuzioni o
contingenti di milizie considerevoli alle città dell’Asia e
della Siria, ai re e ai dinasti dell’Oriente, alle grandi
società finanziarie italiane, che lavoravano in Oriente641.
Ben presto egli sarebbe signore del mare, comanderebbe uno dei
più formidabili eserciti, raccoglierebbe intorno a sè
quasi una alleanza di tutti gli Stati protetti dell’Oriente. Queste
notizie diedero naturalmente alla irrequietezza impulsiva dello
spirito pubblico una grande spinta a favore di Pompeo. Cicerone era
già partito il 7 giugno642 da Formia su una nave, vincendo
alla fine le lunghe incertezze del suo timore, per l’ira delle
grossolane imposizioni di Antonio, per l’intenso rimorso che la sua
onesta coscienza sentiva di abbandonar nella sventura Pompeo, per un
supremo ravvivamento della sua devozione di borghese timido verso
questo gran signore che pure l’aveva trattato bene solo per
interesse. Sperava poco nella vittoria e temeva molto i rischi
dell’avventura; ma quando Cesare gli era parso voler provocare a
duello mortale l’amico e benefattore suo, non aveva voluto mostrarsi
ingrato e pauroso, egli lo scrittore del De Republica, il maestro
ammirato di virtù civiche alle vecchie e alle nuove
generazioni; e non aveva più ascoltato le preghiere della
moglie che lo supplicava di aspettare almeno l’esito della guerra di
Spagna643. Quando però Cesare parve quasi sicuramente
spacciato, molti e molti altri ne seguirono l’esempio, senza che
Antonio potesse impedirlo.
Un’altra volta Cesare corse estremo periglio.... Ma la fortuna lo
salvò. Verso la metà di luglio, Decimo Bruto
riportò in mare una considerevole vittoria sulla flotta dei
Marsigliesi; e la notizia di questa vittoria che pareva rendere
inevitabile la resa della città, abilmente ingrandita dagli
emissari di Cesare, spaventò in modo indicibile le
popolazioni, specialmente quelle abitanti tra i Pirenei e l’Ebro,
nel paese in cui si combatteva la guerra. Certo tra poco tre legioni
assedianti Marsiglia valicherebbero i Pirenei e Cesare non potrebbe
non vincere! Il maggior numero di queste popolazioni abbandonarono
la causa pompeiana per quella di Cesare e portarono a questo i
viveri che prima portavano ad Afranio e Petreio; la carestia
passò da un campo all’altro e Cesare fu, per miracolo,
salvo!644 Decimo Bruto gli aveva reso il maggior servizio che un
ufficiale possa rendere al suo generale. In breve Afranio e Petreio,
costretti dalla mancanza di viveri, dovettero prepararsi a sgombrare
ritirandosi attraverso una regione collinosa su Octogesa, per passar
l’Ebro e rifugiarsi nella Celtiberia tra popolazioni più
amiche. Cesare quando seppe di questa intenzione deliberò di
inseguire il nemico; ma comprendendo di non poter far passare
all’esercito il Segre sui fragili ponti di legno che con estrema
lentezza, ebbe un’idea ardita: scavar nel fianco del fiume bacini e
canali, abbassando le acque, facendo un guado artificiale che
l’esercito potesse passare a piedi. I soldati presero pala e zappa e
incominciarono sollecitamente il lavoro; ma i nemici se ne accorsero
a mezzo e affrettarono la ritirata. Cesare esitò un momento:
il fiume sebbene un po’ rimpicciolito era ancor grosso e vorticoso;
e i nemici stavano per fuggire. Audacemente allora egli
cacciò tutto l’esercito nel guado; passò il fiume
senza perder uomini; si mise alle calcagna di Afranio e di Petreio.
Egli avrebbe potuto assalirli in via e dar loro battaglia; ma dopo
l’esperienza del primo scontro temè che le agguerrite legioni
di Spagna potessero far prova, in quel supremo cimento, di un valore
disperato; e considerando nel tempo stesso che, se costringeva il
nemico alle resa senza combattere avrebbe potuto vantarsi di una
generosa vittoria incruenta, lanciò le legioni senza bagagli
attraverso colline e valloni fuori della strada a corsa disperata,
per passare innanzi all’esercito nemico che pur si ritirava sulla
strada di Octogesa; giunse primo a una stretta delle colline per cui
la strada passava; costrinse così l’esercito nemico a
retrocedere verso Ilerda. Ma non appena questo si mosse, egli si
mosse pure; lo molestò, lo minacciò, lo
avviluppò, lo affamò. Afranio e Petreio fecero sforzi
mirabili per trarre l’esercito a salvamento, ma alla fine i soldati
domandarono di arrendersi con tanta energia, che i generali
dovettero, il 2 agosto645 capitolare. Le condizioni furono
magnanime: salva la vita e i beni, ognuno libero di andar dove
volesse, con Pompeo, sotto i vessilli di Cesare, a vita privata.
Cesare mantenne le condizioni; Varrone, rimasto solo con due legioni
nella Ulteriore, si arrese senza combattere; le due legioni
passarono sotto i vessilli di Cesare646 e la Spagna fu tutta in
potere del proconsole di Gallia. Cesare tenne a Cordova una specie
di dieta; fece molti spagnuoli cittadini romani; impose molte
contribuzioni di denaro; andò a Cadice cui diede la
cittadinanza romana647; poi per mare venne a Tarragona; e lasciando
Q. Cassio al governo della Spagna con quattro legioni,
ripartì per via di terra alla volta di Marsiglia. Qui giunto
verso la fine di settembre, egli seppe che Marco Lepido,
approfittando dell’impressione per la capitolazione dei pompeiani,
lo aveva nominato dittatore verso la metà di agosto, dopo
aver fatto decretare con una legge dal popolo che a lui pretore
fosse lecito di dire il dittatore come al console648. Probabilmente
questa legge e questa nomina erano state concertate nei mesi
precedenti tra Lepido e Cesare; il quale, non fidandosi dei pochi
senatori restati a Roma, non voleva più che elezioni per il
48 fossero presiedute, in assenza dei consoli, da un interrex
nominato da loro; bensì presiederli egli stesso, come
dittatore.
XIV.
FARSAGLIA.
(48 a. C.)
Per Lepido e per il mezzo Senato che lo assisteva, la dittatura di
Cesare era forse anche il disperato ed ultimo scampo fuori dalla
frana di responsabilità che minacciava rovinare su loro.
Dopochè Cesare aveva lasciata Roma, l’Italia era precipitata
in una orrenda miseria. La sospensione dei pagamenti pubblici
decretata dal Senato con il tumultus, l’esaurimento dell’erario che
Cesare aveva vuotato e a cui Pompeo toglieva per via i tributi
dell’Asia, l’interruzione dei lavori pubblici e l’impaccio di tanti
appaltatori non più pagati, la partenza improvvisa di un
sì gran numero di signori dall’Italia, la requisizione di
tante navi per i trasporti, i prestiti forzosi di molte somme che
Pompeo aveva prelevate nei templi dell’Italia, i reclutamenti di
tanti giovani, la interruzione delle lotte elettorali e politiche a
Roma facevano languire in tutta Italia il consumo e il commercio;
scemavano i lucri che il medio ceto traeva dagli schiavi e dai
liberti professionisti; toglievano specialmente a Roma lavoro e pane
a un gran numero di artigiani e mercanti. Il grano scarseggiava; il
credito era venuto meno; nessun banchiere o capitalista prestava
più, per paura della rivoluzione, che poteva finire con
l’abolizione dei debiti; il denaro era spaventosamente caro649;
molti debitori che sino allora avevano pagati i debiti scaduti o gli
interessi con nuovi debiti non trovavano più prestiti; i
padri non erano più in grado di pagare le rate della dote
promessa alle figlie e i mariti divorziati di continuarne la
restituzione; a Roma e in tutta Italia i padroni di casa non
riuscivano a farsi pagare l’affitto, anche da inquilini di una certa
agiatezza; tutti cercavano di ottener rinvii al pagamento
supplicando, piangendo, invocando la amicizia e la misericordia,
minacciando di uccidersi, maledicendo i tempi iniqui e la
malvagità degli ambiziosi; tutti sollecitavano la riscossione
dei crediti, implorando, esagerando la propria miseria, minacciando;
falsità, inganni, imbrogli, anche assassini o delitti erano
tentati per non pagare. Non pochi erano costretti a vendere quanto
potevano; ma molti offrivano e pochissimi volevano comprare; onde
tutto rinviliva: gli oggetti d’oro e d’argento, le gioie, le stoffe,
le suppellettili, le terre, le fabbriche. Di ben piccolo sollievo
era stato, evidentemente, il decreto del Senato che nel 51 aveva
ridotto gli interessi; i più, stretti dal bisogno di denaro,
illusi dalla speranza dei guadagni, avevano continuato ad
indebitarsi alle condizioni volute dai capitalisti, eludendo quel
decreto, che del resto nessuno vigilava a mettere in esecuzione; ed
ora la gran questione dei debiti si inaspriva. Nello scoraggimento
universale di cui la guerra civile era cagione, tutte le classi
tribolavano tranne pochi ricchi capitalisti; e nelle disperate corse
diuturne di tutti per fuggire ai creditori e per raggiungere i
debitori, gli uomini anelanti, esausti, stanchi alla fine di tante
menzogne, di tante astuzie, di tante frodi inferocivano gli uni
contro gli altri....650
Lepido, che era un uomo di quarantun anno, di non grande levatura e
di scarso seguito; che non era stato mescolato alle grandi lotte del
tempo se non per la memoria del padre e per l’infelice interregno di
pochi giorni alla morte di Clodio, prontamente e volentieri si
scaricò della responsabilità del governo su Cesare,
che pure era ancora alle prese con guai e difficoltà
terribili, non ostante i successi di Spagna. Marsiglia, venuta meno
la speranza del soccorso di Spagna, si era arresa dopochè
Domizio era riuscito a fuggir per mare; e aveva dovuto pagare la
pena della sconfitta con grandi somme di denaro651: ma in Africa e
nell’Illirico il suo partito aveva subito due gravi rovesci.
Curione, avventatosi in Africa con due sole legioni, sebbene Cesare
gliene avesse mandate altre due652, aveva pagato il fio della sua
temerità: aveva sconfitto facilmente Azio Varo, l’infelice
stratega del Piceno, che fuggito in Africa vi aveva reclutato un
piccolo esercito; ma tratto in una insidia da Giuba, re dei Numidi,
amico e partigiano di Pompeo, era stato sorpreso, avviluppato ed
ucciso. Dell’esercito solo pochi avanzi erano tornati in Italia653.
Dolabella, andato con una parte della flotta a tentar la conquista
dell’Illirico, era stato sconfitto da M. Ottavio e L. Scribonio
Libone, e perdute molte navi aveva chiesto soccorso ad Antonio, che
gli aveva mandato la flotta al comando d’Ortensio e le tre legioni
di guarnigione nelle città di mare, al comando di Sallustio,
di Basilo, di suo fratello Caio: ma i soccorsi erano stati respinti,
anzi Caio si era lasciato far prigioniero con quindici coorti654.
Così l’Illirico e l’Africa, i due ponti per assalir di sopra
la Spagna e l’Italia, erano in poter del nemico; il guadagno delle
due legioni di Varrone e delle reclute spicciole passate a lui
volontariamente dagli eserciti di Afranio e di Petreio erano state
annullate da perdite anche maggiori; parte della sua flotta era
distrutta; mentre non gli restava altra via che quella del mare per
portar la guerra in Oriente. Soltanto se fosse stato signore
dell’Illirico avrebbe potuto forse tentar di passare in Macedonia
per via di terra. A ogni modo, per terra o per mare, il pericolo del
passaggio era piccolo in confronto al rischio della guerra contro
Pompeo, che aveva raccolto circa 50 000 uomini, e contro il
quale egli poteva disporre solo di dodici legioni; ma così
vecchie e stanche, che le sei, sospinte allora a un rapido viaggio
di ritorno dalla Spagna nei primi freddi autunnali, lasciavano
ammalati a ogni tappa655; ma così logorate che insieme
sommavano a poco più di 25 000 uomini656. Sarebbe stato
necessario ridurre questi avanzi in un numero minore di legioni
più piene: ma allora bisognava scemare gli ufficiali –
centurioni e tribuni militari – che Cesare aveva sempre invece
cercato di aumentare, anche a rischio di assottigliar troppo le
coorti, per promuovere in gran numero i migliori soldati657. Inoltre
l’Epiro, la Macedonia, la Grecia erano paesi poveri, dove anche un
piccolo esercito non poteva mantenersi a lungo senza far venire
grano d’oltremare, dall’Egitto, dalla Sardegna, dalla Sicilia, dal
Chersoneso; ma il nemico avrebbe certamente catturate le navi
cariche di grano e lo avrebbe presto ridotto a un cimento
così disperato come quello in cui si era trovato Silla, nella
sua guerra contro Mitridate. Era anche scarso a denari: la guerra
civile, che bisognava combattere con l’oro non meno che con il
ferro, pagando gli amici e corrompendo i nemici, gli costava
enormemente; enormemente doveva esser costata la guerra di Spagna,
nella quale il denaro dell’erario e della Gallia era stato quasi
tutto consumato a corrompere le popolazioni spagnuole; all’Italia
non si poteva estorcer molto in quella crisi; i depositi di denaro
nei templi erano stati ritirati e nascosti nelle case dai privati,
pavidi di nuovi prestiti forzosi. E i soldati, fedeli sino allora,
lo avrebbero ancora seguito in questa ultima e rischiosa avventura?
Una legione infatti già si era rivoltata nel viaggio di
ritorno a Piacenza, rifiutandosi di andar più innanzi, se non
riceveva le ricompense promesse a Brindisi; e Cesare era stato
così inquieto di questa rivolta, che aveva minacciato alla
legione ribellata la decimazione; mitigando poi la pena, per le
preghiere degli ufficiali, nel supplizio di dodici, estratti a sorte
in apparenza, ma in realtà, a quanto almeno fu detto,
indicati dai centurioni come i più riottosi e fatti poi con
un inganno designare dalla sorte658
Cesare frattanto faceva velocemente ritorno in Italia, placato ormai
un poco il gran furore dei primi mesi dopo la fuga di Pompeo, ed
esaltato dalla fortuna alla fiducia e all’audacia. Egli sperava
adesso di poter riacquistare alla fine, dopo le vittorie di Italia e
di Spagna e con l’aiuto del successo, il favore delle alte classi,
di occupare nella considerazione pubblica il luogo da cui ormai
Pompeo era decaduto, diventando il più insigne e ammirato
cittadino della repubblica, il conciliatore dei due partiti in
guerra, il personaggio necessario, che aggiungerebbe una grande
autorità personale all’autorità ufficiale delle somme
magistrature. Ma per conquistare questa grandezza, egli doveva
presto ristabilire la pace. Egli avrebbe appagato tanto più
volentieri questo desiderio popolare, trattando con Pompeo,
perchè una guerra in Oriente era per lui, scampato per
miracolo in Spagna, un cimento pericolosissimo; perchè
anch’egli come tutti temeva dal prolungarsi della guerra inaudite
calamità; ma dubitava che Pompeo acconsentirebbe, capiva che
per aver presto pace bisognava operare risolutamente e subito.
Così la diffidenza, la fretta di finir la guerra, una
soverchia fiducia nelle mosse subitanee e inaspettate acquistata
dopo gli ultimi avvenimenti, gli fecero immaginare la più
audace delle sorprese che avesse ancora osate: farsi nominare
console per l’anno 48; e poi, appena incominciato l’anno, quando
potrebbe entrar nella provincia come il rappresentante legittimo
della repubblica, imbarcare tutti i soldati, senza gli schiavi, con
il minimo materiale possibile di guerra, in modo da poter sbarcare
in qualsiasi seno della costa, senza porto; lasciare In Italia solo
una guarnigione di cavalieri galli e spagnuoli; arrischiarsi
attraverso il mare nella stagione invernale in cui meno lo avrebbero
aspettato, per forzare di sorpresa il passaggio; poi avventurarsi
confidando nella fortuna e nel valore dei soldati. Allora, al nemico
non ancor riavuto dallo stupore per la repentina apparizione in
Epiro, avrebbe come console legittimo proposta la pace; e chi sa non
fosse possibile intendersi. Già in viaggio, senza svelare il
piano che agli intimi659, avviava a Brindisi le dodici vecchie
legioni e tutte le navi che si potevano requisire nei porti
dell’Italia; cominciava a mandarvi il materiale da guerra come per
far comodamente la spedizione a primavera. Tuttavia non poteva
Cesare andar subito a Brindisi, senza fermarsi qualche giorno a
Roma, per assumere la dittatura, tenere i comizi e le ferie latine,
prendere qualche provvedimento più urgente. Entrò
infatti in Roma verso la fine di novembre660 e vi restò
undici giorni661; tra i più operosi di questa operosissima
vita. Presiedè i comizi, i cui risultati furon naturalmente
favorevoli al suo partito: egli fu eletto console con Publio
Servilio Vatia, figlio dell’Isaurico sotto i cui ordini Cesare aveva
militato da giovane; a pretori furono scelti Celio, Trebonio, Quinto
Pedio, figlio di una nipote sua, e forse Caio Vibio Pansa662.
Presiedè le feriae latinae; fece proporre al popolo da
diversi magistrati il richiamo di molti condannati in seguito alle
leggi di Pompeo nel 52 e prima, tra gli altri, di Gabinio, non
però di Milone663; fece approvare una legge con cui si dava
la cittadinanza a tutta la Gallia Cisalpina....664 Dovette pure
provvedere in qualche modo alla questione dei debiti: episodio della
storia di Cesare importantissimo, in sè e per le conseguenze
che ebbe.
Il lavoro di questa generazione finiva in uno di quei faragginosi
ingombri di diritti acquisiti, in cui periodicamente finiscono le
successive età della storia e che non possono essere
distrutti se non da una violenza rivoluzionaria. Pagare gli immensi
debiti fatti a usure così alte per migliorare la agricoltura,
la industria, la cultura intellettuale ed il vivere, l’Italia non
avrebbe potuto, neanche se avesse saccheggiata con la guerra
un’altra Gallia e con l’usura un’altra Asia più ricche: e
invece le conquiste stavano per finire; ben presto le improvvise
importazioni dei grandi capitali presi per diritto di guerra
verrebbero meno; i debitori non potrebbero sperare più in
aiuti straordinari, si troverebbero ridotti a mantenere gli impegni
con le forze loro; e la definitiva liquidazione di questo immenso
indebitamento sarebbe avvenuta. Ma con quanta rovina dell’Italia e
della cultura, se fatta secondo la giustizia formale dei contratti!
Molte famiglie delle classi alte avrebbero ancora potuto assestarsi
alla meglio pareggiando debiti e crediti e raccogliendosi poi in
più modesto vivere; ma un piccol numero di ricchi capitalisti
creditori si sarebbe impadronito delle case edificate, delle vigne
piantate, degli schiavi comprati ed educati dal medio ceto negli
ultimi venti anni; rovinando a precipizio quella borghesia
industriosa, avida di coltura e di piaceri, che si formava da mezzo
secolo, i cui progressi sono l’essenza stessa della storia dei tempi
di Cesare, alla cui prosperità noi vedremo esser legato
l’avvenire dell’Italia, e rovinata la quale sarebbe stato interrotto
il rinnovamento civile che ornava l’Italia. La sorte di questa
classe nuova dipendeva dalla risoluzione della questione dei debiti;
e questa non poteva trovarsi se non in una di quelle rivoluzionarie
abolizioni che ricorrono nella storia periodicamente; come dimostra
il fatto che questa abolizione dovè essere compiuta, sette
anni dopo, ma in tempi meno opportuni, con sofferenze maggiori, come
una operazione chirurgica che ritardata di troppo è
più pericolosa e dolorosa per il paziente665. Se fosse vero
che un uomo di genio può in una grande crisi storica veder le
vie del futuro ignote ai più, spingervi a forza le
moltitudini riluttanti, assumersi solo la maggiore fatica della
salvezza comune, cui la ignava plebe umana non vuol sobbarcarsi,
Cesare che era un uomo di genio e che aveva usati più volte
procedimenti rivoluzionari, quando la sua persona era stata in
pericolo, avrebbe capito ed osato anche questo atto rivoluzionario,
necessario a salvare non sè, ma l’opera di una generazione,
la cultura della nazione, l’avvenire della civiltà
europea.... Invece anche allora egli, come tutti gli uomini
politici, agì secondo l’impressione e il bisogno del momento;
e disposto a idee conservatrici dalla speranza di acquistare in
luogo di Pompeo il primato della città, si mostrò
sollecito solo di apparire zelante osservatore della
legalità, ansioso di non irritare, spaventare o scontentare
le alte classi, i ricchi capitalisti, i cavalieri, la aristocrazia
proprietaria, la media e la grande possidenza. Le classi possidenti
e denarose che sin dal passaggio del Rubicone l’avevano accusato di
portare all’Italia tabulas novas666, che ricordavano le rapine della
grande rivoluzione democratica di quaranta anni prima, avevano
allora gran paura di confische e di abolizioni di debiti, a cui era
contraria anche la parte delle classi alte più indebitata,
per timore dell’immenso scompiglio immediato che seguirebbe, per
odio al partito popolare che le aveva sempre favorite, per la
dipendenza dai capitalisti in cui vivevano molti avendone avuto
denari, per rispetto umano e servilità verso i ricchi, per
paura che dall’abolizione dei debiti si passerebbe alla confisca
delle terre, per quel sentimento astratto della giustizia che spesso
è tanto vivo nelle persone colte e le rende così
avverse ai procedimenti rivoluzionari667. Queste paure anzi erano
state accresciute dalla nomina popolare di Cesare a dittatore. Silla
non aveva compiute le sue immani rapine con l’autorità
dittatoria, conferitagli per legge alla fine di una guerra civile?
Da allora in poi dittatura rivoluzionaria e spoliazione dei ricchi
parevano a molti cose indissolubilmente legate tra loro. Cesare
perciò volle mostrare ai ricchi che intendeva non di
confondere le ragioni del mio e del tuo, ma di rispettare le leggi;
e imitando i provvedimenti presi in condizioni simiglianti da
città greche668, studiò una transazione, proprio come
in Cilicia aveva fatto Cicerone, che molti moderni ammiratori di
Cesare accusano per questo di imbecillità. Una transazione
ingegnosa ed inutile: i debitori cederebbero in pagamento i loro
beni non al prezzo rinvilito di allora, ma al prezzo che avevano
prima della guerra civile; se creditori e debitori non si
accordassero su questo prezzo, sarebbero nominati arbitri a
giudicarlo; gli interessi già pagati sarebbero tolti dal
capitale669. Sembra che, per evitare discussioni e contese nei
comizi, Cesare emanasse queste disposizioni di autorità sua,
come dittatore670; e a queste ne aggiunse altre, intese a far
circolare i capitali per forza; inefficaci ma compiacenti il
pregiudizio popolare che attribuiva la scarsità del denaro
alla malizia dei capitalisti, abili nell’accaparrar la moneta per
rincarirla: rinnovò cioè una vecchia legge
dimenticata, che proibiva di tener in casa più di 60 000
sesterzi in oro e in argento; ma non volle prometter premi agli
schiavi che denunciassero i depositi dei loro padroni, come il
popolo, inferocito contro gli usurai, voleva671.
Insomma Cesare aveva cercato in quegli undici giorni di contentare
tutti: ricchi e poveri, nobili e plebei, usurai e debitori. In una
cosa però non potè contentare il pubblico: nel
desiderio che sospendesse la guerra. Appena giunto a Roma si era
tentato anche da persone del suo partito e sin da suo suocero di
indurlo a mandare ambasciatori a Pompeo a trattare la pace672;
quando egli uscì di Roma, in dicembre, il popolo lo
salutò con dimostrazioni invocanti la pace673. Ma a nessun
costo poteva rinunciare alla sorpresa: tratterebbe la pace solo
quando egli fosse con 25 000 uomini in Epiro e quindi in grado
di guerreggiare se non si accordava. Diede però un’altra
soddisfazione all’opinione pubblica, deponendo, prima di partire,
dopo solo undici giorni, la dittatura, il cui nome dopo Silla era
tanto detestato; poi, sebbene le navi raccolte capissero appena poco
più della metà dei soldati, sebbene il passaggio a due
riprese fosse pericolosissimo, non volle indugiare: in dicembre
comparve improvvisamente in Brindisi, convocò i soldati,
rivelò il suo piano, li incitò con nuove e maggiori
promesse; imbarcò 15 000 uomini senza frumento, senza
schiavi, senza giumenti, con il piccolo bagaglio che il legionario
portava a spalla, appeso alla cima forcuta di un’asta; lasciò
gli altri a Gabinio, ritornato alla politica, a Fufio Caleno e ad
Antonio, con l’ordine di imbarcarli, quando le navi sarebbero
tornate; e il 4 gennaio 48674 si avventurò nell’Adriatico,
conducendo seco il giovane Asinio Pollione, e per generali Gneo
Domizio Calvinio, Publio Vatinio, Publio Silla, lo sventurato
console del 65, Lucio Cassio, C. Calvisio Sabino. Cesare aveva
supposto giustamente. Bibulo sonnecchiava con la flotta sul grigio
Adriatico, deserto di navi nella desolazione dei freddi e minacciosi
venti invernali, che chiudevano nei porti, intorno al fuoco, i
marinai freddolosi e timorosi; e non si riebbe, se non quando seppe
che l’esercito e Cesare erano sbarcati in un piccolo golfo solitario
presso Orico.
Cesare appena sbarcato incominciò una duplice azione di
conciliazione e di offesa: mandò un ambasciatore a riproporre
la pace a Pompeo675, che conduceva i soldati dalla Macedonia nei
quartieri di inverno a Durazzo; e cercò frattanto di
impadronirsi di tutta la costa sino a Durazzo, il maggior porto di
quella regione. Egli aveva bisogno di impadronirsi di un vasto paese
e di qualche città, per provvedersi non solo di grano, ma di
giumenti, di cuoio, di legname, di ferro, di attrezzi. Facilmente
prese prima Orico e poi Apollonia; perchè le piccole
guarnigioni di Pompeo furono scoraggite dal contegno delle
popolazioni, favorevoli all’invasore non perchè si chiamasse
Cesare ma perchè era il console in carica676; fallì
invece nel disegno di prender Durazzo. Pompeo, saputo in via che
Cesare era sbarcato e argomentata facilmente l’intenzione sua, aveva
messo l’esercito alla corsa, arrivando a Durazzo prima di Cesare.
Cesare si fermò allora e pose il campo sull’Apso, un fiume
che scorre a sud di Durazzo; e Pompeo si pose a sua volta in
osservazione con l’esercito dall’altra parte del fiume.
I due rivali eran di fronte. Appena salvata Durazzo e quetato nel
campo di Pompeo il tumulto della marcia precipitosa, l’ambasciatore
di Cesare potè parlare ai consiglieri intimi del generale,
che erano Lucceio, Teofane di Mitilene e Libone; e questi gli
portarono le proposte di pace. Ma Pompeo troncò subito il
discorso con una obiezione senza replica: “Io non posso tornare in
Italia per grazia di Cesare”677. Egli era stato trascinato
più che avesse voluta la guerra; ma le disfatte che il
partito di Cesare aveva subite erano state inflitte non da lui ma da
Giuba e dai suoi generali; egli era stato sempre vinto e aveva
dovuto fuggire d’Italia; non vi tornerebbe senza avere annullato lo
scredito e la vergogna di questa fuga con una grande vittoria. La
fortuna straordinaria di cui aveva goduto sino allora era oramai per
lui un impegno mortale.... D’altra parte la sorpresa sperata da
Cesare era fallita: l’ostinato Bibulo, ingannato una volta, aveva
mandato Libone, con cinquanta navi, a incrociare davanti a Brindisi
e faceva buona guardia sul mare non ostante il freddo e le tempeste
invernali; i rinforzi non venivano; Cesare si trovava solo, con
15 000 uomini, contro un nemico quasi tre volte più
numeroso. Così Pompeo, come i suoi consiglieri e i grandi di
Roma presenti al campo, invece di essere intimiditi e invogliati
alla pace dalla improvvisa apparizione di Cesare, erano stati
imbaldanziti a quasi sicura fiducia di vittoria: sarebbe stolto
conchiuder la pace, quando Cesare, avventuratosi così
temerariamente fuori d’Italia con forze tanto piccole, era quasi
alla mercè del nemico. A Cesare non restò più
che far svernare i soldati sotto la tenda, aspettare le altre
legioni da Brindisi, cercare intanto di impadronirsi del paese alle
sue spalle, frugarlo in ogni parte per trovar grano, far vigilare le
coste per impedire alla flotta di Bibulo di provvedersi di acqua e
quindi costringerla a lunghi e frequenti viaggi sino a Corcira,
durante i quali fosse più facile ai suoi di sgusciare tra le
squadre in crociera. L’acqua era, per le flotte antiche, ciò
che il carbone è per le moderne: il bisogno che legava i moti
della flotta alla terra, ai punti sicuri di approdo.
