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Guglielmo Ferrero



Grandezza e decadenza di Roma




Vol. II

Giulio Cesare



Indice generale

I.
LA GUERRA CONTRO GLI ELVEZI
E CONTRO GLI SVEVI.
(Anno 58 a. C.)    

II.
L’ANNESSIONE DELLA GALLIA.
(Anno 57).  

III.
LA DEMOCRAZIA IMPERIALISTA.    

IV.
IL SECONDO CONSOLATO DI CRASSO E POMPEO.
(Anni 56-55 a. C.)  

V.
LA PRIMA DELUSIONE
DELLA DEMOCRAZIA IMPERIALISTA:
LA CONQUISTA DELLA BRITANNIA.
(Anno 54 a. C.)    

VI.
LA GRANDE CATASTROFE
DELLA DEMOCRAZIA IMPERIALISTA:
LA INVASIONE DELLA PERSIA.
(Anno 53 a. C.)    

VII.
LA SUPREMA CRISI
DELLA DEMOCRAZIA IMPERIALISTA:
LA RIVOLTA DELLA GALLIA.    

VIII.
I DISORDINI E I PROGRESSI DELL’ITALIA.    

IX.
I “RICORDI DI GALLIA”.
(Anno 51 a. C.)    

X.
LE BRIGHE DI UN GOVERNATORE ROMANO.
(Anni 51-50 a. C.)    

XI.
“INITIUM TUMULTUS”.
(Anno 50 a. C.)    

XII.
“BELLUM CIVILE”
(Gennaio-Febbraio 49).    

XIII.
LA GUERRA DI SPAGNA.
(Anno 49 a. C).    

XIV.
FARSAGLIA.
(48 a. C.)    

XV.
CLEOPATRA.
(Anno 48-47 a. C.)    

XVI.
I TRIONFI DI CESARE.
(Anno 46 a. C.)  

XVII.
LE ILLUSIONI E LE DELUSIONI DI UNA DITTATURA.
(Anno 45-44 a. C.)  

XVIII.
LE IDI DI MARZO.
(Gennaio-marzo 44).    

APPENDICI CRITICHE.    

A.
Sul commercio dei cereali nel mondo antico.
(a pag. 63 del I volume).    

B.
Sulla cronologia delle guerre di Lucullo.
(a pag. 223 del I volume).    

C.
Crasso, Pompeo e Cesare, dal 70 al 60 a. C.
(a pag. 337 del I volume).    

INDICE DEGLI AUTORI CITATI.    

INDICE.    



MILANO

Fratelli Treves, Editori

1904



a mio padre
 Ing. VINCENZO FERRERO 
che mi ha insegnato con l’esempio
la tenacia instancabile del lavoro 
e il coraggio della libera critica.

 

GIULIO CESARE



I.
LA GUERRA CONTRO GLI ELVEZI
E CONTRO GLI SVEVI.
(Anno 58 a. C.)

Cesare si avventurava in Gallia senza nessun disegno ben definito, con scarsa conoscenza del paese e delle sue genti1, con non poca trepidazione. Il caso gli aveva dato il governo delle due Gallie così all’improvviso e all’impensata, nel febbraio dell’anno precedente; egli era stato, tutto quell’anno, siffattamente preso dalle turbolente contese e dagli arruffati intrighi politici, che non aveva potuto informarsi a fondo sulla Gallia, sia leggendo i libri dei viaggiatori, sia consultando i banchieri, i mercanti, gli uomini politici che dalla Gallia narbonese erano in relazione coi Galli liberi. Egli sapeva solo di andare tra genti bellicose, che avevano una volta incendiato Roma, che avevano disputato a Roma con lunghe guerre la valle del Po, che avevano contribuito all’invasione dei Cimbri e dei Teutoni, respinta da suo zio. Nervoso e apprensivo, incline a raffigurarsi come maggiori del vero le difficoltà non ancora provate, nuovamente disposto alla prudenza dopo le audacie del consolato, egli viaggiava veloce da Roma verso Ginevra e i nuovi cimenti, meno tranquillo dentro che non apparisse di fuori, sapendo che, dopo la improvvisa e radicale rivoluzione democratica da lui fatta a Roma, l’anno innanzi, egli sarebbe caduto presto vittima dell’odio implacabile del partito conservatore, se non avesse compiute in Gallia considerevoli e prospere imprese. Perciò egli andava in provincia risoluto ad applicare alla Gallia il metodo di Lucullo: prendere e sfruttare a fondo ogni occasione e ogni pretesto di guerra, per acquistare gloria, per arricchire, per ingrandire, come Lucullo e come Pompeo, l’impero da questo opposto lato del mondo; ma senza sapere ancora chiaramente in qual misura l’impresa fosse possibile e quanti mezzi richiederebbe; senza esser sicuro di avere le qualità militari necessarie; risoluto a procedere sul principio, per tutte queste ragioni, con cautela.

Giunto a Ginevra, Cesare, tra il 5 e l’8 aprile2, ricevè una ambascieria di Elvezi, la quale gli disse che una parte del popolo voleva emigrare3; fare, come direbbero nell’Africa Australe, un grande treck, tutti insieme, uomini donne e fanciulli; e gli domandava perciò il permesso di traversare pacificamente la provincia, per recarsi nella Saintonge. Cesare aveva il diritto, anzi il dovere di rifiutar loro il passaggio, perchè era poco probabile che la promessa di traversar il paese senza far guasto sarebbe stata mantenuta da una così grande moltitudine; ma volendo anche irritare gli Elvezi a una guerra, chiese qualche giorno per riflettere, sino al 13 aprile, dando a divedere che avrebbe acconsentito4; e invece, appena gli ambasciatori furono partiti, con la legione che aveva sotto mano e un certo numero di reclute, prese a fortificare i punti del Rodano di facile passaggio tra il lago di Ginevra ed il Giura5. Gli Elvezi si avvidero subito di esser stati ingannati, e spinti dall’ira fecero qualche tentativo di passare il Rodano a forza; ma poi, sbollito il primo furore, capirono esser stolto impegnarsi in una guerra con i Romani; e si lasciarono persuadere dai capi a cercare in un altro luogo, nel nord della Gallia, purtroppo non sappiamo dove, le nuove sedi, abbandonando l’idea di andare nel territorio dei Santoni, confinante con la provincia. I Romani – era evidente ormai, dopo l’atto di Cesare – non li avrebbero lasciati stabilirsi, aiutando invece i Santoni a scacciarli6. Gli Elvezi aprirono allora trattative con i Sequani per ottenere il passaggio attraverso le montagne del Pas de l’Ecluse, a condizione di non far guasto; con l’intenzione di volgersi poi verso la Saona, e passare, per favore o per forza, attraverso il paese degli Edui, andando a nord: e conchiuso l’accordo, la emigrazione, una gran torma di circa 150 000 persone tra uomini, donne, fanciulli7, si mosse, con tre mesi di viveri e le poche masserizie di valore caricate sui carri. Gli uomini atti alle armi dovevano essere circa 30 000 e li comandava un vecchio capo: Divicone.

Gli Elvezi andandosene a cercar fortuna lontano dalla provincia, nel nord delle Gallie, ogni ragione e pretesto di guerra veniva meno a Cesare. Ma Cesare, che aveva bisogno di far una guerra, non si confuse per questo; e lasciato Labieno a difendere il confine del Rodano, prontamente tornò nella Gallia Cisalpina; mentre aspettava le tre legioni già richiamate dai quartieri d’inverno di Aquileia, diè alacremente opera a reclutare due altre legioni; poi, appena ebbe pronte le sue cinque legioni, valicò il Monginevra, scese a Grenoble, marciò rapidamente a nord, intendendo sorprendere gli Elvezi al passaggio della Saona e disfarli. Nei pressi del luogo dove poi sorse Lione fu raggiunto da Labieno che gli portò la legione lasciata a Ginevra; passò con lui il Rodano; e con tutte le sei legioni e gli ausiliari, circa cioè 25 000 uomini8, si incamminò lungo la riva orientale della Saona9, raccattando per via qualche giustificazione legale della guerra che stava per fare agli Elvezi. La emigrazione degli Elvezi aveva spaventata mezza Gallia; si diceva che gli Elvezi fossero intesi con parecchi uomini potenti di diverse nazioni galliche, cospiranti per divenire ciascuno monarca del proprio popolo; gli Allobrogi d’oltre Rodano, si erano rifugiati nel campo di Cesare; soccorso gli domandarono ufficialmente gli Edui, a favore dei quali il Senato aveva deliberato nel 61 che il governatore della Gallia li proteggerebbe contro ogni nemico: quindi anche contro gli Elvezi, che ne violavano il confine. Cesare domandò loro in cambio dell’aiuto 4000 cavalieri e frumento. Ma tante operazioni, trattative e marcie richiesero tempo; onde sebbene gli Elvezi impiegassero 20 giorni a passar la Saona, a quanto pare a Maçon; sebbene, quando l’esercito romano fu vicino a Maçon tre legioni fossero spedite avanti a marcie forzate, Cesare potè sorprendere e annientare solo un’ultima e piccola retroguardia restata sulla riva sinistra10. Egli dovette perciò far traversare all’esercito, con la massima sollecitudine, la Saona; e mettersi alle calcagna degli Elvezi, che si erano diretti a nord-ovest attraverso le regioni montuose dello Charollais11.

Cesare avrebbe potuto raggiungerli, e assalirli subito, perchè gli Elvezi camminavano molto lentamente; ma non osò. Ora che doveva alla fine impegnare la prima sua grossa battaglia contro un nemico così reputato, avendo alle spalle, a Roma, l’invido partito conservatore, l’apprensivo generale romano esitava, non trovava mai l’istante opportuno di risolversi, abbandonava per un motivo o per un altro tutti i disegni di azione più lungamente pensati, al momento di porli ad esecuzione; cosicchè, gli Elvezi non volendo impegnar battaglia per non sciupare le proprie forze, necessarie a compier bene l’emigrazione, l’esercito Romano invece di scacciare innanzi il nemico, fu ben presto tratto quasi passivamente a rimorchio, attraverso la Gallia, dagli Elvezi, che avevano ormai piegato a nord verso la Costa d’Oro. Questa condizione divenne in breve fastidiosa per i due eserciti: per gli Elvezi, costretti a tener sempre tesa la vigile aspettativa di un assalto; per i Romani, che si stancavano in lente e monotone marcie, di cui nessuno conosceva lo scopo e prevedeva la fine. Un momento trattative di pace furono avviate tra Cesare e Divicone; ma Cesare domandò ostaggi e Divicone respinse sdegnosamente questa proposta. Così per quindici giorni i due eserciti si seguirono, a poca distanza, molestandosi con piccole scaramuccie di cavalleria, quasi tutte favorevoli agli Elvezi12. Intanto, seguendo gli Elvezi, Cesare aveva dovuto allontanarsi dalla Saona, per la quale si era approvvigionato fino allora; cosicchè le provviste caricate sui giumenti a Maçon cominciavano a esaurirsi; le vettovaglie promesse dagli Edui non arrivavano, i notabili Edui erano sempre più impacciati nello spiegare i ritardi. Risoluto a chiarire il mistero, Cesare fece una inchiesta rigorosa, e venne allora a sapere che se il partito aristocratico, il cui capo era Diviziaco, quel Druida andato due anni prima a Roma, parteggiava tra gli Edui per i Romani e ne aveva richiesto il soccorso, il partito democratico era avverso all’intervento di Cesare, e aveva a capo un fratello di Diviziaco, Dummorige, uomo potentissimo e popolarissimo per ricchezze, il quale con i molti clienti e il favore della plebe comprata ambiva conquistare nello Stato una autorità quasi monarchica, e intanto impediva con diversi maneggi che il grano arrivasse nel campo romano. Cosa ancor più grave: non solo Dummorige, come Diviziaco, seguiva l’esercito, ma comandava la cavalleria fornita dagli Edui, e ne manteneva gran parte a sue spese. Cesare non osò procedere contro il traditore temendo di inimicarsi troppa parte degli Edui, quando già l’esercito suo si inquietava per la diceria che il grano mancherebbe presto; ma capì che seguitando a quel modo gli Elvezi, trascinato più che persecutore, scoraggiva i soldati e imbaldanziva i traditori; che gli bisognava risolversi. Per un caso avventurato, la sera di quel giorno stesso, gli esploratori vennero a riferirgli che gli Elvezi si erano accampati a circa 10 chilometri di distanza, sotto un monte, trascurando di occuparne la vetta, alla quale si poteva salire nascostamente per una via diversa da quella battuta dagli Elvezi. Cesare deliberò questa volta di tentar la fortuna; e alla sera mandò Labieno con due legioni a occupare il monte: egli un poco più tardi si sarebbe mosso con il rimanente esercito per la via percorsa dagli Elvezi, in modo da giungere all’alba in vicinanza del loro campo; allora assalirebbe il campo, Labieno piomberebbe dal monte, ambedue prenderebbero in mezzo i nemici al risveglio. E così fece, mandando innanzi un drappello di esploratori, con a capo un vecchio e provetto soldato, Publio Considio: ma il nervoso imperator doveva essere molto inquieto quella notte, mentre si avviava a tentare il primo suo stratagemma, in condizioni così critiche, con i viveri quasi esauriti, con i traditori tollerati per necessità nel campo, con le legioni disanimate dalla faticosa passività di questo singolare inseguimento a rovescio. Infatti quando, all’alba, già quasi in vista del campo degli Elvezi, Considio arrivò di galoppo e riferì che il monte era occupato non da Labieno ma dagli Elvezi, Cesare, spaventato e agitatissimo, ritornò subito e precipitosamente sui suoi passi, sinchè trovata una collina acconcia vi dispose le legioni in ordine di battaglia, aspettando un assalto. Solo qualche tempo dopo, quando già il sole era alto, Cesare, vedendo tutto quieto intorno, mandò esploratori; e ben presto seppe che Considio si era ingannato, che Labieno aveva felicemente occupato il monte e aspettato invano di lassù l’arrivo e l’assalto di Cesare, sinchè gli Elvezi se ne erano tranquillamente andati. La nervosa precipitazione con cui Cesare aveva creduto al rapporto di Considio, senza mandare altri a verificare, e la paura di un assalto repentino degli Elvezi avevano fatto fallire una sorpresa così ben preparata13.

La delusione tanto più irritava e snervava, perchè l’esercito ormai non aveva viveri che per due giorni. Ma così camminando i due eserciti eran giunti all’altezza di Bribracte (Mont Beauvray presso Autun) la ricca capitale degli Edui, che si trovava a circa 28 chilometri ad Occidente. Cesare, stretto dalla necessità, deliberò allora di abbandonare le orme degli Elvezi e ripiegare su Bibracte, per rifornirsi; e già stava per prendere le disposizioni necessarie, quando il cimento, la cui imminenza gli era da quindici giorni cagione di tanta ansietà, sopravvenne a un tratto inaspettato. Gli Elvezi, voltatisi all’improvviso, piombavano sull’esercito romano nei luoghi dove ora sorge il villaggio di Ivry14. Divicone probabilmente, che da un pezzo vedeva gli Elvezi inquieti per la continua vicinanza del nemico, quando ebbe saputo che solo per un caso gli Elvezi avevano scampata, la notte prima, una sorpresa micidiale, non volle più avere i Romani così alle calcagna, e, per ributtarli più indietro o fermarli, aveva deliberato saviamente di dar loro battaglia15. Cesare ebbe appena tempo, mandando la cavalleria a trattenere un poco il nemico, di far salire sopra una collina, a sinistra della strada, e disporre a mezza costa su tre file le quattro legioni anziane e più in alto, a guardia dei bagagli, le due legioni novelle e gli ausiliari, con l’ordine di preparare l’accampamento: quando la ondata delle falangi elvetiche sopraggiunse piena, precipitosa, violenta, investendo le legioni di fronte. Divicone pare fosse uno di quegli abilissimi e astutissimi tattici che, nei popoli semplici viventi in mezzo a piccole guerre continue (come oggi i Boeri) si formano senza studi teorici per il lungo esercizio di facoltà naturali; e come aveva risolutamente assalito, così seppe abilmente ingannare l’elegante, erudito, ma novizio generale romano, che sino allora aveva studiato la tattica soltanto sui manuali greci. Cesare, che doveva essere in quella prima grossa battaglia molto agitato e nervoso, credè serio l’attacco di fronte; e quando l’ondata elvetica incominciò a rifluire, ordinò ai suoi di incalzare, scendendo la collina, il nemico che si ritirava verso un colle opposto. Ma l’attacco di fronte e la ritirata erano finte, per trarre i Romani giù dalla collina16: chè appena questi furono scesi dalla collina, Divicone lanciò loro sul fianco destro una colonna di 15 000 Boi e Tulingi, nascosti, a quanto pare, in una ripiegatura della via, mentre le falangi che parevano ritirarsi si rivoltavano e ritornavano all’assalto. I Romani furono assaliti di fronte, premuti a fianco, minacciati a tergo, con tanta rapidità che Cesare non potè mandar ordine alle legioni poste sulla vetta di volare al soccorso. Che cosa successe allora, nella mischia terribile che si impegnò? È difficile capirlo, dal confuso e contradditorio racconto di Cesare17. Ma considerando che uno scrittore di solito così meravigliosamente lucido e preciso non ha potuto essere confuso per negligenza, nel racconto del suo primo grande fatto d’armi, è lecito supporre che Cesare abbia voluto dissimularci l’esito poco felice della battaglia. È probabile che le due legioni novelle, spaventate, guardassero dall’alto la mischia violentissima, ma non osassero correre al soccorso senza ordini; che Cesare riuscisse a portare i soldati fuori della stretta, in qualche posizione forte e sostenesse l’urto, ma perdendo molti soldati; sinchè gli Elvezi, pensando di avere percosso il nemico abbastanza, si ritirarono. Infatti, sebbene Cesare non ricevesse una disfatta intera, dovè lasciare il nemico nella notte levar il campo, continuar la sua via verso Langres, senza abbandonare nelle sue mani prigionieri e senza molestie; mentre egli, costretto dal gran numero dei morti e dei feriti, dalla stanchezza e forse dalla impressione che la terribile mischia aveva fatto sui soldati dei quali molti non eran stati mai a simigliante cimento, dovè indugiare tre giorni sul campo di battaglia, sul quale forse egli stesso eresse quegli ossari che furono ritrovati verso la metà del secolo XIX18. Gli Elvezi erano quindi riusciti pienamente nel loro disegno. Ma Cesare non poteva soggiacere a questo insuccesso; e si disponeva perciò a rincorrere di nuovo il nemico, per prendere la rivincita, a qualsiasi costo: quando gli Elvezi, stanchi della lunga e randagia avventura, persuasi esser difficile trovare una nuova sede, impensieriti dalla loro stessa vittoria che poteva tirar su loro l’odio della potentissima Roma, mandarono a trattar pace con Cesare, dichiarandosi disposti a tornar nelle antiche sedi. Cesare, lietissimo di questa offerta che lo dispensava dal continuare una guerra pericolosissima, dandogli modo di far credere in Italia che egli aveva costretto gli Elvezi al ritorno, largheggiò nelle condizioni: non solo fece dar loro, dagli Allobrogi, larghe provviste di grano con cui ricoltivare le terre e vivere fino all’anno prossimo; ma indusse perfino gli Edui a concedere terre nel loro territorio ai Boi, che non volevano più ritornare in nessun modo. Gli Elvezi e Cesare si accordarono così a scapito dei Galli19; e Cesare, sicuro che Divicone non lo avrebbe smentito, potè raffazzonare un rapporto al Senato, in cui raccontava a modo suo, come una vittoria, l’esito incerto di questa guerra20. Solo un piccolo manipolo di arrabbiati si ostinò nel proposito di continuare l’emigrazione, e si avviò verso il Reno; ma fu facilmente distrutto per via, dai differenti popoli nei cui territori passava latrocinando.

Insomma Cesare si era tratto alla meglio fuori dal pericolo in cui si era avventurato un po’ alla cieca per inesperienza. Se gli Elvezi avessero avuto minor timore non di lui ma di Roma, se avessero voluto combattere a fondo, e assalito di nuovo il giorno dopo lo stanco e disanimato esercito romano, essi avrebbero forse potuto salvare la Gallia per sempre dal dominio romano. Per ventiquattro ore Divicone aveva avuto in suo potere i destini dell’Europa; ma, contento di aver trattenuto un poco Cesare, l’ignaro barbaro aveva continuata la sua via. In ogni modo, Cesare non aveva potuto cominciare il suo governo con quello splendido successo che forse sperava e coll’annunzio del quale avrebbe in quel momento ricambiato volentieri le notizie che gli giungevano da Roma. Queste notizie erano molto cattive. In quei pochi mesi, il governo democratico da lui fondato l’anno innanzi si era già mutato nella tirannide di una combriccola di malviventi, che non solo i conservatori, ma tutte le persone per bene, anche se di sentimenti popolari, dovevano detestare, e la cui infamia riverberava in parte su lui. Cicerone era andato in esilio, come Cesare aveva voluto: e si struggeva allora a Tessalonica nella prima crisi di dolore a cui subito, dopo la sventura, soggiaciono i temperamenti troppo sensitivi; dimagriva21; aveva perduta la perseveranza del lavoro, il gusto delle cose che gli erano di solito più care, dei libri, dei viaggi, delle amicizie; si stancava subito di ogni cosa; non voleva veder più gli amici e i parenti; non aveva testa se non per crearsi e per distruggersi da un giorno all’altro speranze di ritorno; si immaginava che tutti gli fossero diventati nemici; tempestava gli amici di lettere, perchè si adoperassero a farlo ritornare, ma senza indicar loro nessun mezzo efficace; a volta a volta sperava, poi smaniava per la disperazione, poi tornava a tranquillarsi e a sperare22. Per fortuna, il suo peggior nemico ravvivava negli Italiani il desiderio di lui e l’avversione a coloro che lo avevano esiliato, meglio che non egli stesso con le sue lettere querimoniose. Alla testa delle sue bande, Clodio, appena partito Cesare, aveva preso a malmenare Roma come un tiranno; e trasportato dalla violenza frenetica del temperamento, esaltato dalla inviolabilità tribunizia, non solo si era messo a vender privilegi e concessioni ai sovrani dell’Oriente e alle città dell’Impero, non solo calpestava tutte le leggi, ma si era perfino rivoltato contro la triarchia, facendo fuggire per denaro il figlio di Tigrane, che Pompeo aveva posto a vivere nella casa di Lucio Flavio. Pompeo aveva protestato; Clodio per risposta aveva minacciato di bruciargli la casa e di ammazzarlo, cosicchè Gabinio era stato costretto ad arruolare bande di bravi per difendere Pompeo; ma le bande di Clodio facevano per Roma tante zuffe, prepotenze e disordini che Pompeo aveva dovuto alla fine quasi fortificarsi in casa e non uscir più23. Crasso, indifferente ed egoista, si era tenuto fuori da questa disputa; ma l’indignazione per lo scandalo scoteva alla fine la vigliaccheria di tanti, che avevano abbandonato Cicerone ai suoi nemici; disponeva, quasi per emenda, lo spirito pubblico a una nuova e più intensa benevolenza verso il grande oratore, il fiero nemico della demagogia catilinaria, scacciato ingiustamente dai cittadini cattivi perchè aveva salvato la repubblica. Incoraggiati dal mutamento dello spirito pubblico, Varrone e altri amici di Cicerone si studiavano di indurre Pompeo a proporne il richiamo; mentre i conservatori tentavano di indurre Pompeo, impressionato da questo scandalo, a divorziare da Giulia e ad abbandonare la parte di Cesare24. Anzi il richiamo di Cicerone era stato l’argomento principale delle elezioni per l’anno 57 il cui risultato era un altro segno del tempo: perchè i due consoli, quasi tutti i tribuni della plebe, tutti i pretori, fuori che Appio Claudio, fratello di Clodio, erano favorevoli a Cicerone25.

Cesare incominciò a dubitare che la opinione pubblica dell’Italia sarebbe presa, più presto che non credesse, da un capriccio di avversione contro di lui; e fu nuovamente stimolato a compiere qualche impresa, che facesse una grande impressione sulla immaginazione del popolo italiano: sola medicina che egli potesse adoperare dalla Gallia contro i malumori e i capricci di quella fantastica sovrana. Siccome gli Elvezi erano tornati quasi tutti nella loro patria, egli poteva raccontare da lungi agli Italiani di averli vinti; ma il pubblico avrebbe facilmente osservato che la vittoria non aveva fruttato nè schiavi nè oro nè terra. Era necessario far qualche impresa più grande: ma quale? Molte deputazioni di popoli gallici venivano a complimentarlo allora, dopo la pace e lo sgombro degli Elvezi, e anche questa premura poteva essere descritta agli Italiani come un omaggio reso alla potenza romana per la sua vittoria; ma invece era effetto soltanto della inquieta diffidenza dei popoli gallici o dei loro partiti che, gelosi della indipendenza nazionale, ma discordi tra loro e ognuno troppo debole da opporsi a Cesare, temevano e nello stesso tempo speravano di poter giovarsi ciascuno dell’aiuto di questo generale romano, entrato nel loro paese con proteste di amicizia e con intenzioni poco chiare. La guerra con gli Elvezi, così poco felice per Cesare, pareva invece, per una strana contraddizione, avergli conciliata la Gallia intera; tutti i popoli e tutti i partiti, anche Dummorige, aspettavano gli avvenimenti e temendo meno Cesare, dopo quell’insuccesso, si mostravano ben disposti verso lui; Cesare, non avendo ancora disegni ben definiti ed inclinando a prudenza, era ridotto a non osar nulla. Per fortuna, in parte per corteggiare Cesare, in parte per odio sincero, alcune di queste deputazioni lo pregarono di protegger la Gallia contro Ariovisto, il re degli Svevi, che chiamato in Gallia dai Sequani e dagli Arverni in guerra con gli Edui, aveva usurpati vasti territori, e quasi pretendeva all’alto dominio su tutta la Gallia. L’idea di ricacciare i Germani oltre il Reno piacque a Cesare, perchè compiendo questa impresa egli avrebbe potuto intanto far qualche cosa, atteggiarsi a liberatore della Gallia, acquistar maggior diritto a intervenir nelle faccende dei Galli e farsi ammirare a Roma come il degno nipote del vincitore dei Cimbri e dei Teutoni. C’era però una difficoltà; e cioè che, egli stesso l’anno prima avendo fatto dichiarare Ariovisto alleato e amico del popolo romano, ogni pretesto decente di guerra mancava. Cesare tuttavia non si confuse per questo; mandò a dire ad Ariovisto che venisse a lui perchè doveva parlargli26, e quando lo ebbe irritato con questo insolente invito, a cui l’altero barbaro naturalmente rispose che Cesare venisse da lui se di parlargli aveva bisogno, gli richiese varie concessioni a favore degli Edui e dei Sequani. Ariovisto rifiutò e Cesare allora dichiarò di essere autorizzato a far la guerra ad Ariovisto dal decreto del Senato in favore degli Edui. Ammaestrato dalla guerra precedente, egli non volle questa volta correre il pericolo di restar senza viveri per via; e occupata Besançon, la città maggiore e più ricca dei Sequani, non si mosse sinchè non ebbe disposto un sicuro servizio di vettovagliamento a cui gli Edui e i Sequani dovevano provvedere. Pensò anche a sostituire al mal fido Dummorige un comandante della cavalleria più sicuro: Publio Crasso, il giovane, ardito e intelligente figlio di Marco. Ma quando tutto era pronto, ecco nascere un nuovo impedimento, e pericolosissimo: i soldati, già impressionati dalla sanguinosa battaglia contro gli Elvezi, dal pericolo che avevano corso di morir di fame, nella spedizione precedente, erano stati addirittura sgomenti dalle dicerie che correvano sui Germani e sulla Germania, tra i cittadini e i mercanti di Besançon; e presi da panico non volevano muoversi. Era possibile, dicevano, assalire in così pochi un nemico così terribile? Come si sarebbe nutrito l’esercito nelle solitudini selvaggie di quell’immenso paese senza vie? No: questa guerra, contro un re che il Senato aveva dichiarato amico ed alleato, era illegale, e gli Dei non avrebbero permesso che riescisse felicemente27. Cesare dovè convocare ufficiali e soldati, confutare i loro ragionamenti, sgridarli, stimolare il loro amor proprio, dichiarando che, se gli altri non si sentivano coraggio, egli sarebbe partito solo con la decima Legione. Quella almeno non aveva paura! Il giorno dopo l’esercito ripartiva, un po’ rinfrancato, verso la valle del Reno; giungeva dopo una marcia di sette giorni nella valle della Thur, e di lì a poco in vista dell’esercito di Ariovisto. Cesare, fatto più ardito dopo le prove della guerra Elvetica, offrì subito battaglia. Ma Ariovisto, che aspettava un rinforzo di Svevi dalla Germania, rifiutò per diversi giorni, dicendo ai soldati, per indurli a tollerar con pazienza la clausura nel campo, che le indovine proibivano di combattere prima della luna novella28; e frattanto molestava le comunicazioni di Cesare con gli Edui e con i Sequani, e manteneva i soldati alacri, ilari, animosi con scaramuccie di cavalleria, con rapide sorprese, con sortite improvvise, senza impegnarsi mai a fondo. Una di queste sorprese pare riuscisse sin troppo felicemente e per poco non terminasse, forse per qualche errore di Cesare, con la presa di uno dei due campi in cui Cesare aveva dovuto divider l’esercito, per provveder meglio agli approvvigionamenti29; dopo il quale scontro, il giorno seguente, sia che Ariovisto avesse presa troppa confidenza nelle sue forze, sia che non riuscisse più a trattenere i soldati, ormai troppo baldanzosi e troppo fastiditi dalla lunga attesa, quando Cesare schierò in campo aperto i suoi, Ariovisto accettò la battaglia. L’ala destra romana ruppe il nemico, ma la sinistra non sostenne l’urto e già incominciava a piegare, senza che Cesare, il quale era sulla destra, se ne accorgesse: per fortuna, Publio Crasso, che stava in disparte con la cavalleria, osservando la battaglia, capì il pericolo e ordinò alla terza linea di riserva di correre al soccorso. L’esperienza della guerra elvetica aveva giovato a tutti. Così la battaglia fu vinta dai Romani, gli Svevi fuggirono, lasciando molta preda e molti prigionieri in potere dei Romani; e la dominazione di Ariovisto in Gallia fu rovesciata. Cesare pensando di poter imporre alla Gallia, in compenso di tanto servigio, il mantenimento delle legioni, le mandò a svernare sotto il comando di Labieno nel territorio dei Sequani, forse affermando che ivi sarebbero state più pronte l’anno prossimo, se Ariovisto tentasse una rivincita. Quindi tornò nella Gallia Cisalpina, sperando che questa seconda e verace vittoria avrebbe restaurato il suo credito, sciupato dalle scandalose tirannie di Codio.

Ma le cose volgevano di male in peggio in Italia. Nella Gallia Cisalpina, Cesare aveva trovato un tribuno designato, Publio Sesto, mandato da Pompeo a persuaderlo definitivamente di favorire il richiamo di Cicerone30. L’opinione pubblica dimandava ormai così imperiosamente questa riparazione del torto fatto al grande oratore, che bisognava ne prendessero essi l’iniziativa, per non lasciare tutto il merito al partito conservatore. Cesare per necessità aveva acconsentito31; ma non per questo Cicerone potè esser subito riammesso in Italia. Il violento Clodio, quando seppe che Cesare aveva ceduto, si rivoltò anche contro Cesare, e, tra lo stupore universale, propose un bel giorno che si abolissero le leggi Giulie32; Crasso, che detestava Cicerone, non faceva nulla; Pompeo, che a quella età matura consumava gran parte del tempo a corteggiare la vezzosa Giulia e a sollazzarsi con lei, aveva sì preferito, per amor di lei, anzichè abbandonar Cesare, prender egli l’iniziativa del richiamo33, ma agiva a intervalli, con stanchezza, senza la energia necessaria; tutti gli altri rimandavano ogni deliberazione a quando Clodio non sarebbe più tribuno; e Clodio soverchiava tutti. Tanto poco erano atte a combattere la demagogia le classi alte dell’Italia, pur così ricche, colte e potenti, ma fatte discordi, egoiste, pavide e scettiche dalla cupidigia, dall’orgoglio, dalla passione del lusso, dalla sete dei godimenti molteplici e a cui mancava quel gran molo contro le burrasche della demagogia che ripara alla meglio, nella civiltà moderna, le classi alte, indebolite dagli stessi difetti: una salda burocrazia civile e militare! Solo il console Gabinio dava prova di una certa alacrità, ma non per difendere Cicerone, bensì per sfogare l’odio suo e di una parte del partito democratico contro i capitalisti, facendo approvare una legge che vietava ai capitalisti italiani di far prestiti fuori d’Italia, per costringere il capitale a rimanere nella penisola, e scemarne l’interesse a favore dei debitori34. In mezzo a questo universale snervamento e disgusto, le vittorie di Cesare su Ariovisto fecero così poca impressione, che non si decretò nessuna festa o cerimonia religiosa per celebrarle. Dopo le rapide, fruttuose, immense conquiste di Pompeo e di Lucullo in Oriente, l’Italia era diventata esigente; e non si commuoveva per ammirazione facilmente a ogni lettera di vittoria. Infine che cosa aveva fatto Cesare se non vincere uno dei tanti capi barbari con cui Roma era continuamente in guerra, su tutte le frontiere dell’impero? Aveva forse conquistata qualche vasta regione? o qualche città celebre? o qualche preda doviziosa? Finalmente il 9 dicembre Clodio scadde da tribuno e tutti i buoni cittadini trassero un sospiro di sollievo35: giustizia sarebbe resa alla fine a Cicerone, il quale frattanto un po’ tranquillato era venuto a Durazzo. Infatti, nella tornata del primo gennaio del 57, si tenne subito discorso in Senato del richiamo di Cicerone36. Ma tutti avevan fatto troppo piccolo conto dell’ostinazione di Clodio. Clodio incominciò subito una strategia implacabile di intrighi e di violenze; e quando, il giorno 25 gennaio del 57, la legge sul richiamo di Cicerone fu portata alla discussione nei comizi, ne impedì la approvazione, alla testa delle sue bande; e la battaglia fu così micidiale, che bisognò, dopo, lavare con le spugne il foro, lordo di sangue in ogni parte37.

II.
L’ANNESSIONE DELLA GALLIA.38
(Anno 57).

Non potendo, dalla provincia, contribuire efficacemente a comporre in qualche modo tanto disordine; prevedendo che questi scandali avrebbero presto rovinato anche lui, accusato dai conservatori come il maggior colpevole, per le riforme radicali compiute durante il consolato, Cesare dovè, nell’inverno dal 58 al 57 riprendere in considerazione il disegno di tentare qualche conquista clamorosa, pari per grandezza a quelle di Lucullo e di Pompeo, che facesse dimenticare all’Italia tanti disordini e scandali. Cesare aveva già saputo dai rapporti di Labieno che la permanenza delle legioni romane nel territorio di un popolo libero come i Sequani, era cagione di molto malumore e di gravi inquietudini a tutta la Gallia. Che cosa significava quel fatto? Cesare era entrato in Gallia atteggiandosi a benefattore e liberatore, non aveva sin allora mostrato alcuna chiara ambizione di signoria sui popoli gallici, aveva domandato, non imposto i contingenti e le vettovaglie per le guerre combattute a vantaggio della Gallia. Lasciando un inverno il suo esercito in Gallia intendeva forse provare la docilità della nazione e incominciare una politica di dissimulate e graduali usurpazioni di autorità, in mezzo alle comunità sino allora libere e rivali? Il fermento era specialmente vivo – secondo scriveva Labieno – tra i Belgi, tra i popoli cioè misti di Celti e Germani che abitavano tra il Reno, la Schelda, l’Oceano e la Senna. Queste notizie indussero Cesare a tentare una spedizione contro i Belgi, la quale, essendo questi quasi tutti più barbari e più bellicosi dei popoli della Gallia centrale e meridionale, non sarebbe probabilmente spiaciuta alle nazioni più ricche e civili, come gli Edui e i Sequani; e poteva esser cagione di una conquista gloriosa e lucrosa. Presa questa deliberazione egli preparò alacremente nell’inverno l’impresa: mandò agenti in Africa, a Creta, nelle Baleari ad assoldare saettatori e frombolieri, aumentò il proprio esercito, reclutando nella Gallia Cisalpina due nuove legioni, le mandò in Gallia sotto il comando di Quinto Pedio, e tenne lor dietro poco dopo, raggiungendo l’esercito nella Franca Contea; donde raccolte le vettovaglie andò in quindici giorni, con una rapida marcia, sino al territorio nemico. Con questa improvvisa apparizione ai confini, egli potè indurre i Remi a sottomettersi e a dargli informazioni, probabilmente esagerate ad arte o per paura, sulle popolazioni belgiche, le quali unendo, come allora facevano per opporsi a Cesare, le loro forze, avrebbero potuto mettere in campo circa 350 000 combattenti. A queste notizie, vere o false che fossero, la prudenza istintiva di Cesare si risvegliò a tempo. Evidentemente egli stava per affrontare un cimento pericolosissimo; onde, abbandonata la strategia delle sorprese e trattenuta la fretta di prima, si fece dar ostaggi dai Remi, persuase gli Edui a fare una invasione nel territorio dei Bellovaci, il più forte dei popoli Belgi, per richiamarli indietro a salvare la roba loro, e si avviò con otto legioni verso l’Aisne. Ivi giunto stabilì sull’altra riva un vasto campo fortificato appoggiandolo al fiume; munì il vicino ponte ponendoci a guardia sei coorti al comando di Quinto Titurio Sabino; e aspettò il nemico che si avvicinava. Ben presto l’esercito nemico apparve; ma Cesare, la cui prudenza non si stancava dal vigilare, volle prima di dar battaglia confrontare il valore del nemico e dei suoi in piccole scaramuccie; poi, quando si risolvè a tentare la battaglia, avendo gran paura, dopo l’inganno di Divicone, degli attacchi di fianco, preparò prima con grandi lavori il campo di battaglia, facendo scavare due grandi fosse lunghe 400 piedi e fortificandole, per schierare in mezzo ad esse l’esercito e impedire gli avvolgimenti. Fatica inutile però: i nemici che accampavano al di là di una piccola palude si schieravano essi pure in ordine di battaglia, tutti i giorni, come i Romani, ma aspettavano di essere a loro volta assaliti. Alla fine i Belgi, stanchi di aspettar la battaglia, tentarono di guadare il fiume un poco più in basso, sotto l’accampamento, per tagliare alle spalle le comunicazioni di Cesare; ma Titurio se ne accorse dal ponte, avvisò Cesare, il quale in gran fretta prese la cavalleria, i frombolieri e gli arcieri, lasciando nel campo le legioni; passò il ponte di corsa, arrivò mentre il nemico cominciava a guadare e con una grandine di sassi e saette lo costrinse a tornare indietro. Il nemico pareva respinto. Cesare però tutto il giorno fece vigilare inquieto le sponde del fiume, temendo qualche sorpresa; sinchè alla sera si venne a dirgli che l’esercito nemico si ritirava. Questa ritirata, dopo una scaramuccia, parve così strana a Cesare, che sospettò un’insidia e per tutta la notte contenne l’esercito nell’accampamento; ma, quando alla mattina dopo, egli ricevè la conferma della notizia, lanciò sulle peste del nemico tre legioni al comando di Labieno, e la cavalleria al comando di Quinto Pedio e di Lucio Arunculeio Cotta. Ben presto egli seppe la cagione di quella ritirata improvvisa, che terminava, con una breve scaramuccia di avamposti, una guerra che egli aveva creduta terribile. I Bellovaci, avendo saputo da qualche giorno della invasione degli Edui nel loro territorio, volevano tornare a difendere i loro villaggi, e per trattenerli si era tentato quell’assalto alle comunicazioni dei Romani; fallito il quale e i viveri incominciando a scarseggiare a un così grosso esercito, i Bellovaci si erano mossi traendosi dietro tutti gli altri popoli, e ciascuno ormai tornava alle proprie sedi. Così, in pochi giorni, questo esercito numeroso si era disfatto.

Cesare allora, rifatto audace, capì che, cogliendo con prestezza quel momento di stanchezza e di scoraggiamento, avrebbe potuto sottomettere facilmente uno dopo l’altro i singoli popoli; e subito, senza indugiare, entrò nel territorio dei Suessioni, li trovò che appena erano ritornati dalla spedizione; li sorprese, li indusse facilmente ad arrendersi; ripetè la sorpresa felicemente sugli Ambiani; fatto ancor più sollecito e audace entrò nel territorio dei Nervii. Erano costoro i più bellicosi dei Belgi, e così barbari, che respingevano dal loro paese selvoso, paludoso e semideserto, i mercanti stranieri, i Greci e gli Italiani che cercavano di vender loro il vino, la perfida bevanda che snerva le anime e indebolisce i corpi. I Nervii, unitisi agli Atrebati e ai Viromandi, sorpresero nelle foreste l’esercito romano, mentre, credendosi in una solitudine sicura, si disponeva a costruire il campo per la notte; e impegnarono una battaglia violentissima nella quale perfino Cesare dovette combattere come un soldato semplice, e i Romani poterono respingere il nemico solo per la pratica della guerra che i soldati avevano già acquistata nei due anni precedenti. Arresisi anche i Nervii, non restavano in armi che gli Aduatuci, i quali, saputa della disfatta dei Nervii, incendiarono i villaggi e si ridussero in un solo castello, in una forte posizione che alcuni vogliono fosse dove ora è Namur. Cesare ve li assediò e dopo qualche tempo ricevè l’offerta della resa, che egli accettò, ponendo come al solito, per condizione, la consegna delle armi. Per tutto un giorno gli assediati portarono armi fuori del castello; ma sopraggiunta la notte tentarono con armi tenute nascoste un nuovo assalto; respinto il quale e ripresa la città, furono tutti – erano 53 000, secondo Cesare – venduti schiavi ai negozianti che seguivano l’esercito39.

Con questa rapida vittoria sopra tanti popoli barbari, che avevano così grande reputazione di valore, Cesare stupiva tutta la Gallia, che l’aveva visto l’anno innanzi così poco fortunato contro gli Elvezi; e compiva la sua prima considerevole impresa di guerra, riuscendo a far riconoscere da un gran numero di uomini la signoria di Roma. Forse anche conquistava una preda cospicua; perchè non solo egli aveva venduto un gran numero di prigionieri, ma nella devastazione del territorio dovette trovare una certa quantità di metalli preziosi, che i Belgi, come tutti i popoli barbari, anche i più poveri, accumulavano cupidamente. Ma avrebbero queste vittorie commossa oltre i Galli anche l’Italia, restata così fredda l’anno innanzi? Purtroppo le notizie venute da Roma durante la guerra facevano temere che il governo democratico precipitasse senza speranza verso una catastrofe. Cicerone era finalmente ritornato, accolto in tutta l’Italia da entusiastiche dimostrazioni; ma solo dopo che Pompeo ebbe trovato tra i tribuni della plebe del 57 un nobile di famiglia non molto illustre, di grande ambizione, di grandissimi debiti e di un’audacia violenta pari a quella di Clodio, Tito Annio Milone40, il quale, protetto dalla inviolabilità tribunizia e allettato dalla promessa del consolato, aveva raccolto una banda di gladiatori e di bravi41. Solo con l’aiuto di queste bande, tra tumulti, zuffe e sangue, si era potuto votare, il 4 agosto42, la legge che richiamava Cicerone e ordinava un risarcimento. Ma Clodio, furioso per il trionfo di Cicerone, non si era dato per vinto: aveva annunziata la sua candidatura alla edilità per l’anno prossimo; quando Cicerone aveva fatto approvare dal Senato che per cinque anni Pompeo avesse l’alta sorveglianza di tutti i porti e di tutti i mercati dell’Impero e potesse nominare fino a quindici legati per provvedere all’annona di Roma dove il grano scarseggiava sempre più43; aveva tentato di sollevare il popolo contro Pompeo, spargendo la voce che questi faceva la carestia per essere creato re di Roma; cercava di impedire per mezzo di tribuni amici che si ripagasse a Cicerone la casa distruttagli e aveva assaltato perfino gli operai che ne cominciavano la ricostruzione44. Non soddisfatto ancora di queste mezze vendette aveva, nelle elezioni per il 56, portato l’inatteso soccorso delle sue bande elettorali ai conservatori, facendo loro conquistare tutti i posti di pretore e i due consolati45. Pompeo temeva tanto che Clodio, il quale era segretamente aiutato dai conservatori, sarebbe eletto, che, d’accordo con Milone, differiva continuamente la elezione degli Edili46. Anche i capitalisti erano malcontenti contro il partito democratico e i suoi tre capi, per la politica di guerra al capitale che Gabinio e Pisone continuavano nelle provincie: Pisone, concedendo facilmente, per denaro, riduzioni di interesse alle città indebitate47; Gabinio, dando sempre torto ai capitalisti italiani e angariandoli in tutte le maniere, per persuader loro che l’Italia era luogo più acconcio all’impiego dei capitali che non la Siria48. Come se tanti guai non bastassero, Tolomeo Aulete era stato cacciato dal trono dell’Egitto da una rivoluzione popolare ed era venuto a Roma, a dire ai suoi creditori che se volevano esser pagati l’aiutassero a ritornare nel regno. Pompeo che, per compiere bene la missione annonaria, desiderava molto di avere amico il re del più fertile granaio del Mediterraneo, lo aveva ospitato in casa sua e cercava di aiutarlo; ma l’avversione all’impresa era grande, in Senato e nel pubblico49. Se il partito conservatore era debole e incoerente, la democrazia radicale costituita da Cesare rischiava, non ostante la sua maggiore energia, di esaurirsi in pochi anni; perchè tranne pochi capi di gran nome, si componeva di avventurieri, di farabutti, di violenti. Presto o tardi il partito conservatore, più ricco, più colto, forte di un maggior numero di persone rispettabili, sarebbe tornato in grazia del pubblico imparziale, avrebbe riconquistato il potere, abolite le leggi Giulie, presa vendetta dei triarchi e specialmente di Cesare.

Bisognava che Cesare in qualche modo, con qualche atto ardito, interrompesse dalla Gallia questa rapida dissoluzione. La condizione del suo partito era critica, il pericolo imminente, l’urgenza estrema.... In questo frangente apparve ancora una volta come il carattere di Cesare fosse una singolare alternativa di qualità opposte, di tenacità riflessiva e di slancio immaginoso, di eccitabilità e di equilibrio, di prudenza e di avventatezza, di cui ciascuna prevaleva a volta a volta, sotto gli stimoli esteriori, sulla qualità opposta, parzialmente e ad intervalli, ma senza sopraffarla interamente e per sempre. Nel primo anno della guerra e sino allora, egli era stato cauto e molto riflessivo per opposizione alla audacia del consolato e per la prima apprensione dei nuovi cimenti che affrontava; ma ora, dopo un anno e mezzo, il successo nella guerra dei Belgi, la fiducia ormai acquistata nelle proprie attitudini di capitano, la osservazione delle discordie tra i popoli gallici, lo sbalordimento di cui le sue rapide vittorie erano state loro cagione, il pericolo che minacciava a Roma la sua potenza, la smania di rivaleggiare con Lucullo e Pompeo, compiendo una conquista egualmente immensa, convertirono alla fine questa riserva prudente in un nuovo impeto subitaneo di audacia immaginosa. Quasi improvvisamente, sul finire della campagna belgica, Cesare si risolvè a sgominare il partito conservatore, definitivamente, con un atto arditissimo, inaspettato da tutti: proclamare e annunziare a Roma la annessione di tutta la Gallia sino al Reno! Stupefatta, l’Italia avrebbe udito che gli antichi e terribili nemici di Roma erano ormai sottomessi, dopo due anni

di grandi guerre; che l’opera incominciata dal primo Caio della democrazia romana, il conquistatore della Cisalpina, era stata compiuta un secolo e mezzo dopo da Caio Giulio Cesare; che l’Impero aveva acquistato un nuovo territorio, popoloso e fertile, immenso come le provincie che Lucullo e Pompeo avevano conquistate in Oriente. È vero che questa conquista in gran parte era ancora immaginaria. Tutta l’Aquitania e la Gallia meridionale ancora libera non avevano veduto nè un soldato nè un magistrato romano; anche nella Gallia centrale e occidentale molti popoli non si erano sottomessi, molti si erano sottomessi per forma; molti altri, e tra questi i più ricchi e potenti come i Sequani, gli Edui, i Lingoni, avevano accolto amichevolmente il generale romano, ma come un potente alleato, senza mostrarsi in nessun modo disposti ad accettare la signoria romana. Costretti a scrivere questa storia con i soli documenti lasciati dai conquistatori, noi non possiamo sapere come fu accolta la notizia dell’annessione da questi popoli; ma non è inverosimile supporre che essi, sebbene avessero sempre sospettato delle intenzioni di Cesare, dovettero esserne sopratutto stupefatti, tanto quest’atto così grave arrivava all’improvviso, senza preparazione sufficiente, nei fatti e negli spiriti. Ma nella impressionevole e volubile democrazia italiana, lo sforzo per il successo immediato, lo studio di confondere il pubblico con gli espedienti più veloci, poco importa se pieni di pericoli lontani, erano la condizione stessa della vita per i partiti e per le clientele; onde Cesare, impegnato come era in questa politica di impressioni fugaci e di violente ciarlatanerie, dovè servirsi della sua potente intelligenza a immaginare il più temerario di questi espedienti, la più grande di queste ciarlatanerie. Per colorire un poco la cosa, egli mandò Publio Crasso con una legione a percorrere rapidamente i paesi della Gallia occidentale tra la Senna e la Loira e a ricevere in fretta la sottomissione formale di diversi piccoli popoli, che, deboli e spaventati dalle vittorie belgiche, non osarono resistere; mandò Servio Sulpicio Galba con una legione nell’Alto Vallese, verso il Gran San Bernardo, a sottomettere le nazioni che facevano pagare pedaggi troppo cari, per persuadere i mercanti dell’Italia che egli non solo aveva loro aperto un nuovo immenso mercato, ma sgombrate le vie per andarci; e poi, lasciate le altre legioni a svernare nel paese dei Carnuti, degli Andi, dei Turoni, tornò nella Cisalpina dopo aver fatto gridare ai quattro venti la gran notizia: che il Senato poteva nominare i dieci commissari incaricati di ordinare a provincia romana l’immenso paese, le cui genti avevano fatto tremare Roma. Egli pensava certo che, sorpresa così all’improvviso, la Gallia sarebbe stata tranquilla almeno sino alla primavera prossima; e durante l’inverno, quando tutta l’Italia si beerebbe nell’idea che la Gallia era conquistata davvero e per sempre, egli avrebbe tempo a ricostituire la potenza sua e quella del partito democratico. Così la conquista romana della Gallia, non fu, nell’intenzione prima del suo autore, se non una manovra elettorale, per impressionare, in mezzo al tumulto di una confusa lotta di partiti e clientele, il Senato, gli uomini politici, gli elettori e la borghesia dell’Italia; la conseguenza fatale e involontaria di quella rivoluzione democratica, che Cesare era stato costretto a compiere durante il suo Consolato. Eppure proprio in quei giorni in cui egli non pensava che a confondere il partito conservatore di Roma, Cesare fu davvero l’“uomo fatale” della storia europea; lo strumento inconsapevole del destino per un’opera immensa. Senza saperlo egli aveva scatenata, con quella proclamazione, una guerra di indipendenza lunghissima e micidiale; senza volerlo, in questa guerra, egli avrebbe in parte distrutta, in parte rovinata l’aristocrazia gallica; sparita questa classe, che conservava le tradizioni celtiche, la civiltà greco-latina sarebbe stata facilmente adottata dalle classi nuove che ne presero il posto, e avrebbe trovata, aperta da lui, senza che egli lo volesse o lo sapesse, la via verso l’interno del continente europeo, preparando così una condizione essenziale della civiltà in cui viviamo50.

Ma Cesare voleva allora soltanto recuperare il credito perduto per colpa dei suoi seguaci, specialmente di Clodio. E il proposito gli riuscì pienamente51. La notizia della conquista della Gallia commosse, come egli aveva previsto, profondissimamente tutta l’Italia; il popolo, la classe media, i finanzieri, la gente istruita, tutta la borghesia che di solito si teneva fuori delle contese politiche, lusingata nell’orgoglio, fiduciosa che la conquista delle Gallie frutterebbe come le guerre d’Oriente, fu presa da uno di quei brevi ma violenti deliri d’ammirazione, che ormai ricorrevano periodicamente, per questo o quel personaggio. Una deputazione di senatori fu inviata dal popolo di Roma a Cesare nella Cisalpina, per congratularsi con lui52; molti di quegli uomini politici, che cercano sempre di star con il partito più potente e che nell’ultimo anno cominciavano a giudicar severamente lui e la sua politica, ridivennero ammiratori di Cesare, si affrettarono ad andarlo a trovare nella provincia53; il Senato, cedendo come sempre alla opinione pubblica, deliberò molte feste pubbliche e una supplicazione di 15 giorni, la più lunga di tutte le supplicazioni decretate sino allora54. L’enfasi, che teneva ormai luogo, nelle grandi questioni pubbliche, del ragionamento, del buon senso, della saviezza, intronò e inebriò, per tutto l’inverno dal 57 al 56, la credula Italia, dove ben pochi dubitavano che la Gallia fosse conquistata davvero; la esaltò a un breve delirio.... E Cesare ne approfittò con prestezza meravigliosa per i suoi fini. Nelle due guerre già combattute, Cesare aveva ricevuto molto beneficio dalla vita all’aria aperta, dall’esercizio corporale, dalla forzosa morigeratezza del campo; si era accorto con lieta meraviglia che la sua complessione delicata resisteva agli strapazzi della guerra molto meglio che egli non sperasse in principio; aveva sentito il continuo fastidio caliginoso della sua costituzione sempre infermiccia fugato da una onda gioiosa e luminosa di salute, scaturita dalla azione55. Sopratutto pare che la epilessia, aggravatasi al tempo del suo governo in Spagna, migliorasse in quegli anni56. Nel tempo stesso aveva sperimentata definitivamente un’altra qualità che è propria, anche fra gli uomini superiori, di solo un piccolo numero: quella facile, progressiva, intensa sovreccitazione dello spirito nel lavoro, per cui le forze del corpo e dello spirito, la lucidezza e la rapidità del pensiero, la facilità e la fertilità della immaginazione aumentano a mano a mano che l’opera già compiuta ingrandisce; quella fretta divina nel concepire e nel fare, che si infervora a mano a mano che l’uomo alacre si inebria della voluttà di profondere la propria energia in una piena più larga di pensiero e di opere, e si esalta nell’orgoglio della mirabile fatica propria. Così allora, egli era venuto nella Gallia Cisalpina non a riposo ma a nuove e maggiori fatiche: percorreva la provincia per render giustizia e tenere le radunanze dei notabili, viaggiando di giorno e di notte per far più presto; ascoltava commissioni, inquisiva sui lamenti, giudicava processi, accettava inviti a pranzo e a feste dai notabili; riceveva i rapporti dei suoi generali dalla Gallia; provvedeva ai bisogni dell’esercito distribuendo ai cupidi appaltatori e mercanti italiani che lo seguivano ordinazioni di armi, di cavalli, di vestiti; preparava i piani delle campagne future e reclutava soldati; riceveva da Roma una voluminosa corrispondenza e dettava un gran numero di risposte; leggeva le novità letterarie e la cronaca degli avvenimenti pubblici e privati di Roma, che si faceva mandare minuziosissima; riceveva e spediva ogni giorno corrieri a Roma; accoglieva innumerevoli raccomandati e postulanti, convitava splendidamente gli amici che venivano da Roma a trovarlo57. L’esaltazione che nasce in ogni uomo dalla consapevolezza della propria forza, la gloria acquistata con la vittoria sui Belgi, il successo della annessione della Gallia, anche la gioia fisica della recuperata salute lo incitavano a una maggiore alacrità, a una audacia più sicura....

In mezzo a tante faccende, Cesare prese anche a ricostituire il governo democratico, sebbene negli ultimi mesi del 57 e nei primi del 56 la dissoluzione precipitasse a rovina, specialmente per cagione degli scandali egiziani. I creditori di Tolomeo e in special modo il ricco banchiere Caio Rabirio Postumo intrigavano per lui e gli avevano prestato altro denaro, affinchè potesse vivere a Roma con sfarzo regale e corrompere i senatori58; e difatti avevano ottenuto alla fine che il console Lentulo fosse incaricato di ricondurlo con l’esercito di Cilicia59. Ma il partito conservatore, sempre avverso all’impresa di Egitto, aveva fatto trovare nei libri sibillini, chi sa con quali iutrighi, un responso, secondo il quale, se un re di Egitto avesse domandato aiuto, bisognava concederglielo, ma senza mandare un esercito. Siccome il maggior numero dei senatori non osava far aperta violenza alla superstizione popolarissima degli oracoli sibillini, il decreto che incaricava Lentulo di ricondurre Tolomeo era stato rimesso in discussione. In quella, ecco si annuncia una ambasciata di cento notabili di Alessandria che viene ad accusare Tolomeo e ad esporre la vera condizione delle cose. Si aspettano di settimana in settimana gli ambasciatori, ma gli ambasciatori non arrivano; si spiega da principio il ritardo in vario modo; ma in breve il segreto trapela e comincia a correre una diceria terribile: che Tolomeo faceva uccidere gli ambasciatori alla spicciolata sulle vie dell’Italia, che i sicari ricevevano il salario nella casa di Pompeo. Il partito conservatore protestò con violenza; Favonio domandò una inchiesta, promise di far venire il capo della ambasceria, un certo Dione che, scampato al pericolo era a Roma, ospite in casa di Lucceio. Ma neppur Dione fu trovato e poco dopo si disse che anche costui era stato ucciso60. Se l’annessione della Gallia non avesse in parte annullata l’indignazione di questo scandalo, l’Egitto sarebbe stato un’altra volta quasi fatalmente funesto al partito democratico. Ma la condizione di questo era pur sempre cattiva: Catone stava per far ritorno con i tesori e gli schiavi del re di Cipro; e la vecchia discordia tra Crasso e Pompeo rinasceva: perchè Crasso, ambizioso di esser mandato in Egitto e amico mal sicuro, lavorava segretamente contro Pompeo; Pompeo, stanco e annoiato, non compariva quasi più in Senato e accusava Crasso di pagar Clodio, affinchè lo ammazzasse61. Dopo molte discussioni il Senato deliberò, nella prima metà del gennaio 56, che Tolomeo fosse ricondotto da un magistrato romano senza esercito; ma l’incarico di ricondurlo era disputato da molti; Crasso lo ambiva, lo ambiva Lentulo; Pompeo non diceva e non faceva nulla, apertamente; ma i suoi amici lavoravano alacremente per lui62. Si arrivò così, tra discussioni confuse, intrighi arruffati, differimenti ed imbrogli, sino al 15 gennaio, senza conchiuder nulla, quando le sedute del Senato furono sospese per le elezioni degli edili, così a lungo rimandate. Pur troppo in queste Clodio vinse Vatinio con l’aiuto dei conservatori; non solo, ma subito dopo, sfrontatamente, accusò il protetto di Pompeo, Milone, di violenza. E quale giornata, il processo! I partigiani di Milone e di Clodio vennero in folla al fôro; quando Pompeo si levò a parlare per Milone i clodisti fischiarono; allorchè venne la volta di Clodio i milonisti lo tempestarono di atroci invettive, in prosa e in verso. Il processo fu sospeso per lo spaventoso tumulto; ma a un tratto, in una pausa del chiasso, Clodio si leva e rivolto ai suoi grida: Chi è che vi fa morir di fame? E i suoi, ammaestrati, a una sola voce: Pompeooo! E Clodio: Chi è che vorrebbe andare in Egitto? E i suoi: Pompeooo! E Clodio: Chi bisognerebbe mandare? E i suoi: Crassooo!63. L’aristocratico Pompeo tornò a casa, furioso e avvilito per questi insulti della canaglia; Milone fu di lì a poco assolto, ma fu anche assolto, intorno allo stesso tempo, Sesto Clodio, il cliente di Clodio che Milone accusava di violenza; e fu assolto perchè tutti i senatori che sedevano nel collegio giudicante votarono a suo favore64. Ormai, per rovinare la triarchia, i conservatori aiutavano apertamente Clodio, il demagogo frenetico. Il loro coraggio era tanto cresciuto che, discutendosi di lì a poco in Senato dei 40 milioni di sesterzi da assegnare a Pompeo per gli acquisti del grano, molti senatori lamentarono con violento linguaggio (pareva di essere, dice Cicerone, in una radunanza popolare) che Cesare avesse tolti allo Stato i redditi dell’agro campano, e domandarono se non si potesse sospendere la legge di Cesare65: anzi Cicerone aveva proposto che si risolvesse la questione nella seduta del 15 maggio66. Bisognava agire; e poichè Crasso già era venuto a trovar Cesare nella Gallia Cisalpina, a Ravenna, per consigliarsi con lui, poichè Pompeo si recava in Sardegna e in Africa per gli approvvigionamenti di Roma67, Cesare diede convegno a Lucca ad ambedue. Aveva imaginato un ardito disegno per salvare la democrazia e il loro potere dalla imminente rovina.