Non approfitterebbe invece Pompeo del maggior numero per costringere
il nemico a battaglia? Molti infatti nel campo pensavano si dovesse
fare così. Ma Pompeo non era mai stato un uomo molto operoso,
nè possedeva la infaticabile resistenza nervosa del suo
avversario; la breve energia che aveva mostrata negli ultimi giorni
della guerra in Italia e nei primi tempi dopo lo sbarco in Grecia,
era stata presto esausta dalle fatiche, dalle commozioni, dalle
vicende turbinose dell’ultimo anno, in un nuovo snervamento,
accresciuto dalle ansietà che accompagnano tutte le guerre
civili, nelle quali a una sconfitta può seguire lo
sbandamento dei partigiani, il passaggio dei propri soldati al
nemico. Perciò Pompeo apparisce in questa guerra non pari al
valente stratega della guerra contro Mitridate; ma con tutti i
difetti della sua natura aristocratica, che erano la incertezza e la
lentezza, accresciuti; ammalato quasi da follia del dubbio e
irresoluto sempre nell’operare, se pure intelligente a vedere il
consiglio migliore; fermo nel voler combattere sino all’ultimo a
costo di perire, non tollerante di consigli e di esortazioni alla
pace; ma in tutto il resto trascurato e sdegnoso, inetto a dominare
le volontà discordi dei grandi di Roma che eran con lui,
appartato dalla turba svogliata dei suoi partigiani in un orgoglio
solitario, che gli pareva segno di forza ed era stanca fiacchezza;
facile a ceder sempre alla fine alle sollecitazioni degli uni o
degli altri. È facile immaginare in qual disordine versasse
il campo, affollato di giovani e di vecchi nobili, di senatori e di
capitalisti italiani, di re orientali, di capi barbari! I grandi di
Roma, inaspriti dalle privazioni, dagli impicci di denaro in cui
spesso si trovavano, dopo aver prestate a Pompeo678 quante somme
avevan potuto raccogliere, erano impazienti di tornare in Italia; e
sfogavano i loro patimenti in minaccie di vendetta, in propositi di
confische, che spaventavano il buon Cicerone679; si guardavano l’un
l’altro con sospetto, si disputavano per ridicoli puntigli di
orgoglio; si accusavano da mattina a sera di tradimento680. Sino
Afranio e Cicerone erano stati ricevuti al campo con diffidenza e
quasi con disprezzo; perfino Attico, restato a Roma, era minacciato
di rappresaglie, come un transfuga!681 Era ancora un vantaggio
quando, come Bruto, invece di occuparsi della guerra, attendevano
nella tenda agli studi682. Naturalmente questi impazienti volevano
precipitar la battaglia; ma Pompeo raccoglieva tutta la rimanente
energia a imporre loro la strategia più prudente dell’attesa:
impedire l’arrivo dei rinforzi, continuare a esercitare il proprio
esercito, richiamar subito Scipione dall’Asia; aspettare che la fame
e i disagi decimassero ancor più il nemico, per distruggerlo
senza fatica.
Così le settimane cominciarono a passare, senza che avvenisse
nulla, in apparenza; ma intanto i viveri scarseggiavano nel campo di
Cesare; nè rinforzi nè notizie arrivavano dall’Italia.
Non andò molto che Cesare dovè sentire un principio di
inquietudine. Fallita la sorpresa, impossibile la pace, malsicuri
gli approvvigionamenti, egli non poteva sperar salvezza che da un
pronto arrivo dei diecimila uomini lasciati in Italia e da una
immediata vittoria. Ma potrebbero Gabinio, Antonio e Caleno passare
il mare? e quando? Di lì a poco Bibulo morì; Pompeo,
non sappiamo perchè, non nominò nessuno nel luogo suo;
la flotta si divise in tante piccole squadre che operavano ciascuna
per sè sola nelle varie parti dell’Adriatico; la vigilanza si
rallentò; la primavera avvicinava; più volte i venti
avevano soffiato favorevolmente; ma nessuno appariva. Cesare, sempre
più inquieto, incominciò a impazientirsi, a temere un
tradimento, a mandar lettere severe a Caleno e ad Antonio; si dice
anzi che un giorno tentasse di andar solo sopra piccola nave a
Brindisi683. Ma sebbene Libone avesse dovuto dopo molte scaramuccie
togliere il blocco di Brindisi, i tre generali temevano tanto il
passaggio dell’Adriatico guardato dalla flotta pompeiana, che non
osavano muoversi684. Alla fine gli incitamenti ripetuti di Cesare
diedero una spinta alle incerte volontà dei tre generali:
essi si divisero; Gabinio con 15 coorti risolvè di tentar la
via di terra e risalì la costa Adriatica, per cercar di
giungere in Epiro attraverso l’Illiria685; Caleno e Antonio si
avventurarono in mare. Ed ecco un giorno, i due eserciti che
accampavano di fronte sul golfo di Durazzo, vedono apparire, spinta
da un forte vento verso il nord, una flotta numerosa di navi. Tutti
si scossero dal torpore in cui giacevano da tanti mesi; corsero a
guardare, aguzzaron gli occhi sul mare, capirono che era la flotta
di Antonio; presto Coponio, l’ammiraglio pompeiano che comandava la
flotta ancorata nel porto di Durazzo, escì con le sue navi ad
inseguirla, come il falco dietro la rondine, e le due squadre ben
presto sparvero a nord.... Ma nei due campi continuò una
grande agitazione; i soldati furon posti subito sotto le armi in
ordine di partenza e informatori spediti in ogni parte per aver
notizie; nella tenda dei due comandanti incominciò un gran
via vai di messi e di ufficiali; tutti rianimati e fatti alacri si
tennero pronti agli eventi, che parevan vicini. Cesare dovè
passare qualche ora terribilmente ansiosa. La sua sorte dipendeva in
quel giorno dal vento! In breve così Cesare e Pompeo seppero
che Antonio aveva potuto, grazie a un rivolgimento felice del vento,
sbarcare quasi tutte le quattro legioni in un piccolo seno presso
Lisso; ed ambedue si mossero subito con parte dell’esercito per vie
differenti verso quel luogo: l’uno, per vincere Antonio prima che si
riunisse con Cesare, l’altro per unirsi a lui e ricondurlo in salvo.
Cesare più veloce potè unirsi ad Antonio; e Pompeo
dovè ritirarsi a sud di Durazzo, piantando il campo ad
Asparagio. Pur troppo però portavano Antonio e Caleno a
Cesare cattive notizie. La questione dei debiti che egli aveva
creduto comporre con ingegnose disposizioni, era divampata di nuovo,
appena lui partito, scatenando nel suo stesso partito una piccola
guerra civile. Celio, l’intelligente ma squilibrato amico di
Cicerone, il figlio del banchiere di Pozzuoli, l’antico conservatore
e rivale di Catullo in amore, spinto dai debiti e dall’ambizione,
aveva proposta una legge con cui si condonavano agli inquilini i
fitti arretrati e un’altra con cui si abolivano i debiti; il console
e Trebonio si erano opposti; eran successi tumulti; Milone era
sopraggiunto da Marsiglia e d’accordo con Celio aveva reclutato
bande di gladiatori e servi nell’Italia meridionale, tentando una
insurrezione. L’uno e l’altro però eran stati vinti ed uccisi
dai cavalieri galli e spagnuoli, lasciati da Cesare a presidiar
l’Italia686.
Tanto più Cesare fu incitato a finir presto la guerra.
L’ansietà che accompagna ogni guerra civile concitò in
lui, come in Pompeo, i difetti che eran gli opposti; e come Pompeo
nel gran periglio era stato preso dalla follia del dubbio, una
straordinaria esaltazione e una fretta quasi frenetica fecero Cesare
precipitoso a ogni rischio. La difficoltà degli
approvvigionamenti lo costringeva a cercar di finir subito la
guerra, a qualunque rischio. Mandò L. Cassio con una legione
novizia in Tessaglia, C. Calvisio Sabino con cinque coorti
nell’Etolia, Gneo Domizio Calvino con due legioni in Macedonia, per
provveder frumento e fronteggiare Scipione che frattanto
attraversava l’Asia minore levando dappertutto denaro e confiscando
nei templi i depositi dei privati, anche degli Italiani che spesso
lasciavano in quelli somme grosse; egli poi raggiunse Pompeo e
più volte gli offrì battaglia, sebbene avesse la
metà delle forze: ma invano. Quanto Cesare aveva fretta di
combattere, tanto Pompeo desiderava di ritardar la battaglia.
Tentò allora di trarre fuori il nemico ponendosi, con una
abile e rapida mossa, tra il campo nemico e Durazzo dove Pompeo
aveva i suoi magazzini; ma Pompeo non si indusse ancora a dar
battaglia; si accampò in un luogo detto Petra, sulle colline
del golfo di Durazzo, appoggiando il suo campo al mare e
contentandosi di comunicar con la città per mare. Cesare
allora, che non poteva più trattenere la impazienza e
l’esaltazione da cui era agitato, ebbe un’idea strana: chiuder il
nemico tra un gran terrapieno ed il mare, con la speranza di
costringerlo a tentare qualche sortita. I suoi soldati ripresero la
zappa e incominciarono a scavare e ad ammucchiar terra; i soldati di
Pompeo risposero costruendo un controvallo, munito di torri come
quello di Cesare; e intorno a questi terrapieni cominciò una
guerra di scaramucce, di sorprese, di ostinazione. Cesare faceva
soffrire l’esercito di Pompeo togliendo l’acqua, impedendo alla
cavalleria il pascolo, avvilendolo con la clausura, le molestie, le
epidemie che infierirono presto tra tanti uomini chiusi in
così angusto spazio. Ma Pompeo, piuttosto che uscire a dar
battaglia, imbarcava la cavalleria e la mandava a Durazzo, stremando
con questa resistenza passiva le forze di Cesare. I suoi soldati
furon ben presto tormentati da tal carestia, che si ridussero a
pascersi di radici; in Epiro e in Macedonia non restava più
grano dal raccolto precedente; la flotta pompeiana, divisa in varie
squadre, una al comando di Caio Cassio nelle acque della Sicilia,
una di Gneo Pompeo, il figlio maggiore del Magno, e un’altra di
Marco Ottavio sulle coste illiriche, una al comando di Decimo Lelio
nelle acque di Brindisi, faceva buona guardia; gli
approvvigionamenti per mare non erano possibili. Tutto l’impero
guardava ansioso a quel punto dell’Epiro, dove senza battaglie si
combatteva questa terribile, accanita guerra di ostinazioni. Quale
dei due potrebbe durare di più? Ma in breve la condizione
dell’esercito di Cesare diventò così grave per la
fame, che una volta ancora, sottomano, egli fece sollecitar Scipione
a interporsi per la pace. Quand’ecco un giorno una delle solite
scaramucce intorno ai valli divampò in una vera grossa
battaglia, nella quale i soldati di Cesare, stanchi per le fatiche e
il digiuno, furono disfatti. Cesare lasciò sul campo 1000
morti e perdè 32 insegne687.
Questo rovescio nella prima e vera battaglia tra Cesare e Pompeo
poteva finire per il primo in una calamità irrimediabile, se
l’altro avesse lanciato subito tutto l’esercito addosso al nemico.
Ma il dubbioso Pompeo non volle rischiar troppo e contento di questa
vittoria ricondusse le coorti vittoriose nel campo. A ogni modo
questa sconfitta era grave per Cesare, perchè persuadeva
molti che l’abilità sua nelle guerre contro i barbari non
bastava più contro il vecchio generale che aveva raccolti
tanti allori, dalle guerre civili di Silla alla presa di
Gerusalemme. Guai a Cesare se la fiducia che i soldati avevano in
lui, se la speranza dei premi futuri non fossero state ben forti! Il
frangente era critico tanto più che proprio allora Gabinio
falliva nella sua spedizione; e dopo aver perduto molti soldati
nelle continue scaramuccie combattute lungo la via contro i barbari
Illiri, era giunto a salvar Salona assediata da M. Ottavio; ma poi
ammalatosi, moriva e gli avanzi del suo piccolo esercito si
disperdevano688. Il rovescio di Durazzo fu invece una gran fortuna
per Cesare, perchè calmò in lui quella esaltazione e
quella impazienza in cui viveva da tanti mesi; lo fece, con un urto
improvviso, ritornare in sè; lo determinò ad
abbandonare quello strano assedio e portar l’esercito in regioni di
maggiore abbondanza, a cercar di ricongiungersi con Domizio Calvino
e Lucio Cassio che intanto battagliavano contro Scipione in
Macedonia. Riconfortati i soldati con nuove e maggiori promesse,
qualche giorno dopo la disfatta egli incominciò la ritirata;
lasciò i feriti a Apollonia sotto il presidio di 4 coorti, e
si avviò verso la Tessaglia sulla fine di giugno. Un pronto
inseguimento poteva ancora distrugger l’esercito; ma Pompeo come
sempre esitava, differiva, domandava pareri, che erano diversi: chi
voleva inseguir subito, chi ritornare in Italia, chi continuare la
strategia dell’attesa seguita sino allora....689 Pompeo si
risolvè a inseguire il nemico invece di tornare in Italia; e
lasciando Catone e Cicerone a Durazzo con quindici coorti a guardia
dei bagagli, gli tenne dietro lentamente, perdendo tempo, risoluto
però a continuare la strategia di rinvii e di lentezze, per
distruggere con la fame l’esercito di Cesare, che si era riunito con
quello di Calvino. La sorte di Cesare dipendeva dalla pazienza dei
suoi nemici. Ma i grandi di Roma, imbaldanziti dalla vittoria di
Durazzo e impazienti di tornare a Roma, incominciarono a protestare,
quando, i due eserciti essendosi avvicinati nella pianura di
Farsaglia e Pompeo essendosi unito a Scipione, videro ricominciare
la fastidiosa guerra elusiva, che combattevano da sei mesi. Era
talmente invecchiato e rammollito Pompeo, da non osare di disfare un
nemico già vinto, i cui soldati eran poco più della
metà?690 Consigli, proteste, lamenti, scenate, tutti i mezzi
atti a muover Pompeo furono messi in opera; sinchè Pompeo,
fastidito, disgustato, stanco, si lasciò indurre alla
risoluzione fatale. Egli offrì battaglia il 9 agosto691 nella
pianura di Farsaglia ordinando su tre linee le sue coorti,
appoggiandone il fianco destro al fiume Enipeo, collocandosi con
tutta la cavalleria al fianco sinistro, e proponendosi di
rovesciarla sulla cavalleria meno numerosa di Cesare e di lanciarla
poi ad avvolgere il lato destro del nemico. Cesare fece subito
uscire le ottanta coorti che, oltre le due lasciatene a guardia del
campo, ancor gli restavano e le ordinò su tre file; ma,
veduta tutta la cavalleria nemica ammucchiata alla sinistra, tolse
sei coorti dalla terza linea, ne fece una quarta linea, collocandola
al fianco destro dietro la cavalleria, con l’incarico d’aiutar
questa a respingere il probabile attacco avvolgente della cavalleria
di Pompeo; diede il comando dell’ala sinistra ad Antonio, del centro
a Calvino, della destra a Publio Silla; egli si pose pure a destra
di fronte a Pompeo e lanciò subito le due prime linee contro
il nemico. Questo resistè validamente, incominciando i duelli
tra le prime file delle coorti in cui consistevano le battaglie
romane e gli scambi tra le coorti che stanche si ritiravano, per
lasciar posto a quelle della seconda linea; mentre la cavalleria di
Pompeo tentava di avvolgere l’ala destra di Cesare.... Ma la
cavalleria di Cesare, aiutata dalle sei coorti della quarta linea,
resistè validamente; poi guadagnò un po’ di terreno,
incalzò, si mutò di assalita in assalitrice, mise in
fuga la cavalleria nemica. Allora le sei coorti della quarta linea,
trovandosi la via libera, girarono attorno all’ala sinistra
dell’esercito di Pompeo e la minacciarono alle spalle; Cesare colse
con prontezza il momento e facendo ritirare le due prime linee
stanche, lanciò contro le coorti di Pompeo la terza linea
fresca. L’esercito di Pompeo non poteva mantenersi nelle sue
posizioni; e un generale che fosse stato tranquillo avrebbe subito
disposto per una ritirata fatta con ordine e combattendo, nel campo,
la gran fortezza munita che ogni esercito romano aveva sempre alle
spalle. Ma lo stanco Pompeo, quando vide la ala da lui comandata
assalita a tergo, l’esercito urtato di fronte; perdè la
testa, abbandonò il comando, fuggì quasi solo nel
campo, gridando ai soldati che stavano a guardia di difenderlo bene.
Le coorti, lasciate in balìa di sè stesse, non
poterono ritirarsi in ordine e incominciarono a sbandarsi, ciascuna
per conto suo; Cesare si lanciò allora all’assalto del campo,
le cui porte non ben difese presto cederono. Pompeo, che si era
ritirato nella tenda, si riscosse al tumulto delle grida che
annunciavano l’avvicinarsi del nemico; e balzato a cavallo,
uscì con pochi amici dalla porta opposta a galoppo per la via
di Larissa. Il vecchio stanco non aveva resistito alla commozione di
quel cimento, il primo gran cimento affrontato dopo la campagna
contro Mitridate. Perduto il campo, l’esercito di Pompeo si
disperse; un certo numero di coorti si ritirarono con i loro
ufficiali sulla via di Larissa; altre si rifugiaron sui monti, qua e
là. Le perdite di Cesare furono piccole; più grandi
quelle di Pompeo, sebbene Cesare forse le esageri692. Era morto tra
gli altri anche Lucio Domizio Enobarbo. Il cimento terribile da cui
tutti aspettavano dipendesse la sorte del mondo era stata una
battaglia breve e poco cruenta.
XV.
CLEOPATRA.
(Anno 48-47 a. C.)
Cesare sfruttò con alacrità mirabile la vittoria:
richiamò i soldati dal saccheggio del campo di Pompeo; ne
mise una parte a guardia del campo conquistato, una parte ne
rimandò alla difesa del campo proprio; egli con quattro
legioni si slanciò subito alle calcagne dei fuggenti sulla
via di Larissa, raggiungendone il corpo più grosso al cader
della sera. Fuggiaschi e inseguitori passaron la notte, i primi
accampati sopra, i secondi a piè di un monte che dominava la
strada. Ma prima dell’alba i soldati mostrarono tanta fretta di
arrendersi che gli ufficiali non poterono trattenerli; solo gli
irreconciliabili, come Afranio e Labieno, fuggirono nella notte con
piccoli distaccamenti di cavalleria verso Durazzo; e il giorno dopo
Cesare, ricevuto in dedizione e perdonato l’esercito,
proseguì senza perder tempo per Larissa, dove trovò
alcuni ufficiali di Pompeo che gli si arresero, tra gli altri Bruto.
Pompeo invece aveva già oltrepassata la città senza
fermarsi; e si volgeva velocemente per la valle di Tempe verso le
foci del Peneo693, spiccando in via dal suo seguito diversi schiavi
a diffondere per la Grecia un editto in cui si comandava a tutti i
giovani greci e romani residenti in Grecia di venire ad Anfipoli per
essere arruolati694: tardo e inadeguato proposito concepito nella
concitazione della fuga da un generale che aveva abbandonato il
giorno prima un esercito. Alla foce del Peneo congedò gli
schiavi e si mise in mare su una piccola nave, con Lentulo Spintere,
Lentulo Crus, Favonio, il re Deiotaro e pochi altri; sinchè,
incontrata di lì a poco una nave da grano di un mercante
romano, ottenne di montare in quella e veleggiò verso
Anfipoli. Intanto Cesare, conosciuto l’editto di Pompeo, aveva
incaricato Caleno di sottomettere la Grecia; e partendo da Larissa
l’11 agosto alla testa di uno squadrone di cavalleria aveva percorso
in sei giorni quasi tutte le 180 miglia romane da Larissa ad
Anfipoli, seguito a marce forzate da una legione695, per
impadronirsi di Pompeo e impedirgli di rinnovare la guerra. Pompeo
seppe, appena giunto ad Anfipoli, che il suo nemico era già
vicino; onde rimasto nella città solo una notte, il tempo di
farsi prestar denaro da amici e clienti suoi696, partì
precipitosamente per Mitilene, dove erano la moglie e il suo
più giovane figlio Sesto, rimandando ogni deliberazione sul
mare. Questa partenza fece supporre a Cesare che Pompeo volesse
recarsi in Siria, la provincia da lui conquistata697; onde, ordinato
alla legione che già lo seguiva di tenergli dietro e a
un’altra di andare a Rodi, si volse a Sesto, sull’Ellesponto.
Intanto l’onda di spavento partita da Farsalo era arrivata alle rive
dell’Adriatico. Verso la metà di agosto698 Labieno giungeva
con i suoi galli e germani a Durazzo ed annunziava che l’esercito
era stato disfatto. Lo sbigottimento di tutti fu immenso; Cesare
parve già alle porte della città; si deliberò
di ritirarsi subito con la flotta a Corfù; i soldati aprirono
precipitosamente i magazzini e nella furia seminaron il grano per
tutte le vie che conducevano al porto; le navi che non si mossero
subito appena spinte furono nell’impazienza bruciate. Alla sera
l’esercito con Cicerone, Varrone e Catone sgomenti abbandonava il
porto, al sinistro bagliore delle navi incendiate699. Ben presto,
volata intorno alle coste dell’Adriatico la novella di Farsalo,
tutti gli ammiragli di Pompeo convennero a Corfù: C. Cassio
dalla Sicilia, Gneo Pompeo da Orico, M. Ottavio dall’Illirico, D.
Lelio da Brindisi; e a Corfù convennero pure alla spicciolata
molti dei più insigni amici di Pompeo che non volevano
arrendersi, come Scipione700. Si tenne allora, sotto la presidenza
di Catone, un consiglio, delle cui discussioni poco si sa, se non
che Gneo Pompeo per poco non ammazzò Cicerone perchè
aveva proposta la pace701; e che dopo il consiglio Cassio
andò con le sue navi verso il Ponto, è poco chiaro con
quali intenzioni; Scipione e Labieno si volsero verso l’Africa
sperando ritrovar Pompeo; M. Ottavio tornò nell’Illirico, per
finire di conquistarlo; Catone con Cicerone si recò a
Patrasso per raccogliere i fuggiaschi. Imbarcò infatti
Petreio e Fausto Silla; ma dovè presto veleggiare verso
l’Africa, perchè Caleno si avvicinava. Cicerone, non volendo
continuare la guerra, sbarcò a Patrasso.
Frattanto Pompeo, giunto a Mitilene verso il 20 di agosto, imbarcava
Cornelia e Sesto che avevano ricevuta soltanto la lieta notizia
della vittoria di Durazzo702; e separatosi da Deiotaro, che
ritornò in Galazia, costeggiava l’Asia minore e la Panfilia,
non osando toccar terra che per prendere acqua e viveri, fermandosi
solo un momento a Faselide703 e ad Attalia704, dove erano navi della
sua flotta e diversi senatori. Le proposte che si venivano intanto
ventilando per trovare un luogo dell’impero ove ricostituire un
esercito e ricominciar la guerra eran diverse: la Siria, l’Egitto,
l’Africa, dove Giuba aveva già aiutati i Pompeiani a scacciar
Curione. Bisognava risolversi: i fuggiaschi si fermarono a Sinedra,
per tener consiglio705; e fu deliberato di rifugiarsi in Siria.
Intanto Cesare, giunto a Sesto, mentre aspettava i battelli e la
legione, riceveva la sottomissione di un ammiraglio di Pompeo che
comandava dieci navi, L. Cassio706, e probabilmente prendeva le
disposizioni definitive per l’Italia, dove però non aveva
voluto mandare per riguardo civile nessun annuncio ufficiale della
vittoria. Antonio ricondurrebbe l’esercito in Italia, lo farebbe
nominar dittatore e sarebbe magister equitum o vice dittatore; egli
potrebbe continuar la guerra oltre l’anno del suo consolato con
piena autorità legale. Poi raccolti i battelli, raggiunto
dalla legione, saputo che la Grecia era stata tutta sottomessa da
Caleno, incominciò l’inseguimento di Pompeo attraverso le
isole dell’Egeo, partendo per Efeso e Rodi e volto alla Siria707. Ma
Pompeo, che era partito verso il 10 di settembre per Cipro, proprio
allora sapeva a Pafo che gli Antiocheni e gli Italiani residenti ad
Antiochia avevano dichiarato di non accogliere nè lui
nè alcun suo partigiano; onde fattosi dare denaro da una
grande società di finanzieri italiani che era a Cipro,
raccolta nei porti di Cipro una piccola flotta e circa 2000 soldati
scegliendoli nei depositi di schiavi che i finanzieri e i negozianti
italiani tenevano nell’isola per venderli in Italia, deliberò
di andare in Egitto708, dove regnavano i figli di quel Tolomeo che
Pompeo aveva fatto rimettere sul trono da Gabinio: Tolomeo Dionisos
e Cleopatra, che secondo il testamento del padre dovevano sposarsi e
regnare insieme. A Rodi Cesare, mentre aspettava la legione che
aveva ordinato a Caleno di mandargli, argomentò dagli
armamenti di Pompeo in Cipro che egli cercherebbe rifugio in
Egitto709; onde appena i soldati furono giunti, verso la fine di
settembre, pose vela direttamente verso il regno dei Tolomei. Ormai
i due rivali si rincorrevano sulla medesima via; ma, quando Cesare
arrivò, il 2 ottobre710, ad Alessandria, ebbe una notizia
inaspettata, ultima conclusione di una storia piena di eventi
inattesi: Pompeo era morto. Il re d’Egitto, quando Pompeo aveva
mandato a domandargli ospitalità, era in guerra con la
sorella, che i ministri del giovane sovrano avevano scacciata,
perchè più adulta e più intelligente; e questi
consiglieri, non volendo impegnarsi in guerra contro Cesare e
temendo che Pompeo respinto da loro si volgesse a Cleopatra, avevano
risoluto di ucciderlo. Quando la piccola flotta del fuggiasco giunse
in vista di Pelusio, dove era allora Tolomeo con l’esercito, una
navicella andò a prenderlo. Pompeo non voleva scendere
diffidando, ma poi fattosi animo entrò nello schifo dicendo
che chi varcava la soglia di una reggia diventava schiavo; la
piccola barca si allontanò, mentre Cornelia inquieta la
seguiva dalla nave ammiraglia con gli occhi ed egli rileggeva il
discorso in greco che aveva preparato per dire al re. Già la
riva era vicina e Pompeo si alzava per scendere: quando Cornelia
inorridita vide un soldato che era nella barca colpirlo a tergo711.
Era il 29 settembre 48712. In quel giorno, tredici anni prima Pompeo
entrava in Roma indossando la veste di Alessandro Magno e celebrando
il suo grande trionfo sull’Asia. Così finiva per mano di un
sicario questo grande della terra; che non fu uno sciocco, come si
sono compiaciuti di descriverlo molti storici moderni, ammiratori
troppo gelosi di Cesare; ma un intelligente gran signore, con tutti
i difetti e i pregi della nobiltà di antico lignaggio, cui i
tempi e la fortuna imposero alla fine un carico di
responsabilità superiore alle forze, e cui mancò
sopratutto la ardente passione di fare, la infaticabile fervida
vittoriosa alacrità del fortunato rivale. Della rovina in cui
perì non furono cagione soltanto gli errori suoi, ma i vizi
pure e le colpe delle alte classi, alla cui testa più che un
proposito deliberato l’avevano posto i casi del tempo. A ogni modo
la parte sua nella storia dell’impero non può essere
dimenticata: egli annette all’impero la patria di Gesù, la
cui conquista ebbe, insieme con la conquista della Gallia, maggiore
importanza tra tutte per i suoi effetti; e fu come Lucullo, con la
costruzione del teatro e con le feste date al popolo, uno dei
maggiori divulgatori della civiltà orientale in Italia; un
maestro di quel lusso pubblico della Roma dei Cesari, i cui avanzi
gli uomini ammirano e in parte imitano ancora.
Tra tutte le fortune di Cesare, questa repentina morte di Pompeo fu
certo la maggiore. Il rivale che per orgoglio non avrebbe mai
deposte le armi, spariva all’improvviso, ucciso da un miserabile
complotto di eunuchi orientali, in un piccolo schifo, senza che a
Cesare si potesse rinfacciare il suo sangue. Difatti quando la
notizia di questa morte giunse in Italia verso la metà di
novembre713, portata da uno dei più celeri schiavi di Cesare,
Diocare, tutti considerarono Cesare come ormai definitivamente
vittorioso; e siccome il successo in politica è il gran
regolatore delle opinioni, scoppiò in tutti i ceti un furore
di entusiasmo per lui. Le statue di Silla e di Pompeo furono tolte
via; tutti gioirono che la guerra fosse finita; la moderazione
mostrata da Cesare, le lettere sue ad amici di Roma in cui diceva
che la sua maggior gioia della vittoria sarebbe di salvare i nemici,
disposero gli animi alle più liete speranze che l’ordine
sarebbe presto restaurato, senza nè confische nè
stragi; e questa gioia, queste speranze, il bisogno di creder grande
chi riesce, la servilità epidemica per i potenti, che si era
divulgata nell’Italia insieme con la democrazia, con lo spirito
mercantile, con la cultura e la civiltà, faceva cadere in una
estasi di ammirazione per Cesare, spregiato sei mesi prima come un
ribaldo, il pubblico medio che badava sopratutto alle proprie
faccende, i senatori scettici e cupidi solo di ricchezze e di onori,
i ricchi mercanti, i banchieri e i possidenti che parteggiano sempre
per chi apparisce più forte714. Naturalmente gli amici di
Cesare, che per due anni avevan rischiata la rovina e la morte se la
guerra volgeva male, non furono tardi ad approfittare di questo
stato d’animo per far dare a Cesare i poteri necessari ad assicurare
non a lui solo, ma anche a loro una larga partecipazione al governo;
e fecero diluviare su lui una pioggia di alti onori: non solo la
dittatura715 per tutto l’anno 47 da lui voluta, ma il consolato per
tutti i cinque anni seguenti; la facoltà di presiedere da
solo alle elezioni di tutti i magistrati, cui presiedeva il console,
escluse quindi quelle dei tribuni e degli edili plebei; di assegnare
egli, invece che trarle a sorte, le Provincie ai pretori, di essere
considerato per tutta la vita come un tribuno della plebe716. Con
queste facoltà Cesare avrebbe potuto disporre del maggior
numero delle cariche e dei governi; e dare ai suoi amici, come preda
della lunga guerra, una gran parte della signoria dello Stato. Se il
vittorioso avesse saputo o potuto cogliere il momento fuggente di
questo entusiasmo universale! Era quello il tempo di tornare in
Italia, di porsi in mezzo all’impero, come egli aveva pensato un
anno prima, quale conciliatore dei partiti e delle classi in guerra
ma stanche della lunga discordia, a tentar di adattare le
istituzioni repubblicane alla società mercantile; di
conciliare l’imperialismo e la libertà, le tradizioni latine
e i nuovi bisogni nati dall’assimilazione della civiltà
orientale. Ma Cesare era un uomo di alto intelletto, non un semidio,
il quale potesse allora vedere ciò che apparisce così
luminosamente a chi considera tutta questa storia alla distanza di
venti secoli; onde si lasciò facilmente sviare, anche questa
volta, da incidenti fugaci e da necessità immediate. Egli
aveva bisogno di denaro: l’Egitto era ricco e Tolomeo non gli aveva
pagata tutta la somma promessagli per l’aiuto di Gabinio;
pensò dunque di fare una sosta ad Alessandria, di reclamare
come console il diritto di decidere la questione tra il fratello e
la sorella in base al testamento di Tolomeo, di farsi pagare il
debito del padre e l’arbitraggio prima di tornare a Roma717. Egli
aveva – è vero – poche migliaia di soldati; ma pieno di
ardire dopo tanto successo e per l’immenso potere di cui disponeva,
non dubitò che la cosa gli riuscirebbe in poco tempo e con
poca fatica718; mandò ordine a Cleopatra e a Tolomeo di
congedare gli eserciti e di sottoporsi al suo giudizio; si
insediò nel palazzo reale e impose una contribuzione sugli
abitanti di Alessandria. Ma mentre Cesare trattava con i ministri
del re che volevano persuaderlo a lasciare Alessandria; mentre
cresceva nel popolo un gran fermento, per le esazioni e le
prepotenze dei soldati romani, che erano spesso uccisi alla
spicciolata nei quartieri più popolosi della grande
città719, una sera, all’improvviso, venne a trovarlo nel suo
appartamento Cleopatra, che di nascosto era entrata nella
città e nel palazzo720. Freddissima di sensi, astuta ed
intelligente nelle arti della civetteria femminile, questa giovane
regina sapeva innamorare un uomo usando tutti gli allettamenti; o
scherzando con lui con vezzeggiamenti quasi pudichi, simulando
l’amore, le ansie gelose, la debolezza; o investendolo con trasporti
mentiti di sfrenata lascivia; o incitando delicatamente il senso
della bellezza con feste magnifiche, con meravigliosi adornamenti
della propria persona e della casa, con discorsi spiritosi di
letteratura e di arte; od incitando gli istinti più rozzi con
discorsi di una oscenità grossolana, con una volgare allegria
da donna di soldati. Cesare era uscito allora da uno dei più
tempestosi periodi della sua vita, con il bisogno di godere esaltato
dal successo, dalle liete speranze dell’avvenire, dalle lunghe
astinenze, dalle stesse immani fatiche compiute; e fu facile
perciò a Cleopatra persuaderlo, in una notte, che essa aveva
ragione. Ma quando il giorno dopo Tolomeo ed i suoi ministri seppero
che Cleopatra aveva passata la notte nel palazzo reale e nella
stanza di Cesare, videro la loro causa perduta; il ministro delle
finanze Potino, che temeva a Cesare seguisse un nuovo Rabirio,
incitò il popolo ad una sedizione, indusse il generale di
Tolomeo a venire ad Alessandria e far guerra a Cesare. L’esercito
dell’Egitto era una specie di legione straniera composta di antichi
soldati di Gabinio, di delinquenti, di schiavi fuggiti, di disertori
di tutti i paesi del Mediterraneo721. Questo piccolo esercito
costrinse presto Cesare a ridursi con i suoi uomini nelle vaste mura
del palazzo reale e a sostenervi un assedio, aspettando i rinforzi
mandati a dimandare in grande fretta a Gneo Domizio Calvino,
lasciato al governo dell’Asia.
Così, sino al 13 dicembre, Cesare continuò a governare
l’Italia e l’impero; ebbe ancora tempo di nominar Antonio magister
equitum722 ed essendo corsa voce che Catone e altri capi pompeiani
volevano tornare in Italia, di far vietare con una legge a tutti i
pompeiani di tornare in Italia, fatta eccezione per Cicerone e per
D. Lelio723; poi l’ inverno e la guerra lo separarono nel palazzo
reale di Alessandria dal resto del mondo, per modo che durante i
primi sei mesi dell’anno l’Italia e l’Impero non ebbero più
notizie di lui724: lunga assenza, cui non a torto Cicerone
attribuì la cagione di molti guai che avvennero dopo725. I
profughi dell’esercito di Pompeo che, nascosti nelle varie
città delle coste del Mediterraneo, aspettavano il ritorno di
Cesare, per ottenere lo sperato permesso di tornare in Italia,
furono condannati a una incresciosa attesa; a incresciosissima
attesa Cicerone che a Brindisi ruminava amaramente i molti
rammarichi di cui gli erano cagione gli eventi: gli amici periti
nelle guerre e la discordia con suo fratello Quinto, il quale lo
accusava di averlo costretto ad abbandonare Cesare; il tesoretto di
Efeso, che Scipione aveva confiscato; la povertà a cui si
trovava ridotto egli, sua moglie, sua figlia; la infelicità
di Tullia con Dolabella, che si conduceva da infame; la insolente
avversione della parte più rozza del partito di Cesare, la
scemata considerazione del pubblico, che lo considerava ora con
diffidenza e freddezza, perchè aveva combattuto nel partito
vinto e si credeva che Cesare gliene serbasse rancore726. Farsaglia
aveva sciupata anche la gloria del De Republica. Chi lo considerava
più come il gran maestro dell’arte politica? I centurioni di
Cesare che avevano combattuto a Ilerda e a Farsaglia erano
più ammirati di lui. Ma Cicerone almeno era fermamente
risoluto a non riprender più le armi; altri invece, meno
pazienti, incominciarono a stancarsi, a prestare orecchio alle voci
che giravano lungo le coste del Mediterraneo: se l’Illirico, difeso
dal questore di Cesare Q. Cornificio e da Vatinio accorso da
Brindisi in aiuto, era stato abbandonato definitivamente da M.
Ottavio, che si rifugiava con la flotta in Africa, in Africa i
superstiti dell’esercito di Pompeo si raccoglievano, preparavano un
esercito, andavano pensando ad un assalto dell’Italia; Cesare
versava in grave pericolo ad Alessandria; la guerra poteva
ricominciare. L’Italia stessa fu ben presto inquieta per altri guai
ben maggiori! Siccome per la legge approvata dopo Farsaglia Cesare
doveva presiedere solo tutte le elezioni a cui presiedeva di solito
un console, si poterono eleggere, sinchè egli era assente,
soltanto i tribuni e gli edili della plebe; cosicchè la
repubblica restò senza i magistrati più importanti, in
potere del solo vice dittatore Antonio, che giovane, gaudente,
spensierato, buon soldato ma poco pratico ancora del governo civile
considerò la vicedittatura come un premio e una festa; e
mentre gozzovigliava nello Stato senza magistrati in compagnia di
cantanti, di danzatrici e di Citeride, non avendo vergogna di
mostrarsi in pubblico ubriaco727, lasciò scoppiare quasi una
rivoluzione sociale.
Nel partito dì Cesare, come in tutti i partiti democratici
che rappresentano le classi più numerose e più povere,
ma che sono capeggiati da uomini appartenenti alle alte classi, era
insita una contradizione e quasi un inconsapevole malinteso. Una
parte, diremo così letterata e signorile, si componeva di
persone appartenenti alle alte classi, come Caio Trebonio, Marco e
Decimo Bruto, Sulpicio Rufo, Sulpicio Galba, Asinio Pollione, uomini
cioè di fine educazione, di notevole coltura e ricchezza, di
vita almeno decente secondo la morale dei tempi; che o si erano
riconciliati con lui dopo Farsaglia per necessità e amore di
pace o lo avevano seguito sin dai primi tempi per simpatia
personale, per soverchia fretta di ambizione, per disgusto del
malgoverno presente, per avversione allo spirito di superbia e di
durezza irradiante in tutto il partito conservatore degli ultimi
superstiti autentici della aristocrazia romana; ma che eran stati
educati e vivevano tra i signori, le persone colte, i nobili; che
avevano i sentimenti, le idee, i pregiudizi, gli interessi delle
alte classi, e che volevano sì un governo democratico e
generoso con il popolino, non la demagogia o la rivoluzione che
turbasse le alte classi nel sicuro godimento delle ricchezze, della
cultura, dei piaceri. Un’altra parte invece e molto più
numerosa, era formata di avventurieri, di malcontenti, di
condannati, di esaltati, di spostati, di indebitati, di uomini
venuti da tutte le classi, altissime e infime, spesso intelligenti
ed energici, non di rado ignoranti, quasi sempre senza
principî nè personali nè di classe e incitati
dal solo desiderio di soddisfare la propria ambizione, come
Dolabella, come Vatinio, coma Antonio, come Fufio Caleno e Ventidio
Basso, come Oppio e Cornelio Balbo, come Faberio, il suo abile ma
poco scrupoloso segretario. L’ordine pubblico, i diritti e la
tranquillità delle alte classi importavano molto meno a
questi, che pur di accrescere la propria potenza erano disposti a
soddisfare i rancori, le rabbie e i più stravaganti desideri
della popolazione povera. La contradizione restò latente
sinchè durò la guerra per la conquista del potere; e
Cesare si studiò di dissimularla con la sua alterna politica,
ora aizzando la demagogia ora civettando con i conservatori: ma
scoppiò invece appena il potere parve conquistato, sul
principio del 47. La miseria era cresciuta spaventosamente; era
cresciuta la disperazione dei debiti e degli affitti non pagati;
Dolabella, che era il più indebitato dei tribuni della plebe
e un giovinotto senza giudizio di 22 anni sebbene avesse già
moglie da tre anni e anzi fosse in procinto di far divorzio, non si
lasciò spaventare dalla sorte di Celio, ma incoraggiato dallo
avvilimento del vecchio partito conservatore dopo la disfatta di
Farsalo e dalla mezza anarchia in cui versava lo Stato per la
mancanza dei magistrati maggiori, considerando che Antonio e i
tribuni della plebe non avrebbero potuto fare opposizione, il primo
perchè poco autorevole, gli altri perchè magistrati
ormai per tradizione popolarissimi, deliberò di soddisfare
l’esasperazione della parte più inquieta e povera non solo
del partito cesariano ma dell’Italia, e di procurarsi una immensa
popolarità, riproponendo in gennaio le leggi di Celio, sul
condono degli affitti e sull’abolizione dei debiti. I proprietari di
case, tra i quali era pure Attico, e i ricchi capitalisti tremarono:
ecco sopravveniva a un tratto la rivoluzione sociale, temuta al
principio della guerra civile e il cui pericolo poi per un momento
pareva esser svanito; Cesare, che pure aveva mostrato di voler
rispettare la proprietà, era lontano; il partito conservatore
era distrutto e nessuna autorità restava più a
mantener l’ordine. Ma ben presto apparve che in una democrazia
mercantile la ricchezza ha molte difese invisibili contro la
demagogia, oltre le minaccie delle leggi e i muscoli dei soldati. Il
partito di Cesare si divise in un partito conservatore e in un
partito rivoluzionario. La parte fina e letterata dei cesariani,
sospinta dalle amicizie personali, dalle esortazioni dei ricchi,
dagli scrupoli morali e giuridici, dalla vergogna di esser
considerati nel proprio mondo come partigiani della canaglia, si
volse contro queste leggi; i tribuni della plebe Trebellio e Asinio
Pollione, il Senato si opposero alla proposta; Antonio indifferente
in cuor suo ma lusingato e adulato dai ricchi esitò a lungo
non sapendo per chi parteggiare; sinchè la moltitudine degli
artigiani, dei piccoli mercanti, dei liberti cui da due anni
scarseggiava il guadagno, che erano costretti perfino a rivendere
parte del grano avuto nelle distribuzioni pubbliche e vivevano sotto
la minaccia di esser scacciati di casa dal padrone cui non pagavano
l’affitto, esasperati dalla miseria, proruppero in tumulti728. Il
Senato sospese la costituzione e incaricò Antonio di mantener
l’ordine, chiamando i soldati in Roma729. Ma Antonio esitava ancora.
In quella dovè andare in Campania dove le legioni reduci
dalla Grecia, fatte prepotenti dalla guerra civile e dalla
lontananza di Cesare, si ribellavano volendo il congedo e le
ricompense tante volte promesse730; ma quando, pacificatele a
stento, ritornò a Roma, i tumulti ripresero di nuovo
incoraggiati dalla rivolta dei soldati. Dolabella continuava la
agitazione, non soltanto con i discorsi e tributando onori alla
memoria di Clodio, ma con le spade, battagliando con bande contro
Trebellio; e a Cicerone che aveva sperato di nobilitarsi sposando a
lui Tullia, toccava quest’altra suprema amarezza: di vedere suo
genero emular Catilina! Antonio allora si risolvè, pare anche
per motivi personali, perchè sospettava che Dolabella –
povera Tullia! – fosse amante di sua moglie, a parteggiare per il
partito dell’ordine; e incominciò a reprimere rigorosamente i
disordini: ma Dolabella non si spaventò; anzi il giorno in
cui portò la legge in discussione ai comizi, fece dai suoi
partigiani asserragliare il foro per non essere disturbato. Allora
il violento e sanguinario Antonio, già eccitato da queste
zuffe, vide rosso, slanciò i soldati alla conquista del foro,
rovesciò tutti gli ostacoli e disperse le bande ammazzando
800 persone731. Non si era veduto da un pezzo tanto macello in Roma!
Per il momento l’agitazione del popolino languì, tanto
terrore incuteva Antonio alla folla; ma le alte classi di Italia
erano sgomentate da questi eventi, proprio mentre notizie più
precise venivano dall’Africa: Catone, Scipione, Gneo Pompeo, Labieno
vi avevano raccolti gli avanzi dell’esercito pompeiano; avevano
fatta alleanza con Giuba, re di Numidia, ormai così
compromesso nella amicizia di Pompeo da dover combattere sino
all’ultimo contro Cesare; reclutavano arcieri, frombolieri,
cavalieri galli; accumulavano armi, molestavano con la flotta la
Sicilia e la Sardegna; tentavano di volgere a loro favore le
popolazioni spagnuole malcontente del governo di Quinto Cassio. Nel
tempo stesso in cui un nuovo esercito si disponeva a combatter
Cesare in Africa, sotto il comando supremo di Scipione, in Asia
ricompariva ad un tratto dal piccolo regno del Chersoneso Farnace,
il figlio di Mitridate, alla testa di un esercito, per riconquistare
i regni di suo padre, e sconfiggeva Domizio Calvino. Le speranze che
avevano allietata nell’autunno del 48 la nazione italiana, omai
stanca di discordie politiche, di guerre civili, di crisi
periodiche, si eran mutate a primavera del 47 in un grande
sconforto: la rivoluzione sociale stava per scoppiare in Italia, la
guerra civile per riaccendersi in Africa, l’impero d’oriente per
essere disputato a Roma dalla stirpe di Mitridate : ma di Cesare non
si sapeva nulla....
Finalmente verso la fine di aprile732 si seppe per notizie private
che Cesare, ricevuti i rinforzi, si era, il 27 marzo733, impadronito
di Alessandria, dopo una battaglia sanguinosissima. Tutti credettero
che egli sarebbe tornato subito in Italia; e le sedizioni già
languenti si calmarono a Roma come per incanto734. Invece passano i
giorni, le settimane e nessuna notizia ufficiale della sua vittoria
arriva735, nessuna notizia nemmeno della sua partenza da
Alessandria736. I tumulti ricominciano a Roma737; le dicerie
più diverse corrono sulle cagioni di questo ritardo; il
credito di Cesare diminuisce a tal segno che molti amici inquieti
gli mandano lettere supplicandolo di tornare senza indugio, molti
anche partono per andare a cercarlo ed affrettarlo al ritorno738. La
situazione diventò ben presto così pericolosa che gli
amici di Cesare fecero votare dal popolo alcune leggi intese a
ributtar giù il coraggio rinascente negli amici di Pompeo:
che Cesare avesse facoltà di far la guerra e la pace con ogni
popolo, di trattare i partigiani di Pompeo come volesse739. Cesare
invece, riconquistata Alessandria e dato il trono dell’Egitto a
Cleopatra (Tolomeo era morto durante la guerra), aveva intrapreso
con lei un viaggio nell’Alto Nilo740 e prolungava per due mesi tra
festini e banchetti, sollazzi e voluttà, con la regina che
era incinta, la sua avventura galante e guerresca; sinchè
solo ai primi di giugno741 partì per la Siria dopo essersi
fatta promettere una visita di Cleopatra a Roma; e dopo aver perduti
per i belli occhi della Egiziana nove mesi preziosi742 in un tempo
in cui i giorni contavano per anni e gli anni per secoli.... Ad
Antiochia trovò fasci di lettere ed un gran numero di
personaggi che lo invitavano a venire subito in Italia. Ma ci fu un
nuovo ritardo. Cesare non volle ritornare in Italia se non dopo aver
riordinato alla meglio l’Oriente; e con una velocità
prodigiosa, passati alcuni giorni ad ordinare le cose della Siria e
a spedire ordini per la campagna contro Farnace che egli intendeva
far subito, lasciò Antiochia ai primi di luglio,
incontrò alle foci del Cidno la squadra pompeiana comandata
da Caio Cassio il quale aveva passato gran parte del tempo a
studiare eloquenza a Rodi con Bruto743 e che gli si arrese;
sbarcò a Efeso e con poche forze andò incontro a
Farnace che sconfisse interamente il 2 agosto, a Zela744; non
tralasciando, pur in mezzo a così rapide corse di levar
contribuzioni e far denari a tutti i modi, a Cipro ad esempio
portando via tutti gli oggetti d’oro del tempio di Ercole745. Vinto
Farnace, tenne a Nicea una dieta, distribuì regni e possessi
facendosi dare in cambio molti ricchi regali dai re dell’Oriente,
senza però usar rappresaglie contro quelli che avevano
combattuto a Farsaglia contro lui; ascoltò le difese che di
Deiotaro, re di Galazia, fece Bruto, il quale lo aveva seguito; poi,
per la Grecia e Atene ritornò in Italia, sbarcando a Taranto
intorno al 24 settembre746; ricevè cordialmente Cicerone che
gli era venuto incontro; e rientrò a Roma.
Finalmente! Ma gli animi non erano più così bene
disposti come un anno prima. La rivolta latente delle legioni e gli
armamenti dei Pompeiani rifacevano molti dubbiosi dell’esito
definitivo della guerra; la lunga assenza e le dicerie sui suoi
amori con Cleopatra gli avevano nuociuto nella considerazione di
molti; l’esaltazione del popolino e la tentata rivoluzione di
Dolabella facevano temere di nuovo che anche questa guerra civile
finirebbe con violente spoliazioni dei ricchi. Disgraziatamente egli
stesso tornava in Italia non solo irritato contro le alte classi per
la nuova guerra che gli avanzi del partito aristocratico gli avevan
preparata in Africa; ma con intenzioni mutate e ambizioni accese,
non più contento di occupare il luogo lasciato vuoto da
Pompeo, come primo cittadino della repubblica. Per quanto è
lecito presumere, il soggiorno di Alessandria, la relazione con
Cleopatra, le feste e il lusso e gli omaggi egiziani avevano
risvegliato in lui il desiderio di goder qualche cosa di simigliante
in Italia; se non l’ambizione di diventar monarca, almeno quella di
instaurare in Roma un potere personale, duraturo, libero da tanti
impedimenti che nelle vecchie leggi repubblicane nascevano dal
principio della eguaglianza politica di tutti i cittadini. D’altra
parte non solo la nuova guerra in Africa era il premio della sua
moderazione; ma le rivolte delle legioni nella imminenza di una
nuova guerra non potevano non inquietarlo straordinariamente, quando
ancora non aveva i mezzi di mantener le vecchie promesse e alle
richieste di oro non poteva soddisfare che con nuove parole. Cesare
capì che gli bisognava far qualche cosa molto popolare e
gradita alle moltitudini, da cui uscivano e tra cui vivevano i
soldati; mostrare il proposito di favorire le classi povere che
potevan dargli legionari, elettori e la forza invincibile di una
popolarità immensa. Infatti mentre tutti credevano che
premierebbe Antonio e ucciderebbe Dolabella, egli mostrò
pubblicamente di aver questo in grande favore e di essere in collera
con l’autore delle terribili repressioni, in cui eran periti 800
plebei747: non solo, ma adottò addirittura una parte delle
proposte di Dolabella; non l’abolizione universale dei debiti ma il
condono per un anno degli affitti sino a 2000 sesterzi in Roma, e a
500 nelle altre città d’Italia748. Non volle però
accettare la nomina a console per cinque anni749; proibì per
legge di ipotecare oltre una certa parte della proprietà e
obbligò i capitalisti a investir una parte dei loro capitali
nel suolo750; impose prestiti forzosi ai ricchi privati e alle
città751, pose in vendita i patrimoni di molti caduti nelle
guerre civili, tra gli altri quello di Pompeo752: rappresaglia
contro i figli di lui e gli altri ostinatisi a una nuova guerra, che
parve crudele alle alte classi nelle quali la memoria del vinto di
Farsaglia durava ancora pietosa. Antonio acquistò il palazzo
di Pompeo, sperando di non pagarlo, e intanto incominciò a
far man bassa sulle collezioni d’arte e sui mobili, a vuotar le
ricche cantine. Cesare presiedè, invece del console, alle
elezioni dei magistrati per l’anno 47 e 46, cioè fece in
realtà nominare chi volle e distribuì le propreture;
ricompensando largamente i suoi fedeli. Vatinio e Galeno furon
consoli per il 47; per l’anno 46 egli e M. Emilio Lepido; tra i
pretori era Irzio; nella Gallia Transalpina fu lasciato il suo
prediletto Decimo Bruto; nella Gallia Cisalpina fu mandato M. Bruto,
che egli prese a favorire per riguardo a Servilia; nella Spagna
Ulteriore C. Trebonio, nella Citeriore il suo nipote Q. Pedio e Q.
Fabio Massimo; in Acaia Servio Sulpicio Rufo, il giurista che aveva
fatta la legge elettorale contro Catilina; nell’Illiria Publio
Sulpicio Rufo; in Bitinia Pansa. L’Asia toccò al proconsole
P. Servilio Isaurico753. Di lì a poco, quando Cesare ebbe
mandato Sallustio alle legioni di Campania per condurle in Sicilia
promettendo loro mille denari, lo spavento del militarismo
rivoluzionario si rinnovò: i soldati si ribellarono di nuovo,
per poco non ammazzarono Sallustio e precipitarono in grosse torme a
Roma, uccidendo sulla loro via due senatori, rubando e devastando.
Cesare dovette farle entrare a Roma; e riuscì a stento a
tranquillarle754. Ma la fretta di finir la guerra in Africa era
tanta, che verso la fine di novembre lasciò Roma, ai primi di
dicembre755 andò in Sicilia, giunse il 19 a Lilibeo756, si
imbarcò con sei legioni il 25 e il 28 sbarcò ad
Adrumeto757, incominciando subito la guerra.
Egli lasciava in Italia non solo le alte classi malcontente e
inquiete ma il suo partito diviso in una fazione aristocratica e in
una fazione demagogica. Alla prima si era aggiunto, dopo il perdono,
Cassio. Dalle cruente lotte per le leggi di Dolabella era nato tra
queste due fazioni un odio e un disprezzo profondo, che la nuova
politica popolare di Cesare rinfocolava, sotto apparenza di sedarli;
e che sarebbe cagione di eventi immensi.
XVI.
I TRIONFI DI CESARE.
(Anno 46 a. C.)
I mesi che Cesare guerreggiò in Africa, passarono lenti e
tormentosi per le alte classi dell’Italia, così per la
piccola parte che viveva nella politica, come per quella, più
numerosa, che si dava agli affari. Grande e ansiosa era l’incertezza
sulle intenzioni di Cesare. Che cosa avrebbe egli fatto, quando
l’estrema resistenza dei Pompeiani fosse vinta? Avrebbe continuata
la tirannide demagogica nemica ai ricchi, incominciata con la
vendita dei beni dei Pompeiani, con la legge sugli affitti, con la
protezione di Dolabella? È vero che dal principio del 46 egli
non era più dittatore758; ma non si sarebbe fatti attribuire
nuovi onori straordinari, dopo la vittoria purtroppo non dubbia? I
ricordi di Silla, rinfrescati dagli ultimi eventi, alimentavano le
inquietudini: gli uomini politici che avevano parteggiato per Pompeo
e per il partito conservatore temevano di essere esclusi per sempre
dalle magistrature; i ricchi, di esser spogliati dei beni; la parte
più eletta degli stessi cesariani, di veder troppo potente il
partito rivoluzionario e demagogico. Come nelle giornate incerte di
primavera, l’aria e la terra si oscurano quando un nuvolone copre il
sole, e poi l’aria e la terra brillano lietamente e poi di nuovo si
oscurano; così allora nell’anima dell’Italia si succedevano
nubi di melanconia che noi vediamo ancora, dopo tanti secoli, passar
sui libri scritti in quei mesi dal più raffinato interprete
del pensiero e del sentimento delle alte classi. Incitato da Bruto,
al quale, dimenticate le questioni del proconsolato in Cilicia, si
stringeva di amicizia sempre più intima, Cicerone aveva
ripresa la penna759 e ricominciato sul principio del 46 a comporre
in forma di dialogo tra Bruto, Attico e lui, secondo la imitazione
platonica, quella storia della eloquenza romana che va sotto il nome
di Brutus seu de claris oratoribus. Sin dalle prime pagine il dolore
della rinata guerra civile fa invidiare a Cicerone la fortuna di
Ortensio morto da poco, senza aver visto il foro deserto e muto760.
Al principiar del dialogo però, Attico, il prudente
banchiere, ammonisce che “non si parlerà di politica”761; ma
invano, che le allusioni e i rammarichi scattano fuori ad ogni
occasione. Bruto fa un vivo elogio del primo console della
repubblica che aveva distrutto la monarchia762 e dal quale Attico,
gran dilettante di archeologia, aveva dimostrato che Bruto
discendeva per linea paterna; più avanti parla con lode di
Marcello, il console del 51, il nemico di Cesare che si appartava
nel suo lontano esilio a Mitilene, lungi da queste “comuni e fatali
sciagure”763. Ed ecco arrivar le notizie dall’Africa; la guerra era
finita il 6 aprile con la battaglia di Tapso vinta da Cesare, il
quale però, questa volta, non aveva perdonato: Fausto Silla,
L. Afranio, L. Giulio Cesare, venuti in potere di lui, erano stati
messi a morte; L. Manlio Torquato, M. Petreio, Scipione si erano
uccisi; solo Labieno e Gneo Pompeo erano fuggiti in Spagna, Catone
ad Utica. Molti nella alta società piansero per questi amici
perduti: ma cagione di maggior dolore e scandalo fu la prontezza con
cui la cricca degli amici più ambiziosi di Cesare
approfittò della vittoria per fargli decretare, come gli
uomini savi temevano, i più straordinari onori: che egli
fosse nominato dittatore addirittura per dieci anni, che gli si
attribuisse la potestà censoria per tre anni, sotto il titolo
di Præfectura morum764; che egli avesse il diritto di proporre
i candidati alle magistrature le cui elezioni erano presiedute dal
console, tutti cioè fuori che i candidati al tribunato e
all’edilità della plebe765. Nemmeno i più pessimisti
avrebbero supposta tanta audacia! La dittatura decennale in special
modo pareva una mostruosa tirannide quasi monarchica a persone cui
la tradizione aveva insegnato un odio così intenso del potere
assoluto e delle magistrature singole, lunghe e irresponsabili766;
era certo: a questa dittatura seguirebbe un chiuso e rapace governo
di consorteria, di confische, di violenze. Ma non era possibile
opporsi: tra gli amici di Cesare la piccola cricca degli
avventurieri voleva aumentarne il potere per accrescere nel tempo
stesso il suo; e questa, con i pochi fanatici ammiratori e i molti
impudenti adulatori dell’uomo che ormai, come Silla, era a capo di
tutte le milizie dell’impero personalmente a lui devote, prevaleva
nel Senato e nei comizi sulla pavida incertezza dei più,
sugli stessi partigiani più moderati di Cesare, che, pur
disapprovando in cuor loro, non osavano opporsi apertamente a chi
pareva signore di tutto. La servilità che aveva accolto in
Italia Silla dopo la vittoria, andrebbe ora incontro al reduce
vittorioso dall’Africa!