III.
LA DEMOCRAZIA IMPERIALISTA.

La conquista della Gallia, sebbene l’annuncio ne fosse ancora acerbo e non verace, aveva tanto commosso l’Italia, perchè era avvenuta in un momento propizio. Cesare aveva avuto, questa volta, fortuna. Appunto perchè nella storia dell’Italia antica l’imperialismo equivaleva all’industrialismo dell’Europa moderna, la politica di conquista seguiva nel giudizio pubblico le vicende della gran lotta tra le tradizioni dell’antica e rustica semplicità italica e la civiltà voluttuosa, sfarzosa, artistica, sapiente, nel tempo stesso raffinata e pervertita dell’Oriente ellenizzato. L’antico spirito latino non era morto, no: viveva ancora, nelle molte famiglie del ceto medio e dell’alto, che, pur cercando arricchire, accoglievano i nuovi costumi con ragionevole discernimento e conservavano la parte, eternamente sana e bella, dell’antica semplicità68; viveva, anzi contrastava alla diffusione delle stravaganze orientali, non solo con le sacre memorie del buon tempo antico, ma con i sussidi della filosofia, che l’Orientalismo stesso aveva divulgata per l’Italia. Non solo molti filosofi antichi e specialmente Aristotele, allora tanto letto e studiato, erano nemici del lusso, del troppo rapido aumento dei bisogni, della cupidigia mercantile di cui avevano dimostrato il pericolo69; non solo Varrone scriveva il suo dotto trattato di Antichità civili e religiose, per restaurare la parte più venerabile del passato con l’erudizione; ma proprio in quei tempi incominciava a divulgarsi in Roma una setta mistico-morale, nata al principio dell’ultimo secolo a. C. in Alessandria, che si era detta dei neo-pitagorici, perchè divulgando libri e precetti di morale attribuiti al vecchio e quasi mitico filosofo, predicava tutte le virtù che venivano meno nelle alte classi dell’Italia: la pietà verso gli Dei, il rispetto dei genitori, la dolcezza, la temperanza, la giustizia, il sollecito e scrupoloso esame, al cader della sera, delle azioni compiute nel dì70. Pure in quegli anni, queste dottrine e queste propagande appena potevano trattenere un poco la furia con cui il sibaritismo orientale, simile a un torrente allo sciogliersi primaverile della neve, inondava l’Italia da tutte le parti. Le conquiste compiute da Pompeo in Oriente, l’aumento delle pubbliche entrate, l’abbondanza dei capitali e la prosperità che dopo la crisi del 66-63 erano state l’effetto di quelle conquiste, avevano di nuovo inebriato la democrazia signora del mondo. L’Italia era ormai non la Amazzone o la Minerva, ma la Baccante del mondo. Afrodite, il dio Dionisos e l’Orgia con la torma delle Menadi avevano invaso Roma, la scorrevano in pazze e sfrenate processioni il dì e la notte, chiamando fuori a feste, a gozzoviglie, a dissolutezze uomini e donne, patrizi e liberti, schiavi e cittadini, poveri e ricchi. I banchetti delle società operaie e dei circoli elettorali erano così frequenti, numerosi e grandiosi, che ogni momento facevano rincarire a Roma il prezzo dei viveri71; per quanto la repubblica ne comprasse dappertutto, il grano scarseggiava sempre a Roma; i coltivatori degli orti suburbani, gli allevatori di ammali, gli innumerevoli tavernieri e vinai dell’Urbe arricchivano; arricchiva smisuratamente Eurisace, il re delle farine e il maggior fornaio di Roma; un oscuro liberto che aveva un immenso forno con moltissimi schiavi, e accaparratesi le forniture dello Stato e forse anche di tutti i grandi banchetti popolari, trionfali, politici, avrebbe potuto un giorno lasciare nei secoli, a monumento della sua fortuna e della sua ricchezza, quel bizzarro sepolcro a forma di forno, che sorge ancora quasi intero a Porta Maggiore, mentre del mausoleo dei Giulii resta appena qualche avanzo. Insieme con la Gallia, con i lucri, la gloria, le feste che avrebbe fruttata la nuova conquista, l’altro massimo oggetto dell’aspettazione pubblica era allora il teatro di Pompeo. Roma spiava impaziente tra le grandi impalcature dietro le quali era edificato, a poco a poco, sotto la direzione degli architetti greci, dalle mani di un infinito numero di poco laboriosi muratori, nel luogo dove ora sono il Campo dei fiori e le vie adiacenti, il primo grande teatro di pietra che sorgesse in Roma, non ostante la antica e austera legge che ne vietava la costruzione. Ma perissero queste leggi delle stolide generazioni passate! Quando quel teatro fosse finito, Roma, anche in questo, sarebbe stata a pari delle più celebri metropoli dell’Oriente; e il popolo n’era orgoglioso, come di una vittoria. Già si sussurrava, in tutta Italia, delle grandi feste che sarebbero celebrate per l’inaugurazione; e intanto, per intrattenere sino a quelle feste il popolo sempre più avido di sollazzi, di giochi sanguinari, di pompe magnifiche, gli ambiziosi si rovinavano per dargli spettacoli in teatri posticci; per affittare gladiatori, suonatori, ballerini, mimi; per comprare in ogni parte leoni, pantere, tigri, elefanti, scimmie, coccodrilli, ippopotami, rinoceronti da far combattere o da mostrare72. Tutti i governatori dell’Asia e dell’Africa diventavano per forza sensali di fiere, per conto dei loro amici di Roma73. Scauro nel 58 aveva, nelle feste dell’edilità, speso quasi tutti i guadagni di Oriente, per adornare magnificamente con 3000 statue, con meravigliosi quadri di Sidone, con 360 colonne di marmi finissimi, un teatro di legno capace di 80000 spettatori, che doveva durar solo un mese!74.

Troppa parte delle alte classi viveva ormai in una promiscuità sfrontata di adulterî venali, di orgie licenziose, di villeggiature gaudenti, di feste notturne, marine, cittadine, di discussioni filosofiche e letterarie profuse di vino nella notte75. In questa vita di dissipazione, le donne, che non fossero nate con istinti di virtù nel tempo stesso delicati e fortissimi, perdevano presto la vergogna e la serietà, diventavano leggere lascive venali, rovinavano i mariti e si vendevano ad amanti per soddisfare la smania degli adornamenti, delle stoffe preziose, delle lettighe sontuose, dei begli schiavi stranieri ben pettinati e vestiti, della mobiglia costosa. Sopratutto tutte andavano pazze per le perle e le pietre preziose, dopochè avevano visto nel trionfo di Pompeo le gemme di Mitridate e potevano rimirarle ogni dì nel tempio di Giove sul Campidoglio, dove Pompeo le aveva esposte76. Gli uomini gareggiavano tra loro a chi avesse la cantina meglio fornita di ottimi e carissimi vini greci, i vivai più abbondanti e costosi, le ville più sontuose, la biblioteca meglio provvista, l’amante più in voga. Peggiori di tutti i giovani: cinici, avidi, spensierati, volubili, indocili all’autorità paterna, impazienti di godere e di guadagnar presto, molto e senza fatica77, simiglianti al modello dei cinque rompicolli più celebri: Marco Antonio, figlio del pretore che nel 74 aveva così male combattuto contro i pirati; Caio Scribonio Curione, figlio dell’illustre conservatore e console del 76, che aveva fatto le spedizioni in Tracia; Caio Sallustio Crispo, figlio di un ricco proprietario di Amiterno; Marco Celio, figlio di un grande banchiere di Pozzuoli; Catullo, il poeta senza giudizio. Antonio e Curione erano così amici che i maligni li chiamavano marito e moglie; e insieme avevano fatto tanti debiti, tante orgie, tante ribalderie, sinchè Curione era stato obbligato dal padre ad abbandonare Antonio; e Antonio, sopraffatto dai creditori, era fuggito in Grecia, dove era parso mettere giudizio e darsi agli studi; ma presto annoiatosi, era andato da Gabinio, che lo aveva fatto ufficiale di cavalleria78. Sallustio, che pure aveva ingegno e studi e coltura, sciupava tutto il suo con le donne; e acquistava in compenso, tra gli amici, il nome di fortunato, per il gran numero di avventure. Celio era stato un ardente ammiratore di Catilina, tanti debiti aveva già allora; ma scampato alle repressioni, aveva continuate le dissipazioni; era diventato amante di Clodia, si era poi guastato con lei, e ora ne era accusato di aver avuto parte nell’assassinio degli ambasciatori mandati da Alessandria ad accusare in Senato Tolomeo Aulete79. Catullo, ormai in rotta con la famiglia stanca delle sue prodigalità80, pieno di debiti, afflitto dal tradimento di Clodia e dalla morte di un fratello, perito non si sa come in Asia, era andato al seguito del pretore Caio Memmio in Bitinia, per dimenticare i suoi crucci e per riempire un poco la borsa. Presto però aveva sentita la nostalgia della sua Roma81; e allora già si disponeva al ritorno, ma dopo aver soddisfatto con i denari guadagnati un fantastico capriccio di lusso; dopo aver cioè comprata, in una città marinara del Mar Nero, forse ad Amastri, una elegante navicella, un yacht diremmo adesso82. Che il mare ridesse presto, per le carezze voluttuose degli zeffiri primaverili!83. Egli avrebbe messo la vela al suo legno con la compra ciurma e mandatala in un porto del Mar di Marmara, l’avrebbe raggiunta da Nicea84, dopo aver pianto nella Troade sul cenere deserto del fratello85; poi placidamente, come un re, nella nave sua, e non in un rozzo legno di mercante, avrebbe costeggiato l’Asia Minore, passato attraverso le Cicladi, e lungo le rive della Grecia sarebbe entrato nell’Adriatico sino alle foci del Po, per risalirlo, e far poi portare per terra la nave sul Garda86. Uno dei pochi giovani che sembrasse serio e virtuoso era Marco Bruto, il figlio di Servilia: ma anche Bruto era stato preso, accompagnando Catone all’impresa di Cipro, dalla smania degli affari, dopochè ebbe conosciuti alcuni di quegli affaristi italiani che infestavano l’Oriente; e aveva prestati denari, ma senza comparire, al re Ariobarzane e alla città di Salamina in Cipro all’interesse del 48 per 100: anzi, siccome la legge di Gabinio vietava simili affari, intrigava allora presso il Senato per ottenere una deliberazione che convalidasse il prestito87.

Come Roma, le città minori, le campagne, tutta Italia, in misura maggiore o minore, fervevano per una simigliante impazienza di godere, che faceva smarrire alla nazione il senso del giusto e dell’ingiusto, del verace e dell’irreale, della saggezza e della follia, sospingendola ad avventurarsi nell’avvenire, senza prudenza, senza preparazione, senza scrupoli, con il solo proposito di andar sempre innanzi, a qualunque costo. Un orgoglio sconsiderato, una temeraria fiducia nella fortuna, una pericolosa inclinazione a considerare la prepotenza e la frode come prove di energia si diffondevano insieme con questo orgiastico furore; e quindi una facile ammirazione della politica aggressiva e dell’amministrazione prodiga; una spensieratezza di debiti maggiore e più rovinosa ancor dell’antica. Quasi tutti erano ormai nel tempo stesso debitori e creditori; prestavano agli altri, quando possedevano qualche somma libera e ne prendevano a prestito, quando ne avevano bisogno; onde la società italiana era diventata un inestricabile arruffio di debiti e di crediti, di syngraphae, come allora si chiamavano le carte di credito, le quali il più spesso erano rinnovate alla scadenza e si commerciavano, come oggi i titoli o le cambiali, perchè la scarsezza del capitale in confronto alla domanda avrebbe reso rovinoso il troppo frequente rimborso dei capitali. Chi aveva bisogno di denaro cercava di vendere il suo credito verso una terza persona a qualche finanziere, il quale naturalmente lo scontava con un ribasso più o meno grande, secondo la solidità del credito, il bisogno del creditore e l’abbondanza del capitale88. I facinorosi, gli indebitati, i cupidi scacciavano da tutte le magistrature gli uomini onesti e ragionevoli senza fatica, perchè i più si ritraevano per disgusto spontaneamente; e la moltitudine mediocre, vedendo i potenti far legge il piacere, il capriccio, la cupidigia e le ambizioni proprie, prendeva coraggio a esprimere fuori la perversità e la follia, insita nella natura umana e contenuta di solito dal timore della pena e dell’infamia.

Cesare capì che, in quel momento, l’Italia avrebbe seguito, come ammaliata, gli uomini e il partito che ne avessero esaltato ancor più l’orgoglio, la cupidigia, la avidità di piaceri; e propose a Crasso e a Pompeo di inebriare la Baccante sino alla frenesia89. Come tutti gli uomini politici di tipo intellettuale, che non sono violenti per natura e non riescono facilmente a incuter timore, Cesare era destinato a diventare un gran corruttore, più abile a vincere le volontà trattando il flessibile strumento dell’oro, che trattando il duro e rigido ferro. Egli sapeva che l’arte del corrompere consiste non in lasciarsi strappare con preghiere faticose il denaro, ma nel darne facilmente o addirittura in offrirne, tentandoli, a coloro il cui aiuto sia utile o necessario. Già in quell’inverno infatti egli aveva profuso il denaro guadagnato nelle guerre belgiche, largheggiando in prestiti e sussidi con gli uomini politici venuti a riverirlo da Roma90; favorendo il commercio e la agricoltura italiana nelle forniture; comperando, ad esempio, i cavalli per l’esercito in Italia, quando avrebbe potuto procurarsene nelle Gallie, che ne eran tanto provviste91. Ma intendeva far cose maggiori, negli anni seguenti: ingrandire ancora l’imperialismo aggressivo inventato da Lucullo; fare egli e incitare gli amici a fare grandi conquiste; moltiplicare le occasioni di guadagno ai fornitori militari, ai numerosi mercanti che seguivano l’esercito in Gallia, ai soldati, agli ufficiali; intraprendere grandi lavori pubblici in Italia e in Roma; istituire a Capua scuole di gladiatori per i sollazzi del popolo92; profondere il denaro tra tutte le classi sociali. Crasso riconcilierebbe Clodio con Pompeo ed ambedue si proporrebbero candidati al consolato per l’anno 55; Cesare li aiuterebbe mandando a Roma molti soldati per le elezioni; durante il consolato essi farebbero prolungare a lui per cinque anni il comando delle Gallie e assegnargli i fondi per pagare le legioni che egli aveva reclutate oltre quelle assegnategli dal Senato dopo il principio della guerra: egli conquisterebbe in quei cinque anni la Britannia e porterebbe le legioni oltre il Reno; uno di loro, dopo il consolato, avrebbe avuta la provincia della Siria e compiuta la conquista della Persia; quanto all’Egitto, ambedue ne deporrebbero l’idea, ma si incaricherebbe Gabinio di ricondurre, senza autorizzazione del Senato, Tolomeo nell’Egitto, a condizione che pagasse a ciascuno di loro una somma considerevole. Sembra che la somma chiesta da Cesare fosse di 17 milioni e mezzo di sesterzi (più di 4 milioni di lire nostre)93. L’uomo che aveva come console cercato di guarire, con una magnifica legge, quella malattia cronica delle società civili che è la venalità, si preparava a corrompere l’intera Italia. Cesare non era uno scellerato per natura; ma non possedeva nemmeno la sensitività di Cicerone, per la quale certi scrupoli almeno non venissero mai meno, neanche quando fosse necessario distruggerli per soddisfare l’ambizione. Immaginoso, ambizioso, eccitabile, la sua morale era quella del successo incondizionato, ottenuto con il minor male possibile.

Noi non sappiamo quali discussioni ebbero luogo allora tra Cesare, Pompeo e Crasso; ma è verisimile supporre che Crasso approvasse questo disegno più presto che Pompeo. Agli egoisti che hanno avuta molta fortuna accade sovente che, sazi di tutti gli altri beni goduti facilmente e in abbondanza, avidi di nuove soddisfazioni, gelosi dei successi altrui, si esasperano alla fine nell’ostinazione di riuscire in qualche cosa che è loro, per una ragione o per un’altra, impossibile, sciupandosi così tutta l’altra felicità. Crasso stava per scontare definitivamente, con questo tormento, l’insaziabile egoismo. Egli aveva avuta la potenza e la ricchezza, non la popolarità di Lucullo, di Pompeo, di Cesare, appunto perchè era troppo freddo, chiuso, intento al proprio bene; ma la popolarità aveva desiderata per tutta la vita, e aveva fatto, a varie riprese, grandi sforzi per conseguirla, senza riuscirvi mai. Più volte perciò si era rasserenato a restarne privo, contentandosi del potere e della ricchezza. Ma ora, nella esaltazione universale, la antica smania si era di nuovo riaccesa. La grande politica imperialista creata da Lucullo aveva fruttata troppa gloria al suo autore e a Pompeo, cominciava a fruttarne troppa a Cesare; l’enfasi contagiosa dei tempi faceva credere ai più smisurati sogni di grandezza; Crasso non voleva, non poteva restare con la semplice gloria di vincitore di Spartaco, quando gli altri avevano compito imprese tanto più grandi, quando tutti credevano che egli avrebbe facilmente potuto eguagliar la gloria di Alessandro Magno. La speranza di conquistare la Persia bastava a fargli approvare l’accordo. Pompeo invece, che solo dei tre conosceva un poco i Parti94, che avrebbe potuto ma che non aveva voluto compir l’impresa nel 63, abbandonò facilmente la Persia al collega; e forse considerò in principio con avversione tutto questo disegno di democrazia conquistatrice e corrompitrice. Egli incominciava già a spaventarsi della demagogia; e come tanti ricchi soddisfatti inclinava a considerar buona per gli altri una morale di semplicità, di austerità, di prudenza. Ma poteva egli romper l’unione con Cesare e Crasso? Egli amava sua moglie; il Senato era pieno di nemici suoi; Clodio, già così audace, che cosa non avrebbe osato, il giorno in cui Cesare e Crasso lo avessero apertamente incitato ad assalirlo? Egli non poteva restaurare il suo credito in decadenza, se non ridiventando console, compiendo bene la sua missione annonaria, facendosi attribuire qualche nuovo comando straordinario. Solo, non avrebbe potuto ottener tante cose. Per questo egli accettò alla fine, sebbene con malavoglia, le proposte di Cesare.

Come Caio Gracco quasi settantacinque anni prima, Cesare nel 56, per rinvigorire il partito democratico, tentava di formare intorno alla sua persona una vasta e potente coalizione di interessi mercantili.

IV.
IL SECONDO CONSOLATO DI CRASSO E POMPEO.
(Anni 56-55 a. C.)

Poco dopo il convegno di Lucca, Cesare dovè abbandonare il pensiero di una lunga dimora nella Cisalpina e valicare in fretta le Alpi. Parecchi dei popoli dell’Armorica, arresisi nell’autunno precedente, si erano già ribellati, con a capo i Veneti, che avevano messi in catene gli ufficiali mandati tra loro a requisire viveri. Incominciavano presto, le rivolte, nella provincia “pacificata!” La annessione aveva irritato i popoli gallici, specialmente i Belgi e i Treviri; di più, le popolazioni dell’Aquitania, non ancora sottomesse, si disponevano ad aiutare i Veneti, temendo che Cesare intendesse di comprendere anche loro nella “pacificazione” della Gallia95.

Cesare non poteva, quando i suoi amici magnificavano a Roma con tanta enfasi, per confondere i conservatori, la conquista della Gallia, dare ai Galli motivo o pretesto di supporre che egli esitasse nel considerare e trattare il loro paese come provincia già conquistata. Perciò non solo impose subito allora alla Gallia la contribuzione annua di 40 milioni di sesterzi96; non solo si dispose a reprimere severamente la rivolta dei Veneti; ma deliberò di sottomettere senza indugio i popoli ancora indipendenti. Mandò Labieno con la cavalleria nel territorio dei Treviri, per tener questi e i Remi e i Belgi in rispetto; spedì Quinto Titurio Sabino con circa diecimila uomini a devastare il territorio dei Venelli, dei Curiosoliti e dei Lessobii, alleati dei Veneti, per impedir loro di unire a questi le proprie forze; incaricò Publio Crasso di costringere l’Aquitania a sottomettersi, percorrendo il paese con molta cavalleria e con circa 4000 soldati. Egli stesso si assunse l’impresa di domare i Veneti97. Siccome questo popolo aveva una flotta numerosa, ordinò di costruire navi sulla Loira: arruolò piloti e rematori dappertutto; ordinò ai Pictoni e ai Santoni, che non si univano ai ribelli, ma che non si erano ancora sottomessi, di fornire navi, dichiarandoli così sudditi di Ronia98; e messo a capo della flotta Decimo Bruto, un giovinetto, figlio del console del 77 e di quella Sempronia che aveva avuto parte nella congiura di Catilina, entrò con l’esercito, quando ancora la flotta si stava raccogliendo, nel territorio del Veneti. Ma se Titurio e Publio Crasso riuscirono facilmente e prontamente, ciascuno nell’impresa sua, più difficile fu quella di Cesare. I Veneti si rifugiarono in castelli edificati su lingue di terra sporgenti nel mare, in tal posizione che il ritmo quotidiano delle grandi maree oceaniche li difendeva meglio che ogni opera umana; scacciando periodicamente, con la inondazione dell’alta marea, l’esercito che li assediasse per terra; lasciando in secco alla bassa marea la flotta che intendesse oppugnarli per mare. Cesare infatti consumò molta parte dell’estate in vani tentativi contro questi strani castelli imprendibili, a volta a volta marini e terrestri, che non si potevano assediare nè per terra nè per mare.

In quegli stessi mesi Pompeo, riconciliato con Clodio, e Crasso, sempre più invasato dall’idea della sua conquista, signoreggiavano Roma, l’Italia e l’Impero. Il rinnovato accordo dei tre potenti aveva soggiogata di nuovo in un baleno la maggioranza del Senato, e ridotta l’opposizione conservatrice a un piccol numero di senatori troppo orgogliosi, ostinati o compromessi: Catone, Favonio, Domizio Enobarbo. Anche Cicerone era stato voltato a tempo. Pompeo, andato da Lucca in Sardegna a cercar grano per Roma, gli mandò il fratello Quinto Cicerone, cui Cesare aveva promesso un comando in Gallia, a dirgli che il suo discorso in Senato sulla legge agraria di Cesare gli era spiaciuto99; e Cicerone si era lasciato facilmente persuadere ad andare in campagna, quando si sarebbe dovuto, il 15 maggio, discorrere in Senato, come egli aveva proposto, delle leggi agrarie100; non solo, ma si era impegnato anche a parlare per Cesare, quando ai primi di giugno101 verrebbe in discussione in Senato la proposta di mandare dieci legati a ordinare la Gallia, di confermare Cesare nel governo della Narbonese, di assegnargli i fondi per mantenere le quattro legioni nuove. Ormai il grande oratore diventava scettico; e a cinquanta anni, stanco per le traversìe degli ultimi tempi che ne avevano acuita la sensibilità a un pavido orrore di ogni ansia e commozione violenta, impedito di primeggiare nella politica dalla sua svogliatezza e dagli avvenimenti che lo avevano posto in disparte, quasi si rassegnava al riposo, dimenticava le ambizioni politiche, sentiva rinascere le prime ambizioni letterarie della giovinezza, dimenticate nel vorticoso tumulto degli anni seguiti alla accusa di Verre. Egli aveva incominciato, come ogni giovane, scrivendo versi su tutti i soggetti, perfino un poemetto epico sul suo concittadino Mario; aveva anche raffazzonato un trattatello di rettorica, de inventione, breve e asciutta compilazione scolastica; ma poi, diventato uno degli avvocati e dei politici più affaccendati di Roma, non aveva potuto più comporre che discorsi e scritti d’occasione, come quelli sul suo consolato, nella stretta dei giorni, spesso delle ore contate. Soltanto al ritorno dall’esilio aveva incominciata un’opera di lunga lena: quel bel dialogo de oratore, così vivo di figure, di stile, di narrazioni, di considerazioni, di ricordi personali; e nel riposato scrivere di un vasto lavoro trovava allora un diletto nuovo, che lo invogliava al riposo. La sua rettitudine provinciale e borghese gli faceva inoltre sentire per Pompeo, che lo aveva richiamato dall’esilio, un debito di gratitudine, che in quella dissoluzione dei partiti si mutava facilmente in obbligazione politica. Perchè avrebbe offeso Pompeo, per compiacere una piccola fazione di aristocratici arrabbiati, che lo aveva abbandonato con tanto egoismo, nei giorni del pericolo; e altrettanto, se pur diversamente, piena di vizi, quanto il partito nemico? E Cesare, se in molte cose aveva torto, non attendeva allora a una delle più grandi imprese di guerra?102 Infine egli pure, vinto dall’esempio universale, si era dato allora a ornare la semplicità del suo vivere con qualche lusso; e cominciava a prenderci gusto103; ad ammollirsi; a diventar scettico ed egoista. Perchè cercar fastidi senza ragione? Non era meglio imitare la signorile e forte serenità di Varrone? Questo ricco, dotto e nobile signore, nuotatore vigoroso che si era tuffato a più riprese nel fiume rapido della politica senza lasciarsi mai travolgere dalla corrente e uscendone sempre a piacere, aveva esercitate molte magistrature, era stato legato nella guerra piratica, aveva ricevuto anche egli il bel milione di ricompensa, e ne era riconoscente a Pompeo; ma non avvinto a nessuna clientela, aveva, giudicato severamente la politica dei triarchi nel 59; e perciò ora si teneva in disparte, tranquillamente, migliorando la coltivazione delle sue terre, professando idee ragionevolmente conservatrici, e contribuendo con gli studi e gli scritti così a rinnovare la parte migliore delle tradizioni antiche come a diffondere la cultura greca a Roma, in quella forma in cui questa generazione frettolosa di dilettanti e di uomini d’azione la desiderava: enciclopedie, riassunti, manuali. La sua grande opera in nove libri, Disciplinae, era infatti una enciclopedia. Si dilettava anche di arte; e faceva lavorare molto Archesilao, uno dei primi scultori di Roma, a cui aveva ordinato tra le altre cose una magnifica leonessa di marmo, circondata da prepotenti amorini che la legano: grazioso simbolo dell’amore104. Cicerone, che gli era amico, si invogliava a seguirne l’esempio, non desiderando più che due cose: mostrarsi grato a Pompeo e vendicarsi di Clodio, con il quale continuava una baruffa di contumelie, di dispetti, di scandali che divertiva Roma105. Perciò, sebbene egli approvasse poco la convenzione di Lucca, pronunciò in Senato il discorso de provinciis consularibus, nel quale magnificò anche egli, come allora era moda, la definitiva conquista della Gallia; rispondendo a coloro i quali domandavano come mai si chiedessero nuovi denari e soldati per una conquista finita, che le grandi operazioni militari erano terminate, ma restavano ancora i piccoli avanzi della guerra106. L’opposizione dei conservatori fu facilmente vinta; si deliberò l’invio dei dieci legati per riordinare la nuova conquista; e la Gallia fu, nella primavera del 56, definitivamente dichiarata dal Senato provincia romana. Si deliberò anche che Pisone sarebbe richiamato, alla fine dell’anno, dalla Macedonia; che il governo di Gabinio in Siria finirebbe con l’anno 55; che la Siria sarebbe data come provincia a uno dei consoli di questo anno.

Intanto si avvicinava il luglio, il mese delle elezioni. Lucio Domizio Enobarbo aveva già annunciato, e tutti aspettavano che Crasso e Pompeo dichiarassero anche essi di proporre la candidatura, di cui si parlava nel pubblico sin dopo il convegno di Lucca. Ma i giorni passavano; Crasso e Pompeo tacevano. La diceria della candidatura era falsa? Crasso e Pompeo avevano mutato pensiero? Ma non passò molto tempo che due tribuni della plebe incominciarono a rimandar le elezioni, interponendo il veto ogni volta, che si voleva fissarne il giorno107: e ben presto si seppe lo scopo di questo maneggio. Siccome il console che presiedeva le elezioni poteva escludere, ad arbitrio, ogni candidatura che non gli piacesse, Crasso e Pompeo non volevano che le elezioni avvenissero sotto la presidenza nè di Gneo Cornelio Lentulo nè di Lucio Marcio Filippo, conservatori ambedue. L’opinione pubblica imparziale biasimava le due troppo ambiziose candidature108; e il console presidente dei comizi poteva essere incoraggiato dalla disapprovazione degli alti ceti a cercar che fallissero109. Perciò Crasso e Pompeo avevano pensato di far differire le elezioni dai tribuni, senza apparire essi stessi, sino all’anno nuovo, quando le elezioni sarebbero fatte, secondo la costituzione, sotto la presidenza di un interrege, nominato dal Senato. Con tanto maggior zelo il piccolo manipolo conservatore cercò, agitando il pubblico disgustato da questi maneggi, di costringere Pompeo e Crasso ad abbandonar l’ostruzionismo, o almeno a dichiararsene autori. Lentulo li provocò in Senato in varie maniere, per far loro dichiarare se intendevano concorrere alla suprema carica; e convocò perfino un gran meeting popolare, in cui, alla presenza dei senatori di parte conservatrice convenuti tutti con gli abiti di lutto, accusò Pompeo di essere un tiranno110. Invano però. Il pubblico imparziale biasimava le faziose ambizioni di Crasso e di Pompeo, ma scettico e indifferente badava solo a divertirsi e ad arricchire; nel mondo politico quasi tutti avevano tanta paura di affrontare l’ira dei tre potentissimi, che molti senatori non si facevano più vedere nella curia111; cosicchè, non ostante tanti sforzi, i mesi passavano senza che i comizi potessero tenersi, e Crasso e Pompeo continuavano ad affettare di non essere in colpa per l’ostruzionismo dei tribuni. I conservatori cercarono di vendicarsi facendo processare, per usurpata cittadinanza, Lucio Cornelio Balbo, l’abilissimo ed alacrissimo agente di Cesare e di Pompeo. Ma Pompeo pregò Cicerone di difenderlo; e Cicerone, con un discorso che noi possediamo ancora, lo fece assolvere112.

Frattanto la rivolta de’ Veneti era stata domata, allorchè finalmente Decimo Bruto era comparso nelle loro acque con la flotta, raccolta e messa in ordine mentre Cesare si affaticava inutilmente ad assediarne i castelli. I Veneti, sia che spregiassero quella flotta raccogliticcia, sia che stanchi dei lunghi assedi sperassero di finir la guerra, montarono subito sulle navi lasciando i castelli con piccola guardia, e offrirono battaglia sul mare; ma Decimo Bruto, sebbene giovane e novizio, seppe comandare molto bene, infliggendo loro una grave sconfitta e molte perdite di uomini e di navi, che li indussero ad arrendersi. Cesare, per dimostrare nuovamente che la Gallia era ormai provincia romana, condannò a morte tutti i notabili. Poi, siccome i Morini e i Menapii non si erano ancora arresi, intraprese, sul cadere della estate, una spedizione nel loro paese, la quale però non riuscì. Questi barbari bellicosi non andarono in grandi moltitudini a farsi macellare dalle legioni; ma si dispersero per le foreste e le paludi in piccole bande portandosi via i tesori più preziosi; e incominciarono la guerriglia delle sorprese sui piccoli distaccamenti romani. L’inverno si avvicinava; Cesare capì che non era prudente avventurarsi troppo lontano, in un paese così selvaggio; e devastate un poco le terre per cui passava, tornò indietro mandando l’esercito a svernare ne’ paesi che si erano ribellati in quell’anno. Così finiva il terzo anno di guerra, felicemente e con molto lucro; perchè queste repressioni erano state pretesto di devastazioni e rapine, con le quali Cesare, gli ufficiali superiori (specialmente Mamurra e Labieno), tutto l’esercito incominciarono a rifarsi dei travagli e dei pericoli, troppo scarsamente ricompensati, dei due primi anni113. Tuttavia Cesare, che dopo due anni di osservazioni, di inchieste, di pratica incominciava a conoscere il paese, incominciava pure a dubitare che la conquista da lui annunciata come definitiva, fosse precaria e malsicura. La improvvisa annessione aveva fatto sparire in tutti i popoli gallici il partito amico dei Romani che esisteva prima, togliendo autorità agli uomini che lo rappresentavano114; onde, se non voleva esser costretto a domare ogni anno insurrezioni, egli doveva crearne un altro; opera difficile e lenta per sè, che egli tentò in mezzo a tante faccende, non con metodo e perseveranza, ma frettolosamente, con diversi espedienti, come potè. Nella Gallia ferveva, effetto di una rovinosa concentrazione delle fortune, una intensa lotta politica tra gli avanzi di una numerosa nobiltà proprietaria ed una piccola plutocrazia, che si era formata in mezzo a questa nobiltà. Un piccolo numero di nobili, approfittando dell’indebitamento di molte famiglie aristocratiche, veniva riducendo in suo potere, specialmente nelle nazioni più forti, la maggior parte delle terre e dei capitali, monopolizzava l’appalto delle gabelle e dei pedaggi, prestava denaro a uomini di tutti i ceti; e potente per il gran numero di debitori, di clienti, di servitori e dipendenti, guadagnando con largizioni molto favore in mezzo alla plebe povera, si sforzava di acquistare un potere quasi monarchico nelle antiche repubbliche aristocratiche della Gallia115. La Gallia insomma era piena di demagoghi milionari, che, proprio come Crasso, Pompeo e Cesare a Roma, cercavano di costituire governi personali contro l’opposizione della nobiltà conservatrice; che si servivano della ricchezza per conquistare maggior potere politico e del potere politico per accrescere la ricchezza, riserbandosi gli appalti più lucrosi, spingendo la propria nazione a guerre che fruttassero loro. Infatti i popoli più potenti della Gallia si facevano senza tregua guerre116, fomentate probabilmente da questi grandi, per rendersi tributari i popoli più piccoli: feroce fra tutte la rivalità tra gli Edui e i Sequani, che guerreggiavano ostinatamente per il dominio della Saona e dei suoi fruttuosi pedaggi117. Cesare aveva nel primo anno parteggiato piuttosto per la nobiltà conservatrice, impedendo l’impresa degli Elvezi, che pare fosse favorita dai grandi plutocrati della Gallia con scopi non ben chiari118; ma a questo punto, con l’opportunismo temerario di cui a più riprese diè prova nella sua vita, mutò politica. Giudicando questa plutocrazia più potente che la nobiltà in decadenza, e forse anche sentendo che pure in Gallia gli era più facile andar d’accordo, per il suo temperamento e la sua condizione, con questi pochi demagoghi anzichè con i conservatori, egli cercò di amicarsi i più potenti di loro e favorirne le ambizioni politiche: mise nel numero dei suoi amici Vercingetorice, il giovane capo della più potente famiglia nobile degli Arverni119; creò Tasgeto re dei Carnuti120, Cavarino re dei Senoni121, Commio re degli Atrebati122; pare avesse idea di far Dummorige, il suo nemico del 58, re degli Edui123. Nel tempo stesso pensò, applicando il principio divide et impera, di aiutare gli Edui e i Remi a tenere il primato a scapito dei rivali, come i Senoni, i Sequani, gli Arverni124. Egli sperava di consolidare così il dominio romano in Gallia125.

A ogni modo, quali che dovessero essere gli effetti di questa politica, per il momento gli eventi eran prosperi in Gallia per la triarchia; e prosperi pure nella metropoli; dove Crasso e Pompeo eran riusciti, senza parere, a far differire le elezioni sino all’anno 55, a far nominare un interrè di loro fiducia, che procederebbe alle elezioni! Cesare aveva mandato in congedo, a votare, molti soldati, condotti da Publio Crasso: tuttavia Lucio Domizio Enobarbo, incoraggiato da Catone, non si ritrasse; e la mattina della votazione, all’alba, mosse di casa sua, con un corteggio di schiavi e di clienti, per recarsi a sollecitare i voti. Ma ad un tratto, allo svolto di una strada, la comitiva fu assalita da una torma di bravi; lo schiavo che precedeva con la torcia, per illuminare il cammino, fu ucciso e molti del seguito feriti. Spaventato da questo avviso chiarissimo, Domizio scappò a casa126; Crasso e Pompeo furono eletti senza contrasto; ed eletti si accinsero subito a porre in esecuzione la parte più importante della convenzione di Lucca. Un tribuno della plebe, Caio Trebonio, figlio di un ricco uomo di affari127 che voleva segnalarsi nella politica, e dopo aver cominciato come conservatore si era volto al partito di Cesare, propose e fece approvare, non ostante i tumulti scatenati dai conservatori, che ai due consoli dell’anno si dessero per Provincie, all’uno la Siria, all’altro le due Spagne, per cinque anni e con il diritto di dichiarare la guerra. Approvata la legge i consoli proposero che si desse per altri cinque anni il governo delle tre Gallie a Cesare; e la proposta fu approvata senza scandali e tumulti, sebbene Cicerone cercasse di dissuadere Pompeo in colloqui amichevoli128. Dopo un breve riposo in campagna, tornati a Roma in aprile129, Pompeo e Crasso proposero leggi che avrebbero dovuto, nella intenzione dei loro autori, ricomporre un poco il disordine dei tempi: Crasso una legge contro la corruzione; Pompeo una legge più severa sul parricidio e una riforma giudiziaria per la quale i giudici fossero scelti meglio; voleva anche proporre una legge contro il lusso, che mostra come egli già allora inclinasse a idee che negavano, nella sua essenza, la fastosa politica imperialista di Cesare. Ma Ortensio l’indusse a ritirarla, con un grande discorso in lode del lusso e della magnificenza, naturale ornamento della potenza130.

Le riforme però non servivano a nulla. Il disordine dello Stato cresceva, come una tempesta più violenta di ora in ora. Ai primi di aprile a Pozzuoli, porto ormai molto frequentato da navi e da mercanti egiziani per i progressi del commercio diretto tra l’Italia e l’Egitto, era corsa una diceria singolare: che Tolomeo fosse stato ricondotto ad Alessandria da un esercito romano131. Come era ciò possibile, se il Senato non aveva presa nessuna deliberazione? Difatti non arrivò alcuna notizia ufficiale dell’avvenimento. Eppure la diceria era vera; Gabinio aveva compiuta di proposito proprio l’impresa. Tolomeo, stanco di pagare, come gli aveva predetto Catone132, senza ottener nulla a Roma, era andato ad Efeso; ad Efeso, dopo il convegno di Lucca, lo aveva raggiunto Rabirio; e insieme si erano recati con lettere di Pompeo in Siria a Gabinio, il quale, obbedendo agli ordini di Pompeo, aveva acconsentito ad abbandonare il disegno di una guerra contro le popolazioni arabe e contro i Parti, per ricondurre Tolomeo, senza ordini del Senato, a queste condizioni: egli riceverebbe una lauta ricompensa e Rabirio sarebbe nominato ministro delle finanze dell’Egitto, a garanzia dei creditori italiani del re. Infatti tra la fine del 56 e il principio del 55 Gabinio aveva invaso l’Egitto, e rimesso sul trono Tolomeo, con l’esercito nel quale militava anche M. Antonio133. Immaginarsi le proteste dei conservatori! Ma causa di commozione ancor maggiore fu di lì a poco la notizia, presto divulgatasi, che Crasso, come governatore della Siria, avrebbe tentata la conquista della Persia. In breve infatti Crasso si accinse a fare i preparativi della campagna apertamente; a reclutar soldati, a scegliere gli ufficiali, a ordinare le sue faccende per una lunga assenza, compilando un accurato inventario della propria fortuna. Egli potè constatare di aver raddoppiati ventiquattro volte i 300 talenti lasciatigli dal padre, di possedere ora un patrimonio di 7000 talenti, che corrisponderebbero a circa 31 milioni di nostra moneta134. Eppure egli non era contento: anzi l’universale inclinazione all’enfasi, l’orgoglio, la temerità, il fervore contagioso dei tempi, la vecchia ambizione ridesta al fine ed esaltata dal fervore dei preparativi dopo tanti anni di riposo, le adulazioni che sogliono molcer sempre le orecchie di un gran signore in procinto di commettere una follia risvegliavano nel vecchio una baldanza straniera all’indole sua, sino allora così prudente: voler egli superare Lucullo, che si era spento dolcemente, come un bambino, nella demenza senile, l’anno innanzi; rifar la via di Alessandro sino all’India; conquistar l’universo135. A poco a poco il pubblico si era infervorato; molti giovani cercavano farsi accettare come ufficiali, tra gli altri Caio Cassio Longino, che frattanto aveva sposata una figlia di Servilia e perciò era cognato di Bruto: solo il piccolo partito conservatore, che per opposizione alla democrazia imperialista avversava ormai apertamente la politica di conquista, prediceva che la guerra sarebbe finita con un disastro, tanto il paese era lontano e ignoto, il nemico terribile; affermava che la guerra era ingiusta, perchè i Parti non ne avevano dato motivo136. Un simigliante argomento non era più usato in Roma da un pezzo. Ma nessuno studiava seriamente, nell’uno o nell’altro partito, le difficoltà dell’impresa.

Meno ancora di Crasso e di Pompeo, riposava Cesare. Ritornato dalla Cisalpina nella Gallia, nella primavera del 55, per preparare la conquista della Britannia, ne era stato distolto da una invasione di popoli germanici, gli Usipeti e i Tencteri, che probabilmente i capi del partito gallico avverso ai Romani avevano segretamente incitati a passare il Reno. Queste orde pare fossero molto numerose; e Cesare, perdendo anche egli, nella fretta di riuscire, gli scrupoli, per non impegnarsi in una guerra difficile contro un nemico numeroso, era riuscito a infligger loro una disfatta con uno stratagemma sleale: assalendoli all’improvviso, mentre li teneva a bada con fallaci trattative di pace137; poi aveva risalita la valle del Reno sino al luogo dove ora è Bonn, e, costruito in dieci giorni un ponte, aveva fatta una rapida corsa nel territorio degli Svevi e dei Sicambri. Solo allora, quando già la stagione era molto avanzata, egli poteva, preparare un rapido sbarco in Britannia con due legioni, che sarebbe preparazione all’impresa più vasta della conquista per l’anno prossimo. A Roma queste notizie destarono immenso entusiasmo, sebbene la impresa fosse di poca importanza; si diceva che Cesare avesse sconfitto 300 000 Germani; la scesa in Britannia sopratutto pareva meravigliosa. Se Cesare sapeva poco della Britannia quando si mosse, a Roma nessuno ne sapeva niente; eppure tutti sognavano già a occhi aperti immense ricchezze che si troverebbero nella lontana isola, fortune colossali che si sarebbero fatte138; tanto l’imperialismo popolare è in tutte le età stupido e fanciullesco; tanto Cesare conosceva l’arte di impressionare da lontano le moltitudini ignare e pacifiche, con imprese che la distanza faceva apparire immense ed eroiche! L’orgiastica Roma non ragionava più, voleva solo divertirsi, commuoversi, inebriarsi, e qualunque pretesto era buono. Sul finire dell’estate si erano finalmente abbattute le impalcature del teatro di Pompeo; e la immensa, magnifica, splendente mole marmorea aveva abbagliato Roma139. Per eludere la legge che vietava in Roma la costruzione di teatri in pietra, Pompeo aveva fatto costruire in cima alla cavea un tempio di Venere, in modo che i banchi marmorei su cui potevano pigiarsi gli spettatori avessero apparenza di una curva e immensa gradinata conducente al piccolo tempio; di faccia era la scena; dietro la scena un portico, dove il popolo poteva rifugiarsi dal teatro, se un aquazzone interrompesse lo spettacolo: un immenso portico quadrato retto da colonne grandiose, adorno di quadri e di statue; pitture di Polignoto, statue simboliche delle nazioni vinte da Pompeo, secondo una tradizione anche la statua, opera di Apollonio figlio di Nestore, di cui ci è giunto il meraviglioso frammento che ha nome Torso del Belvedere140. In una parte del portico le colonne erano chiuse, formando una bellissima sala, la Curia di Pompeo, dove avrebbe potuto radunarsi anche tutto il Senato141. Magnifiche feste celebrarono la inaugurazione di questo primo monumento, veramente degno della grandezza imperiale di Roma: tra le altre una caccia di belve nella quale gli elefanti feriti barrirono con lamentazioni così umane, che il pubblico, quel pubblico che si scannava nelle zuffe del fôro e si beava a veder correre il sangue dei gladiatori si intenerì142. La sensibilità nervosa che incominciava a diffondersi, aveva strani capricci!

Ma il partito conservatore, che quanto più rimpiccioliva tanto più si faceva ostinato, non abbandonava la lotta: si era battuto disperatamente in ottobre143 nelle elezioni, ed era riuscito a mettere accanto ad Appio Claudio, fratello maggiore di Clodio e amico di Pompeo, Domizio Enobardo, come console per l’anno 54; aveva fatto elegger pretori, insieme a Caio Alfio Flavo amico, e a Servio Sulpicio Galba generale di Cesare, Catone e Publio Servilio, il figlio del vincitore degli Isauri; e adesso rispondeva alle dimostrazioni del giubilo popolare per le vittorie di Cesare, facendo proporre dal più intrepido misovulgo della storia, Catone, che Cesare fosse consegnato agli Usipeti e ai Tencteri, per aver violato il diritto delle genti, come la religiosa e austera Roma dei tempi antichi soleva fare. Osava infine, questo partito, un’audacia maggiore. Crasso arruolava soldati in Italia, per formare, aggiungendoli alle legioni di Gabinio, un esercito sufficiente all’impresa; e non trovando bastevole numero di volontari, procedeva ad arruolamenti obbligatori con una fretta senza riguardi, troppo brutale per una nazione ormai tanto svogliata dalla milizia come l’Italia. Anzi queste leve furono cagione di tal malcontento, che il partito conservatore osò tentar di impedirle per mezzo di due tribuni, Caio Ateio Capitone e Publio Aquilio Gallo144. Ma Crasso, già impaziente e smanioso, fu incitato ancor più da questi intrighi a far presto e a partir per la provincia, ancora in novembre. Non potendo far altro, Ateio lo accompagnò, il giorno in cui Crasso uscì di Roma con il seguito e il figlio Publio, che Cesare gli aveva mandato con un corpo di cavalieri galli, sino al Pomerio, perseguitandolo di maledizioni ed esecrazioni infauste; che l’orgoglioso banchiere invasato dall’ambizione ascoltò senza batter ciglio. Ma è probabile che l’esercito non fosse così impassibile come lui; e che i soldati novizi, che egli si traeva dietro a forza, nella lontana avventura, già di malavoglia e pavidi dei pericoli, ne fossero un po’ sconcertati. Il seguito di questa guerra e la progressiva decadenza militare dell’Italia, che voleva godere le conquiste al sicuro più che farle, inducono a supporre così.

V.
LA PRIMA DELUSIONE
DELLA DEMOCRAZIA IMPERIALISTA:
LA CONQUISTA DELLA BRITANNIA.
(Anno 54 a. C.)

Questo vecchio, che a sessant’anni ricingeva spada e corazza per saziare una bramosìa troppo a lungo inappagata di gloria popolare, aveva fretta. Egli si avviava alla conquista della Persia diritto e difilato, sospinto ad affrontare in linea retta, senza abili e lunghi giri, anche gli impedimenti maggiori, dalla irascibile impazienza senile, dal desiderio di tornar presto a Roma a godersi il successo, dall’orgogliosa fiducia nella riuscita, in cui l’avevano indotto i tempi, la fortuna, il potere. Giunto a Brindisi volle subito passare il mare pur nella cattiva stagione e perdè infatti nella traversata molte navi ed uomini145; sbarcato a Durazzo si avviò senza indugio, per la via Egnazia, pur nell’inverno, attraverso l’Epiro, la Macedonia, la Tracia verso il Bosforo, non badando che questi sinistri e la frettolosa marcia invernale scoraggivano i suoi soldati novizi, già tanto svogliati.

Più avveduto, Cesare aveva rimandato all’anno seguente la invasione della Britannia, e intorno a quel tempo, sul finire del 55, se ne veniva in Italia dopo avere immaginato un tipo nuovo di nave e avere ordinato di costruirne un certo numero durante l’inverno. Mentre i soldati prendevano la pialla e la sega, sotto la direzione di Mamurra e degli ufficiali che sapevano qualche cosa dell’arte del costruire146, egli andava nell’Illiria, ritornava nella Cisalpina a radunare le assemblee locali e ad accogliere i postulanti che venivano da Roma a domandare aiuti per le future elezioni, un comando nella prossima guerra, denaro. La guerra incominciava a rendere; e Cesare, disponendo ormai di larghi mezzi, poteva alla fine soddisfare i suoi istinti di profusione e di lusso: mandar grandi somme a Roma, a Balbo e all’altro suo fido agente Oppio, perchè le tenessero a disposizione dei senatori bisognosi; far costruire ville suntuose; comprar terre in Italia, gemme, quadri, statue, antiche opere d’arte, schiavi147; impersonare lo spinto mercantile, rapace e prodigo, rovinoso e creatore, che devastava il mondo, distruggeva la famiglia, sconvolgeva lo Stato e adornava l’Italia di una nuova cultura. Sopratutto voleva, con i tesori della Gallia, emulare Pompeo nell’abbellire Roma, soddisfacendo l’inclinazione universale al lusso pubblico, dando lavoro agli appaltatori e agli operai, di cui tanti erano elettori. Cesare aveva incaricato Oppio e Cicerone di allargare il Foro troppo angusto, comprando le case private che nella sua parte settentrionale, alle falde del Capitolino, ingombravano il Comizio; aveva dato ordine di pagare senza taccagneria le vecchie catapecchie ai loro padroni, spendendo sessanta milioni di sesterzi148; siccome il popolo si radunava ancora nei comizi tributi sul Campo di Marte in recinti provvisori circondati ogni anno da palizzate, suddivisi in tante sezioni quante erano le tribù da corde attaccate a pali e che rassomigliavano ad ovili, volle edificare al popolo deliberante un gran palazzo di marmo – i saepta Julia! L’edificio avrebbe avuto forma di un immenso rettangolo, la cui fronte corrispondeva alla linea attuale dei palazzi del Corso, a destra di chi viene da Piazza del Popolo, a cominciare di faccia al palazzo Sciarra, sino alla Piazza Venezia149; sarebbe circondato da un magnifico portico di mille passi e adorno da un gran giardino pubblico150. Anche per questo lavoro Cicerone ed Oppio dovevano scegliere gli architetti, appaltare e sorvegliare la costruzione.... Cesare badava infine con special cura a comprare anche a gran prezzo su tutti i mercati e a scegliere tra i prigionieri gli schiavi che potessero essergli utili151. Egli aveva bisogno di un numeroso personale di computisti, di segretari, di scrivani, di corrieri, di amministratori, di archivisti, di sorveglianti e servitori, per amministrare le grandi somme del governo e del patrimonio privato; per governare l’immensa provincia; per provvedere agli eserciti, agli intrighi politici, ai lavori pubblici; e se lo formava, questo personale, con compre in ogni paese; lo distribuiva a Roma, in Italia, nella Gallia Cisalpina e Transalpina, nelle città, presso le legioni, lungo le vie, dovunque fosse bisogno; lo perfezionava a poco a poco, sorvegliandolo tutto, sino agli schiavi più umili e nelle minime cose, stabilendo una gerarchia di promozioni, variando le ricompense dal solo vitto e vestito a un salario in denaro, alla libertà, al dono di case e tenute e capitali, mantenendo una disciplina terribile di castighi crudeli152. Così aveva messo tra l’infimo servidorame di casa un ragazzo catturato in una spedizione in Germania. Ma saputo un giorno per caso che il ragazzo prestava ad usura ai suoi compagni gli avanzi del cibo, ingegnandosi di tenere una rozza contabilità, lo aveva subito promosso dal basso servidorame negli uffici di amministrazione153, pensando forse che un così precoce usuraio, se non finiva su una croce, sarebbe arrivato lontano. E non si ingannava.

Nella primavera del 54 Cesare ritornò in Gallia, conducendo seco molti nuovi ufficiali tra i quali Quinto, fratello di Cicerone; unitisi a lui per seguirlo in Britannia, nel paese dei tesori! In quel tempo stesso Crasso, passato il Bosforo, entrava in Siria dal Nord, nei primi mesi del 54, rilevava Gabinio dal comando e si disponeva a invadere la Mesopotamia senza dichiarazione di guerra. Pompeo invece, mandati i suoi legati nella Spagna, restò vicino a Roma, con la scusa di provvedere agli approvigionamenti della metropoli, in verità perchè non parve opportuno alla cricca che tutti e tre restassero lontano da Roma, dove il piccolo partito conservatore si atteggiava ormai, per antitesi allo sfrenato imperialismo dei democratici, a difensore dei popoli oppressi da Roma. Si lamentava, nei salotti conservatori di Roma, la brutale rapacità di Cesare, le sùbite e scandalose fortune degli ufficiali, specialmente di Mamurra e di Labieno154; si domandava se gli eroi dell’imperialismo popolare non ambissero di far altro che rubar e divorar patrimoni155; si tentava di sollecitare l’assopita coscienza morale della nazione. Ma la nazione, trasportata da un entusiasmo contagioso di speranze e di desiderî, voleva denaro, conquiste, feste; considerava la Britannia e la Persia come già sottomesse; già spendeva o impegnava i tesori che vi si sarebbero conquistati, indebitandosi spensieratamente; ammirava Cesare, Crasso, Pompeo: Cesare specialmente, il più popolare di tutti per il momento, il generale unico156, come lo chiamavano i suoi ammiratori, l’uomo a cui si volgevan tutti gli occhi, di cui tutti, bene o male, parlavano. In tutte le età troppo cupide di piaceri e di denaro il carattere si indebolisce; gli uomini non sanno restare a lungo nella minoranza, compiacendosi alteramente di darsi ragione da sè; tutti mutano facilmente opinioni ed affetti. Così allora solo pochissimi, ostinati o già troppo compromessi, avevano forza di non convertirsi alla ammirazione della triarchia, che pareva destinata a meravigliosi ed eterni successi; quasi tutti cedevano, come aveva interamente ceduto Cicerone.... Crasso si era voluto riconciliare con lui prima di partire157; Pompeo mostrava in molti modi la considerazione in cui lo teneva158; Cesare, sempre più sollecito di guadagnare pienamente il massimo oratore e letterato della democrazia italica, ne trattava splendidamente il fratello, lusingava abilmente la sua vanità letteraria lodando gli scritti che gli mandava, accoglieva con premura tutte le persone che Cicerone gli raccomandava159. Questo borghese che temeva sempre di esser spregiato dai grandi, e che, anche a quella età, era sempre caloroso ed ingenuo nelle amicizie, si commoveva per tante lusinghe e benevolenze; concepiva una viva gratitudine e tenerezza verso quei tre grandi egoisti che lo trattavano così bene per interesse, una smania sincera di mostrare loro la propria riconoscenza, di lodarli, di far loro cose gradite, illudendosi di essere amato davvero. Solo di tempo in tempo qualche scandalo troppo grande lo commuoveva ancora. Così allora egli pensava di accusare Gabinio in Senato160; ma poi il desiderio di quiete, il contagio dell’altrui scetticismo, il sentimento della inutilità di tutto lo inducevano a lasciar correre; a sfogare il suo inquieto bisogno di lavoro nelle difese forensi161 e in molteplici opere di letteratura. Egli attendeva in quel tempo a un pietoso ufficio: riordinare i manoscritti di Lucrezio che si era ucciso l’anno innanzi, in un accesso della sua melanconia, esasperata, a quanto sembra, da abuso di bevande afrodisiache, lasciando non finito il poema162. Non solo: ma intendeva comporre un poema sulle gesta di Cesare in Britannia; e si raccoglieva a meditare e a scrivere – consolazione accademica di tutti gli uomini di Stato intelligenti esclusi dal potere e che disperano di riaverlo – un grosso libro di politica, il De Republica163, per esporre le idee che lo studio degli antichi filosofi, l’osservazione dei fatti presenti, le discussioni coi contemporanei gli avevano suggerito. Della democrazia pura si vedevano a Roma le convulsioni nel vuoto; l’aristocrazia non esisteva più; la monarchia era detestata a tal segno, che nessuno avrebbe potuto seriamente considerarla come un rimedio ai mali presenti. Restava la conciliazione aristotelica della monarchia, dell’aristocrazia, della democrazia; la costituzione nella Repubblica di una magistratura suprema, da confidarsi a volta a volta e per elezione a un cittadino eminente, munito di larghi poteri, che facesse rispettare a tutti le leggi del popolo e del Senato. Intanto nel mezzo di queste vaste contemplazioni Cicerone affettava eleganza con sì gran zelo, da rimproverare a Pisone in un discorso politico perfino di avere una brutta casa con pochi e sordidi servi che facevano tutti gli uffici164; e si lasciava andare a seguire il facile andazzo dei tempi, anche in cose di denaro. Cesare colse destramente il momento in cui egli si trovava in istrettezze e gli fece accettare un prestito considerevole165.

Invano prestava ai conservatori i giambi violenti, il volubile Catullo. Ritornato a Roma, egli aveva rotto definitivamente con Clodia, congedandosi da lei con una poesia amara e dolente166. Si era dato invece, cambiando argomenti metri e stile, alla poesia erudita, mitologica, raffinata degli Alessandrini e alla politica conservatrice: aveva composto nel selvaggio metro galliambo quello strano carme 63 sul culto orgiastico di Cibele; componeva l’Epitalamio di Teti e di Peleo167; esprimeva in brevi poesie violentissime i furori dei salotti aristocratici che frequentava, contro Cesare, contro Pompeo, contro i loro principali partigiani168, senza badare che Cesare era il governatore della provincia dove viveva suo padre; affettava, egli giovane provinciale, sentimenti ultra aristocratici, dinanzi alla democrazia vittoriosa, che ormai confondeva i ceti anche nelle altissime cariche. “Perfin Vatinio giura: quanto è vero che diventerò console! – Che più ti resta o Catullo se non morire?169” Ma la sua salute era rovinata; e a volte a volte cupi scoramenti lo assalivano, mentre attendeva a raccogliere la parte migliore delle sue poesie per farne un volumetto da dedicare a Cornelio Nipote. “Sta male, o Cornificio, il tuo Catullo; sta male ed è pieno di guai....”170

La primavera volgeva verso l’estate. Crasso aveva, senza dichiarazione di guerra, invasa la Mesopotamia, e ne occupava le diverse città; Cesare invece indugiava ad invadere la Britannia; e a Roma incominciavano i maneggi per le elezioni. Numerosissimi candidali si disputavano le varie magistrature, e non meno di cinque il consolato: Gaio Memmio Gemello, antico nemico ed ora nelle elezioni favorito di Cesare; Marco Valerio Messala, nobile di antica famiglia gradito ai conservatori; Marco Emilio Scauro; Caio Claudio, un altro fratello di Clodio, allora governatore dell’Asia; e Gneo Domizio Calvino171. Ma più che il numero fu cagione di scandalo e di spavento la mischia selvaggia di ambizioni e di bramosie che divampò a un tratto. Roma non aveva mai veduto frenesia simigliante. Tutti i magistrati in carica domandarono denaro ai concorrenti per aiutarli172; i due consoli conchiusero un regolare contratto con Memmio e Calvino, impegnandosi ad aiutarli a condizione che Memmio e Calvino, se eletti, avrebbero fatte avere a loro, con una complicata falsificazione, le Provincie che volevano, o pagati, non riuscendo, 400 000 sesterzi173; la corruzione superò ben presto tutte le folli profusioni di cui si avesse memoria; qualche candidato avendo fatto accusare di corruzione un rivale, tutti usarono la stessa minaccia; onde ben presto furon tutti sotto processo174. La gente savia considerava trasecolata questo pandemonio; nessuno avrebbe mai creduto che l’audacia, le cupidigie, le ambizioni, il cinismo potessero esplodere a un tratto in una gara così frenetica. Ma lo sbigottimento non guariva il male; anzi le accuse, le invettive, le minacele raddoppiarono di violenza e la corruzione di sfacciataggine all’avvicinarsi dei comizi; il denaro rincarì, tanto se ne cercava da tutte le parti175; le zuffe e gli assassinî tennero ben presto dietro alle invettive. I candidati e le loro cricche percorrevano Roma come forsennati; le elezioni sarebbero state una carneficina; molti si auguravano la nomina di un dittatore: ultimo scampo! Eppure nessuno faceva nulla contro le mene dei candidati, tranne che lamentarsi. L’intrepido Catone, che in quell’anno era pretore, riuscì a far deporre nelle sue mani, da tutti i concorrenti al tribunato, mezzo milione di sesterzi, minacciando di confiscarli a chi corromperebbe gli elettori176. Ma Pompeo, aristocratico dilettante di politica, lasciava fare, disgustato e irritato; i senatori non volevano prendere nessuna iniziativa pericolosa e non riuscivano a intendersi, sebbene tenessero lunghe e laboriose sedute177; sopravvennero i calori estivi, insopportabili ormai a questi troppo sensitivi discendenti di quei vecchi Romani che si abituavano a non sentire nè calore nè gelo; tutti dissero che non “aveva mai fatto tanto caldo178”; che bisognava fuggire in villa. Il Senato rimandò a settembre le elezioni consolari, sperando che frattanto la febbre elettorale darebbe giù, mentre si sarebbero discussi i numerosi processi179.

Anche Cicerone se ne andò ai freschi dell’Arpinate, a sorvegliare frattanto la costruzione d’una bella villa ed altre importanti migliorie agricole, ordinate da suo fratello Quinto, in Gallia con Cesare180. Cicerone, che amava teneramente il fratello, era allora molto inquieto per la spedizione britannica, che pareva imminente e di cui riceveva continue notizie del quartier generale di Cesare: temeva l’Oceano tempestoso e pauroso ai figli del Mediterraneo; temeva le difficoltà di uno sbarco in paese nemico181. Ma si farebbe davvero la spedizione? Al principio di luglio Quinto gli aveva scritto che Cesare era quasi in procinto di abbandonarne l’idea; perchè si era saputo che i Britanni si apparecchiavano a difendersi con gran vigore, che la conquista non avrebbe fruttato nè abbondanti metalli preziosi nè schiavi di pregio182. Ma un’altra cagione – che Quinto o non conosceva o non osò scrivere al fratello – faceva esitare Cesare: la malsicura condizione delle Gallie183. Appena tornato in Gallia Cesare aveva dovuto fare una breve spedizione nel territorio dei Treviri, che non avevano mandati i rappresentanti alla dieta; e trovando il paese in procinto di fare una guerra civile per la rivalità di Cingetorice e di Induziomaro, ambedue ambiziosi del supremo potere, aveva fatto nominar Cingetorice e costretto Induziomaro a sottomettersi: ma ciò facendo si era inimicato il partito di Induziomaro. Inoltre in tutta la Gallia la nobiltà tollerava così a malincuore le sue inframmettenze, le sue contribuzioni, la sua politica monarchica, che Cesare aveva ordinato ai più cospicui Galli di seguirlo in Britannia, per non lasciarsi pericoli alle spalle: ma questo ordine era stato cagione di nuovo malcontento; e Dummorige sollecitava i nobili Galli a disobbedire, spaventandoli che Cesare voleva farli tutti perire nel viaggio184. Impensierito da questo sordo malumore, Cesare era stato in forse, un momento, di abbandonar l’impresa; ma poi, sospinto dalla straordinaria aspettazione dell’Italia, dalla confidenza nella fortuna, dagli apparecchi già fatti185, aveva avviato cinque legioni e 2000 cavalli verso le coste dell’Oceano, a un porto che è difficile ritrovare sulle carte moderne, lasciando Labieno a sorvegliar la Gallia e gli approvvigionamenti, con altrettanti cavalli e tre legioni. Non era possibile fidarsi troppo della fedeltà gallica. Difatti, durante il viaggio verso il mare, Dummorige aveva tentato di fuggire con i suoi clienti; ma inseguito per ordine di Cesare, aveva dato battaglia ai persecutori ed era stato ucciso. Del resto Cesare intendeva ormai di fare, non una vera conquista, ma una breve scorreria, per soddisfare l’Italia: tanto è vero che tra i numerosi schiavi del quartier generale ne portò seco soltanto tre186, probabilmente un segretario e due corrieri. Sul cader di agosto187 Cicerone aveva saputo che alla fine di luglio188 (le lettere mettevano circa 28 giorni a giungere dalla Britannia a Roma) l’esercito aveva salpato ed era sbarcato felicemente. Ormai era tranquillo. Avvenuto lo sbarco, il generale unico non poteva non vincere189.

Intorno a questo tempo, verso la fine di agosto o il principio di settembre, Giulia, la moglie di Pompeo, morì, poco tempo dopo che già era morta la nonna, la veneranda madre di Cesare190. Morti immature avvenivano spesso, tanto i giovani erano fragili; in questo anno morì anche Catullo, trentenne; ma la morte di Giulia commosse Roma come un grande evento, perchè la giovinetta aveva uniti per quattro anni i destini dei due uomini più celebri del tempo.... Poi nuovi scandali distrassero un’altra volta il pubblico. Invano si era sperato, rinviando le elezioni, che il tempo fosse apportatore di buon consiglio agli ambiziosi. Dopo breve pausa, le mene, gli scandali, il mercimonio dei voti avevan ricominciato con maggior furore; sinchè Memmio venuto in discordia con Calvino lesse un giorno pubblicamente in Senato il contratto con i due consoli in carica191. Immaginarsi lo scandalo! Fastiditi da tanti imbrogli, i più non desideravano ormai se non che si facessero le elezioni, tanto per finirla, una volta: ma no, quando il termine si avvicinava, i tribuni della plebe incominciarono a rinviarle. Memmio, temendo dopo lo scandalo di non riuscire, voleva aspettare che Cesare fosse tornato nella Gallia Cisalpina, per esserne meglio aiutato192. Disgraziatamente per lui, Cesare aveva allora ben altre cure. Cicerone aveva ricevute lettere dal fratello e da Cesare sino alla fine di settembre (l’ultima di Cesare portava la data del 1° settembre), con notizie se non lietissime non inquietanti193: Cesare aveva costruito un campo in riva al mare e incominciata una spedizione all’interno; ma dopo pochi giorni aveva dovuto lasciar Quinto e il corpo di spedizione per ritornare alla costa, a provvedere alla flotta che una tempesta aveva sconquassata194. Poscia Cicerone non ricevendo più lettere, aveva incominciato a impensierirsi: sinchè al 20 ottobre, mancando notizie da 50 giorni, non solo a lui ma a tutti in Roma, era inquietissimo195. Che cosa succedeva nella lontana isola favolosa? L’ansietà era grande a Roma. Per fortuna di lì a qualche giorno le lettere arrivarono; e il 24 ottobre Cicerone potè riscrivere più tranquillo196. Cesare si era avventurato verso il Tamigi contro il re Cassivellauno; ma costui, spopolato il paese e diviso l’esercito in piccole schiere tutte a cavallo, lo aveva, provocandolo con scaramuccie e fuggendogli innanzi, tratto lontano dal mare, per selve e paludi; poi aveva dato ordine ai re delle regioni che Cesare si era lasciate alle spalle di prendere le armi. Così le comunicazioni di Cesare con il mare e l’accampamento erano state interrotte; e le legioni, pur vincendo nelle piccole scaramuccie, si estenuavano a combattere contro le piccole e veloci bande a cavallo di Cassivellauno, che ronzavano loro intorno come sciami di vespe, a inseguire e distrugger le quali non bastava la poca cavalleria. Cesare si accorse che la fatica era vana e l’impresa pericolosa, perchè i viveri si sarebbero esauriti e gli approvvigionamenti erano difficli; Commio l’Atrebate che era amico di Cassivellauno si interpose; la pace fu fatta197. Cesare dice che impose un tributo alla Britannia198, ma è certo che Cassivellauno se anche promise non pagò nulla, dopochè Cesare ebbe salpato con l’esercito alla volta della Gallia, nella prima metà di ottobre199, con l’unica preda di molti schiavi. La conquista della Britannia era stata una delusione200.

Sbarcando in Gallia, Cesare apprese la morte di Giulia201. Era una sventura per il padre amoroso, cui la bella fanciulla ricordava il primo e forse unico amore della vita, i begli anni lontani della giovinezza, Cornelia, la figlia di Cinna per cui aveva rischiato morire, e che era come la figlia caduta anche essa, fragile fiore reciso ancor fresco dalla morte, sull’orlo della giovinezza. Era una sventura per il capo del partito democratico, cui Giulia aveva mantenuta fedele, con i vezzi pudichi, l’amicizia di Pompeo. Ma non ebbe tempo di abbandonarsi al dolore. Troppe gravi faccende lo incalzavano: in Gallia, dove la minaccia di una carestia lo costringeva a dislocare le legioni in molti quartieri d’inverno; a Roma, dove Gabinio era tornato quasi di nascosto in settembre202, seguito poco dopo da Rabirio, il ministro delle finanze egiziane, che, partito Gabinio, era stato costretto a fuggire da una sollevazione popolare; aspettati ambedue dal piccolo manipolo conservatore che voleva assalire in loro, non potendo in Cesare, Crasso e Pompeo, la democrazia bellicosa e arruffona. Gabinio fu infatti accusato di maiestas e di concussione, Rabirio soltanto di concussione. Ma anche questi processi furono cagione di intrighi e di imbrogli203. Pompeo tentò, ma invano, di indurre Cicerone a difendere Gabinio204; pure Gabinio fu assolto con debole maggioranza, nel primo processo205; e si preparò a rispondere al secondo. Pompeo tentò una volta ancora Cicerone, riuscendo questa volta a persuaderlo; egli stesso parlò in difesa di Gabinio al popolo, lesse lettere di Cesare in suo favore: ma Gabinio questa volta fu condannato206. Pare invece che a Cicerone riescisse di far assolvere di lì a poco Rabido, con il discorso che possediamo ancora.

Ma Memmio attese invano, di settimana in settimana, il ritorno di Cesare. Cesare era già stato costretto a mandare una legione nel territorio dei Carnuti, dove Tasgeto era stato ucciso; ma quando era sulle mosse per venire nella Cisalpina, egli ricevè a Samarobriva (Amiens) la notizia che gli Eburoni, piccolo e oscuro popolo dei Belgi, erano insorti sotto la condotta di due nobili, Ambiorige e Catuvolco; avevan sorpreso, fatto uscire con un inganno dagli accampamenti e trucidate in via le quindici coorti – circa 5000 uomini – svernanti nel loro paese, al comando di Titurio e di Arunculeio; poi sollevati altri popoli erano corsi contro Quinto Cicerone, che svernava tra i Nervii, assediandolo nell’accampamento. Egli sospese il viaggio e corse subito a liberar Quinto: ma poi, altre piccole insurrezioni essendo scoppiate qua e là, dovè rinunziare definitivamente a visitare la Cisalpina, per quell’anno. Così e Cesare troppo distratto dalle cure della guerra lontana; e Pompeo sopraffatto dalle brighe necessarie a salvare i suoi amici; e i consoli esautorati dallo scandalo di Memmio; e il Senato impotente abbandonarono lo Stato alla ventura; onde si arrivò alla fine dell’anno senza aver fatta nessuna elezione. L’anno 53 incominciò con tutte le cariche vuote e la sfrenata anarchia di un interregno impotente.

VI.
LA GRANDE CATASTROFE
DELLA DEMOCRAZIA IMPERIALISTA:
LA INVASIONE DELLA PERSIA.
(Anno 53 a. C.)

Ma al disordine interno si sarebbero presto aggiunti gravi pericoli esterni. Cesare, ormai nel pieno vigore delle forze e nel pieno favore della fortuna, ricco potente ammirato, poteva riprendere senza sforzo ogni mattina l’immenso, molteplice e frettoloso cómpito di lavoro necessario a governare l’Italia, la Gallia e l’impero, tanto aveva indurito il fragile corpo ed esercitata la elastica vigoria dello spirito. Eppure la lunga inquietudine per la condizione della Gallia, crescendo sempre, incominciava a irritarlo. Egli aveva anche, in quegli anni operosi, studiata la società gallica; e poichè la lucidezza e la penetrazione del suo pensiero, la divina facoltà di concentrare le sparse osservazioni di una realtà vasta in dense immagini sintetiche, crescevano con l’esercizio sempre più intenso e rapido e vario delle sue facoltà era riuscito a raffigurarsi idealmente, nei fatti essenziali, il gran paese, in cui vivevano, sopra una terra fertile ma ancora troppo ingombra di selve e paludi, da quattro a cinque milioni di uomini207. La Gallia non era più quella che aveva tanto spaventato Roma nei secoli lontani e ai tempi di Mario. Cesare ne aveva ancora osservato qualche avanzo tra i Belgi e gli Elvezi: ma nelle altre nazioni vedeva invece la vecchia Gallia agricola, aristocratica, bellicosa mutarsi, come l’Italia un secolo prima, in nazione mercantile e industriale; dissolversi a poco a poco per opera dei mercanti transmarini, che facevano conoscere ai Galli molte cose della civiltà ellenica e della latina, dagli alfabeti al vino e ai conii artistici delle monete208. Infatti l’abbandono dei vecchi costumi celtici, in mezzo a cui Cesare capitava nel paese, l’aumento del costo della vita e lo sforzo più intenso di guadagnare, eran cagione alla Gallia di una crisi, somigliante a quella che aveva imperversato in Italia, nei cinquant’anni dopo i Gracchi. La vecchia nobiltà possidente che aveva formato una specie di medio ceto politico e guerresco, e la piccola proprietà libera si indebitavano e sparivano; cresceva di potenza e di ricchezza quella plutocrazia arricchita con le usure, le guerre, l’appalto delle pubbliche gabelle, che Cesare cercava fare sostegno del governo romano; dei numerosi Galli che la concentrazione delle proprietà, i debiti, le guerre rovinavano, molti si buttavano alla campagna, formando quei perditi homines et latrones, cui Cesare allude così spesso; altri si davano al commercio tra le varie nazioni galliche, con i Germani, con i Britanni, con i Romani209; altri si riducevano nei villaggi, formando a poco a poco un artigianato.... Tra la moltitudine dei piccoli e poveri villaggi sparsi per la Gallia, già cresceva qualche città più popolosa e più ricca, come Avarico, Gergovia, Bibracte; il commercio degli schiavi con l’Italia fioriva; alcune industrie progredivano, come la ceramica, la metallurgia dell’oro, dell’argento e del ferro, la tessitura, la preparazione dei prosciutti....210 Ma questa popolazione industriale, in una società semibarbara e in crisi, abbisognava di protezione e di capitale211; che trovava indebitandosi con i pochi potenti plutocrati, aiutandone in cambio le ambizioni politiche, qualche volta seguendoli alla guerra. Alla clientela di questo popolino i pochi ricchi aggiungevano il proprio servidorame: gli uomini che per la ricompensa del vitto e di qualche dono coltivavano le loro terre, li seguivano nelle spedizioni, li servivano nelle vaste case solitarie, poste quasi sempre sulla riva di un fiume, in mezzo a una foresta; le torme di cavalieri che essi mantenevano a proprie spese e che conducevano alla guerra212; turbando così, con tanta potenza personale, l’antico equilibrio politico delle istituzioni repubblicane.

Certo, la decadenza della antica aristocrazia celtica e l’aumento dell’artigianato urbano scemavano il vigore militare della Gallia. Cesare si era accorto da un pezzo che le milizie galliche erano molto degenerate da quelle di un tempo213. Quel popolino di servitori e di artigiani viventi nelle città era, come la plebe italica, poco atto alle armi; agli avanzi della plebe campagnuola scarseggiavano ormai i capi, i numerosi ed autorevoli nobili che in antico li avevano condotti alla guerra; le torme di cavalieri assoldate dai ricchissimi plutocrati componevano la parte migliore dell’esercito, ma erano corpi quasi privati, che non riconoscevano altra autorità che quella del proprio signore. Eppure Cesare era inquieto a tal segno, che nell’inverno si risolvè ad aumentare l’esercito reclutando, in luogo delle quindici che Ambiorige aveva distrutte, trenta coorti, che in parte fece reclutare nella Gallia Cisalpina egli stesso, in parte gli furon cedute da Pompeo, tra le coorti che anche egli aveva reclutate nella Gallia Cisalpina214. Fondare un governo straniero in quella società in crisi, era così difficile come piantare le pile di un gran ponte tra i vortici di un fiume precipitoso.... Non solo la lingua e le tradizioni erano comuni in tutta la Gallia, ma la religione druidica, che un potentissimo sacerdozio scelto tra la nobiltà215 governava; onde, non ostante le guerre continue tra i vari popoli, il sentimento nazionale era intenso nella Gallia; e sotto lo stimolo dell’intrusione straniera si risvegliava visibilmente, di anno in anno. Questo solo pericolo era già grave; ma lo accresceva la fatale necessità in cui Cesare si era trovato, in quel disordine sociale, di offendere interessi locali, di partito, di classe. Infatti la aristocrazia repubblicana, adirata per la sua politica monarchica, già si volgeva contro di lui.... Sul finire del 54 i Carnuti avevano trucidato Tasgeto216; e nell’inverno del 53 Cavarino, il re da lui dato ai Senoni, era costretto a fuggire, perchè un partito, con a capo Accone, minacciava di metterlo sotto processo217. Eppure non per questo la plutocrazia demagoga gli diventava sinceramente amica. La aristocrazia repubblicana, rovinata dalle guerre continue, minacciata dalla prepotente plutocrazia demagoga, avrebbe potuto, se non troppo vivamente offesa nel sentimento nazionale, accettare il protettorato romano, che ristabilisse l’ordine nella agitazione perenne di quella dissoluzione sociale: non l’avrebbero invece accettato mai, definitivamente, quei pochi potentissimi signori di terre e di capitali, che la ricchezza, lo sterminato stuolo dei clienti, il favor della plebe facevano orgogliosi, ambiziosi, intolleranti di leggi; che spingevano continuamente la propria nazione a guerre con i vicini, per impadronirsi di schiavi, di metalli preziosi, di territori soggetti a tributi, di fiumi chiusi da pedaggi. Si aggiungevano infine ad accrescere il malcontento i danni della signoria straniera. La Gallia doveva pagare una contribuzione in denaro; provvedere molta parte delle cose necessarie all’esercito romano; esser sempre pronta alle nuove richieste di contingenti militari, che obbligavano i nobili ad armare una parte dei loro clienti, a mantenerli con grave spesa alla guerra, a perderne un certo numero senza profitto. Nè mancavano guasti e soverchierie dei soldati, spese necessarie a offrir l’ospitalità agli ufficiali superiori, nei loro giri. Già in parecchie città della Gallia e al seguito dell’esercito abbondavano i negotiatores italiani, che – è facile indovinarlo – non compravano solo le prede; ma esercitavan l’usura, facendo concorrenza ai pochi ricchi capitalisti indigeni; a quei plutocrati che Cesare voleva amici. Nel disordine di questa decomposizione e ricomposizione sociale, non solo le istituzioni e le dottrine, ma anche gli spiriti dei singoli e delle folle diventavano instabili, come un’atmosfera primaverile....

Intanto in quell’inverno le notizie suonavano inquietanti da ogni parte. I Nervii, gli Aduatici, i Menapii, si armavano; i Senoni rifiutavano i contingenti e trattavano con i Carnuti; Ambiorige si studiava di riattizzar la guerra. Cesare, inquieto ed irritato, senza nemmeno aspettar la primavera, fece con le quattro legioni più novizie una improvvisa irruzione nel territorio dei Nervii, per spaventare tutti i ribelli; catturò un’immensa quantità di bestiame e moltissimi uomini, che distribuì ai soldati218; poi riunì, nel mese di marzo, a Samarobriva (Amiens) l’assemblea delle nazioni galliche. Ma non vi trovò i rappresentanti dei Treveri, dei Senoni, dei Carnuti; onde in un impeto d’ira, con prontezza violenta, annunciò di portar l’assemblea a Lutezia dei Parisii, che era vicina ai confini dei Senoni, per castigar subito i ribelli; e partì il giorno stesso con le legioni a marcie forzate. Ormai era stanco di questa prolungata irrequietezza di tanti popoli; e voleva dare un esempio, senza indugio. Ma la rapidità dell’invasione scoraggì i ribelli; i Senoni domandarono perdono e l’ottennero, a condizione di dare ostaggi; i Carnuti impressionati ne seguiron tosto l’esempio. Allora Cesare volendo finirla almeno con Ambiorige, mandò a Labieno, che svernava nel territorio dei Treveri, tutti i bagagli dell’esercito e due legioni; ed egli con cinque legioni invase il territorio dei Menapii, presso i quali temeva potesse rifugiarsi il ribelle. Questi abbandonarono al suo avvicinarsi i villaggi e si dispersero in piccole bande nelle paludi e nei boschi; per i quali Cesare slanciò l’esercito diviso in tre colonne, di cui una al comando suo, una di Caio Fabio, una di Marco Crasso, un altro figlio del gran banchiere, incominciando una caccia accanita agli uomini e al bestiame e una guerra di incendi contro i villaggi, sinchè i Menapii spaventati mandarono a domandar pace. Ma Ambiorige non fu catturato.

Nello stesso tempo a Roma continuavano le zuffe e i tumulti, cosicchè le elezioni non avevano luogo; e il vecchio, fortunatissimo, ricchissimo banchiere e soldato s’avviava verso la Persia, tratto dalla fretta e dall’orgoglio, in linea diritta, quasi prima vittima predestinata, a espiare lo smisurato delirio di grandezza in cui vaneggiava l’Italia. Unendo le milizie portate dall’Italia con quelle trovate in Siria, Crasso aveva radunato un esercito di 5000 cavalieri, di 4000 ausiliari e di nove legioni, ciascuna composta di circa 3500 uomini; in tutto 40 000 uomini219, con i quali si accinse subito a invader la Persia. Veramente, appena fu giunto in Siria, nel 54, la fretta che lo incalzava fin da Roma sulla via del destino si era quetata un momento, nella calma preparazione ed esecuzione di un piano di guerra eccellente, che è prova della sua intelligenza. Egli si era impadronito subito e aveva fortificato il ponte sull’Eufrate a Zeugma; aveva varcato il fiume e occupate le città greche della Mesopotamia, Apameia, Carre, Iene, Niceforio, sconfiggendo facilmente un generale partico, che si trovava nella regione con poche forze; poi lasciati settemila uomini (due legioni probabilmente) e mille cavalieri nelle città, era tornato a svernare in Siria220. Questo ritorno in Siria fu severamente biasimato dagli antichi come un gravissimo errore221, perchè diè tempo al nemico di prepararsi. Ma è probabile che Crasso, prendendo le città greche della Mesopotamia, mirasse ad attirare il nemico dal fondo della Persia verso l’Eufrate, per venire a battaglia meno lontano che fosse possibile dalla provincia, con le spalle sicure, con una base d’operazione vicina e una buona via di ritirata; mentre sprofondandosi nella Persia avrebbe commesso l’errore che molti secoli dopo commetterà Napoleone avanzando su Mosca, e si sarebbe esposto al rischio di essere assalito con l’esercito stanco da una lunga marcia, sgomento per la lontananza dal proprio paese, mal provvisto per linee di comunicazioni lunghissime e poco sicure. Saviamente perciò Crasso si ritrasse ad aspettare l’effetto della sua provocazione in Siria, dove si diè a far denaro, vuotando, tra gli altri, il tesoro del tempio di Gerusalemme; a far pratiche per intendersi con il re di Armenia e gli altri principi indipendenti o semi-indipendenti della Mesopotamia, come l’Abgaro d’Edessa, che era stato molto amico di Pompeo.

In principio la sua strategia parve riuscire: nella primavera del 53 giunse notizia che le guarnigioni lasciate da Crasso in Mesopotamia erano assediate dai Parti. I Parti venivano dunque a tiro.... Il re dei Parti aveva deliberato infatti di dividere le sue forze; invader egli con il fiore delle fanterie partiche la montuosa Armenia e mandare quasi tutta la cavalleria, leggera e pesante, sotto il comando del Surena o generalissimo nella Mesopotamia222. Quale fosse lo scopo cui i Parti miravano sino d’allora con questa mossa verso la Siria, noi non sappiamo; e sarebbe temerario volerlo argomentare dall’effetto che sortì. A ogni modo è certo che l’impazienza del vecchio romano, sopita per un momento, si risvegliò a un tratto all’avvicinarsi del nemico; che quando seppe i Parti vicini Crasso, felice di veder riuscire il suo piano, non ebbe più che un pensiero: slanciarsi loro addosso, subito; che una paura: non giungere a tempo. Qualche profugo dagli assedi portò notizie strane che commossero quell’esercito novizio: erano grandi moltitudini di cavalieri, tutti bardati di ferro, velocissimi, fierissimi, abilissimi nel lanciare freccie dai grandi archi con forza prodigiosa! Alcuni dei generali, scossi da queste notizie, proposero di riconsiderare da capo a fondo tutto il piano dell’impresa prima di avventurarsi223; e come a confermare l’opportunità del consiglio, arrivò di lì a poco il re d’Armenia Artabase con 6000 cavalli, che si dichiarò pronto a fornire altri 10 000 cavalieri e 30 000 fanti, purchè Crasso invadesse il paese nemico dall’Armenia, dove i Parti non avrebbero potuto, in mezzo ai monti, usare la cavalleria224. Ma il vecchio banchiere, di giorno in giorno più impaziente, protestò di non potere abbandonare alla loro sorte i Romani assediati; passò l’Eufrate a Zeugma con sette legioni, 4000 cavalieri e gli ausiliari; e si incamminò per la via interna della Mesopotamia alla volta di Carre, incontro all’esercito partico225. Le sette legioni, la cavalleria, gli ausiliari, i 500 giumenti che ogni legione si traeva dietro, condotti da schiavi e carichi di grano e di tende, dovevan formare sulla gran via mesopotamica una processione lunga più di 21 chilometri226. Ma l’avanzata era incominciata da poco, quando gli esploratori portarono al comando singolari notizie: i Parti avevano levato l’assedio in ogni luogo e si ritiravano; il paese era sgombro e il terreno, per immense estensioni, coperto di orme di cavalli, come di un grande esercito in ritirata. Queste notizie generarono una certa agitazione nel quartier generale romano: a che cosa miravano i Parti? Cassio, quel genero di Servilia che seguiva Crasso come questore e che era un giovane intelligente, consigliò il generale o a ricondurre l’esercito in una delle città già conquistate per raccogliere più precise informazioni sul nemico; o ad abbandonare, poichè le città erano salve, l’inseguimento e marciare su Seleucia lungo l’Eufrate, per la via seguita dai diecimila e descritta da Senofonte, con il fianco destro dell’esercito difeso dal fiume e gli approvvigionamenti sicuri. Crasso, un poco impressionato, esitò e convocò un consiglio di guerra....227 Anche questa esitazione era savia. Il Surena, quali fossero le intenzioni prime con cui si era mosso, aveva ora, probabilmente per informazioni avute dall’Abgaro di Edessa che era d’accordo con i Parti, concepito un piano audace e ingegnoso: come Crasso aveva cercato di tirare i Parti sin presso alla frontiera siriaca, tentare a sua volta di trarre i Romani, fuggendo loro innanzi, più lontano che potesse, oltre il fiume Cabur, dopo il quale incomincia il deserto228. Al comando romano si intuiva l’insidia; ma disgraziatamente l’Abgaro di Edessa, l’antico amico di Pompeo in cui Crasso fidava senza sospetto, prese a stimolare abilmente la fretta e l’avarizia di Crasso, dicendogli che i Parti già si disponevano a trasportare i tesori nelle montagne, che rincorrendo il Surena potrebbe disfarlo prima che unisse le sue forze con quelle del re229; e lo incitò a commetter l’errore che gli storici rimproverano a Crasso di non aver commesso l’anno avanti. Pur troppo l’impazienza ridesta dalla vicinanza del nemico, la cupidigia, la orgogliosa confidenza nella propria fortuna, la ripugnanza a mutare idea poteron più, questa volta, che i consigli della prudenza; e Crasso avventò l’esercito sull’orme dei Parti, forzandolo a marcie lunghissime nella caldura del maggio, sperando di raggiungere presto il nemico. Ma i giorni passavano, la faticosa marcia continuava, e il nemico non si vedeva; l’esercito si stancava e si avviliva, in questo inseguimento affannoso di un nemico invisibile, che nessuno sapeva quando sarebbe raggiunto; Crasso incominciava a inquietarsi e a irritarsi, impedito di tornare indietro dalla via già fatta e temendo di andar troppo avanti; voci di tradimento presero a girare; Cassio, che aveva vista acuta e mente sagace, pose gli occhi addosso all’Abgaro di Edessa e lo maltrattò più volte, ma senza poter farlo uscire dall’umile rispetto in cui si teneva, specialmente verso di lui230. Un giorno giunsero corrieri del re d’Armenia ad avvisare che il re dei Parti aveva invaso il suo regno e che perciò non poteva mandar soccorsi; ripeteva il consiglio di portar la guerra in Armenia o, se questo disegno proprio spiaceva, di evitare il deserto e il piano, dove la cavalleria parta poteva agire. Cassio capì subito la saviezza dell’avviso; ma Crasso, che gli anni, la fatica, il caldo, le incipienti inquietudini facevano irascibile, che il fato destinava ad espiare primo il delirio di grandezza della generazione sua, andò in furia contro chi dava il buon consiglio, come avviene spesso agli orgogliosi che incominciano ad accorgersi di aver commesso un errore e non vogliono confessarlo; anzi ci si ostinano. Egli congedò brutalmente gli ambasciatori, dicendo che, finita la guerra, avrebbe punito il tradimento del re armeno come meritava231. E continuò ad avanzare, senza veder mai il nemico o averne notizie. Alla fine, dopo molti giorni di marcia estenuante232 – era la fine di maggio o i primi giorni di giugno – oltrepassata da poco la città di Carre, quando l’esercito stava per giungere al fiume Belik, alcuni esploratori tornarono trafelati, dicendo di aver incontrato a poca distanza un grande esercito nemico che si avanzava rapidamente per assalirli di sorpresa e che aveva ucciso il maggior numero degli esploratori. Qual motivo aveva indotto i Parti a questo assalto? Forse qualche segreto avviso dell’Abgaro di Edessa che l’esercito romano era disanimato e spossato? Certo è che i soldati già nervosi per la fatica furono un poco agitati dalla notizia; gli ufficiali avrebbero voluto che l’esercito piantasse il campo sul fiume; ma Crasso, che la stanchezza, la inquietudine per la condizione dell’esercito, la paura che il nemico ricominciasse a fuggire rendevano pronto a risoluzioni precipitose, si risolvè, dopo breve esitazione, a tentar subito la battaglia.

Da principio egli aveva ordinato che, secondo consigliavano i tattici romani quando un esercito stava per essere assalito da grossi nembi di cavalleria, le settanta coorti si disponessero su una sola linea, composta di dieci file, continua, senza intervalli, come un nastro. Ma a spiegare così, sopra una fronte di circa 12 chilometri (tanto spazio occupavano settanta coorti poste l’una accanto all’altra233) un esercito sorpreso in colonna di marcia lunga 21 chilometri, era necessario molto tempo; onde il frettoloso e inquieto Crasso perdè nel bel mezzo del rivolgimento la pazienza e mutato consiglio dispose che le quattro legioni più vicine si ordinassero in quadrato con una fronte di dodici coorti, ciascuna rinforzata di cavalleria, un fianco di otto, i giumenti e i bagagli nel mezzo234; diede il comando di un’ala al figlio, quello dell’altra a Cassio; egli si pose al centro; fece fare colazione ai soldati alla svelta, in piedi; e ordinò al quadrato di passare il ruscello e di spingersi contro il nemico, rapidamente235, seguito dalle tre legioni. Ben presto si videro gruppi oscuri di cavalieri apparire all’orizzonte, avanzar lentamente. Non parevan numerosi: era questo il terribile e sterminato esercito dei Parti? Ma in breve quelle turbe crebbero; grosse frotte di cavalieri apparvero sfolgoranti nelle corazze di acciaio; e poi altre e poi altre, sinchè la testa dell’esercito che il Surena aveva nascosto dietro una collina, la cavalleria pesante, si mostrò tutta e si precipitò con le lancie tese contro il quadrato romano, tentando di romperlo. Nè le grida nè l’impeto subitaneo scossero le coorti romane che ricevettero, lanciando i giavellotti, le cariche che si seguivano; poi le cariche rallentarono, come l’impeto dei cavalieri che si raccoglievano a qualche distanza fosse già stanco. Crasso credè che la battaglia sarebbe presto finita; e mandò fuori di corsa gli arcieri, i frombolieri e la fanteria leggera a perseguitare i fuggenti. Ma furono ricevuti a mezza corsa e respinti da una grandine di saette, fittissime, ronzanti, sibilanti, lanciate con una forza prodigiosa dalla cavalleria leggera composta di arcieri, che frattanto si avvicinava, spiegandosi, a quanto pare, in gran semicerchio ai due fianchi della cavalleria pesante, e quasi sospingendo questa, rivoltatasi di nuovo, a correre e ricorrere addosso alle linee romane. Ben presto le freccie lanciate dai fianchi e sopra i capi dei cavalieri pesanti con tiro parabolico236, volarono oltre, caddero nelle prime file, sibilarono su le teste, caddero nel mezzo del quadrato, tempestarono da tutte le parti, fitte ronzanti violente, spaventando con le ombre ed i sibili, rompendo gli scudi, piantandosi nelle carni. Crasso e gli ufficiali incoraggiarono i soldati: avessero pazienza, il nemico presto esaurirebbe gli strali; slanciarono anche qualche coorte contro il nemico per muovere un poco i soldati e animarli. Ma appena i Romani si avvicinavano, i Parti fuggivano pur continuando, volti indietro sul cavallo, a lanciar freccie; e le coorti doveano ritornare nel quadrato, che la pioggia degli strali flagellava implacabile, come se i Parti non vuotassero mai i loro turcassi. Gli ufficiali capirono alla fine la cagione, osservando lontano all’orizzonte una lunga fila di cammelli, verso la quale di tempo in tempo accorreva un gruppo di cavalieri; era un immenso carico di freccie che aveva seguito l’esercito237. Le legioni, costrette a ricevere passivamente una grandine di saette micidiali, si scoraggivano; Crasso voleva fare e non sapeva che cosa; quando si accorse che il nemico tentava di avvolgere, con un largo giro, l’ala comandata da suo figlio Publio. Subito egli ordinò a questi di ributtare il nemico; e Publio, radunati in frotta 1300 cavalieri, tra i quali i suoi 1000 Galli, 500 arcieri e 8 coorti, si slanciò con foga violenta. Il nemico parve ritirarsi, spaventato; già spariva tra nembi di polvere all’orizzonte, incalzato dai Romani; la terribile pioggia di freccie quetava; l’esercito e Crasso credettero la battaglia finita e aspettarono di miglior animo il ritorno di Publio. Ma ecco di lì a poco, arrivare a gran carriera dei messi: Publio domandava soccorso; i Parti fuggendo l’avevan tratto lontano; e poi d’improvviso, voltatisi, avevano accerchiata la piccola schiera; si era impegnata una mischia terribile, nella quale il giovane eroe sarebbe oppresso se non riceveva pronto soccorso. Crasso si affrettò ad accorrere con tutto l’esercito; ma si era appena mosso, quando ecco riapparire una gran nuvola di polvere, rilucere tra quella lampi di acciaio, suonare un tumulto di grida selvaggie.... I Parti ritornavano, veloci, feroci, violenti; un cavaliere li precedeva, portando sulla lancia un oggetto nero.... I Romani dovettero fermarsi, aspettare; e quando le schiere si furono ancora avvicinate, gli occhi più acuti riconobbero che quella cosa nera issata sulla punta della lancia era la testa di Publio Crasso. Tutto l’esercito capì subito che la schiera era stata distrutta e rabbrividì di orrore; ma l’orgoglioso banchiere, che aveva sfidato sino allora tanta procella, non si avvilì; corse i ranghi dei soldati gridando loro che la morte di Publio era una disgrazia sua; essi facessero il loro dovere e ributtassero il nuovo assalto. Difatti tutto intorno all’esercito si era allargato un semicerchio di saettatori che fulminavano le coorti romane, mentre dal centro prorompevano una dopo l’altra ondate di cavalieri con le lancie tese per sfondare, disperdere, trucidare l’esercito romano. Ma anche questa volta le coorti romane stettero salde; e alla fine i cavalieri parti, stanchi da tante corse furibonde, vuotati i turcassi, spuntate le lancie e ottuse le sciabole, si ritirarono238, quando videro il sole declinare.

È probabile che alla sera i Parti credessero di aver perduta la giornata. Questa cavalleria di arcieri, che doveva portarsi dietro l’acqua e i carichi delle freccie, che avea bisogno di larghi pascoli e che non poteva indugiare a lungo in un paese, aveva certo sperato di scompigliare con un assalto improvviso l’esercito romano, gettare il panico fra le legioni, trucidarle nel disordine che sarebbe seguito. Invece, pur ricevendo crudeli ferite, le legioni avevan resistito, senza sbandarsi239. Fortunatamente per i Parti però le perdite considerevoli, la insolita maniera di combattere, la lontananza dalla Siria, la morte di Publio Crasso avevano esausti i nervi dei Romani, nel cui campo alla sera tutti, dai soldati allo stato maggiore, credettero di essere stati vinti. Crasso stesso, che durante la giornata aveva comandato con energia meravigliosa, la sera si ritrasse nella tenda, affranto per la morte del figlio diletto e per la sciagura dell’esercito. Per fortuna Cassio vegliava; e credendo che i Parti esultanti per la vittoria assalirebbero di nuovo il giorno dopo l’esercito stanco e disanimato, pensò che bisognava nella notte stessa ritirarsi su Carre; trasse Crasso dal suo dolore; lo indusse a dar subito l’ordine della ritirata240. Nella notte l’esercito abbandonò, in gran disordine, il campo di battaglia e circa 4000 feriti, che i Parti uccisero il giorno dopo: ma potè all’alba ripararsi tutto a Carre, salvo quattro coorti che nel disordine della notte oscura perderono la via e furono il giorno dopo sorprese e trucidate dal nemico241. Esso poteva ora facilmente porsi in salvo, rifacendo a ritroso con rapide marcie la strada percorsa, sulla quale i Parti avrebbero presto dovuto tralasciar di inseguirlo, per mancanza di acqua e foraggi. Difatti il generalissimo dei Parti fu molto inquieto, quando venne al suo orecchio la diceria che a Carre si eran rifugiati solo i dispersi, mentre l’esercito camminava veloce verso l’Eufrate242. Pur troppo invece i soldati romani erano così avviliti, avevano concepito un tal terrore dei Parti, che gli ufficiali capirono esser pericoloso avventurarsi fuori dalla città, nella pianura infestata dai terribili cavalieri, senza aver avuto rinforzi; e un consiglio di guerra risolvè di domandare aiuti al re d’Armenia, di aspettarli in Carre, e poi ritirarsi, probabilmente per la via dell’Armenia243. A ogni modo una lunga dimora in Carre poteva egualmente costringere i Parti a ritirarsi, senza un successo decisivo.... Ma il generalissimo dei Parti voleva tornare alla Corte con una vittoria autentica, a tutti i costi; e quando avanzatosi sin sotto Carre venne a sapere che tutto l’esercito vi si trovava e scoraggito profondamente, concepì l’ astuto disegno di far sapere, in vari modi, ai soldati romani che lascerebbe loro la ritirata libera, se gli consegnassero Cassio e Crasso, contentandosi, se non aveva potuto distrugger l’esercito nemico, di portar nella reggia del suo re l’autore della guerra. E la perfidia fu immaginata abilmente. Questi incitamenti alla rivolta misero in scompiglio lo stato maggiore romano già inquieto: bisognava non indugiar più in Carre ad aspettare gli incerti soccorsi armeni, ritirarsi subito per impedire che l’esercito, già stanco e spaurito, prestasse orecchio alle perfide seduzioni244; Crasso, troppo turbato ormai dall’impensata vicenda della guerra, si lasciò smuovere dalle sollecitazioni affannose degli ufficiali, e mutando idea, ordinò precipitosamente la ritirata. Ma per qual via? Cassio consigliava di rifar la via dell’avanzata; Crasso invece, sia che fosse ingannato da un notabile di Carre, Andromaco, sia che temesse avventurare i soldati nella pianura, sia che dopo aver ceduto alle sollecitazioni altrui nella questione della ritirata si impuntasse in quella della via, scelse la strada montuosa dell’Armenia. L’esercito romano si avviò verso le montagne dell’Armenia per strade difficili e regioni paludose, camminando di notte; e il generalissimo parto, inquieto di vederlo sfuggire si mise a perseguitarlo come poteva; ma l’inseguimento era malagevole e fiacco in quel terreno cattivo per la cavalleria. Eppure i Romani, disanimati e ormai impressionabili come fanciulli, ne eran sgomenti; con la fatica cresceva l’avvilimento dei soldati, la nervosità, l’irritabilità, la discordia degli ufficiali; lo stato maggiore si disfaceva; Crasso perdeva la calma, la sicurezza delle deliberazioni, l’autorità sugli ufficiali, mentre il Surena continuava ad incitare con vari artifici i legionari al tradimento. Un giorno – tanto i nervi di tutti eran irritati, nello stato maggiore – egli ebbe un diverbio violento con Cassio, che non ristava dal criticare e ammonire; e nell’ira gli disse che se non voleva seguirlo, si prendesse una scorta e si ritirasse per la via che voleva: offerta che Cassio accettò subito, ritornando con 500 cavalieri a Carre, e di là rifacendo verso l’Eufrate la via percorsa venendo245. L’esercito si dissolveva.... Crasso continuò la sua via; sinchè il generalissimo dei Parti, vedendosi ormai sfuggire la preda – le montagne erano vicine – non volendo tornare alla corte senza un successo definitivo246, deliberò di usare una nuova astuzia più orribile; e una mattina, mandò nel campo romano un ambasciatore a dire che voleva parlare con Crasso per conchiudere la pace e far ritornare tranquillamente l’esercito in patria. Crasso, che ormai era sicuro dell’esito della ritirata e temeva una insidia, non voleva accondiscendere; ma quando lo stanco esercito seppe che si poteva tornare a casa pacificamente, non ascoltò più ragioni e minacciò una sommossa se Crasso non fosse andato al colloquio.... Al vecchio banchiere, in quel momento terribile, non giovarono più nè il nome, nè l’età, nè l’autorità quasi sacra di imperator, nè gl’immensi tesori che aveva lasciati in Italia.... Egli si vide côlto in una insidia strana; spinto a rovina precipitosamente dall’esasperazione cieca di una soldatesca, cui le sofferenze e il pericolo avevano sconvolto il senno, distrutto il senso della disciplina, ottenebrato lo stesso istinto di conservazione. Crasso era un uomo forte, non ostante i suoi difetti; e innanzi alla morte che gli apparve a un tratto, in vista dei monti d’Armenia, lontano dalla famiglia, dalla casa, da Roma, come un condannato alla pena estrema, non concedendogli che pochi minuti per prepararsi, non si smarrì; chiamò gli ufficiali, disse loro che andava al colloquio, ma sapendo che gli si tendeva una insidia, preferendo essere ucciso dai Parti che dai soldati. Andò con una scorta e fu ucciso247 il 9 giugno248. Uomo di grande ingegno, operoso, molteplice, sebbene poco generoso e troppo egoista, egli aveva condotta questa guerra con abilità e intelligenza; ma la fretta, la fiducia, la poca attenzione allo stato d’animo dei suoi soldati, il disordine militare dei tempi, un seguito di accidenti fatali, gli fecero subire la sorte che Cesare aveva scampato miracolosamente nella guerra contro gli Elvezi. Morendo così, egli espiava le molte colpe sue e l’orgoglio di tutta Italia. La sua testa fu recisa e mandata alla corte del re dei Parti; le sue ossa non ebbero sepoltura; l’esercito restato senza capo si disperse; e dei soldati molti furono uccisi alla spicciolata, molti scamparono, in piccoli gruppi, sino in Siria....249

La notizia di questa terribile sventura giunse a Roma, in luglio250, quando da poco si eran fatte, finalmente, dopo sette mesi di interregno e di anarchia, le elezioni per le cariche dell’anno stesso. Il lungo disordine era stato accresciuto dalle dispute sul modo di comporlo: chi aveva voluto rinnovare dalla antica storia di Roma i tribuni militum consulari potestate, chi creare, per disperazione, Pompeo dittatore. Questo ultimo consiglio era alla fine prevalso; ma Pompeo, per paura della opinione pubblica che dopo Silla detestava il nome di dittatore, non aveva accettata la carica; acconsentendo invece a far entrare in Roma soldati dell’esercito suo, che avevano aiutato l’interrex a tenere i comizi. Così le elezioni erano state fatte, ed erano risultati consoli Marco Valerio Messala e Gneo Domizio Calvino251. Ma è facile immaginare di quanta commozione fosse cagione la notizia della fine di Crasso all’Italia appena rimessasi dall’interminabile scandalo delle elezioni! Avevano dunque avuto ragione i pochi conservatori, ostinati avversari dell’impresa! In Gallia intanto si combatteva, con miglior fortuna – è vero – ma con procedimenti sempre più barbari. Labieno aveva vinti i Treviri; Cesare aveva passato un’altra volta il Reno e fatta una scorreria nel paese degli Svevi, per impedir loro di soccorrere i Galli; poi, tornato in Gallia, aveva dovuto di nuovo combattere gli Eburoni, i quali, divisi in piccoli gruppi, uccidevano alla spicciolata i soldati e i piccoli distaccamenti. Cesare, esasperato da tante rivolte e minacci, inferocì; e per sterminare gli Eburoni consumando il minor numero possibile di suoi soldati, pubblicò per tutte le città delle Gallie un editto che permetteva a chiunque volesse di recarsi a rubare e a uccidere nel territorio dei ribelli. Da tutte le parti della Gallia accorsero bande di saccheggiatori, formatesi tra i disperati, i perditi homines atque latrones, di cui la Gallia era piena; e Cesare, lasciati ad Aduatuca i bagagli dell’esercito sotto la guardia di una legione, invase il paese con nove legioni divise in tre colonne, al comando suo, di Trebonio e di Labieno, mettendolo a ferro e fuoco. Ma il furore delle rapine è simile al fuoco, che spesso divampa oltre le intenzioni e anche contro colui che lo accende! Una banda di 2000 predoni sicambri, venuta all’invito di Cesare a saccheggiare il paese degli Eburoni, quando seppe che ad Aduatuca era il campo romano con i ricchi bagagli di dieci legioni e i depositi dei mercanti che seguivano l’esercito, tentò e per poco non riusci a prenderlo e saccheggiarlo. Pure, per quanto il paese fosse frugato a ferro e a fuoco, Ambiorige non potè essere catturato; e Cesare, all’avvicinarsi dell’inverno, tornò indietro, raccolse l’assemblea delle Gallie, fece il processo delle rivolte dei Senoni e dei Carnuti, condannò a morte Accone, all’esilio e alla confisca molti di quei nobili compromessi nella rivolta e fuggiti oltre il Reno. I loro beni furono divisi tra i nobili restati fedeli e tra gli alti ufficiali romani252. Poi si dispose a tornare in Italia.

La pacificazione delle Gallie degenerava in una selvaggia guerra di devastazioni; alla diplomazia conciliante dei primi anni succedeva il regime del boia. Cesare non era crudele; ma siccome il suo credito riposava tutto sulla leggenda che egli avesse conquistato in un baleno la Gallia, non poteva lasciare che la leggenda apparisse fallace; e nell’ansia che la sua gloria svanisse si corrucciava e inaspriva. A Roma però le notizie di queste repressioni sanguinose sgomentavano e disgustavano, ora che la infatuazione imperialista dopo il disastro di Crasso incominciava a venir meno; e il malessere era cresciuto dalla scandalosa ostentazione che molti dei generali di Cesare facevano delle ricchezze conquistate saccheggiando la Gallia. Così Cicerone era sempre in faccende per le costruzioni ordinate da suo fratello; Mamurra si faceva costruire sul Celio – egli oscuro cavaliere di Formia – una magnifica palazzina di cui tutte le pareti erano ricoperte di marmi finissimi, lusso ancora non veduto in Roma253; Labieno, che aveva comperato vaste possessioni nel Piceno, vi faceva costruire a sue spese addirittura una piccola città fortificata: Cingoli254. Il sentimentalismo morale, nato dai progressi della civiltà, educato dalla filosofia greca, scuoteva il sopore infuso dai narcotici della corruzione e dell’orgoglio; e reagì con maggiore energia, allorchè, dopo breve pausa, le elezioni per l’anno 52 riscatenarono di nuovo l’anarchia. Erano candidati al consolato Milone, Publio Plauzio Ipseo e Quinto Cecilio Metello Scipione, figlio adottivo di Metello Pio; alla pretura l’immancabile Clodio; alla questura Marco Antonio che dopo il ritorno di Gabinio in Italia era stato chiamato da Cesare in Gallia, il quale ne aveva presto ben giudicate le attitudini militari e ora gli aveva dato un congedo per concorrere alla prima delle magistrature.255 Ma presto la gara delle ambizioni infuriò di nuovo; Pompeo, che, come spesso i gran signori, era lacheur con gli amici, aveva abbandonato Milone; Clodio per far dispetto a costui sosteneva gli altri due candidati; e i candidati partigiani degli uni e degli altri incominciarono a battagliare per le vie con tal violenza che una volta Cicerone corse pericolo di essere ucciso sulla via Sacra256 e un’altra Marco Antonio per poco non ammazzò Clodio257. Invano i consoli tentarono a più riprese di tener i comizi; alla fine il Senato, non potendo altro, proibì il culto egiziano di Serapide e di Iside, le cui stravaganze accrescevano il perturbamento morale già grande della città258, e deliberò di proporre al popolo una legge per la quale in avvenire un magistrato non avrebbe potuto ottenere una provincia, se non cinque anni dopo esercitata la magistratura259. Si sperava di quetare così un poco la furibonda concorrenza alle magistrature, con quanta ragione è facile immaginarlo! Pur troppo Pompeo, udendo sempre ripetere dai suoi adulatori esser d’uopo di un magistrato autorevole ed unico per ristabilire l’ordine, incominciava a desiderare questo nuovo onore straordinario; e pensò di aiutare gli avvenimenti, non facendo nulla per impedire che il disordine divampasse; anzi quando si giunse al primo gennaio del 52 senza che i consoli fossero eletti, egli fece impedire da Tito Munazio Planco, che era stato eletto tribuno per il 52 insieme con Sallustio, che il Senato nominasse l’interrè260. Lo Stato rimaneva così senza capo.

Ma un evento imprevisto precipitò le risoluzioni. Il 18 gennaio Milone, andando con una sua scorta a Lanuvio, incontrò sulla via Appia, nelle vicinanze di Boville, Clodio che con un piccolo seguito tornava dalla campagna a Roma. Le due piccole schiere vennero alle mani e Clodio restò ammazzato261. Finalmente! dissero i conservatori. Ma questo terribile facinoroso, che vivo aveva eccitati tanti disordini, continuò a sovvertire lo Stato anche morto. Clodio era popolare, per la sua legge sul grano, per i suoi modi triviali, per la sua audacia e prodigalità; il popolino minuto fu perciò facilmente esasperato dai suoi clienti e bravi che gli dicevano essere il valente difensore dei poveri caduto per l’odio dei grandi e dei ricchi; il suo cadavere fu visitato nella casa da processioni immense; i tribuni di parte popolare e la moglie Fulvia rinfocolarono abilmente il furore; e i funerali furono celebrati con una solennità grandiosa e quasi selvaggia. Il popolo accompagnò il corpo nella Curia Ostilia e per dispetto ai senatori gli fece un rogo di banchi, di tavole, di registri usati dai senatori; il fuoco divampò nella Curia, si appiccò alla basilica Porcia; finchè il corpo del demagogo incestuoso sparì nel rogo solenne di due tra i più antichi e venerabili monumenti romani, mentre il popolo quasi impazzito empiva Roma di dimostrazioni, acclamando Pompeo e Cesare dittatori. Spaventato Pompeo abbandonò l’ostruzionismo contro la nomina dell’interrè, e il Senato nominò Marco Emilio Lepido; ma l’esaltazione del popolo, invece di calmarsi, crebbe a tal segno che quando si fece il solenne banchetto funerario in onore del demagogo, la folla tentò di appiccar fuoco alla casa di Milone e di Lepido sospetto di favorirlo; una dimostrazione popolare andò a offrire i fasci consolari a Ipseo e a Scipione; un’altra acclamò Pompeo console o dittatore. Roma impazziva tra risse, dimostrazioni, tumulti, delle quali i malandrini approfittavano; bande di malviventi entravano a forza nelle case con il pretesto di cercare gli amici di Milone e le svaligiavano262.

VII.
LA SUPREMA CRISI
DELLA DEMOCRAZIA IMPERIALISTA:
LA RIVOLTA DELLA GALLIA.

Mentre questi tumulti avvenivano in Roma, Cesare valicava le Alpi per tornare nella Gallia Cisalpina. La fretta, l’ira, l’ansietà per la rapida decadenza del partito democratico, la sua natura a volte temeraria e precipitosa, la impossibile grandezza dell’opera impresa lo costringevano fatalmente ad aggiungere errore ad errore: prima a compiere una repressione feroce, anche a costo di inasprire gli odi, per aver almeno una tregua durante la quale attendere alle cose d’Italia; poi ad abbandonar la Gallia subito dopo la repressione263. Probabilmente appena in viaggio egli seppe da Labieno che il suo amico Commio preparava anche egli una rivolta; e, sdegnato, mandò ordine a Labieno di invitare amichevolmente l’Atrebate al campo e di ammazzarlo264. Labieno obbedì; ma l’insidia riuscì a mezzo; perchè Commio, sebbene ferito, riuscì a porsi in salvo; e fuggì, ormai nemico mortale di Cesare e di Roma. Anche questa perfidia non era riuscita! Per aver messo mano a un’impresa che a poco a poco era smisuratamente cresciuta, troppo spesso Cesare era costretto ad abborracciare in una parte con espedienti contraddittorii, per passar presto ad un’altra; ma di lì a poco vedeva la parte creduta perfetta rovinare; e si inaspriva e inferociva, in questa fatica di Sisifo, smarrendo tra tanti pericoli che riapparivano senza interruzione la sua fredda ed equilibrata prudenza. Per il momento però poco gli importava di Commio, fuggito tra le selve profonde della Gallia settentrionale: di ben altre inquietudini gli era cagione l’Italia.

Il partito democratico decadeva di nuovo come nel 57, per non aver mantenute le sue stravaganti promesse. Le speranze sulla Britannia erano state deluse: in Persia le armi romane avevano ricevuta una disfatta inaudita; la Gallia che tutti avevano creduta sottomessa in due anni dal “generale unico” era in piena rivolta; l’antico odio di classe tra il popolino e gli alti ceti, un poco sopito negli ultimi anni dalla prosperità orgiastica e dalla esaltazione dell’orgoglio nazionale per le conquiste, ridivampava in seguito alla morte di Clodio; Crasso era morto e la potente triarchia si decomponeva nello screditato governo di due, che non sapeva nemmeno reprimere le rivolte croniche del popolaccio di Roma. Subito dopo l’assassinio i conservatori ragionevoli avevano giudicata severamente la ferocia con cui Milone aveva fatto uccider dagli schiavi Clodio ferito265; ma quando il popolino inferocito a perseguitare Milone minacciò incendi, stragi, tumulti, avvenne un rivolgimento di spiriti; i conservatori intransigenti, che avrebbero volentieri onorato l’uccisore di Clodio, prevalsero; e Milone fu per reazione protetto quasi da una tacita dichiarazione di solidarietà ufficiale. La sera del dì dei funerali il Senato, radunatosi per provvedere all’ordine pubblico, indisse lo stato d’assedio e incaricò Pompeo, i tribuni della plebe, Milone stesso di eseguire il decreto266; Milone imbaldanzito da questo mutamento in suo favore, subito venne a Roma, risoluto a sopraffare la viltà universale con una audacia quasi incredibile e riprese apertamente a domandare il consolato267; il popolino ancor più esasperato minacciò violenze nuove e maggiori. Lo spirito pubblico cominciava a impaurirsi; ad ammirare meno Cesare, al quale i nemici implacabili, ripreso coraggio, apponevano ora, come al primo autore di questa politica, tutti i mali presenti: il disastro di Crasso che egli aveva spedito in Persia, la corruttela universale che egli aveva fomentata con le sue profusioni, la guerra interminabile nella Gallia che egli aveva provocata con le rapine268. Ultima disgrazia, ma non minore delle altre, egli aveva perduto Clodio, l’organizzatore e l’agitatore insuperabile del popolino; e non essendo facile trovare altri che unisse le diverse qualità necessarie all’ufficio, numerosi collegia elettorali, forza del suo partito, si disfacevano. Il pugnale di Milone non aveva ferito solo il corpo di Clodio, ma la politica di Cesare e di Pompeo.

Cesare doveva dunque ricostituire per una terza volta la sua clientela; e prima di tutto rinsaldare l’unione con Pompeo: impresa difficile ora che Crasso non era più; dopochè Giulia era morta, la fanciulla che aveva tenuto Pompeo fermo nella fedeltà a Cesare, nei primi anni dell’unione, gettandogli al collo la catena delle belle braccia. A torto gli storici hanno considerata la discordia che incominciò tra Cesare e Pompeo da questo momento, come effetto di una rivalità d’ambizioni latente da anni e scoppiata non appena sparve il terzo partecipe della signoria; quando invece la discordia covava, non nelle ambizioni, ma nei temperamenti dei due uomini, e gli eventi, non la volontà dell’uno o dell’altro, la fecero esplodere. Pompeo non era, come Cesare, un creatore impetuoso, ma un dilettante intelligente; il quale se per impazienza di ambizioni giovanili aveva parteggiato per la democrazia temperata e signorile, diventava allora di nuovo, invecchiando e per reazione al disordine demagogico, un conservatore, cui l’audacia, la corruzione, la politica popolare ed avventurosa di Cesare incuteva spavento. I rancori e le insidie dei conservatori, la difficoltà di primeggiare essendo in guerra con i conservatori da una parte, con Cesare, Crasso e Clodio dall’altra, lo avevan costretto sino allora a partecipare, riluttante, alla lega. Ma la tragica rovina di Crasso, il disordine dello Stato, le rivolte del popolino lo inquietavano; risvegliavano in lui gli istinti autoritari insiti in ogni nobile; lo piegavano verso le idee diffuse ormai nella parte migliore delle alte classi: conciliazione ordinata di aristocrazia e di democrazia; repressione della corruzione pubblica e privata; restaurazione della autorità e di un costume di vita più semplice e virtuoso. Come spesso avviene ai milionari nei tempi di ricerca tumultuosa e universale del denaro, egli sentiva la vanità delle ricchezze e del lusso per gli altri e si meravigliava che per conquistarle empissero di tanto disordine lo Stato: non si poteva continuare così; la repubblica aveva bisogno di ordine, di pace, di giustizia; se le magistrature ordinarie non bastavano, si creasse una magistratura nuova, che potesse comprimere la sfrenata licenza dei tempi. Queste idee si divulgavano nelle alte classi; Cicerone esprimeva, quasi senza saperlo, scrivendo il De Republica, il nuovo stato d’animo delle alte classi; e in quell’uomo cui la fortuna aveva persuaso di esser atto a compire le più straordinarie e difficili cose, si risvegliava, insieme con gli scrupoli conservatori, una nuova ambizione: esser il riordinatore e il pacificatore della travagliata repubblica.

Cesare sentì da lungi questa esitazione del collega; e da Ravenna269, dove era andato a passar l’inverno, aiutò Pompeo che il Senato aveva autorizzato a fare una leva in tutta Italia270, a reclutar soldati anche nella Cisalpina271, proponendogli nel tempo stesso, per consolidare la loro unione, un nuovo e doppio matrimonio: egli avrebbe sposata la figlia di lui, allora fidanzata al figlio di Silla; e Pompeo la seconda figlia di una sua nipote: di quella Azia, che aveva sposato Gaio Ottavio, morto ancor giovane quando stava per diventar console, e che oltre un figlio Caio nato nel 63 e allora di undici anni, aveva due figlie più grandi272. La famiglia e i maritaggi non erano ormai altra cosa che uno strumento di intrighi politici nelle alte classi di Roma. Ma Pompeo rifiutò. Segno infausto, questo rifiuto! Ed ecco di lì a poco i corrieri delle Gallie portare a Cesare notizie inaspettate e terribili. Egli si era illuso credendo, con una feroce repressione, di ottenere una tregua in cui attendere alle cose d’Italia: appena partito di Gallia, gli uomini più insigni di molte nazioni, adirati per le devastazioni dell’anno precedente, per la condanna di Accone e degli altri nobili, si eran dati convegno nei boschi, avevan discusso della condizione della Gallia, scambiate intese, agitato i clienti e le classi popolari.... E già i Carnuti erano insorti di nuovo, sotto il comando di Gutuatro e di Conconetodumno trucidando a Genabo i mercanti italiani, tra gli altri il cavaliere Caio Fufio Cita che era il direttore dei servizi di approvvigionamento dell’esercito romano: nella Alvernia il giovane Vercingetorice, il suo amico, si era impadronito con una rivoluzione del governo e aveva alzato lo stendardo della rivolta: i Senoni, i Parisii, i Pictoni, i Cadurchi, i Turoni, gli Aulerci, i Lemovici, gli Andi e tutti i popoli abitanti sulla costa dell’Oceano si erano ribellati, scegliendo a capo Vercingetorice, che aveva già mandato un esercito sotto il comando del Cadurco Lucterio verso le frontiere della Gallia narbonese, mentre egli in persona invadeva il territorio dei Biturigi. tributari degli Edui273. Gli avanzi della nobiltà e la plutocrazia si univano contro l’invasore; il suo opportunismo seminatore di discordie tra i ceti gli aveva alla fine inimicato tutti; la rivolta scoppiava di nuovo, senza che nè egli nè i suoi generali ne avessero avuto sentore; e minacciava sorprendere gli eserciti dispersi nei tranquilli ozi dei quartieri d’inverno, quando egli era a centinaia di miglia lontano, prima che avesse potuto neanche incominciar l’opera di restaurazione politica, per la quale aveva abbandonata la Gallia con tanta fretta.

La stretta degli eventi, precipitati ad un tratto così rovinosamente, era terribile. Egli doveva tornare in Gallia subito; eppure non poteva abbandonare l’Italia in quelle condizioni, con il suo partito in tanto disordine. Ma l’immenso pericolo concitò tutte le energie del suo agile e molteplice spirito, la velocità, la audacia, la previdenza, la potenza immaginativa, in uno dei più meravigliosi impeti di azione che la storia ricordi. Egli pensò che la nuova guerra a cui muoveva poteva andargli male; che in tal caso, quando il primo marzo dell’anno 49 i suoi poteri proconsolari sarebbero cessati, i conservatori lo avrebbero fatto processare e mandare in esilio, se non riacquistava l’inviolabilità facendosi rieleggere console. Ma per la legge di Silla che proibiva le rielezioni prima dei dieci anni, egli poteva esser console per la seconda volta soltanto nel 48. Cesare non volle partire, senza prepararsi sin da allora in fretta e furia uno schermo, che gli proteggesse le spalle; e siccome molti a Roma volevano che egli e Pompeo fossero eletti consoli insieme, abilmente pregò gli amici di abbandonar la sua candidatura, ma chiese in cambio gli fosse concesso di domandar il consolato assente da Roma274, affermando che la guerra poteva non esser ancora finita al 1.° marzo del 49 e pieno di pericoli cambiare allora il comando275. Era strana una simile domanda, fatta con anticipazione di tre anni; ma appunto per questo molti la considerarono come di poca importanza; Pompeo, lieto che Cesare non volesse esser console, la sostenne276; Cicerone, pregato da Cesare, si interpose affinchè Celio, allora tribuno della plebe e sempre conservatore, non interponesse il veto277. In pochi giorni Cesare potè esser sicuro che i tribuni avrebbero proposta e fatta approvar la legge, e subito partì, volò per la Narbonese278, probabilmente verso la metà di febbraio279, camminando notte e dì.