Il libro diventa più malinconico; e basta che Bruto ricordi
L. Manlio Torquato, che Cicerone l’ammonisce di tacere; “dolorosa
è la memoria dei mali passati e più dolorosa ancora
l’aspettazione dei mali futuri767”. Alla fine Cicerone ritorna a
invidiar la sorte di Ortensio; a rammaricare che il suo viaggio
terreno finisca in questa “notte della repubblica” e quasi a
compianger Bruto che, troppo giovane, dovrà vedere un seguito
infinito di mali anche maggiori768. Il libro incupisce a mano a mano
che si volge alla fine; e piene di tristezza sono le lettere scritte
in questi mesi da Cicerone a Varrone769. Crucci privati lo
avvilivano, oltre i guai pubblici. La sua Tullietta non poteva
più vivere con lo scioperato Dolabella; con Terenzia, era
incominciato per ragioni poco chiare uno di quegli strani litigi tra
vecchi coniugi, in cui si sfoga a volte la irritabilità
senile, cosicchè Roma stava per vedere uno spettacolo
singolare: il padre e la figlia divorziare insieme770; ora che
l’ardore delle dispute forensi e politiche, il trasporto delle
speranze ambiziose, la compiacenza di essere un gran personaggio non
lo distraevano più, il fastidio della mezza povertà in
cui era caduto e gli affari suoi tanto intralciati lo angustiavano
maggiormente. A Cicerone, che non era un uomo senza famiglia, come
quasi tutti i grandi del tempo suo, queste tribolazioni private
toglievano gli ultimi avanzi della energia necessaria alla lotta.
Non restava che consolarsi attendendo agli studi; risolvendo i molti
dubbi sulla storia antica di Roma che gli proponeva Attico, gran
dilettante di archeologia e compilatore, tra l’uno e l’altro affare,
di una storia per annali di Roma; compiacendosi anche di vedere la
considerazione in cui lo tenevano gli uomini più insigni e
colti del partito di Cesare; i quali cercavano di usar cortesia al
grande oratore e al filosofo del De Republica, e lo invitavano quasi
ogni giorno a banchetto771. Dolabella e Irzio anzi venivano a
prender lezioni di eloquenza e cercavano di rallegrarlo con buoni
pranzi772; Dolabella in special modo, di cui restava amico non
ostante i suoi torti verso Tullia, poichè, con il brio della
inesauribile allegria giovanile, sapeva farsi perdonare la
perversità dal vecchio oratore, come da Cesare, come da tutti
gli uomini e specialmente da tutte le donne di cui era amico773.
Indebolito dagli anni e dai crucci, Cicerone accettava gli inviti
per consolarsi, sebbene ne sentisse rimorso di tempo in tempo,
quando gli eventi gli rinnovavano il dolore della gran catastrofe in
cui tanti amici erano spariti: ultimo tra tutti Catone. Il vecchio
aristocratico aveva finita la vita con la stessa inflessibile
ostinazione con cui l’aveva vissuta. Incaricato, dopo la battaglia
di Tapso, di difendere Utica, egli aveva capito come ogni resistenza
fosse inutile; e non volendo accettare il perdono di Cesare, una
sera, tranquillamente, dopo aver disposto tutte le cose sue, aveva
salutato il figlio, si era ritirato nella sua camera, aveva letto
lungamente il Fedone; poi si era trafitto. I familiari accorsi al
suo rantolo lo trovarono agonizzante774.
Cesare, intanto, annesso all’impero il regno di Giuba e levate
grandi contribuzioni di denaro, partiva da Utica il 13 giugno,
sbarcava il 16 a Cagliari e vi si tratteneva fino al 27, mandando di
là Caio Didio e soldati in Spagna a perseguitare gli ultimi
avanzi del nemico, ma per l’impedimento dei venti contrari non
potè rientrare in Roma che il 25 luglio775; aspettato dalle
alte classi con un malumore ansioso, misto di vecchio odio, di paura
e di invidia nuove, che i grandi onori decretati di recente avevano
accresciuto. Qualcuno sperava una restaurazione delle istituzioni
repubblicane, ora che la pace era ristabilita: i più temevano
una tirannide aperta, violenta e rapace. Ben presto gli uni e gli
altri si accorsero di avere errato. Certamente Cesare non intendeva
più ritornare a vita privata; perchè sebbene avesse
incominciata la guerra non per ambizione del supremo potere, ma per
conquistare una condizione onorifica e sicura nella aristocrazia
repubblicana, ora il successo, la dimora in Egitto, lo spirito
rivoluzionario di spregio delle antiche tradizioni romane che
ferveva in Italia e si mostrava in tante forme, dai nuovi gusti
letterari della gioventù alla progrediente imitazione dei
costumi orientali, avevano risvegliati in lui desideri più
audaci. Cesare non era un voluttuoso scettico come Silla; nè
un comodo dilettante come Pompeo: era uno spirito inquieto e ardente
cui la febrile alacrità, il lavoro soverchio, le commozioni
intense erano diventate bisogno. Finalmente, dopo essersi tanti anni
arrovellato per aver mezzo di compire qualche impresa memorabile,
egli poteva ora comandare a un esercito, mettere nelle magistrature
persone fidate, disporre di grandi somme! Rinunziare, tornando alla
vita privata, ad attuare i grandi disegni in cui si esaltava il suo
spirito, era duro, tanto più che egli aveva preso gusto, se
non a tutti, a qualche piacere della onnipotenza. Non al lusso o
alla servilità: ma, se egli fosse ritornato uomo privato,
sarebbe Cleopatra venuta al convegno che gli aveva dato in Roma?
Ma avesse pur voluto rinunciare al potere supremo, Cesare era, per
dir così, prigioniero della sua vittoria, e non avrebbe
potuto. Egli aveva vinto, esaltando nelle moltitudini con audacia
disperata, come Silla, la passione più fervida e pericolosa
dell’era mercantile, la cupidigia; promettendo ai soldati mari e
monti, privilegi, terre, denaro, accavallando le promesse come
ondate, una più grossa dell’altra; le promesse di Spagna su
quelle di Rimini, le promesse di Brindisi su quelle di Spagna, su
quelle di Brindisi le nuove e maggiori promesse fatte dopo la
sconfitta di Durazzo. E tutti si erano fidati, faticando a credenza,
rassicurati dalla sua splendida fama di generosità. Ora
però bisognava mantenere. Tutte le altre parole sue egli
poteva adesso disdire, come fole date ad intendere agli sciocchi per
vincere; non queste promesse fatte ai trenta o quarantamila uomini
che lo avean seguito dalla Gallia o eran passati a lui dal nemico; e
che da tre anni sognavano di poter presto campar tranquilli di
rendita sulle terre e con i denari ricevuti da lui. Le ultime
rivolte delle legioni, impazienti di ricevere le ricompense,
dimostravano che non si poteva tentar di deludere queste
moltitudini, esaltate in modo indicibile dalle promesse e dalla
guerra civile, smaniose, pronte a violenza, senza scatenare una
rivoluzione militare che avrebbe travolto lui prima di ogni altro; e
alcuni piccoli contrasti recenti gli facevano intravedere a quali
pericoli si esporrebbe, non soddisfacendo appieno gli smodati
appetiti dei suoi più fedeli partigiani. Così Antonio,
perchè egli voleva obbligarlo i pagare i beni di Pompeo
acquistati all’asta, empiva allora Roma di invettive e di minaccie
contro lui, si diceva perfino avesse cercato di armare un
sicario!776 Come Silla, egli era personalmente responsabile verso
tutti delle promesse fatte e anche delle speranze chimeriche
concepite da molti; e come Silla, egli non poteva, prima di aver
ricompensati partigiani e soldati, abbandonare il potere supremo,
che era il solo mezzo efficace per mantener le promesse. Come
avrebbe provveduto sollecitamente a premiare i vincitori il governo
del Senato e dei magistrati repubblicani, già così
lento per sè e nel quale avrebbero presto riacquistato potere
i vinti?
Ricompensare i “compagni”, come egli li chiamava; appagare questo
corpo esigente di aspiranti a laute pensioni, formatosi durante la
guerra civile, era la più intralciata faccenda che la
vittoria legava al vincitore, quasi ad espiazione. Cesare non aveva
voluto nè poteva imitare le stragi di Silla; perchè,
sebbene di pochi scrupoli nel pericolo e nel bisogno, non era
però crudele e pazzo; e aveva sentito anche nel trionfo che
in quaranta anni il sentimento pubblico si era raffinato, inclinando
ormai alla conciliazione, alla concordia, alla pace; perchè
aveva vinta non una rivoluzione ma una guerra civile, nata per le
rivalità di clientele politiche in un paese tranquillo e
desideroso di pace; nel quale grandi stragi e confische lo avrebbero
presto infamato anche tra coloro a cui vantaggio fossero fatte. Ora
a pensionar tanti veterani con terre e denaro, senza procedere a
confische, in Italia, era necessaria una vasta operazione che
richiederebbe gran tempo. Cesare lo capiva; e la consapevolezza di
questa difficoltà, la tranquillità sopravvenuta
nuovamente dopo la vittoria di Tapso, il malcontento delle alte
classi per gli onori decretatigli e specialmente per la dittatura
decennale, lo disponevano di nuovo a prudenza e moderazione. Sembra
che in questo momento fuggitivo di calma in mezzo alla procella che
ne travolgeva lo spirito da tanti anni, Cesare concepisse il disegno
di stabilire non un violento governo di partito o di classe, ma un
governo equo e savio, che soddisfacesse i desideri ragionevoli e
giusti di ogni classe e partito. Appena giunto, tenne un discorso al
popolo e uno al Senato, nei quali celebrò la grandezza dei
paesi conquistati in Africa, la loro fertilità, l’abbondanza
di grano che avrebbero fornito a Roma; assicurò che avrebbe
governato senza tirannide, come il capo del popolo777; non
accettò subito la dittatura decennale778 contentandosi di
essere soltanto console; accettò i poteri elettorali e la
præfectura morum incominciando subito, tra l’aspettazione di
tutta Italia, a fare e a disfare. Anzitutto trionfò per
quattro giorni: il primo sui Galli, mostrando dietro al suo carro
Vercingetorice che il giorno dopo fece strozzare soddisfacendo alla
fine il rancore ingeneroso ma purtroppo umano contro colui che per
poco non ne aveva rovinata la fortuna; il secondo giorno sugli
Egiziani, il terzo su Farnace, il quarto su Giuba779. Ma molti che
avevano osservato con ammirazione i tre primi trionfi, videro con
dolore ostentati nell’ultimo le armi tolte ai Romani e rappresentati
in modo offensivo quasi da sconcie caricature i principali nemici,
anche Catone780, che dopo morto era diventato l’eroe della
romanità e sul quale Cicerone stava scrivendo un elogio,
sempre per incitamento di Bruto, di uno cioè dei più
insigni rappresentanti della parte conservatrice tra gli amici di
Cesare. Grande fu invece la gioia del popolino per i doni e le feste
che seguirono. Cesare era tornato dall’Africa ben provvisto di
denaro, con 600 milioni di sesterzi in moneta e molti metalli
preziosi781; onde pagò a ogni cittadino i 300 sesterzi
promessi nel 49; a ogni soldato 24 000 sesterzi; ai centurioni
il doppio, ai tribuni il quadruplo782; diede un grande banchetto
pubblico; fece una distribuzione gratuita di grano e di olio783. La
moltitudine fu contenta; ma a molti spiacquero queste immani
profusioni di oro e questo incoraggiamento pubblico alla
gozzoviglia, che contrastavano tanto alle vecchie tradizioni di
semplicità e di risparmio. Cagione di lieta sorpresa dovette
essere invece la politica, con cui Cesare, per instaurare un governo
imparziale di ragione e di giustizia, tentò curare il
disordine morale e amministrativo, attuando la parte ragionevole del
programma dei suoi nemici: ultima oscillazione dello spirito di
Cesare verso la politica di moderazione; ultimo dei tanti sforzi
fatti da lui per riconquistare il favore delle alte classi. Con la
consueta rapidissima alacrità egli fece, aiutato da pochi
amici e da pochi liberti, servendosi della potestas centoria o
proponendo leggi ai comizi, un seguito di riforme piene di spirito
conservatore: riformò i tribunali, dando loro una
composizione più aristocratica784; modificò le leggi
penali, accrescendo le pene contro i delitti785; sciolse le
associazioni facinorose, i collegia di artigiani organizzati da
Clodio, di cui pure si era tanto servito nella sua lotta contro il
partito conservatore786; ridusse il numero di coloro che, in seguito
alla legge di Clodio, partecipavano alle distribuzioni gratuite del
grano787; publicò una legge suntuaria che frenava il lusso
delle perle, delle lettighe, delle porpore788; volle contenere la
emigrazione dei giovani dall’Italia, che rendeva così
difficili i reclutamenti789. Tentò anche di riordinare i
servizi pubblici; dispose per la coniazione di una moneta d’oro,
l’aureus790; chiamò a Roma astronomi egiziani, per
rettificare il calendario791; curò di riordinare le finanze
imperiali, ristabilendo le dogane e rivendicando allo Stato le cave
delle pietre da smeriglio di Creta che molti sfruttavano senza
permesso e appaltandole792; incominciò a studiare la famosa
lex Julia municipalis, di cui tanto parleremo in seguito e che
doveva riordinare la costituzione amministrativa delle città
italiane793. Riforme belle e opportune, che dovevan piacere a tutte
le persone savie.
Molti, incoraggiati, si domandavano se egli avrebbe anche
restaurate, nella misura, in cui era possibile, le istituzioni
republicane. Cicerone che frattanto, finito l’elogio di Catone,
aveva posto mano all’Orator794, si poneva ogni giorno questa
dimanda; spiava ogni atto di Cesare, interrogava gli intimi, un
giorno inclinando a sperar bene, un altro disperando. Aveva sperato
molto fino alla metà di settembre, a segno che si era
risoluto a smettere quello che per lui era quasi il lutto della
republica, rompendo in settembre il silenzio tenuto in Senato, per
domandare con un discorso pieno di elogi per Cesare il perdono di
Marcello; anzi aveva in questo discorso alluso alla ricostituzione
di un governo civile795. Ma poi sul finire di settembre, quando
Cesare consacrò il tempio a Venere Genitrice, Cicerone e il
pubblico videro con scandalo immenso la statua di Cleopatra accanto
al simulacro della Dea, scolpito da Archesilao, uno dei più
celebri scultori di Roma796; e dovettero assistere al nuovo tripudio
di feste celebrate in quella occasione e più grandiose ancora
che quelle del trionfo: caccie di fiere, combattimenti di
gladiatori, rappresentazioni in tutti i quartieri e in tutte le
lingue, affinchè la plebe cosmopolita potesse divertirsi
tutta, una naumachia in un lago artificiale!797 Anche certi
senatori, scelti da Cesare tra persone oscure – perfino aruspici di
professione798 – spiacquero assai; spiacque l’indugio inesplicabile
nel convocare i comizi, che furono invano aspettati dagli ambiziosi
per il tempo consueto e nei mesi seguenti, cosicchè ad anno
avanzato solo i tribuni e gli edili della plebe erano stati eletti;
spiacquero ancor più certi abusi segreti. Così un
giorno Cicerone ricevè i ringraziamenti di certi principi
dell’Oriente per un senatusconsulto che egli avrebbe fatto approvare
dal Senato; quando egli invece non conosceva nemmeno l’esistenza di
quei personaggi799. La alacrità di Cesare si accelerava in
una fretta impaziente: come aveva costretto Archesilao a esporre nel
Tempio di Venere Genitrice la statua della dea non finita, per far
subito l’inaugurazione800; così, spesso, precipitava le
deliberazioni con procedimenti arbitrari che irritavano molte
persone. Non piacquero nemmeno le nomine dei governatori per l’anno
45: erano, tranne pochi, i soliti amici di Cesare801, tra i quali
alcuni molto odiati e malfamati tra i conservatori: come Vatinio;
come Sallustio, che fatto dopo Tapso propretore della Numidia, vi
era lasciato ancora un anno a rifar la fortuna dissipata a Roma con
le donne. Cesare, come avviene agli uomini anziani, pieni di crucci
e di cure, adoperava ormai quasi solamente uomini già
conosciuti da molti anni come il fido Oppio, l’abile Balbo, Faberio
l’intrigante, l’allegro Dolabella, Vatinio, Caleno, Decimo Bruto, il
prediletto tra tutti802, che lo aveva salvato in Spagna e da due
anni governava splendidamente la Gallia Transalpina, mantenendola in
pace. Solo Antonio era caduto definitivamente in disgrazia e viveva
oscuramente con Fulvia, la vedova di Clodio e di Curione che aveva
sposata. Tempo e voglia di rinnovare questa compagnia, tra tante
cure, mancavano a Cesare; onde molti antichi avversari, che pur
avrebbero potuto aiutarlo, restavano in disparte, per diffidenza,
per orgoglio, per la noia di dover farsi largo tra i vecchi e molto
gelosi amici di Cesare; nella cui cerchia chiusa e angusta erano
entrati pochi uomini nuovi: i figli di due sue nipoti, Quinto Pedio
e Caio Ottavio e la famiglia di Servilia. Il figlio di lei Bruto, i
due generi Caio Cassio e Lepido formavano nel partito di Cesare un
piccolo gruppo aristocratico, colto e assai ben trattato dal capo;
ma dei quali solo Lepido era veramente intimo di Cesare803. Quanto a
Caio Ottavio, era costui un giovinetto diciassettenne, molto
intelligente, che dopo la morte del padre e il secondo matrimonio
della madre con Lucio Marco Filippo, era stato educato in casa della
nonna, sorella di Cesare, e che questi aveva preso da qualche tempo
a proteggere, sorvegliandone l’educazione, facendolo conoscere al
popolo con distinzioni onorifiche, scegliendogli forse egli stesso,
oltre ai maestri che già aveva, due nuovi precettori:
Atenodoro di Tarso e Didimo Areo, quest’ultimo membro di quella
scuola neopitagorica che noi abbiamo visto studiarsi di diffondere
allora nel mondo romano una bella morale di austerità804. Ma
il giovinetto era di salute delicata; anzi in quei mesi giaceva in
letto per una grave malattia, che inquietava molto Cesare805.
I contemporanei giudicavano variamente queste contradizioni,
attribuendole per lo più a segrete intenzioni di Cesare. In
verità, invece, Cesare si stancava, smarriva la lucidezza, la
coerenza, la risolulezza in un ondeggiare sempre più rapido
di contradizioni. Le fatiche, le commozioni, la straordinaria
tensione nervosa degli ultimi anni, l’esaltazione del successo, la
illusione di forza che nasceva in lui dalla sua stessa stanchezza,
lo incitavano ad assumersi un carico di responsabilità, a cui
nemmeno egli poteva reggere. L’idea che un uomo solo, per quanto
intelligente ed operoso, con pochi amici e liberti raccattati a caso
sulle vie della fortuna in dodici anni di guerre e venture, potesse
comporre nel vasto impero il disordine nascente da una lunga
decomposizione e ricomposizione sociale, era chimerica. Vincere con
un esercito il partito conservatore e le alte classi dell’Italia,
infiacchite dagli egoismi che dissolvono tutte le classi troppo
potenti, era stato facile: impossibile era invece a un uomo comporre
con leggi gli immensi antagonismi di quella società avida,
violenta, orgogliosa. Le difficoltà rinascevano l’una
dall’altra, suscitate dalla stessa fretta faragginosa con cui egli
tentava di vincerle; e l’irritazione, la fatica, le delusioni di
questo immane lavoro ottenebravano quello squisito senso
dell’opportuno e del reale, che era stato per tanti anni così
lucido in lui. Qualche volta egli stesso diceva, come stanco, di
aver già troppo vissuto806; i suoi intimi, Balbo ed Oppio,
osservavano da un pezzo come egli diventasse ogni giorno più
irascibile, impulsivo, bizzarro; come ogni accenno anche discreto
alla opportunità di deporre parte almeno del potere lo
adirasse ogni giorno di più; lo avevano anzi visto irritato a
tal segno dallo scritto di Cicerone in lode di Catone, che voleva
scrivere una risposta e aveva incitato Irzio a fare altrettanto.
Eppure egli non voleva sentirsi dire che violava la costituzione,
che sovvertiva la tradizione, che agiva contro lo spirito, se non
contro la parola, delle leggi con cui gli era stato dato il potere.
In quel tempo stava componendo i Ricordi della guerra civile che
mirano ostinatamente a dimostrare come egli avesse osservata
scrupolosamente la costituzione; come il partito nemico e non egli
avesse dato di piglio nella roba e nel diritto dei cittadini. Ma a
ogni mese che passava di questo lunghissimo anno, nel quale tante
cose potevano compiersi perchè fu allungato a 15 mesi e a 445
giorni dagli astronomi che riformarono il calendario807, i fatti
corrispondevano meno alle intenzioni e alle parole; sinchè
verso la fine dell’anno egli commise un grave errore, ospitando in
casa sua Cleopatra, venuta a Roma con gran seguito di servi e di
ministri. Lo scandalo fu immenso, in Roma e in Italia808. Si sapeva
da tutti che la sensualità di Cesare si era quasi riaccesa
negli ultimi anni a desideri stravaganti di amori regali; che
durante la guerra d’Africa egli si era distratto con Eunoe, moglie
del re mauritano Bogud e le aveva fatto immensi regali809: ma questo
adulterio ostentato innanzi a tutta Roma sdegnò il pubblico
già malcontento e già tanto disposto a prendere ogni
pretesto di critica. Siccome la vecchia famiglia latina compieva
molte funzioni giudiziarie e disciplinari oggi riserbate allo Stato,
la sua dissoluzione contribuiva ad accrescere il disordine dei tempi
più che non faccia oggi, venendo meno per essa la punizione
di molti reati delle donne e dei giovani a cui la legge non
provvedeva ancora e la severità dei parenti non provvedeva
più: onde era essa uno dei mali più incurabili e
più lamentati dai contemporanei. Questo scandalo
ravvivò i lamenti: si commiserò Calpurnia, sposata nel
59 per un intrigo politico, poi abbandonata dal marito vagabondo, ed
ora costretta ad accoglierne in casa la amante; lamentevole esempio
della sorte riserbata a tutte le donne dell’alta società che
non fossero scellerate, viziose, dissolute. Alle oneste, come alla
buona Tullietta, come a Cornelia vedova di Publio Crasso e di
Pompeo, come a tante restate ignote, che altro toccava se non di
essere immolate dai loro parenti alle proprie ambizioni politiche;
di esser sposate, abbandonate, risposate da un anno all’altro, senza
riguardo ad età o a qualità del marito; di cambiar
casa, ancelle, compagnia, secondo le vicende della politica; di non
aver sovente nemmeno la consolazione della maternità e di
trovare nella casa del marito dei figliastri più vecchi di
loro; di esser tradite con ogni sorta di etère e liberte? La
vecchia virtù e semplicità latina sopravviveva ancora
nelle donne; ma questa annoiava i corrotti politicanti delle alte
classi e li faceva fuggire in cerca di amori più raffinati!
Era un male dei tempi: uno dei tanti disordini, lamentevole ma
inevitabile, di quel gran mutamento di civiltà che si veniva
facendo; con il quale la donna contribuiva la parte di dolore che
nel rivolgimento doveva esser sua. Ma questa volta il pubblico
sfogò su Cesare il dolore per il male tanto diffuso e insieme
l’invidia che desta sempre il vizio trionfante: non si poteva
tollerare che il dittatore ostentasse i suoi disordini a quel modo!
XVII.
LE ILLUSIONI E LE DELUSIONI DI UNA DITTATURA.
(Anno 45-44 a.
C.)
Il malcontento cresceva nelle alte classi, malevole verso ogni
governo per l’incurabile indisciplina del loro orgoglio, fatte ancor
più irritabili dai ricordi della guerra civile, dal dolore
degli amici e dei parenti perduti, dall’ira della potenza scemata,
dai danni subiti. Chi per le confische dei vinti aveva perdute
speranze di eredità, e chi somme deposte nei templi di Italia
o dell’Oriente; a moltissimi nuoceva la scarsità del denaro e
la difficoltà del credito: Cesare poteva sforzarsi di
dimostrare nei Ricordi della guerra Civile che non egli ma Pompeo
aveva confiscati i depositi privati, che anzi per opera sua i tesori
del venerabile tempio di Diana in Efeso eran stati salvi810; ma
Pompeo era morto e i contemporanei sfogavano il malumore per queste
perdite su lui che era vivo.
Soltanto un uomo dotato di pazienza e di agilità
instancabili, di calma e di discrezione straordinarie avrebbe potuto
governare in mezzo a tanti orgogli, rancori e malumori, a tanti
contrasti di interessi e di ambizioni. Invece la moderazione
costituzionale in cui Cesare aveva cercato di contenersi negli
ultimi mesi, durò poco; e a quella seguì, verso la
fine dell’anno, un subito rivolgimento, una irrequietezza, una
impazienza, una fretta smaniosa di grandi imprese. Non solo
l’esaltazione del successo e del potere, le adulazioni, la stessa
stanchezza acuivano in lui il bisogno di commozioni violente, ne
esaltavano il desiderio di gloria e l’ambizione di pareggiare con
imprese immense Alessandro, ne assopivano la vigilanza del senso
critico e della prudenza: ma la forza delle cose lo spingeva ad
affrancarsi dai vincoli delle leggi, illudendolo che il potere
assoluto fosse non ambizione sua ma necessità salutare dei
tempi. Troppe impazienze di appetiti, troppe chimeriche attese di
aiuti impossibili fervevano intorno a lui! La miseria dell’Italia
era spaventosamente cresciuta; gran parte delle classi medie e del
popolino eran ridotti dalla interminabile crisi alla disperazione;
molti schiavi orientali abili nelle arti e nei mestieri erano
liberati in tutta Italia dai padroni meno ricchi che, non potendo
trarne profitto nella crisi, non erano in grado di mantenerli; la
necessaria riduzione dei partecipi alle distribuzioni di grano
accresceva il tormento; uno sterminato numero di miserabili soffriva
la fame, in ozio forzato. Una terribile rovina pareva a tutti
imminente, se non si portava qualche pronto rimedio; e il soccorso
non poteva venire, secondo le idee antiche, che dallo Stato: ma, lo
Stato era Cesare, ormai.... Quante cose magnifiche potrebbe egli
fare! non solo rinvigorire la esecuzione della sua legge agraria del
59 che era stata applicata sino allora straccamente, con scarse
deduzioni di coloni in Campania intorno a Calazia e a Casilino811;
ma ripigliare addirittura la grande idea di Caio Gracco; restaurare
le sedi della civiltà distrutte o malmenate dalla espansione
conquistatrice di Roma; ricostruire Cartagine e Corinto; dedurre
colonie nella Gallia Narbonese, a Lampsaco, in Epiro, a Sinope e ad
Eraclea, sulle rive del Mar Nero ancor guaste e dolenti per la
brutalità dei soldati e dei generali di Lucullo. Una guerra
contro i Parti gli provvederebbe i capitali necessari a tanta opera;
la vendetta di Crasso, la ricostruzione di Cartagine e di Corinto
gli procaccerebbero gloria immortale e la deduzione di tante colonie
una popolarità immensa; ma potrebbe egli compiere questi
grandi disegni, dovendo rispettare i pregiudizi, le paure, gli
interessi di quegli invidi e malevoli senatori di Roma, che in quel
momento non badavano se non a rallegrarsi segretamente dei successi
di Gneo Pompeo, a scrivere o a leggere con diletto maligno stupidi
elogi di Catone? Anche Bruto scriveva una lode del suicida di Utica!
Le lentezze costituzionali erano ormai insopportabili alla sua
smania di fare, che la vecchiaia, l’esaltazione del successo,
l’ambizione di gloria, il desiderio di popolarità
esasperavano a precipitosa impazienza. Egli non voleva come Silla
spogliare i ricchi per aiutare i poveri: ma quasi a compenso di
questa moderazione, gli pareva legittima una usurpazione di grandi
poteri che affrettasse ai miserabili il beneficio dell’attese
riforme. Non è improbabile che qualche mutamento operasse nel
suo spirito anche la visita di Cleopatra; di questa donna fatale che
fu pur essa un personaggio figurativo dei più strani e
importanti nella catastrofe della grande repubblica; e che, salita
al trono quando il governo di Roma si riduceva nelle mani di un
dittatore militare, aveva pensata una diplomazia nuova per
conservare il regno. Che essa mirasse a farsi sposare da Cesare,
è cosa molto verisimile se pure non ci è testimoniata
da nessun documento sicuro; che essa con le seduzioni, con i
discorsi, con l’esempio contribuisse a risvegliare in lui le
ambizioni monarchiche, non è meno verisimile. Poteva pensare
altrimenti una regina orientale, giovane, ambiziosa, avida di potere
e di lusso? Certo è che Cleopatra era venuta a Roma con il
bambino natole da poco e che essa diceva figlio di Cesare, per
ottenere il permesso di dargli il nome di lui; e che quando
partì da Roma, essa aveva ottenuto con altri regali e
privilegi anche questa preziosa autorizzazione812. Eran sopravvenuti
infine, ad accrescere l’instabilità spirituale di Cesare,
nuovi guai dagli ultimi superstiti del partito nemico. Egli non
avrebbe mai creduto che la prole di Pompeo potesse esser così
tenace nell’odio. La guerra civile ricominciava in Spagna, dove Gneo
Pompeo e Labieno erano riusciti, approfittando della
popolarità di cui godeva il nome di Pompeo, dello scontento
delle popolazioni per gli abusi dei governatori cesariani, del
malumore di parecchie legioni, a reclutare un esercito e a
conquistare gran parte della penisola; ma i luogotenenti di Cesare
non riuscivano a vincerli e scrivevano a lui di venire in persona.
Ben presto, le notizie dei successi di Gneo Pompeo accrescendo la
irrequietezza già così grande dello spirito pubblico,
Cesare dovè persuadersi esser necessario partire di nuovo....
Ma questa nuova spedizione, in quel momento, non poteva non
irritarlo straordinariamente, perchè lo costringeva ad
abbandonare a mezzo le riforme e l’Italia piena di disordine,
perchè avrebbe ingrandito in tutti l’opinione del pericolo,
e, mostrando non ancora definitiva la pace, accresciute le
difficoltà già grandi in cui si trovava, il lavoro
già immenso a cui doveva bastare.
Irritato dalla guerra di Spagna, irrequieto per la stanchezza,
esaltato dall’ambizione, illuso dalla speranza di acquistare immensa
popolarità adoperando i pieni poteri a vantaggio della
moltitudine disagiata, Cesare mutò verso la fine dell’anno
politica, abbandonò il disegno di un governo ragionevole e
imparziale per quello di una popolarissima monarchia, ma
bruscamente, senza preparare in nessun modo gli spiriti, con un
rivolgimento violento e improvviso. Assunse la dittatura, scegliendo
a magister equitum non più Antonio, ancora in disgrazia, ma
il fido Lepido, che pure era già stato nominato governatore
della Spagna Citeriore e della Gallia Narbonese e a cui, con immensa
confusione, fu concesso di amministrar le provincie per mezzo di
legati813; volle esser nominato console senza collega per l’anno
45814; differì le elezioni degli altri magistrati;
mostrò apertamente di voler raccogliere in sua mano i sommi
poteri dello Stato. E subito le alte classi, quasi a conferma del
timore che il potere assoluto di Cesare significherebbe rivoluzione
sociale a danno loro e a vantaggio dei poveri, videro rinnovarsi il
vecchio spavento della legge agraria. A un tratto corse voce che
Cesare faceva cominciare in varie parti d’Italia le misurazioni per
procedere a una confisca di terre o a una spartizione tra i soldati
simigliante a quella di Silla815. Ben presto si seppe che questi
timori erano soverchi. Cesare sceglieva tra i suoi amici una
commissione per cercare in Italia e nella Cisalpina terre da
distribuir ai soldati secondo la sua legge agraria del 59, in luogo
della vecchia commissione. A più riprese immense porzioni del
demanio pubblico erano state mutate in proprietà privata; ma
con tanta fretta e disordine che ancora qualche avanzo restava, in
possesso dello Stato o usurpato dai privati, specialmente in Etruria
e nel territorio leontino e campano; e questo avanzo Cesare voleva
dividere tra i suoi veterani, aggiungendo terre comprate dai
privati816, con la condizione stessa posta dai Gracchi che non
fossero venali se non venti anni dopo, per impedire le pronte e
spensierate vendite817. Egli riprendeva insomma anche in questo
disegno l’idea, un poco invecchiata, dei Gracchi. Gli animi si
tranquillarono alquanto; ma dopochè, verso la fine dell’anno,
egli fu partito per la Spagna senza aver convocati i comizi818, e
mentre tutti si aspettavano a Roma che egli provvedesse dal viaggio
alle magistrature nei modi legali, ecco arrivare un’altra sorpresa:
la nomina di otto Praefecti urbi, i quali avrebbero adempiute tutte
le funzioni dei pretori e alcune dei questori, come
l’amministrazione dell’erario, sotto la direzione di Lepido
nominalmente, in verità anche di Cornelio Balbo e di
Oppio819. Egli costituiva così, a un tratto,
inaspettatamente, quello che noi chiameremmo adesso un governo di
gabinetto, nel quale il popolo e il Senato non contavan più
nulla; e nel tempo stesso, a preparare idealmente la distruzione del
governo repubblicano, scriveva in viaggio un libro contro Catone per
confutare l’ideologia repubblicana che pareva rifiorire; si
risolveva definitivamente a fare, dopo la guerra di Spagna, una
guerra contro la Persia per vendicare Crasso e la onta di Carre820.
Una grande vittoria in Oriente sarebbe il preludio alla
instaurazione di un governo personale821.
Questo subitaneo mutamento di Cesare irritò in modo
straordinario le alte classi dell’Italia; anche la parte più
signorile ed eletta del partito di Cesare822, che da un governo
personale e demagogico temè la definitiva vittoria della
parte più rivoluzionaria e violenta. La concessione del nome
suo al figlio di Cleopatra fu giudicata acerbamente823; la nomina
degli otto praefecti urbi parve uno dei maggiori arbitrii a cui si
fosse assistito824. In quella avvenne un caso atroce e pietoso;
Marcello, il console del 51, fu misteriosamente assassinato ad
Atene, mentre tornava a Roma, in seguito al perdono di Cesare.
Subito il dittatore fu accusato sommessamente di averlo fatto
uccidere a tradimento, per vendicarsi, mentre pubblicamente fingeva
di perdonare. Indignò anche la divulgazione dello scritto
contro Catone, acre, calunnioso, bilioso; e se Cicerone, beato per i
molti elogi di lui contenuti nello scritto, mandò per mezzo
di Balbo e di Dolabella una lettera di ringraziamento calorosa, non
osò di farla leggere prima ad Attico825. Molti erano inquieti
per la rinnovazione delle leggi agrarie, la quale risvegliava nel
popolino un fermento di speranze, di desideri, di illusioni che
potrebbe un giorno diventar pericoloso per tutti; non pochi erano
inquieti pure per le ricerche delle terre pubbliche che, se fatte
con soverchio rigore, potevano nuocere a molti; cosicchè
tutti i commissari erano tempestati di raccomandazioni e di
suppliche dai proprietari, dai loro amici, dai parenti che
intercedevano826. Troppo vivo era in tutti il desiderio di possedere
in Italia, dove il suolo era sottoposto a un regime giuridico
privilegiato, non pagava imposta fondiaria salvo il tributum o
prestito forzoso e straordinario di guerra, e poteva essere
posseduto in piena e assoluta proprietà privata; mentre nelle
provincie il suolo apparteneva a Roma, e gli abitanti, i quali ne
avevano il possesso più che la vera proprietà,
potevano esserne spogliati a ogni momento. Balbo ed Oppio scrivevano
e riscrivevano un poco inquieti a Cesare e cercavano intanto di
placare con gentilezze e buone maniere gli uomini più
insigni, specialmente Cicerone, sulla cui vita pareva scendere
l’uggia di una triste serata, il cruccio di una vecchiaia piena di
amarezze. Egli si era ammogliato di nuovo con Publilia, una ricca
giovanetta di quattordici anni, sul finire del 46827; ma sul
principio del 45 era stato colpito da una grave sciagura: Tullia era
morta di parto, dopo il divorzio828. Afflittissimo, il vecchio si
era volto risolutamente, per consolarsi, a porre in esecuzione un
disegno forse vagheggiato da un pezzo, ma dal quale le vicende
politiche lo avevano sempre distratto: riassumere la filosofia greca
in un seguito di dialoghi simili a quelli di Platone, nei quali
interloquissero tutti i grandi personaggi romani delle ultime
generazioni, dal vecchio Catone a Lucullo e a Varrone. Cicerone, che
possedeva un grande ingegno letterario e drammatico, avrebbe potuto
creare, sviluppando questa magnifica idea, un capolavoro della
letteratura, plasmando e animando per l’eternità, nel riposo
di intimi dialoghi filosofici, queste figure che la storia ci
rappresenta soltanto fra guerre e contese politiche. Ma sarebbe
stato necessario l’agio di un lavoro continuo e tranquillo; e
invece, quante brighe e distrazioni! Egli doveva continuamente
sollecitar Dolabella a pagare le rate della dote di Tullia; si
crucciava per trovare i denari con cui erigere alla figlia un
mausoleo sontuoso; si poneva sempre la gran questione delle
intenzioni di Cesare; ne scriveva di continuo a Bruto tornato da
poco dal governo della Gallia Cisalpina, e del quale egli, sempre
caloroso ed ingenuo nelle amicizie, era diventato negli ultimi tempi
amicissimo; leggeva e rileggeva continuamente i grandi trattati
della politica greca; leggeva specialmente le lettere che Aristotele
e altri dotti greci avevano scritto ad Alessandro Magno per indurlo
a governare gli Asiatici come un monarca, ma a restare il primo
cittadino tra i Greci, la razza nobile che aveva vissuto sempre, che
non poteva vivere se non con istituti di libertà829. Questa
lettera di Aristotele gli suggerì l’idea di scriverne una
simigliante a Cesare; e scrisse infatti un bell’opuscolo che
mandò ad Attico830. Ma il prudente banchiere consigliò
Cicerone a far leggere prima il suo scritto ad Oppio ed a Balbo; e
questi sconsigliarono Cicerone dal mandarglielo831. Fu una grave
delusione per Cicerone; una ragione di nuovi sospetti per le classi
colte. Le incerte notizie dalla Spagna accrebbero, nei primi mesi,
il disagio e la irrequietezza degli spiriti. Mentre pensava di
conquistar la Persia, Cesare andava alla guerra di Spagna con tal
negligenza, trascurando siffattamente i preparativi più
necessari, che sin dal principio i soldati patiron la fame832,
proprio come nella guerra contro Vercingetorice, nella prima
campagna di Spagna e nella campagna di Epiro: con questa differenza
però che, se nelle guerre precedenti egli non aveva potuto
provvedere al vettovagliamento non ostante lo zelo con cui le aveva
preparate, ora invece la colpa delle sofferenze dei soldati era
tutta nella fretta e nell’imprevidenza di lui che, signore dei
più ricchi granai del Mediterraneo, avrebbe potuto provvedere
le legioni di ogni cosa necessaria. E intanto per l’assenza di
Cesare le riforme incominciate eran sospese o rallentate, a Roma e
in Italia. Un avvenimento inaspettato e strano distrasse di
lì a poco, per qualche tempo, l’attenzione dell’alta
società romana. Bruto ripudiava la figlia di Appio Claudio e
sposava Porzia, figlia di Catone e vedova di M. Bibulo833, l’ex
collega di Cesare nel consolato, l’ammiraglio morto sul mare, nelle
crociere invernali ai tempi della guerra di Epiro. Nobile di gran
lignaggio, appassionato dilettante di arte, di letteratura e di
filosofia, Bruto era uno di quei prediletti della fortuna cui capita
di essere ammirati da tutti, senza aver fatto nulla; che aveva
potuto, solo perchè dotato di alcune virtù rare
nell’alta società, rigore di costumi, sobrietà,
castità, signoria di sè stesso, disdegno di volgari
ambizioni, procurarsi una così gran reputazione, da farsi
perdonare i piccoli peccati, come quello delle usure di Cilicia; da
essere ammirato universalmente e perfino da Cesare come un prodigio
di volontà e di energia834, quasi avesse compiuto le
più magnifiche imprese; da vedersi offerte spontaneamente le
cose che gli altri più si sforzavano di ottenere; da potersi
permettere tutto.... Egli aveva combattuto per Pompeo, eppure Cesare
per riguardo a Servilia lo aveva colmato di onori e di cariche; era
così diventato uno dei membri più considerevoli del
partito cesariano aristocratico; ma ciò non aveva impedito
che anche Cicerone e i Pompeiani insigni fossero suoi grandi amici!
Ed ora ecco egli annunciava a un tratto questo matrimonio con la
figlia e la vedova di uno dei più acerbi nemici del
dittatore. I matrimoni avevan ormai quasi sempre, nell’alta
società, motivi politici; onde tutta Roma si domandò
che cosa questo significasse. Avversione di Bruto al nuovo governo
di Cesare? Riconciliazione di Cesare con i vecchi avversari?
Servilia, che temeva questo matrimonio facesse perdere al figlio il
favore del dittatore, cercò di dissuadere Bruto; Cicerone si
tenne prudentemente in disparte: ma invano: si trattava
probabilmente di una vecchia simpatia tra cugini, risvegliatasi dopo
anni e il matrimonio si fece. Bruto però non intendeva romper
con Cesare e quasi a guisa di compenso scrisse una difesa di lui
contro coloro che lo accusavano di aver fatto uccidere Marcello.
Intanto la guerra di Spagna era vinta, ma dopo pericoli e traversie
che nessuno si aspettava. Cesare era caduto a più riprese
malato; e aveva condotte con tanta stanchezza e negligenza le
operazioni, che a Munda, il 17 marzo 45, per poco non era stato
sconfitto e fatto prigioniero. Alla fine, scampato da questo
pericolo, morti Gneo Pompeo e Labieno (solo Sesto Pompeo era
riuscito a fuggire più al nord), egli ritornava in Italia,
aspettato ansiosamente. Si saprebbe finalmente se egli voleva essere
il tiranno rivoluzionario della sua patria! I presagi però
non erano lieti. Della vittoria aveva subito approfittato il partito
demagogico dei cesariani per proporre nuovi onori, subito,
naturalmente, approvati: fra gli altri che Cesare portasse il titolo
di imperator come un prenome ereditario; che fosse console per dieci
anni; che avesse anche il diritto di proporre i candidati alla
edilità e al tribunato835. Il malcontento per questi onori
tra gli amici di lui più conservatori di idee e di
temperamento fu grande; e appena confortato dalla tenue speranza che
egli non vorrebbe accettarli. Ma Cesare fu lento al ritorno;
indugiò in Spagna prima, dove attese a mutare in colonie
romane diverse città, come Ispali836, Cartagena837,
Tarragona838, confiscando parte del loro territorio e dandolo a un
certo numero di suoi soldati che congedò; indugiò poi
nella Narbonese e in questa lasciò un suo amico di nobile
famiglia che gli aveva resi utili servigi nella guerra di
Alessandria, Caio Claudio Nerone, a distribuir terre ai veterani
della decima legione intorno a Narbona, a quelli della sesta nel
territorio di Arles839. Altre due legioni eran così
congedate. L’ansietà e l’impazienza crescevano in Italia;
Balbo ed Oppio, per contentare Cesare e per impressionare il
pubblico, pregavano tutti i grandi di Roma di andargli incontro a
fargli onore; anche Antonio, stanco della povertà e della
oscurità cui era condannato, partiva da Roma risoluto a
trovar modo di farsi perdonare840; anche Trebonio si mosse a
incontrarlo ma così malcontento per la nuova politica, che
qualche volta pensava se non fosse meglio toglierlo di mezzo con un
colpo di pugnale841; anche Bruto d’accordo con Cicerone, che era
impaziente di sapere, gli andò incontro nella Gallia
Cisalpina, per scrutarne gli intendimenti e forse anche per sapere
se il suo matrimonio fosse stato mal giudicato. Ma a Bruto ogni cosa
era permessa: egli fu ben ricevuto e lodato per l’amministrazione
zelante dell’anno avanti, seppe che era già nominato pretore
per il 44; e lieto di questa accoglienza trovò che tutto
andava bene; scrisse a Cicerone che le sue paure erano vane, che
Cesare voleva ricostituire un governo aristocratico secondo il
desiderio dei conservatori842.
E davvero Cesare, intimidito dal malcontento pubblico e dalla
discordia dei cesariani, parve un momento voler dare soddisfazione
alla parte più moderata del suo partito, alle alte classi, ai
conservatori: si riconciliò con Antonio e gli fece fare una
parte del viaggio nella sua stessa lettiga, perdonando così
quasi ostentatamente all’autore delle terribili repressioni del 47;
revocò i praefecti urbi; rifiutò alcuni degli onori;
depose il consolato singolo; convocò i comizi, fece nominare
i magistrati ordinari e scegliere a consoli uno dei suoi generali di
Spagna, Q. Fabio Massimo e Trebonio: quest’ultimo uno dei più
illustri e dei più malcontenti tra i cesariani conservatori.
Ma Cicerone non cessò mai dal dubitare.... E non a torto. In
quei sette mesi, la decomposizione dello spirito di Cesare aveva
progredito veloce. Gli attacchi di epilessia, cresciuti di frequenza
e violenza, non gli davan più tregua843; il corpo e lo
spirito erano esausti. Il bellissimo busto di lui che è al
Louvre, opera di un grande maestro ignoto, rappresenta
meravigliosamente l’estremo sforzo di questa prodigiosa
vitalità quasi consumata: la fronte è solcata da rughe
immense, la faccia asimmetrica triste e macilenta come di chi soffra
di stomaco, la espressione stanca. Egli era stanco e pur non poteva
prendere riposo, come avviene agli spiriti esausti; una fretta
faragginosa, una smania di grandezze impossibili, un fervore
chimerico di disegni irreali lo agitavano tormentosamente. Alla
breve moderazione succedè presto una nuova esaltazione.
Grandiose feste avevano celebrato il trionfo di Spagna e immensi
banchetti popolari, nei quali Cesare per primo aveva fatto servire,
invece dei vini greci, alcuni vini italiani che, meglio preparati
dagli schiavi orientali, incominciavano a divenir celebri, per farli
conoscere, promuoverne il consumo, incoraggiare la viticultura
italica che faceva tanti progressi pur in mezzo alla crisi
terribile844. La legge sulle colonie transmarine fu subito proposta
e approvata; il reclutamento dei coloni tra i soldati, i cittadini,
i liberti incominciò. Poi continuarono le sorprese: ogni
giorno Roma stupita udiva di una nuova opera o impresa che egli
voleva compiere: deviare il corso del Tevere, prosciugare le paludi
pontine, fabbricare tutto il campo di Marte e trasportare questo
sotto il Monte Vaticano; erigere un teatro, quello che finito poi da
Augusto fu detto il teatro di Marcello e i cui avanzi grandiosi si
drizzano ancora; incaricar Varrone di impiantare in tutta Roma vaste
biblioteche; tagliare l’istmo di Corinto, fare una via
sull’Appennino, costruire un gran porto ad Ostia; dar immenso lavoro
ad appaltatori ed artigiani; raccogliere tutte le leggi in un corpo
solo; conquistar la Persia845.
Ma Cesare si illudeva, questa volta, credendo che tanta profusione
di idee grandiose commoverebbe ancora tutta l’Italia, preparando
nella opinione pubblica la monarchia. Il popolino cosmopolita era
esaltato a speranze chimeriche dalle promesse di colonie e di
lavoro; ma le classi medie erano disposte al malumore e alla critica
dalla crisi finanziaria di cui nessuno vedeva la fine; ma le classi
alte, offese nei sentimenti repubblicani, nell’orgoglio, nei
pregiudizi, dalle onoranze, dai privilegi, dalla potenza concessa a
questo uomo; sempre paurose di una rivoluzione sociale che togliesse
loro i beni dopo il potere e di cui una dittatura fosse l’organo,
come ai tempi di Silla, si domandavano se Cesare non diventava
matto, deridevano anche le riforme serie, come quella del
calendario846. Intanto per trovare nella gran crisi il denaro
necessario a far tante cose, Cesare doveva vendere alla disperata i
beni confiscati ai vinti, le terre pubbliche non atte a deduzioni di
colonie, e quelle dei templi847; e di questa finanza, arruffata di
troppo frettolosi espedienti, approfittavano gli amici suoi,
prendendosi per poco o per nulla immense terre. Servilia aveva
ricevuto per nulla un grande possedimento confiscato nella
guerra848; grandi fortune facevano intorno a lui alcuni liberti;
già ricco era quel giovane schiavo germanico che egli aveva
promosso agli uffici dell’amministrazione per averlo scoperto a far
l’usuraio con i suoi compagni di servitù e che, con il nome
di Licinus, era diventato uno dei suoi amministratori più
abili. Sopratutto la guerra contro i Parti indignava. Il temerario
conquistatore delle Gallie non aveva procurato sufficienti guai alla
repubblica, con l’insaziabile desiderio di vittorie? Era lecito,
dopo essersi fatti dare tanti poteri, abbandonar la repubblica ancor
piena di disordine, per correre la rischiosa avventura?849 Un gran
malcontento si diffondeva, per un motivo o per un altro, in tutte le
classi; mentre Cesare, sempre più irascibile, contradditorio,
puntiglioso, insofferente di consigli e di opposizioni, smarriva
quella misura e quella signoria di sè, che tanto gli aveva
giovato sino allora; si lasciava sfuggire frasi imprudenti: la
repubblica non esister più che di nome, Silla essere stato
stupido a deporre la dittatura, quello che egli diceva valer per
legge850. La lex municipalis era stata approvata dal popolo; ma
sentiva la fretta in ogni rigo, tanto era faragginosa, complicata,
piena di disposizioni diverse, priva della limpida e asciutta
chiarezza latina!851 Affidò le zecche e il servizio delle
finanze a dei servi orientali, probabilmente egiziani852; introdusse
servi e liberti suoi in tutti i servizi pubblici, fece delle scenate
a Ponzio Aquila, tribuno della plebe, perchè passando egli un
giorno davanti ai seggi dei tribuni non si era levato853; facilmente
prorompeva in invettive e rimproveri acerbi; si sdegnava per la poca
osservanza delle sue leggi, specialmente delle più assurde
come quelle sul lusso, e per farle osservare si ostinava in
puntigliose persecuzioni. Ma non voleva si dicesse che egli ambiva
essere re o tiranno; e più volte inveì contro coloro
che gli dicevano di volerlo proclamare re. Eppure si crucciava
intanto segretamente per il desiderio di avere un figlio cui
lasciare il potere; eppure nel testamento che aveva fatto al ritorno
della Spagna, in considerazione della partenza per la Persia, aveva
nominato dei tutori al figlio futuro che potrebbe nascergli, e aveva
adottato come figlio Ottavio, il nipote di sua sorella854; eppure un
giorno che due tribuni tolsero via da una sua statua un diadema,
posto da mano ignota, egli si arrabbiò, disse che avevano
voluto fargli sfregio855. Quello splendido spirito lottava ancora
contro il destino, ma invano. Tra questo turbinoso disegnare di
grandi cose, una sola ne preparava davvero, dimenticando la promessa
di non uscir d’Italia prima d’aver riordinato lo Stato: la guerra
contro la Persia, accumulando denari, facendo a Demetriade un gran
deposito d’armi, studiando un piano di guerra e avviando innanzi ad
Apollonia Caio Ottavio con i suoi maestri e sedici legioni, composte
in parte di nuove reclute. Molti giovani, spinti dalla
povertà, si arruolavano, sperando trovare fortuna in Persia.
Ma le ultime esitazioni di Cesare dovevano esser presto vinte dagli
incitamenti della parte peggiore del suo partito; dei liberti non
romani, degli spostati, degli indebitati, dei disperati che lo
avevano seguito per la speranza di ricchezze e di onori. Tutti
vedevano come egli preferisse sempre più gli avventurieri che
lo lusingavano e lo compiacevano in ogni capriccio; come
prediligesse tra tutti Dolabella che con le piacevolezze e la
romorosa allegria lo divertiva; come egli già così
sobrio, si desse all’orgia in compagnia di costoro856: ma la
vittoria di questa combriccola sulla parte più eletta e
conservatrice dei cesariani fu definitiva e piena quando
passò nelle sue file, abbandonando il vecchio partito,
Antonio. Troppo duramente costui aveva espiati, con la
oscurità e la miseria di due anni, i servigi resi nel 47 alla
causa dell’ordine contro la demagogia e Dolabella! Indifferente a
principî e a teorie, cupido solo di ricchezze e di sollazzi,
Antonio, dopo essersi riconciliato con Cesare, si buttò senza
scrupolo a lusingarne le ambizioni senili; pensando che, siccome
Cesare resterebbe signore di ogni cosa per tutta la vita, il miglior
consiglio era di acquistarne la fiducia e l’affetto compiacendolo,
dicessero gli altri quello che volevano. E gli effetti si videro
subito, quando, verso la fine del 45, Cesare fece le elezioni,
usando del potere concessogli dopo Munda di designare tutti i
magistrati ai comizi, cioè di eleggerli egli, lasciando al
popolo la sola facoltà di confermare la sua proposta.
Nominò sè stesso console e si scelse Antonio a
collega; nominò il fratello di lui Lucio tribuno della plebe,
dando alla parte conservatrice dei cesariani, quasi a compenso, la
nomina a pretori di Bruto e di Cassio: ma il conforto di queste
nomine fu scarso, in paragone al malcontento di cui fu cagione, in
tutto il mondo politico, questo intero trasferimento a Cesare delle
nomine dei magistrati. A che cosa si riduceva ormai la repubblica se
un uomo solo poteva distribuir tutte le cariche? Uno scandalo
accrebbe il disgusto. Cesare, che intendeva partire tra poco per la
Persia, voleva nominare a console suffectus, per il tempo di
quell’anno in cui resterebbe assente, Dolabella, che aveva allora
solo venticinque anni, che non era stato nemmeno pretore.
Immaginarsi lo sdegno della gente seria e dabbene! Ma Antonio, che
era audace, capì di aver tanto guadagnato nell’animo di
Cesare da poter sfogare questa volta il suo odio contro Dolabella; e
nella seduta del 1° gennaio 44 in cui Cesare manifestò la
sua intenzione, dichiarò che come Augure avrebbe impediti i
comizi per Dolabella. Cesare tacque.
A ogni modo la vittoria di questa cricca apparve ben presto dagli
straordinari e scandalosi onori che i più impazienti e
petulanti degli avventurieri al seguito di Cesare indussero il
Senato e il popolo a votargli, nei primi giorni del 44. Si faceva di
Cesare quasi un Dio, trasportando in Roma una delle più
abbominevoli aberrazioni delle monarchie orientali; si decretava un
tempio a Jupiter Julius; si rimutava in Julius il nome del mese
Quintile; gli si concedeva di essere sepolto nel Pomerio; di avere
una guardia di senatori e cavalieri857. Non era già un re di
fatto, se pure il nome mancava? Peggio ancora, quando il Senato era
andato a partecipargli questi onori, egli lo aveva ricevuto senza
levarsi858; nominava senatori ogni sorta di gente, perfino dei
Galli; voleva crear vice-dittatore per il 44, quando Lepido sarebbe
andato nella provincia come si disponeva a fare, Caio Ottavio, il
suo nipote, che era un giovinetto di 18 anni! Alle tradizioni
più antiche e più venerate Cesare faceva ora violenza
aperta, trasportando audacemente dalla letteratura e dalla filosofia
nella politica quel rivoluzionario disprezzo per il venerando
passato di Roma, in cui si sfogava la petulanza dei giovani
scrittori e studiosi.
Eppure all’ingrandimento dei poteri corrispondeva un progressivo
infiacchimento dell’autorità. Il dittatore, a mano a mano che
ambiva nuovi onori e poteri, diventava meno atto a servirsene. Non
possedendo più nè la lucidezza necessaria a discernere
il possibile dal chimerico nè la pazienza di operare in ogni
cosa con graduale costanza; e d’altra parte non potendo incrudelire
come Silla e tentar di vincere con la forza le resistenze che le
tradizioni e gli interessi opponevano alle ambizioni sue; egli
cedeva, concedeva, transigeva maggiormente con tutti, specialmente
con i conservatori, a mano a mano che assumeva un nuovo onore o
tentava una nuova riforma troppo grandi, per la speranza di
addolcire i nemici che non poteva atterrire o distruggere, per la
fretta di vincer subito un impedimento, per necessità o
irrequietezza nervosa. Impressionato dal malcontento per
l’usurpazione della nomina di tutti i magistrati, egli studiò
una transazione, facendo proporre, a quanto pare al principio del
44, da Lucio Antonio una molto bizzarra lex de partitione
comitiorum, con la quale si raddoppiava il numero dei questori e dei
pretori, facendone eleggere metà dal popolo e metà
proporre sine repulsa da Cesare nei comizi; si disponeva forse anche
che dei tribuni e degli edili plebei metà sarebbero proposti
da Cesare, e metà eletti dal popolo; che i consoli sarebbero
proposti ambedue da Cesare, e dal popolo invece i due edili
curuli859. Così i diritti del popolo erano in parte
rispettati e Cesare avrebbe avuto agio di distribuir cariche agli
amici suoi. Forse anche intesa a compiacere i conservatori era la
lex Cassia, per la quale Cesare doveva reintegrare il numero delle
antiche famiglie patrizie, di cui molte si erano spente. Mentre
prima aveva concesso a rilento il ritorno in Italia ai pompeiani,
negli ultimi mesi li amnistiò tutti; e per conciliare gli
animi al nuovo regime, non solo li accolse in Italia, non solo rese
alle vedove e ai figli dei morti parte dei beni confiscati860, ma li
favorì in tutti i modi, trascurando un poco i suoi partigiani
dei tempi burrascosi861. Invano Irzio, invano Pansa lo ammonivano di
guardarsi862: congedò ogni guardia, sin gli schiavi
spagnuoli; volle essere accompagnato in giro solo da littori863;
avvisato che si tenevano qua e là per Roma delle radunanze
notturne in cui si parlava male di lui e forse anche si tramava, si
contentò di pubblicare un editto dicendo di essere a
cognizione di tutto, e di fare un discorso al popolo avvisando i
maldicenti di chetarsi in avvenire864. “Preferisco morire,
anzichè vivere come un tiranno865” – aveva detto un giorno a
Irzio e a Pansa. Faceva a tutti, quando non era in grado di dare,
ogni sorta di promesse, possibili e impossibili866; non tentava
nemmeno più di frenare il saccheggio del denaro pubblico che
gli amici di lui facevano sotto i suoi occhi867. Così il
vigore della dittatura tremolava in una lentezza e incertezza senile
di condiscendenze, poco minore che quella del vecchio governo
repubblicano; si avvolgeva, quasi a nascondersi, nei serpentini
attorcimenti di mezzucci ingegnosi ed inutili. Molti suoi veterani
avevan ricevuto campi a Volterra e ad Arezzo, il cui territorio,
confiscato ma lasciato da Silla ai vecchi possidenti, era stato
rivendicato allo Stato da Cesare; un numero considerevole ricevevano
terre alla spicciolata, qua e là per l’Italia, ed erano posti
a vivere, come membri dell’ordine dei decurioni o delle aristocrazie
municipali riordinate dalla Lex Julia, in molte città, da
Ravenna a Larino, da Capua, da Suessa, da Calazia, da Casilino a
Siponto868. Ma le ricerche degli avanzi del demanio pubblico
procedevano lente, perchè i commissari erano continuamente
trattenuti da raccomandazioni di uomini potenti; onde il maggior
numero doveva contentarsi ancora solo di promesse869. Nè le
colonie transmarine riuscivano meglio: pare che un certo numero di
coloni partisse per Lampsaco870 e il Mar Nero871; ma i preparativi
per Cartagine e per Corinto procedevan più lenti872; e la
idea di mandare una colonia in Epiro dovè essere abbandonata.