A mano a mano però che si avvicinava, le notizie divenivano più gravi; gli Edui, i Remi, i Lingoni, restati fedeli al centro della Gallia, erano circondati da popolazioni ribelli, come da un immenso cerchio di fuoco, rotto solo ad est dai Sequani ancora incerti; e nel cui sommo arco settentrionale eran poste le dieci legioni di Cesare. Che risolvere? Chiamare le legioni nella Narbonese? Esse avrebbero dovuto traversare la Gallia in rivolta sotto il comando dei generali. Andare egli a raggiungerle? Gli era necessario di traversare con piccole forze questa cerchia di fuoco, un vasto paese in rivolta. L’alternativa era ansiosa e terribile; ma l’immaginazione, la velocità, l’audacia di questo poeta geniale della guerra e della politica prorompevano ormai da ogni parte, con impeto meraviglioso, concitate dal pericolo e dal fervor dell’azione. Appena giunto, in pochi giorni, lavorando senza riposo, Cesare provvide alla meglio alla difesa della Gallia Narbonese, con una parte della guarnigione e con i soldati reclutati recentemente in Italia; poi mandato un piccolo corpo di cavalleria a Vienna, con la parte rimanente della guarnigione narbonese tentò una audacia straordinaria: valicare le Cevenne ancor coperte di neve; minacciare una finta nell’Alvernia, per attrarre Vercingetorice a difendere la sua patria e poi egli, con la piccola squadra di cavalieri mandata a Vienna, attraversar la Gallia e raggiungere le legioni, quando tutti lo crederebbero a guerreggiare in Alvernia. Percorrendo, dalla frontiera gallica, circa 135 miglia (200 chilometri)280, valicò le Cevenne a gran fatica, facendo aprire dai soldati una strada nella neve; e comparso all’improvviso in Alvernia, mandò la cavalleria a saccheggiare il paese, spaventando siffattamente gli Arveni, increduli potesse dai monti nevosi sbucare un esercito, che essi mandarono affannosamente a richiamare Vercingetorice al soccorso della patria invasa da un immenso esercito. Vercingetorice, che aveva da poco conquistato il potere con una rivoluzione, dovè accorrere; ma Cesare, dopo due giorni, senza svelare a nessuno le sue intenzioni, dicendo che sarebbe stato assente tre dì per cercare rinforzi, cedette il comando a Decimo Bruto, raccomandandogli di scorrazzare l’Alvernia più che potesse; rivalicò con poco seguito le Cevenne; percorse in un baleno le cento miglia (150 chilometri) che lo separavano da Vienna; a Vienna si mise alla testa del piccolo squadrone mandato là innanzi e con quello attraversò a galoppo cavalcando giorno e notte la Gallia, inosservato e quindi non molestato; finchè giunse inaspettato alle due legioni svernanti nel paese dei Lingoni. Il primo portento di audacia e di velocità era avvenuto. Mandò allora ordini alle altre legioni di raccogliersi nei pressi di Agendico (Sens); e verso la metà di marzo281, andato anche egli ad Agendico con le due legioni, era alla testa di tutto il suo esercito, 11 legioni, circa 35 000 uomini, gli ausiliari gallici essendo spariti quasi tutti e la cavalleria essendo ridotta a ben poca282. Egli aveva fatto, da Vienna ad Agendico, in parte a cavallo, in parte alla testa di due legioni, altre 300 miglia (circa 450 chilometri).

Vercingetorice intanto, accortosi come Cesare l’avesse ingannato, aveva fatto ritorno nel territorio dei Biturigi e posto l’assedio a Gorgobina con il suo piccolo esercito, composto di Arveni e di qualche contingente mandato dagli altri popoli: forse 7 od 8000 cavalieri e altrettanti (e forse meno) pedoni283. Il maggior numero probabilmente servitori e clienti suoi e di altri nobili. A che cosa doveva risolversi Cesare? La ragione politica consigliava di correre subito contro Vercingetorice, per salvare i possedimenti degli Edui e trattenere questi in fedeltà, per spaventare in tutta la Gallia i nemici di Roma, finire presto la guerra e presto far ritorno in Italia. La ragione militare consigliava invece di aspettare la buona stagione284, in cui l’esercito potrebbe trovar provvigioni abbondanti per via. Anche allora, però, come tante volte in tante guerre, la ragione politica prevalse sulla ragion militare. Cesare temeva la ribellione degli Edui più che il pericolo di una campagna invernale, e nel fervore operoso che lo agitava voleva agire subito, finir la guerra più presto che fosse possibile: onde esortati gli Edui a fare supremi sforzi per provvedergli il grano e lasciate due legioni e tutti i bagagli ad Agendico, risolvè di incominciar subito la guerra con il maggior vigore e la maggiore prestezza. In pochi giorni piombò su Vellaunoduno e la prese; poi incendiò e distrusse Genabo; varcò la Loira ed entrato nel territorio dei Bituringi, pose l’assedio a Novioduno. Già si trattava della resa, quando Vercingetorice, che alla notizia dell’avanzata di Cesare si era mosso incontro a lui da Gorgobina, sopravvenne. Le cavallerie dei due eserciti si azzuffarono e la romana un momento parve piegare: ad un tratto però quattrocento cavalieri germanici, che Cesare aveva tra i suoi soldati, irruppero, mettendo in fuga i Galli, dopo breve scaramuccia, con l’impeto della carica e con la paura che alla Gallia declinante incuteva ogni milizia germanica. Cesare, ancor più incitato alla velocità da questo primo successo, per quanto piccolo, mosse prontamente verso Avarico (Bourges), la capitale dei Biturigi, una delle più ricche di quelle città che incominciavano a ingrandire in mezzo al lento mutarsi della vecchia Gallia agreste in civile e mercantile.

Vercingetorice, la cui milizia di servitori a cavallo era poco solida e che per impedire le diserzioni aveva dovuto stabilire una disciplina ferocissima, non volle arrischiarsi più in campo aperto dopo quel primo e poco fortunato incontro; e deliberò di combattere contro l’invasore facendo il deserto intorno all’invasore, incendiando a mano a mano che egli procedeva i villaggi, le città, anche Avarico; distruggendo le provvigioni e con la cavalleria catturare i convogli, annientando i distaccamenti in cerca di vettovaglie, molestando senza riposo i Romani mentre egli si approvvigionerebbe dai paesi ancora intatti alle spalle. Savio consiglio e semplice; ma consiglio terribile, che richiedeva nel popolo un fiero coraggio! Nè questo coraggio mancò in principio ai Biturigi. Appena entrato nel loro territorio, Cesare avanzò attraverso un paese deserto e devastato, sempre vedendo lontano all’orizzonte le colonne di fumo dei villaggi incendiati, seguito a breve distanza da Vercingetorice, che evitava ogni occasione di battaglia, accampava il suo piccolo esercito con prudenza tra boschi e paludi in modo da essere naturalmente difeso contro gli assalti, e cercava di catturare i convogli di grano. Se anche Avarico fosse stata distrutta, l’esercito romano avrebbe potuto smarrirsi in una marcia senza scopo, attraverso la desolazione ardente di un paese messo a ferro e fuoco. Ma i Biturigi non si erano sentito l’animo di incendiare anche la bella Avarico; e tanto avevano pregato e promesso di difenderla eroicamente, che avevano indotto Vercingetorice a risparmiarla. Cesare potè porre l’assedio ad Avarico; e i Biturigi difendendo bene davvero la loro città, dovè far intraprendere dai soldati, nella stagione ancor fredda e piovosa, sotto il grigio cielo della Gallia, grandi lavori di investimento, mentre la negligenza degli Edui e la guerriglia di Vercingetorice rendevano precario l’approvvigionamento. Spesso il pane mancò nel campo per intere giornate. Ma l’impeto di Cesare, trattenuto dalla resistenza della città, si convertì e trasfuse allora in una mirabile alacrità manuale dei soldati. Conoscitor dei soldati migliore che Lucullo, egli sapeva che in certe angustie terribili il loro zelo è stimolato più da una fraterna cordialità di commilitone che dalla aspra durezza generalizia; onde abilmente dichiarò più volte ai soldati che avrebbe levato l’assedio se essi trovavano troppo penoso il travaglio, riuscendo invece a mandarli nelle trincee più alacri e vogliosi285; così, non ostante il freddo, la fame, le frequenti sortite dei nemici, i terrapieni si alzarono; e alla fine, nella seconda metà d’aprile286, le torri furono rizzate, l’assalto dato, la città presa, la popolazione trucidata, senza che Vercingetorice osasse muovere al soccorso.

In poco più di un mese Cesare aveva prese e castigate tutte le città mutatesi in focolari e baluardi di rivolta; segnata la via di castighi terribili, come l’incendio di Genabo e di Avarico; empita la cassa d’oro e d’argento, devastando nella rapida marcia vittoriosa i tesori delle città dei templi dei privati; risvegliata nelle legioni la animosa fiducia, così necessaria a un piccolo esercito che combatte in mezzo a un vasto paese, in rivolta. L’impeto geniale che si era mosso da Ravenna aveva vinto tutto, attraverso le Alpi e per la Gallia: lo spazio, la stagione, la fame, le mura fortificate, gli uomini; ed ora un poco posò in Avarico, come per riprender lena all’ultimo slancio. Cesare pensava che ormai con la presa di Avarico la parte più faticosa dell’opera fosse compiuta, la Gallia riconquistata, la rivolta se non spenta del tutto definitivamente domata per lo scoramento che seguirebbe necessariamente a questa disfatta: riposerebbe ora e provvederebbe l’esercito ad Avarico; poi porterebbe la guerra nel paese degli Arverni, distruggerebbe Gergovia, loro metropoli, e la guerra sarebbe finita. Ma una discordia sorta tra gli Edui per la elezione del magistrato supremo, che minacciava di far scoppiare una guerra civile, lo costrinse a andar prima a Decezia per comporla. Un partito aveva eletto alla somma magistratura Coto, un altro Convictolitavo; e siccome questo partito accusava come illegale l’elezione di Coto, Cesare, temendo che scoppiasse una guerra civile e che uno dei due partiti si unisse a Vercingetorice, intervenne risolutamente a far giustizia; e riconobbe per valida l’elezione di Convictolitavo, che sola era davvero legale. Passò così qualche settimana, durante la quale le forze dell’insurrezione avrebbero dovuto dissolversi e disperdersi, nello spavento dell’ultimo assalto che la minacciava.... Invece le notizie che giungevano a Cesare indicavano chiaramente che la rivolta non era stata tanto scoraggita dalle sue vittorie, quanto forse era lecito presumere. Nel nord della Gallia i Senoni e i Parisi erano in armi ed alacri; Commio preparava un esercito; Vercingetorice dopo aver rinfrancato il coraggio dei suoi, che nell’avvilimento dei primi giorni lo avevano perfino sospettato di tradirli, attendeva alacremente a rinnovare la guerra: aveva ricevuto aiuti dall’Aquitania, reclutava arcieri, insegnava ai suoi a fare il campo alla romana; tentava alla rivolta i personaggi insigni dei popoli ancor fedeli, come gli Edui e i Sequani, mandando loro grandi quantità di quell’oro, di cui l’Alvernia, il paese dove erano le maggiori miniere, tanto abbondava. Tuttavia Cesare, fiducioso fosse quella la ultima energia della disperazione, rimase così fermo nella opinione che la guerra volgeva alla fine, che divise l’esercito287: mandò Labieno con quattro legioni nel Nord contro i Parisi e i Senoni; ed egli con sei legioni si pose in cammino, forse alla metà di maggio, verso il Sud, per invadere Alvernia, costringere Vercingetorice a battaglia e finir la guerra.

Vercingetorice, con le sue milizie rinfrancate e accresciute, era venuto a sorvegliare, dopo averne fatto rompere i ponti, il corso dell’Allier selvaggio e vorticoso, per impedire a Cesare di passare. Cesare riuscì una mattina a nascondere in un bosco, presso un ponte distrutto, venti coorti, due tolte da ciascuna legione; e quando il resto dell’esercito si fu allontanato lungo il fiume, seguito sull’altra sponda da Vercingetorice, le venti coorti usciron fuori, ricostruirono e presidiarono il ponte; sinchè le altre legioni avvisate tornarono indietro e passarono. Vercingetorice, non volendo dar battaglia, lo lasciò fare: e di nuovo prese a fuggirgli dinanzi, con la consueta tattica. Cinque giorni dopo Cesare giungeva in vista di Gergovia, città costruita sopra un monte dirupato; ma fiducioso nell’esito prossimo della guerra non si spaventò per la difficoltà di assediare una città così splendidamente munita dalla natura e dall’arte e fece subito incominciare le opere di investimento e di approccio; mentre Vercingetorice si teneva sempre vicino, sempre molesto, sempre inattaccabile, tra selve e paludi. Ben presto però egli cominciò a dubitare di aver commesso un errore dividendo l’esercito: sei legioni non parevano bastare ad assediare efficacemente la città; la nobiltà Edua, corrotta dall’oro di Vercingetorice, malcontenta del recente intervento di Cesare nelle faccende interne del paese, incoraggiata dalla divisione dell’esercito, incominciava a tentennare. Cesare un poco inquieto incitò lo zelo dei soldati, raddoppiò di alacrità, cercò nella poliorcetica e la ingegneria greca, di cui lo schiavo bibliotecario gli portava dietro i testi migliori, consigli, idee, malizie per stringere l’assedio con le forze insufficenti di cui disponeva. Invano: Gergovia non cadeva, i nemici acquistavano baldanza, la condizione del suo esercito diventava ogni giorno più grave, finchè parve precipitare a un tratto, quando un corpo di soldati mandato dagli Edui per poco non passò al nemico, nelle vicinanze di Gergovia. Cesare si corrucciò, perdè la calma, volle atterrire la Gallia distruggendo Gergovia; e lanciò le sue legioni a un assalto generale, per espugnarla a forza. Ma l’assalto fu respinto con gravi perdite288. Cesare, che come tutti gli uomini di vero genio non ancora guastati dal successo e dall’orgoglio poteva un momento ingannarsi, ma sapeva ravvedersi a tempo, riconobbe allora il suo errore e il pericolo di ostinarsi; e deliberò di levar l’assedio e di tornare, forse nella seconda metà di giugno, nel Nord, a cercare Labieno.

La deliberazione era savia, ma come tutte le deliberazioni prese per riparare un grosso errore, conteneva un pericolo immediato. Nella universale concitazione degli animi, questo insuccesso – il primo palese insuccesso di Cesare, dopo la sua guerra incerta con gli Elvezi – parve essere il principio di una rovina subitanea e definitiva. Gli spiriti esaltati si immaginarono che Cesare fosse ormai disfatto; Vercingetorice apparve come l’eroe liberatore della Gallia; molte esitazioni precipitarono. Per via Cesare seppe che anche gli Edui, dopo tante incertezze, si erano ribellati; e trucidati i mercanti romani, preso a Novioduno il suo tesoro di guerra gli ostaggi delle Gallie i bagagli e i cavalli, portato via bruciato e gettato nel fiume il suo frumento, speravano ora di costringerlo per fame a ritirarsi nella Narbonese, e a questo fine guardavano la Loira; mentre l’invito di convenire a una grande dieta nazionale a Bibracte era accolto favorevolmente da un capo all’altro della Gallia. In quel momento Cesare trepidò davvero per la sorte sua e dell’esercito289. La rivolta degli Edui, del più ricco e potente popolo della Gallia, del popolo da lui più favorito, annullava tutti i vantaggi conseguiti; faceva dimenticare le sue vittorie precedenti, accresceva il numero e il coraggio degli insorti, spaventava i soldati suoi, gli toglieva una delle migliori basi di vettovagliamento, rimpiccioliva quasi a nulla la parte delle Gallie, dove egli potesse rifugiarsi, sostare, rifornirsi tra genti amiche. La guerra stava forse per divampare in tutta la Gallia, ravvolgendo e consumando nel suo fuoco i due piccoli eserciti che egli aveva imprudentemente separati? Ma nel nuovo pericolo apparso all’improvviso, l’impeto geniale che si era mosso di Ravenna, che si era rallentato in Avarico, proruppe di nuovo. Cesare non si sgomentò per la rivolta degli Edui; capì che se si ritirava solo nella Narbonese lasciando Labieno nel Nord, i Galli avrebbero potuto facilmente distruggere l’uno e l’altro; e trascurando ogni altro scopo per quello di congiungersi al più presto con Labieno, a qualunque costo, non perde tempo a fabbricare un ponte sulla Loira, che pure correva gonfia e rapida nel suo letto naturale per la turgidezza primaverile; trovò con la cavalleria un guado in cui i soldati potevano passare tuffandosi fino alle ascelle e portando sul capo armi e fagotti; spinse a quel modo nel fiume tutto l’esercito, facendo rompere la corrente da un molo vivente di cavalieri; raccolse quanto grano e bestiame trovò, caricò i valletti, i muli, i soldati stessi più che potè e traendosi dietro il bestiame catturato camminò a marcie forzate, sinchè raggiunse Labieno nel territorio dei Senoni, probabilmente nelle vicinanze d’Agendico (Sens). Da Gergovia ad Agendico Cesare aveva percorso altre 200 miglia (300 chilometri); onde, supponendo vi impiegasse quindici giorni, nella prima metà di luglio egli si trovava alla testa dell’intero esercito. Per fortuna, se egli era stato vinto a Gergovia, Labieno aveva combattuto felicemente contro i Senoni ed i Parisi.

Intervenne allora una pausa, che i “Ricordi” di Cesare non ci dicono quanto durasse; ma che non potè esser più breve di un mese; e nella quale i due avversari si prepararono al nuovo cimento. La sconfitta di Gergovia pareva aver mutato le condizioni e le probabilità della guerra. Gli Edui avevano sospinto alla rivolta, con il loro esempio, quasi tutti i popoli gallici; solo i Remi, i Lingoni, i Treviri e qualche popolazione belga restavano fedeli o neutrali; Bibracte, la capitale edua, era diventata la metropoli dell’insurrezione, dove era venuto il giovine eroe arverno, dove convenivano ambasciatori da ogni parte della Gallia e si preparava una gran dieta, per deliberare sulla formazione di un esercito nazionale. Il desiderio e la speranza di una immediata liberazione animavano all’improvviso tutti gli spiriti, anche quelli più scettici e indifferenti sino ad allora! Cesare invece, per reazione all’audace fiducia di prima, inclinava a considerar la propria condizione come molto cattiva; e perduto con il suo piccolo esercito in fondo all’immenso paese diventato nemico, sentendo la rivolta minacciarlo da tutte le parti, rallentava ancora una volta l’impeto della sua strategia, si attardava in provvedimenti di prudenza, non pensava più che a trar fuori i suoi uomini da quel braciere, non sapeva ancora dove: ma lo scampo di questa ritirata pareva ora difficilissimo, pieno di nuovi pericoli, all’uomo che due mesi prima credeva di aver riconquistata per sempre la Gallia. Non solo i soldati, sgomenti dalla insurrezione degli Edui, erano molto scoraggiti290; non solo gli approvvigionamenti, sempre difficili, sarebbero divenuti difficilissimi, nel paese tutto in rivolta; ma la esperienza della guerra di Britannia, la sorte recente di Crasso ingrandivano agli occhi suoi il pericolo di cui venivano accorgendosi tutti in Italia: che la mancanza di cavalleria era una cagione di gran debolezza per gli eserciti romani in guerra con i barbari. Se fino allora egli si era audacemente slanciato a inseguire con le sue legioni la cavalleria di Vercingetorice, ora, rifatto prudente, non voleva in nessun modo arrischiar le legioni disanimate attraverso la Gallia, esposte con così poca e inferma cavalleria agli assalti della cavalleria gallica, rischiando di perir come Crasso. Sembra che, sospinto da questo timore, egli muovesse l’esercito e si avvicinasse alla Germania, chi suppone verso il luogo ove ora è Vitry sur Marne291; e chi verso Bar sur Aube292, per reclutare un gran numero di cavalieri germanici. Il generale che sette anni prima era entrato in Gallia come il distruttore della potenza germanica, arruolava ora i Germani contro i Galli, pagandoli con l’oro dei saccheggi gallici! Tutto il luglio e forse parte dell’agosto furon consumati da Cesare ad arruolar Germani, a farne un corpo di cavalieri numeroso, a preparare la ritirata; ma i soldati erano scoraggiti dalle dicerie, dalla condizione in cui si trovavano, dal brusco rivolgimento della fortuna, quanto i Galli erano fiduciosi e animosi!

Poco doveva durare lo sconforto degli uni e la gioia degli altri. Cesare si illudeva ora, in un accesso di prudenza, sul pericolo, come prima si era illuso per soverchia baldanza. Vercingetorice era riuscito a ridurre il nemico a mal partito, tormentandolo con la guerriglia di piccole schiere veloci; e certo se in molte parti della Gallia fossero apparsi altri capi di guerriglia Cesare poteva alla fine esser costretto a fuggire, per non perire di fame, con tutti gli uomini suoi. Ma l’infatuazione nazionale per la sconfitta toccata alle legioni sotto Gergovia salvò Cesare e il dominio romano, mutando la piccola nella grande guerra regolare, nella quale la Gallia divisa e discorde, senza istituzioni antiche e salde, non poteva vincere gli eserciti di un sistema politico e militare così vecchio quale l’Italia. Infatti i primi guai incominciarono subito nella dieta di Bibracte, quando si discusse la nomina del generalissimo, perchè gli Edui volevano eletto un loro concittadino e un altro partito proponeva conservare il comando a Vercingetorice. Questo partito prevalse; ma Vercingetorice, che era certo un giovane di molto ingegno, in parte per non far sentire troppo agli Edui la sua autorità, in parte perchè non credeva che la grande guerra riuscirebbe come la piccola, propose una guerra mista: una di quelle transazioni così pericolose e pur così frequenti nella storia, perchè imposte fatalmente anche agli uomini più risoluti e intelligenti dalla ignavia e dalla stoltezza degli altri. Gli Edui e i Segusiani manderebbero 10 000 pedoni e 800 cavalli sotto il comando di un nobile a invadere il territorio degli Allobrogi nella provincia Romana; i Gabali e gli Arverni saccheggerebbero il territorio degli Elvi; i Ruteni e i Gadurchi il territorio dei Volci Arecomici per rompere da tutte le parti il confine della provincia Romana e attrarre dal nord Cesare alla difesa; mentre egli trasporterebbe il quartier generale ad Alesia (Alise-Saint-Reine)293, piccola città fortificata dei Mandubii ed eccellente vedetta da cui spiare e molestare il nemico, perchè intorno ad essa si incrociavano tutte le vie in cui Cesare poteva passare, per scendere dal Nord nella Narbonese: la vettovaglierebbe, la fortificherebbe e con un corpo di 15 000 cavalli e la fanteria che già possedeva, cercherebbe di rallentare la marcia del nemico, di affamarlo, di tormentarlo. Cesare infatti, probabilmente nella prima metà di agosto, dopo aver ordinato un forte corpo di cavalleria germanica e aver saputo che si minacciava la Narbonese, si era risoluto a portarle soccorso294 e incominciava alla testa delle dieci legioni stanche e disanimate la ritirata verso la provincia: con che cuore, è facile immaginarlo, anche se egli e gli altri scrittori antichi non lo dicono! La conquista della Gallia, l’opera faticosa di sette anni che doveva metterlo a pari di Lucullo e di Pompeo, era stata in un baleno distrutta; la sua gloria di guerriero si mutava in ciurmeria di politicante, agli occhi dell’Italia; il partito conservatore esultava e già si preparava a fargli scontare gli onori trionfali del 57. Quei trentamila uomini che partivano, scorati e tristi, traendosi dietro sui muli in lunga processione tutte le macchine da guerra, gli attrezzi e i bagagli delle legioni, gli schiavi del campo e degli ufficiali, le prede avanzate, i mercanti italiani scampati alle stragi popolari, quanto insomma restava ancora di italico – uomini e cose – nel paese conquistato per un momento, rappresentavano la fine del dominio romano oltre le Alpi e l’ultima rovina della politica conquistatrice che Cesare aveva pensato imitare da Lucullo e ingrandire.

Incertissime invece sono le notizie sulla via che egli tenne. Chi lo fa partire dai luoghi ove ora è Troyes e volgersi per Graj e Digione su Besançon295; chi invece lo fa partire da Joigny, traversare l’Armaçon a Tonnere, l’Aube a Dancevoir, con lo scopo di passare la Saona a Pontarlier o a Chalons per andare a Besançon296; chi invece lo fa partire da Vitry-Sur-Marne, per discendere la valle della Tille, toccar Digione, passar la Saona presso Saint-Jean de Losne e avviarsi verso la Narbonese lungo la riva sinistra della Saona297; chi infine lo fa partire da Bar sur Aube, nella direzione di Pontaillier-sur-Saone298. Certo è che, a quanto pare, la mattina del quarto giorno di marcia299, quando fu giunto a Beneuvre, tra Brevon e l’Ource secondo von Göler, sulle rive della Vingeaume secondo Napoleone III, nelle vicinanze di Montigny secondo il Duca d’Aumale, o presso Allofroy secondo l’anonimo scrittore dello Spectateur Militaire, Cesare fu all’improvviso assalito da Vercingetorice, in battaglia campale....300

Che cosa era avvenuto? Perchè Vercingetorice abbandonava la antica idea di continuare una lunga e piccola guerra di molestie, e tentava la grande guerra delle battaglie campali? Il generale gallo apparisce, anche dal racconto di Cesare, come un giovane d’ingegno e d’energia; onde è da supporre, in mancanza di notizie precise, che egli più che commettere un errore personale, scontasse allora l’infatuazione nazionale per il piccolo successo di Gergovia e fosse costretto dalle condizioni dell’esercito a far questo mutamento calamitoso. La guerriglia si può fare da un esercito più piccolo, con mezzi minori, senza grandi generali; ma è terribilmente faticosa e richiede perciò dei soldati coraggiosi, risoluti, pazienti. Sinchè Vercingetorice era stato a capo di piccoli corpi di cavalleria e fanteria, composti quasi interamente d’Arverni, clienti e servitori propri o degli amici suoi, sopra i quali possedeva grande autorità, aveva potuto indurli alla interminabile fatica delle molestie continue. Ma ora che si trovava personalmente alla testa di un esercito più numeroso ed eterogeneo; e capo, almeno nominalmente, dei numerosi corpi che tentavano di invadere la Gallia Narbonese, egli non potè più continuare nella antica guerriglia. Probabilmente le discordie tra i molti capi di questi corpi e le rivalità nazionali crescevano di giorno in giorno nel grosso esercito accozzato insieme in un momento di esaltazione e non retto da una disciplina sistematica, imposta da regole e da organi antichi e saldi; i soldati, i più clienti di gran signori avvezzi alle piccole razzie delle brevi guerre, altri reclutati in fretta in tutti i ceti, senza preparazione militare sufficiente, si stancavano e si disanimavano nella inerzia della lunga pausa sopravvenuta dopo Gergovia, per l’ignoranza delle intenzioni dei capi, della durata della guerra, del pericolo vero cui andavano incontro. Vercingetorice dovè temere, a un certo momento, che il furore patriottico si spegnerebbe presto e l’esercito si disperderebbe, come un’ondata che rifluisce, se egli non ravvivava l’entusiasmo con un altro successo simile a quello di Gergovia; pensò forse che l’esercito romano era disanimato e stanco, che i Parti avevano l’anno innanzi distrutto le legioni di Crasso assaltandole stanche in via con grosse torme di cavalleria. Se egli tentasse lo stesso assalto? Non potrebbe anche egli, meglio provvisto che Cesare di cavalleria, disperdere e tagliare a pezzi le legioni romane? E difatti egli lanciò addosso all’esercito di Cesare in marcia, di sorpresa, la sua cavalleria, mentre trattenne indietro, divisa in tre campi ed inerte, la fanteria.

Ma Vercingetorice ignorava forse che Cesare avesse reclutata nuova cavalleria oltre il Reno; e si trovò di fronte non le poche e deboli turmae romane, ma i vigorosi squadroni germanici. Si impegnò tra le due cavallerie una violenta zuffa, nella quale i Germani di Cesare, aiutati dalle legioni, misero in fuga alla fine i Galli, uccidendone molti. La battaglia non era stata molto terribile; eppure il mutamento nelle sorti della guerra che seguì, fu così grande e repentino, che non si può spiegare se non ammettendo che il raccogliticcio esercito gallo possedesse poca virtù di resistenza e pazienza; e che Cesare avesse prima giudicata la sua condizione più pericolosa che non fosse in verità. Vercingetorice ripiegò subito dopo la battaglia con le sue schiere in Alesia: segno evidente che credeva necessario di rinfrancarle alquanto nel sicuro riparo di una città munita; Cesare, per una delle oscillazioni consuete nella sua natura inquieta e nervosa, si riebbe, dopo la piccola vittoria, dalla prudenza, dalla incertezza, dalla riserva difensiva delle ultime settimane, a un impeto, a una velocità, a una audacia anche maggiori di quelle mostrate sino allora. La sera stessa della battaglia aveva abbandonata l’idea di ritrarsi, deliberato di sfruttare sino all’estremo questa vittoria, ripigliando audacemente l’offesa e tentando senza esitazioni l’estrema fortuna: o finirebbe la guerra subito e forse potrebbe ristabilire il suo credito a Roma; o perirebbe con l’esercito e affronterebbe in Gallia stessa quel fato che certo lo aspettava, allorchè fosse apparso come profugo con le vinte legioni nella Provincia. Il giorno dopo egli si mise sulle peste dell’esercito gallo; e quando, giunto davanti ad Alesia, ebbe osservata la rupe su cui era costruita, non esitò ad assediare, con 30 000 uomini, in mezzo a un vasto paese nemico e senza apppovvigionamenti sicuri, quasi altrettanti uomini in Alesia301; a tirarsi addosso gli eserciti andati nella Narbonese, che era facile supporre sarebbero accorsi in aiuto; ad aspettare lì, sotto le mura d’Alesia, la Gallia insorta e impegnar il cimento supremo. Il disegno era di una temerità quasi disperata; ma l’uomo fatale della storia d’Europa, il poeta della guerra a volta a volta prudente e avventato, era ormai risoluto a rischiare le estreme alternative della fortuna. I legionari sciolsero di sui giumenti che li avevan seguiti i grossi fasci di vanghe e di zappe; e ancora una volta incominciarono a scavar fosse e a drizzar terrapieni intorno alla città.

Vercingetorice tentò sulle prime di disturbare il lavoro con irruzioni di cavalleria; ma presto si accorse che avrebbe potuto a quel modo rallentarlo, non impedirlo. Che fare? Tentare una sortita, rischiare tutto in una battaglia campale era troppo pericoloso; lasciarsi chiudere significava immolarsi. Alla fine un consiglio di guerra deliberò dopo vive discussioni che si tentasse di fare uscire di nascosto, prima che la città fosse tutta circondata, la cavalleria; e di mandarla in squadroni per ogni parte della Gallia, a domandare contingenti d’aiuto a tutti i popoli. Il numero, il luogo, il tempo della missione erano determinati: più di 250 000 uomini dovevano raccogliersi, accorrere, piombare sulle trincee romane. Una notte quasi tutta la cavalleria galla uscì chetamente, riuscì a eludere la vigilanza delle sentinelle romane, a passare attraverso le opere di blocco ancora incompiute e a spargersi in molti stuoli ai quattro canti dell’orizzonte. Cesare fu molto spaventato quando seppe come felicemente fosse riuscita questa fuga audacissima, quando apprese l’immenso pericolo che gli sovrastava. La Gallia si muoverebbe al grido supremo di libertà e di riscossa che partiva dalla rocca di Alesia? Si accenderebbero su tutte le vie, attraverso le solitarie foreste druidiche, per le paludi tristi e deserte, di villaggio in villaggio, i fuochi annuncianti il pericolo e imploranti il soccorso? Annuncierebbero gli araldi della rivolta sin negli estremi villaggi delle montagne, che la patria gallica domandava un sacrificio supremo di sangue? Precipiterebbe sullo scoglio d’Alesia questa formidabile ondata di corpi e di armi?

Ma ormai la sorte era gittata: egli non poteva più ritirarsi; non poteva, come aveva fatto Lucullo sotto Tigranocerta, lasciare una parte dei suoi 30 000 soldati a continuar l’assedio e uscir con l’altra contro all’esercito di soccorso, perchè l’esercito era già troppo piccolo e dividendolo ogni parte rischiava perire; e non poteva nemmeno lasciarsi coglier così, da un grosso esercito, sotto Alesia. Un’altra volta ancora egli si trovava in una condizione critica.... E allora questo uomo, il cui spirito da sette mesi ferveva e ribolliva come una gran sorgente che balza impetuosa attraverso un meato troppo angusto, concepì ed eseguì senza prender respiro, in una concitazione suprema, una delle più strane e grandiose idee della antica guerra: chiudersi anche egli in una gran fortezza eretta a cerchio dal nulla; costruire verso la pianura un nuovo terrapieno, lasciando tra questo e quello che aveva già costruito verso la rupe della città un largo spazio, munendo il terrapieno di fuori di torri e di vedette. Tra le due trincee avrebbe vissuto e dimorato l’esercito come in una lunga fortezza; e correndo da un terrapieno all’altro, dall’una all’altra torre, voltandosi nel breve spazio medio, avrebbe tentato resistere agli assalti uniti degli assediati di Alesia, dei duecentocinquantamila uomini che sarebbero venuti dalla Gallia. Ma avrebbero i soldati avuto tempo di compiere l’immane lavoro, per il quale era necessario smuovere, come ha calcolato un moderno, due milioni di metri cubi di terra?302 Non avrebbe Cesare potuto essere a sua volta assediato dall’esercito di soccorso, come Mitridate sotto Cizico, e ridotto a morir di fame? Questioni ansiose, a cui Cesare non poteva rispondere. Anche allora, quando il nemico era lontano, l’approvvigionamento dell’esercito era difficile e scarso, sebbene i Remi e i Lingoni lo aiutassero303. Che cosa avverrebbe quando un’immensa moltitudine di armati occuperebbe tutto il paese, chiuderebbe tutte le vie? Ma la sorte era tratta; e Cesare instancabile, da mattina a sera, aiutato da Mamurra, da Antonio, da Labieno, da Decimo Bruto, da Caio Trebonio, da Caio Caninio Rebilo, da Caio Antistio Regino, dirigeva l’immane lavoro trasfondendo l’impeto suo nell’esercito; studiava i testi di poliorcetica, si consultava con Mumurra e con gli schiavi orientali più abili nell’ingegneria militare, faceva loro fare i disegni, li distribuiva ai centurioni mutali in capi mastri, faceva cercare per ogni parte legno e ferro; mentre novemila soldati lavoravano infaticabili, accatastavano terra, facevano buche oltre i terrapieni, mettevano dentro uncini di ferro e pali acuminati, le ricoprivano di fascine e di erbe, per seminare il terreno di trappole feroci.

Così passarono le settimane. Intanto per tutti i villaggi della Gallia la gioventù era scelta; i contingenti preparati, le armi forbite, i giumenti tratti fuori dalle stalle e caricati di grano; per tutte le vie della Gallia si incontravano i giovani, le processioni dei convogli che si avviavano ai luoghi di riunione, da dove sarebbero mossi verso Bibracte; a Bibracte si radunavano i nobili delle principali nazioni galliche, si discuteva del comando dell’esercito e del piano di guerra. Ma intorno ad Alesia era lo squallore silente e minaccioso di un deserto. Dell’esercito di soccorso non giungevano a Cesare che vaghe notizie; e invano le vedette di Vercingetorice spiavano dalle mura di Alesia l’orizzonte. In Alesia si cominciò a soffrir la fame; e il giorno venne in cui Vercingetorice, dopo aver messo a razione tutti, dovè sbarazzarsi delle bocche inutili: mandar tutta la popolazione della città fuori delle mura, nello spazio compreso tra queste e la trincea interna dei Romani. Egli sperava che Cesare li catturerebbe per venderli e quindi li salverebbe.... E difatti quella torma di vecchi, di donne, di fanciulli, gettata fuori alle intemperie e alla fame, implorò pane dai Romani, tendendo le braccia alle catene. Ma Cesare che non aveva pane che bastasse ai suoi soldati304, diè ordine di lasciarli morir di fame. Ogni giorno i Galli da Alesia e i Romani dalle loro fortezze vedevan donne, vecchi, fanciulli rosicchiar l’erba, piangere, lamentarsi, cadere estenuati; lo spazio tra le trincee e il monte mutarsi in un cimitero di cadaveri già quasi ischeletriti dal digiuno, nel campo di una disperata agonia famelica.... Ma i lamenti di tante donne, di tanti vecchi e fanciulli affamati non commuovevano nessun cuore romano e gallico, tutti induriti dal pericolo, dalla scarsezza dei viveri, da questa spaventosa e furiosissima convulsione della lotta dell’uomo contro l’uomo; se tra Alesia e le trincee si moriva d’inedia, in Alesia la guarnigione era ridotta agli estremi; nelle trincee romane i soldati lavoravano con il ventre vuoto; vincitori e vinti, assedianti e assediati, rischiavano di precipitare nella suprema disperazione della fame. Se in quei giorni terribili, invece di raccogliere un grande esercito di soccorso, numerose bande di guerriglieri implacabili avessero devastato tutto intorno il paese, avessero catturato i convogli dei Lingoni e dei Remi, l’esercito di Vercingetorice e la popolazione mandubia sarebbero forse morti di fame; ma sarebbero scesi nel nulla, spettri ischeletriti, trascinandosi dietro trentamila soldati romani, morti come loro di fame e di stenti, intorno alla rocca di Alesia.

Invece la grande guerra salvò ancora Cesare. Alla fine se non 250 000 uomini, un grosso esercito gallico apparve al soccorso305; un esercito reclutato in fretta in tutte le classi della società gallica, comandato da quattro generali, l’implacabile Commio, Vercassivellauno, Eporedorice, Viridomaro; numeroso, eterogeneo, faragginoso, con comando discorde e poco fiducioso. È stato giustamente osservato che due di questi generali erano Edui; e che gli Edui, come avevano seguito il moto rivoluzionario tardi, per imitazione più che per deliberata volontà, così possono aver combattuta questa suprema battaglia con una mollezza che consentisse una riconciliazione con Roma. A ogni modo, se questo esercito fosse stato un vero esercito regolare e ben comandato, avrebbe potuto facilmente distruggere Cesare, purchè avesse immolato Vercingetorice: assediandolo, come Lucullo aveva assediato Mitridate sotto Cizico, costringendolo ad aprirsi una via con la forza o a morir di fame. Invece la discordia del comando, la poca coesione della milizia, la fretta di salvare Vercingetorice indussero i capi a tentare replicati assalti contro le trincee romane, mentre Vercingetorice le assaltava dal dentro; sette giorni306 furono così consumati, senza poter rompere il gran baluardo di terra e di uomini che il genio di Cesare aveva eretto in un mese; Antonio, Labieno, Trebonio, Antistio e Caninio respinsero energicamente sotto gli ordini di Cesare gli assalti da tutte le parti delle trincee a cui furono diretti; l’esercito di soccorso si stancò e si scoraggì in questi inutili tentativi, che costarono molte perdite; e alla fine si sbandò, lasciando molti prigionieri in potere dei romani, senza aver potuto rompere la cerchia di baluardi che stringeva Alesia. Vercingetorice dovè allora capitolare. L’esercito suo, i superstiti dei Mandubii, gran parte dei prigionieri furono distribuiti ai soldati, di cui ciascuno ebbe uno schiavo. Verso la fine di settembre la guerra era finita, in un modo singolare e inaspettato da tutti.

La Gallia, ondeggiante tra una barbarie che veniva meno e una civiltà che incominciava a divulgarsi ma non aveva ancora rinnovato il paese, non seppe nè fare la terribile e ostinata guerriglia dei barbari, nè la sapiente guerra metodica dei popoli civili. Alternò guerra a guerriglia, si contradisse nell’azione, come era discorde la sua natura; e fu vinta da un piccolo esercito di 30 000 uomini. Vercingetorice fu l’eroe e la vittima di questa contraddizione, che poteva risolversi solo attraverso una grande rovina. Ma l’esercito romano e il suo duce avevano vinto, con la resa di Alesia, un gran cimento, che poteva terminare in una catastrofe, non solo se il generale fosse stato meno audace, immaginoso, infaticabile di corpo e di mente; ma se i soldati fossero stati meno fermi. Quei trentamila uomini avrebbero potuto essere presi da panico, sarebbero certamente stati presi da panico, se inesperti e novizi come quelli che Crasso si era tratto dietro alla conquista della Persia, quando si trovarono soli in un vasto paese di più milioni d’uomini diventato subitamente e furiosamente nemico, minacciati da ogni parte, senza comunicazioni con l’Italia e senza approvvigionamenti sicuri e base di operazione. Terribilmente efficace sarebbe stato, contro un esercito sgomento in mezzo a un paese in rivolta, anche l’alterno scambio di guerra e guerriglia che fecero i Galli; le legioni di Gallia avrebbero potuto essere sbandate e distrutte come quelle di Persia; Cesare perire sulla via della Narbonese, come Crasso sulla via dell’Armenia; e la storia dell’Europa mutar corso e destino. Ma la prudenza con cui Cesare era entrato in Gallia e un poco anche la fortuna gli giovarono. Egli potè esercitare a poco a poco le legioni con sette anni di guerra, prepararle al pericolo, avere nel supremo cimento un esercito degno del suo genio e quindi adoperare tra alcuni errori, nelle fauste e nelle infauste vicende, tutte le sue virtù. La fiducia reciproca tra generali ufficiali e soldati, nata e consolidata in tante guerre, quella fiducia che mancava all’esercito di Crasso, salvò le legioni dal furore della Gallia ribellata, dopo una lunga e faticosissima campagna, nella quale Cesare dovè camminare, in sette mesi, non meno di mille e cinquecento chilometri.

VIII.
I DISORDINI E I PROGRESSI DELL’ITALIA.

Intanto, mentre in Gallia imperversava la crisi suprema dell’imperialismo democratico, a Roma Pompeo era stato nominato console solo. Poco dopo la partenza di Cesare, la violenza dei tumulti che non finivano e il timore d’una candidatura di lui avevano vinti gli ultimi scrupoli dei conservatori arrabbiati, i quali, proprio perchè costretti a scegliere il male minore, preferirono alla fine la dittatura di Pompeo a quella di Cesare. Ma Catone era riuscito a persuadere il Senato di nominare Pompeo, anzichè dittatore, console unico, perchè in tal maniera sarebbe stato responsabile alla fine della magistratura, secondo il rigido principio costituzionale307. Pompeo potè così aggiungere al seguito di onori straordinari ricevuti anche il privilegio, contrario alle più severe norme costituzionali, di essere nel tempo stesso console e proconsole; e ne fu così lieto, così orgoglioso, così grato ai conservatori e a Catone i quali glielo avevano consentito, che, invitato Catone nel suo giardino, lo ringraziò con molta effusione, gli disse sperare che l’avrebbe aiutato con il consiglio nelle difficili contingenze.... Catone gli rispose semplicemente ed asciuttamente che aveva inteso non di far piacere a lui, ma di giovare allo Stato; e che quanto alle faccende pubbliche gli avrebbe manifestato il suo pensiero, anche se egli non lo avesse desiderato308. Ma più che per queste cerimonie la crescente inclinazione di Pompeo verso i conservatori apparve nelle leggi che propose. Egli fece concedere per legge a Cesare la facoltà di domandare assente il consolato; ma rivide con rigore le liste dei cittadini tra cui si estraevano a sorte i cento giudici di ogni processo politico, riducendoli a 950, in parte senatori in parte cavalieri in parte plebei309, tutte persone su cui aveva grande autorità; e propose una lex Pompeia de ambitu e una lex Pompeia de vi che accorciavano i processi, inasprivano le pene di tutti i reati di corruzione politica commessi dal 70, comprendendo così il tempo in cui Cesare aveva più largamente profuso l’oro in tutta Italia; che abbreviavano e rinvigorivano la procedura contro i reati di violenza310. Propose inoltre una lex Pompeia de provinciis, che confermò a legge il senatusconsulto dell’anno innanzi: le Provincie non poter essere governate se non cinque anni dopo deposta la pretura e il consolato311; una lex Pompeia de iure magistratuum, nella quale, tra molte disposizioni che non conosciamo, si riconfermava il divieto di domandare il consolato lontano da Roma, eccezione fatta per coloro cui il popolo avesse accordata o accorderebbe l’esenzione312. I più zelanti e diffidenti amici di Cesare non accolsero con egual favore tutte queste proposte; ma siccome Cesare e Pompeo erano allora amici, le leggi furono approvate dal popolo, sia pur dopo molte discussioni; e riuscirono gradite ai conservatori, alle classi alte, alle persone ragionevoli e dabbene, come Cicerone, che ammiravano in esse il proposito di restaurare l’ordine politico e morale nella nazione scompigliata dalla corruzione, dalla demagogia, dalle sfrenate ambizioni dell’imperialismo. Ma ancor più che le leggi accrebbero reputazione a Pompeo, tra i ceti alti e ricchi, i processi fatti in seguito a queste sue leggi; le numerose condanne e i numerosi esilii di uomini turbolenti e corrotti, che egli fece deliberare in fretta e furia, quasi rivoluzionariamente, dai tribunali, usando di tutta la sua autorità per indurre e quasi imporre ai giudici sentenze di condanna; il piccolo terrore giudiziario di cui fu autore, con grande ammirazione dei conservatori. Tra i condannati fu anche Milone. L’irritazione e il disgusto disponevano le alte classi e tutte le persone che avevano desiderio di ordine all’ammirazione della severità pronta, poco importa se strettamente giuridica: bisognava ripulire Roma senza riguardi, colpir duramente! Ma poi, come avviene sempre nelle età civili, ricche, voluttuose, corrotte dallo spirito di clientela, ciascuno applicava questa severità generica agli sconosciuti; non mai ai propri amici o parenti, per i quali i più spietati giudici si convertivano in protettori. Così Pompeo si atteggiava a castigatore severissimo dei ribaldi; e con diversi condannati delle alte classi si mostrò di una durezza quasi feroce, dicendo per esempio a Memmio, venuto a domandargli protezione in un processo, quando dal bagno si recava a pranzo: “insistendo, non otterrai che di far raffreddare il mio pranzo.” Ma poi salvava i suoi amici; e quando era stato accusato Scipione, di cui aveva sposata in quel tempo la figlia, la bella e giovane Cornelia, vedova di Publio Crasso morto in Mesopotamia, non solo egli lo aveva fatto assolvere, ma lo aveva scelto a collega nel consolato. A ogni modo anche questa giustizia grossolana non fu senza efficacia; le elezioni poterono farsi senza disordini: e se Catone non fu eletto console, perchè non volle spendere un sesterzio, furono eletti Marco Claudio Marcello, di nobilissima stirpe e nemicissimo di Cesare; e Servio Sulpicio Rufo, quel giureconsulto, che era stato candidato dieci anni prima contro Catilina, e che, diventato con l’età e con l’esperienza più opportunista, era adesso, se non amicissimo, benevolo a Cesare. Meglio ancora: la reazione contro le stravaganze e le corruzioni dell’imperialismo cresceva. Anche Cicerone, che allora finiva il suo libro sullo Stato, aveva, scrivendo tante nobili cose e recapitolando la più eletta saggezza politica greca, scosso l’accidioso scetticismo in cui era impigrito negli anni precedenti; ammirava caldamente Pompeo, incominciava a sperare, e, per uno scrupolo che dimostra il fondo onesto dell’animo suo, pensava a pagare il debito contratto con Cesare, che egli giudicava ora con maggior severità.

In quest’anno però, pieno di tanti torbidi, crucciato da tante ansietà, avvenne un fatto piccolo per i contemporanei che appena se ne accorsero: per la prima volta i mercanti esportarono nelle provincie olio fabbricato in Italia313. Sino allora la Grecia e l’Asia avevano provvisto i mercati del Mediterraneo e l’Italia stessa; ora l’Italia poteva far loro concorrenza, tanto la coltivazione si era perfezionata e diffusa; tanto i prezzi dell’olio erano rinviliti per la grande produzione soverchia al bisogno. Questo piccolo fatto, di cui uno dei più diligenti e laboriosi eruditi del mondo antico ci ha conservata la preziosa notizia, mostra come pure in mezzo a tante guerre, a tante discordie, a tanto disordine continuasse la lenta opera degli ignoti e degli umili schiavi orientali al servizio e sotto la guida degli Italiani; ci lascia intravedere ancora una volta, al di là dei pochi guerrieri e politici ingombranti la storia di sè, una moltitudine di uomini senza nome, affaccendata nel molteplice lavoro necessario a trasformare l’Italia in una nazione industriosa e capitalista. In tutte le città minori dell’Italia, liberti, figli di liberti, piccoli e medi possidenti, immigrati, antichi legionari e centurioni in congedo tornati dai lontani paesi al luogo natio o stabilitisi con qualche amico della milizia in paesi conosciuti durante il servizio, si ingegnavano di accrescere la propria ricchezza, accumulavano risparmi, acquistavano qualche particella delle terre che le grandi famiglie aristocratiche indebitate vendevano, compravano schiavi, miglioravano le colture, avviavano commerci, importavano arti e mestieri, aprivano officine.

I progressi della coltura delle olive di cui quel fatto narrato da Plinio è segno; i progressi contemporanei della vigna, che tra poco altri fatti ci mostreranno; non sarebbero stati possibili se tra la grande possidenza assenteista e gli avanzi della antica piccola possidenza manovale e ignorante non si fosse allora formata una media possidenza che tentava con piccoli capitali e con schiavi ingegnosi le sapienti culture intensive dell’Oriente. La antica piccola possidenza non avrebbe saputo perfezionare a questo modo la coltivazione; i grandi possidenti assenteisti non possedevano gli immensi capitali necessari a ricoprire vaste regioni di ulivi, di vigne, di alberi fruttiferi, di stalle, di case coloniche, e non potevano quasi mai prestare l’opera personale, necessaria alla buona riuscita. Qualche speculatore enciclopedico, qualche ricco usuraio e studioso cercatore di ogni occasione di lucro, qualche latifondista di gran lignaggio, qualche letterato o uomo politico o generale celebre potevano o per capriccio o per brama inappagata di lucri o per seguire la moda dei rinnovamenti agricoli tentare su qualche terra loro queste nuove culture314; ma ai grandi proprietari conveniva sopratutto, salvo nelle terre vicine alle città e specialmente a Roma, esercitare la pastorizia, sia pure con maggior cura che nella antica età barbara. Nelle selve infatti e nelle praterie ancor vaste della valle del Po, nell’Italia meridionale dove lo spopolamento della guerra annibalica non era stato più riparato, gli schiavi dei grandi di Roma pascolavano armenti numerosi315; grandi proprietari di pascoli erano gli ultimi superstiti ricchi della nobiltà romana, come Domizio Enobarbo, che formavano il nucleo più vigoroso del partito conservatore. Ma tra questi latifondi, specialmente nell’Italia settentrionale e centrale, le coltivazioni intensive, i vigneti e gli uliveti facevano continui progressi, per opera di medi capitalisti, che non vivevano più, come l’antico medio ceto rustico, in campagna, poveramente, con numerosa prole e lavorando con le proprie braccia la terra; ma passavano molta parte dell’anno nella vicina città, sorvegliando da vicino gli schiavi, lasciando a questi tutti i lavori manuali, vivendo in celibato o con pochi figli, cercando molteplici guadagni, piaceri e comodi. In questo stesso tempo noi possiamo ragionevolmente supporre che nelle minori città dell’Italia incominciassero quei progressi delle arti e delle industrie, che vedremo tra cinquanta anni prorompere da un capo all’altro d’Italia in una magnifica primavera di civiltà, di ricchezza, di lusso. I progressi infatti dell’agricoltura di cui Plinio racconta erano effetto di un perfezionamento più generale di civiltà, che necessariamente promuoveva una maggiore divisione del lavoro in tutta la vita sociale e quindi anche nella industria. Nella antica Italia rustica il possidente faceva da sè quasi ogni cosa, le vesti, i mobili, gli attrezzi rustici; era il proprio artigiano e industriale; si sforzava affinchè la propria famiglia bastasse a sè stessa.... Ma il nuovo possidente, più colto, più intelligente, più raffinato nei suoi bisogni voleva vesti più fini, strumenti più perfetti, guadagni più sicuri, e capiva che i suoi schiavi non potevano riuscir bene in ogni cosa; che gli conveniva perfezionarli in qualche opera e provvedersi invece al mercato di molti oggetti che prima si fabbricava in casa. Così il commercio e l’industria progredivano; e schiavi orientali potevano essere comprati e impiegati nelle industrie non solo in Roma ma nelle città minori dell’Italia; liberti o emigranti o avventurieri randagi a caso per l’Italia in cerca di pane trovavan spesso lavoro in qualcuna di quelle colonie latine, di quei municipi, di quelle città federate che ancora chiuse tra le torve mura ciclopiche parevano minacciar morte, come in antico, allo incauto straniero che si avvicinasse loro senza la garanzia dell’ospizio. È probabile che in questa età cominciò a formarsi quel ceto di mercanti e quell’artigianato che vedremo prosperare nelle città minori dell’Italia mezzo secolo dopo; che in tutta l’Italia del nord, da Vercelli a Milano, a Modena, a Rimini incominciarono ad aprirsi le fabbriche di stoviglie, di lucerne, di anfore che poi divennero così celebri316; che a Padova e a Verona nuovi artigiani e mercanti tentarono di fabbricare ed esportare quei celebri tappeti e quelle coperte che più tardi tutta l’Italia doveva conoscere e usare317; che a Parma e a Modena una piccola plebe cercò di vivere tessondo in casa stoffe con le magnifiche lane dei grandi armenti pascolanti nei dintorni per conto di lontani signori e che molti si diedero al commercio di queste lane per l’Italia318; che intorno a Faenza si piantò lino e nella città si cominciò a filarlo ed a tesserlo319; che Genova, a piè delle sue montagne selvose, diventò emporio frequentato del legname, delle pelli, del miele e del bestiame, che i Liguri diradati ma ancora selvatici e ostinati nei vecchi costumi portavano dalle valli solitarie320; che ad Arezzo i proprietari delle antiche officine ceramiche di origine etrusca rinnovarono, approfittando dell’abbondanza degli schiavi, il personale e la fabbricazione, comprarono schiavi greci abili nel disegno e incominciarono a far quelle patere, quelle lucerne, quei vasi rossi così celebri più tardi321; che la metallurgia prosperò all’Elba; che Pozzuoli cominciò a essere un gran centro del commercio del ferro, dove ricchi mercanti compravano i ferri dell’Elba, li facevano convertire da fabbri in spade, in elmi, in chiodi, in spranghe, in oggetti varii, per poi spedirli in tutta Italia322; che Napoli diventò la città dei profumi e dei profumieri, Ancona sede di fiorenti tintorie di porpora323. Dappertutto cresceva anche il popolino degli artigiani per i bisogni locali; i tintori, i lavandai, i fabbricanti di sagae e di toghe, i calzolai, i facchini, i carrettieri324; cresceva il numero delle navi e dei mercanti di schiavi. Le città dell’Italia che avevano languito dolorosamente nei cinquanta anni della gran crisi, quando le antiche nobiltà locali e i medi ceti rustici si consumavano, rifiorirono adesso, albergando il nuovo ceto medio dell’Italia, quella borghesia di possidenti e di mercanti che voleva vivere nella città e consumare nei piaceri cittadini il frutto di speculazioni sagaci, di migliorie agricole sapienti, del lavoro di schiavi bene educati e ben scelti. Questa nuova borghesia era la erede delle vecchie istituzioni locali dell’Italia: nelle colonie e nei municipi, degli antichi ordinamenti dati da Roma aristocratica; nelle città alleate, delle secolari istituzioni politiche, che avevano servito a reggere le città quando erano stati autonomi ed indipendenti, e che dovevano, dopo la concessione della cittadinanza, servire come istituzioni municipali, sebbene tante cose essenziali fossero state mutate, sconvolte, rinnovate negli ultimi cento anni. Dappertutto la sua parte migliore e più agiata formava l’ordine dei decurioni, tra i quali si sceglieva con procedimenti diversi il piccolo senato e i magistrati che governavano le città325. Del resto questa classe si teneva appartata dalla politica non soltanto perchè quasi tutti i suoi membri vivendo lontano da Roma si trovavano nella metropoli solo per caso qualche volta in tempo di elezioni e non potevano far uso dei diritti elettorali; ma sopratutto perchè in quella democrazia formatasi sulle rovine di una aristocrazia gloriosa non si poteva acquistar potenza, occupare le magistrature, prender parte attiva alla vita politica se non possedendo o un gran nome o una grande ricchezza o una grande cultura. Era meglio faticare ad arricchire, procurare di aver pochi figli, farli studiare; e avviarli così con la ricchezza e con l’istruzione per la via della gloria e della potenza.

In tutta Italia cresceva il fervore del rinnovamento civile e intellettuale, che era nel tempo stesso causa ed effetto della politica di conquista; il consumo, i bisogni, il lusso, lo sforzo di tutte le classi per accrescere la propria ricchezza, la propria cultura, la propria potenza. Non posava la emigrazione degli Italiani in tutte le provincie dell’impero, dovunque fosse un lucro facile ed abbondante; Cesare accoglieva nelle legioni la gioventù di tutta l’Italia che volesse arricchire e segnalarsi con gli affari e la guerra, così i discendenti delle nobili stirpi di Roma come i figli delle agiate famiglie delle città secondarie, di Piacenza, di Pozzuoli o di Capua326, perfino un antico impresario di trasporti, Ventidio Basso, un piceno catturato bambino nella guerra sociale, poi liberato, poi datosi all’industria dei trasporti, poi stancatosi di affittar giumenti e schiavi ai governatori in viaggio e andato in Gallia con Cesare327; la carica di praefectus fabrum o capo del genio in un esercito poteva essere per appaltatori che avessero pratica dell’arte di costruire comodo passaggio dagli affari al ceto politico328; ormai in tutte le scuole – ce ne erano anche nelle città piccole ed erano tenute da privati, liberti i più, a cui gli scolari pagavano un salario – si confondevano tutti i ceti, i figli dei liberti poveri e i figli di senatori, i contadini e i cavalieri329. A Roma conveniva una folla di giovani d’ogni parte d’Italia, di diversa condizione e progenie, a tentare la via della fortuna attraverso gli studi: dall’Etruria era forse già venuto un certo Caio Cilnio Mecenate, un giovane probabilmente ventenne di un’antica famiglia reale etrusca, datasi poi agli affari e agli appalti; dalla Cisalpina un certo Cornelio Gallo diciottenne, nato di modesta famiglia; dal paese dei Marsi un certo Asinio Pollione, giovane di ventitré anni, nato di nobile famiglia, uno dei cui antenati si crede fosse stato generale degli insorti nella guerra sociale; e da Cremona Quintilio Varo e da Verona Emilio Macro e da Mantova un certo Publio Vergilio Marone che aveva allora diciotto anni, ed era figlio, a quanto pare, di un antico vasaio di un paesello vicino a Mantova, che con l’apicultura e il commercio del legname si era fatto una discreta fortuna così da poter mandare il figlio agli studi prima a Cremona, poi a Milano e nel 53 infine a Roma330. Tra questi giovani, i quali incominciavano sin d’allora a stringere la rete di amicizie intense e durevoli, che li ha fatti celebri tutti, conoscendosi nelle scuole di eloquenza e di filosofia, quello spirito di innovazione, che era stato ancora in Catullo audacia quasi solitaria, si propagava quale largo moto rivoluzionario della gioventù, che investiva per rovinarli, come un torrente, i vecchi monumenti del pensiero latino: la vecchia epica monumentale di Ennio e Pacuvio, gli stentorei drammi classici, le rozze commedie di Plauto, i sali grossolani di Lucilio, i gravi poemi didascalici in pesanti e monotoni esametri. Valerio Catone, il gran maestro di poesia di tutta la gioventù colta d’Italia331, e qualche greco, tra gli altri Partenio, un orientale catturato a Nicea da Lucullo, venduto in Italia, liberato e finito a Napoli poeta, maestro di letteratura greca e amico dei giovani letterati italiani, avevano incominciato a divulgare il gusto di un’arte più fina e più snella; Catullo aveva, con l’impeto selvaggio del suo estro, precipitata questa rivoluzione latente; e lui morto, il suo spirito sopravvisse negli amici e nei seguaci appassionati della nuova poesia: Caio Elvio Cinna, a quanto pare della Gallia Cisalpina; Caio Licinio Calvo, Caio Memmio, Quinto Cornificio, di nobili famiglie romane; che volevan tutti gettare alle fiamme il vecchio ciarpame nazionale; dare il volo per tutta Italia sulle ali dei metri snelli a sciami di leggiere poesie personali di intensa potenza lirica; intonar flebili elegie, compiacersi nelle raffinatezze erotiche, esercitarsi nel difficile e squisito psicologismo, sfoggiare la rara erudizione mitologica della poesia alessandrina332. Qualche giovane, come Asinlo Pollione, serbava un poco di fedeltà all’antica letteratura classica333; ma i più eran travolti dall’entusiasmo rivoluzionario, deliravano per i nuovi modelli e per la letteratura nuova. Anche Virgilio, che era arrivato dalla sua scuola di Milano con idee antiquate e con l’ingenuo proposito di scrivere, sul modello di Ennio, un gran poema nazionale intorno alle gesta dei re di Alba334, aveva cominciato a studiare eloquenza presso il celebre Epidio, il maestro di tutti i giovani delle alte classi; ma ben presto prese in orrore la sua grossolana fatica e depose l’idea; e scoraggiato dalla sua timidezza, dall’impaccio che soffriva nel parlare, abbandonò la eloquenza per la filosofia, andò alla scuola di un epicureo amico di Cicerone, Sirone, e si buttò con fervore a indagare il gran mistero del Tutto. Leggere, studiare, empirsi lo spirito di grandi idee generali e di immense teorie, frugare a fondo l’Essere, divenivan passioni comuni dei giovani; ma si divulgava nel tempo stesso una vaghezza indocile di cose nuove, una nuova ammirazione della forma, una ricerca di finitezza, di delicatezza, di perfezione nei particolari che la generazione invecchiante non aveva conosciuta.

Gli uomini maturi e di inclinazioni conservatrici, come Cicerone, giudicavano severamente il nuovo disprezzo insolente dei giovani per tutto il venerabile passato di Roma335. Non era questa un’altra forma di quello spirito rivoluzionario che travagliava, sconvolgeva, non lasciava requie all’Italia? Questi giovani che consideravano Ennio e Plauto come grossolani impiastrafogli, non erano animati dallo stesso spirito che sospingeva Cesare e il suo partito a mettersi sotto i piedi la vecchia costituzione? Che cosa rimaneva più dell’antica Roma? La costituzione repubblicana si era mutata in una vicenda vertiginosamente rapida di dittature rivoluzionarie. Il vecchio costume, se sopravviveva ancora in molta parte del vivere, era spregiato dalla giovane generazione impaziente. Molte città, come cominciavano a sentire la stretta delle immense muraglie in cui le avevan chiuse le antiche generazioni al tempo in cui la guerra era dappertutto, così soffrivano per l’invecchiamento soverchio delle istituzioni. L’imitazione greca diventava mania; e lo spirito rivoluzionario minacciava divampando distruggere l’Italia e l’impero, come il rogo di Clodio aveva incenerito la Curia. Anzi i conservatori illuminati, sempre pavidi e pessimisti, si domandavano se l’espiazione non fosse già incominciata. Che cosa restava dell’infatuazione bellicosa e democratica degli anni precedenti? Una grossa guerra in Oriente, una grossa guerra in Gallia e il fastidio dei debiti contratti spensieratamente in quegli anni in cui tanti, pensando già di possedere i favolosi tesori della Persia e della Britannia, si erano dati allo spendere sconsiderato. I debiti pareva non finirebbero dal travagliare mai la nazione signora del mondo; tanto rapidamente era venuto meno il sollievo dei capitali portati da Pompeo, tanto poco bastavano ai nuovi bisogni i capitali che Cesare mandava dal saccheggio delle Gallie. Molti miglioramenti nella agricoltura e nella industria erano stati ottenuti con nuovi denari presi a prestito, ad alti interessi; ai vecchi debiti non pagati se ne erano aggiunti altri e più grandi; tutto l’edificio della nuova società pareva riposare sulle fondamenta di un credito fragile. Anche le alte classi, salvo un piccolo numero di capitalisti, erano oberate; oberate le famiglie nobili, il maggior numero dei personaggi politici, che avevano per patrimonio vaste terre e case in Roma, ma possedevano pochi capitali. I fattori rubavano sulle terre lontane appena il padrone si lasciasse troppo distrarre dalla politica; gli inquilini delle case spesso ritardavano i pagamenti; gli schiavi che essi dovevano tenere a Roma per i servizi di casa, per le lotte politiche, per ostentazione di lusso erano una grave spesa, in una città specialmente come Roma, dove il grano costava così caro336; le speculazioni tentate, senza aver tempo e voglia di sorvegliare gli schiavi che avrebbero dovuto eseguirle, riuscivano spesso rovinose. Non tutti sapevano disciplinare il proprio servidorame così bene come Cesare! Non di rado senatori che possedevano un gran patrimonio e una celebrità considerevole si trovavano in impiccio, per sborsare la dote della figlia, per pagare somme relativamente piccole; e dovevano prenderle a prestito con grave usura.... Non di rado un personaggio illustre, come Cicerone, doveva parlare nel consesso sovrano del vasto impero con in cuore l’ansia delle vicine scadenze, la noia delle angustie continue, il fastidio della regale mendicità di grosse somme, obbligatoria per tanti di quei partecipi alla signoria del mondo! I prestiti di favore agli uomini potenti nello Stato e lo sconto grazioso di crediti poco solidi erano un obbligo per i ricchi finanzieri che volevano avere amicizie nel ceto politico, come l’amicizia di ricchi finanzieri era un espediente necessario per gli uomini di Stato. Gli uni e gli altri parevano così aiutarsi amicamente e generosamente; quando invece i politici bisognosi cadevano in soggezione degli uomini potenti dell’oro: tra i quali potentissimo era Attico, cui molti uomini politici di Roma, Catone, Cicerone, il fratello di Cicerone, Ortensio, Aulo Torquato e molti altri avevano affidata tutta la intricata amministrazione dei loro patrimoni, facendo di lui non solo il proprio banchiere nei momenti di impiccio e il proprio computista, ma il consigliere intimo in tutte le contingenze difficili, private e pubbliche337. Così l’arruffio dei debiti e dei crediti si intricava sempre più338.

IX.
I “RICORDI DI GALLIA”.
(Anno 51 a. C.)

Cesare era uscito dalla guerra contro Vercingetorice vittorioso ma screditato. La sua gloria di conquistatore delle Gallie e la sua riputazione di generale unico erano ormai sciupate. Durante quei sette lunghissimi mesi, nell’alterna e ansiosa vicenda del primo spavento, poi delle buone novelle successive, poi della calamità di Gergovia, poi delle notizie quasi disperate degli ultimi mesi, l’Italia aveva finalmente capito che la conquista della Gallia, annunziata da Cesare nell’anno 57 e ratificata dal Senato nel 56, era ancora da compiere; e precipitando dalla confidenza antica in uno sconforto altrettanto soverchio, temeva ora che Cesare non sapesse rapidamente finire l’impresa cominciata con tanta temerità339. Nelle democrazie mercantili il pubblico, composto di nobili, di possidenti, di mercanti, di professionisti, di uomini colti, di gente insomma profana alla milizia, giudica gli eventi della guerra dal successo; considera come eroe chi vince, maledice come infame chi perde: e per questo così spesso disturba da lontano le operazioni degli eserciti con scoraggiamenti ed entusiasmi soverchi. Così accadde allora. L’Italia aveva visto la Siria e il Ponto diventar sicuri possedimenti romani dopo le conquiste di Lucullo e di Pompeo; vedeva ora invece la Gallia invasa, annessa e sempre piena di nuove rivolte; e ne concludeva che la guerra di Gallia durava così a lungo perchè Cesare non sapeva finirla; non discernendo che, a differenza di Pompeo e di Lucullo, Cesare aveva per sua disgrazia affrontato non stati ed eserciti regolari, ma un popolo, nel quale era forte ancora il sentimento della propria stirpe e l’amore dell’indipendenza; ignorando che le guerre contro grandi eserciti sono giochi da fanciulli e quasi divertimenti in confronto alle guerre contro un popolo anche piccolo, del quale una parte sia risoluta a non dar quartiere all’invasore. La conquista della Gallia, che i posteri considerarono come la grande gesta di Cesare, pareva invece un insuccesso ai contemporanei, ne screditava l’autore, ridava alla fine coraggio ai conservatori, che rinnovavano ora, con maggior successo presso il pubblico, le antiche accuse. A rovine come quelle di Persia e di Gallia doveva necessariamente condurre la politica aggressiva, corruttrice, ingiusta, rivoluzionaria dei capi popolari....

Cesare sentì da lontano questo mutamento della opinione pubblica del quale tanto più doveva dolersi, dopochè si era proposto di farsi ridare il governo della Gallia Transalpina per il comando proconsolare che gli toccherebbe alla fine del secondo consolato340. Egli ambiva far ciò che sino allora tra tante guerre non aveva potuto: creare una provincia, come aveva fatto Pompeo ordinando un nuovo governo nel Ponto e nella Siria con leggi sapienti e stabili; dare anche egli alla Gallia ordinamenti amministrativi che potessero durare: ma tanto più desiderava questo nuovo comando, dopochè Pompeo aveva ottenuto dal popolo con legge, per comando proconsolare del suo nuovo consolato, il governo della Spagna per altri cinque anni con due legioni di più, e dal Senato, riconoscente a lui per l’ordine ristabilito, l’assegno di 1000 talenti per il mantenimento delle legioni nel prossimo anno341. Del resto era ormai necessario a Cesare restar proconsole a vita di grandi provincie: come avrebbe altrimenti potuto procurarsi i mezzi per mantenere la sua clientela, egli che non aveva nè la reputazione, nè le parentele, nè le ricchezze di Pompeo? Bisognava perciò ben disporre a tempo l’opinione pubblica, rassicurandola; e a questo scopo egli die’ mano allo strumento di dominazione sulle anime che dopo l’oro è il più potente nelle democrazie mercantili ed istruite: la penna. Negli ultimi mesi del 52342, sebbene fosse oppresso da innumerevoli brighe, Cesare trovò il tempo di scrivere i “Ricordi di Gallia”; un libro popolare destinato al gran pubblico e abilissimamente composto, con cui voleva persuader l’Italia che egli era un valente generale e che non aveva fatta in Gallia quella politica violenta, aggressiva, rapace, di cui lo accusava il partito conservatore. Con studiata modestia egli rimpicciolì in ogni parte la persona e la opera propria, per risposta a quei conservatori che lo accusavano di essere un ciarlatano insaziabile di popolarità; si descrisse come un benefattore entrato in Gallia con quattro legioni e pieno di buone intenzioni per i Galli, costretto poi contro voglia dalle loro provocazioni a far la guerra e sempre vittima della loro ingratitudine; nascose gli insuccessi e ingrandì i successi ma abilmente, con leggere alterazioni, senza lasciarsi mai cogliere in fallo di menzogna sfrontata e in modo da illudere facilmente l’incauto lettore343; cercò di far credere che aveva vinte sterminate moltitudini di nemici, ma senza affermar mai egli le inverisimili cifre: ora quelle cifre erano state lette da lui in tavole trovate nel campo nemico344, ora dette da informatori345, ora messe in bocca a qualche nemico in un discorso346. Egli sembra riferire imparzialmente le bugie altrui; e intanto senza dirle egli stesso le ha fatte credere alla posterità. Delle prede non fa parola, tranne delle vendite degli schiavi che sapeva non gli sarebbero severamente rimproverate; non si dilunga a raccontar i movimenti strategici, che al lettore, ignaro della geografia della Gallia, sarebbero riusciti poco chiari; descrive invece con molti particolari battaglie ed assedi, il cui racconto poteva piacere ai pacifici borghesi d’Italia, beati, come sono sempre le classi agiate e pacifiche, di trovarsi con la fantasia a battaglie e a pericoli, leggendo un libro sotto il portico dipinto di un bell’atrio inondato di sole. Il libro insomma era un saggio di letteratura militare e politica ad uso dei profani; e mirava ad illudere ancora una volta l’Italia con uno stile meravigliosamente lucido semplice rapido.

Il libro fu scritto con una velocità che stupefece gli amici347; probabilmente in non più di due mesi. Ma la narrazione che è abbastanza riposata nei primi libri diventa precipitosa verso la fine. Cesare aveva dovuto affrettarsi a raccontar la guerra di Vercingetorice, perchè un’altra ne cominciava. I grandi della Gallia sfuggiti l’anno precedente cercavano di rattizzar la rivolta; e le popolazioni del nord e dell’ovest insorgevano di nuovo. Questa guerra non finirebbe dunque mai; i successi più faticosi sarebbero sempre precari; avrebbe egli dovuto ricominciare ogni anno, sino a perdere ogni prestigio? Furibondo, Cesare non volle nemmeno aspettare questa volta la primavera; e in pieno inverno lanciò le legioni nel paese degli insorti Biturigi, non a guerra, ma a carneficine, a saccheggi, a ruberie, a incendi. Finite queste stragi egli entrò nel paese dei Carnuti, insorti anche essi di nuovo sotto il comando di Gutuatro; e ripetè medesime devastazioni furiose. A Roma invece l’anno era incominciato più quetamente del solito; e in marzo il Senato si radunò per provvedere alle Provincie vuote: alla Cilicia e alla Siria in special modo, perchè i Parti avevano già fatto nel 52 un’incursione nella Siria per vendicarsi della invasione di Crasso; e Cassio, che era soltanto questore, l’aveva respinta assai bene comandando come proconsole. Ma si aspettava una nuova invasione per il 51; e bisognava mandare in quelle provincie i proconsoli. Siccome però per la legge approvata l’anno prima non potevano essere proconsoli o propretori se non coloro che erano stati consoli e pretori cinque anni avanti, bisognò cercare tutti quei magistrati che non erano andati al governo di una provincia, all’uscir dal Consolato e dalla Pretura, e metterne i nomi nel bossolo da cui si estraevano a sorte i comandi. La sorte capricciosa assegnò la Siria a Bibulo, il collega di Cesare nel consolato, e la Cilicia a Cicerone348.

Cicerone ne fu seccatissimo349. Aveva appena finito allora di scrivere il “De Republica” e lo metteva in giro; volgeva in mente l’idea di altri lavori; ed ecco la cieca sorte lo sbalzava dalla sua Roma, dalle belle ville sul mare e sui colli in fondo all’Impero: lui, uomo di penna e non di spada, di biblioteche più che di campo, a comandare una guerra contro il nemico che aveva distrutto uno dei maggiori eserciti di Roma! Ma non era possibile rifiutare il carco, in quel frangente, senza ricorrere in biasimi meritati; e Cicerone dovè interrompere le sue faccende, incominciare i preparativi, disporsi alla partenza. Riuscì a persuadere il fratello Quinto tornato di Gallia e il suo amico Caio Pomptino, più esperti di lui in cose di guerra, ad accompagnarlo, per essergli consiglieri se disgraziatamente dovesse combattere i Parti; e compose subito l’editto350, cioè il corpo delle prescrizioni di diritto privato e amministrativo che gli parevano più urgenti per la provincia, sebbene poco potesse conoscerla, e che i governatori pubblicavano, dando loro forza di legge per l’anno del loro governo; scelse tra i suoi schiavi e liberti quelli che eran necessari ad aiutarlo nel governo della provincia: i segretari, tra i quali un liberto che portava il suo stesso nome M. Tullio351 e un giovane schiavo, Tirone; i corrieri che avrebbero portato a Roma e riportate le lettere; i portantini per il viaggio, i domestici che lo servissero, che andassero innanzi a ogni tappa a far preparare gli alloggi, per lui e per il seguito, nelle città in cui si fermerebbero e che erano obbligate a offrire ospitalità in casa di qualche signore. Un proconsole del resto trovava facilmente in ogni città ricchi signori che lo ospitavano graziosamente con il seguito.... Poi si intese con uno dei tanti impresari che affittavano ai governatori i giumenti necessari a trasportare i bagagli352; caricò su quello i bagagli suoi e del seguito, le anfore piene di monete d’oro contenenti la somma che l’aerarium gli aveva assegnata per il governo della provincia353, e che egli non lasciò a Roma a frutto presso qualche banchiere, come molti tacevano; affittò gli schiavi necessari a guardar questo tesoro nel viaggio; incaricò Celio di mandargli notizie minute di tutto ciò che succederebbe; e si mise in viaggio, portando seco, come Quinto, il giovane figlio354 e lasciando in Italia la moglie. Quinto non fu molto afflitto di lasciar per qualche tempo Pomponia, una sorella di Attico, permalosa, isterica, puntigliosa, che faceva sempre delle scene355. Del resto nell’alta società romana le signore erano avvezze a vedersi periodicamente abbandonate dai mariti in viaggio per guerre o governi lontani; e tutte, a stento o facilmente, dovevano rassegnarsi a queste vedovanze temporanee e periodiche, perchè la famiglia era ormai piuttosto una convenzione che un sentimento o un dovere, nella aristocrazia signora del mondo.

Ma prima di partire, in aprile, Cicerone aveva già vedute le prime avvisaglie della nuova guerra tra Cesare e i conservatori356. La guerra in Gallia non terminava, nonostante le crudelissime devastazioni; Ambiorige, Commio, Lucterio erano apparsi di nuovo in armi; i Bellovaci erano insorti, insorti gli Atrebati, i Cadurchi, i Veliocassi, gli Aulerci, i Senoni; e Cesare costretto a correre disperatamente la Gallia, stanco di tante lotte, inquietissimo per lo spavento che queste nuove rivolte, dopo quella di Vercingetorice, farebbero nascere in Italia, s’imbestialiva, perdeva la poca calma che ancor gli restava in una esasperazione terribile. Avuto in suo potere Gutuatro, il capo de’ Carnuti, lo fece uccidere a colpi di verga in presenza delle legioni; quando ebbe presa la città di Uxelloduno, ove si era rifugiata l’estrema resistenza dei Cadurchi, fece tagliare le mani a tutti i prigionieri. Per fortuna nella rivolta di Vercingetorice e in quelle del 51 egli aveva fatto gran bottino saccheggiando senza misericordia, confiscando beni, forse anche vendendo il perdono ai nobili compromessi357; e tutto quell’oro poteva profondere sull’Italia e l’Impero. Generoso di solito, l’ansietà del pericolo lo faceva prodigo: non rifiutava rifugio e aiuto a nessun condannato a Roma per le leggi di Pompeo; prestava largamente a tutti i giovanotti scapestrati e ai senatori – erano tanti! – angustiati dai debiti; raddoppiò lo stipendio ai soldati, fece doni anche ai servi ed ai liberti dei personaggi potenti di Roma per avere nelle case loro amici o spie; imbandì al popolo in memoria di sua figlia Giulia un colossale banchetto, che die’ gran lavoro ai macellai ed ai venditori di vettovaglie; fece doni alle città della Grecia; mandò in regalo ai re dell’Oriente migliaia di prigionieri Galli; usò ed abusò delle prerogative della Lex Vatinia, facendo cittadini ogni sorta di liberti d’ogni paese, per aumentare il numero degli elettori a lui favorevoli358. L’aiuto dato ai condannati doveva in special modo significare riprovazione di quella specie di terrore giudiziario stabilito a Roma e tanto ammirato dai conservatori. Con la ansiosa precipitazione dell’uomo che si sente in pericolo egli cercava amici da ogni parte, in tutti i modi; e proseguendo il suo piano di non tornare a Roma se non il primo gennaio del 48 già console, per riavere poi la Gallia, mandava in aprile una lettera al Senato a domandare che gli si prolungasse sino al primo gennaio del 48 il comando almeno della Gallia Transalpina. I suoi amici lavoravano molto per fargli ottenere questo onore, dicendo esser giusto lasciare l’onore del riordinamento definitivo a chi aveva faticato tanto per conquistare la Gallia, non interrompergli neanche di un giorno il governo. Ma questa volta il partito conservatore era meno disanimato che tre anni avanti. Era console in quell’anno Marco Claudio Marcello, un nobile di gran lignaggio, provvisto delle qualità e dei difetti comuni agli aristocratici superstiti in mezzo ai torbidi delle democrazie con il desiderio del dominio ma senza le qualità necessarie ad esercitarlo: intelligenza discreta, coltura, quell’orgoglio autoritario e quella debolezza di carattere che mescolandosi insieme prendon forme diverse nei contrasti con la democrazia progrediente nello stato, nei costumi, nelle idee: ora di indifferenza signorile e di altero disprezzo per tutto ciò che costerebbe troppa fatica a conquistare contro cui manca l’energia di combattere; ora di bel coraggio e bella tenacia intermittenti, quando l’orgoglio è impegnato; ora di violenza e di caparbietà. Sino allora Marcello, che pur era certamente da un pezzo come tutti i conservatori intransigenti uno dei più severi spregiatori del popolaresco Cesare, non aveva mai partecipato alla lotta contro di lui alacremente, nè primeggiato nella politica, percorrendo il corso degli onori a poco a poco oscuramente, più che per sforzo energico di ambizione, per la forza del nome, delle parentele, delle amicizie. Questa volta però, essendo console nell’anno in cui nel suo mondo si risvegliavano gli spiriti pugnaci, non avendo le volgari ambizioni che facevano prudenti tanti altri senatori, provando anche un aristocratico diletto nel provocare le collere dei popolari e della piazza, non si trattenne dal mostrare e sfogar l’odio che aveva per Cesare, quando in Senato vennero in discussione le sue proposte; e rompendo alla fine la acquiescente debolezza di tutti i consoli degli ultimi anni, non solo fece respingere in aprile le domande di Cesare359, ma propose che si ritogliesse la cittadinanza a coloro, cui Cesare l’aveva concessa. Il Senato pare approvasse; i Tribuni si interposero e la deliberazione non potè essere approvata, ma solo registrata360. Ben presto circolò una diceria grave, e cioè che Cesare volesse concedere – per risposta – la cittadinanza romana a tutti gli abitanti della pianura del Po; diceria di cui si spaventò Cicerone, quando gli venne agli orecchi nel mese di maggio, mentre viaggiava verso Taranto361. Altre dicerie più gradite ai conservatori seguirono: che Cesare avesse perduta la cavalleria e una legione, che stretto dai Bellovaci si trovasse in condizioni disperate362. Ora che la sua gloria di generale si era mutata in sfiducia, ogni voce di sconfitta trovava facilmente credito in quella Roma, che pochi anni prima lo acclamava come “il generale unico”. I conservatori presero nuovamente coraggio; si disse che Marcello porterebbe presto in Senato la questione del richiamo di Cesare; Celio interrogò il console direttamente e seppe che difatti egli aveva questa intenzione, per la seduta del primo giugno363. L’altero Marcello, ora che si era impegnato nella lotta, ci si impuntava; e per provocare ancor più apertamente Cesare e la piazza, verso la fine di maggio fece punire con le verghe – castigo del quale i cittadini romani non potevano esser colpiti – un comasco che Cesare aveva fatto cittadino. Se non si era potuto annullare le sue concessioni, egli almeno voleva mostrare in qual conto le tenesse! Ma le persone ragionevoli disapprovarono questa violenza364.

Intanto Cicerone viaggiava verso Taranto; ma poco lietamente. Aveva saputo per via che il suo predecessore Appio Claudio congedava numerosi soldati, che a Roma il console Servio, probabilmente per vendicarsi delle malignità dette da Cicerone contro di lui, undici anni prima, ai tempi di Catilina, nella difesa di Murena da Servio accusato, impediva che il Senato decretasse l’invio di rinforzi in Cilicia e in Siria365. Mandare un oratore a combattere i Parti era una strana politica; ma mandarlo senza esercito era raffinata vendetta; e una prova dello sfrenato egoismo in cui i membri di quella aristocrazia signora di impero troppo grande smarrivano il senno. A Taranto Cicerone fece visita a Pompeo, presso il quale sostò, ospite, tre giorni; e nelle lunghe conversazioni che ebbe con l’illustre politico si rallegrò di udire dalla bocca di Pompeo tanti propositi eccellenti: che bisognava farla finita con la demagogia turbolenta e faziosa; restaurare l’autorità di un corpo veramente aristocratico come il Senato, la giustizia, l’ordine, l’imperio delle leggi366. Poi era andato a Brindisi ad aspettare una buona nave mercantile su cui imbarcarsi.

Venne il primo giugno; ma Marcello, pregato da Pompeo, aveva avuto un momento di debolezza, tralasciando di proporre in Senato la questione del comando delle Gallie, come intempestiva367, perchè la legge Licinia Pompeia del 55 vietava di trattarla avanti il primo marzo 50. L’attenzione del pubblico si volse allora alle elezioni per l’anno 50, che si fecero tra il giugno e il luglio. Cesare mandò molti soldati alla spicciolata a votare; ma il suo candidato al consolato, Marco Calidio, cadde, e furono eletti consoli Caio Claudio Marcello, cugino del console in carica ma pur esso ardente nemico di Cesare, sebbene fosse suo parente, avendo sposato quell’Ottavia che Cesare aveva offerta a Pompeo, e L. Emilio Paolo, in voce di conservatore, ma non così sicuro, perchè Cesare gli aveva dato il lucroso incarico di costruire per suo conto grandi edifici in Roma. Invece le altre elezioni erano state più favorevoli a Cesare; anzi tra i dieci tribuni uno solo, Caio Furnio, era favorevole al partito conservatore. I conservatori fecero perciò intentare un processo per corruzione ad uno degli eletti, Servio Pola; lo fecero condannare e lavoravano allora per far riuscire in suo luogo Curione, arrabbiato nemico di Cesare368. Le elezioni a pretore invece erano state differite. Finita l’agitazione elettorale, i nemici di Cesare ripigliarono la loro guerra di molestie; ed il 22 luglio, discutendosi in Senato sull’assoldamento delle legioni di Pompeo, che pareva volesse andare in Spagna369, gli domandarono conto della legione ch’egli aveva prestata a Cesare. Pompeo ammise di doverla ridomandare, non subito però, per non parere di dar ragione ai nemici dell’amico suo. Gli domandarono anche che cosa pensasse del richiamo di Cesare ed egli rispose vagamente che tutti dovevano obbedire al Senato, senza dire di più, rimandando ogni cosa al ritorno di un viaggio a Rimini, dove intendeva recarsi a sorvegliare i reclutamenti fatti per lui nella valle del Po370. Si aspettava perciò da tutti che se ne parlasse nella seduta del 13 agosto: ma questa fu rimandata per la discussione del processo di corruzione intentato ad uno dei consoli designati; e quando si radunò la volta dopo, al primo settembre, il Senato non era in numero371. Questo club di affaristi, professionisti e dilettanti incominciava a spaventarsi. Che cosa si voleva ottenere con questi maneggi? Pompeo continuava a dichiarare Cesare amico suo; coloro che conducevano la guerra contro Cesare erano, non ostante la gloria gentilizia dei loro nomi, persone poco potenti, che cimentavano Cesare per passatempo e la cui amicizia a ogni modo non sarebbe stata compenso all’odio del potente, munifico, audace, per quanto ormai malfamato condottiero delle Gallie. Tuttavia in questa seduta Pompeo fece intendere come non approvasse una candidatura di Cesare assente; e Scipione propose che il primo marzo si trattasse della provincia gallica e di nessuna altra cosa; ciò di cui Cornelio Balbo si dolse assai, considerando come Pompeo si avvicinava sempre più visibilmente ai conservatori372. Intanto, fatte le elezioni rimanenti, il candidato dei conservatori alla pretura Favonio era caduto, ma in compenso Marco Celio Rufo e Marco Ottavio erano stati eletti edili Curuli e Curione tribuno della plebe: tutti nemici di Cesare373. Infine intorno allo stesso tempo il Senato prese una grave misura: impensierito dal grande numero dei debitori e dalla carestia del denaro, conseguenza necessaria della pazza esaltazione degli anni 55 e 54, ordinò che l’interesse legale massimo fosse quello del 12 % e che gli interessi non pagati si aggiungessero al capitale, ma non fruttassero374.

Deliberazione strana in apparenza. Il Senato faceva dunque sua, dieci anni dopo, sia pure addolcendola, la politica di Catilina? Gli uomini del denaro infatti brontolarono: se il Senato dava a quel modo l’esempio di toglier valore alle leggi e annullare la santità dei contratti, non avrebbe avuto ragione la parte più violenta del partito popolare di domandar di nuovo che si bruciassero tutte le syngraphae?375 In certe cose è troppo difficile fermarsi a mezzo; transigere significa cedere. Eppure anche questa mollezza del Senato era un segno dei tempi, come era un segno il gran successo del nuovo libro politico di Cicerone, il De Republica, che messo in giro quando egli stava per partire era allora cercato e letto avidamente da tutte le persone colte376, copiato e ricopiato un gran numero di volte dagli schiavi e liberti che facevano professione di amanuensi e librai, come quelli di Attico, che in casa aveva una grande e lucrosa officina libraria. A mano a mano che il rammollimento delle ricchezze del piacere della coltura si spandeva nell’antica rigidezza, a mano a mano che lo spirito mercantile si divulgava, il sentimento pubblico inclinava a comporre gli antagonismi politici ed economici con transazioni e conciliazioni, perchè nessuna classe o partito sentiva più in sè le energie, il coraggio, la durezza necessaria ad arrischiarsi in una lotta senza quartiere, di vita o di morte, con i propri rivali. Tale è sempre, del resto, il progresso della civiltà. Era lontana la terribile età di Mario e di Silla! Perciò il pubblico desiderava allora di finire i contrasti tra creditori e debitori non distruggendo quelli o rovinando questi, ma con amichevoli accordi; e ammirava nel De Republica non solo la magnificenza dello stile, ma lo splendido disegno di un governo armonicamente composto di democrazia, aristocrazia e monarchia.

Ma questo spirito di conciliazione placava molti odii, non quello del piccolo gruppo dei nemici di Cesare. Il 30 settembre costoro riuscirono con un grande sforzo a far discutere nel Senato, in presenza di Pompeo, la questione del suo comando. Invano il console Servio ammonì di non essere precipitosi in una questione che poteva diventar causa di grossi guai; il suo collega propose si decretasse che al primo marzo dell’anno seguente i consoli metterebbero in discussione il comando delle Gallie, che il Senato dovrebbe radunarsi tutti i giorni sinchè non avesse deliberato, che anche i senatori facienti ufficio di giudici dovessero essere presenti. Questa proposta fu approvata. Ma quando Marcello propose che il Senato dichiarasse fin da allora nullo in precedenza ogni veto dei tribuni e che i tribuni i quali si opponessero fossero considerati nemici pubblici; quando propose che si prendessero in considerazione le domande di congedo che i soldati di Cesare presenterebbero, quasi per invitare a presentarle, diversi tribuni, tra i quali Caio Celio e Caio Vibio Pansa opposero il veto. La votazione del resto sarebbe stata di poco momento, senza il contegno di Pompeo. Non solo egli dichiarò che se prima del prossimo marzo non si poteva deliberare sulle provincie allora occupate da Cesare senza recargli offesa, dal primo di marzo in poi si sarebbe potuto e dovuto deliberare; ma disse anche che, secondo il suo parere, Cesare, ove facesse interporre il veto dai tribuni, dovrebbe considerarsi come ribelle. Un senatore, fatto ardito da questa dichiarazione, gli domandò allora che cosa farebbe se Cesare volesse restare al comando dell’esercito; al che Pompeo rispose: “Che cosa farei se mio figlio mi desse uno schiaffo?377” Egli non aveva mai così chiaramente annunciata la sua separazione definitiva da Cesare; l’ambizione di essere a capo della parte della società italiana eletta per coltura per censo per natali, il riordinatore dello Stato romano. La conversione di Pompeo alle idee conservatrici progrediva veloce, affrettata dalla vecchiaia, dal rispetto che i grandi gli mostravano, dallo sgomento per le rovine e i pericoli dello Stato, dalla opinione pubblica, forse anche dal gran successo del De Republica. Era evidente, se tutti leggevano il libro con tanta passione, che l’Italia domandava un illustre, intelligente, elegante salvatore. Chi, se non egli, avrebbe potuto essere l’uomo presentito da Cicerone, desiderato da tutti? Si aggiunga infine il dispetto per la protezione accordata da Cesare a tutti i condannati dai suoi giudici e in seguito alle sue leggi.

Cesare compieva allora la sua ultima campagna nelle Gallie; ma Roma fu di lì a poco, in novembre, messa in ansia da cattive notizie dell’Oriente; da lettere di Cassio e di Deiotaro che annunciavano i Parti aver attraversato l’Eufrate in gran numero. Qualche conservatore scettico o maligno mostrava di diffidare: Cassio, che era in sospetto di cesarianismo, aveva inventato l’invasione per attribuire ai Parti i saccheggi fatti da lui. Ma la lettera di Deiotaro toglieva ogni dubbio378. Il pubblico, come al solito, si commosse: era una grossa guerra; l’onore di Roma era impegnato; bisognava prendere subito provvedimenti: chi voleva spedire Pompeo e chi Cesare; ma i consoli si trovarono nella peggiore ansietà, temendo che il Senato, per non scegliere tra Cesare e Pompeo, incaricasse uno di loro di questa guerra, che nè Marcello nè quel vecchio leguleio di Servio volevano andare a comandare, perchè i Parti, dopo la sorte di Crasso, spaventavano non poco gli impressionabili signori del mondo. Essi quindi incominciarono a differire le radunanze del Senato, impedendo così ogni deliberazione, mentre tutti a Roma credevano di essere minacciati da una guerra terribile379. Gli amici di Cicerone sopratutto erano in grande ansia: che cosa accadrebbe del vecchio scrittore, il quale nuovo alla guerra si trovava a governare con così pochi soldati una provincia invasa da tal nemico? E difatti il grande scrittore aveva passato poco allegramente i principî del suo governo. In viaggio, a Samo, gli era venuta incontro una deputazione di pubblicani italiani residenti nella provincia a complimentarlo e a pregarlo di conservare nel suo editto alcune disposizioni del predecessore380; sbarcato nella provincia, si era trattenuto un poco a Laodicea per vigilare il cambio in moneta paesana delle somme portate dall’Italia, affinchè fosse fatto onestamente381. Questi cambi, disonestamente fatti con la complicità dei governatori, erano uno dei maggiori lucri dei finanzieri italiani in Oriente. Ma in mezzo a queste cure era stato ben presto sgomento dal disordine in cui giaceva la milizia: aveva trovata la provincia infestata, come dalle cavallette, da nugoli di usurai italiani, e l’esercito, che avrebbe dovuto servire a difenderla contro l’invasione dei Parti, dislocato dal suo predecessore Appio Claudio in piccoli distaccamenti al servizio di questi uomini d’affari, affinchè potessero, manu militari, costringere al pagamento i debitori restii; anzi in questa dispersione dell’esercito tre coorti si erano perdute; nessuno sapeva dove fossero!382 Immaginarsi con che cuore egli dovè ricevere nel mese di agosto la notizia che il nemico aveva varcato con grandi forze l’Eufrate. In principio aveva pensato che il suo collega di Siria provvederebbe a respingerli, ma di lì a poco avendo saputo che Bibulo non era ancor giunto in Siria, Cicerone si spaventò, scrisse il 18 settembre una lettera supplicante al Senato, sollecitando provvedimenti: le provincie ed i loro redditi erano in pericolo; si mandassero soldati dall’Italia, perchè le reclute asiatiche non valevano nulla e degli alleati, stanchi del malgoverno romano, non era prudente fidarsi383. Tuttavia egli – ed è una prova del suo zelo civico come della sua abilità – cercò di far quanto poteva, raccolse i suoi pochi soldati, tralasciò i giri di amministrazione e si portò a difendere la via della Cappadocia, caso mai i Parti volessero invadere la provincia d’Asia, considerando che la frontiera della Cilicia verso la Siria era facile a difendersi con pochi soldati. Ma di lì a poco, saputo che i Parti avevano invasa la Siria e si avanzavano verso Antiochia, corse verso questa frontiera, giunse a Tarso il 5 ottobre, da dove si mosse verso la catena dell’Amano; sinchè verso il 10 ottobre seppe che Cassio aveva battuti i Parti sotto Antiochia e che il nemico si ritirava. Per quel gusto che le persone intelligenti provano talora a fare qualche tempo un mestiere diverso dal proprio, come per giuoco, Cicerone volle allora tentare una piccola spedizione contro le barbare tribù brigantesche della catena dell’Amano; e consigliato da suo fratello e da Pomptino, diede una battaglia, assediò la città di Pindenisso, ricevè dai soldati il titolo di Imperatore; catturò schiavi e cavalli; vendè gli schiavi a Pindenisso stesso, distribuendo la somma ricavata ai soldati. Contento di aver così fatto anch’egli per due mesi il generale, se ne tornò nella provincia384.

A Roma la lettera di Cicerone che domandava soccorso e quella di Cassio che annunciava la vittoria giunsero insieme e furono lette nella stessa seduta del Senato verso la fine di novembre385: l’una annullava l’impressione dell’altra; il terribile nemico parve vinto ed a Roma nessuno ci pensò più.

X.
LE BRIGHE DI UN GOVERNATORE ROMANO.
(Anni 51-50 a. C.)

Torbidi giorni cominciavano invece per Cesare. Gli sforzi per recuperare il favore del gran pubblico imparziale, riusciti un momento nel 56 e nel 55, erano definitivamente falliti. Dalla morte di Giulia in poi tutto gli era andato a rovescio: il disastro di Crasso, la morte di Clodio, la rivolta di Vercingetorice, l’alienamento di Pompeo, le nuove guerre galliche del 51. Disgraziatamente gli uomini personificano sempre, nelle vicende della storia, la cagione dei beni che godono o dei mali che soffrono in qualche loro simile; e perciò, come qualche anno prima si attribuiva a Cesare il merito di tutti i felici eventi che allietavano la repubblica, ora i più, disillusi e scontenti, inclinavano ad apporgli la colpa di tutti i mali: i pericoli che parevano minacciar dall’Oriente, la guerra interminabile di Gallia. le frontiere indifese, la corruzione e il disordine incurabile dello Stato, la rinnovata lotta di classe tra ricchi e poveri. Questo disfavore del pubblico rinfocolava gli antichi rancori delle alte classi contro di lui; e ormai sparlare di Cesare e disprezzarlo era quasi un obbligo di tutte le persone dabbene, nella aristocrazia, tra i ricchi proprietari e i capitalisti, tra i giovani eleganti e alla moda; un obbligo non politico e morale, ma mondano, che è peggio ancora, perchè gli obblighi mondani sono i più tirannici per le alte classi, nei tempi in cui la ricchezza, il piacere e la cultura ammolliscono il carattere. La cricca conservatrice era così imbaldanzita, che Catone dichiarava ormai senza ambagi di volere trarlo in giudizio e far condannare all’esilio appena avesse smesso il comando386: quanti avevano avuto rapporti amichevoli con lui negli anni precedenti, se ne vergognavano a segno, che intorno a questo tempo perfino il prudente Attico gli domandò la restituzione di 50 talenti, prestati a lui ancor prima che fosse console387. La rinnovata avversione delle alte classi incoraggiava a sua volta il malcontento di tutto il pubblico; e ahimè! troppo scarso compenso a questo era l’ammirazione dei piccoli appaltatori388 cui egli aveva dato e dava tanto lavoro, del popolino di artigiani e di liberti inasprito contro i grandi dalla morte di Clodio.

Cesare capì da lontano questo gran mutamento del pubblico e le sue cagioni profonde. Sebbene il suo spirito eccitabile si lasciasse qualche volta portare al di là del vero, del ragionevole e del giusto dalle contagiose esaltazioni dei tempi, non si immagini lui, a 50 anni – tanti ne aveva allora – somigliante a Napoleone trentacinquenne, invasato da un orgoglio inumano della propria grandezza, tormentato da una insaziabile bramosia di potere! Non solo il romano era più equilibrato e possedeva intelligenza più complessa, più duttile, più fine; ma gli era mancato il successo troppo rapido; aveva dovuto conquistare quanto possedeva, la ricchezza la gloria la potenza, con 25 anni di fatiche ininterrotte, ed a 50 anni ancora era l’uomo più odiato, spregiato, vilipeso dalle alte classi. Egli aveva potuto a più riprese, per la plastica sensitività del suo spirito, sentire ed esprimere stati diversi del sentimento pubblico: la democrazia conciliante e signorile dal 70 al 65; la concitazione degli odii democratici dal 65 al 60; l’imperialismo enfatico, rapace, corruttore e prodigo dal 58 al 55; ma pur mutandosi proteicamente a questo modo, per una mirabile plasticità di commozioni, era restato pur sempre uomo semplice e possente; che possedeva una intelligenza profonda e lucida di scienziato indagatore della realtà; che non desiderava la ricchezza come Crasso per sè stessa ma come mezzo; che amava le donne ma in compenso era sobriissimo e quasi astemio; che aveva fatto e rifatto ville e palazzi in Italia per dar lavoro, senza goderli, continuando a vivere senza lusso nella barbara Gallia; che amava la gloria, ma non le adulazioni servili, le enfasi gloriose, le esagerazioni spavalde; che aveva faticato sopratutto per appagare un sublime bisogno di esercitare le mirabili facoltà sue. Questo uomo dalla intelligenza così lucida, penetrante ed equilibrata non poteva ostinarsi per cieco orgoglio; capì gli errori suoi tanto più facilmente perchè in gran parte li aveva commessi per necessità più che per inclinazione; sentì esser necessario dar soddisfazione allo spirito pubblico; e con un altro di quei suoi mutamenti meravigliosamente rapidi, dall’esasperazione furente con cui aveva percossa in quell’anno la Gallia si volse verso l’Italia con fronte rasserenata, disposto alla moderazione e alla conciliazione. Cesare era, per temperamento e per necessità, più conservatore che non apparisse dalla demagogica e rivoluzionaria politica cui era stato costretto dopo la congiura di Catilina: per temperamento perchè, come tutti gli uomini di grande ingegno educati nelle alte classi, non poteva rassegnarsi a restar privo tutta la vita dell’ammirazione del proprio ceto, ambizione suprema delle sue fatiche; per necessità, perchè sebbene avesse sperimentata più volte, vincendola, la inerzia politica delle alte classi, capiva che la folla cosmopolita di artigiani e liberti, la torma di avventurieri, di ambiziosi, di speculatori, di cui soltanto si comporrebbe il suo partito se Pompeo lo abbandonava, non sarebbe mai saldo e potente strumento di signoria. Alla testa del popolino artigiano di Roma egli aveva potuto conquistare per sorpresa un gran posto nello Stato; ma non potrebbe mantenerlo a lungo, senza godere, come Lucullo, come Pompeo, come Cicerone ammirazione e credito in mezzo alle classi medie ed alte, alla borghesia agiata ed istruita, che non ostante lo scetticismo politico possedeva i due strumenti di dominazione più potenti nelle democrazie mercantili, la ricchezza e il sapere; e contro la volontà delle quali nessun governo poteva lungamente durare. Riacquistare la perduta ammirazione delle alte classi era stato dopo la congiura di Catilina ed era allora l’intento supremo che spiega il maggior numero delle sue azioni: per quello aveva dichiarata la Gallia provincia e combattute tante guerre; per quello si disponeva ora a una politica di abile moderazione che avrebbe stupita l’Italia. Egli non voleva allora in nessun modo – sarebbe stato pazzo, se l’avesse pensato – conquistare il potere assoluto389; ma solo diventar console per l’anno 48 senza abbandonare prima il comando per sfuggire al processo che i suoi nemici gli minacciavano; e intendeva riuscire a questo scopo rinnovando l’alleanza con Pompeo, volgendo di nuovo a suo favore l’opinione pubblica con le maggiori concessioni e con una moderazione straordinaria. Se il pubblico imparziale e Pompeo parteggiavano per lui, la cricca conservatrice sarebbe di nuovo impotente, come nei giorni della grande infatuazione imperialista.

Ma la fretta avuta nel 59 di farsi dare il comando delle Gallie il primo marzo, subito dopo morto Metello, era adesso cagione che la legge, votata nel 52 per concedergli di domandare assente il consolato, rischiasse di non servirgli a nulla. Egli era costretto, per rassicurare la opinione pubblica angustiata dalla interminabile guerra, ad affermare energicamente che la conquista della Gallia era finita: ma i conservatori traevano da questa affermazione la conseguenza rigorosamente logica, che il privilegio aveva perduta la sua ragione di valere, e cioè la necessità di prolungare a Cesare il comando per motivi militari. La legge non era forse stata votata per lo spavento delle rivolte di Vercingetorice? Ma se la Gallia era tranquilla, se i suoi poteri venivano meno al primo marzo del 49, se non c’era ragione di prolungarli, perchè mai avrebbe egli dovuto domandare il consolato lontano da Roma?390 Cesare non poteva dubitare che questo argomento, cui del resto non mancava fondamento di ragione, prevarrebbe in Senato nella seduta del primo marzo 50. Bisognava perciò guadagnar tempo, far rinviare questa deliberazione, non però con violenze o mezzi scandalosi che sdegnassero le alte classi; e nemmeno con il vecchio ed abusato espediente delle intercessioni tribunizie, il quale dopo le ultime dichiarazioni di Pompeo non sarebbe senza pericolo. A questo scopo gli bisognava anzitutto trovare un nuovo Clodio. Troppo aveva sentito, negli ultimi anni, la mancanza di questo potentissimo agente! Con quella audacia immaginosa di sùbite e straordinarie sorprese, un poco vaga di stravaganze quasi inverisimili, che era propria della sua natura geniale ed ardita e che in questa materia era accresciuta dalla lunga esperienza della universal corruzione e dalla persuasione ormai fatta che il mondo si governava con il ferro e con l’oro391, egli pose gli occhi, per farsene uno strumento, addirittura sul suo più accanito nemico: Curione. Era costui un giovane intelligentissimo e coltissimo, un grande oratore e letterato; ma dissipato, insaziabile di denaro, ambizioso, smanioso di far parlare di sè, cinico, squilibrato e violento; un “briccone di genio” come lo ha definito un antico392; un Clodio più intelligente e più fino; un uomo figurativo, ripugnante e piacevole nel tempo stesso, della ultima depravazione in cui si dissolveva la estenuata nobiltà romana. Offrendo di pagargli gli immensi debiti e di dargli altre grosse somme di denaro, Oppio lo trasse alle parti di Cesare; e insieme convennero, segretamente, che Curione, simulando di restar nemico, avrebbe intorbidate le cose in modo che il primo di marzo non si sarebbe votato sulla questione del comando di Gallia393. Come nel 59 aveva tentato di nascondere l’alleanza con Crasso e Pompeo, così allora, per non irritare il pubblico con una nuova corruzione più audace delle precedenti e per meglio sorprendere gli avversari, Cesare voleva tener segreta l’alleanza con Curione, il quale doveva da solo, almeno in principio, come Cesare aveva fatto per Crasso nel 65, affrontare il pericolo e l’odio dei maneggi necessari a conseguire l’intento. La dissimulazione del resto era agevole; perchè il pubblico non avrebbe facilmente indovinato che due avversari così antichi si fossero rappacificati.

Difatti Curione, appena entrato in carica, il 10 dicembre del 51, sorprese tutti proponendo diverse leggi, di cui alcune dovevano spiacere ai conservatori, altre ai popolari, e la cui discussione fu con molti pretesti rinviata per i due primi mesi dell’anno, sin quasi al principio di marzo394. Allora Curione, che era Pontefice, propose di interporre, tra il 23 e il 24 febbraio, il mese Mercedonius, che secondo il vecchio costume si doveva intercalare ogni due anni, per assestare il calendario sul corso del sole: così non mancherebbe il tempo di discutere le sue proposte prima che, arrivando il mese di marzo, ogni argomento fosse posposto alla discussione sui comandi delle provincie. Ma non avendo ottenuta l’intercalazione, egli si finse sdegnato con il partito conservatore, propose due leggi molto popolaresche sulle vie e sulle frumentazioni395; la necessità di discuter le quali fu buon pretesto al console Lucio Emilio Paolo, che in quel mese presiedeva il Senato e che era amico di Cesare, di rinviare la discussione delle provincie....396 Cesare aveva ottenuto il suo scopo, per il bizzarro intervento di un suo nemico, pareva: e nessuno poteva muovergli rimprovero....

Pompeo tollerò questo rinvio, non ostante le dichiarazioni dell’anno innanzi; e si contentò di far sapere privatamente che, secondo la sua opinione, si potrebbe conciliare il diritto acquisito da Cesare e la rigida osservanza della costituzione, lasciando Cesare nel comando sino al 15 novembre, quando le elezioni sarebbero già state fatte397. Pompeo, che gli agi e l’età – aveva allora 56 anni – ammollivano, che incominciava a sentire nella salute l’effetto delle fatiche militari durate in gioventù e della tensione nervosa di tante brighe politiche, che era pieno di incomodi e tutti i momenti cadeva ammalato398, non voleva, come non voleva Cesare, precipitare gli eventi. Era allora rispettato da tutti: dai popolari ancora, dai conservatori di nuovo; era l’uomo più celebre e potente dell’impero; perchè guastarsi questa condizione privilegiata irritando troppo gli amici di Cesare? Quanto al maggior numero dei senatori, a quella folla di politicanti meno illustri che avevano saputo farsi eleggere alle magistrature, acquistar potere, considerazione, ricchezza destreggiandosi abilmente tra i due partiti, corteggiando i popolari e i conservatori, Catone e Cesare, Pompeo e Cicerone secondo l’opportunità del tempo, senza mai dichiarare guerra aperta nè agli uni nè agli altri, tutti costoro non volevano arrischiarsi in perigliose avventure ed erano intimiditi dalla invisibile e onnipotente opinione pubblica, non meno di Cesare; capivano che se l’Italia giudicava severamente la politica turbolenta di Cesare, con maggior severità avrebbe giudicata la politica di provocazione e di guerra civile che gli arrabbiati del partito conservatore desideravano. L’Italia, i possidenti ricchi e medi, i mercanti, i capitalisti, i liberti denarosi, i maestri, i letterati che osservavano imparziali questa contesa volevano pace399. Tutti si immaginavano la futura guerra civile dalle memorie della passata, orrenda per questa generazione nella quale, non ostante la corruzione ed i vizi, pure il sentimento umano, il patriottismo benevolente, l’orrore delle tirannidi sanguinarie e capricciose erano cresciuti, per i benefici influssi della filosofia greca, della ricchezza diffusa, del vivere più raffinato. Si voleva dunque veder riapparire in Roma la mostruosa figura di Silla, abominazione di tutti i partiti? Poi la guerra civile avrebbe incendiate le fattorie, devastate le case, rubati nei templi, che erano le banche d’allora, i denari deposti dai privati; avrebbe sospeso il credito di cui tanti avevano bisogno in tutte le classi come di aria e di pane; avrebbe, come un terremoto, spezzata la roccia su cui quella borghesia mercantile riposava: la fedeltà degli schiavi. Come tutte le società a schiavi, questa Italia così orgogliosa della sua potenza mondiale, così fiduciosa nella propria fortuna, era tormentata dentro, senza tregua, da una sospettosa inquietudine.... Che cosa sarebbe avvenuto in una guerra civile di questa moltitudine di servi tanto cresciuta che ogni casa ne albergava qualcuno; venuta da tutti i paesi, composta di ogni sorta di uomini tenuti nella subordinazione alla meglio, nel gran disordine dei tempi, dagli odii e dalle gelosie che li dividevano pur nel servaggio, dalle differenze di lingua e di razza, dagli sforzi personali dei padroni: dagli uni con la crudeltà, le verghe, le catene, la croce; da altri, come Cesare, con una giudiziosa distribuzione di pene e di ricompense; da qualcuno, come Cicerone, con una umanità quasi affettuosa; da non pochi con uno spensierato abbandono della propria casa e fortuna alle loro astuzie e cupidigie? L’Italia, angustiata dai debiti, stancata dalla gran fatica del rinnovamento civile delle conquiste militari del progresso intellettuale, sfiduciata di tutti i partiti, disgustata dalla anarchia dalla corruzione dalla sfrenata gara delle ambizioni, esausta dalla fretta di fare e di godere, si chiudeva in un egoismo trepido, si sgomentava al pensiero che da un momento all’altro, in mezzo a tanto disordine, imperversasse il ciclone di una rivoluzione....

Ma nelle età di decomposizione e ricomposizione sociale l’equilibrio degli spiriti è instabilissimo; e gli eventi prorompono a volte, tra la disperazione dei savi, contro la volontà del maggior numero ed oltre la previsione degli uomini più esperti, per impulsi piccoli in apparenza. Curione potè da solo, con la sua turbolenta ambizione, scatenare la tempesta da questa bonaccia. Non era costui uomo da lavorare soltanto per conto altrui; ma intelligente, avido di potere di ricchezza e di fama, avventato, sicuro di sè, beffardo spregiatore degli altri, vago di stupir la gente con stravaganze inaspettate e quasi incredibili, andò ben presto, imbaldanzito dal primo successo, oltre il segno voluto da Cesare400; e primo osò assalire di fronte Pompeo, l’uomo rispettato da tutti; assalirlo non come partigiano di Cesare, ma come critico imparziale, pieno di buon senso e di giustizia. Perchè mai Pompeo affettava tanta severità costituzionale, quando egli aveva creata la presente situazione, con le leggi del 55?401 Poteva egli essere il pedantesco guardiano della costituzione, quando ne aveva violate tutte le leggi, ed era stato perfino console e proconsole nel tempo stesso? Questi rimproveri tanto più fastidivan Pompeo, perchè, se nessuno aveva osato muoverglieli per timore, eran tanto giusti e inconfutabili nella loro semplicità che gli imparziali dettero ragione all’audace critico. Difatti i discorsi di Curione ebbero tanto successo402 tra la gente imparziale e desiderosa di qualche audace denunzia del vero in mezzo a tanta abiezione di menzogne consapevoli, che Pompeo si rimise a far esercizi di eloquenza, per rispondere al veemente agitatore delle popolari concioni403. Ma poi si stancò di tante brighe; e sentendosi poco bene pensò di andarsene a Napoli, dove appena giunto ammalò gravemente404; cosicchè quando in aprile405 il console Marcello che presiedeva invitò il Senato a trattar delle provincie – e quindi anche dell’assegnamento per un altro anno dei fondi necessari all’esercito di Pompeo e del comando delle Gallie406 – egli era assente. Curione, sapendo che il Senato, di solito pavido e incerto, avrebbe perduto nell’assenza di Pompeo anche il poco coraggio che gli restava, non ebbe più riguardi; e tagliò netto nella discussione con un veto, dichiarando la proposta di Marcello giusta, ma ingiusto che Cesare dovesse abbandonar l’esercito quando Pompeo restava al comando del suo e proponendo il richiamo di ambedue407. Questa proposta parve al pubblico imparziale straordinariamente equa, opportuna, savia; e fu accolta con tanto favore da tutti i desiderosi di pace, che quando Marcello propose si desse esecuzione alla deliberazione dell’anno precedente, secondo la quale la intercessione tribunizia non sarebbe tollerata in questo argomento, il Senato, pavido e incerto, non approvò408.

Curione era diventato ormai, in pochi mesi, uno dei personaggi primari della politica romana; e continuava a battagliare così, come un solitario eroe della causa giusta, percuotendo senza riguardi popolari e conservatori. Solo i maligni e i conservatori intransigenti osservavano che troppo spesso egli colpiva i conservatori con il filo, e i popolari con il piatto della spada. Ma mentre diventava celebre difendendo con così poca sincerità la causa della pace, egli provocava la guerra; perchè questa proposta e il veto con cui aveva sospesa la votazione dei fondi per l’esercito di Spagna, misero definitivamente Pompeo in gran sospetto di Cesare e affrettarono il suo passaggio ai conservatori intransigenti409. Il mutamento non apparve subito: anzi Pompeo, impressionato dal gran successo della propaganda di Curione, scrisse ancora convalescente da Napoli al Senato, dichiarandosi pronto a rinunciare al comando410. Ma non intendeva affatto di accettare il compromesso. Egli aveva avuto l’esercito di Spagna per cinque anni con una legge, e non voleva rinunciare ai suoi diritti per compiacere la petulanza di Curione: se Cesare, che egli come tutti sospettava incitasse Curione, voleva infliggergli questa umiliazione, non la tollererebbe, a nessun costo. Le grandi feste con cui le città e le popolazioni si congratularono per la recuperata salute, nel viaggio di ritorno a Roma, accrebbero in lui l’orgoglio della propria grandezza, la risoluzione di non decaderne, la fiducia nella sua potenza411. Tuttavia giunto a Roma ripetè in un discorso di esser pronto alla conciliazione proposta da Curione e aggiunse non dubitare che Cesare consentirebbe: ma il tribuno non si quetò; e in molti discorsi mostrò di dubitare che Pompeo dicesse sul serio; aggiunse che a ogni modo le parole non bastavano, ma ci volevano fatti; e quasi per metterlo alla prova, aggiunse alla sua precedente proposta si dichiarasse nemico pubblico quello dei due che non obbedirebbe; e si preparasse un esercito per fargli la guerra412. Crebbe l’irritazione di Pompeo413, il suo sospetto, la inclinazione verso i conservatori estremi; e quando in maggio o in giugno414 il Senato deliberò che egli e Cesare spiccassero ciascuno una legione del loro esercito e la mandassero in Siria contro i Parti, colse l’occasione per ridomandare a Cesare la legione che gli aveva prestata nel 53415. Poi le discussioni furono sospese; perchè si avvicinavano le elezioni, nelle quali la lotta sarebbe stata vivace e il cui risultato era atteso da tutti i partiti come un segno del tempo. Per un momento la gran discordia parve posare.

Cesare intanto era trattenuto in Gallia dalla sollecitudine di riparare un poco i guasti delle furiose ultime guerre e di consolidare la signoria romana; e Cicerone tentava nella sua provincia una qualche riforma, con zelo sincero se pure con poca fortuna. Durante il viaggio egli aveva osservato quanto fosse celebre per tutto l’impero, anche nei paesi ellenici; e questa ammirazione mondiale, più ancora il gran successo del De Republica di cui Celio lo informava, la gioia e l’orgoglio di aver profondamente commossa l’anima dell’Italia colta e ricca esprimendo i segreti e indistinti desideri dei più, avevano risvegliati in lui il coraggio, la fiducia, l’illusione, quasi svanita nei dieci anni dopo il consolato, di essere un gran reggitore di uomini e un gran riformatore di Stati. Egli voleva ora apparir nella provincia degno del libro che aveva avuto tanto successo, mostrare ai contemporanei le proprie singolari attitudini al governo con una amministrazione perfetta416. Ma l’impresa era difficile oltre ogni credere. Un governatore di provincia era ormai l’agente dell’affarismo italico che sfruttava l’impero, il commissionario di tutti gli uomini potenti e ricchi di Roma; e nemmeno Cicerone poteva scuotersi di dosso il carico di tanti offici obbligatori per ogni membro della oligarchia politica e mercantile di Roma, che era ormai unita soltanto da una rete inestricabile di raccomandazioni, di servigi, di compiacenze, di complicità vicendevoli. Ma avrebbe l’uomo, che doveva esser strumento degli oppressori, potuto portar sollievo agli oppressi, essere esempio di virtù ai contemporanei? Eppure la miseria della provincia era tanta, così urgente il bisogno di aiuto! Se al primo entrar nella provincia, nell’ansia della gran guerra partica che pareva imminente, Cicerone era stato sgomento sopratutto dal disordine dell’esercito, in seguito, appena potè considerare con animo più riposato le condizioni del paese, egli vide stendersi sotto gli occhi a perdita di vista, da un capo all’altro della Cilicia, la immensa desolazione di una provincia romana devastata dalla rapace plutocrazia e dalle bande dei politicanti venuti d’Italia. Popolata da una gente mista di greci immigrati e di indigeni; i primi abitanti quasi tutti nelle città, possidenti mercanti professionisti artisti filosofi maestri, gli altri per lo più contadini pastori umili artieri o briganti nelle montagne; la Cilicia come tutta l’Asia minore aveva una costituzione municipale: era cioè divisa in tanti distretti con a capo una città considerevole, nella quale un Senato o consiglio doveva essere scelto dalla popolazione tra i ricchi e quindi quasi tutto tra gli Elleni, ad amministrar gli interessi materiali e morali della città con leggi proprie, sotto il controllo del governatore e del Senato di Roma417. Questo ordinamento municipale era eccellente; e i Romani, fastiditi dalla varietà delle anticate istituzioni con cui si reggevano le città italiane, lo venivano da un pezzo studiando: ma la miseria, le lunghe guerre, l’anarchia, il rimescolamento di uomini e cose avvenute nell’ultimo secolo avevano fatto tralignare anche questi istituti in un mostruoso strumento di tirannide e di spoliazione. In ogni senato cittadino dominavano camorre di consiglieri, che cercavano di lucrare sui redditi della città – imposte e beni immobili, quasi sempre; che facevano decretare lavori pubblici, feste, missioni, ogni sorta di spese inutili, per favorire gli appaltatori e partecipare ai loro guadagni; che facevano contrarre alle città, d’accordo con i finanzieri italiani, prestiti rovinosi, per lucrare la senseria418. Appena arrivato, Cicerone aveva trovate le camorre di molte città in gran movimento per decretare l’invio di legati a Roma che recitassero in Senato le lodi di Appio Claudio – era un mezzo comodo di fare un bel viaggio a spese pubbliche; per erigere monumenti e templi in suo onore, secondo i riti servili che gli Orientali avevano trasportato dagli antichi monarchi ai governatori romani419. Naturalmente queste camorre di greci quasi sempre si intendevano con i pubblicani e i finanzieri italiani che infestavano l’Oriente; e con questi godevano il frutto di una scellerata dilapidazione dei demani municipali, di un aumento rovinoso delle imposte420; salvo quando le finanze delle città non bastavano più a soddisfar tutti, e gli uni e gli altri si disputavano per ottenere che i redditi fossero usati a continuare le spese pubbliche o a pagare gli interessi421. Sopravvenivano infine ogni anno, a colmare la misura del male, i famelici politicanti di Roma, i governatori, i loro amici, gli ufficiali delle legioni che spremevano in tutti i modi privati e città; che si facevano mantenere da queste nel lusso e vendevano loro ogni sorta di favori a carissimo prezzo sopratutto l’esenzioni degli alloggi militari. Tanto era temuta da tutti la presenza dei legionari prepotenti e rapaci!422 E intanto gli umili, i piccoli artigiani e mercanti delle città, i piccoli possidenti delle campagne, i contadini liberi erano a poco a poco ridotti alla disperazione, cacciati nei debiti, costretti a vendere le gioie di famiglia, i gruzzoli di monete accumulati da generazioni, il campo, la casa, i figli423...