Cesare aveva, trattandosi di suolo delle provincie, confiscata una
parte delle terre della città di Butroto, che non gli aveva
pagata una multa impostale durante la guerra civile, e intendeva
assegnarla ai coloni: ma Attico, che era anche egli tra i possidenti
di Butroto spogliati, mosse intorno a Cesare – non si dimentichi che
egli amministrava il patrimonio di un gran numero di uomini politici
– tante persone del suo stesso partito, tanto disse, intrigò
e lavorò, che Cesare revocò il decreto di confisca, a
patto che Attico pagasse la multa dei Butroti, sebbene già i
coloni fossero quasi pronti a partire. Il finanziere che non aveva
esercitata mai magistratura, era stato più potente che il
dittatore dell’impero! Tuttavia Cesare continuò i preparativi
per la colonia, sinchè Attico e Cicerone, che aveva molto
lavorato per l’amico suo in questa faccenda, ritornarono un poco
inquieti a domandar spiegazioni. Cesare, che non voleva si sapesse
aver egli rinunciato a fondare una colonia per compiacere uno dei
maggiori plutocrati di Roma, li pregò di tener nascosta la
cosa: ma stessero tranquilli; egli intendeva imbarcare i coloni;
quando fossero in Epiro, li manderebbe altrove, non sapeva ancora
dove873. Di simili mezzucci doveva servirsi il signore del mondo!
Nemmeno era riuscito a comporre la discordia tra Antonio e
Dolabella; cosicchè il primo aveva impedito come Augure i
comizi, in cui Dolabella doveva essere eletto consul suffectus.
Anche il dittatore in apparenza onnipotente era preso nella rete di
raccomandazioni, di servigi, di compiacenze, di favori che formava
l’essenza di quella come di tutte le società mercantili, in
cui il denaro è il fine supremo della vita; e non poteva
romperne i fili invisibili.
Il malcontento si esasperava874, rinfocolato da tutti i rancori che
seguono ogni rivoluzione trionfante; la stizza di molti cesariani, i
quali non avevano avuto la ricompensa aspettata o si dolevano che
antichi pompeiani fossero trattati meglio di loro; la rabbia di
quanti vedevano beni di parenti e amici passati in proprietà
di liberti e venturieri; l’invidia di coloro che avevano conosciuto
Cesare eguale ed ora lo vedevano adorato quasi come un semidio875.
Voci strane giravano: che Cesare voleva sposare Cleopatra,
trasportare la metropoli dell’impero a Ilio o ad Alessandria876,
fare dopo conquistata la Persia una grande spedizione tra i Geti e
gli Sciti, ritornando in Italia per la Gallia877. Uno scandalo
clamoroso rinfocolò gli animi. Il 26 gennaio 44 Cesare fu da
alcuni popolani salutato nelle vie, mentre passava, re; i due
tribuni della plebe, che egli aveva già redarguiti per il
diadema, incarcerarono alcuni di questi schiamazzatori; ma Cesare
adirato protestò che i due tribuni avevano incitato quei
popolani a gridare, per renderlo sospetto di ambizioni monarchiche;
e i due tribuni essendosene risentiti, egli li fece destituire con
una legge e li scacciò dal Senato con grande scandalo del
pubblico, per il quale il tribuno era sempre il più sacro dei
magistrati, e che proruppe in dimostrazioni per i due tribuni878.
Intanto Cesare e la parte della clientela che lo spingeva al
monarcato assoluto, abbattevano gli ultimi impedimenti e le estreme
apparenze. Nella prima quindicina di febbraio879 il Senato ed popolo
nominavano Cesare dittatore perpetuo880, monarca se non di nome, di
fatto; e ad accrescere lo scandalo sopraggiunse al 15 la festa dei
Lupercali. Sembra che Cesare volesse promuovere una dimostrazione
popolare per la monarchia, sperando di fare impressione sulle alte
classi; e che a questo fine concertasse con Antonio una pantomima
pubblica. Antonio si presentò a Cesare, che presiedeva la
festa, con un diadema e fece atto di porglierlo sul capo; Cesare
rifiutò; Antonio insistè; Cesare ripetè
più energicamente il diniego. Ma egli fu applaudito
fragorosamente quando rifiutava il diadema; onde adirato fece
inserire nel Calendario che in quel giorno il popolo gli aveva
offerta la corona reale ed egli l’aveva rifiutata. L’indignazione
per questa menzogna fu vivissima881. E intanto mentre i debiti
continuavano a tormentare l’Italia e il medio ceto versava in
angustie crudeli, cresceva nel popolino povero d’Italia e di Roma
uno strano fermento di vaghe aspettazioni rivoluzionarie, che
spaventava le classi possidenti ogni giorno di più. Cesare,
con le colonie e la guerra di Persia, ricondurrebbe l’età
dell’oro; finirebbe la tirannide dei ricchi e dei grandi; un nuovo
governo comincierebbe! Le memorie della grande rivoluzione popolare
si erano talmente ravvivate, che un certo Erofilo, originario della
Magna Grecia, veterinario di professione e mattoide, spacciatosi per
nipote di Mario, era diventato in un baleno popolarissimo, era
scelto a patrono da municipi, da colonie di veterani, da collegia
artigiani, aveva formato attorno a sè quasi una corte e osava
trattar da pari a pari con Cesare e i grandi. E Cesare, per non
scontentar la plebe, non ardì toglierlo di mezzo; ma si
contentò di relegarlo fuori di Roma882.
XVIII.
LE IDI DI MARZO.
(Gennaio-marzo 44).
E allora, un uomo riprese l’idea balenata a Trebonio e pensò
di ucciderlo. Quell’uomo fu Cassio883: l’antico questore di Crasso
nella guerra partica, il genero di Servilia; giovane intelligente,
ambizioso, provvisto di alta cultura, orgoglioso di carattere, aspro
e violento, che uccidendo Cesare non poteva illudersi di guadagnare
più di quanto poteva sicuramente aspettarsi dal suo favore.
Cassio incominciò ad aprirsi cautamente con qualche amico,
che sapeva avverso al dittatore; il primo gruppo di congiurati fu
raccolto; si cominciò a considerare la possibilità e i
pericoli dell’impresa; e si convenne bisognava trarre nella congiura
il cognato di Cassio, Bruto884, che godeva di grande autorità
in tutti i partiti e pareva, perchè figlio di Servilia, quasi
un intimo di Cesare. Se si sapesse che anche egli era pronto ad
uccidere Cesare, molti incerti e pavidi prenderebbero coraggio....
Come tanti altri strumenti vivi della storia e del destino nelle
rivoluzioni, Bruto era un uomo debole; uno di quei temperamenti
frequenti nelle famiglie aristocratiche dei tempi civili,
intelligente ma poco alacre, poco sensuale, orgogliosissimo ma
chiuso in sè e poco ambizioso con gli altri, poco vendicativo
e crudele e perciò incline alla austerità e alla
benevolenza passiva. Facile alla imitazione, come tutti gli spiriti
deboli, si era dato un momento a far l’usuraio; aveva parteggiato
prima per Pompeo, quando le alte classi, nello spavento della presa
di Rimini, avevano seguito in folla colui che meglio pareva avrebbe
difeso l’ordine e la proprietà; poi si era riconciliato con
Cesare e ne aveva goduta l’amicizia. Non era però per natura
nè un grande accumulatore di milioni nè un grande
ambizioso; ma piuttosto un erudito di costumi austeri, che in tempi
consueti sarebbe stato soltanto un gran signore dilettante di studi,
un po’ fantastico e altero, che negli studi avrebbe goduto quanto
gli altri nell’amore, nella gloria, nella ricchezza. Ma in quei
tempi straordinari, la fervente ammirazione popolare per il suo
carattere aveva fatto contrarre anche a lui, oltre il piacere degli
studi, un’altra passione: l’orgoglio di credersi e di essere
ammirato come un eroe dalla volontà di ferro, modello delle
virtù difficili, che si esercitano solo con dolorosi sforzi
sopra sè stessi. C’era un mezzo sicuro di render questo
timido e questo debole capace delle massime audacie ed ostinazioni;
persuaderlo che altrimenti egli verrebbe meno alla sua reputazione
di eroe. Cassio, che era un uomo intelligente, lo intese e seppe
porre abilmente l’assedio alla anima debole del cognato. Bruto
incominciò ad esser turbato da certi biglietti che, posti da
Cassio, egli trovava la mattina sul suo tribunale di pretore o che
sapeva essere stati appesi al piedistallo della statua del primo
Bruto nel Foro; biglietti su cui era scritto: “Così vivessi
tu ancora, o Bruto!” oppure: “Bruto, tu dormi!”885. Qualche volta
nella via egli si sentì gridar dietro: “Abbiamo bisogno di un
Bruto!”886. L’idea dell’assassinio apparve a quello spirito nella
forma migliore per essere accolta, come un mandato del popolo
all’uomo fortissimo, solo capace di una azione così
terribile; ma l’anima benevola e timida dell’erudito che si credeva
eroe, dovè in principio raccapricciare, considerando il
pericolo e l’atrocità del misfatto; ricordare la bontà
e i benefici di Cesare, la vecchia amicizia di lui per sua madre.
Continuando a essergli amico, egli diventerebbe ancor più
potente e ricchissimo, tanti doni Cesare aveva fatti e farebbe alla
sua famiglia! Ma intanto ora egli osservava le ambizioni asiatiche
di Cesare, a cui prima appena badava; ricordava la gloria degli
uccisori ed espulsori dei tiranni, nella letteratura greca e nella
tradizione romana, gli argomenti sottili dei tanti filosofi antichi
che giustificavano il regicidio per motivi ideali. Terribili
ondeggiamenti! Appunto perchè Cesare lo aveva beneficato,
egli doveva più risolutamente ammazzarlo e vincere per il
dovere pubblico l’affetto privato, come il vecchio Bruto che per la
repubblica aveva reciso il capo ai figlioli. Cassio gli si
aprì alla fine e seppe tentarlo: non essere egli un pretore
come gli altri; Roma aspettar da lui imprese uniche; egli solo
potere essere il capo di tanta impresa887. Se il debole Bruto avesse
vissuto nell’intimità di Cesare, ne sarebbe stato soggiogato
a tanta ammirazione da non ascoltar simili consigli. Ma Cesare,
occupato in troppe faccende, lo lasciava a sè stesso e lo
vedeva di rado; onde Cassio vinse; e la idea della congiura, come
era nata, così si diffuse dalla cricca dei parenti di
Servilia, dal gruppo dei cesariani aristocratici, come reazione alla
quasi piena vittoria della fazione demagogica e rivoluzionaria. Solo
Lepido in quella cricca non seppe nulla e restò fedele.
Bruto e Cassio cercarono un gran numero di congiurati e li trovarono
facilmente, nell’odio che per tante cagioni si addensava intorno a
Cesare: tutti senatori e persone di conto888; avanzi del partito di
Pompeo, membri illustri del partito di Cesare, parecchi dei suoi
generali più celebri, come Caio Trebonio e Servio Sulpicio
Galba. Molti storici moderni giudicano severissimamente questa
facilità con cui tanti entrarono nella congiura, contro
l’uomo di genio che si logorava a riordinare lo Stato.... Ma questo
giudizio nasce da una illusione. Quei tempi, simiglianti a noi in
tante cose, ne erano diversi in due: la guerra e la
schiavitù, che diffondevano come sentimento necessario il
disprezzo della vita umana. La lotta dell’uomo contro l’uomo aveva
fatto il pugnale strumento familiare nelle mani dei grandi come la
tavoletta da scrivere o i rotoli dei libri.... Tutti costoro avevano
affrontata la morte tante volte in battaglie, avevano condannato a
morire provinciali e soldati, nei loro governi, schiavi nella loro
casa. La vita di un uomo valeva poco, per loro. Nè era
umanamente possibile che essi vedessero in Cesare, come la ingenua
posterità, un eroe e un semidio, adorabile pur quando errava
o maltrattava. Certamente anche piccoli motivi personali spinsero
molti a prendere parte alla congiura; ma questi motivi particolari
di ciascuno furono spinte secondarie, non la cagione della congiura,
la quale, come l’opera di Cesare, non si può giudicare con i
criteri personali del merito o della colpa, perchè
così Cesare come i suoi nemici erano obbligati ad agire da
uno stato di cose che ne dominava le volontà con la forza
fatale attribuita dagli antichi al destino. Così Cesare come
i suoi uccisori non meritano nè le invettive nè
l’isterica ammirazione di cui furon fatti segno, a volta a volta.
Cesare fu uno dei più splendidi campioni del genio umano
nella lotta dell’uomo contro l’uomo e del genio latino
rivoluzionario nelle età di decomposizione e ricomposizione
sociale: avido di scienza e di arte, plastico e molteplice sin quasi
alla universalità, grandiosamente immaginoso ma positivo,
armonioso, realistico, e, pur in mezzo alle più pericolose
esaltazioni, immune di misticismo, indifferente ai motivi etici e
incredulo. Una portentosa lucidezza e plasticità di pensiero,
una alacrità infaticata, una mirabile fretta, una
straordinaria resistenza nervosa furono le sue virtù
maggiori, con le quali egli avrebbe potuto riuscire in ogni
età e tempo un grande uomo: un grande organizzatore
d’industrie negli Stati Uniti, un grande esploratore e speculatore
di terre e miniere nella Africa meridionale, un grande scienziato o
scrittore nell’Europa contemporanea. In Roma antica le tradizioni
della famiglia e l’ambizione lo spinsero nella politica, il peggior
cimento in cui possa consumarsi un uomo di genio, perchè
quello in cui più spesso avviene che l’effetto non
corrisponda allo sforzo per l’intervento improvviso di cause
imprevidibili: ma nella politica potè diventar un gran
generale, un grande scrittore, un gran personaggio, non un grande
uomo di Stato889. Tre principali idee politiche egli ebbe: la
ricostituzione del partito democratico legalitario nel 59;
l’ingrandimento della politica riconquistatrice di Lucullo nel 56;
la costituzione di un governo personale dopo la morte di Pompeo. Ora
di queste idee le due prime eran tardive e la terza era acerba, onde
fallirono tutte: fallì la prima nella rivoluzione democratica
del Consolato; fallì la seconda nella catastrofe di Crasso in
Persia e nelle sanguinose rivolte galliche; fallì la terza
nella strage delle Idi di marzo. Ma sarebbe stolto attribuire questi
insuccessi a colpa o ad errore di Cesare. Egli non fu uomo di Stato
perchè non poteva esser tale, in una democrazia in cui chi
non volesse compiacere alle stravaganze e ai traviamenti più
folli di un popolo esaltato da una smania frenetica di potere di
ricchezze di godimenti, poteva raccogliersi a filosofare, non
cimentarsi nella politica. Una fatalità inesorabile domina
tutta la vita di lui: alla rivoluzione democratica del Consolato
egli fu costretto dagli eventi; la necessità di salvare
sè, il suo partito, la sua opera lo costrinse alla maggiore
temerità nella sua vita, l’annessione della Gallia; dopo,
egli non potè più ritrarsi, dovè procedere a
quelle sanguinose repressioni che sono la parte davvero repugnante
della sua storia. La guerra civile nasce con così fatale
necessità dalla rovina della sua politica conquistatrice, che
gli estremi sforzi di lui per impedirla non riescono. Il successo in
questa guerra fu immenso e insperato, ma troppo grande;
perchè Cesare, trovatosi a un tratto signore in apparenza di
tutto, si trovò anche in una delle più difficili
situazioni: senza essere in grado di abbandonare il potere, e
costretto, se lo conservava, a dovere imprendere l’impossibile
fatica di governare solo, con pochi amici, un immenso impero in
disordine. Che egli si illudesse di bastare a impresa sì
grande, è umano: ma a tanta distanza di tempo, con esperienza
più matura delle cose storiche, noi possiamo capire a fondo
la fallacia di questa illusione. Cesare fu non un grande uomo di
Stato, ma il più gran demagogo della storia. Egli
personificò tutte le forze rivoluzionarie, splendide e
orrende, dell’era mercantile in lotta con le tradizioni della
vecchia società agricola: l’incredulità religiosa;
l’indifferenza morale; la mancanza dei sentimenti familiari;
l’opportunismo e la indisciplina politica; il disprezzo delle
tradizioni; il lusso orientale; il militarismo rapace; la
speculazione, la corruzione e l’affarismo; lo spirito democratico,
il raffinamento intellettuale, il primo addolcimento della durezza
barbarica, la passione della arte e della scienza. Che l’imperatore
di Germania e di Russia abbiano preso il nome di questo grande
rivoluzionario è una delle maggiori stranezze della storia;
che i conservatori del tempo suo lo odiassero come un mostro, si
capisce; che egli grandeggiasse secondando questo grande movimento
degli spiriti non fu effetto di caso o di miracolo, ma di quella
specie di logica che è insita negli eventi della storia. Ma
allorchè egli si illuse di poter sovrapporre la
volontà sua e il suo pensiero a tutte le correnti
intellettuali e sociali del tempo, dominandole, egli
scontentò tutti e fu travolto.... Non importa che nella
ultima parte della sua vita egli fosse spesso più savio che
nella prima; che cercasse in parte di riparare, come riformatore,
sebbene con molte contradizioni, gli errori commessi come demagogo;
che avesse intravisto come una società rovina
necessariamente, quando tutta la sua morale si riassume in una
sfrenata cupidigia di denaro e di piaceri. Impedir questa catastrofe
nè egli nè altri poteva. Troppi antagonismi si
torceano nella società romana del tempo suo, dall’antagonismo
inconciliabile tra i molti debitori e i pochi creditori, tra i
poveri e i ricchi, al contrasto tra lo spirito demagogico e lo
spirito di autorità, tra il lusso asiatico e la vecchia
parsimonia latina, tra la nuova cultura greco-orientale e le
tradizioni romane. Certo egli aveva mostrata una agilità e un
vigore meraviglioso, più grande che ogni altro contemporaneo,
nel resistere per tanti anni allo snervante rullìo e
beccheggio di quella democrazia mercantile, abbandonata, come una
nave sopra un mar tempestoso, in balìa delle formidabili
oscillazioni di una opinione pubblica nervosissima, mutevole,
contraditoria. Ma come avrebbe potuto Cesare comporre e dominare
questi immensi antagonismi in tutta la società, quando non
poteva nè comporli nè annullarli nel suo stesso
partito? Sinchè questi antagonismi non si fossero risoluti in
una grande crisi storica che in questi giorni incomincia e che
durò dieci anni, non sarebbe stato possibile a una
generazione nuova ricomporre un mondo più tranquillo e
più saldo, con la materia preparata da questa generazione:
grande operosa fortunata generazione, ma ormai troppo travagliata e
stanca, troppo orgogliosa, troppo divisa da odii, troppo avvezza a
una sfrenata licenza politica, morale, intellettuale. Una
generazione più modesta, più prudente, più
paziente doveva comparire e questa sparire: sparir Cesare, come
erano spariti Crasso, Pompeo, Catone; come sparirebbe tra poco
Cicerone e il fiore di quella aristocrazia che aveva visto il
maggior fervore della storia di Roma.
E difatti i congiurati rappresentavano un grande movimento di
spiriti e di partiti che avveniva in Italia: l’alleanza cioè
degli avanzi del vecchio partito conservatore con la parte
più conservatrice e signorile dei cesariani, contro la
monarchia demagogica, straniera, minacciosa al potere e alla
ricchezza delle alte classi; la repubblica latina e conservatrice
dei ricchi contro la monarchia asiatica e rivoluzionaria degli
straccioni. Verso il primo marzo molti erano già a parte del
disegno: chi dice 60 e chi 80890; tra gli ultimi anche Decimo Bruto,
il prediletto di Cesare, tornato verso la fine di febbraio dalla
Gallia a Roma; non Cicerone cui non fu detto nulla, perchè
non si aveva troppa fiducia nel suo coraggio e si volle risparmiare
il rischio al vecchio scrittore da tutti ammirato. Tanto numero di
congiurati può parere soverchio, quando si pensi che il
pericolo di indiscrezioni e di tradimenti aumenta nelle congiure con
il numero delle persone che vi prendon parte; ma la ragione fu forse
questa: che i congiurati, credendo fedelissimi a Cesare gli eserciti
e favorevole a lui, più che non fosse in realtà, il
popolino, la cui esaltazione pareva crescere di giorno in giorno,
pensaron che bisognava far apparire Cesare come ucciso non da pochi
nemici personali, ma dall’intero Senato, per imporre rispetto alle
legioni, alla plebe, a tutto l’impero. Ciò spiega forse come,
dopo lunghe discussioni, fosse deliberato di non uccidere, insieme
con Cesare, Antonio, che allora era console; al quale giovarono non
gli scrupoli di Bruto che voleva risparmiare il sangue romano, ma la
considerazione che la morte di ambedue i consoli avrebbe impedita la
subita restaurazione della antica costituzione891; e la speranza che
egli, convertito da poco al partito della tirannide, ritornerebbe ai
vecchi amici appena morto Cesare. Il luogo e il modo della strage
confermano poi che tale davvero era il disegno dei congiurati. La
questione era grave; molti piani furon considerati892 nelle visite
che i congiurati, per non dar sospetto, si facevan l’un l’altro,
senza mai trovarsi tutti insieme893; ma il tempo passava e urgeva
affrettare, perchè Cesare era sulle mosse per partire per la
Persia; e già da tutte le parti d’Italia arrivavano e
alloggiavano nei templi, per fargli scorta d’onore alla uscita dalla
città, i suoi veterani894. La esitazione era grande; le
proposte furono molte, ma nessuna piacque; le discussioni snervarono
i congiurati, dei quali molti, in segreto già pentiti,
incominciarono a spaventarsi; le paure e le riluttanze di tutti,
sino allora represse dalla soggezione vicendevole, proruppero; e
molti volendone approfittare per trarsi fuori del pericolo, si fu in
procinto di abbandonare l’impresa895. Ma gli eventi, la forza delle
cose, il pericolo già affrontato riordinarono ben presto le
volontà riluttanti. Cesare aggiungeva usurpazione a
usurpazione; non aveva fatto approvare dal Senato che si eleggessero
prima della sua partenza i magistrati per tre anni, supposta durata
della sua assenza? Irzio e Pansa erano già stati designati ai
primi di marzo consoli per il 43; e con essi i tribuni della plebe.
Corse anche voce, che un oracolo della Sibilla dicesse i Parti poter
esser vinti solo da un re, che il console del 65 Lucio Aurelio
Cotta, quello contro cui Cesare aveva congiurato nel 66, proporrebbe
di proclamarlo re di tutto l’impero, fuori che dell’Italia896.
Quando finalmente si seppe che Cesare avrebbe convocato il Senato il
15 nella Curia di Pompeo, per risolver tra le altre la questione del
consolato di Dolabella e poi partire il 17, tutti convennero che la
occasione migliore era quella. Cesare ucciso nel Senato dal fiore
dei senatori, come Romolo, sarebbe parso ucciso da Roma stessa897.
Ormai non era più possibile trarsi indietro. A qualunque
costo, alle idi di marzo, bisognava uccidere Cesare. E i giorni che
separavano dalla seduta incominciarono a passare terribilmente
lenti, per i capi della congiura. A ogni cadere del sole, in ottanta
delle più signorili case di Roma, uomini che avevano
affrontata tante volte la morte, si ritraevano stanchi per
l’ansietà nei piccoli cubicoli cercando invano il sonno,
domandandosi se qualcheduno non tradirebbe involontario il segreto,
se Cesare non li farebbe trucidar tutti, nella notte. E all’alba
ricominciava il lavoro faticoso delle visite vicendevoli per
intendersi, fatte e restituite con cautela, eludendo nelle vie gli
occhi curiosi dei passanti con l’indifferenza di chi va a fare una
visita di cerimonia; eludendo nelle case le orecchie indiscrete
degli schiavi. Bruto in special modo era tormentato da ansie ed
esitazioni continue; e se si mostrava fuori con volto sereno, in
casa piombava in lunghi e tristi silenzi, dormiva sonni agitati,
rotti da sospiri, di cui Porzia non sapeva indovinar la cagione. La
timidezza, la gratitudine, l’affetto combattevano in lui una dura
battaglia contro l’orgogliosa ostinazione di essere eroe898.
Tuttavia i giorni passavano; Roma restava tranquilla; il segreto era
ben custodito899; nè Cesare nè il suo seguito parevano
accorgersi di nulla; sola Porzia, a furia di domandare, aveva saputo
dal debole marito il terribile segreto. E intanto, nei conciliaboli,
il disegno della strage era a poco a poco finito nei particolari: i
congiurati porterebbero i pugnali sotto la toga, Trebonio terrebbe a
bada fuori, con discorsi, Antonio; Decimo Bruto porrebbe nel vicino
teatro di Pompeo gladiatori assoldali da lui per i giochi e che in
caso di bisogno difenderebbero i congiurati; appena ucciso Cesare,
Bruto avrebbe pronunciato un discorso al Senato, spiegando le
ragioni del misfatto e proponendo la ricostituzione della
repubblica. Anche il 14 marzo sorse, passò lento,
declinò verso la sera, senza che succedesse nulla; quella
sera. Cesare avrebbe pranzato da Lepido che preparava fuori di Roma
un piccolo esercito per partire per la provincia; e sarebbe
rincasato tardi: era un buon segno che non dubitava di nulla. Quanti
occhi, in quella notte, dovettero tornare a scrutare il cielo, per
vedere se le stelle tramontavano al fine, se si levava il sole che
avrebbe visto il sangue di Cesare e la repubblica restaurata! Solo
Cesare, rincasato tardi, dormiva, ignaro di tutto, il suo sonno
agitato di uomo stanco e infermiccio.
Spuntò alla fine l’alba del 15 marzo. I congiurati furono per
tempo al portico di Pompeo, nella vicinanza del luogo dove è
ora il Campo dei Fiori; Bruto, che era pretore, salì sul
tribunale e incominciò ad ascoltare i piati dei litiganti,
tranquillamente, dominando l’interna commozione; gli altri
congiurati, che aspettavano l’aprirsi della seduta, si intrattenevan
sotto i portici, parlando con i colleghi e cercando di restar
tranquilli900; nel vicino teatro di Pompeo si die’ principio a uno
spettacolo; nelle vie incominciò l’usata frequenza. Cesare
doveva arrivare da un momento all’altro.... Ma Cesare tardava a
venire, trattenuto, a quanto pare, da una indisposizione, che un
momento lo aveva quasi indotto a rimandar la seduta. I congiurati,
già ansiosi, cominciarono a inquietarsi, a trasalire,
spaventati, ad ogni stormire di foglie. Un amico si avvicinò
a un congiurato, Casca, e gli disse ridendo: “Tu nascondi dei
segreti ma Bruto mi ha detto ogni cosa”. Casca, sbigottito, stava
per rivelar tutto, quando l’altro, continuando, mostrò di
alludere alla prossima candidatura di Casca alla edilità. Un
senatore, Popilio Lena, avvicinatosi a Bruto e a Cassio, disse loro,
piano, all’orecchio: “Possiate riuscire; ma fate presto901.” E
Cesare non veniva; il sole era già alto sull’orizzonte –
potevano essere le dieci della mattina902; i congiurati
incominciavano ad essere snervati ed esausti dall’attesa, a
impaurirsi. Certo si era scoperta ogni cosa! Cassio alla fine si
risolvè a mandar Decimo Bruto a casa di Cesare, per veder che
cosa succedeva e trarlo nella Curia. Decimo prestamente per le
viuzze del Campo Marzio risali sino al Foro, entrò nella
Regia, dove abitava Cesare come Pontefice Massimo: e lo trovò
appunto in procinto di rimandar la seduta, per il malessere che lo
tormentava. Ma nel pericolo egli attinse il coraggio feroce di
trarre al macello con discorsi amichevoli l’uomo che si fidava di
lui a occhi chiusi; e lo indusse a venire903. Ecco finalmente
spuntar la lettiga di Cesare! Presso la Curia il dittatore scese; e
i congiurati, che già si eran raccolti nella aula, videro da
lontano Popilio Lena avvicinarglisi e parlargli a lungo sottovoce.
Fu per Bruto e Cassio un istante terribile: li tradiva egli forse?
Cassio stava per perder la testa: ma Bruto, più calmo, ebbe
il coraggio di guardare, in quel momento, in faccia a Cesare: quella
faccia scarna, severa, stanca da tanti pensieri e cure era
tranquilla, come di chi ascolta una cosa che preme a colui che
parla. Bruto fece cenno a Cassio di tranquillarsi904. Ma ci fu
ancora una pausa: il tempo che Cesare stette fuori della Curia
facendo i sacrifici imposti dalla liturgìa politica.