Come l’austero ed eroico Publio Rutilio Rufo, come l’appassionato Lucullo, Cicerone fu sgomento da questa depredazione spietata; ma non dichiarò guerra senza quartiere ai finanzieri dell’Italia, come Lucullo e Rufo. Uomo figurativo del tempo suo anche in questa lotta contro l’usura, egli mostra come il contrasto inconciliabile di grandi vizi e di grandi virtù che aveva sconvolto l’età di Silla si temperasse già nella sua generazione più raffinata dalla civiltà e dalla cultura in una agilità infaticabile di composizioni e transazioni, fatte disfatte rifatte senza tregua, tra le forze del bene e le forze del male. Egli fu, nella misura dell’onesto, un governatore servizievole: trattò con i cacciatori di pantere, per contentar l’amico Celio che aveva bisogno di fiere per i giochi di Edile424; sbrigò ad Efeso affari di Attico425 e gli comprò vasi artistici426; accolse gentilmente gli amici, gli amici e i parenti degli amici, che venivano a lui con lettere di raccomandazione per qualche affare; invitò qualche volta a pranzo il figlio di Ortensio che invece di studiare sciupava denari in bagordi427; accolse gentilmente tra gli altri un elegante giovane, Marco Feridio, figlio di una agiata famiglia del ceto medio che andava in Cilicia come amministratore di una società appaltatrice di beni di città428; uno dei tanti giovani usciti da quella ricca borghesia italiana che, pur tenendosi fuori dalla politica, poteva dare ai suoi figli splendidi posti, grazie alla potenza mondiale di Roma. Trattò infine tutte le faccende che un governatore doveva assumersi: liquidazione di eredità, riscatti di italiani catturati dai privati, riscossione di interessi di somme prestate da Italiani in Asia. Era questo uno dei massimi obblighi e delle brighe più noiose di tutti i governatori. Di gran fastidio gli furon infatti i prestiti di Bruto ad Ariobarzane. Il vecchio re di Cappadocia, ormai sfinito dagli usurai italiani, spendeva il poco denaro restatogli a pagare gli interessi che doveva a Pompeo e che, forse per effetto di arretrati accumulatisi, ammontavano ormai a 33 talenti ogni mese429. Ogni mese, sia pure con qualche interruzione, i numerosi procuratori che Pompeo aveva in Asia spedivano su muletti scortati da un forte drappello di servi armati, verso il mare, per essere imbarcata, questa somma, che oggi varrebbe più di 120 000 franchi. Ma per gli altri non restava quasi più nulla; e Cicerone poteva pur scrivere e riscrivere al re430: si diceva in tutta l’Asia che Pompeo sarebbe presto stato mandato in Oriente con un grande esercito a combattere i Parti; e Ariobarzane non voleva vederselo capitare in Asia, creditore corrucciato per la sua lentezza a pagare431. Ad ogni modo Cicerone cercava di contentar gli amici di Roma e i potenti affaristi italiani; ma si studiava nel tempo stesso di far sì che le afflitte popolazioni ne avessero qualche compenso. Rifiutò le feste e i doni delle città; visse e fece vivere il suo seguito con semplicità per non obbligare le provincie a spese soverchie; usò cortesie ai cittadini più insigni; invece del fasto consueto ai governatori affettò una modestia studiata in ogni atto; a Laodicea usci ogni mattina all’alba dal palazzo del governo, a dare ascolto a chiunque si presentasse; cercò che ogni persona, anche umile, potesse parlargli432 e che i processi fossero sbrigati sollecitamente; si rifiutò ostinatamente, non ostante le continue e fastidiose richieste, di mettere riparti dell’esercito a disposizione di finanzieri italiani per estorcere denari ai debitori433. Misura più grave, dichiarò nell’editto di non riconoscere, in nessun debito, non ostante le convenzioni private, interessi annui superiori al 10% e di non ammettere interessi arretrati fruttiferi; riducendo così tutti gli interessi, come aveva fatto il Senato a Roma434: ma rivide nel tempo stesso con gran rigore tutti i conti delle città degli ultimi dieci anni, annullò senza pietà le spese superflue, i contratti rovinosi, i prestiti ladri, le imposizioni inique; costrinse molti concussionari a restituire alla città il mal tolto e provvide che gli interessi ridotti dei prestiti alle città fossero pagati puntualmente435. In questo modo egli sperava di giovare all’Asia e di non scontentare i potenti pubblicani, con una transazione fatta ai danni delle camorre locali436.

Ma fare il bene non era cosa facile, in quel tempo.... L’annullamento di tanti dispendiosi decreti in onore di Appio Claudio gli procurò una lettera insolente di costui, che molto afflisse Cicerone, sempre sollecito di essere in buoni rapporti con i nobili437; la riduzione degli interessi al 10% fu cagione di dissapori con Bruto. Due uomini di affari, Scapzio e Matinio, che figuravano come creditori dei Salaminii, si erano presentati a domandargli il pagamento dell’enorme interesse del 48% pattuito e non avendolo ottenuto gli avevano fatto alla fine sapere che essi erano solo agenti, ma che il vero creditore era Bruto. Cicerone, molto sorpreso che un giovane così reputato per le sue virtù prestasse a usura e a quell’usura, non cedè; non cedè nemmeno, quando Bruto gli scrisse lettere insolenti: ma allorchè i debitori gli domandarono l’autorizzazione di versare in un tempio l’interesse del 10%, che Scapzio e Matinio non volevano accettare, e di essere così dichiarati liberi da ogni obbligo, mancò di coraggio, non osò affrontar così apertamente Bruto e lasciò in sospeso la cosa. Questo, non potendo ottener di più, volevano appunto Scapzio e Matinio, certi che il governatore seguente non sarebbe stato così testardo e sciocco, ma avrebbe costretto i Salaminii a pagare secondo il contratto438.

Come poteva del resto un governatore far giustizia piena e intera, quando tutti partecipavano a questi imbrogli e a queste rapine? Cicerone si studiava di dar il buon esempio, non voleva maneggio di denaro, non toccava nemmeno un sesterzio delle somme della preda e di quelle assegnategli dal Senato per il governo, facendo amministrare le prime dai prefetti e le seconde dal questore439. Ma intorno a lui tutti speculavano e trafficavano: il questore era fratello di un gran commerciante residente ad Elide440 e lo aveva preso a consigliere per la sua amministrazione441; perfino uno dei suoi legati e Lepta, il capo del genio, si erano impigliati siffattamente in un imbroglio di affari che egli dovè, per liberarli, rallentare una volta il rigore della propria amministrazione. Era antica pratica dell’amministrazione romana di non conchiudere mai contratti senza che l’appaltatore presentasse un certo numero di mallevadori, i quali si impegnassero a pagare le multe stabilite in caso di imperfetta esecuzione del contratto, se l’appaltatore per fallimento o per altro motivo non pagava. Perciò quando nella êra mercantile gli affari crebbero di numero e di grandezza, la ricerca di questi mallevadori diventò essa stessa un commercio; buoni mallevadori che per la ricchezza o per il credito politico non potessero esser rifiutati dai magistrati erano cercati con tutti i mezzi efficaci, dalle preghiere dell’amicizia alla solidarietà politica, al lucro, e con lo zelo con cui ora si cercano nel commercio delle cambiali gli avalli di persone che godan credito presso le grandi banche. È probabile che molti uomini politici guadagnassero metodicamente su queste malleverie, senza cui non si potevano ottenere appalti, prestando garanzia per un compenso dell’appaltatore; salvo poi a non pagare, mercè l’intercessione di amici politici, quando lo Stato avesse diritto di rifarsi sul mallevadore della negligenza dell’appaltatore. A un imbroglio di questo genere dovè provvedere Cicerone, quando, giunto nella provincia, trovò che il suo capo del genio Lepta e uno dei suoi generali avevan prestato malleveria per un certo Valerio, il quale aveva appaltato non sappiamo bene quale servizio pubblico; ma poi a mezzo del contratto era venuto meno ai suoi impegni e aveva ceduto, probabilmente per una somma minima, il suo appalto a un usuraio di nome Volusio, che a sua volta era forse d’accordo con il questore Rufo. Volusio era tenuto a eseguire il contratto di appalto, non a pagare la multa in cui Valerio era incorso, della quale restavano responsabili i mallevadori; onde questi, disperati, ricorsero a Cicerone, che impietosito trovò un cavillo giuridico per dichiarare nulla la cessione di Valerio a Volusio, sciolse l’appalto, versò nel tesoro la somma che ancora restava a pagare all’appaltatore e liberò i mallevadori, con gran noia di Volusio, che perdette la somma con cui si era fatto cedere l’appalto442. Come si vede, Cicerone poteva persuadersi per esperienza, che le malleverie non avevano gran forza. Eppure con quale altro mezzo si poteva in tanto disordine garantire l’interesse dello Stato? Anche il trasporto a Roma delle somme di denaro pagate dalle provincie era curato dai pubblicani; ma troppo spesso avveniva che gli appaltatori giunti al mare dichiarassero che i convogli erano spariti per via, depredati dai briganti. Cicerone, per non far correre questo pericolo ai tributi di quell’anno, era risoluto a non appaltare la riscossione, se non a condizione che qualche mallevadore si assumesse anche il rischio del trasporto443. Ma la frode e la concussione eran così comuni in quella società in cui il denaro era ormai il solo vincolo morale tra gli uomini, che mentre si affaticava ad amministrare onestamente la sua provincia Cicerone riceveva spesso lettere d’amici, che gli domandavano prestiti, aggiungendo che dopo la preda della sua guerra non doveva esser scarso di denaro. Ed egli era costretto a mandar loro, ma con gentilezza, questa strana incredibile risposta: che la preda era non sua ma della repubblica, e che egli non poteva far su quella nessun prestito a nessuno!444

Il governo della Cilicia è una gloria di Cicerone, che invano gli storici moderni a lui nemici hanno cercato di scemare, con ironie e critiche senza ragione445. Certo gli anni seguenti passarono sull’opera sua di riforma come l’onda del mare sui disegni che un fanciullo tracci con un bastone nella arena della spiaggia, cancellando ogni cosa. Ma Cicerone era un uomo, non un Dio; e solo non poteva curare l’immenso male, di cui il travagliato mondo era stanco. Non l’opera in sè è significativa, ma il pensiero e il sentimento che l’informarono; la sollecitudine ansiosa della gran rovina che l’ingiustizia cronica e spietata minacciava al mondo; lo spirito di giustizia, di solidarietà, di misericordia che tentava mutarsi di contemplazione filosofica in opera restauratrice. Come nelle Alpi all’alba, poche roccie poste sulle vette più alte, che si indorano di un roseo lume quando la valle bassa dorme ancora nel buio e la montagna è oscura, annunciano allegre al fiumi, alle selve, ai campi, alle case ancor sepolte nell’ombra che sopraggiunge il sole e il nuovo dì, così la coscienza di questo timido letterato e poche altre anime solitarie riflettevano dall’alto al mondo, giacente ancora nella notte di un immenso pervertimento morale, l’alba di una nuova giornata.

Ma Cicerone non lo sapeva; e tanta moltiplicità di carichi quasi tutti sgradevoli lo annoiavano oltre ogni credere. Che l’impero non potesse durare a lungo, senza distruggere la civiltà, nelle condizioni in cui allora versava, è provato non solo dalla trascurata amministrazione delle altre provincie, ma dalla stanchezza onde era vinto, dopo un anno, il solo che si fosse studiato di governar bene. Il proconsolato di Cicerone dimostra come la enciclopedica universalità di funzioni contenuta nelle magistrature romane, per cui a volta a volta lo stesso uomo doveva essere generale, oratore, giudice, amministratore, costruttore di opere pubbliche, era ormai un avanzo di una età più semplice; e non poteva durare nella cresciuta civiltà, in cui gli uomini erano spinti a spartirsi i lavori e a perfezionarsi in questo od in quello dalla necessità di far meglio ciascuno l’opera sua. Si era trovato alla fine un governatore onesto, zelante, integro; ma proprio quello non vedeva l’ora di andarsene, si raccomandava a tutti gli amici affinchè impedissero il prolungamento del comando446, smaniava di uscir presto da questo roveto di cifre, di syngraphae, di malleverie, di contratti, per far ritorno in Italia, dove lo chiamavano molte faccende private e le pubbliche. La figlia, la sua diletta Tullietta, era stata fidanzata dalla abile Terenzia a Gneo Cornelio Dolabella, un giovane scapestrato ma di famiglia nobilissima. Cicerone non ignorava che giovane fosse il suo futuro genero e quanti debiti avesse447; ma l’ambizione di imparentarsi con una famiglia di antica e autentica nobiltà soverchiava o meglio illudeva la tenerezza paterna. Non aveva egli sempre sognato, come supremo compenso alle sue fatiche, la dimestichezza dei grandi? Non ostante i progressi della democrazia, il loro impoverimento e la loro decadenza, le famiglie superstiti dell’êra aristocratica godevano ancora di una grande considerazione; conservavano il privilegio di salire alle supreme cariche con minor fatica, perchè il maggior numero degli uomini energici del ceto medio badava a far quattrini, non volendo, come Attico, arrischiarsi alle lotte politiche; e quasi tutte imparentate tra loro448, formavano una piccola casta, la cui famigliarità era molto invidiata dai parvenus dell’impero. Il matrimonio di Tullia con Dolabella nobilitava quasi l’homo novus d’Arpino, fatto celebre dall’eloquenza. Anche le faccende pubbliche sempre più aggrovigliate lo sollecitavano al ritorno. Egli aveva pregato Celio di mandargli notizie frequenti; e Celio, da giovane che adottava subito tutti gli usi nuovi, aveva pagato un certo Cresto, un giornalista di professione, affinchè gli mandasse nella provincia una minuta cronaca mondana e politica di Roma fin troppo infarcita di pettegolezzi e quisquilie449; molte lettere gli arrivavano anche per mezzo dei corrieri suoi che mandava innanzi e indietro, per mano dei corrieri delle società dei publicani, che spesso portavano le lettere dei personaggi illustri. Ma insomma le notizie, a tanta distanza, giungevano tardi, spesso con ordine invertito: e Cicerone non ne poteva più....

XI.
“INITIUM TUMULTUS”.
(Anno 50 a. C.)

Le elezioni si avvicinavano; e la lotta per il consolato si accaniva. Dovendosi pur risolvere alla fine, nell’anno prossimo, la questione del comando di Gallia, urgeva ai due partiti impadronirsi della suprema magistratura. Cesare, che nelle condizioni presenti dello spirito pubblico sentiva di non poter troppo volere e inclinava a moderazione, si sarebbe accontentato di avere amico uno solo dei consoli; e difatti si sforzava in tutti i modi, mandando soldati a Roma in congedo450, di far riuscire il suo antico generale Servio Sulpicio Galba. Ma i conservatori gli opponevano due candidati, Lucio Cornelio Lentulo e Caio Claudio Marcello, cugino del console allora in carica e fratello del console nell’anno precedente, il terzo Claudio Marcello in tre anni e non meno degli altri due nemico di Cesare. Nella reazione contro la democrazia si tornava ad eleggere a consoli persone di grande famiglia. Sembra che i conservatori riuscissero a far rimandare le elezioni ad agosto, in un mese cioè in cui i fasci e quindi la presidenza dei comizi eran tenuti non da Lucio Emilio Paolo troppo amico di Cesare, ma da Marcello451; e infatti, tenutisi i comizi con un ordine di cui Pompeo potè compiacersi come di un merito suo, Cesare subì un rovescio. Potè fare eleggere a tribuno della plebe Marco Antonio; ma non Servio Sulpicio Galba a console. Il consolato, la carica più disputata e più importante, cadde in potere dei conservatori.

Straordinario fu il giubilo dei conservatori per questa vittoria. Nella esultanza del successo Cesare parve loro già spacciato452: oramai nè la pavida maggioranza del Senato avrebbe forza di opporsi ai nemici di lui; nè l’odiato proconsole oserebbe prorompere ad aperta rivolta. E davvero questo insuccesso era grave, non in sè, ma per l’impressione che poteva fare sugli incerti e sui timidi; persuadendoli che la fortuna di Cesare declinava proprio, come i suoi nemici affermavano. Cesare infatti indugiava allora in Gallia intento a preparare – tanto era lontano da credere imminente una guerra civile – i quartieri d’inverno per le legioni453, che egli sperava potrebbero passare il prossimo inverno a riposarsi e che a ogni modo contava di lasciare in Gallia a mantener tranquille le popolazioni appena domate e non di condurre a una conquista rivoluzionaria del potere. Ma l’insuccesso delle elezioni e i maneggi dei suoi nemici per sfruttarlo lo inquietarono a segno che, dovendosi in settembre454 eleggere un augure e proponendosi candidato, da una parte Antonio, dall’altra Lucio Domizio Enobarbo, si risolvè a venire in persona nella Cisalpina, per aiutare Antonio. A nessun costo voleva subire la nuova disfatta che i conservatori gli preparavano, incoraggiati dal successo precedente. In viaggio seppe che Antonio era stato eletto455; ma essendo già a mezza via, pensò di mettere allora ad esecuzione un disegno che forse meditava da un pezzo. Egli era popolare nella Gallia Cisalpina, perchè si sapeva quanto fosse favorevole alla concessione della cittadinanza; perchè molti dei soldati arricchiti nella conquista della Gallia erano nati nei villaggi o nelle piccole città della vasta pianura padana, intorno a cui si diradavano da cinquanta anni le selve e si prosciugavano le paludi; perchè le popolazioni della valle del Po, con quell’intuizione dell’utile che si divulga nelle êre mercantili, capivano che la conquista della Transalpina arricchirebbe la Cisalpina, mutandola da paese di frontiera in paese di transito per un vasto e popoloso hinterland, come si direbbe oggi. Abili agenti mandati innanzi persuasero facilmente i notabili della Cisalpina a preparare feste al conquistatore della Gallia; e l’entusiasmo divulgandosi velocemente per contagio, Cesare potè fare un rapido viaggio trionfale per la provincia, accolto nei villaggi da deputazioni, invitato a feste dai municipi e dalle colonie, salutato sulle vie da quelle genti di campagna che gli avevan dato tanti soldati e che conoscevano le sue gesta per i racconti di questi456.

Queste dimostrazioni erano intese, non a soddisfare la vanità del guerriero ma a impressionare da lontano l’Italia, malcontenta del conquistatore delle Gallie, mostrandole quanto la sua conquista fosse invece ammirata dalle popolazioni che più avevan ragione di temere e che meglio conoscevano i Galli. Ma Cesare era sempre così risoluto ad affrettare la conclusione di un accordo equo con una politica di moderazione e conciliazione, che intorno a quel tempo mandava, obbedendo all’ordine del Senato, la legione richiestagli per la guerra partica, restituiva a Pompeo quella prestatagli457; e pur ordinando di reclutare due legioni novizie invece di quelle, induceva Curione a tralasciare la guerra accanita mossa a Pompeo, a non impedir più con il veto che si votassero i fondi per le legioni di Spagna. Il ravvedimento di Curione fu infatti accolto con gioia da tutta la gente savia458. Cesare offriva pace ai nemici; e del resto era tanto persuaso che questi non provocherebbero per un puntiglio una guerra civile, che verso la fine di settembre si rimise in cammino, infaticabile, attraverso le Alpi, per tornare nella Transalpina a dare le ultime disposizioni per i quartieri d’inverno....

Intanto Cicerone aveva finito il suo anno di governo o piuttosto d’esilio, e subito era partito, senza nemmeno fare egli i conti dell’amministrazione. Aveva invitato il suo questore a venir subito a Laodicea per far questi conti459; ma non avendolo trovato e non potendone più per l’impazienza, aveva dato ordine al suo scriba di prepararli d’accordo con il questore e di deporli, come voleva la lex Julia del 59, in due pubblici edifici, a Laodicea e ad Apamea, affinchè il pubblico potesse controllarli; poi era partito460, portando dalla provincia solo i risparmi onestamente fatti sulla somma assegnatagli dal Senato per le sue spese personali. Anzi neanche tutti: perchè una parte ne assegnò al suo questore, cui lasciava il governo, come dotazione di un anno, affinchè non avesse pretesto a depredare la Cilicia; e una parte – un milione di sesterzi – versò nell’erario della provincia, con grande ira degli amici e degli ufficiali che lo avevano accompagnato, malcontenti che il grande oratore pensasse più alla borsa dei Frigi e dei Cilici, che alla loro!461 A ogni modo, non ostante queste falcidie, Cicerone potè salvis legibus, come egli dice, portare in Italia una somma da spendere per il trionfo che egli sperava gli sarebbe decretato per le sue vittorie e depositare presso i publicani di Efeso due milioni e dugentomila sesterzi462, che oggi varrebbero più di mezzo milione di franchi. Anche ai proconsoli onesti del vasto impero le annue fatiche del governo non erano mal compensate, come si vede. In viaggio ricevè una lettera del questore, che protestava perchè il suo segretario aveva versato nell’erario come denaro pubblico anche centomila sesterzi che erano suoi463; ed egli rispose consolandolo e dichiarandosi pronto in ogni caso a risarcirlo del suo; viaggiò con una certa lentezza per far vedere i monumenti dell’Asia e della Grecia ai ragazzi464; si trattenne qualche tempo ad Atene, dove seppe che un suo amico, Prezio, era morto e lo aveva istituito erede465. Disgraziatamente a Patrasso ammalò Tirone, il giovane schiavo per il quale aveva concepito un amore quasi paterno466; il viaggio fu ritardato di poco; poi siccome la malattia perdurava, Cicerone dovè con grande rammarico lasciarlo, dopo aver però disposto affinchè fosse ben curato senza badare a spesa e aver pregato Manio Curio, un ricco mercante italiano di Patrasso, amico suo e amicissimo di Attico, di mettere a disposizione di Tirone, addebitandole a lui, tutte le somme di cui potesse abbisognare467. Finalmente il 24 novembre sbarcava a Brindisi468.

In Italia la tensione degli spiriti si era un poco rilassata dopo le elezioni; ma il mondo politico e le alte classi erano state frattanto sorprese non poco e un poco anche inquietate dall’apparizione in Roma di un censore di severità antica, un emulo addirittura del vecchio Catone! L’evento era sorprendente in sè, ma più sorprendente ancora per la persona in cui si era incarnato a un tratto lo spirito di severità e di disciplina delle vecchie generazioni. Era costui quell’Appio Claudio, fratello di Clodio e governatore della Cilicia prima di Cicerone, del quale Cicerone aveva dovuto cercar di riparare i molti guasti fatti o lasciati fare alla provincia. Publio Cornelio Dolabella, il fidanzato di Tullia, lo aveva infatti accusato di concussione; ma Appio era suocero di Bruto e di un figlio di Pompeo, e Bruto e Pompeo non solo lo fecero assolvere ma eleggere perfino censore469: e allora, eletto censore, Appio si era messo a fare il terribile; vale a dire aveva sfogati i rancori personali di partito di casta, l’orgoglio aristocratico offeso dal lusso insolente e dall’audace inframmettenza di tanti parvenus, il comodo dilettantismo morale dei signori che vogliono imporre agli altri l’osservanza di doveri che essi trascurano, affettando una severità che faceva ridere gli uomini di spirito, scacciando dal Senato, facendo intentar processi, vessando i proprietari di terre troppo vaste e gli indebitati, perseguitando il lusso dei quadri e delle statue470. Tra le sue vittime fu Sallustio, che perdè il seggio in Senato; tra i suoi perseguitati Celio e Curione, cui tentò, ma invano, di nuocere. Del resto si trattava, a giudizio di tutti, di un breve furore, che passerebbe presto, lasciando appena lo strascico di qualche rancore e di molte risate. L’Italia era più tranquilla, infatti; Pompeo se ne era andato di nuovo a Napoli471, senza inquietarsi degli odî che gli procuravano le persecuzioni di Appio, da molte vittime apposte a lui come al campione supremo della nuova politica di severità, che incominciata con i processi del 52 continuava ora con la censura del nuovo Catone per burla; Cesare aveva ordinato ogni cosa nella Gallia Transalpina ed ora tornava nella Cisalpina, a passarvi l’inverno e a preparare la candidatura per l’anno prossimo. Egli non dubitava di poter intendersi con il Senato: tanto è vero che se ne veniva in Italia con una sola legione, poco più di 3000 uomini, che dovevano presidiare la Cisalpina in luogo di quella mandata in Italia per la guerra dei Parti; e lasciava le altre otto legioni in Gallia, quattro al comando di C. Fabio tra gli Edui e quattro al comando di Trebonio addirittura tra i Belgi, lontanissimo cioè dall’Italia472. Certamente Pompeo non era più amico suo come un tempo, ma era un uomo savio e prudente; gli altri conservatori arrabbiati eran quasi tutti, tranne Catone, uomini di gran famiglia ma senza autorità: non era possibile osassero far violenza alla opinione pubblica, all’Italia tutta che voleva la pace. Un’intesa si troverebbe, non era dubbio; egli sarebbe nominato console, ritornerebbe in Gallia a compiere l’opera interrotta da tante rivolte; gli animi a poco a poco si tranquillerebbero.

Cesare ragionava da savio; e perciò aveva torto. Nel disordine di una decomposizione e ricomposizione sociale l’equilibrio spirituale dei partiti e delle classi è così instabile, che la leggerezza e la petulanza dei dilettanti di politica conservatrice o rivoluzionaria, i puntigli dei pochi faziosi, i rancori personali e di cricca possono far esplodere a un tratto, contro la volontà dei più, gli antagonismi latenti, precipitando eventi immensi; e perciò sono forze storiche di straordinaria importanza. Il console Marcello, furente per la opposizione sino allora vittoriosa di Curione, non voleva lasciare il consolato senza una rivincita; e poichè nel mese di dicembre toccava a lui presiedere il Senato, aveva deliberato d’accordo con i più scaldati di tentare uno sforzo supremo per far approvare nella seduta del primo dicembre che Cesare ritornasse, secondo la legge, a vita privata il primo marzo, e di far respingere nel tempo stesso l’analoga domanda per Pompeo. Riuscendo in questo disegno egli conseguiva un duplice intento: umiliava Curione e costringeva Pompeo con un così gran servigio ad unirsi apertamente ai conservatori, diventandone il capo. Intanto voci che l’esercito di Cesare fosse stanco di guerre e desiderasse il congedo erano messe abilmente in giro per smuovere l’esitante Senato e forse anche Pompeo.... Arrivò finalmente il primo dicembre e il Senato si radunò, presenti quasi 400 membri473, ma in quali condizioni di spirito! I senatori erano quasi tutti in grande incertezza, i più non sapendo a che cosa risolversi, paurosi di spiacere a Cesare, paurosi di offender Pompeo, paurosi di scatenare qualche guaio, diffidenti l’uno dell’altro, chiusi in una riserva che voleva parere imparzialità ed era soltanto vigile ansia di non compromettersi. Marcello e Curione soli eran venuti con propositi deliberati; il primo di far votare il richiamo di Cesare, il secondo di far votare anche il richiamo di Pompeo, continuando l’abile politica che gli aveva procurata tanta popolarità. Aperta la seduta, Marcello parlò ponendo apertamente la questione se Cesare doveva tornare a Roma, uomo privato, il primo marzo. Tutti aspettavano – desideravano anzi in segreto – che Curione interponesse il veto, dispensandoli dal prendere una deliberazione grave e pericolosa. Ma Curione, con sorpresa universale, restò silenzioso ed immobile sul suo banco. Egli voleva che la proposta fosse approvata, per farne poi approvare un’altra analoga per Pompeo. La proposta di Marcello potè dunque essere messa ai voti e fu approvata con una gran maggioranza. Ma allora prontamente, prima che Curione potesse intervenire, Marcello riprese la parola e dichiarò di sottoporre al Senato l’altra proposta, che era pur stata fatta: se cioè Pompeo doveva abbandonare il comando. Così formulata, la proposta colpiva direttamente Pompeo e suonava come violazione di una legge approvata dal popolo; Marcello lo sapeva e per questo aveva voluto prevenire Curione: infatti il Senato, pavido di offendere Pompeo, la respinse. La sorpresa era riuscita; Curione e Cesare erano stati vinti dall’astuto console; Marcello stava già per sciogliere il Senato, allegro della sua grande vittoria. Ma Curione pronto si alzò a domandar la parola e con un abile discorso presentò al Senato un’altra proposta: che Cesare e Pompeo dovessero abbandonare insieme il comando. La proposta era così formulata, non più come una intimazione a Pompeo, ma come una misura di equità e di concordia suprema, che solo i cattivi cittadini potevano disapprovare. Tuttavia Marcello la mise in votazione, sicuro che il Senato già impegnato dalla votazione precedente l’avrebbe respinta e che la disfatta di Curione sarebbe così stata intera e definitiva. Ma un’assemblea come il Senato romano di allora, composta di dilettanti, di politicanti e di affaristi, si contraddice senza vergogna a pochi minuti di distanza. Al di là di Curione i senatori videro l’Italia, sentirono il gran favore pubblico di cui la sua proposta aveva goduto; e quando si venne a votar per divisione, 370 passarono dalla parte del sì, 22 dalla parte del no474. Curione aveva vinto ancora! Marcello congedò il Senato, gridando sdegnato che avevan votato per la tirannide di Cesare.

Se non per la tirannide, certo il Senato, per desiderio di pace, aveva deliberata senza volerlo e saperlo la guerra; perchè quella votazione fu la causa occasionale e diretta della guerra civile. Marcello e gli altri conservatori intransigenti capirono che più delle magistrature ridotte a nomi contava ormai la potenza personale degli uomini; che soli, neanche avendo il consolato, non sarebbero riusciti a far nulla contro Cesare, molto potente ancora non ostante le sue molte disgrazie, se non avessero tratto a loro Pompeo. Pompeo, con il grosso esercito cui comandava, con le ricchezze, le clientele, le parentele di cui disponeva, con la gloria acquistata contava più di tutti i magistrati e possedeva un’autorità sua, costante se non eterna, soggetta a mutamento ma non caduca ogni anno con il cambio delle cariche; una autorità maggiore che quella di Cesare e sola sufficiente ad abbattere il demagogo della Gallia. Lo Stato già si impersonava in pochi uomini potenti.... Per loro fortuna questa stessa votazione, che stimolava i conservatori a uno sforzo supremo per guadagnare Pompeo, spingeva questo, per altre ragioni, verso i conservatori. Pompeo, che non aveva mai seriamente voluto rinunciare al comando proconsolare, andò in furia contro Curione e Cesare, quando seppe della votazione del Senato: non poteva cedere a una intimazione di Curione, che evidentemente era sobillato da Cesare; rinunciare a un diritto conferitogli da una legge per una votazione di sorpresa strappata al Senato con raggiri da un tribuno loquace e in con tradizione con una deliberazione approvata pochi istanti prima; avrebbe forse annullati spontaneamente i suoi diritti per la pace desiderata da tutta Italia, non capitolato per le mene di un tribuno indebitato, arruffone, spregevole come Curione, egli l’uomo che aveva trionfato ed era stato eletto console senza avere esercitata nessuna magistratura; che aveva reso tanti servigi a Roma, distrutti i pirati, vinto Mitridate, conquistata la Siria, raddoppiate le entrate pubblidie, ristabilito l’ordine! Se Cesare, a corto di denari e incapace di mantenere le stravaganti promesse fatte a tanti, voleva confondere tutto con una guerra civile, egli era pronto475. Si avvicinava il momento in cui la straordinaria fortuna e la grandezza insolita cui era salito diventerebbero per lui un impegno mortale....

Per questo improvviso consenso di rancori e di sdegni, la conciliazione tra Pompeo e i conservatori, invano tentata da tanti dopo il 58, potè avvenire in pochi giorni. L’esasperato Marcello, immaginando la collera di Pompeo, si risolvè a proporgli un espediente rivoluzionario: egli proporrebbe in Senato di dichiarare Cesare nemico pubblico e se i tribuni intervenivano o il Senato disapprovava, dichiarerebbe di autorità propria lo stato d’assedio, incaricando Pompeo di provvedere alla cosa pubblica e di prendere il comando delle due legioni di Cesare destinate alla Persia, che ancora erano a Lucera; se Pompeo accettava, se dichiarava di volere a tutti i costi che Cesare abbandonasse il comando al primo marzo prossimo, il Senato avrebbe certamente ceduto. Lettere e ambasciatori furon mandati in gran fretta e in gran segreto a Napoli; e Pompeo, sorpreso quando ancora era nel primo sdegno per la vittoria di Curione, accettò476. In pochi giorni la situazione venne mutando a vista di tutti, per molti segni, senza che i più, ignari di queste trattative, capissero bene come e per qual cagione. Quando Cicerone, che frattanto per la via Appia si avviava verso Roma, si fermò a Napoli e fece, il 10 dicembre, una visita a Pompeo lo trovò irritatissimo; e fu assai sorpreso e addolorato di sentirlo dire che la guerra era sicura, che non era più possibile intendersi con Cesare477. Perchè sicura, si domandava egli che non conosceva gli intrighi tra Roma e Napoli, e non poteva quindi spiegarsi il nuovo atteggiamento di Pompeo? Gli amici di Cesare, specialmente Cornelio Balbo, erano inquietissimi: era evidente, si sentiva nell’aria che i vinti del primo dicembre macchinavano qualche grossa sorpresa; e intanto Cesare viaggiava tranquillamente alla volta della Cisalpina, ignaro di tutto, fiducioso di trovar al suo arrivo la notizia che l’accordo con il Senato sulla questione del comando era conchiuso. Il 6 dicembre arrivò a Roma un ufficiale di Cesare, Irzio, portando messaggi per Pompeo riguardanti probabilmente questo accordo; e scese a casa di Balbo. Ma costui non lo lasciò proseguire per Napoli; si incaricò egli di trasmettere il messaggio al suocero di Pompeo, Scipione; e lo fece tornar subito indietro, la notte stessa, perchè a marcie forzate raggiungesse Cesare e gli descrivesse meglio che non facessero le lettere già mandate quanto era mutata a un tratto la condizione delle cose e quanti pericoli minacciassero....

L’astuto spagnuolo non si ingannava. In quei giorni voci sinistre cominciarono a correre, messe certo in giro dai conservatori, che Cesare aveva dato ordine all’esercito delle Gallie di varcare le Alpi; e appena giunto il consenso di Pompeo, probabilmente il 9478, Marcello convocò il Senato, fece un discorso violento in cui trattò Cesare di brigante, propose di dichiararlo nemico pubblico, ordinando a Pompeo di prendere il comando delle legioni, che a Lucera aspettavano di essere imbarcate per la Siria. Ma Curione dichiarò che erano tutte frottole e pose il suo veto. Allora Marcello diè principio alla spettacolosa parata già prima disposta: disse che siccome gli s’impediva faziosamente di difendere la repubblica avrebbe provveduto per altre vie che quelle della legge; abbandonò il Senato, uscì di Roma il giorno stesso con uno stuolo di aristocratici arrabbiati; e viaggiando rapidamente andò a Napoli, dove giunse il 13 dicembre per presentarsi a Pompeo479.

Questa partenza dovè gettare il pubblico ignaro degli intrighi che l’avevano preparata in una perplessità ansiosa. Avrebbe Pompeo accettata la temeraria offerta? Curione pensò, il 10 dicembre, appena ritornato cittadino privato esser in ogni caso buon consiglio per lui allontanarsi da Roma; e partì per raggiungere Cesare, che frattanto era arrivato nella Gallia Cisalpina e da Piacenza, scaglionando la sua legione lungo la via Emilia480, se ne andava a Ravenna, per passarvi l’inverno, sempre fidente che la pace sarebbe conservata.... Curione probabilmente lo raggiunse in viaggio481. Ma verso il 18 o il 19 dicembre una notizia terribile arrivò a Roma482, tre o quattro giorni dopo a Ravenna: che Pompeo aveva accettato l’incarico di Marcello, con un discorso in apparenza modesto e che si era messo in viaggio per Lucera, dove presto giungerebbe a prendere il comando delle legioni. Lo stupore, il furore, il terrore furono immensi, dappertutto. Gli uomini imparziali degli alti ceti, specialmente i ricchi finanzieri, disapprovarono, come disapprovava Cicerone, l’atto di Pompeo che provocava la guerra483; i capi del partito cesariano a Roma andarono sulle furie; Antonio convocò una concione popolare e vi pronunciò un violentissimo discorso contro Pompeo, ricordando il gran numero di condannati che avevano dovuto andare in esilio per le sue leggi, lanciando invettive contro le sue minaccie presenti484; i pochi conservatori arrabbiati esultarono. Finalmente! Ma sconcertato più di tutti fu Cesare, quando, appena giunto a Ravenna il 24 o il 25 dicembre485, la gran notizia lo sbalzò dalla sicura confidenza della pace in cui aveva vissuto sino ad allora, in mezzo ai pericoli di una situazione impreveduta e minacciosa. Egli non poteva illudersi: quell’atto così risoluto muterebbe ad un tratto l’opinione di molti senatori che il primo dicembre avevano votato per il contemporaneo ritiro dei due generali, credendo Pompeo incline ad accondiscendere. Con la conversione di Pompeo gli ultimi avanzi di favore per lui nelle alte classi sparivano; la discordia tra l’uno e l’altro prendeva sempre più nettamente la forma di una lotta tra le alte classi ed il popolo, tra la élite e la feccia, nella quale tutte le persone dabbene avrebbe parteggiato per Pompeo, mentre chi stava per Cesare era necessariamente un uomo spregevole486; ben pochi avrebbero osato sfidare la collera di Pompeo e meno ancora quella taccia di volgarità e quello spregio che in mezzo alle alte classi, in cui i più dei senatori vivevano, perseguitava i partigiani di Cesare, come perseguita sempre, nelle lotte dei ricchi contro i poveri, i capi del partito dei poveri. Se Pompeo si ostinava a voler che egli abbandonasse il comando il primo marzo prossimo, egli doveva porsi in aperta rivolta: tornare a Roma ed affrontare il processo minacciatogli dai conservatori egli non poteva più, avendo nemico Pompeo, che, dopo la revisione delle liste dei giudici, era padrone dei tribunali. Troppo facilmente avrebbe potuto farlo condannare!

Nel consiglio di amici che Cesare convocò, Curione propose di far venire d’oltre Alpe l’esercito e di marciare senz’altro su Roma. La guerra era ormai inevitabile: precipitarla, dunque. Ma Cesare non volle ancora. Egli sapeva che se la conversione di Pompeo volgeva contro di lui il mondo politico, l’opinione pubblica restava favorevole alla pace487; e sperò ancora di poter frapporre tra sè e le smisurate forze che i nemici volevano muovergli contro l’Italia intera, implorante quiete civile. La feroce età di Silla era tramontata; erano venuti meno i contrasti terribili di classe che avevan provocata l’ultima grande guerra civile: scatenarne un’altra per i meschini puntigli di pochi politicanti era cosa mostruosa. Egli richiamò subito in Italia due legioni, la dodicesima e l’ottava, e mandò ordine a Caio Fabio di andare con tre legioni da Bibracte a Narbona, per opporsi a una possibile marcia delle legioni che Pompeo aveva in Spagna488; ma volle ancora trattare. Era il 25 o il 26 dicembre; il Senato si sarebbe radunato il primo gennaio; se una ambasciata avesse volato sulla via Flaminia, si poteva ancora giungere a tempo a parare il colpo che certo i nemici si preparavano ad assestare in quel giorno. Curione si dichiarò pronto a compiere questo portento di velocità; Cesare scrisse una lettera al Senato ed una al popolo; e Curione all’alba del 27 partì489. Nella lettera al Senato Cesare dichiarava di esser pronto a deporre il comando se Pompeo pure l’avesse deposto; se no avrebbe pensato a difendere il suo diritto; in quella al popolo si diceva pronto a venire uomo privato a render conto dell’opera sua e invitava Pompeo a fare altrettanto490.

Gli ultimi giorni dell’anno scorsero ansiosi e tormentosi per tutti. La dichiarazione di Pompeo aveva rivoltato gran parte del Senato e delle alte classi, ridando ardire ai conservatori; tutte le persone per bene, i ricchi, i capitalisti, i nobili, i grandi proprietari non osavano più disapprovar Pompeo come in principio, ora che lo sapevano così risoluto; gli amici dichiarati di Cesare si vedevano accolti con diffidenza, trattati freddamente, sfuggiti, negletti, come uomini sui quali sta per piombar la sventura; questo mutamento dello spirito pubblico incoraggiava a sua volta Pompeo, che irritato anche più dalle virulente concioni di Antonio aveva dichiarato a Cicerone, il 25, nei dintorni di Formia, di non volere assolutamente che Cesare ridiventasse console, nè nel 48 nè mai, perchè un secondo consolato di Cesare avrebbe rovinata la repubblica. Se era così pazzo da fare una guerra, ci si provasse; egli non ne aveva paura491. Il popolino riottoso, che aveva favorito e ammirato Catilina, parteggiava ancora solo per Cesare. Ma il pubblico era nel tempo stesso inquieto, pieno di paure e di speranze chimeriche. Che cosa sarebbe avvenuto, nella seduta del primo gennaio? Cicerone soffriva dubbi crudeli, così da rimpianger quasi di aver lasciata la provincia: egli era personalmente legato da riconoscenza a Pompeo più che a Cesare, inclinava ormai più al partito di Pompeo che a quello di Cesare, sentiva più vivamente, nell’imminenza della rottura, il fastidio di non avere ancora pagati interamente i suoi debiti con il proconsole delle Gallie; ma sopratutto voleva la pace, una transazione con cui evitar la più assurda e funesta guerra civile, che Roma avesse ancora veduta, tanto più che egli – altra prova che non era uno sciocco – non si illudeva, come molti, sulle forze di Cesare492. E poi che cosa avverrebbe del suo sperato trionfo, se la guerra scoppiava? Ma più di tutti Cesare dovè passare giornate torbidissime, nella piccola città di Ravenna, asilo predestinato dei grandi uomini dell’Italia nelle ore tempestose della loro esistenza. Noi non sappiamo se lo scettico fatalismo in cui, tra tante lotte, corruzioni, frodi e menzogne si era indurito il suo sentimento, lo aiutasse a considerare con indifferenza anche questa suprema traversia: certo è che egli avrebbe avuto ragione di provare allora una specie di sordo rancore contro gli uomini, il mondo e la sorte. A lui non era forse andato a rovescio tutto quello che a Pompeo era riuscito prosperamente? Ambedue avevano corteggiata la moltitudine, lusingate le passioni democratiche, corrotto il popolino, combattuto il Senato e cercato di distruggere le vecchie istituzioni, per acquistar gloria, potenza, ricchezza. Ma Pompeo non aveva faticato a salire gradino per gradino la lenta scala della gerarchia; era stato console tre volte, aveva celebrato parecchi trionfi, era considerato per le vittorie su Mitridate e per la conquista della Siria come il più grande generale del suo tempo; aveva accumulato un immenso patrimonio e se lo godeva placidamente in Roma, in mezzo alla considerazione del popolo e dei grandi; era diventato il rappresentante delle alte classi, senza perder l’ammirazione della moltitudine. Tutta la vita di lui era stata un seguito di successi. Egli invece.... Che cosa aveva guadagnato con tante fatiche? Aveva dovuto percorrere lentamente il faticoso curricolo delle magistrature, farsi largo con lotte, con intrighi, con perigli, in mezzo a nembi di odio; e quando finalmente era giunto ad ottenere più che quarantenne una provincia dove acquistar gloria e ricchezza, era capitato male; gli era toccato un paese molto povero a paragone dell’Oriente e di difficilissima conquista, dove aveva dovuto faticare dieci anni contro insurrezioni continue.... E che cosa aveva guadagnato, definitivamente? Gloria forse? Egli era allora l’uomo più spregiato ed odiato dalle alte classi; il generale a cui ogni pacifico italiano che avesse letto Senofonte credeva di poter dare consigli sul modo di finir presto la guerra di Gallia. Ricchezze? Egli usciva da questa lotta titanica quasi così povero come l’aveva incominciata, dopo aver profuso tutto il guadagno dei saccheggi gallici nel corrompere il mondo politico, senza altro patrimonio utile che lo splendido servidorame di schiavi e di liberti, ben scelti, bene istruiti, ben disciplinati: modello a tutti i signori del tempo suo. Ora poi molti dei suoi beneficati gli si volgevano contro; e l’Italia gli rimproverava i saccheggi di cui aveva divorate avidamente le prede, la politica di cui aveva goduti i benefici. Ma quando egli spingesse il guardo nel passato a ricercar la cagione di questa sorte così diversa, egli non poteva non riconoscere che Pompeo era stato così fortunato perchè aveva partecipato alle carneficine di Silla, acquistando in quella crisi terribile una grande considerazione presso le alte classi, che gli aveva servito poi per tutta la vita, prima a diventar popolare passando ai democratici, poi, acquistata la popolarità, ad avere onori, provincie, comandi in guerra, trionfi, sino ad esser riconosciuto da tutti come l’uomo necessario in ogni cosa. Egli invece si era attirato addosso l’odio dei potenti negli anni della reazione; e da quell’odio eran nati tutti i guai della sua vita: i difficili principii, i debiti contratti per farsi conoscere, le prime lotte con i conservatori, la necessaria rivoluzione del consolato, la sfrenata politica imperialista con cui aveva dovuto cercare di sostenere la rivoluzione democratica; quella fatale compromissione con la demagogia da cui non aveva potuto mai liberarsi e che minacciava di trarlo a rovina. Tutte le sue disgrazie erano la conseguenza fatale della sua discendenza dal vincitore dei Cimbri e delle prime e veramente nobili azioni della sua vita; della fede che aveva tenuto in mezzo al terrore della reazione alla figlia e alla memoria di Cinna; della fierezza mostrata verso Silla; dell’orrore per il sangue fraterno. Se egli avesse allora tradito i vinti, sarebbe stato anche egli, probabilmente, grande, fortunato e potente!

Nelle disgrazie che perseguitavano Cesare era una profonda ingiustizia: ingiustizia di cose, di uomini, di eventi. Che questa ingiustizia non lo abbia esasperato in quella crisi terribile a un odio universale degli uomini, è nello stesso tempo una prova della potenza serena del suo spirito e una delle sue glorie maggiori. La guerra civile sino a Farsaglia è forse la parte più bella della sua vita: perchè egli vi fece prova di una moderazione, di un senno, di una previdenza a lunga vista, che compensano molte imprudenze e ferocie della guerra di Gallia. Anche allora egli aspettava, fiducioso ancora nella pace, pieno di speranza che la sua lettera ferma e moderata giungerebbe a tempo e farebbe rinsavire gli arrabbiati, mentre Curione cavalcava senza ripigliar fiato sulla Flaminia, valicava il selvoso e nevoso Appennino.... Al primo gennaio infatti, quando il Senato si radunò, la lettera era nelle mani di Antonio. Ma i consoli ne temevano tanto l’effetto, che cercarono impedirne la lettura; Antonio tanto più insistette per darne lettura, sperando che opererebbe un altro di quei subiti rivolgimenti che si eran visti così spesso negli ultimi tempi; seguì una lunga e violentissima discussione, alla fine della quale soltanto Antonio potè ottenere di leggerla493. Ma l’effetto fu disastroso per i Cesariani. I Senatori, che la soggezione di Pompeo costringeva ad esser nemici di Cesare ma che seguivano con ansietà questa politica pericolosa, erano irritati, di malavoglia; e come succede spesso a uomini in condizione di spirito somigliante sfogarono il malumore, al primo pretesto, su Cesare questa volta, la cui lettera fu accolta da proteste sdegnose, come indegna, insolente, minacciosa494. Antonio dovè tacere sconcertato; il partito conservatore, dimenticando che aveva cercato di impedire la lettura di quella lettera, proruppe vittorioso; Lentulo e Scipione fecero discorsi violenti, dicendo esser tempo di finirla con le chiacchiere; i difensori di Cesare non poterono parlare che tra grandi rumori; M. Marcello, il console del 51, che, pur essendo conservatore aveva un certo giudizio e che osò domandare se non fosse meglio, prima di provocare una guerra, vedere se la preparazione era bastevole, dovè tacere, tanto fu sopraffatto dalle invettive e dagli strepiti495. Pompeo aveva rassicurato sempre i dubbiosi che gli avevano mosso questioni consimili, dicendo che tutto era pronto. Così la proposta che si considerasse Cesare nemico della patria se non abbandonava il comando prima del primo luglio fu approvata496; e se l’intercessione di Antonio e di Quinto Cassio potè per il momento togliere effetto alla votazione497, i conservatori se ne dolsero poco: essi erano ora sicuri di far votare quando volessero il decreto di stato d’assedio, che avrebbe annullato il veto dei tribuni.

Da tutte le parti incominciò allora un disperato lavorio; da tutte le parti proruppero i conciliatori zelanti, gli istigatori maligni, i consiglieri inopportuni, i profeti funerei, i piagnoni inconsolabili, che compariscono alla vigilia delle grandi crisi sociali. La sera stessa del primo gennaio Pompeo fece venire a casa sua molti senatori, li lodò, li esortò, li invitò a trovarsi in Senato il giorno dopo. Intanto si cominciavan le leve, si chiamavano a Roma i veterani498. Tuttavia nella notte parve avvenire una certa reazione nell’animo dei senatori: il giorno dopo i tribuni avendo posto il veto, i consoli non osarono violarlo; il suocero di Cesare ed il pretore Roscio domandarono una sospensione di sei giorni per tentare un accordo; altri domandarono che si trattasse per mezzo di ambasciatori499. La fortuna volle che il 3 ed il 4 il Senato non tenesse seduta, che il 4 gennaio Cicerone giungesse ai sobborghi di Roma, accolto festosamente dalla parte più ragionevole del Senato, che desiderando pace sperava nell’opera sua500. Ed egli si mise subito all’opera alacremente, parlò con i capi dei partiti e propose che a Cesare si concedesse di domandare il consolato in assenza e che durante l’anno del suo consolato Pompeo si recasse in Spagna501. Nel tempo stesso Curione aveva ricevuto nuove proposte, più moderate ancora, da Cesare: era pronto a contentarsi della Gallia Cisalpina e dell’Illirico con due legioni502. L’incontro di queste due proposte parve un momento precipitare in bene gli eventi. Pompeo, che forse era impressionato dalla malavoglia con cui le popolazioni si facevano arruolare, diede incarico segretamente ad un giovane il cui padre era generale nell’esercito di Cesare, Lucio Cesare, di andare a trattar pace: Lucio Roscio, cui Pompeo aveva dichiarato che inclinava ad accettare le ultime condizioni di Curione, partì per suo conto, per recarsi anch’egli da Cesare503. Ma Lentulo, Catone, Scipione corsero alla riscossa; circuirono ed intronarono Pompeo di proteste: Cesare gli tendeva un’insidia, non fosse così stolto!504 L’esitazione di Pompeo si era riflessa nella esitazione del Senato, che il giorno 5 e 6 aveva discusso senza deliberar nulla. Ma alla fine del 6 Pompeo era riconquistato da conservatori arrabbiati, Cicerone e Curione battuti; ed il giorno 7 lo stato d’assedio era decretato505; Antonio e Quinto Cassio partivano precipitosamente da Roma, dove non si sentivano più sicuri. Finalmente! Dopo un anno e mezzo di lotte, di intrighi, di raggiri, l’odiato nemico era stato distrutto: egli non sarebbe più console se non dopo una guerra civile; la tentasse, se osava! Essi avevano l’impero, lo Stato, il suo tesoro, il più celebre dei condottieri, il più illustre dei cittadini; Cesare avea solo undici legioni, di cui due novizie e le altre stanche di tante guerre, una piccola provincia e la Gallia di recente domata e nemica. Egli non avrebbe mai osato, si pensava comunemente, invadere l’Italia, lasciandosi alle spalle i Galli appena vinti; si sarebbe al più tenuto sulla difesa nella valle del Po506. Nei giorni seguenti si tennero sotto la presidenza di Pompeo varie sedute del Senato quetamente e senza soverchie molestie dei tribuni, si ascoltarono le rassicuranti dichiarazioni di Pompeo sulla situazione militare, e da una maggioranza docile si fecero approvare le buone misure: si mise a disposizione di Pompeo il tesoro dello Stato, le casse dei municipi e le casse private, autorizzandolo a far prestiti forzosi507; si distribuirono ai favoriti del partito conservatore le migliori provincie. Scipione ebbe la Siria, Domizio la Gallia Transalpina, Considio Noniano la Cisalpina508. Si dispose infine per una gran leva di 130 000 uomini e a questo scopo si divise l’Italia in tante circoscrizioni, per ognuna delle quali si scelse un senatore conosciuto e possidente nei luoghi che si incaricasse di farvi leve, adoperando anche la autorità sua personale: Cicerone per Capua509; Domizio per il territorio de’ Marsi; Scribonio Libone per l’Etruria; Lentulo Spintere per il Piceno. Il governo conservatore pareva già restaurato.

Quando la mattina del 14 gennaio510 tutta Roma fu sbalordita al levarsi da una notizia inattesa, fulminante. Cesare aveva varcato il Rubicone ed occupata Rimini con immense forze; i primi fuggiaschi davanti all’invasione erano giunti a Roma trafelati e spaventati; il capo della demagogia, degli avventurieri, dei disperati marciava su Roma.

XII.
“BELLUM CIVILE”
(Gennaio-Febbraio 49).

Lo spavento esagerava smisuratamente le notizie; ma l’opinione che Cesare si sarebbe tenuto sulla difesa nella valle del Po era una illusione dei comodi strateghi del foro. Forse il 4 gennaio Cesare sapeva già quale accoglienza il Senato avesse fatta alle proposte di conciliazione; e ormai persuaso che le epistole non operavano nessun mutamento, si era trovato a un tratto in balìa di una tempesta di propositi mutevoli, di incertezze, di esitazioni. Che risolvere? Aspettare senza far nulla o scrivendo inutili lettere il termine del luglio fissato dal Senato, nella speranza di qualche fausto mutamento, era pericoloso, perchè i nemici si sarebbero imbaldanziti, avrebbero avuto agio a muovergli contro le grandi forze di cui disponevano, a prepararne altre, a seminar la discordia tra i soldati. Già da un pezzo gli si sussurrava che Labieno stesse trattando in segreto con i suoi nemici511... Bisognava fare qualche cosa, agire, adoperare la medicina più vigorosa di una minaccia: ma come, senza precipitare la guerra civile da lui non voluta? In mezzo all’ondeggiamento dei vari propositi pensati, abbandonati, ripensati, il suo pensiero si fermò in quei giorni qualche volta sopra un disegno: prender all’improvviso Rimini, la prima città dell’Italia oltre il confine del Rubicone, muovere da Rimini ad occupare altre città importanti, mostrare al Senato e a Pompeo con questo atto che non aveva paura di una guerra civile, che se proprio lo provocavano a un duello mortale, si difenderebbe disperatamente; e poi trattare di nuovo. La paura se non la ragione li renderebbe forse più arrendevoli. Ma quale sarebbe stata l’impressione immediata di quell’atto rivoluzionario, specialmente sui soldati? Il contegno di questi, a mano a mano che la bufera si avvicinava, era la maggior cagione di ansietà per lui, per gli amici, per i nemici. Questo esercito stanco di tante guerre lo avrebbe seguito anche nell’avventura di una nuova guerra civile? Cesare si era studiato nei dieci anni precedenti di cattivarsi i soldati con una alterna vicenda di severità e di dolcezza: richiedendo una disciplina rigorosissima e uno zelo straordinario nel servizio, facendo frequenti sorprese alle legioni per verificare se tutto era in ordine, castigando con una giustizia di inflessibile fermezza e di prontezza fulminea tutte le mancanze agli obblighi militari; ma compensando splendidamente servigi e fatiche, prodigando ai soldati oro e regali, curandone il benessere materiale, aumentando il numero delle legioni anche a costo di assottigliarle per moltiplicare i posti di centurione, incoraggiando nei soldati l’amore al lusso, il gusto delle armi, degli elmi, delle corazze dorate, trattandoli con una amichevole cordialità, permettendo loro ogni licenza fuori di servizio, cercando ricordarsi il nome e la storia di tutti, esaltandone il valore nei documenti pubblici e nei Ricordi. I soldati, quasi tutti poveri contadini della valle del Po, dovevan sentirsi molcer soavemente le orecchie e l’anima quando vedevano questo patrizio di Roma presentarsi a loro con il purpureo paludamento proconsolare e lo udivano arringarli chiamandoli, non “soldati”, ma “compagni miei!”512 E certo i soldati lo amavano molto.... Eppure il rispetto di quella immensa finzione legale a cui si era ridotto in gran parte il governo di Roma era ancora così grande; il Senato, le magistrature, tutta la mole monumentale della vecchia repubblica erano ancora tanto venerate, specialmente dalla plebe italica! Un momento di esitazione, di sfiducia, di paura al principio della guerra; e questi sentimenti secolari potevano prorompere, soverchiare l’affetto per lui. L’esercito di Gallia si sarebbe in tal caso disfatto e disperso....

I sei sette giorni che seguirono furon tra quelli più pieni di ansietà e di esitazione che Cesare abbia vissuto513. Alla fine però la notizia che lo stato d’assedio era proclamato a Roma il 7 gennaio, mandatagli con corrieri celerissimi dai tribuni fuggiaschi, risolvè il lungo dubitare in uno di quei subitanei impeti di audacia, che di tempo in tempo lo avventavano quasi fatalmente verso il futuro. In un baleno, probabilmente la mattina del 10, egli prese la risoluzione suprema; e subito corse all’azione con la consueta rapidità; comunicò il disegno a quei pochissimi amici e ufficiali che eran con lui e che dovevano accompagnarlo, tra gli altri ad Asinio Pollione; prese con loro le disposizioni opportune: siccome nessuno ne doveva saper nulla, perchè la voce non volasse sino a Rimini, ciascuno uscirebbe al cader della notte dalla città solo, per una via diversa; il ritrovo sarebbe presso le cinque coorti che aveva già avviate, sotto il comando di certo Ortensio, verso il Rubicone e con le quali prima dell’alba occuperebbero Rimini; egli penserebbe a sviare nella giornata l’attenzione del pubblico. Infatti si mostrò tutto il dì per Ravenna; andò a prendere un bagno; assistè a uno spettacolo pubblico; esaminò i disegni di una scuola di gladiatori; diede la sera un gran pranzo, mostrandosi dovunque sereno e tranquillo, per tutta questa giornata suprema della sua vita, quando stava per affrontare un rischio terribile. Se la sua intenzione era conosciuta, se Rimini chiudeva le porte, egli non avrebbe con 1500 uomini potuto prenderla; ma violando il confine d’Italia inutilmente, senz’altro frutto che lo scorno di un insuccesso, avrebbe provocata subito la guerra. A metà del pranzo disse di dover lasciare per poco tempo i convitati per una faccenda improvvisa del suo ufficio; montò sopra un carretto di mercante; uscì da Ravenna per un’altra via che quella di Rimini; ma fatta un poco di strada volse il cammino, giunse alle coorti, trovò gli amici, fece svegliare i soldati, ordinò loro di porsi in via senza altra arma che la spada; e quando gli Ariminesi si svegliarono all’alba dell’11 gennaio, egli era già con 1500 legionari nella città514. L’audacia aveva avuto felice riuscita. Trovato a Rimini Antonio, l’antico generale di Gallia, il tribuno scacciato da Roma, Cesare lo mostrò ai soldati, pateticamente vestito degli abiti di schiavo con cui era scappato; pronunciò un vigoroso discorso, promettendo grandi ricompense, protestando di far per loro quanto poteva, affermando che voleva difendere la libertà del popolo contro la tirannia delle fazioni; ottenne dai legionari sorpresi ed esultanti il giuramento di fedeltà515; mandò Antonio alle altre cinque coorti che erano sulla via Emilia, probabilmente vicino al luogo dove ora è Forlimpopoli516, con l’ordine di valicare l’Appennino e prendere Arezzo; e con le sue cinque coorti occupò nei giorni successivi le principali città della costa: Pesaro, Fano, Ancona....517 Egli non intendeva, ciò facendo, di cominciar la guerra. L’avrebbe potuto con poco più di 3000 soldati?518 Voleva solo accaparrarsi un pegno con cui trattar pace a condizioni migliori; mostrare ai suoi nemici che, se provocato, avrebbe risposto alla violenza con la violenza. Difatti quando Roscio e Lucio Cesare, intorno al 19 gennaio519, lo trovarono, certo in una delle città della costa adriatica già occupate, egli propose loro queste condizioni: Pompeo si recasse in Ispagna, si congedassero tutte le milizie reclutate in Italia, si lasciassero fare i comizii in Roma vuota di milizie; ed egli abbandonerebbe le provincie e verrebbe a Roma a domandare il consolato in persona520.

Ma avvenne a Cesare quel che avviene così spesso in tutte le lotte della vita, quando due nemici cercano di spaventarsi a vicenda per costringersi l’un l’altro a conchiudere pace: che egli fallì lo scopo suo non perchè non riuscisse a spaventare abbastanza, ma perchè spaventò troppo. Il 14, il 15, il 16 gennaio le notizie delle successive occupazioni lungo la costa adriatica si seguirono a Roma come fulmini, che scoppiavano sopra, a destra, a sinistra, uno più sfolgorante e tonante dell’altro, spaventando in modo indicibile. Rimini occupata, Pesaro occupata, Fano occupata; l’Etruria sgombrata da Libone che impaurito si era ritirato precipitosamente a Roma!521 Era evidente: Cesare incominciava la guerra senza nemmeno aspettare la primavera; lanciava sull’Italia le legioni e i barbari cavalieri di Gallia, per prendere Roma; tra pochi giorni, arriverebbe!522 Nessuno sapeva o rifletteva che Cesare aveva solo 3000 uomini; e nello spavento l’accordo tra Pompeo e il Senato che pareva pochi giorni prima profondissimo, saldissimo, eterno, si ruppe; l’egoismo, la diffidenza, il disprezzo reciproco, la vigliaccheria latenti in quella come in tutte le classi dirigenti delle età mercantili risaliron dal basso, intorbidando e confondendo ogni cosa, simili alle melme putride di uno stagno di cui si rimescola il fondo. Cesare non avrebbe mai supposto tanto effetto a così piccolo atto. Giammai si era visto in Roma così repentino mutamento di spiriti e una confusione più grande. Il maggior numero dei senatori, che era stato tratto a forza e riluttante alla guerra, inferocì contro la piccola minoranza conservatrice e specialmente contro Pompeo; accusò costui di imprevidenza e avventatezza; si pentì di non aver accettate le proposte di Cesare; trovò giusto che i due più potenti cittadini deponessero insieme il comando523. Questo improvviso rivolgimento e questa violenta esasperazione sconcertò profondamente i consoli, i capi del partito conservatore, tutti coloro che erano responsabili della rottura, anche essi già turbati dalle notizie di Rimini: i preparativi che il giorno 12 erano fatti alacremente524 furono interrotti: il Senato non fu convocato nè il 14, nè il 15, nè il 16 perchè i consoli temevano che i senatori impauriti voterebbero una resa a discrezione; i consoli e Pompeo non potevano mettersi d’accordo per nessun provvedimento525; i colloqui tra i capi del partito conservatore si seguivano senza che si venisse a nessuna conclusione; da mattina a sera senatori e magistrati spauriti venivano nelle case di Pompeo a domandar notizie, a lamentarsi, a chiedere e a dar consigli, a raccontare come sicure le più stravaganti dicerie che correvano per Roma; e nella confusione di quelle giornate i liberti e i servi non riuscivano a trattener più nessuno: tutti passavano e andavano a sfogare su Pompeo le proprie ansie, lo spavento delle voci che correvano, la sorda irritazione del pericolo in cui intravedevano di trovarsi; compiacendosi amaramente di ingrandire davanti a lui la propria disperazione, infuriandosi e rispondendo arrogantemente quando non trovavano corrispondenza o conforto alla propria ansietà526. Grande era anche lo spavento tra tutti i ricchi, paurosi di una rivoluzione sociale che li spogliasse dei beni527. Ma Pompeo subiva una crisi ben altrimenti terribile! Sorpreso e sconcertato da questo pandemonio di notizie, di recriminazioni, di sbigottimenti, di eventi inaspettati, a un tratto, quando da lungo tempo era disavvezzo dagli intensi e rapidi sforzi nervosi di cui Cesare aveva fatto tanto esercizio in Gallia; indebolito dalle malattie, persuaso che ci sarebbe tempo di pensare comodamente alla guerra, Pompeo era come paralizzato nella volontà e nel pensiero, proprio quando in mezzo allo sbigottimento universale egli avrebbe dovuto essere la volontà ferma di tutto; non riusciva ad orientarsi tra tante notizie e consigli contradittori, a sapere quante forze avesse Cesare528, se Roma era minacciata davvero; temeva, ma non voleva mostrarlo, e perciò non deliberava, non faceva nulla; si sdegnava ma non reprimeva nemmeno la insolenza improvvisa dei senatori che quasi lo insultavano; riceveva passivamente le recriminazioni, gli sfoghi disperati, i consigli, la pioggia di notizie infauste: Pesaro occupata, Fano occupata.... L’aristocratica indifferenza della sua natura e l’orgoglio della propria grandezza gli davano la forza di contenersi spregiando: ma sotto quella apparente tranquillità e negligenza gonfiava una collera sorda contro il Senato e il partito che lo aveva spinto alla guerra e che ora, al primo cimento, quasi lo abbandonava; in quella inerzia ansiosa si irritava una straordinaria esasperazione d’orgoglio e di vendetta contro Cesare, che infliggeva la umiliazione di quelle giornate a lui, il primo personaggio dell’impero; una smania inquieta di mostrare al mondo che egli saprebbe vendicare terribilmente la sua grandezza offesa dal demagogo.... Tre giorni passarono, senza che si deliberasse nulla; senza che nessun magistrato facesse niente.... Ma quando il 17529 giunse alla fine notizia che non solo Ancona ma anche Arezzo era occupata, questa inerzia ansiosa proruppe in un tumulto di deliberazioni precipitose. Anche Pompeo cedè allo spavento530; argomentò che Cesare avesse grandi forze e volesse tentare una sorpresa su Roma, facile dopo la ritirata di Libone dall’Etruria; pensò che Roma non si poteva difendere; e deliberò ritirarsi a Capua, dove si avrebbe avuto tempo a raccogliere un esercito. Catone si indusse a proporre che Pompeo avesse i pieni poteri, i consoli a proporre il decretum tumultus. Nel giorno stesso il Senato fu radunato; e Pompeo ci venne, tranquillo e indifferente di fuori, sdegnoso e irritato di dentro, ma senza propositi ben definiti, tranne quello di abbandonar Roma e di spingere le torme riluttanti dei senatori a una guerra, in cui provare a tutto il mondo la superiorità sua sopra Cesare. Egli non poteva consentire a una pace, cui paresse costretto dalla paura; e d’accordo con i consoli con Catone e i pochi amici, aiutato dallo spavento dei ricchi, che per paura del nuovo Cinna volevano misure energiche e imploravano soltanto soldati e difese, seppe imporre al pavido e incerto Senato la guerra. La seduta fu agitata, confusa, lunghissima e piena di contradizioni: molti rimproverarono Pompeo di imprevidenza531; Volcazio Tullo e Cicerone proposero di mandare ambasciatori a Cesare per trattar la pace532; Catone invece propose di dare i pieni poteri per il governo della guerra a Pompeo533. Questi tollerò con flemma sdegnosa i rimproveri; non nascose alcuna parte della verità534; disse tranquillamente che provvederebbe alla difesa dell’Italia, ma si oppose energicamente alla proposta di Tullo, affermando equivarrebbe a mostrar paura535. E il partito della guerra prevalse per l’unione di Pompeo e dei consoli; la proposta di Catone fu approvata536; fu decretato il tumultus. Allora Pompeo dichiarò il suo piano: i consoli e il Senato dovevano abbandonar Roma, ritrarsi a Capua e portarvi il tesoro, per preparare con miglior agio i mezzi necessari a scacciare l’invasore dall’Italia; aggiungendo che egli punirebbe le città le quali aprissero le porte a Cesare e considererebbe come nemici tutti i senatori che non lo seguissero fuori di Roma537. Non si fidava più del Senato e voleva averlo in suo potere: ma questa imposizione era un vero colpo di Stato, quale nemmeno Silla aveva osato mai! Pompeo, sebbene si conservasse freddo in apparenza, era troppo irritato dal pericolo, troppo sdegnato contro il suo partito di cui non si fidava più, troppo vivamente ferito nell’orgoglio; e precipitava a violenze, come tutti gli uomini che hanno perduta la calma....

Sembra che Pompeo uscendo dal Senato partisse subito per Capua. Era già sera538, e molti senatori, che non si erano fatti accompagnare dagli schiavi portatori di lampade, restarono a passar la notte nella Curia non volendo avventurarsi per Roma che non aveva luci; mentre i colleghi andavano a casa: ma in quale agitazione, gli uni e gli altri! I fastidi di così precipitosa partenza erano innumerevoli: e l’aristocratico e ricchissimo Pompeo, che aveva tanti schiavi, tanti procuratori, tanti denari, tanti amici e clienti per il mondo, non aveva pensato che il maggior numero dei senatori era molto più povero di lui, quando aveva intimato così bruscamente lo sgombro. Delle numerose familiae di schiavi che ognuno aveva in casa, che fare? Lasciarle in Roma senza padrone, quando probabilmente il disordine della guerra civile avrebbe rincarato il grano e fomentato lo spirito di rivolta nei servi?539 Dove mandare le donne e i figliuoli?540 Bisognava inoltre interrompere i propri affari e quel faticoso arruffio di compre e di vendite, di debiti e di crediti con cui tanti differivano un inevitabile fallimento. Molti non avevano nemmeno tanto denaro pronto che bastasse a un viaggio probabilmente lungo e difficilmente potevano procurarsene; gli amici erano in bisogno; il commercio delle syngraphae quasi sospeso; i prestiti difficilissimi, perchè i capitalisti paventavano l’imminente guerra civile541. Tuttavia l’intimazione di Pompeo era inesorabile! E il maggior numero si risolvette in quel tumulto a partire con Pompeo, più che per sentimento sincero, per un pregiudizio di classe, per la paura di esser considerati partigiani della folle demagogia popolare e di esser travolti nella sicura rovina di questa: si risolvè per Pompeo anche Caio Cassio, il questore di Crasso, anche suo cognato Bruto, cui pure Cesare era stato quasi secondo padre in luogo del padre vero, che Pompeo gli aveva ucciso a tradimento nella rivoluzione di Lepido, a Modena. Bruto non aveva sino allora voluto mai essere amico di Pompeo; ma in questa crisi suprema anch’egli cedè. Solo pochi furon per Cesare: tra gli altri Sallustio e Celio per vendetta delle persecuzioni di Appio Claudio, Dolabella lo scapestrato genero di Cicerone, Asinio Pollione, per amicizia. La notte istessa si cominciarono i preparativi in molte case; e il dì dopo Roma fu piena del tumulto di tanti signori e magistrati che si preparavano a partire; ma straccamente, a rilento, tante disposizioni avevano da prendere; tanto molti cercavano indugiare di proposito sperando che qualche evento li trattenesse; tanto la malavoglia faceva tutti pigri! Per avere il denaro del viaggio, molti ricorsero ad Attico, che mise a disposizione degli amici le sue grandi somme nascoste nelle cantine della casa o depositate nei templi di Roma542. Eppure pochi si risolvevano a partire; e chi sa quanto molti avrebbero prolungato ancora i preparativi, se per fortuna di Pompeo il 18 non fosse corsa una voce falsa: che Cesare era già in via per Roma, alla testa della cavalleria gallica!543 A Roma scoppiò un panico: i consoli partirono subito senza vuotare e caricar sui muli il tesoro; i più pigri misero le ali, i più impacciati ruppero in un baleno tutti gli impedimenti; e nella giornata la via Appia formicolò di lettighe, di schiavi, di carrette, di giumente. Un gran numero di senatori, di cavalieri, di denarosi capitalisti, di liberti e plebei agiati, tutta la società ricca e colta544 usciva di Roma; lasciando – stranezze delle rivoluzioni – le donne, i bambini, gli schiavi in una città in cui si credeva piomberebbe Cesare e la cavalleria gallica! Cicerone era già partito prima del panico, all’alba del 18545; ma molto di cattivo umore. Non aveva osato rifiutare la missione di Capua, la settimana prima; ma ne era pentito, desiderando mantenersi più che potesse imparziale tra i due partiti, per motivi nobili e per motivi umani; per la paura di una guerra civile in cui gli animi sarebbero presto inferociti; per la noia di combattere in una contesa di cui non sentiva l’importanza; per la speranza di poter pacificare i due guerrieri nemici, egli l’uomo della penna, con la sola forza dell’ingegno e della dottrina. Dopo l’abbandono di Roma egli aveva trovato il necessario pretesto per rifiutare la missione: e recatosi da Pompeo, probabilmente prima della partenza sua da Roma, gli disse che, ora che Capua diventava il posto avanzato dell’esercito di Pompeo, egli non poteva più governarla senza milizie, rinunciava quindi all’incarico, accettando in cambio di sorvegliare la pianura e le coste del Lazio546. In mezzo a tanta ansietà gli recava qualche conforto il pensiero che suo genero Dolabella parteggiava per Cesare: era una vergogna per la famiglia; ma sarebbe stata una fortuna, se Cesare vinceva. Dolabella avrebbe interceduto presso il vincitore....547

Cesare intanto, occupate Ancona e Arezzo, aveva ancora mandato Curione il 19 gennaio a occupare Gubbio, facendo fuggire il pretore Termo con cinque coorti548; e si era fermato, aspettando l’effetto delle sue mosse e l’arrivo dei rinforzi: perchè con 3000 uomini non poteva avanzarsi più oltre. Ma ben presto gli avvenimenti da lui mossi precipitarono, trascinandolo oltre il punto a cui egli aveva mirato. La partenza da Roma di Pompeo, dei consoli, di tanta parte del Senato lo inquietò: voleva forse Pompeo, sequestrando i magistrati legittimi, togliergli modo di negoziare con loro una pace equa e costringerlo a quella gran guerra attraverso l’impero, che egli paventava? Subito egli scrisse e fece scrivere a molti senatori partenti, tra gli altri a Cicerone, affinchè restassero a Roma549. Ma un pericolo maggiore minacciava da Osimo. Azio Varo armava rapidamente molte coorti e si diceva volesse assaltare il nemico, che aveva soli 3000 uomini dispersi in un largo triangolo tra Arezzo, Ancona e Rimini; onde Cesare, per non esser sorpreso così malamente, dovè radunare la sua legione sulla costa dell’Adriatico, forse ad Ancona, ordinando a Curione e ad Antonio di sgombrare Gubbio ed Arezzo550, tanto è vero che Arezzo era stata occupata solo per far paura. In quella, ecco giungere, verso la fine di gennaio, la risposta alle sue condizioni di pace. L’ambasciatore di Pompeo, ritornando dal colloquio con Cesare, aveva incontrato i consoli e molti senatori a Teano in viaggio per Capua551; i più così malcontenti per la partenza improvvisa e per la pericolosa avventura di cui nessuno vedeva chiaramente la fine, che quasi tutti erano disposti ad accettare le proposte, non ostante che Pompeo fosse assente. Cesare voleva la pace, il Senato voleva la pace: come non sarebbe stato possibile conchiuderla? Ma gli uomini non governavano più gli avvenimenti. Nella radunanza di Teano si era infatti aggiunta alle proposte di Cesare la condizione che Cesare dovesse ritirarsi nella provincia, affinchè il Senato potesse deliberare con piena indipendenza552. Puntiglio o diffidenza aveva suggerito questa condizione? Probabilmente l’uno e l’altro motivo, come avviene in tutte le lotte. Ma se gli amici di Pompeo avevano posto questa condizione per puntiglio e per diffidenza, Cesare sapeva quanto facilmente i nemici suoi potrebbero cavillando ritrovare un pretesto alla guerra, se un momento si sentissero più forti. Azio Varo continuava ad armar soldati; e affinchè la pace potesse concludersi bisognava che egli non ricevesse, durante le trattative, nemmeno una piccola sconfitta, la quale avrebbe imbaldanzito di nuovo i conservatori alla tracotanza di condizioni impossibili. Egli doveva, per non perdere il vantaggio dell’acquistato, procedere subito; onde, quando ebbe sotto mano tutta la sua legione, probabilmente il primo febbraio, avanzò verso Osimo, prese la città con una breve e poco sanguinosa scaramuccia; sconfisse Varo, fece passare a sè con promessa di buon stipendio molti dei soldati553; si impadronì di Cingoli e di tutto il Piceno554; poi raggiunto di lì a qualche giorno, forse il 3 febbraio555, dalla dodicesima legione556, si avanzò verso Fermo557, con l’intenzione di marciare su Ascoli, che Lentulo Spintere occupava con dieci coorti.

Queste mosse, a cui Cesare era stato costretto per non correre un rischio supremo, distruggevano le trattative di pace, al momento in cui parevano conchiudersi. Il destino spingeva a guerra gli uni contro gli altri, anche i più riluttanti. Ma ogni giorno le forze di Cesare parevano crescere, scemare e confondersi quelle dei suoi nemici. Queste prime e ardite operazioni, il disordine che egli aveva inopinatamente gettato tra gli avversari, la fuga di Pompeo, la signoria di parte dell’Italia allenavano quasi alla guerra civile l’esercito, conducendolo alla rivoluzione per gradi e dandogli confidenza; a rinfocolare l’ardore del quale l’aiutava la fortuna, era corsa voce che Cesare darebbe il censo di cavaliere a tutti i soldati che lo seguirebbero; e la speranza di questo premio aveva ancor più esaltata la vecchia ammirazione dei soldati di Gallia per il loro imperator558. Invece Pompeo non poteva governare efficacemente la guerra nemmeno con i pieni poteri. I magistrati e tanta parte del Senato che egli aveva costretto per ira e per diffidenza a uscir di Roma con lui gli erano divenuti presto un impedimento, specialmente dopo che aveva saviamente risoluto di recarsi a Lucera a prendere il comando delle due legioni e fare in quella città la radunata di tutte le milizie che si raccoglievano lungo la costa adriatica559. Come trasportarsi dietro, per villaggi e per piccole città dove tanta moltitudine non trovava alloggio, il Senato che non aveva nulla da fare, che lo disturbava anzi con la baraonda dei discordi pareri? Egli per ciò aveva abbandonato tutti a loro stessi dopo pochi giorni; e il Senato si sparpagliava per la Campania; i consoli in un luogo, i pretori e i tribuni in altri, la folla dei senatori dappertutto, per le ville solitarie, nelle campagne invernali deserte e tristi, aspettando ciascuno gli eventi. Ma è facile capire quanto questa dispersione infiacchisse la difesa del partito conservatore. I corrieri non sapevan più dove e a chi recapitare le lettere; Pompeo e i consoli ignoravano a volte notizie importantissime, già conosciute dagli altri560; gli ordini arrivavano troppo tardi e quasi snerbati dalla distanza. Così gli arruolamenti procedevano lenti, tra la malavoglia universale561; e quando Pompeo aveva mandato da Lucera ai consoli a Capua il tribuno Caio Cassio con l’ordine di andare a Roma a prendere l’erario, i consoli non avevano obbedito, allegando la poca sicurezza delle strade562. Anche l’erario era dunque abbandonato al nemico! Gli animi dei senatori, già depressi per l’andamento della guerra, per l’abbandono di Roma, per i danni che soffrivano da tanto scompiglio, si avvilivano ancor più nella solitudine delle ville e delle piccole città, dove le notizie arrivavano tardi e come fioche voci di un mondo lontano lontano.... Chi avrebbe potuto infervorare all’ardore della guerra questa gente stanca e snervata? Un poco di conforto recò la notizia che Labieno aveva davvero abbandonato Cesare ed era passato alla parte di Pompeo, non sappiamo bene per quale motivo. Pare che da un pezzo fossero incominciati dissapori e malumori tra Cesare e Labieno; che dopo la guerra contro Vercingetorice nella quale Labieno aveva vinto tra i Senoni e i Parisi le sole vere e grosse battaglie di quella campagna, questo oscuro plebeo, che l’amicizia di Cesare aveva arricchito e innalzato alla condizione di un gran personaggio del tempo, si fosse illuso di essere maggior guerriero di Cesare e indotto a credere anche egli, come tanti, che la fama guerresca del suo generale era in gran parte immeritata. A ogni modo la defezione di Labieno sollevò un poco gli spiriti dei pompeiani; ma grande era pur sempre il malcontento di questi; anche di Cicerone che andava e veniva continuamente da Formia a Capua, impaziente di saper notizie e sempre agitato da sentimenti diversi; ora indignato contro Cesare per la sua audacia, ora contro Pompeo per la sua inerzia, ora ritornando ai suoi favoriti disegni di composizione e interposizione. Il 10 febbraio si erano trovati sul suo podere di Formia diversi amici e membri influenti del partito pompeiano: C. Cassio, M. Lepido, L. Torquato e discutendo a lungo la condizione delle cose avevano tutti conchiuso che, se una battaglia era inevitabile, essa doveva esser la sola; dopo, tutti gli uomini di buona volontà avevano a unirsi per far smettere al vinto il proprio puntiglio e conchiuder la pace563.

A questa dispersione di voleri nei conservatori corrispondevano in Cesare una splendida risolutezza, coerenza, rapidità. Giunto a Fermo egli aveva saputo che Ascoli era sgombra, che Lentulo, spaventato dalla rapidità e dalla forza doppia di Cesare, si era ritirato, cedendo per via il comando a Vibullio Rufo564, su Corfinio, dove Domizio Enobarbo raccoglieva un forte corpo e dove si ritirava pure da Camerino, con molti soldati, Lucilio Irro. I nemici, fuggendo, lo costringevano a slanciarsi innanzi. Ormai egli capiva essere vano sperare che si potesse ancora conchiuder la pace con trattative, senza combatter prima una battaglia che piegasse gli orgogli e le ostinazioni degli uni, vincesse le esitazioni degli altri; onde a Fermo immaginò un nuovo disegno, che pose subito a effetto: fare una breve e veloce guerra in Italia, distruggere con fulminea rapidità le forze che i nemici raccoglievano, costringere Pompeo e i consoli a una pace ragionevole, terminare tutto in brevissimo tempo, ridando quiete all’Italia. Con la velocità consueta, dopo aver sostato a Fermo un giorno per gli approvvigionamenti e aver spedito per numerosi corrieri un suo manifesto alle principali città dell’Italia in cui dichiarava le proprie intenzioni pacifiche e rassicurava l’opinione pubblica, Cesare si rimise in cammino l’8 febbraio a grandi giornate lungo la costa del mare565 verso Corfinio, dove frattanto e in Sulmona ed in Alba si erano raccolte trentun coorti, un poco più di 10 000 uomini566. Ma Pompeo aveva saviamente pensato di radunare tutte le sue milizie a Lucera, più a sud; e se il suo disegno riusciva, Cesare avrebbe trovato il paese dei Marsi sgombro.... Pompeo però non aveva ancora scossa di dosso quella incertezza e lentezza in cui si disperdevano i suoi migliori propositi. Egli aveva i pieni poteri, ma esitava a servirsene con un gran signore come Domizio Enobarbo, trattandolo come un centurione, un poco per sentimento di classe, un poco per tema di non essere obbedito; onde non gli aveva mandato l’ordine, bensì il consiglio, come si usa tra persone dabbene, di ripiegare su Lucera567, ed era stato assai contento di ricevere il 10 febbraio notizia che Domizio contava di muoversi il 9568. Ma poi Domizio non gli diede più notizia alcuna di sè; e solo per altre vie, qualche giorno dopo, egli venne a sapere che Domizio, mutato proposito, intendeva aspettare di piè fermo Cesare. Pompeo, il quale conosceva i vizii delle alte classi italiane, fece una supposizione: che nell’esercito di Domizio fossero ricchi signori possidenti di terre nei dintorni di Corfinio e che questi insistessero affinchè si difendesse il paese, per salvare i loro campi dalla devastazione dei soldati di Cesare569. Gran proprietario egli stesso, scettico e indulgente con i vizii della sua classe come sono sempre i gran signori rammolliti dalla ricchezza, egli pensò una transazione indegna di un generale: pregò il 12 febbraio Domizio di mandargli diciannove coorti e di tenere le altre a difesa570. Ma il 13 o il 14 febbraio571 egli disperava talmente di essere obbedito da Domizio, era ormai così sicuro che costui sarebbe stato sorpreso da Cesare, che si rassegnò a pensare a una ritirata in Grecia: non era più possibile difendersi in Italia, bisognava abbandonar la penisola, andare in Oriente, riordinare un esercito, riprendere più tardi e con forze maggiori la guerra. Ma quanta debolezza, anche in questa deliberazione! Il 13572 egli mandò Decimo Lelio ai consoli, con una lettera in cui li pregava, se così sembrava loro conveniente, che l’uno di essi si recasse in Sicilia con le milizie reclutate intorno a Capua e con dodici coorti di Domizio, per guardare questo importante granaio, l’altro con le rimanenti forze a Brindisi per imbarcarsi573; invitò pure Cicerone a raggiungerlo a Brindisi574. Le sue paure per Domizio non erano, del resto, senza ragione; chè il 14 febbraio Domizio si lasciava sorprendere e assediare in Corfinio con diciotto coorti. Grande fu la commozione dell’Italia a questa notizia. Tutti aspettavano che Pompeo volasse al soccorso dell’assediato....575

Ma l’annuncio dell’assedio di Corfinio e della imminente sciagura che lo minacciava, risvegliarono alla fine in Pompeo le sopite energie. Egli si scosse, si riebbe, e da questo momento mostrò una fermezza e una energia molto superiori a quelle delle ansiose settimane allora trascorse. A costo di precipitar tutto l’impero in un disordine immenso, a costo di perire con i suoi in una gigantesca rovina, egli voleva la rivincita su Cesare, necessaria a ridiventare agli occhi di tutti il primo personaggio dell’impero, a vendicare il suo orgoglio offeso! Egli resistè fermo alle supplicazioni affannose di tutta la Roma elegante e aristocratica, che per la fretta di salvare Domizio voleva si avventasse ciecamente contro la sorte; e giudicando pericoloso rischiare con le due sole legioni che aveva a Lucera una disfatta che sarebbe stata irreparabile per il suo prestigio, ebbe la forza di prendere la risoluzione più difficile, quella di riconoscersi vinto per il momento: considerò le reclute della costa adriatica come perdute, abbandonò Domizio al suo destino, si risolvè definitivamente alla ritirata in Grecia, smettendo però, per mancanza di forze sufficienti, l’idea di conservare la Sicilia; e mandò ordini risoluti ai consoli di portare a Brindisi tutte le reclute fatte a Capua e tutte le armi di cui potessero disporre576. Domizio infatti, che non era un gran guerriero, capitolò dopo sette giorni, mentre Pompeo si ritirava verso Brindisi, dove già si raccoglievano le navi che lo avrebbero portato in Grecia. Dopo Corfinio capitolava anche Sulmona; e frattanto Cesare era raggiunto da un’altra legione di Gallia, la ottava, da ventidue coorti di nuove reclute e da 300 cavalieri, mandatigli dal re del Norico577.

Le alte classi dell’Italia trepidarono alla notizia della resa di Corfinio. Il terribile demagogo aveva catturato cinque senatori a lui nemicissimi, un gran numero di cavalieri e di giovani nobili! Ma Cesare invece lasciò tutti liberi, restituì a tutti le ricchezze che avevano seco, li trattò tutti con gran gentilezza. Più gli avvenimenti lo trascinavano nel folto di una guerra che egli non voleva, più si confermava nel proposito sincero di terminar subito la discordia in Italia, costringendo Pompeo a un accordo onorevole, per soddisfare l’opinione pubblica dell’Italia che voleva la pace, domandava la pace, avrebbe adorato solo colui che avesse saputo fare la pace. Già infatti il credito era diventato così difficile, che i debitori eran costretti a vendere per pagare gli interessi; già incominciava un’altra di quelle rovinose liquidazioni, in cui tutto rinviliva; già il lavoro scemava, la miseria cresceva specialmente a Roma, donde tanti signori erano assenti.... Pace, pace, pace implorava tutta l’Italia, tutta la borghesia, avida di lucri e di godimenti. Cesare perciò doveva a ogni costo accordarsi con Pompeo in Italia stessa, entro poche settimane; e vertiginosamente alacre, mentre scriveva a Cicerone che egli era disposto a ritornare a vita privata lasciando a Pompeo il primato nello stato, purchè potesse viver sicuro578; mentre mandava il nipote di Balbo al console Lentulo a pregarlo con grandi promesse di tornare a Roma a trattar la pace579; mentre scriveva a Roma ad Oppio, affinchè dichiarasse che egli non voleva essere il Silla della democrazia, ma riconciliarsi con Pompeo e vincere con la generosità;580 lasciava Corfinio il 21 febbraio, il giorno stesso della presa, con sei legioni, tre sue, tre formate lì per lì di nuove reclute e soldati di Domizio, liberava subito tutti gli ufficiali e partigiani di Pompeo che catturava per via; arrivava dopo una marcia precipitosa il 9 marzo sotto le mura di Brindisi. Ma Pompeo, ormai riavutosi interamente dal suo stupore del gennaio, aveva già prese molte disposizioni per la grande guerra: si era ricordato di avere un esercito in Spagna; aveva mandato a quello Vibullio Rufo, e Domizio a Marsiglia con l’incarico di mantenerla fedele581; aveva già spedito una parte dell’esercito con i consoli in Epiro, e aspettava le navi vuote di ritorno per seguirle. Era possibile ancora la pace? Cesare si illuse un’ultima volta, quando venne a lui582 Magio da parte di Pompeo con proposte. Certo in quel supremo momento Cicerone, se fosse stato presente a Brindisi, avrebbe potuto ancora tentare la conciliazione, nel cui pensiero si era compiaciuto così a lungo; ma il vecchio scrittore non aveva, protestando l’insicurezza delle strade, seguito l’invito di Pompeo, perchè non voleva avventurarsi in questa guerra civile, odiosa a lui come a tutti gli italiani di buon senso; ed era restato nel podere di Formia, sonnecchiando allorchè era d’uopo di correre, a dilettarsi con le sue malinconie, le sue sfiducie, le sue speranze. Il perdono di Corfinio lo aveva profondamente commosso; le lettere di Cesare e di Balbo gli avevano fatto un gran piacere segreto, che egli aveva però dissimulato sotto le apparenze di una diffidenza amara e pessimista, per poterne più frequentemente parlare con gli amici, e sentirsi ripetere da questi che Cesare non lo ingannava, che sperava in lui per conchiudere la pace.

Ma intanto la occasione suprema gli sfuggì, seppure la pace era ancora possibile. Invano Cesare aveva aspettato parecchi giorni che Magio tornasse583, mentre cercava di chiudere il porto di Brindisi; invano aveva mandato Tito Caninio Rebilo a parlare in Brindisi a un amico intimo di Pompeo, Scribonio Libone. La risposta fu che Pompeo non poteva trattare della pace, essendo i consoli assenti584. L’invio di Magio era stata un’astuzia per guadagnar tempo585; Pompeo, che sino allora le suggestioni altrui e gli eventi avevano trascinato a rilento, voleva ora, di proposito deliberato, una grande guerra a fondo. Dopo la capitolazione di Corfinio, l’Italia lo considererebbe sempre come il vinto di Cesare, se egli acconsentisse alla pace, prima di aver rivinto a sua volta Cesare. La nefandità parricida di questa guerra civile, i mali infiniti di cui sarebbe cagione, tutto spariva ormai, nella coscienza di questo uomo guastato da soverchia grandezza, in una esasperazione di egoismo tetra vasta e profonda come un abisso. La conservazione della sua grandezza importava più che la salute del mondo. La straordinaria fortuna di cui aveva goduto sino allora diventava per lui un impegno mortale e lo traeva per le vie del destino a rovina. Cesare non potè impedire che il 17 marzo Pompeo partisse con tutta la flotta586. La vera guerra civile incominciava.

XIII.
LA GUERRA DI SPAGNA.
(Anno 49 a. C).

Ancora una volta la freccia lanciata dal braccio troppo poderoso di Cesare era volata oltre il segno. Egli aveva voluto intimidire il Senato per costringerlo a pace; ma sin dove l’avevano ormai trascinato, a precipizio, gli eventi! Con la rapida e splendida campagna invernale del gennaio e del febbraio Cesare aveva conseguito più e meno di quanto sperava: aveva conquistata l’Italia e Roma, aveva costretto Pompeo a ritrarsi in Grecia, aveva – vantaggio immenso in una guerra civile – allenati definitivamente i soldati alla guerra civile e avviliti i nemici a una paura superstiziosa della sua audacia. Era sicuro ormai che tutte le legioni si lascerebbero trarre dovunque volesse, ad avventure e pericoli. Ma non era riuscito a impedir la partenza di Pompeo, dei consoli, del Senato, e si trovava bersaglio all’odio di un avversario che possedeva quasi tutto l’impero, il mare e un forte esercito in Spagna; che un altro ne recluterebbe formidabile in Oriente; peggio ancora, era stato lasciato dai partenti sul mare di Brindisi vano signore di una Italia senza magistrati587. Come potrebbe farsi eleggere console per l’anno prossimo e ottenere una giustificazione legale del suo potere e delle sue operazioni militari per l’anno rimanente, se il Senato e i consoli erano assenti?588 Egli sarebbe costretto, per difendersi, ad atti rivoluzionari contro i magistrati legittimi, che gli procurerebbero odio: eppure non aveva che quattordici legioni manchevoli, in parte vecchie e stanche, in parte novizie; poco denaro; nessuna flotta; una banda di amici, composta di nobili e di avventurieri, di persone egregie e di condannati, in cui l’aristocratico Asinio Pollione e il letterato Sallustio avrebbero dovuto adoperarsi d’accordo con Ventidio Basso, l’antico impresario di muli, con l’oscuro Fufio Caleno, con i tre scapestrati, Antonio Dolabella Curione, con Celio, allevato negli agi e nella superbia e voltosi a Cesare per dispetto. Che l’Italia si sollevasse al suo comparire, come quaranta anni prima sul cammino di suo zio reduce dall’Africa e di suo suocero profugo per le città alleate, non si poteva sperare. L’Italia era troppo imborghesita negli ultimi quaranta anni; e non ostante l’apparente irrequietezza, lo scontento amaro e molteplice, il malumore rivoltoso di tutte le classi era diventata profondamente conservatrice, detestava le rivoluzioni, voleva la pace. I figli e i nipoti di quei nobili, di quei possidenti, di quei contadini ridotti alla disperazione che mezzo secolo prima si erano immolati inconsapevoli per l’avvenire dell’Italia; possedevano ora cascine coltivate da schiavi e case nelle città; erano mercanti alacri, usurai cupidi, uomini politici che destreggiandosi tra i diversi partiti avevano acquistata reputazione e agiatezza; avvocati e giureconsulti amici dei grandi; piccoli possidenti industriosi che mandavano agli studi i figli ben vestiti, con uno schiavo, tra i figli dei signori; e sebbene molti fossero malcontenti per i debiti e per la crisi che tormentava l’Italia, paventavano sopra ogni cosa, per l’abitudine e ancor più per la speranza della vita signorile, i grandi sconvolgimenti rivoluzionari. Costoro avrebbero osservata, timorosi e malcontenti, la guerra civile; non l’avrebbero combattuta, nè in questo nè in quell’esercito. Non incominciava una grande rivoluzione, come quaranta anni prima, un gigantesco conflitto di due classi, di due età, di più genti; ma una guerra tra due clientele politiche, ambedue detestate o considerate con indifferenza dalla maggioranza, politicamente scettica....

E difatti Cesare, ben lungi dal rallegrarsi per la fuga di Pompeo, ne fu esasperato. Il contraccolpo di questo evento inaspettato su quello spirito nervoso fu straordinario; una nuova oscillazione avvenne; alla moderazione usata sino allora succedè un accesso di furore violento contro il suo antico genero, contro il Senato, contro tutto e contro tutti. Lo costringevano a guerra? Ebbene l’avrebbero, senza quartiere: accettava la sfida; Pompeo o egli morirebbe; non avrebbe paura di nulla; si mostrerebbe clemente sinchè la clemenza fosse vantaggiosa, ma se tornasse di danno, farebbe una carneficina. Curione e Celio, che lo avevano veduto sino allora così tranquillo, signore di sè, moderato, non credevan quasi ai loro orecchi, udendo i discorsi violenti in cui Cesare prorompeva, irritato dal pericolo e dall’idea delle infinite difficoltà tra cui fuggendo Pompeo l’aveva lasciato589. Tuttavia, anche in mezzo a questa concitazione, il suo spirito possente aveva già misurato da un capo all’altro, nel solo giorno che passò a Brindisi, l’immensità perigliosa del compito e immaginato un piano arditissimo590: andar subito a Roma, radunare i pochi senatori e magistrati rimasti; restaurar con questi alla meglio un governo che potesse dirsi legale e che lo autorizzasse alla guerra; impadronirsi subito della Sicilia, dell’Africa e dell’Illirico, per impedire una invasione della Spagna e dell’Italia dall’Oriente; correre a distruggere l’esercito di Spagna, che minacciava troppo da vicino la Gallia, poi assalire il nemico in Oriente; distruggere insomma prima una parte, poi l’altra, poi l’altra delle formidabili forze nemiche, per fortuna sua ancor disperse, prima che si radunassero.... Ma quale prodigioso sforzo di corpo e di spirito avrebbero dovuto compiere egli, i suoi amici, i soldati! Pure non poteva esitare, perchè nessun’altra speranza di salvezza più gli restava.

E difatti, messosi in cammino per Roma con in cuore l’amarezza irosa del terribile cimento cui l’obbligava il destino, nel viaggio stesso finì nei particolari il gran disegno con alacrità anche maggiore della solita e incominciò a dargli esecuzione, spiccando messaggi e ordini per ogni parte, facendo con uno sforzo supremo la sua volontà presente in cento luoghi: collocò presidî nelle principali parti dell’Italia meridionale591; ordinò a ciascuna città marinara dell’Italia di mandare a Brindisi un certo numero di navi e altre commise che fossero costruite, dando cura di tutto a Ortensio e a Dolabella592; dispose subito per la conquista dei granai più vicini all’Italia incaricando Q. Valerio di andare con una legione in Sardegna, Curione di impadronirsi con due legioni della Sicilia e poi di passare in Africa593, Publio Dolabella di recarsi nell’Illiria594. Non poteva perdere nemmeno un’ora, tanto nella concitazione dell’ira sentiva esser necessario affrettare gli eventi.... Intanto, lungo il viaggio, molte città che un anno prima avevano fatto onore a Pompeo accoglievano festosamente Cesare595; molti senatori, non pochi dei quali avevano sino allora parteggiato per Pompeo, precedevano Cesare a Roma596. Il successo aveva disposto gli animi di quella generazione eccitabile alla benevolenza e molti si godevano quasi a ingrandire i meriti, la fortuna, la potenza del vincitore: egli poteva trarre, volendo, dalle Gallie uno sterminato esercito, possedeva immensi tesori!597 Ma questa benevolenza delle popolazioni e questa timida riconciliazione di parte del mondo politico non giovavano molto a Cesare, e non l’aiutavano ad ottenere una giustificazione legale del suo comando e della prossima guerra in Spagna; perchè l’Italia avrebbe invece cercato di trattenerlo giudicando severamente, come provocazione e criminosa ambizione, ogni atto suo per preparare e affrettare la guerra; non avrebbe mai capita e riconosciuta, tanto desiderava la pace, la necessità in cui egli si trovava di assalire per non essere assalito e distrutto: anzi appunto perchè in questa prima fase della guerra egli aveva vinto, si aspettava da lui che conchiudesse subito la pace. Cesare potè accorgersi di questa ripugnanza incondizionata dello spirito pubblico alla guerra e delle difficoltà che gli avrebbe procurate, nel colloquio che ebbe con Cicerone. Egli doveva passare da Formia; e volendo dopo tanti anni riveder Cicerone e amicarsi il più potente scrittore del tempo, gli fece una visita, a quanto pare nella mattina del 28 marzo598: ma questo colloquio, che un mese prima avrebbe potuto essere un avvenimento della storia universale, non fu allora che una cerimonia inutile. Cesare fu gentile e invitò cortesemente Cicerone a Roma a trattar la pace; e quando Cicerone gli domandò: Ma sarò io libero di adoperarmi nel modo che credo migliore? gli rispose, sempre con rispetto: Potrei io imporre condizioni a un uomo come te? Ma Cicerone, che voleva mostrare la sua indipendenza, gli disse allora di volersi opporre in Senato alle spedizioni in Spagna e in Grecia, che si diceva pensasse intraprendere. Cesare fu costretto a rispondergli che questi consigli erano inutili. “Lo sapevo. disse Cicerone: ma io non posso parlare in modo diverso.” Il colloquio continuò freddo, banale, accademico sulla pace, quando la pace non era possibile; Cesare, dopo vari discorsi, tanto per conchiudere, disse a Cicerone che sperava ci penserebbe ancora; Cicerone naturalmente rispose che ci avrebbe pensato; e Cesare riprese il viaggio per Roma599. Ancor peggiore impressione aveva fatto a Cicerone il seguito di Cesare: giovinastri, uomini perduti, falliti, condannati: una banda di avventurieri.... Il colloquio lo scoraggì profondamente: quell’uomo e quella banda evidentemente volevano la rovina di Pompeo, la confisca dei beni dei ricchi, il saccheggio della repubblica: no, egli non andrebbe alla seduta del Senato, raggiungerebbe in Grecia l’amico suo, l’affetto per il quale rinasceva quasi per contrapposizione600.

Il 29 marzo 49 a. C.601 Cesare arrivò in Roma: dieci anni precisi dopochè n’era uscito, come proconsole, lasciandosi dietro i rancori e le speranze del suo consolato rivoluzionario. Come parevan lontani quei tempi! Quante cose erano successe, in quei dieci anni così fitti di eventi! Quanto si era mutata e abbellita Roma! Ma Cesare non ebbe agio di ammirare i progressi dell’Urbe. Egli trovò tutta la popolazione, dai grandi che vi avevano fatto ritorno sino alla plebe, spaventata dall’idea che la guerra continuasse, dagli eserciti che accampavano per l’Italia, dalle memorie ravvivate di Mario e di Silla; desiderosa di pace, illusa che questa dipendesse da lui e sospettosa delle sue intenzioni602. La difficoltà era grave: irritare le alte classi dell’Italia e in generale il pubblico egli non voleva; ma nel tempo stesso aveva fretta di partire per la Spagna e voleva metter le mani sull’erario, che Pompeo aveva spensieratamente lasciato in Italia e di cui, scarso come era di denaro, aveva gran bisogno. Antonio e Quinto Cassio convocarono fuori del pomerio i senatori rimasti a Roma; Cesare finse di trovarsi innanzi al Senato legalmente radunato e tenne un discorso moderato, giustificando le sue azioni, rassicurando che non userebbe violenze a nessuno e lascierebbe libero chiunque volesse di raggiunger Pompeo; propose che si mandassero in Grecia ambasciatori a trattar la pace; fece un discorso analogo al popolo, ordinò di distribuir del grano, promise trecento sesterzi a testa603. Cesare sperava con questi atti di disporre gli animi riluttanti dei senatori ad autorizzare legalmente la spedizione di Spagna; ma invece gli uomini savi osservarono che la proposta di trattar pace non poteva considerarsi seria se Cesare non sospendeva la guerra sino alla risposta604; invano si cercarono gli ambasciatori, chè nessuno volle andare per paura delle minaccie di Pompeo605; e in conclusione quasi tutti credettero la proposta più menzognera che in verità non fosse606. A ogni modo Cesare nei primi tre o quattro giorni d’aprile attese certo d’accordo con il Senato a riordinare il governo con i magistrati restati a Roma. Per sua fortuna Marco Emilio Lepido, figlio del console morto nella rivoluzione del 78, genero di Servilia, amico sin dall’infanzia di Cesare e in quell’anno pretore, era rimasto a Roma. Per la parentela con Servilia e per la vecchia amicizia, Cesare poteva fidarsi di lui; onde fece disporre dal Senato che egli farebbe le veci dei consoli607; Antonio fu messo a capo, certo con decreto del Senato, delle milizie residenti in Italia; un decreto del Senato approvò che a Q. Valerio fosse assegnata la Sardegna, a Curione la Sicilia e l’Africa, a Marco Licinio Crasso la Gallia transalpina, a Dolabella l’Illirico608. Tutto pareva procedere quetamente; Cesare e l’opinione pubblica esser d’accordo, nei primi tre o quattro giorni. Ma il malinteso latente scoppiò con gran scandalo, quando Cesare domandò al Senato di usare i fondi dell’erario: si intendeva, anche se non era detto, per la guerra di Spagna. Sia che il Senato approvasse o non approvasse609, l’opinione pubblica fu così indignata che i fondi pubblici fossero usati da uno dei rivali a prolungar la guerra iniqua e calamitosa, che un tribuno della plebe, non popolare a oltranza nè arrabbiato conservatore, Lucio Cecilio Metello, deliberò di opporre la sua sacrosanta persona ai fabbri e ai soldati che Cesare avrebbe mandati a scassinar le porte del sotterraneo nel tempio di Saturno, dove il denaro era deposto e di cui i consoli avevano portate via le chiavi. Ma Cesare, il quale aveva trattenuto sino ad allora soltanto con estrema fatica il malumore irascibile che lo irritava da quando Pompeo era fuggito, perdè la pazienza e proruppe, questa volta; si presentò in persona all’erario alla testa dei soldati e minacciò il tribuno di ammazzarlo, se non si levava subito dinanzi....610

Per fortuna di Cesare, il tribuno non seppe morire per la difesa della legge e del suo sacro diritto; e Cesare potè porre le mani su 4135 libbre di oro e 900 000 libbre d’argento611 senza versare il sangue di un magistrato inviolabile. Ma l’opinione pubblica di tutte le classi, anche del popolino, fu straordinariamente indignata da questa violenza contro il più popolare e il più sacro dei magistrati. Non eran quelli i primi segni di una nuova tirannide sillana? E il capo del partito popolare osava affermare di aver impugnate le armi per difendere i diritti dei tribuni? Presto si verrebbe alle confische e alle rapine! Cesare fu talmente turbato da questo malcontento, che deliberò da un giorno all’altro di partir subito, senza avere ottenuta una autorizzazione legale della guerra, tralasciando di far molte altre cose disegnate, rimandando tutto a quando tornerebbe dalla Spagna con il prestigio della vittoria. Ma non osò tenere al popolo il discorso già preparato612; cercò soltanto di rassicurare la plebe che egli non sarebbe un nuovo Silla, facendo proporre da Antonio ai comizi l’abolizione di quella mostruosa legge di Silla, che pur essendo ormai quasi dimenticata vigeva ancora di nome ed escludeva dalle magistrature i discendenti dei proscritti613; e sei o sette giorni dopo l’arrivo, probabilmente il 6 aprile614, partì per la Spagna con piccolo corteggio di amici615, senza poteri legali, solo con il comando conservato rivoluzionariamente sulle fide legioni di Gallia.

Insomma il breve soggiorno in Roma gli aveva nuociuto in luogo di giovargli. La impensata precipitazione di eventi a cui gli uomini assistevano da qualche mese, aveva accresciuta la nervosità degli spiriti. Molte persone dabbene e ragionevoli rimaste sino allora imparziali e sulle quali la moderazione da lui mostrata in gennaio e in febbraio aveva fatta grande impressione, inclinavano di nuovo a Pompeo, ora che sospettavano la sua sincerità nelle proposte di pace, dopo le violenze contro il tribuno, dopo aver visto il codazzo di avventurieri che lo seguiva. Non era possibile che una simile banda sfrenata non ruzzolasse in qualche precipizio, prima di sei mesi!616 Certo se vinceva, l’antico amico di Catilina esaudirebbe le speranze poste in lui dalla feccia di Roma e arrafferebbe i beni dei ricchi! Tanto più urgeva a Cesare riportare subito un gran successo in Spagna. Pompeo aveva due legioni nella Lusitania al comando del legato Marco Petreio, tre nella Spagna Citeriore sotto il legato Lucio Afranio, due nella Spagna Ulteriore, cui era preposto Varrone, riconciliatosi col suo antico generale della guerra piratica, quando questi ritornò a difender la buona causa617: sette legioni forse troppo avvezze alla guerriglia di montagna contro i barbari618, ma provette, comandate da generali sicuri ed abili. Difatti il partito conservatore faceva grande assegnamento sull’esercito di Spagna, che poteva minacciar la Gallia; anzi più volte si era detto che Pompeo andrebbe a prenderne il comando per riconquistare con quello l’Italia619.

Ma sette legioni avrebbero potuto solo con grande pericolo tentare una invasione delle Gallie, dove erano rimaste ancora otto legioni; onde Pompeo aveva saviamente mandato ordine agli eserciti di Spagna di tenersi sulla difesa, inchiodando in Gallia, con la minaccia di valicare i Pirenei, una parte dell’esercito di Cesare o costringendolo a una pericolosa invasione della Spagna. I tre generali concertarono una buona difesa: Varrone resterebbe nell’Ulteriore con due legioni a tenere in rispetto le popolazioni più barbare e ancor mezzo indomite620; Afranio e Petreio, unite le cinque legioni, si avanzarono sino a Ilerda (Lerida), città munita e buona posizione presso la frontiera dei Pirenei, per aspettare il nemico, se osasse tentare una invasione. Nel tempo stesso i notabili di Marsiglia, una repubblica autonoma governata da Greci e alleata di Roma, erano stati lavorati da Pompeo con molta energia, affinchè non parteggiassero per Cesare: senza l’amicizia di Marsiglia – Pompeo l’aveva sperimentato nella guerra contro Sertorio – era difficile poter nutrire in Spagna un esercito, che avesse le popolazioni spagnuole così nemiche, come certo le avrebbe Cesare621. Troppo gli Spagnuoli si ricordavano, per il bene e per il male ricevuto, del vincitore di Sertorio, mentre Cesare era quasi ignoto622; e per di più non aveva autorità ufficiale. Se le legioni di Spagna non avevano fatto il servizio che gli ingenui strateghi di Roma speravano, erano però una formidabile barricata sulla via di Cesare....

Difatti Cesare fu in breve costretto a richiamare dalla Gallia appena domata tutte le otto legioni che la presidiavano. Giunto, probabilmente il 19 aprile623, sotto Marsiglia, trovò le porte chiuse e il Senato ostinato a non aprirle, per il proposito – diceva – di conservarsi neutrale nella contesa; onde, Marsiglia essendo necessaria per fare una guerra vigorosa in Spagna, si dispose subito a prenderla per forza e chiamò tre legioni di Gallia; in quella ecco Domizio arriva per mare nella città ed è accolto come il provvidenziale organizzatore della difesa. Così la guerra tra Marsiglia e Cesare fu dichiarata: ma Cesare, che sempre irritato e impaziente aveva fretta di finir presto, appena le tre legioni furon giunte e l’assedio incominciato, mandò Caio Fabio con le tre legioni già di stanza nella Narbonese a forzare i passi dei Pirenei, proponendosi di farle seguire al più presto dalle ultime due rimaste in Gallia e già in via624. Egli intendeva combatter nel tempo stesso intorno a Marsiglia e in Spagna, per guadagnar tempo; ardito ma precipitoso e rischioso consiglio....

Mentre Cesare stringeva l’assedio di Marsiglia e faceva costruire una piccola flotta, Fabio valicava i Pirenei, respingendo così facilmente i presidii di Afranio e di Petreio, che vien fatto di supporre una fuga simulata per imbaldanzire i nemici e attrarli a una incauta avanzata; scendeva nel piano, si accampava sulle rive del Segre a qualche miglio da Ilerda e incominciava segretamente a trattare e a profondere immense somme di denaro nelle città e nelle popolazioni vicine, per distoglierle dalla amicizia di Pompeo. Di lì a poco le altre due legioni lo raggiungevano625. La Gallia restava così, mentre Cesare era occupato all’assedio di Marsiglia, senza un soldato romano! Ma le misure che Cesare aveva preso e una felice congiuntura di eventi scemarono il pericolo di questa deliberazione. Cesare già negli ultimi due anni aveva, con la consueta rapidità e agilità, mutata ancora una volta la politica del terrore in dolcezza; e non solo si era studiato di riparare come poteva i guasti delle ultime guerre, ma invece di perseguitare spietatamente per vendetta i capi superstiti della rivoluzione, aveva cercato di rappacificarsi con loro, conservando solo il suo odio contro Vercingetorice, che teneva prigioniero sotto buona guardia. Pare riuscisse a intendersi tra gli altri anche con Commio626. Ora fece di più. Molti nobili eran periti nella guerra, e perciò un gran numero di quei cavalieri e guerrieri che vivevano agli stipendi dei ricchi erano disoccupati; molti nobili mezzo rovinati avrebbero volentieri colta una occasione di ricchezza e di gloria. Cesare, con i denari dell’erario e con quelli che si fece prestare dai tribuni militari e dai centurioni – contributo utile e pegno di fedeltà – arruolò in Gallia cavalieri e pedoni, prese ai suoi servizi molti nobili, promettendo loro i beni confiscati ai caduti; e potè mandare in Gallia, oltre cinque legioni, anche 5000 ausiliari e 6000 cavalieri627. Egli cresceva la forze sue e pacificava, davvero questa volta, la Gallia....

Il maggio passò così senza eventi notevoli nei paesi della guerra. Cesare assediava Marsiglia; Fabio scaramucciava a distanza con Afranio e Petreio, cercando di sobillare alla rivolta le popolazioni; gli altri cercavano mantener queste fedeli a Pompeo. In Italia invece il sentimento delle alte classi, diventava più avverso a Cesare. Curione era partito in aprile per la Sicilia e l’aveva conquistata facilmente, perchè Catone, non avendo soldati, si era ritirato quasi senza combattere628; ma in compenso la notizia della rivolta di Marsiglia pareva gravissima per Cesare e l’impresa di Spagna si giudicava di una temerità che difficilmente poteva riuscire629; le più strane dicerie correvano: che Pompeo per l’Illirico e per la Germania intendesse recarsi ad affrontar Cesare in Gallia630. Molti erano irritati anche dallo scandaloso contegno di Antonio. Questo ultimo discendente di una famiglia tra le più nobili di Roma era una strana mescolanza di finezza aristocratica e di rozzezza plebea; una specie di barbaro, prodigiosamente vigoroso di corpo, sensuale, allegro, gran mangiatore, gran bevitore, grande amatore, violento, coraggioso, sanguinario; cresciuto in una selvaggia indipendenza da ogni tradizione familiare e sociale, prima nei bordelli di Roma e poi nei campi, indifferente alla vergogna e all’infamia degli uomini, dotato di una viva intelligenza naturale, di una astuzia sottile e di una finezza considerevole nel capire le passioni elementari del cuore umano, nell’ordire intrighi, nell’ingannare, nel lusingare e spaventare; ma ignorante e incapace di avere idee generali o di servirsi della sua intelligenza per altro fine che quello di soddisfare le ardenti passioni. Lasciato da Cesare quasi signore a metà dell’Italia, egli aveva scandalizzato anche i suoi contemporanei con la sfrenata licenza del vivere, tenendo in Roma un harem di maschi e di femmine, portando in giro in lettiga una etera greca, Citeride, quasi fosse sua moglie....631 Scandali simiglianti si erano veduti già prima; ma gli uomini erano adesso così inquieti, così irritabili, così facili ai rimproveri contro Cesare e gli amici suoi, così pronti a risoluzioni irose! Molti senatori sdegnati lasciaron l’Italia; si bucinò che anche Cicerone – ed era vero – volesse partire; Antonio irritato, non trovò altro rimedio che ordinargli, prima con una lettera abbastanza gentile632, poi con una seconda molto brusca633, di restare in Italia. Ma peggio assai volsero le cose della guerra, verso la fine di maggio. Marsiglia non cadeva; le sollecitazioni alla rivolta di Fabio restavano vane; le popolazioni spagnuole erano trattenute in fedeltà dalla gloria di Pompeo, dalle cinque legioni di Afranio e di Petreio, da voci abilmente messe in giro, tra le altre che ben presto Pompeo giungerebbe dall’Africa con un grande esercito634; Afranio e Petreio per mezzo delle popolazioni disponevano insidie sulla via dei Pirenei per il caso che Cesare vi passasse con poca scorta635; Fabio stentava sempre più a mantenere l’esercito e temeva di dover presto ritirarsi per carestia. Sarebbe stato necessario volgere con una battaglia a favore di Cesare gli spiriti delle popolazioni spagnuole, dalle quali dipendeva l’esito della guerra, secondo che si risolvevano a portare o a vendere le vettovaglie all’uno o all’altro partito.... In quel disordine universale, per cui nè l’uno nè l’altro esercito poteva far venire da lungi il grano, ma ambedue dovevano provvedersi sul luogo, l’amicizia delle popolazioni spagnuole importava più che il genio del generale e il valore dei soldati.

Cesare dovè prendere una risoluzione estrema: lasciare Decimo Bruto e Trebonio a continuar l’assedio, andare ad assumere in persona il comando dell’esercito e tentar la battaglia. Verso la metà di giugno636 egli partì da Marsiglia con una scorta di 900 cavalli per non cadere in qualche imboscata: valicò i Pirenei, giunse all’esercito; e subito si spinse sin sotto Ilerda e il colle su cui era accampato Afranio offrendo battaglia. Ma Afranio, il quale era un buon generale, capì che a lui non conveniva combattere e non accettò637. Cesare allora dovè far fare il campo alle sue legioni; ma fisso nel pensiero di costringere il nemico a combattere, adocchiò una piccola altura posta tra Ilerda e il colle su cui era accampato Afranio; riconobbe l’importanza della posizione, occupando la quale si tagliavano le comunicazioni di Afranio con la città e il ponte in pietra sul Segre, e un giorno all’improvviso lanciò tre legioni all’assalto della posizione. Ma Afranio e Petreio pronti mandaron fuori le loro coorti; e queste, combattendo con vigore di legioni provette, buttaron giù dall’altura, dopo una lunga e cruenta mischia, i legionari di Cesare. L’insuccesso dovè essere abbastanza grave638, se Cesare, che pure aveva tanto bisogno di una battaglia, non tentò più l’offesa; e ben presto le conseguenze della sconfitta e dell’inerzia si fecero sentire: anche le poche città spagnuole indotte da Fabio ad aiutar Cesare non mandaron più viveri, gli approvvigionamenti si fecero difficili, tutti credendo disperata la fortuna di Cesare: un improvviso inturgidimento dei fiumi in mezzo a cui Cesare era accampato ruppe i ponti e accrebbe ancora le difficoltà; l’esercito si trovò ben presto di nuovo, come sotto Alesia, alle prese con il nemico invisibile: la fame639. In pochi giorni la situazione divenne disperata: i viveri mancarono, non ostante gli energici sforzi di Cesare; i soldati, estenuati e scoraggiti dal digiuno, non poterono esser più slanciati a una battaglia, che sola, se vittoriosa, avrebbe mutate le sorti.

La notizia del gran periglio in cui Cesare si trovava volò in un attimo per l’impero e giunse a Roma ancora ingrandita640. Nel tempo stesso buone notizie di Pompeo arrivavano d’Oriente: egli attendeva in Tessalonica alacremente a preparare la guerra; raccoglieva in Oriente dagli Stati alleati una numerosa flotta, che, sotto il comando di Bibulo e divisa in molte squadre, signoreggerebbe l’Adriatico; aveva già richiamata una legione dalla Cilicia, per aggiungerla alle cinque legioni portate dall’Italia; un’altra ne faceva reclutare tra soldati romani che si erano stabiliti a Creta o in Macedonia e due da Lentulo in Asia; aveva dato ordine a Scipione di portargliene altre due dalla Siria; assoldava cavalieri, frombolieri, arcieri tra i Galli, i Germani, i Galati, i Cappadoci, i Dardani, i Bessi; imponeva contribuzioni o contingenti di milizie considerevoli alle città dell’Asia e della Siria, ai re e ai dinasti dell’Oriente, alle grandi società finanziarie italiane, che lavoravano in Oriente641. Ben presto egli sarebbe signore del mare, comanderebbe uno dei più formidabili eserciti, raccoglierebbe intorno a sè quasi una alleanza di tutti gli Stati protetti dell’Oriente. Queste notizie diedero naturalmente alla irrequietezza impulsiva dello spirito pubblico una grande spinta a favore di Pompeo. Cicerone era già partito il 7 giugno642 da Formia su una nave, vincendo alla fine le lunghe incertezze del suo timore, per l’ira delle grossolane imposizioni di Antonio, per l’intenso rimorso che la sua onesta coscienza sentiva di abbandonar nella sventura Pompeo, per un supremo ravvivamento della sua devozione di borghese timido verso questo gran signore che pure l’aveva trattato bene solo per interesse. Sperava poco nella vittoria e temeva molto i rischi dell’avventura; ma quando Cesare gli era parso voler provocare a duello mortale l’amico e benefattore suo, non aveva voluto mostrarsi ingrato e pauroso, egli lo scrittore del De Republica, il maestro ammirato di virtù civiche alle vecchie e alle nuove generazioni; e non aveva più ascoltato le preghiere della moglie che lo supplicava di aspettare almeno l’esito della guerra di Spagna643. Quando però Cesare parve quasi sicuramente spacciato, molti e molti altri ne seguirono l’esempio, senza che Antonio potesse impedirlo.