Finalmente Cesare entrò, si assise; mentre Trebonio
tratteneva fuori a discorsi Antonio. Tullio Cimbro si
avvicinò al dittatore domandandogli il richiamo di un suo
fratello esiliato; gli altri gli si fecero attorno, come per unire
le loro preghiere a quelle di Cimbro; sinchè Cesare,
sentendosi troppo addosso la gente, si alzò, facendo il gesto
di allontanarli.... Tullio gli afferrò allora la toga, che
scivolò lungo la persona lasciando il busto coperto solo
della leggiera tunica. Era il segnale: Casca gli tirò il
primo colpo ma trepidante sbagliò, ferendolo all’omero.
Cesare si voltò verso lui di scatto; impugnò gridando
lo stilo per scrivere; Casca spaurito chiamò il fratello, che
infisse il suo pugnale nel fianco di Cesare; Cassio lo ferì
al viso, Decimo all’inguine; tutti gli furono addosso così
agitati che si ferivan tra loro, mentre Cesare si dibatteva come una
belva e i senatori dopo un istante di stupore balzavano in preda a
subitaneo spavento e fuggivan tutti urlando, buttandosi a terra,
calpestandosi, anche i Cesariani, anche Antonio. Soltanto due si
slanciarono al soccorso di Cesare.... Invano! Divincolandosi
furiosamente Cesare era arrivato ai piedi della statua di Pompeo e
là era stramazzato in un mare di sangue, morto!905
Bruto si voltò allora per recitare il suo discorso al Senato:
ma la Curia era vuota. I congiurati non avevan pensato che un panico
da fanciulli renderebbe vano il loro studiato disegno di far subito
decretare la restaurazione. Che fare? Nella concitazione in cui
tutti si trovavano, tennero un breve consiglio; e temendo dei
veterani e del popolino risolvettero di chiamare i gladiatori di
Decimo, di andar con quelli sul Campidoglio e fortificarsi, poi
deliberare là con maggior calma. Uscirono infatti, con le
toghe arrotolate intorno al braccio sinistro come scudi, brandendo
nella destra i pugnali sanguinolenti, portando sopra un bastone un
pileo, simbolo della libertà, acclamando alla libertà,
alla repubblica, a Cicerone, il filosofo del De Republica; ma
trovarono in ogni via un gran tumulto di grida e di fughe906. Nel
portico e nelle vie adiacenti la gente si era spaventata
all’improvviso fuggire dei senatori urlanti e all’accorrer dei
gladiatori armati; in un baleno grida di allarme eran corse; era
cominciato un fuggi fuggi; le urla e le voci giunte al teatro di
Pompeo avevan spaventato il pubblico, che scappava esso pure in
tumulto, mentre i marioli facevan man bassa delle ceste e carrette
dei venditori ambulanti intorno al teatro907; tutti cercavano
rifugiarsi nelle case e nelle botteghe, che i padroni si
affrettavano a chiudere. La apparizione di questa frotta di armati,
lordi di sangue, accrebbe il disordine nelle vie che percorrevano;
invano essi, e specialmente Bruto, gridavano, facevan gesti per
tranquillare la folla908; questa non udiva e non vedeva. Intanto la
notizia rapidissima correva sino ai più lontani quartieri di
Roma, facendo dovunque fuggir la gente spaventata nelle case. Di
lì a poco Antonio si asserragliava in casa; i congiurati si
fortificavano sul Campidoglio; tutta la gente si nascondeva
spaurita; Roma si spopolava in un funereo silenzio. Tutti avevan
paura di tutti.
Incominciava una delle crisi più terribili della storia di
Roma; ed una delle più salutari. Non il corpo solo di Cesare
era stato squarciato; anche l’opera sua contradditoria e frettolosa
degli ultimi anni sarebbe in gran parte distrutta. Venti anni
tragici ancora; e poi, quando tutti gli uomini insigni di questa
età, spenti violentemente, dormirebbero il sonno eterno per
tutte le terre dell’impero da loro tanto ingrandito, il mondo si
ricomporrebbe in ordine e pace a godere i tardi frutti dell’opera
loro. Apparirebbe allora come i congiurati avevano in parte intuito
il giusto: che i tempi della monarchia militare non erano maturi:
che nessun cittadino poteva ancora edificare una reggia orientale
nella metropoli della gloriosa repubblica latina; che la morte,
liberatrice provvida, aveva tratto Cesare fuori da un viluppo di
difficoltà inestricabile anche da lui; che non per la
dittatura di un tiranno geniale, ma per la libera, lenta, a volte
tempestosa esplicazione di innumeri e piccole forze sociali,
splenderebbe alla fine sul mondo, dopo il mattino procelloso, il
luminoso e pacato meriggio dell’impero di Roma.
FINE DEL SECONDO VOLUME.
APPENDICI CRITICHE.
A.
Sul commercio dei cereali nel mondo antico.
(a pag. 63 del I
volume).909
È opinione comune tra gli storici che la concorrenza del
grano straniero – siciliano e africano – fu la cagione delle crisi
agricole da cui l’Italia incominciò ad esser travagliata dopo
il 150 a. C. Soli il Weber, R. A. G. 225 e il Salvioli, D. P. F.
pag. 62 seg. hanno dubitato che questa affermazione sia giusta. Io
credo invece che questa spiegazione sia assolutamente falsa. Nel
mondo antico non esistè un commercio privato e internazionale
dei cereali simile al commercio moderno, ma ogni regione consumava
il grano suo. Eccone le prove.
Nel V e IV secolo a. C. l’Attica, essendo diventata una regione
industriale e una nazione politicamente assai potente, la
popolazione si addensò tanto che i raccolti del paese non
bastarono più. L’Attica infatti doveva importare anche nelle
annate buone una provvista di grano che secondo un passo di
Demostene in Lept. 31 era di 800 000 medimni cioè circa
di 415 000 ettolitri; ma che il Boeck (E. P. A. pag. 154)
calcola invece a un milione di medimni, cioè circa
518 000 ettolitri: provvista come si vede assai piccola, almeno
per il commercio moderno. Eppure il commercio privato non sarebbe
stato capace di fornire all’Attica questo mezzo milione di
ettolitri, senza l’assistenza e qualche volta senza la costrizione
dello Stato. Dal discorso di Demostene in La crit. 50-51 risulta che
tutte le navi appartenenti ad Ateniesi, e quelle ai cui padroni
cittadini o meteci ateniesi prestavano il denaro necessario al
commercio erano obbligate, sotto minaccia di gravi pene, a portar
nel ritorno una parte del carico di grano. Dal discorso di Dem. in
Phorm. c. 36-37 si ricava che il padrone di una nave che commerciava
tra Atene e le colonie greche della Crimea, l’Argentina o il
Far-west della Grecia, e che, avendo caricato grano, lo vendesse in
un altro posto che non fosse Atene, poteva esser punito di morte.
Dal c. 38 si ricava che per un ricco capitalista aver sempre
osservate queste leggi sul commercio dei grani era un merito civico.
Cfr. anche su queste leggi: in Theoc., c. 10. – Ciò dimostra
che il commercio d’importazione dei cereali, anche in Atene che pure
giaceva quasi sul mare, era una specie di obbligo oneroso che lo
Stato imponeva ai mercanti, quasi a compenso della protezione e
degli altri vantaggi loro accordati. Nè basta: se
l’importazione del grano era per metà obbligatoria, il
commercio del grano stesso, appena giunto in Attica, non era punto
libero. Due terzi del grano sbarcato al Pireo, doveva essere, ci
dice Aristotele, Ath. resp. 51, portato ad Atene; l’incetta era
proibita, come risulta dal discorso di Lisia adversos frumentarios,
con la pena di morte; mentre il commercio al minuto di tutte le
altre cose era sorvegliato dagli αγορανόμοι, la sorveglianza del
mercato de’ cereali era affidata a un magistrato speciale, i
σιτοφυλακες (Lys. 22, 16), i quali (Dem. 20, 32) dovevano tenere i
conti del grano che era portato dai vari paesi. Tuttavia
l’approvvigionamento era manchevole e le carestie frequenti,
cosicchè di tempo in tempo dovevano farsi ad Atene
distribuzioni di grano a prezzo di favore, simili a quelle che
furono più tardi regolari a Roma, a spese dello Stato o di
generosi privati, come risulta da Aristoph, Vesp. 718 e Scolio
relativo; Scolio a Equit. 103; Demosth. in Phorm. 37, seg.; C. I.
A., 2, 108; 143; 170; 194 e 195, – Dagli Scholia in Aristoph. Achar.
548 sembra risultare che Pericle facesse costruire un grande granaio
pubblico. Anzi, all’acquisto dei grani provvedevano magistrati
speciali, eletti dal popolo e non sorteggiati, detti σιτῶναι, i
quali spesso contribuivano anche denaro proprio. Demost. de Cor.
248; C. I. A., 2, 335 e 353.
Infine, mentre oggi i paesi industriali cercano di restringere
quanto più possono la importazione dai paesi produttori di
cereali, con dazi di protezione, Atene cercava con tutti i sussidi
della diplomazia e della guerra di rendere l’importazione più
sicura e abbondante che potesse. Demostene in Lept. 29 e seg.
celebra come un grande beneficio di Leucone, signore della Crimea,
il privilegio concesso da lui ai mercanti ateniesi di esportare
grano senza restrizioni di quantità, e senza pagar dazio di
esportazione, ciò che equivaleva a un dono di 13 000
medimni all’anno, meno di 7000 ettolitri. Eppure questo dono sembra
a Demostene magnifico. Gli Ateniesi, nel tempo della loro massima
potenza, ambirono di avere la signoria del mar Nero e specialmente
del Bosforo, per poter riservare a sè la esportazione del
grano o concederla a chi volessero, sotto condizioni determinate.
Boeck, E. P. A. 124; Demosth. de cor. 87; C. I. A. 1, 40. – Noi
possediamo molti decreti in onore di re di Egitto che concessero il
permesso di esportare grano.
Questi fatti non si possono spiegare se non ammettendo che il grano
non era facilmente portato e commerciato fuori del mercato locale.
Tranne in alcuni paesi, in cui la popolazione era rada e la terra
molto fertile, come la Crimea; dove la popolazione era fitta ma
sobria e la terra fertilissima, come l’Egitto, negli altri le
raccolte bastavano di solito appena al bisogno; e quindi grande era
la ripugnanza all’esportazione, tanto è vero che i divieti di
esportazione sono frequenti. Quindi la materia del commercio era
scarsa; ma anche questa poca non era trafficata dal mercante, che
quando concorrevano condizioni speciali. Nel mondo antico le spese e
il rischio dei trasporti anche per mare erano grandi: per la
scarsezza del capitale e l’altissimo interesse, per la piccolezza,
la poca capacità e la lentezza delle navi; per le tempeste,
le guerre frequenti, la pirateria, la malafede, la barbarie. Queste
spese e questi pericoli erano ancor maggiori nei trasporti per
terra. In condizioni simiglianti, il commercio mirava a far poche e
poco faticose operazioni, ma guadagnando molto su ciascuna; a
trasportare merci di poco volume, il cui prezzo nel paese di
acquisto fosse molto basso o il prezzo nel paese di rivendita
altissimo, in modo da poter guadagnare lautamente anche
trasportandone poco. Questa è la ragione per cui, come fu
notato da molti, i popoli antichi scambiavano tra loro quasi
soltanto oggetti di lusso; gli oggetti cioè il cui consumo
era piccolo e i cui prezzi potevano salire molto nei paesi in cui
erano importati o venduti ai ricchi. Inoltre, siccome nel
Mediterraneo molti popoli barbari vivevano tra pochi popoli civili,
e siccome il valore delle cose è una funzione della
civiltà, avveniva che molti oggetti, anche se non fossero di
lusso, come la frutta secca, la lana, il miele, i profumi, ecc.,
valevano pochissimo in un paese poverissimo e barbaro, e molto in
paesi più ricchi e civili; e anche di questi si faceva
commercio. Si commerciava insomma in modo che ogni carico di nave o
carovana facesse guadagnare una somma considerevolissima (Boeck. E.
P. A. 130), così da poter pagare le spese del viaggio,
l’interesse del capitale e i grossi rischi che il mercante aveva
incorso. Ma i cereali sono una merce ingombrante il cui trasporto
quindi è caro, onde avveniva che al mercante privato non
conveniva portare in un paese grano forestiero comprato anche per
poco se non in tempi di terribile carestia, e a condizione di
portarne solo una piccola quantità che scemasse di poco, non
annullasse la carestia. Se egli ne avesse portata una
quantità così abbondante da far ribassare i prezzi di
molto, egli non avrebbe guadagnato più quanto bastava per
ripagarsi le spese ingenti del trasporto di una merce così
ingombrante; e ricompensare il suo rischio. In altre parole il
commercio privato dei cereali poteva sussistere in quanto era una
speculazione sulle carestie locali e parziali; non come adesso quale
procedimento continuo per distribuire in tutti i paesi egualmente la
provvista e pareggiare i prezzi, cosicchè non ci sia in
nessun paese rincaro o rinvilio soverchio. Questo è
confermato da Senofonte, Oec. 20, 27-28, il quale espressamente dice
che i mercanti di grano da un paese all’altro speculavano sulle
carestie; e da Demosth. il quale nel discorso in Dionys. 7-11
descrive una specie di curiosissimo trust fatto tra parecchi
commercianti, per speculare su tutte le carestie che avvenissero nei
paesi mediterranei, portando un poco di grano dai paesi dove
scendeva a prezzi vili, a quelli dove scarseggiava, guadagnando
sulla forte diversità di prezzo. Se il commercio del grano
fosse stato internazionale, la speculazione al rialzo si sarebbe
dovuta fare, non nello spazio, ma, come adesso, nel tempo: comperare
non nei paesi di abbondanza ma nei tempi di rinvilio, per rivendere
in quelli di rincaro. Inoltre, siccome i mercati locali e ristretti
sono molto variabili, queste speculazioni erano molto rischiose:
come ci attesta Demosth. in Zenothemidem, 25.
Ho trattato a lungo il caso dell’Attica, perchè le notizie
abbondano: ma le condizioni della civiltà antica essendo
rimaste, in questo, eguali, simili considerazioni valgono anche per
Roma e per l’Italia. Se nel V e IV secolo il grano del Ponto o
dell’Egitto non poteva esser portato, senza il sussidio dello Stato
o dei ricchi negozianti che spontaneamente o costretti dalla legge
si assumevano parte della spesa, ad Atene, che era quasi sul mare e
per i tempi una gran città opulenta, come avrebbe potuto due
secoli dopo il grano dell’Egitto esser venduto nell’interno
dell’Italia, nella Gallia Cispadana, nelle città poste sulle
vette dell’Appennino? Trasportato lassù il grano sarebbe
costato talmente da non poter fare in nessun modo concorrenza al
grano indigeno, e le spese di trasporto e il lucro del mercante
avrebbero protetto la granicoltura indigena assai più che i
dazi protettori moderni: proteggevano anzi tanto e rendevano
così difficile la importazione del grano che, almeno a Roma,
si dovette ricorrere a procedimenti artificiali, simili a quelli
usati ad Atene, per stimolare la importazione. Gli acquisti a spese
dello Stato, le frumentazioni, le distribuzioni gratuite di privati
generosi sono provvedimenti dello stesso genere e suggeriti dalle
stesse necessità che quelli che noi abbiamo veduto a Atene.
Quando, Roma crescendo, la popolazione si agglomerò intorno
ai sette colli, il prezzo dei cereali crebbe rapidamente, a mano a
mano che bisognò cercare le provviste in una zona più
vasta, appunto perchè le spese del trasporto crescevano e
cresceva la difficoltà di portare a Roma, normalmente, la
grossa provvista necessaria a nutrire tanta gente. Gli europei e gli
americani del secolo XIX e XX sono tanto avvezzi a vedere immense
metropoli di milioni di uomini nutrite regolarmente dal commercio
privato, che pensano esser questa una condizione naturale di cose; e
invece questa regolarità di approvvigionamenti è uno
dei più meravigliosi e recenti progressi della
civiltà, di cui è stata cagione l’invenzione delle
ferrovie e del battello a vapore, la potentissima organizzazione
dell’industria e del commercio moderno, la diffusione delle
abitudini di lavoro, l’immenso aumento della ricchezza. Nel mondo
antico era difficile approvvigionare una città di centomila
abitanti. Ciò spiega come quasi tutte le città
antiche, tolte poche, fossero molto piccole; ciò ammonisce a
non credere facilmente alle grossissime cifre cui si fa ascendere la
popolazione di alcune di queste città; ciò spiega
come, quando in una nazione arricchita, sia con l’industria e il
commercio, come l’Attica, sia con le usure, la esportazione di
capitali e le conquiste come l’Italia, la popolazione si addensava
dalle campagne in qualche grossa città, la difficoltà
degli approvvigionamenti divenisse una questione politica
importantissima. Era questione vitale per lo Stato poter provvedersi
nei paesi in cui era annualmente una certa sovrabbondanza di grano;
e perciò esso doveva o conservare buone relazioni
diplomatiche con questi paesi, come Roma e Atene fecero con
l’Egitto, o conquistarli. Ciò spiega anche come la espansione
militare degli Stati antichi dipendesse in parte dal possesso di
regioni molto fertili di grano. Roma potè mandare eserciti in
tutte le regioni circummediterranee, dopochè ebbe conquistata
la Sicilia, la Sardegna, la Spagna e avviate sicure relazioni
diplomatiche con l’Egitto; cioè dopochè ebbe ampi
granai aperti alle sue domande. Mitridate potè impegnarsi nel
gran duello con Roma dopo aver conquistata la Crimea frugifera. Un
esercito numeroso è una città mobile, un addensamento
artificiale di popolazione, che deve esser nutrito. Un paese molto
popoloso che producesse appena il grano necessario ai suoi bisogni,
sarebbe stato ridotto alla carestia perpetua, se avesse dovuto
mandar lontano una parte del suo grano, per nutrire gli eserciti.
Per queste ragioni mi pare verisimile che Cesare e Crasso,
proponendo nel 65 la conquista dell’Egitto, proponessero sopratutto
la conquista del più ricco granaio dei paesi mediterranei, e
sperassero che l’idea sarebbe accolta dal popolo, sempre pauroso di
carestie, con entusiasmo eguale a quello con cui era stata accolta
la vittoria di Pompeo sui pirati.
Non essendo possibile ammettere che la agricoltura italiana dopo il
150 a. C. fosse rovinata dalla concorrenza dei grani forestieri, ho
congetturato che l’aumento del tenore e del costo della vita fosse
cagione di questa crisi. È una congettura perchè i
fatti mancano: ma è una congettura che mi par verisimile. Gli
scrittori antichi raccontano in mille modi il continuo e funesto
aumento del lusso in Italia, dopo la fine della seconda guerra
punica, e di questo aumento Plinio ci ha conservati alcuni fatti
capitali, da me citati nel corso della narrazione. Ora questo
aumento del lusso, che non era altro se non un innalzamento del
tenor di vita per imitazione di una civiltà più
raffinata, considerato nei suoi effetti immediati dai moralisti,
potè esser cagione sufficiente delle crisi, in un paese che
era molto povero. Fatti analoghi sono frequentissimi nella storia.
In parte, ad esempio, la crisi economica di cui ha sofferto l’Italia
nell’ultimo ventennio nacque dall’aumento di spese di cui fu cagione
l’introduzione della civiltà industriale anglo-francese nella
società agricola che aveva durato fino al 1818. Non è
avvenuto lo stesso fatto in Russia, dopo il 1863? Un fenomeno di
questo genere, più piccolo, mi par sufficiente a spiegare
quella gran crisi, nel modo che ho esposto nel libro. La
civiltà greca e orientale, più voluttuosa e costosa,
penetrando nell’antica Italia rustica e povera, la decompose non
solo moralmente, ma anche economicamente, rovinando l’antico assetto
delle fortune nelle famiglie e nelle classi. Ma è argomento
questo grave e vasto, che intendo trattare più minutamente in
uno studio parziale.
B.
Sulla cronologia delle guerre di Lucullo.
(a pag. 223 del I
volume).
Sino al Reinach, si era sempre ammesso che la guerra per la
conquista della Bitinia incominciò nella primavera del 74.
Tale è anche l’opinione del Mommsen: R. G. 3, 55 seg. Il
Reinach invece, ammettendo che Nicomede morì alla fine del
74, fa cominciare la guerra nel 73 (M. E. 321, n. 1); e la sua
opinione fu seguita da Jürgens, De Sallustii historiarum
reliquiis, Gottingen 1892. Invece più recentemente il
Maurenbrecher, Sallusti historiarum reliquiae, Leipzig 1893; e
Bernhardt, Chronologie der Mithridatischen Kriege, Marburg 1896,
sono ritornati alla vecchia cronologia.
Dopo lungo studio, mi sono persuaso che la rettificazione di Reinach
non si può accogliere. Cic. pro Mur. 15, 33; Liv. P. 93,
Eutropio 6, 6, e App. Mith. 72 dicono, parlando o di Lucullo e Cotta
o del solo Lucullo, che i consoli furono mandati a comandar la
guerra. Affermare che tutti e quattro hanno scritto consoli per
proconsoli, mi pare ardito. L’argomento tolto da Cic. Acad. prior,
2, 1, 1 che dice: Consulatum ita (Lucullus) gessit ut....
admirarentur omnes; post ad Mithridaticum bellum missus a senatu...,
non regge. Lucullo passò a Roma, come console, 4 o 5 mesi
almeno: e Cicerone allude evidentemente a questi mesi. Nemmeno la
frase di Velleio 2, 33 L. Lucullus.... ex consulatu sortitus Asiam
è un documento valevole. Velleio riassume in lungo inciso,
attaccato con un qui al nome di Lucullus, incidentalmente e per
sommi capi, la storia della guerra, e commette in questo riassunto
frettoloso e farraginoso diversi errori e confusioni: attribuisce a
Lucullo la provincia dell’Asia invece che la Cilicia; enumera la
vittoria di Cizico – la prima riportata da Lucullo – dopo le
sconfitte inflitte a Mitridate, che sono quelle delle campagne
seguenti. Ciò dimostra che Velleio non conosceva bene la
storia di queste guerre complicate, che riassume per sommi capi; e
come è stato inesatto nel nominar la provincia e
nell’enumerare i fatti memorabili, così ha potuto sbagliare
nell’indicare la carica con cui Lucullo andò in Asia. In
queste condizioni la autorità sua non può valere
contro quella di Eutropio, di Appiano, di Livio, e sopratutto di
Cicerone.
Senza enumerare altri argomenti, desunti dai testi, che si possono
trovare nello studio del Bernhart, io credo che si possa arrivare a
conclusioni definitive, anche su questa questione, per un’altra via;
studiando la storia di questa guerra e i suoi numerosi punti oscuri.
Noi conosciamo questa storia da due fonti principali: Plutarco, Vita
di Lucullo; e Appiano, Le guerre Mitridatiche: ma anche Plutarco,
che forse ha riassunto Sallustio e certo un racconto migliore che
quello di cui si serve Appiano (Nicola di Damasco?), è pieno
di oscurità e di incertezze; come chi, volendo stringere in
breve il racconto di un episodio assai complesso, dimentica molto,
compendia troppo e trascura fatti essenziali, cosicchè tutta
la narrazione riesce manchevole e poco chiara. E infatti, io credo
che la confusione dei due racconti antichi, e di quelli di molti
storici moderni, anche del Reinach, nasca dall’aver tutti taciuto,
che Mitridate invase la Bitinia e l’Asia – non discutiamo se nel 74
o nel 73 – ma – è questo il dato essenziale – all’improvviso,
quando Cotta e Lucullo erano ancora in Italia; quando il governo
della Cilicia era vuoto, per la morte di Ottavio; e in Asia eran
solo le due legioni fimbriane, al comando di un semplice propretore.
Se difatti non si ammette questo fatto, la storia del primo anno di
guerra presenta molte difficoltà insolubili. Se Cotta aveva
già occupato la Bitinia con un esercito, prima che Mitridate
l’invadesse, come si spiegherebbe che nessuna città della
Bitinia, fuori di Calcedonia, fece resistenza? Cotta avrebbe certo
messo una guarnigione almeno a Nicomedia, la capitale, dove erano i
tesori del re; e almeno a Nicomedia sarebbe stata tentata una
resistenza contro Mitridate. Invece Calcedonia sola resiste; ed
è l’unico punto in possesso dei Romani; segno evidente che,
quando Mitridate entrò in Bitinia, l’esercito Romano non
c’era ancora. Se Lucullo fosse già stato con cinque legioni
in Asia, quando Mitridate l’invase, gli arruolamenti fatti da
Cesare, che studiava a Rodi (Svet. Caes. 4) sarebbero stati una
spacconata ridicola e un crimine, di cui Lucullo avrebbe potuto
domandargli conto: invece diventano un provvedimento ragionevole e
meritorio se pure inutile, se si ammette che l’invasione fu
inaspettata, quando in Asia non erano che le due legioni di Fimbria
al comando di un propretore; se si ammette che le classi ricche
temerono una nuova rivoluzione e probabilmente tutte le città
pensarono a difendersi come potevano. Lucullo. quando in principio
si cominciò a parlare a Roma della guerra, intendeva avere il
governo della Cilicia, per tentare attraverso la Cappadocia
l’invasione del Ponto (Plut. Luc. 6): e invece poi quando ha
ottenuto la Cilicia, non va nella sua provincia, ma sbarca in Asia,
dove non aveva ancora nessuna autorità al contrario di quello
che afferma Reinach, M. E. 321 n. 1 (Cfr. Lange, R. A. 3, 201).
Dunque Lucullo mutò il piano di guerra. Ora quale altra
cagione si può trovare a questo mutamento, se non che,
frattanto, Mitridate aveva invasa l’Asia, e che invece di invadere
il territorio nemico, secondo il primo disegno, bisognava difendere
il proprio? Ma la prova per me decisiva è data dalla
spartizione del comando tra Cotta e Lucullo; e dal decreto che
deliberò questa spartizione, fortunatamente riassuntoci da
Cic. pro Mur. 15, 33: ut alter Mithridatem persequeretur, alter
Bithyniam tueretur. Supporre che il Senato facesse un decreto
simile, quando Mitridate era ancora nel Ponto, e non si sapeva che
cosa deliberasse, e tutti pensavano a Roma di poter fare una guerra
offensiva, è assurdo. Perchè mandare Cotta a difendere
la Bitinia e la Propontide che nessuno minacciava? Perchè
dare a Lucullo l’incarico di inseguire Mitridate, espressione che
chiaramente indica un nemico già all’opera? Invece questa
deliberazione diventa ragionevole quando si ammette che fu presa,
dopo che il Senato seppe che la Bitinia e l’Asia erano invase da due
eserciti. Il Senato mandò Cotta a tentar di riconquistare la
Bitinia; e Lucullo a combattere l’esercito che era in Asia;
ciò che spiega come Lucullo sbarcasse in Asia. E infine come
si spiegherebbe che Lucullo appena arrivato in Asia deliberò,
senza averne un potere legale, degli alleviamenti finanziari per gli
Asiatici, se Mitridate non era già in Asia, e se al generale
in capo non fosse parso urgente di placare il fermento delle
popolazioni, prima di avanzare al nord, dove l’esercito pontico si
trovava? Infine questa supposizione risolve chiarissimamente
l’imbroglio del comando assegnato a Lucullo, che in Plutarco, dove
questo antecedente è taciuto, è oscurissimo. Se in
principio Lucullo doveva intrigare, raccomandarsi a Precia e a Lucio
Quinzio per avere il proconsolato della Cilicia, quando invece si
seppe che Mitridate aveva invasa la Bitinia e l’Asia e si
temè un nuovo scompiglio simile a quello dell’anno 88, si
riconobbe che non si poteva lasciare tanta mole di guerra a un
propretore con due legioni, e il comando della Cilicia vuoto; ma si
volle mandare, a qualunque costo, anche con un provvedimento
straordinario del genere di quello con cui si era mandato Pompeo in
Spagna, un uomo capace di cimentarsi con il nemico. Quest’uomo non
poteva esser che Lucullo. Egli non solo era console, ma aveva una
grande riputazione militare, conosceva l’Oriente, dove aveva
già combattuto con grandissimo onore contro Mitridate. Nel
pericolo, gli altri concorrenti furono messi in disparte, e solo per
contentarli si diedero loro comandi subordinati.
Dunque Mitridate invase l’Asia o la Bitinia nella primavera
immediatamente successiva alla morte di Nicomede, e quando a Roma
non si era presa ancora nessuna disposizione per la guerra. Era
questa la primavera dell’anno 74 o quella dell’anno 73? Senza
dubbio, la primavera del 74. Lucio Ottavio fu proconsole in Cilicia
nel 74: se la guerra fosse scoppiata nel 73, il governo della
Cilicia sarebbe stato occupato dal suo successore ordinario, e non
avrebbe avuto luogo la vacanza straordinaria che fu cagione di tanto
spavento; Lucullo sarebbe già stato nella sua provincia della
Gallia e non a Roma. Non solo dal racconto di Plutarco si ricava
chiaramente che gli intrighi per il comando di Oriente avvennero
quando Lucullo e Cotta erano in Roma come consoli: ma la cosa
è verisimile per sè stessa. Se quando già
Lucullo avrebbe dovuto essere proconsole in Gallia, si fosse
trattenuto a Roma per avere il proconsolato della Bitinia e non
più in luogo di un proconsole morto, ma del governatore
già nominato, noi lo sapremmo: tanto il procedimento sarebbe
stato insolito e illegale. Più semplice è di seguire
Cicerone che ci dice chiaramente essere stati mandati alla guerra i
consoli Lucullo e Cotta: ciò che se non era più
frequentissimo, non era nemmeno così raro, come il Reinach
pensa. Quanto alla data della morte di Nicomede, l’argomento dei
tetradrammi bitinici, coniati nell’anno 224 dell’era bitinica, che
comincia con l’ottobre del 74, portato dal Reinach, M. E. 318, n. 2,
per provare che Nicomede è morto alla fine del 74, è
già stato confutato dal Maurenbrecher. Non è assurdo
supporre che anche dopo la morte di Nicomede, nel disordine politico
che seguì all’annessione, si sia continuato a coniar le
vecchie monete; tanto più se, come dice il Maurenbrecher,
queste monete portano l’effigie non del re morto, ma di suo padre
Nicomede II (S. H. R. pag. 228).
Ho ammesso che Mitridate, nella prima invasione, accompagnava il
corpo che entrò in Asia e non quello che invase la Bitinia,
basandomi specialmente su Plut. Sert. 24: testo che certamente si
riferisce a questa prima invasione, e che non può essere
messo in dubbio perchè troppo pieno di particolari. Del resto
non è strano che Mitridate, il quale desiderava molto che
l’Asia si rivoltasse, volesse con la sua presenza accanto a Marco
Mario dimostrare che l’insurrezione non significava distacco da
Roma: e quindi indurre alla rivoluzione i ceti meno audaci e
più favorevoli a Roma. Da questa congettura è derivata
l’altra, assai meno sicura, che i due generali, Tassilo ed
Ermocrate, nominati da Appiano, Mith. 70, fossero mandati in
Bitinia. Ma Eutr. 6, 6, e App. Mith. 71, dicono che Cotta fu vinto a
Calcedonia da Mitridate. Ciò mi ha indotto a supporre che,
quando Mitridate seppe che Cotta andava con una flotta a Calcedonia,
abbandonasse l’esercito d’Asia, e si recasse in persona a prendere
il comando di quello di Bitinia per condurlo all’assedio di
Calcedonia. La presenza di una flotta romana a Calcedonia poteva
nuocer molto a tutto l’esercito pontico: premeva perciò a
Mitridate di vincere Cotta, tanto più che il moto
rivoluzionario faceva in Asia pochi progressi; e perciò
andò in persona a comandare le operazioni contro Cotta. Egli
ripeteva così lo stesso errore dei Romani, dividendo le sue
forze per due scopi; ma l’imprudenza di Cotta gli fece risultare
l’errore in un vantaggio. Egli ebbe tempo di sconfiggere Cotta e di
tornare, probabilmente conducendo seco una parte delle milizie che
assediavano Calcedonia, contro Lucullo, che frattanto, riordinato
l’esercito e preparata ogni cosa, si avanzava.
Si potrebbe obiettare che se Mitridate invase l’Asia quando Cotta e
Lucullo erano ancora in Italia, egli per almeno tre mesi non ebbe a
combattere in Asia che forze minime. Perchè non ne
approfittò per impadronirsi di maggior parte della provincia
di Asia? Perchè si mantenne sempre nel nord? Dovette esser
cagione di ciò il contegno delle città asiatiche. Solo
poche e tra le minori si dichiararono per l’invasore; le altre,
atterrite dai ricordi della rivoluzione precedente così
miseramente fallita e così duramente espiata, vigilate dai
residenti Romani e dalle classi ricche che questa volta non si
lasciarono sorprendere così spensieratamente (si ricordino
sempre i reclutamenti di Cesare) non si mossero. Sarebbe stato
imprudente, per la difficoltà degli approvvigionamenti,
avventurarsi nel cuore di un paese nemico e sciupare in assedi
quelle forze che Mitridate voleva conservare integre per l’urto con
l’esercito romano, che presto gli sarebbe venuto contro.
C.
Crasso, Pompeo e Cesare, dal 70 al 60 a. C.
(a pag. 337 del I
volume).
I rapporti tra Crasso e Pompeo, nel decennio che passa tra il loro
consolato e il consolato di Cesare, sono di gran momento per
spiegare gli eventi di quel tempo; ma i racconti degli storici
antichi sono così confusi e manchevoli, che credo necessario
aggiungere questa nota, per spiegare in seguito a quali congetture
mi sia indotto a narrarli così come li ho narrati.
Ammesso, come ho già detto nel testo, aggiungendo le ragioni
(vol. I, pag. 262), che Pompeo e Crasso lasciarono il consolato
nemici, ho congetturato che cagione prima dell’odio fossero gli
intrighi di Crasso, che riuscì a mandare a vuoto le ambizioni
concepite da Pompeo fin d’allora sulla successione di Lucullo.
Supporre che Pompeo avesse già allora questa ambizione
è così naturale e così necessario a spiegare
quanto segue, che anche il Mommsen R. G. 3, 106, lo ha supposto;
solo spiegando l’abbandono dell’idea, con il fatto che nel 70 la
guerra mitridatica pareva finita. Ora mi pare più verisimile
che Pompeo rinunciasse all’idea perchè costrettovi da Crasso.
Infatti era facile anche nel 70 argomentare che dalla guerra
mitridatica sarebbe nata quella armena. Inoltre l’odio tra i due
rivali, rinato dopo la conciliazione del gennaio 70 e quindi per
fatti connessi con il consolato, deve avere avuto, se fu così
feroce e lungo, se mise a tanto rischio le sorti del partito
popolare, motivi seri, non piccoli urti e puntigli personali. Ora
quale motivo più serio e più probabile che una contesa
di ambizione per ottenere comandi proconsolari straordinari? Infine
con la congettura da me proposta, si spiega quella notizia di
Velleio, 2. 31, che Pompeo console giurò se in nullam
provinciam ex eo magistratu iturum: dichiarazioni pubbliche e
solenni che dovettero esser fatte per qualche motivo. Non è
verisimile supporre che Crasso, aiutato dai conservatori, mettesse
in giro calunnie sulle ambizioni di Pompeo, spandesse la voce, per
esempio, che egli volesse andare in Oriente per diventar poi signore
di tutto l’impero come Silla (di questa ambizione egli fu sospettato
sino al suo ritorno dall’Oriente); e che Pompeo, fastidito da queste
calunnie, irritato dalle difficoltà che incontrava, abbia
fatto quella sprezzante dichiarazione? Io non so immaginare
altrimenti l’occasione e il motivo di quella dichiarazione. Inoltre
non mi par possibile che Pompeo restasse a Roma dopo il consolato,
se non per forza; e il contegno sdegnoso e riserbato che tenne,
l’odio che mostrò contro Crasso fanno verisimile che colui
che costrinse allora Pompeo a restar uomo privato, fosse Crasso.
Questa ipotesi è confermata dal contegno successivo di
Crasso. Durante gli anni 69 e 68, quando Pompeo copertamente intriga
contro Lucullo e apparentemente si rassegna all’ozio della vita
privata, Crasso attende pacificamente agli affari astenendosi dalla
politica: non si muove neanche dopochè nel 67 Pompeo è
mandato a combattere i corsari. Ma dopochè nel 66 Pompeo ha
ottenuto la successione di Lucullo, Crasso riapparisce di nuovo
all’improvviso, e con una ambizione così inquieta e
temeraria, che difficilmente si riconoscerebbe il prudente banchiere
degli anni precedenti. Tutto ad un tratto egli vuole indurre il
Senato a dichiarare, senz’altro, la conquista dell’Egitto, paese
amico e alleato da tanto tempo, con grande scandalo dei conservatori
(Plut. Cras. 13). È vero che Svet. Caes. 11, dice che Cesare
ambiva questo comando; ma io credo che qui ha ragione Plutarco,
perchè Cesare, che allora era appena stato eletto Edile, che
aveva tanti debiti o così poca autorità, non poteva
proporsi sì grande ambizione. Siccome sappiamo che Cesare in
quegli anni fu ai servigi di Crasso e il suo più alacre
luogotenente, è probabile che Svetonio abbia scambiato la
propaganda fatta da Cesare a favore di Crasso, per un’ambizione
personale. Dunque a un tratto Crasso diventa ambizioso di
straordinari trofei militari; non solo, ma egli così ricco,
così prudente, così incline per temperamento e per
interesse alle idee conservatrici e ad ogni modo così
riservato e prudente sino ad allora, si avventa nella lotta tra
popolari e conservatori, diventa un demagogo, evidentemente per
ottenere il comando della guerra di Egitto; propone di concedere il
diritto di cittadinanza ai Transpadani; ha parte – non importa quale
– nella congiura del 65; spende per far riuscire Catilina console
nel 63.
Questo mutamento, se non lo si vuol spiegare come una alienazione
mentale, dovette avere anche una cagione esterna. Ora mi par
verisimile che la cagione fosse questa: che l’invio di Pompeo in
Oriente era un grave smacco personale di Crasso. Egli probabilmente
si vantava di aver tolta a Pompeo la successione di Lucullo; e
questo successo aveva accresciuto smisuratamente la reputazione di
Crasso. Aveva vinto perfino Pompeo! Ma ecco Pompeo prendersi la
rivincita! La rivalità antica si risveglia; Crasso vuole
compensi, un incarico straordinario che di nuovo lo rimetta al di
sopra di Pompeo. Viceversa se Pompeo nel 70 avesse rinunciato
spontaneamente, invece che costretto da Crasso, alla provincia,
tutto ciò apparirebbe quasi inesplicabile.
Quale fu la parte di Crasso nella congiura del 66? Tutte le ipotesi
sono possibili, perchè mancano documenti diretti e documenti
di controllo. Sebbene Dione 36, 42 e Sallustio C. C. 18 non nominino
Crasso tra gli autori della congiura; sebbene Svetonio Caes. 9 e
Ascon. in toga candida scrivano, a proposito delle partecipazioni di
Crasso, che si trattava di una dubbia diceria; io credo che Crasso e
Cesare ne furono consapevoli. Non si può spiegare altrimenti,
come bene ha notato lo John, il contegno così remissivo del
Senato. Se il Senato e i consoli si fossero trovati di fronte solo
Autronio, Silla e Pisone, li avrebbero distrutti, tanto più
che il processo intentato contro Silla, tre anni dopo, mostra come
la volontà di vendicarsi non mancava ai minacciati: invece li
risparmiarono, anzi li premiarono, senza nessun dubbio perchè
dietro loro stava qualche uomo molto più potente; e
quest’uomo così potente non può essere che quello
stesso il quale in quei tempi si mostra agitato da tante ambizioni,
e che comparisce, anche nel racconto di Sallustio, come l’autore
degli onori decretati a Pisone, in premio della sua congiura. Ma
quale fu la ragione per cui Crasso si adoperò a far dare
questa missione a Pisone? Questa questione si connette con l’altra;
per quale ragione Crasso partecipò alla congiura? Dico
partecipò, perchè mi par verisimile, al contrario di
quanto suppone lo John, che Crasso non la ordisse egli; ma piuttosto
incoraggiasse i promotori, che dovettero essere i due consoli. La
diceria raccolta da Svetonio, che Crasso volesse farsi eleggere
dittatore con Cesare magister equitum non mi pare risponda al vero.
A che avrebbe giovato, sia al suo odio contro Pompeo come agli scopi
di una ambizione più generica, esser dittatore nel 65, quando
Crasso non aveva esercito? Silla aveva potuto dominare l’Italia per
anni, ma non in virtù del nome di dittatore conferitogli;
bensì per mezzo all’esercito devoto a lui, che egli aveva
ricondotto dall’Asia. Anche ammesso che Crasso, per difendersi
contro possibili assalti di Pompeo al suo ritorno, o addirittura per
distrugger Pompeo, ambisse allora un potere dittatoriale come quello
di Silla, bisognava si procurasse un esercito; e questo non poteva
farlo che in una guerra. Mi pare perciò più verisimile
che egli volesse, aiutando Silla e Antonio a riconquistare il
consolato, avere i due consoli favorevoli, ciò che gli
avrebbe servito ad ottenere più facilmente il comando in
Egitto; a quel modo stesso che nel 64 spese molto per far riuscire
consoli Antonio e Catilina. Fallito il tentativo egli tenta nel 65
di far concedere la cittadinanza ai Transpadani, poi l’agitazione
popolare per mezzo di Cesare, i cui giuochi da edile furono certo
pagati da lui: falliti questi due tentativi l’ostinato ritorna
all’idea di far eleggere due amici a consoli; e si mette d’accordo
con Catilina ed Antonio. L’insuccesso di questo tentativo, poi la
bufera della congiura disperdono i propositi; e Crasso rinuncia
definitivamente ai suoi disegni ambiziosi. Io credo insomma con il
Mommson R. G. 3, 172 seg. che la conquista dell’Egitto e l’incarico
di compierla, ambito da Crasso, furono lo scopo supremo di tutte
queste agitazioni, con le quali Crasso mirava a prendersi la
rivincita della rivincita di Pompeo; e quindi lo scopo anche della
partecipazione di Crasso a questa prima congiura. Perciò
l’invio di Pisone in Spagna non potè essere determinato da
propositi rivoluzionari perchè poco avrebbe servito per il
fine di conquistar l’Egitto il governo della Spagna: ma fu nel tempo
stesso un dispetto fatto a Pompeo di cui Pisone era nimico; e una
orgogliosa soddisfazione personale di Crasso, una ostentazione di
potere che egli volle fare in faccia a Roma e un maneggio per
troncare definitivamente le dicerie sulle sue partecipazioni alla
congiura. Resta invece inesplicabile il rôle di Sizio. Invano
ho cercata una supposizione che lo spiegasse in modo soddisfacente.
Resta a giustificare il mio racconto dei rapporti tra Crasso e
Cesare, durante la lontananza di Pompeo. Il Mommsen, seguito dal
John, suppone che Cesare e Crasso si fossero uniti per procurarsi,
con la conquista dell’Egitto e con l’invio di Pisone in Spagna, un
esercito, da contrapporre a quello di Pompeo. Ma a questa teoria si
può opporre una obiezione che a me sembra insuperabile: e
cioè che Cesare, a differenza di Crasso, non aveva ragioni di
timore o di odio con Pompeo, con il quale era in amichevoli
rapporti. Cesare aveva contribuito a far approvare, al principio del
66, la legge Manilia: per qual ragione, alla fine del 66, quando
Pompeo non aveva ancora vinto definitivamente Mitridate, egli
avrebbe cercato di difendersi contro gli effetti della legge che
dieci mesi prima aveva fatto approvare? Il suo contegno sarebbe di
una incoerenza assurda. Inoltre i progressi della potenza di Pompeo,
indebolendo la consorteria conservatrice, accrescendo fiducia al
partito popolare, giovavano a Cesare, il quale allora, eletto appena
edile, non poteva nemmeno sognare di rivaleggiare con Pompeo per il
primato nella città. Da parte sua Pompeo non aveva ragioni di
diffidare di Cesare, molto meno potente, povero, a cui egli
probabilmente aveva prestato quattrini e che già gli aveva
resi molti servigi e altri avrebbe potuto rendergli. Tuttavia se,
aiutando Crasso, Cesare rischiò di corrucciarsi con Pompeo,
di cui gli conveniva invece restare quanto più potesse amico,
dovette ciò fare per qualche serio motivo: ed io non so
vederne altro che il denaro. Cesare, carico di debiti, versava
allora in strettezze: lo prova l’offerta di Catulo nella elezione a
pontefice e il sequestro dei bagagli, alla partenza per la Spagna;
lo induce a supporre la crisi da cui era travagliata l’Italia, la
grande scarsezza di denaro che è la cagione di tutti i
torbidi politici di quella età, e che rendeva più
difficile la rinnovazione dei crediti. Eppure Cesare doveva
continuare a spendere con l’usata profusione e per di più
fare le grandi spese dell’edilità. D’altra parte ci è
noto che Crasso diede denaro a Cesare. La conclusione tratta da
questi fatti mi par verisimile; e mi par confermata da un’altra
considerazione: che Cesare evidentemente cercò che il suo
zelo per le ambizioni di Crasso non significasse nimicizia di
Pompeo, del quale si studiò di restare amico, riuscendovi.
Nel 63 infatti, Cesare sostiene la proposta presentata da uno dei
suoi più devoti seguaci, Labieno, con cui, essendo finita la
guerra Mitridatica, si attribuivano a Pompeo straordinari onori; nel
62 propone in persona altri onori, si unisce per far la guerra ai
conservatori con Q. Metello Nepote, partigiano di Pompeo e autore
della proposta di richiamar Pompeo in Italia. Anche se l’insuccesso
degli intrighi di Crasso stimolò questo rinnovato zelo
amichevole per Pompeo, come avrebbe potuto Cesare far queste
proposte e unirsi con Metello, se nei due anni precedenti si fosse
schierato apertamente con i nemici di Pompeo? Come avrebbe potuto
due anni dopo interporsi come paciere tra Crasso o Pompeo e comporne
la lunga discordia, se non fosse stato amico dell’uno o dell’altro?
È evidente che Cesare affermò di essere amico di
Crasso e di Pompeo; che, come aveva aiutato Pompeo ad avere il
comando in Asia, così voleva aiutar Crasso, che era pure un
cittadino insigne, ad avere il comando in Egitto. Che Crasso
desiderasse questo comando anche per gelosia di Pompeo era cosa che,
pur recandogli dolore, non lo riguardava. Pompeo non poteva non
riconoscere la giustizia e la lealtà di questa condotta. Ma
ciò riconferma che motivi personali indussero Cesare ad
aiutar Crasso: l’amicizia, avrà detto pubblicamente;
l’amicizia e il denaro, in verità.
Qualche devoto del culto degli eroi considererà quasi come
una bestemmia supporre un motivo così meschino e così
personale a un seguito di atti, che ebbero una influenza immensa
nella vita di Cesare e che quindi sono eventi primari della storia
universale. Non sarà tanto scandalizzato chi conosce le cose
del mondo; chi sa come molto spesso gli atti più importanti
della vita sono compiuti appunto perchè se ne ignorano le
conseguenze ultime; chi sa come quando dei politicians indebitati
assediano la fortezza del potere per prenderla, vendono ogni cosa,
per avere il denaro necessario a condurre sino alla fine l’assedio.
INDICE DEGLI AUTORI CITATI.
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Babelon, M. R. R. – Description historique et chronologique des
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Busolt, in N. I. P. P. – Vedi N. I. P. P.
Bynam (citato in qualche luogo così per errore: si legga:
Bynum), L. M. 1. B. oppure B. – Das Leben des M. Iunius Brutus bis
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Bynum, B. – Vedi Bynam
Caetani-Lovatelli contessa Ersilia. – I giardini di Lucullo. – Nuova
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Zumpt, C. E. – Commentationes Epigraphicæ. – Vol. I, Berolini,
1850.
– S. R. – Studia romana. – Berolini, 1859.
INDICE.
I.
La guerra contro gli Elvezi e contro gli Svevi.
(Pag. 1 a 32)910.
Le trattative con gli Elvezi. – L’emigrazione degli Elvezi. – Le
prime mosse di Cesare. – Il combattimento della Saona. – Dummorige.
– Il primo errore di Cesare. – La battaglia di Ivry. – L’esito della
battaglia di Ivry. – La pace con gli Elvezi. – Cicerone in esilio a
Tessalonica. – La tirannia di Clodio. – La guerra contro Ariovisto.
– Il panico di Besançon. – La prima vittoria di Cesare. – La
legge di Gabinio contro i capitalisti.
II.
L’annessione della Gallia.
(Pag. 33 a 55).
La spedizione contro i Belgi. – La ritirata dei Belgi. – La
sottomissione dei Belgi. – Disfacimento del partito democratico. –
L’annessione della Gallia. – L’ “uomo fatale”. – Cesare. – Tolomeo e
i banchieri di Roma. – La questione egiziana. – Il convegno di
Lucca.
III.
La democrazia imperialista.
(Pag. 56 a 71).
I neo-pitagorici. – Il teatro di Pompeo. – Il lusso di Roma. – La
navicella di Catullo. – Crediti o debiti in Italia. – Cesare, il
gran corruttore. – La democrazia imperialista. – Caio Gracco e
Giulio Cesare.
IV.
Il secondo consolato di Crasso e Pompeo.
(Pag. 72 a 95).
La prima rivolta gallica. – Cicerone e Cesare. – Cicerone e Varrone.
– La Gallia è dichiarata provincia romana. – La guerra contro
i Veneti. – La condizione della Gallia. – Politica di Cesare in
Gallia. – Crasso e Pompeo, consoli per la seconda volta. – La
spedizione di Gabinio in Egitto. – Gli Usipeti e i Tencteri. – Il
teatro di Pompeo. – La lotta dei conservatori contro la guerra di
Persia.
V.
La prima delusione della democrazia imperialista:
la conquista
della Britannia.
(Pag. 96 a 117).
Le spese di Cesare. – Gli schiavi di Cesare. – La maldicenza dei
salotti conservatori. – Cicerone e il “De Republica”. – Gli ultimi
anni di Catullo. – Le elezioni e le corruzioni per l’anno 53. – La
spedizione di Cesare in Britannia. – La morte di Giulia. – La guerra
contro il re Cassivellauno. – Gabinio e Rabirio in Italia. – La
prima grave rivolta gallica.
VI.
La grande catastrofe
della democrazia imperialista:
la invasione
della Persia.
(Pag. 118 a 153).
La società gallica. – La decadenza militare della Gallia. –
Malcontento della Gallia contro il dominio romano. – Le prime
rivolte del 53. – Il piano di guerra di Crasso. – La mossa dei Parti
sulla Siria. – L’avanzata di Crasso nella Mesopotamia. –
L’inseguimento dei Parti. – La battaglia di Carre. – La ritirata su
Carre. – L’abbandono di Carre. – La morte di Crasso. – I consoli
dell’anno 53. – Lo sterminio degli Eburoni. – La anarchia a Roma. –
La morte e i funerali di Clodio.
VII.
La suprema crisi della democrazia imperialista:
la rivolta
della Gallia.
(Pag. 154 a 199).
Commio e Labieno. – Decadenza del partito democratico. – La
discordia tra Cesare e Pompeo. – La nuova rivolta della Gallia. – La
nuova candidatura di Cesare al consolato. – Il passaggio delle
Cevenne. – Cesare raggiunge le legioni. – Il piano strategico di
Cesare. – Vercingetorice. L’assedio di Avarico. – La presa di
Avarico e le sue conseguenze. – L’errore di Cesare. – Gergovia. –
L’insurrezione quasi generale della Gallia. – Critica condizione di
Cesare. – La grande e la piccola guerra. – La ritirata di Cesare. –
La prima battaglia campale. – Vercingetorice si ritira ad Alesia. –
L’assedio di Alesia. – La fame. – La capitolazione di
Vercingetorice. – Perchè Cesare vinse.
VIII.
I disordini e i progressi dell’Italia.
(Pag. 200 a 220).
Le leggi di Pompeo. – Il terrore nel consolato di Pompeo. – I
progressi delle vigne e degli uliveti. – La grande e la media
possidenza. – I progressi industriali delle città minori
d’Italia. – Le nuove correnti intellettuali. – I giovani. –
Conservatori e rivoluzionari intellettuali. – I debiti.
IX.
I “Ricordi di Gallia”.
(Pag. 221 a 247).
Reazione della opinione pubblica contro Cesare. – I “Ricordi di
Gallia”. – Le rivolte galliche del 51. – Cicerone, proconsole in
Cilicia. – Crudeltà di Cesare in Gallia. – Marco Claudio
Marcello. – La questione della cittadinanza ai comaschi. – Il
viaggio di Cicerone. – Le prime scaramuccie politiche contro Cesare.
– La pubblicazione del “De Republica”. – La seduta del Senato del 30
settembre 51. – Cicerone in Cilicia e i Parti. – Cicerone
“imperatore”!
X.
Le brighe di un governatore romano.
(Pag. 248 a 281).
Impopolarità crescente di Cesare. – Lo spirito conservatore
in Cesare. – Cesare e le alte classi. – Curione. – I maneggi di
Curione per Cesare. – L’opinione pubblica vuole la pace. – Curione
incomincia l’opposizione a Pompeo. – Pompeo e l’opposizione di
Curione. – Cicerone nella sua provincia, – La Cilicia. – Le
sofferenze e il disordine di una provincia romana. – Le brighe di un
governatore onesto. – L’amministrazione di Cicerone. – Cicerone e il
commercio delle malleverie. – L’imbroglio di Valerio e di Volusio. –
Importanza storica del proconsolato di Cicerone. – Il matrimonio
della figlia di Cicerone.
XI.
“Initium tumultus”.
(Pag. 282 a 317).
Le elezioni per l’anno 49. – Cesare nella Gallia Cisalpina. – Il
ritorno di Cicerone in Italia. – La censura di Appio. – Le speranze
di Cesare nella pace. – La tornata del Senato del primo dicembre 50.
– Le tre votazioni discordi del Senato. – La conversione di Pompeo
ai conservatori. – Gli intrighi dei primi dieci giorni del dicembre
50. – Il colpo di Stato di Marcello e di Pompeo. – Cesare e Pompeo.
– Supremi tentativi di Cesare per la pace. – Gli ultimi giorni di
dicembre. – La fortuna di Pompeo e le disgrazie di Cesare. – Cesare
e la guerra civile. – La seduta del Senato del primo gennaio 49. –
Ultimi tentativi e ultime speranze di pace. – Il partito della
guerra vince definitivamente.
XII.
“Bellum civile”.
(Pag. 318 a 352).
Cesare e il suo esercito. – Le supreme esitazioni di Cesare. – “Alea
est iacta”. – Il panico a Roma. – Lo sbigottimento di Pompeo. – Lo
sgombro di Roma. – La partenza dei consoli e di Cicerone. – Nuove
trattative di pace. – Cesare si impadronisce di tutto il Piceno. –
Fiacchezza del partito conservatore. – Cesare in cammino per
Corfinio. – Pompeo e gli ondeggiamenti di Domizio Enobarbo. –
L’assedio di Corfinio. – La ritirata di Pompeo e l’inseguimento di
Cesare. – La partenza di Pompeo per la Grecia.
XIII.
La guerra di Spagna.
(Pag. 353 a 383).
L’Italia e la guerra civile. – Cesare, dopo la fuga di Pompeo. –
Cesare in viaggio per Roma. – Il colloquio tra Cesare e Cicerone. –
Cesare in Roma. – La violenza di Cesare contro il tribuno Metello. –
L’esercito di Pompeo in Spagna. – Marsiglia. – L’ultima politica di
Cesare nella Gallia. – Antonio. – L’assedio di Marsiglia e la guerra
di Spagna. – Critica condizione di Cesare sotto Ilerda. – La
partenza di Cicerone dall’Italia. – Decimo Bruto salva Cesare. –
Cesare nominato dittatore.
XIV.
Farsaglia.
(Pag. 384 a 416).
La miseria dell’Italia. – La morte di Curione in Africa, – Cesare
dopo le vittorie di Spagna. – Il ritorno di Cesare a Roma. – La
prima dittatura di Cesare. – Cesare e la questione dei debiti. –
Cesare parte da Brindisi. – Cesare e Pompeo sull’Apso. – Nuove
trattative di pace. – Il campo di Pompeo. – L’arrivo dei rinforzi di
Cesare. – La temerità di Cesare e la prudenza di Pompeo. – La
battaglia di Durazzo perduta da Cesare. – Critica condizione di
Cesare. – Farsaglia.
XV.
Cleopatra.
(Pag. 417 a 447).
Dopo Farsaglia. – La fuga di Pompeo in Egitto. – La morte di Pompeo.
– L’opera di Pompeo. – Gli onori decretati a Cesare. – Cesare ad
Alessandria. – Cleopatra. – Le tristezze di Cicerone dopo Farsaglia.
– Il partito di Cesare. – Le discordie del partito di Cesare. – La
rivoluzione sociale di Dolabella. – Cesare prende Alessandria. – Il
ritorno di Cesare in Italia. – Nuova politica popolare di Cesare. –
La guerra d’Africa.
XVI.
I trionfi di Cesare.
(Pag. 448 a 471).
Il “Brutus” di Cicerone. – Nuovi onori a Cesare, dopo Tapso. – I
crucci privati di Cicerone. – La morte di Catone. – Le ricompense ai
veterani della guerra civile. – I trionfi di Cesare. – Le riforme di
Cesare. – Atti diversi di Cesare. – Caio Ottavio. – La decadenza
intellettuale di Cesare. – Cleopatra a Roma.
XVII.
Le illusioni e le disillusioni di una dittatura.
(Pag. 472 a
505).
Le ultime ambizioni di Cesare. – Cesare e le idee di Caio Gracco. –
La monarchia popolare di Cesare. – Gli otto “Praefecti urbi”. – Il
malcontento delle alte classi. – Gli scritti di Cicerone. – Bruto. –
Nuovi onori decretati a Cesare dopo Munda. – Cesare e Bruto. –
Grandiosi e chimerici disegni di Cesare. – Leggi e riforme di
Cesare. – La conversione di Antonio. – Lo supreme onoranze di
Cesare. – Le illusioni di una dittatura. – Le colonie di Cesare. –
La colonia di Butroto e gli intrighi di Attico. – La festa dei
Lupercali.
XVIII.
Le idi di marzo.
(Pag. 506 a 528).
L’autore della congiura. – Cassio e Bruto. – I motivi della
congiura. – Le idee politiche di Cesare. – Cesare, il gran demagogo.
– Una congiura di ottanta cospiratori.– Il piano della congiura. –
Le esitazioni di Bruto. – Le idi di marzo. – La morte di Cesare. –
Il principio della crisi suprema.
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Appendici critiche.
A. – Sul commercio dei cereali nel mondo antico.
B. – Sulla cronologia delle guerre di Lucullo.
C. – Crasso, Pompeo e Cesare, dal 70 al 60 a. C.
Indice degli autori citati
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