Un’altra volta Cesare corse estremo periglio.... Ma la fortuna lo salvò. Verso la metà di luglio, Decimo Bruto riportò in mare una considerevole vittoria sulla flotta dei Marsigliesi; e la notizia di questa vittoria che pareva rendere inevitabile la resa della città, abilmente ingrandita dagli emissari di Cesare, spaventò in modo indicibile le popolazioni, specialmente quelle abitanti tra i Pirenei e l’Ebro, nel paese in cui si combatteva la guerra. Certo tra poco tre legioni assedianti Marsiglia valicherebbero i Pirenei e Cesare non potrebbe non vincere! Il maggior numero di queste popolazioni abbandonarono la causa pompeiana per quella di Cesare e portarono a questo i viveri che prima portavano ad Afranio e Petreio; la carestia passò da un campo all’altro e Cesare fu, per miracolo, salvo!644 Decimo Bruto gli aveva reso il maggior servizio che un ufficiale possa rendere al suo generale. In breve Afranio e Petreio, costretti dalla mancanza di viveri, dovettero prepararsi a sgombrare ritirandosi attraverso una regione collinosa su Octogesa, per passar l’Ebro e rifugiarsi nella Celtiberia tra popolazioni più amiche. Cesare quando seppe di questa intenzione deliberò di inseguire il nemico; ma comprendendo di non poter far passare all’esercito il Segre sui fragili ponti di legno che con estrema lentezza, ebbe un’idea ardita: scavar nel fianco del fiume bacini e canali, abbassando le acque, facendo un guado artificiale che l’esercito potesse passare a piedi. I soldati presero pala e zappa e incominciarono sollecitamente il lavoro; ma i nemici se ne accorsero a mezzo e affrettarono la ritirata. Cesare esitò un momento: il fiume sebbene un po’ rimpicciolito era ancor grosso e vorticoso; e i nemici stavano per fuggire. Audacemente allora egli cacciò tutto l’esercito nel guado; passò il fiume senza perder uomini; si mise alle calcagna di Afranio e di Petreio. Egli avrebbe potuto assalirli in via e dar loro battaglia; ma dopo l’esperienza del primo scontro temè che le agguerrite legioni di Spagna potessero far prova, in quel supremo cimento, di un valore disperato; e considerando nel tempo stesso che, se costringeva il nemico alle resa senza combattere avrebbe potuto vantarsi di una generosa vittoria incruenta, lanciò le legioni senza bagagli attraverso colline e valloni fuori della strada a corsa disperata, per passare innanzi all’esercito nemico che pur si ritirava sulla strada di Octogesa; giunse primo a una stretta delle colline per cui la strada passava; costrinse così l’esercito nemico a retrocedere verso Ilerda. Ma non appena questo si mosse, egli si mosse pure; lo molestò, lo minacciò, lo avviluppò, lo affamò. Afranio e Petreio fecero sforzi mirabili per trarre l’esercito a salvamento, ma alla fine i soldati domandarono di arrendersi con tanta energia, che i generali dovettero, il 2 agosto645 capitolare. Le condizioni furono magnanime: salva la vita e i beni, ognuno libero di andar dove volesse, con Pompeo, sotto i vessilli di Cesare, a vita privata. Cesare mantenne le condizioni; Varrone, rimasto solo con due legioni nella Ulteriore, si arrese senza combattere; le due legioni passarono sotto i vessilli di Cesare646 e la Spagna fu tutta in potere del proconsole di Gallia. Cesare tenne a Cordova una specie di dieta; fece molti spagnuoli cittadini romani; impose molte contribuzioni di denaro; andò a Cadice cui diede la cittadinanza romana647; poi per mare venne a Tarragona; e lasciando Q. Cassio al governo della Spagna con quattro legioni, ripartì per via di terra alla volta di Marsiglia. Qui giunto verso la fine di settembre, egli seppe che Marco Lepido, approfittando dell’impressione per la capitolazione dei pompeiani, lo aveva nominato dittatore verso la metà di agosto, dopo aver fatto decretare con una legge dal popolo che a lui pretore fosse lecito di dire il dittatore come al console648. Probabilmente questa legge e questa nomina erano state concertate nei mesi precedenti tra Lepido e Cesare; il quale, non fidandosi dei pochi senatori restati a Roma, non voleva più che elezioni per il 48 fossero presiedute, in assenza dei consoli, da un interrex nominato da loro; bensì presiederli egli stesso, come dittatore.

XIV.
FARSAGLIA.
(48 a. C.)

Per Lepido e per il mezzo Senato che lo assisteva, la dittatura di Cesare era forse anche il disperato ed ultimo scampo fuori dalla frana di responsabilità che minacciava rovinare su loro. Dopochè Cesare aveva lasciata Roma, l’Italia era precipitata in una orrenda miseria. La sospensione dei pagamenti pubblici decretata dal Senato con il tumultus, l’esaurimento dell’erario che Cesare aveva vuotato e a cui Pompeo toglieva per via i tributi dell’Asia, l’interruzione dei lavori pubblici e l’impaccio di tanti appaltatori non più pagati, la partenza improvvisa di un sì gran numero di signori dall’Italia, la requisizione di tante navi per i trasporti, i prestiti forzosi di molte somme che Pompeo aveva prelevate nei templi dell’Italia, i reclutamenti di tanti giovani, la interruzione delle lotte elettorali e politiche a Roma facevano languire in tutta Italia il consumo e il commercio; scemavano i lucri che il medio ceto traeva dagli schiavi e dai liberti professionisti; toglievano specialmente a Roma lavoro e pane a un gran numero di artigiani e mercanti. Il grano scarseggiava; il credito era venuto meno; nessun banchiere o capitalista prestava più, per paura della rivoluzione, che poteva finire con l’abolizione dei debiti; il denaro era spaventosamente caro649; molti debitori che sino allora avevano pagati i debiti scaduti o gli interessi con nuovi debiti non trovavano più prestiti; i padri non erano più in grado di pagare le rate della dote promessa alle figlie e i mariti divorziati di continuarne la restituzione; a Roma e in tutta Italia i padroni di casa non riuscivano a farsi pagare l’affitto, anche da inquilini di una certa agiatezza; tutti cercavano di ottener rinvii al pagamento supplicando, piangendo, invocando la amicizia e la misericordia, minacciando di uccidersi, maledicendo i tempi iniqui e la malvagità degli ambiziosi; tutti sollecitavano la riscossione dei crediti, implorando, esagerando la propria miseria, minacciando; falsità, inganni, imbrogli, anche assassini o delitti erano tentati per non pagare. Non pochi erano costretti a vendere quanto potevano; ma molti offrivano e pochissimi volevano comprare; onde tutto rinviliva: gli oggetti d’oro e d’argento, le gioie, le stoffe, le suppellettili, le terre, le fabbriche. Di ben piccolo sollievo era stato, evidentemente, il decreto del Senato che nel 51 aveva ridotto gli interessi; i più, stretti dal bisogno di denaro, illusi dalla speranza dei guadagni, avevano continuato ad indebitarsi alle condizioni volute dai capitalisti, eludendo quel decreto, che del resto nessuno vigilava a mettere in esecuzione; ed ora la gran questione dei debiti si inaspriva. Nello scoraggimento universale di cui la guerra civile era cagione, tutte le classi tribolavano tranne pochi ricchi capitalisti; e nelle disperate corse diuturne di tutti per fuggire ai creditori e per raggiungere i debitori, gli uomini anelanti, esausti, stanchi alla fine di tante menzogne, di tante astuzie, di tante frodi inferocivano gli uni contro gli altri....650

Lepido, che era un uomo di quarantun anno, di non grande levatura e di scarso seguito; che non era stato mescolato alle grandi lotte del tempo se non per la memoria del padre e per l’infelice interregno di pochi giorni alla morte di Clodio, prontamente e volentieri si scaricò della responsabilità del governo su Cesare, che pure era ancora alle prese con guai e difficoltà terribili, non ostante i successi di Spagna. Marsiglia, venuta meno la speranza del soccorso di Spagna, si era arresa dopochè Domizio era riuscito a fuggir per mare; e aveva dovuto pagare la pena della sconfitta con grandi somme di denaro651: ma in Africa e nell’Illirico il suo partito aveva subito due gravi rovesci. Curione, avventatosi in Africa con due sole legioni, sebbene Cesare gliene avesse mandate altre due652, aveva pagato il fio della sua temerità: aveva sconfitto facilmente Azio Varo, l’infelice stratega del Piceno, che fuggito in Africa vi aveva reclutato un piccolo esercito; ma tratto in una insidia da Giuba, re dei Numidi, amico e partigiano di Pompeo, era stato sorpreso, avviluppato ed ucciso. Dell’esercito solo pochi avanzi erano tornati in Italia653. Dolabella, andato con una parte della flotta a tentar la conquista dell’Illirico, era stato sconfitto da M. Ottavio e L. Scribonio Libone, e perdute molte navi aveva chiesto soccorso ad Antonio, che gli aveva mandato la flotta al comando d’Ortensio e le tre legioni di guarnigione nelle città di mare, al comando di Sallustio, di Basilo, di suo fratello Caio: ma i soccorsi erano stati respinti, anzi Caio si era lasciato far prigioniero con quindici coorti654. Così l’Illirico e l’Africa, i due ponti per assalir di sopra la Spagna e l’Italia, erano in poter del nemico; il guadagno delle due legioni di Varrone e delle reclute spicciole passate a lui volontariamente dagli eserciti di Afranio e di Petreio erano state annullate da perdite anche maggiori; parte della sua flotta era distrutta; mentre non gli restava altra via che quella del mare per portar la guerra in Oriente. Soltanto se fosse stato signore dell’Illirico avrebbe potuto forse tentar di passare in Macedonia per via di terra. A ogni modo, per terra o per mare, il pericolo del passaggio era piccolo in confronto al rischio della guerra contro Pompeo, che aveva raccolto circa 50 000 uomini, e contro il quale egli poteva disporre solo di dodici legioni; ma così vecchie e stanche, che le sei, sospinte allora a un rapido viaggio di ritorno dalla Spagna nei primi freddi autunnali, lasciavano ammalati a ogni tappa655; ma così logorate che insieme sommavano a poco più di 25 000 uomini656. Sarebbe stato necessario ridurre questi avanzi in un numero minore di legioni più piene: ma allora bisognava scemare gli ufficiali – centurioni e tribuni militari – che Cesare aveva sempre invece cercato di aumentare, anche a rischio di assottigliar troppo le coorti, per promuovere in gran numero i migliori soldati657. Inoltre l’Epiro, la Macedonia, la Grecia erano paesi poveri, dove anche un piccolo esercito non poteva mantenersi a lungo senza far venire grano d’oltremare, dall’Egitto, dalla Sardegna, dalla Sicilia, dal Chersoneso; ma il nemico avrebbe certamente catturate le navi cariche di grano e lo avrebbe presto ridotto a un cimento così disperato come quello in cui si era trovato Silla, nella sua guerra contro Mitridate. Era anche scarso a denari: la guerra civile, che bisognava combattere con l’oro non meno che con il ferro, pagando gli amici e corrompendo i nemici, gli costava enormemente; enormemente doveva esser costata la guerra di Spagna, nella quale il denaro dell’erario e della Gallia era stato quasi tutto consumato a corrompere le popolazioni spagnuole; all’Italia non si poteva estorcer molto in quella crisi; i depositi di denaro nei templi erano stati ritirati e nascosti nelle case dai privati, pavidi di nuovi prestiti forzosi. E i soldati, fedeli sino allora, lo avrebbero ancora seguito in questa ultima e rischiosa avventura? Una legione infatti già si era rivoltata nel viaggio di ritorno a Piacenza, rifiutandosi di andar più innanzi, se non riceveva le ricompense promesse a Brindisi; e Cesare era stato così inquieto di questa rivolta, che aveva minacciato alla legione ribellata la decimazione; mitigando poi la pena, per le preghiere degli ufficiali, nel supplizio di dodici, estratti a sorte in apparenza, ma in realtà, a quanto almeno fu detto, indicati dai centurioni come i più riottosi e fatti poi con un inganno designare dalla sorte658

Cesare frattanto faceva velocemente ritorno in Italia, placato ormai un poco il gran furore dei primi mesi dopo la fuga di Pompeo, ed esaltato dalla fortuna alla fiducia e all’audacia. Egli sperava adesso di poter riacquistare alla fine, dopo le vittorie di Italia e di Spagna e con l’aiuto del successo, il favore delle alte classi, di occupare nella considerazione pubblica il luogo da cui ormai Pompeo era decaduto, diventando il più insigne e ammirato cittadino della repubblica, il conciliatore dei due partiti in guerra, il personaggio necessario, che aggiungerebbe una grande autorità personale all’autorità ufficiale delle somme magistrature. Ma per conquistare questa grandezza, egli doveva presto ristabilire la pace. Egli avrebbe appagato tanto più volentieri questo desiderio popolare, trattando con Pompeo, perchè una guerra in Oriente era per lui, scampato per miracolo in Spagna, un cimento pericolosissimo; perchè anch’egli come tutti temeva dal prolungarsi della guerra inaudite calamità; ma dubitava che Pompeo acconsentirebbe, capiva che per aver presto pace bisognava operare risolutamente e subito. Così la diffidenza, la fretta di finir la guerra, una soverchia fiducia nelle mosse subitanee e inaspettate acquistata dopo gli ultimi avvenimenti, gli fecero immaginare la più audace delle sorprese che avesse ancora osate: farsi nominare console per l’anno 48; e poi, appena incominciato l’anno, quando potrebbe entrar nella provincia come il rappresentante legittimo della repubblica, imbarcare tutti i soldati, senza gli schiavi, con il minimo materiale possibile di guerra, in modo da poter sbarcare in qualsiasi seno della costa, senza porto; lasciare In Italia solo una guarnigione di cavalieri galli e spagnuoli; arrischiarsi attraverso il mare nella stagione invernale in cui meno lo avrebbero aspettato, per forzare di sorpresa il passaggio; poi avventurarsi confidando nella fortuna e nel valore dei soldati. Allora, al nemico non ancor riavuto dallo stupore per la repentina apparizione in Epiro, avrebbe come console legittimo proposta la pace; e chi sa non fosse possibile intendersi. Già in viaggio, senza svelare il piano che agli intimi659, avviava a Brindisi le dodici vecchie legioni e tutte le navi che si potevano requisire nei porti dell’Italia; cominciava a mandarvi il materiale da guerra come per far comodamente la spedizione a primavera. Tuttavia non poteva Cesare andar subito a Brindisi, senza fermarsi qualche giorno a Roma, per assumere la dittatura, tenere i comizi e le ferie latine, prendere qualche provvedimento più urgente. Entrò infatti in Roma verso la fine di novembre660 e vi restò undici giorni661; tra i più operosi di questa operosissima vita. Presiedè i comizi, i cui risultati furon naturalmente favorevoli al suo partito: egli fu eletto console con Publio Servilio Vatia, figlio dell’Isaurico sotto i cui ordini Cesare aveva militato da giovane; a pretori furono scelti Celio, Trebonio, Quinto Pedio, figlio di una nipote sua, e forse Caio Vibio Pansa662. Presiedè le feriae latinae; fece proporre al popolo da diversi magistrati il richiamo di molti condannati in seguito alle leggi di Pompeo nel 52 e prima, tra gli altri, di Gabinio, non però di Milone663; fece approvare una legge con cui si dava la cittadinanza a tutta la Gallia Cisalpina....664 Dovette pure provvedere in qualche modo alla questione dei debiti: episodio della storia di Cesare importantissimo, in sè e per le conseguenze che ebbe.

Il lavoro di questa generazione finiva in uno di quei faragginosi ingombri di diritti acquisiti, in cui periodicamente finiscono le successive età della storia e che non possono essere distrutti se non da una violenza rivoluzionaria. Pagare gli immensi debiti fatti a usure così alte per migliorare la agricoltura, la industria, la cultura intellettuale ed il vivere, l’Italia non avrebbe potuto, neanche se avesse saccheggiata con la guerra un’altra Gallia e con l’usura un’altra Asia più ricche: e invece le conquiste stavano per finire; ben presto le improvvise importazioni dei grandi capitali presi per diritto di guerra verrebbero meno; i debitori non potrebbero sperare più in aiuti straordinari, si troverebbero ridotti a mantenere gli impegni con le forze loro; e la definitiva liquidazione di questo immenso indebitamento sarebbe avvenuta. Ma con quanta rovina dell’Italia e della cultura, se fatta secondo la giustizia formale dei contratti! Molte famiglie delle classi alte avrebbero ancora potuto assestarsi alla meglio pareggiando debiti e crediti e raccogliendosi poi in più modesto vivere; ma un piccol numero di ricchi capitalisti creditori si sarebbe impadronito delle case edificate, delle vigne piantate, degli schiavi comprati ed educati dal medio ceto negli ultimi venti anni; rovinando a precipizio quella borghesia industriosa, avida di coltura e di piaceri, che si formava da mezzo secolo, i cui progressi sono l’essenza stessa della storia dei tempi di Cesare, alla cui prosperità noi vedremo esser legato l’avvenire dell’Italia, e rovinata la quale sarebbe stato interrotto il rinnovamento civile che ornava l’Italia. La sorte di questa classe nuova dipendeva dalla risoluzione della questione dei debiti; e questa non poteva trovarsi se non in una di quelle rivoluzionarie abolizioni che ricorrono nella storia periodicamente; come dimostra il fatto che questa abolizione dovè essere compiuta, sette anni dopo, ma in tempi meno opportuni, con sofferenze maggiori, come una operazione chirurgica che ritardata di troppo è più pericolosa e dolorosa per il paziente665. Se fosse vero che un uomo di genio può in una grande crisi storica veder le vie del futuro ignote ai più, spingervi a forza le moltitudini riluttanti, assumersi solo la maggiore fatica della salvezza comune, cui la ignava plebe umana non vuol sobbarcarsi, Cesare che era un uomo di genio e che aveva usati più volte procedimenti rivoluzionari, quando la sua persona era stata in pericolo, avrebbe capito ed osato anche questo atto rivoluzionario, necessario a salvare non sè, ma l’opera di una generazione, la cultura della nazione, l’avvenire della civiltà europea.... Invece anche allora egli, come tutti gli uomini politici, agì secondo l’impressione e il bisogno del momento; e disposto a idee conservatrici dalla speranza di acquistare in luogo di Pompeo il primato della città, si mostrò sollecito solo di apparire zelante osservatore della legalità, ansioso di non irritare, spaventare o scontentare le alte classi, i ricchi capitalisti, i cavalieri, la aristocrazia proprietaria, la media e la grande possidenza. Le classi possidenti e denarose che sin dal passaggio del Rubicone l’avevano accusato di portare all’Italia tabulas novas666, che ricordavano le rapine della grande rivoluzione democratica di quaranta anni prima, avevano allora gran paura di confische e di abolizioni di debiti, a cui era contraria anche la parte delle classi alte più indebitata, per timore dell’immenso scompiglio immediato che seguirebbe, per odio al partito popolare che le aveva sempre favorite, per la dipendenza dai capitalisti in cui vivevano molti avendone avuto denari, per rispetto umano e servilità verso i ricchi, per paura che dall’abolizione dei debiti si passerebbe alla confisca delle terre, per quel sentimento astratto della giustizia che spesso è tanto vivo nelle persone colte e le rende così avverse ai procedimenti rivoluzionari667. Queste paure anzi erano state accresciute dalla nomina popolare di Cesare a dittatore. Silla non aveva compiute le sue immani rapine con l’autorità dittatoria, conferitagli per legge alla fine di una guerra civile? Da allora in poi dittatura rivoluzionaria e spoliazione dei ricchi parevano a molti cose indissolubilmente legate tra loro. Cesare perciò volle mostrare ai ricchi che intendeva non di confondere le ragioni del mio e del tuo, ma di rispettare le leggi; e imitando i provvedimenti presi in condizioni simiglianti da città greche668, studiò una transazione, proprio come in Cilicia aveva fatto Cicerone, che molti moderni ammiratori di Cesare accusano per questo di imbecillità. Una transazione ingegnosa ed inutile: i debitori cederebbero in pagamento i loro beni non al prezzo rinvilito di allora, ma al prezzo che avevano prima della guerra civile; se creditori e debitori non si accordassero su questo prezzo, sarebbero nominati arbitri a giudicarlo; gli interessi già pagati sarebbero tolti dal capitale669. Sembra che, per evitare discussioni e contese nei comizi, Cesare emanasse queste disposizioni di autorità sua, come dittatore670; e a queste ne aggiunse altre, intese a far circolare i capitali per forza; inefficaci ma compiacenti il pregiudizio popolare che attribuiva la scarsità del denaro alla malizia dei capitalisti, abili nell’accaparrar la moneta per rincarirla: rinnovò cioè una vecchia legge dimenticata, che proibiva di tener in casa più di 60 000 sesterzi in oro e in argento; ma non volle prometter premi agli schiavi che denunciassero i depositi dei loro padroni, come il popolo, inferocito contro gli usurai, voleva671.

Insomma Cesare aveva cercato in quegli undici giorni di contentare tutti: ricchi e poveri, nobili e plebei, usurai e debitori. In una cosa però non potè contentare il pubblico: nel desiderio che sospendesse la guerra. Appena giunto a Roma si era tentato anche da persone del suo partito e sin da suo suocero di indurlo a mandare ambasciatori a Pompeo a trattare la pace672; quando egli uscì di Roma, in dicembre, il popolo lo salutò con dimostrazioni invocanti la pace673. Ma a nessun costo poteva rinunciare alla sorpresa: tratterebbe la pace solo quando egli fosse con 25 000 uomini in Epiro e quindi in grado di guerreggiare se non si accordava. Diede però un’altra soddisfazione all’opinione pubblica, deponendo, prima di partire, dopo solo undici giorni, la dittatura, il cui nome dopo Silla era tanto detestato; poi, sebbene le navi raccolte capissero appena poco più della metà dei soldati, sebbene il passaggio a due riprese fosse pericolosissimo, non volle indugiare: in dicembre comparve improvvisamente in Brindisi, convocò i soldati, rivelò il suo piano, li incitò con nuove e maggiori promesse; imbarcò 15 000 uomini senza frumento, senza schiavi, senza giumenti, con il piccolo bagaglio che il legionario portava a spalla, appeso alla cima forcuta di un’asta; lasciò gli altri a Gabinio, ritornato alla politica, a Fufio Caleno e ad Antonio, con l’ordine di imbarcarli, quando le navi sarebbero tornate; e il 4 gennaio 48674 si avventurò nell’Adriatico, conducendo seco il giovane Asinio Pollione, e per generali Gneo Domizio Calvinio, Publio Vatinio, Publio Silla, lo sventurato console del 65, Lucio Cassio, C. Calvisio Sabino. Cesare aveva supposto giustamente. Bibulo sonnecchiava con la flotta sul grigio Adriatico, deserto di navi nella desolazione dei freddi e minacciosi venti invernali, che chiudevano nei porti, intorno al fuoco, i marinai freddolosi e timorosi; e non si riebbe, se non quando seppe che l’esercito e Cesare erano sbarcati in un piccolo golfo solitario presso Orico.

Cesare appena sbarcato incominciò una duplice azione di conciliazione e di offesa: mandò un ambasciatore a riproporre la pace a Pompeo675, che conduceva i soldati dalla Macedonia nei quartieri di inverno a Durazzo; e cercò frattanto di impadronirsi di tutta la costa sino a Durazzo, il maggior porto di quella regione. Egli aveva bisogno di impadronirsi di un vasto paese e di qualche città, per provvedersi non solo di grano, ma di giumenti, di cuoio, di legname, di ferro, di attrezzi. Facilmente prese prima Orico e poi Apollonia; perchè le piccole guarnigioni di Pompeo furono scoraggite dal contegno delle popolazioni, favorevoli all’invasore non perchè si chiamasse Cesare ma perchè era il console in carica676; fallì invece nel disegno di prender Durazzo. Pompeo, saputo in via che Cesare era sbarcato e argomentata facilmente l’intenzione sua, aveva messo l’esercito alla corsa, arrivando a Durazzo prima di Cesare. Cesare si fermò allora e pose il campo sull’Apso, un fiume che scorre a sud di Durazzo; e Pompeo si pose a sua volta in osservazione con l’esercito dall’altra parte del fiume.

I due rivali eran di fronte. Appena salvata Durazzo e quetato nel campo di Pompeo il tumulto della marcia precipitosa, l’ambasciatore di Cesare potè parlare ai consiglieri intimi del generale, che erano Lucceio, Teofane di Mitilene e Libone; e questi gli portarono le proposte di pace. Ma Pompeo troncò subito il discorso con una obiezione senza replica: “Io non posso tornare in Italia per grazia di Cesare”677. Egli era stato trascinato più che avesse voluta la guerra; ma le disfatte che il partito di Cesare aveva subite erano state inflitte non da lui ma da Giuba e dai suoi generali; egli era stato sempre vinto e aveva dovuto fuggire d’Italia; non vi tornerebbe senza avere annullato lo scredito e la vergogna di questa fuga con una grande vittoria. La fortuna straordinaria di cui aveva goduto sino allora era oramai per lui un impegno mortale.... D’altra parte la sorpresa sperata da Cesare era fallita: l’ostinato Bibulo, ingannato una volta, aveva mandato Libone, con cinquanta navi, a incrociare davanti a Brindisi e faceva buona guardia sul mare non ostante il freddo e le tempeste invernali; i rinforzi non venivano; Cesare si trovava solo, con 15 000 uomini, contro un nemico quasi tre volte più numeroso. Così Pompeo, come i suoi consiglieri e i grandi di Roma presenti al campo, invece di essere intimiditi e invogliati alla pace dalla improvvisa apparizione di Cesare, erano stati imbaldanziti a quasi sicura fiducia di vittoria: sarebbe stolto conchiuder la pace, quando Cesare, avventuratosi così temerariamente fuori d’Italia con forze tanto piccole, era quasi alla mercè del nemico. A Cesare non restò più che far svernare i soldati sotto la tenda, aspettare le altre legioni da Brindisi, cercare intanto di impadronirsi del paese alle sue spalle, frugarlo in ogni parte per trovar grano, far vigilare le coste per impedire alla flotta di Bibulo di provvedersi di acqua e quindi costringerla a lunghi e frequenti viaggi sino a Corcira, durante i quali fosse più facile ai suoi di sgusciare tra le squadre in crociera. L’acqua era, per le flotte antiche, ciò che il carbone è per le moderne: il bisogno che legava i moti della flotta alla terra, ai punti sicuri di approdo.

Non approfitterebbe invece Pompeo del maggior numero per costringere il nemico a battaglia? Molti infatti nel campo pensavano si dovesse fare così. Ma Pompeo non era mai stato un uomo molto operoso, nè possedeva la infaticabile resistenza nervosa del suo avversario; la breve energia che aveva mostrata negli ultimi giorni della guerra in Italia e nei primi tempi dopo lo sbarco in Grecia, era stata presto esausta dalle fatiche, dalle commozioni, dalle vicende turbinose dell’ultimo anno, in un nuovo snervamento, accresciuto dalle ansietà che accompagnano tutte le guerre civili, nelle quali a una sconfitta può seguire lo sbandamento dei partigiani, il passaggio dei propri soldati al nemico. Perciò Pompeo apparisce in questa guerra non pari al valente stratega della guerra contro Mitridate; ma con tutti i difetti della sua natura aristocratica, che erano la incertezza e la lentezza, accresciuti; ammalato quasi da follia del dubbio e irresoluto sempre nell’operare, se pure intelligente a vedere il consiglio migliore; fermo nel voler combattere sino all’ultimo a costo di perire, non tollerante di consigli e di esortazioni alla pace; ma in tutto il resto trascurato e sdegnoso, inetto a dominare le volontà discordi dei grandi di Roma che eran con lui, appartato dalla turba svogliata dei suoi partigiani in un orgoglio solitario, che gli pareva segno di forza ed era stanca fiacchezza; facile a ceder sempre alla fine alle sollecitazioni degli uni o degli altri. È facile immaginare in qual disordine versasse il campo, affollato di giovani e di vecchi nobili, di senatori e di capitalisti italiani, di re orientali, di capi barbari! I grandi di Roma, inaspriti dalle privazioni, dagli impicci di denaro in cui spesso si trovavano, dopo aver prestate a Pompeo678 quante somme avevan potuto raccogliere, erano impazienti di tornare in Italia; e sfogavano i loro patimenti in minaccie di vendetta, in propositi di confische, che spaventavano il buon Cicerone679; si guardavano l’un l’altro con sospetto, si disputavano per ridicoli puntigli di orgoglio; si accusavano da mattina a sera di tradimento680. Sino Afranio e Cicerone erano stati ricevuti al campo con diffidenza e quasi con disprezzo; perfino Attico, restato a Roma, era minacciato di rappresaglie, come un transfuga!681 Era ancora un vantaggio quando, come Bruto, invece di occuparsi della guerra, attendevano nella tenda agli studi682. Naturalmente questi impazienti volevano precipitar la battaglia; ma Pompeo raccoglieva tutta la rimanente energia a imporre loro la strategia più prudente dell’attesa: impedire l’arrivo dei rinforzi, continuare a esercitare il proprio esercito, richiamar subito Scipione dall’Asia; aspettare che la fame e i disagi decimassero ancor più il nemico, per distruggerlo senza fatica.

Così le settimane cominciarono a passare, senza che avvenisse nulla, in apparenza; ma intanto i viveri scarseggiavano nel campo di Cesare; nè rinforzi nè notizie arrivavano dall’Italia. Non andò molto che Cesare dovè sentire un principio di inquietudine. Fallita la sorpresa, impossibile la pace, malsicuri gli approvvigionamenti, egli non poteva sperar salvezza che da un pronto arrivo dei diecimila uomini lasciati in Italia e da una immediata vittoria. Ma potrebbero Gabinio, Antonio e Caleno passare il mare? e quando? Di lì a poco Bibulo morì; Pompeo, non sappiamo perchè, non nominò nessuno nel luogo suo; la flotta si divise in tante piccole squadre che operavano ciascuna per sè sola nelle varie parti dell’Adriatico; la vigilanza si rallentò; la primavera avvicinava; più volte i venti avevano soffiato favorevolmente; ma nessuno appariva. Cesare, sempre più inquieto, incominciò a impazientirsi, a temere un tradimento, a mandar lettere severe a Caleno e ad Antonio; si dice anzi che un giorno tentasse di andar solo sopra piccola nave a Brindisi683. Ma sebbene Libone avesse dovuto dopo molte scaramuccie togliere il blocco di Brindisi, i tre generali temevano tanto il passaggio dell’Adriatico guardato dalla flotta pompeiana, che non osavano muoversi684. Alla fine gli incitamenti ripetuti di Cesare diedero una spinta alle incerte volontà dei tre generali: essi si divisero; Gabinio con 15 coorti risolvè di tentar la via di terra e risalì la costa Adriatica, per cercar di giungere in Epiro attraverso l’Illiria685; Caleno e Antonio si avventurarono in mare. Ed ecco un giorno, i due eserciti che accampavano di fronte sul golfo di Durazzo, vedono apparire, spinta da un forte vento verso il nord, una flotta numerosa di navi. Tutti si scossero dal torpore in cui giacevano da tanti mesi; corsero a guardare, aguzzaron gli occhi sul mare, capirono che era la flotta di Antonio; presto Coponio, l’ammiraglio pompeiano che comandava la flotta ancorata nel porto di Durazzo, escì con le sue navi ad inseguirla, come il falco dietro la rondine, e le due squadre ben presto sparvero a nord.... Ma nei due campi continuò una grande agitazione; i soldati furon posti subito sotto le armi in ordine di partenza e informatori spediti in ogni parte per aver notizie; nella tenda dei due comandanti incominciò un gran via vai di messi e di ufficiali; tutti rianimati e fatti alacri si tennero pronti agli eventi, che parevan vicini. Cesare dovè passare qualche ora terribilmente ansiosa. La sua sorte dipendeva in quel giorno dal vento! In breve così Cesare e Pompeo seppero che Antonio aveva potuto, grazie a un rivolgimento felice del vento, sbarcare quasi tutte le quattro legioni in un piccolo seno presso Lisso; ed ambedue si mossero subito con parte dell’esercito per vie differenti verso quel luogo: l’uno, per vincere Antonio prima che si riunisse con Cesare, l’altro per unirsi a lui e ricondurlo in salvo. Cesare più veloce potè unirsi ad Antonio; e Pompeo dovè ritirarsi a sud di Durazzo, piantando il campo ad Asparagio. Pur troppo però portavano Antonio e Caleno a Cesare cattive notizie. La questione dei debiti che egli aveva creduto comporre con ingegnose disposizioni, era divampata di nuovo, appena lui partito, scatenando nel suo stesso partito una piccola guerra civile. Celio, l’intelligente ma squilibrato amico di Cicerone, il figlio del banchiere di Pozzuoli, l’antico conservatore e rivale di Catullo in amore, spinto dai debiti e dall’ambizione, aveva proposta una legge con cui si condonavano agli inquilini i fitti arretrati e un’altra con cui si abolivano i debiti; il console e Trebonio si erano opposti; eran successi tumulti; Milone era sopraggiunto da Marsiglia e d’accordo con Celio aveva reclutato bande di gladiatori e servi nell’Italia meridionale, tentando una insurrezione. L’uno e l’altro però eran stati vinti ed uccisi dai cavalieri galli e spagnuoli, lasciati da Cesare a presidiar l’Italia686.

Tanto più Cesare fu incitato a finir presto la guerra. L’ansietà che accompagna ogni guerra civile concitò in lui, come in Pompeo, i difetti che eran gli opposti; e come Pompeo nel gran periglio era stato preso dalla follia del dubbio, una straordinaria esaltazione e una fretta quasi frenetica fecero Cesare precipitoso a ogni rischio. La difficoltà degli approvvigionamenti lo costringeva a cercar di finir subito la guerra, a qualunque rischio. Mandò L. Cassio con una legione novizia in Tessaglia, C. Calvisio Sabino con cinque coorti nell’Etolia, Gneo Domizio Calvino con due legioni in Macedonia, per provveder frumento e fronteggiare Scipione che frattanto attraversava l’Asia minore levando dappertutto denaro e confiscando nei templi i depositi dei privati, anche degli Italiani che spesso lasciavano in quelli somme grosse; egli poi raggiunse Pompeo e più volte gli offrì battaglia, sebbene avesse la metà delle forze: ma invano. Quanto Cesare aveva fretta di combattere, tanto Pompeo desiderava di ritardar la battaglia. Tentò allora di trarre fuori il nemico ponendosi, con una abile e rapida mossa, tra il campo nemico e Durazzo dove Pompeo aveva i suoi magazzini; ma Pompeo non si indusse ancora a dar battaglia; si accampò in un luogo detto Petra, sulle colline del golfo di Durazzo, appoggiando il suo campo al mare e contentandosi di comunicar con la città per mare. Cesare allora, che non poteva più trattenere la impazienza e l’esaltazione da cui era agitato, ebbe un’idea strana: chiuder il nemico tra un gran terrapieno ed il mare, con la speranza di costringerlo a tentare qualche sortita. I suoi soldati ripresero la zappa e incominciarono a scavare e ad ammucchiar terra; i soldati di Pompeo risposero costruendo un controvallo, munito di torri come quello di Cesare; e intorno a questi terrapieni cominciò una guerra di scaramucce, di sorprese, di ostinazione. Cesare faceva soffrire l’esercito di Pompeo togliendo l’acqua, impedendo alla cavalleria il pascolo, avvilendolo con la clausura, le molestie, le epidemie che infierirono presto tra tanti uomini chiusi in così angusto spazio. Ma Pompeo, piuttosto che uscire a dar battaglia, imbarcava la cavalleria e la mandava a Durazzo, stremando con questa resistenza passiva le forze di Cesare. I suoi soldati furon ben presto tormentati da tal carestia, che si ridussero a pascersi di radici; in Epiro e in Macedonia non restava più grano dal raccolto precedente; la flotta pompeiana, divisa in varie squadre, una al comando di Caio Cassio nelle acque della Sicilia, una di Gneo Pompeo, il figlio maggiore del Magno, e un’altra di Marco Ottavio sulle coste illiriche, una al comando di Decimo Lelio nelle acque di Brindisi, faceva buona guardia; gli approvvigionamenti per mare non erano possibili. Tutto l’impero guardava ansioso a quel punto dell’Epiro, dove senza battaglie si combatteva questa terribile, accanita guerra di ostinazioni. Quale dei due potrebbe durare di più? Ma in breve la condizione dell’esercito di Cesare diventò così grave per la fame, che una volta ancora, sottomano, egli fece sollecitar Scipione a interporsi per la pace. Quand’ecco un giorno una delle solite scaramucce intorno ai valli divampò in una vera grossa battaglia, nella quale i soldati di Cesare, stanchi per le fatiche e il digiuno, furono disfatti. Cesare lasciò sul campo 1000 morti e perdè 32 insegne687.

Questo rovescio nella prima e vera battaglia tra Cesare e Pompeo poteva finire per il primo in una calamità irrimediabile, se l’altro avesse lanciato subito tutto l’esercito addosso al nemico. Ma il dubbioso Pompeo non volle rischiar troppo e contento di questa vittoria ricondusse le coorti vittoriose nel campo. A ogni modo questa sconfitta era grave per Cesare, perchè persuadeva molti che l’abilità sua nelle guerre contro i barbari non bastava più contro il vecchio generale che aveva raccolti tanti allori, dalle guerre civili di Silla alla presa di Gerusalemme. Guai a Cesare se la fiducia che i soldati avevano in lui, se la speranza dei premi futuri non fossero state ben forti! Il frangente era critico tanto più che proprio allora Gabinio falliva nella sua spedizione; e dopo aver perduto molti soldati nelle continue scaramuccie combattute lungo la via contro i barbari Illiri, era giunto a salvar Salona assediata da M. Ottavio; ma poi ammalatosi, moriva e gli avanzi del suo piccolo esercito si disperdevano688. Il rovescio di Durazzo fu invece una gran fortuna per Cesare, perchè calmò in lui quella esaltazione e quella impazienza in cui viveva da tanti mesi; lo fece, con un urto improvviso, ritornare in sè; lo determinò ad abbandonare quello strano assedio e portar l’esercito in regioni di maggiore abbondanza, a cercar di ricongiungersi con Domizio Calvino e Lucio Cassio che intanto battagliavano contro Scipione in Macedonia. Riconfortati i soldati con nuove e maggiori promesse, qualche giorno dopo la disfatta egli incominciò la ritirata; lasciò i feriti a Apollonia sotto il presidio di 4 coorti, e si avviò verso la Tessaglia sulla fine di giugno. Un pronto inseguimento poteva ancora distrugger l’esercito; ma Pompeo come sempre esitava, differiva, domandava pareri, che erano diversi: chi voleva inseguir subito, chi ritornare in Italia, chi continuare la strategia dell’attesa seguita sino allora....689 Pompeo si risolvè a inseguire il nemico invece di tornare in Italia; e lasciando Catone e Cicerone a Durazzo con quindici coorti a guardia dei bagagli, gli tenne dietro lentamente, perdendo tempo, risoluto però a continuare la strategia di rinvii e di lentezze, per distruggere con la fame l’esercito di Cesare, che si era riunito con quello di Calvino. La sorte di Cesare dipendeva dalla pazienza dei suoi nemici. Ma i grandi di Roma, imbaldanziti dalla vittoria di Durazzo e impazienti di tornare a Roma, incominciarono a protestare, quando, i due eserciti essendosi avvicinati nella pianura di Farsaglia e Pompeo essendosi unito a Scipione, videro ricominciare la fastidiosa guerra elusiva, che combattevano da sei mesi. Era talmente invecchiato e rammollito Pompeo, da non osare di disfare un nemico già vinto, i cui soldati eran poco più della metà?690 Consigli, proteste, lamenti, scenate, tutti i mezzi atti a muover Pompeo furono messi in opera; sinchè Pompeo, fastidito, disgustato, stanco, si lasciò indurre alla risoluzione fatale. Egli offrì battaglia il 9 agosto691 nella pianura di Farsaglia ordinando su tre linee le sue coorti, appoggiandone il fianco destro al fiume Enipeo, collocandosi con tutta la cavalleria al fianco sinistro, e proponendosi di rovesciarla sulla cavalleria meno numerosa di Cesare e di lanciarla poi ad avvolgere il lato destro del nemico. Cesare fece subito uscire le ottanta coorti che, oltre le due lasciatene a guardia del campo, ancor gli restavano e le ordinò su tre file; ma, veduta tutta la cavalleria nemica ammucchiata alla sinistra, tolse sei coorti dalla terza linea, ne fece una quarta linea, collocandola al fianco destro dietro la cavalleria, con l’incarico d’aiutar questa a respingere il probabile attacco avvolgente della cavalleria di Pompeo; diede il comando dell’ala sinistra ad Antonio, del centro a Calvino, della destra a Publio Silla; egli si pose pure a destra di fronte a Pompeo e lanciò subito le due prime linee contro il nemico. Questo resistè validamente, incominciando i duelli tra le prime file delle coorti in cui consistevano le battaglie romane e gli scambi tra le coorti che stanche si ritiravano, per lasciar posto a quelle della seconda linea; mentre la cavalleria di Pompeo tentava di avvolgere l’ala destra di Cesare.... Ma la cavalleria di Cesare, aiutata dalle sei coorti della quarta linea, resistè validamente; poi guadagnò un po’ di terreno, incalzò, si mutò di assalita in assalitrice, mise in fuga la cavalleria nemica. Allora le sei coorti della quarta linea, trovandosi la via libera, girarono attorno all’ala sinistra dell’esercito di Pompeo e la minacciarono alle spalle; Cesare colse con prontezza il momento e facendo ritirare le due prime linee stanche, lanciò contro le coorti di Pompeo la terza linea fresca. L’esercito di Pompeo non poteva mantenersi nelle sue posizioni; e un generale che fosse stato tranquillo avrebbe subito disposto per una ritirata fatta con ordine e combattendo, nel campo, la gran fortezza munita che ogni esercito romano aveva sempre alle spalle. Ma lo stanco Pompeo, quando vide la ala da lui comandata assalita a tergo, l’esercito urtato di fronte; perdè la testa, abbandonò il comando, fuggì quasi solo nel campo, gridando ai soldati che stavano a guardia di difenderlo bene. Le coorti, lasciate in balìa di sè stesse, non poterono ritirarsi in ordine e incominciarono a sbandarsi, ciascuna per conto suo; Cesare si lanciò allora all’assalto del campo, le cui porte non ben difese presto cederono. Pompeo, che si era ritirato nella tenda, si riscosse al tumulto delle grida che annunciavano l’avvicinarsi del nemico; e balzato a cavallo, uscì con pochi amici dalla porta opposta a galoppo per la via di Larissa. Il vecchio stanco non aveva resistito alla commozione di quel cimento, il primo gran cimento affrontato dopo la campagna contro Mitridate. Perduto il campo, l’esercito di Pompeo si disperse; un certo numero di coorti si ritirarono con i loro ufficiali sulla via di Larissa; altre si rifugiaron sui monti, qua e là. Le perdite di Cesare furono piccole; più grandi quelle di Pompeo, sebbene Cesare forse le esageri692. Era morto tra gli altri anche Lucio Domizio Enobarbo. Il cimento terribile da cui tutti aspettavano dipendesse la sorte del mondo era stata una battaglia breve e poco cruenta.

XV.
CLEOPATRA.
(Anno 48-47 a. C.)

Cesare sfruttò con alacrità mirabile la vittoria: richiamò i soldati dal saccheggio del campo di Pompeo; ne mise una parte a guardia del campo conquistato, una parte ne rimandò alla difesa del campo proprio; egli con quattro legioni si slanciò subito alle calcagne dei fuggenti sulla via di Larissa, raggiungendone il corpo più grosso al cader della sera. Fuggiaschi e inseguitori passaron la notte, i primi accampati sopra, i secondi a piè di un monte che dominava la strada. Ma prima dell’alba i soldati mostrarono tanta fretta di arrendersi che gli ufficiali non poterono trattenerli; solo gli irreconciliabili, come Afranio e Labieno, fuggirono nella notte con piccoli distaccamenti di cavalleria verso Durazzo; e il giorno dopo Cesare, ricevuto in dedizione e perdonato l’esercito, proseguì senza perder tempo per Larissa, dove trovò alcuni ufficiali di Pompeo che gli si arresero, tra gli altri Bruto. Pompeo invece aveva già oltrepassata la città senza fermarsi; e si volgeva velocemente per la valle di Tempe verso le foci del Peneo693, spiccando in via dal suo seguito diversi schiavi a diffondere per la Grecia un editto in cui si comandava a tutti i giovani greci e romani residenti in Grecia di venire ad Anfipoli per essere arruolati694: tardo e inadeguato proposito concepito nella concitazione della fuga da un generale che aveva abbandonato il giorno prima un esercito. Alla foce del Peneo congedò gli schiavi e si mise in mare su una piccola nave, con Lentulo Spintere, Lentulo Crus, Favonio, il re Deiotaro e pochi altri; sinchè, incontrata di lì a poco una nave da grano di un mercante romano, ottenne di montare in quella e veleggiò verso Anfipoli. Intanto Cesare, conosciuto l’editto di Pompeo, aveva incaricato Caleno di sottomettere la Grecia; e partendo da Larissa l’11 agosto alla testa di uno squadrone di cavalleria aveva percorso in sei giorni quasi tutte le 180 miglia romane da Larissa ad Anfipoli, seguito a marce forzate da una legione695, per impadronirsi di Pompeo e impedirgli di rinnovare la guerra. Pompeo seppe, appena giunto ad Anfipoli, che il suo nemico era già vicino; onde rimasto nella città solo una notte, il tempo di farsi prestar denaro da amici e clienti suoi696, partì precipitosamente per Mitilene, dove erano la moglie e il suo più giovane figlio Sesto, rimandando ogni deliberazione sul mare. Questa partenza fece supporre a Cesare che Pompeo volesse recarsi in Siria, la provincia da lui conquistata697; onde, ordinato alla legione che già lo seguiva di tenergli dietro e a un’altra di andare a Rodi, si volse a Sesto, sull’Ellesponto.

Intanto l’onda di spavento partita da Farsalo era arrivata alle rive dell’Adriatico. Verso la metà di agosto698 Labieno giungeva con i suoi galli e germani a Durazzo ed annunziava che l’esercito era stato disfatto. Lo sbigottimento di tutti fu immenso; Cesare parve già alle porte della città; si deliberò di ritirarsi subito con la flotta a Corfù; i soldati aprirono precipitosamente i magazzini e nella furia seminaron il grano per tutte le vie che conducevano al porto; le navi che non si mossero subito appena spinte furono nell’impazienza bruciate. Alla sera l’esercito con Cicerone, Varrone e Catone sgomenti abbandonava il porto, al sinistro bagliore delle navi incendiate699. Ben presto, volata intorno alle coste dell’Adriatico la novella di Farsalo, tutti gli ammiragli di Pompeo convennero a Corfù: C. Cassio dalla Sicilia, Gneo Pompeo da Orico, M. Ottavio dall’Illirico, D. Lelio da Brindisi; e a Corfù convennero pure alla spicciolata molti dei più insigni amici di Pompeo che non volevano arrendersi, come Scipione700. Si tenne allora, sotto la presidenza di Catone, un consiglio, delle cui discussioni poco si sa, se non che Gneo Pompeo per poco non ammazzò Cicerone perchè aveva proposta la pace701; e che dopo il consiglio Cassio andò con le sue navi verso il Ponto, è poco chiaro con quali intenzioni; Scipione e Labieno si volsero verso l’Africa sperando ritrovar Pompeo; M. Ottavio tornò nell’Illirico, per finire di conquistarlo; Catone con Cicerone si recò a Patrasso per raccogliere i fuggiaschi. Imbarcò infatti Petreio e Fausto Silla; ma dovè presto veleggiare verso l’Africa, perchè Caleno si avvicinava. Cicerone, non volendo continuare la guerra, sbarcò a Patrasso.

Frattanto Pompeo, giunto a Mitilene verso il 20 di agosto, imbarcava Cornelia e Sesto che avevano ricevuta soltanto la lieta notizia della vittoria di Durazzo702; e separatosi da Deiotaro, che ritornò in Galazia, costeggiava l’Asia minore e la Panfilia, non osando toccar terra che per prendere acqua e viveri, fermandosi solo un momento a Faselide703 e ad Attalia704, dove erano navi della sua flotta e diversi senatori. Le proposte che si venivano intanto ventilando per trovare un luogo dell’impero ove ricostituire un esercito e ricominciar la guerra eran diverse: la Siria, l’Egitto, l’Africa, dove Giuba aveva già aiutati i Pompeiani a scacciar Curione. Bisognava risolversi: i fuggiaschi si fermarono a Sinedra, per tener consiglio705; e fu deliberato di rifugiarsi in Siria. Intanto Cesare, giunto a Sesto, mentre aspettava i battelli e la legione, riceveva la sottomissione di un ammiraglio di Pompeo che comandava dieci navi, L. Cassio706, e probabilmente prendeva le disposizioni definitive per l’Italia, dove però non aveva voluto mandare per riguardo civile nessun annuncio ufficiale della vittoria. Antonio ricondurrebbe l’esercito in Italia, lo farebbe nominar dittatore e sarebbe magister equitum o vice dittatore; egli potrebbe continuar la guerra oltre l’anno del suo consolato con piena autorità legale. Poi raccolti i battelli, raggiunto dalla legione, saputo che la Grecia era stata tutta sottomessa da Caleno, incominciò l’inseguimento di Pompeo attraverso le isole dell’Egeo, partendo per Efeso e Rodi e volto alla Siria707. Ma Pompeo, che era partito verso il 10 di settembre per Cipro, proprio allora sapeva a Pafo che gli Antiocheni e gli Italiani residenti ad Antiochia avevano dichiarato di non accogliere nè lui nè alcun suo partigiano; onde fattosi dare denaro da una grande società di finanzieri italiani che era a Cipro, raccolta nei porti di Cipro una piccola flotta e circa 2000 soldati scegliendoli nei depositi di schiavi che i finanzieri e i negozianti italiani tenevano nell’isola per venderli in Italia, deliberò di andare in Egitto708, dove regnavano i figli di quel Tolomeo che Pompeo aveva fatto rimettere sul trono da Gabinio: Tolomeo Dionisos e Cleopatra, che secondo il testamento del padre dovevano sposarsi e regnare insieme. A Rodi Cesare, mentre aspettava la legione che aveva ordinato a Caleno di mandargli, argomentò dagli armamenti di Pompeo in Cipro che egli cercherebbe rifugio in Egitto709; onde appena i soldati furono giunti, verso la fine di settembre, pose vela direttamente verso il regno dei Tolomei. Ormai i due rivali si rincorrevano sulla medesima via; ma, quando Cesare arrivò, il 2 ottobre710, ad Alessandria, ebbe una notizia inaspettata, ultima conclusione di una storia piena di eventi inattesi: Pompeo era morto. Il re d’Egitto, quando Pompeo aveva mandato a domandargli ospitalità, era in guerra con la sorella, che i ministri del giovane sovrano avevano scacciata, perchè più adulta e più intelligente; e questi consiglieri, non volendo impegnarsi in guerra contro Cesare e temendo che Pompeo respinto da loro si volgesse a Cleopatra, avevano risoluto di ucciderlo. Quando la piccola flotta del fuggiasco giunse in vista di Pelusio, dove era allora Tolomeo con l’esercito, una navicella andò a prenderlo. Pompeo non voleva scendere diffidando, ma poi fattosi animo entrò nello schifo dicendo che chi varcava la soglia di una reggia diventava schiavo; la piccola barca si allontanò, mentre Cornelia inquieta la seguiva dalla nave ammiraglia con gli occhi ed egli rileggeva il discorso in greco che aveva preparato per dire al re. Già la riva era vicina e Pompeo si alzava per scendere: quando Cornelia inorridita vide un soldato che era nella barca colpirlo a tergo711. Era il 29 settembre 48712. In quel giorno, tredici anni prima Pompeo entrava in Roma indossando la veste di Alessandro Magno e celebrando il suo grande trionfo sull’Asia. Così finiva per mano di un sicario questo grande della terra; che non fu uno sciocco, come si sono compiaciuti di descriverlo molti storici moderni, ammiratori troppo gelosi di Cesare; ma un intelligente gran signore, con tutti i difetti e i pregi della nobiltà di antico lignaggio, cui i tempi e la fortuna imposero alla fine un carico di responsabilità superiore alle forze, e cui mancò sopratutto la ardente passione di fare, la infaticabile fervida vittoriosa alacrità del fortunato rivale. Della rovina in cui perì non furono cagione soltanto gli errori suoi, ma i vizi pure e le colpe delle alte classi, alla cui testa più che un proposito deliberato l’avevano posto i casi del tempo. A ogni modo la parte sua nella storia dell’impero non può essere dimenticata: egli annette all’impero la patria di Gesù, la cui conquista ebbe, insieme con la conquista della Gallia, maggiore importanza tra tutte per i suoi effetti; e fu come Lucullo, con la costruzione del teatro e con le feste date al popolo, uno dei maggiori divulgatori della civiltà orientale in Italia; un maestro di quel lusso pubblico della Roma dei Cesari, i cui avanzi gli uomini ammirano e in parte imitano ancora.

Tra tutte le fortune di Cesare, questa repentina morte di Pompeo fu certo la maggiore. Il rivale che per orgoglio non avrebbe mai deposte le armi, spariva all’improvviso, ucciso da un miserabile complotto di eunuchi orientali, in un piccolo schifo, senza che a Cesare si potesse rinfacciare il suo sangue. Difatti quando la notizia di questa morte giunse in Italia verso la metà di novembre713, portata da uno dei più celeri schiavi di Cesare, Diocare, tutti considerarono Cesare come ormai definitivamente vittorioso; e siccome il successo in politica è il gran regolatore delle opinioni, scoppiò in tutti i ceti un furore di entusiasmo per lui. Le statue di Silla e di Pompeo furono tolte via; tutti gioirono che la guerra fosse finita; la moderazione mostrata da Cesare, le lettere sue ad amici di Roma in cui diceva che la sua maggior gioia della vittoria sarebbe di salvare i nemici, disposero gli animi alle più liete speranze che l’ordine sarebbe presto restaurato, senza nè confische nè stragi; e questa gioia, queste speranze, il bisogno di creder grande chi riesce, la servilità epidemica per i potenti, che si era divulgata nell’Italia insieme con la democrazia, con lo spirito mercantile, con la cultura e la civiltà, faceva cadere in una estasi di ammirazione per Cesare, spregiato sei mesi prima come un ribaldo, il pubblico medio che badava sopratutto alle proprie faccende, i senatori scettici e cupidi solo di ricchezze e di onori, i ricchi mercanti, i banchieri e i possidenti che parteggiano sempre per chi apparisce più forte714. Naturalmente gli amici di Cesare, che per due anni avevan rischiata la rovina e la morte se la guerra volgeva male, non furono tardi ad approfittare di questo stato d’animo per far dare a Cesare i poteri necessari ad assicurare non a lui solo, ma anche a loro una larga partecipazione al governo; e fecero diluviare su lui una pioggia di alti onori: non solo la dittatura715 per tutto l’anno 47 da lui voluta, ma il consolato per tutti i cinque anni seguenti; la facoltà di presiedere da solo alle elezioni di tutti i magistrati, cui presiedeva il console, escluse quindi quelle dei tribuni e degli edili plebei; di assegnare egli, invece che trarle a sorte, le Provincie ai pretori, di essere considerato per tutta la vita come un tribuno della plebe716. Con queste facoltà Cesare avrebbe potuto disporre del maggior numero delle cariche e dei governi; e dare ai suoi amici, come preda della lunga guerra, una gran parte della signoria dello Stato. Se il vittorioso avesse saputo o potuto cogliere il momento fuggente di questo entusiasmo universale! Era quello il tempo di tornare in Italia, di porsi in mezzo all’impero, come egli aveva pensato un anno prima, quale conciliatore dei partiti e delle classi in guerra ma stanche della lunga discordia, a tentar di adattare le istituzioni repubblicane alla società mercantile; di conciliare l’imperialismo e la libertà, le tradizioni latine e i nuovi bisogni nati dall’assimilazione della civiltà orientale. Ma Cesare era un uomo di alto intelletto, non un semidio, il quale potesse allora vedere ciò che apparisce così luminosamente a chi considera tutta questa storia alla distanza di venti secoli; onde si lasciò facilmente sviare, anche questa volta, da incidenti fugaci e da necessità immediate. Egli aveva bisogno di denaro: l’Egitto era ricco e Tolomeo non gli aveva pagata tutta la somma promessagli per l’aiuto di Gabinio; pensò dunque di fare una sosta ad Alessandria, di reclamare come console il diritto di decidere la questione tra il fratello e la sorella in base al testamento di Tolomeo, di farsi pagare il debito del padre e l’arbitraggio prima di tornare a Roma717. Egli aveva – è vero – poche migliaia di soldati; ma pieno di ardire dopo tanto successo e per l’immenso potere di cui disponeva, non dubitò che la cosa gli riuscirebbe in poco tempo e con poca fatica718; mandò ordine a Cleopatra e a Tolomeo di congedare gli eserciti e di sottoporsi al suo giudizio; si insediò nel palazzo reale e impose una contribuzione sugli abitanti di Alessandria. Ma mentre Cesare trattava con i ministri del re che volevano persuaderlo a lasciare Alessandria; mentre cresceva nel popolo un gran fermento, per le esazioni e le prepotenze dei soldati romani, che erano spesso uccisi alla spicciolata nei quartieri più popolosi della grande città719, una sera, all’improvviso, venne a trovarlo nel suo appartamento Cleopatra, che di nascosto era entrata nella città e nel palazzo720. Freddissima di sensi, astuta ed intelligente nelle arti della civetteria femminile, questa giovane regina sapeva innamorare un uomo usando tutti gli allettamenti; o scherzando con lui con vezzeggiamenti quasi pudichi, simulando l’amore, le ansie gelose, la debolezza; o investendolo con trasporti mentiti di sfrenata lascivia; o incitando delicatamente il senso della bellezza con feste magnifiche, con meravigliosi adornamenti della propria persona e della casa, con discorsi spiritosi di letteratura e di arte; od incitando gli istinti più rozzi con discorsi di una oscenità grossolana, con una volgare allegria da donna di soldati. Cesare era uscito allora da uno dei più tempestosi periodi della sua vita, con il bisogno di godere esaltato dal successo, dalle liete speranze dell’avvenire, dalle lunghe astinenze, dalle stesse immani fatiche compiute; e fu facile perciò a Cleopatra persuaderlo, in una notte, che essa aveva ragione. Ma quando il giorno dopo Tolomeo ed i suoi ministri seppero che Cleopatra aveva passata la notte nel palazzo reale e nella stanza di Cesare, videro la loro causa perduta; il ministro delle finanze Potino, che temeva a Cesare seguisse un nuovo Rabirio, incitò il popolo ad una sedizione, indusse il generale di Tolomeo a venire ad Alessandria e far guerra a Cesare. L’esercito dell’Egitto era una specie di legione straniera composta di antichi soldati di Gabinio, di delinquenti, di schiavi fuggiti, di disertori di tutti i paesi del Mediterraneo721. Questo piccolo esercito costrinse presto Cesare a ridursi con i suoi uomini nelle vaste mura del palazzo reale e a sostenervi un assedio, aspettando i rinforzi mandati a dimandare in grande fretta a Gneo Domizio Calvino, lasciato al governo dell’Asia.

Così, sino al 13 dicembre, Cesare continuò a governare l’Italia e l’impero; ebbe ancora tempo di nominar Antonio magister equitum722 ed essendo corsa voce che Catone e altri capi pompeiani volevano tornare in Italia, di far vietare con una legge a tutti i pompeiani di tornare in Italia, fatta eccezione per Cicerone e per D. Lelio723; poi l’ inverno e la guerra lo separarono nel palazzo reale di Alessandria dal resto del mondo, per modo che durante i primi sei mesi dell’anno l’Italia e l’Impero non ebbero più notizie di lui724: lunga assenza, cui non a torto Cicerone attribuì la cagione di molti guai che avvennero dopo725. I profughi dell’esercito di Pompeo che, nascosti nelle varie città delle coste del Mediterraneo, aspettavano il ritorno di Cesare, per ottenere lo sperato permesso di tornare in Italia, furono condannati a una incresciosa attesa; a incresciosissima attesa Cicerone che a Brindisi ruminava amaramente i molti rammarichi di cui gli erano cagione gli eventi: gli amici periti nelle guerre e la discordia con suo fratello Quinto, il quale lo accusava di averlo costretto ad abbandonare Cesare; il tesoretto di Efeso, che Scipione aveva confiscato; la povertà a cui si trovava ridotto egli, sua moglie, sua figlia; la infelicità di Tullia con Dolabella, che si conduceva da infame; la insolente avversione della parte più rozza del partito di Cesare, la scemata considerazione del pubblico, che lo considerava ora con diffidenza e freddezza, perchè aveva combattuto nel partito vinto e si credeva che Cesare gliene serbasse rancore726. Farsaglia aveva sciupata anche la gloria del De Republica. Chi lo considerava più come il gran maestro dell’arte politica? I centurioni di Cesare che avevano combattuto a Ilerda e a Farsaglia erano più ammirati di lui. Ma Cicerone almeno era fermamente risoluto a non riprender più le armi; altri invece, meno pazienti, incominciarono a stancarsi, a prestare orecchio alle voci che giravano lungo le coste del Mediterraneo: se l’Illirico, difeso dal questore di Cesare Q. Cornificio e da Vatinio accorso da Brindisi in aiuto, era stato abbandonato definitivamente da M. Ottavio, che si rifugiava con la flotta in Africa, in Africa i superstiti dell’esercito di Pompeo si raccoglievano, preparavano un esercito, andavano pensando ad un assalto dell’Italia; Cesare versava in grave pericolo ad Alessandria; la guerra poteva ricominciare. L’Italia stessa fu ben presto inquieta per altri guai ben maggiori! Siccome per la legge approvata dopo Farsaglia Cesare doveva presiedere solo tutte le elezioni a cui presiedeva di solito un console, si poterono eleggere, sinchè egli era assente, soltanto i tribuni e gli edili della plebe; cosicchè la repubblica restò senza i magistrati più importanti, in potere del solo vice dittatore Antonio, che giovane, gaudente, spensierato, buon soldato ma poco pratico ancora del governo civile considerò la vicedittatura come un premio e una festa; e mentre gozzovigliava nello Stato senza magistrati in compagnia di cantanti, di danzatrici e di Citeride, non avendo vergogna di mostrarsi in pubblico ubriaco727, lasciò scoppiare quasi una rivoluzione sociale.

Nel partito dì Cesare, come in tutti i partiti democratici che rappresentano le classi più numerose e più povere, ma che sono capeggiati da uomini appartenenti alle alte classi, era insita una contradizione e quasi un inconsapevole malinteso. Una parte, diremo così letterata e signorile, si componeva di persone appartenenti alle alte classi, come Caio Trebonio, Marco e Decimo Bruto, Sulpicio Rufo, Sulpicio Galba, Asinio Pollione, uomini cioè di fine educazione, di notevole coltura e ricchezza, di vita almeno decente secondo la morale dei tempi; che o si erano riconciliati con lui dopo Farsaglia per necessità e amore di pace o lo avevano seguito sin dai primi tempi per simpatia personale, per soverchia fretta di ambizione, per disgusto del malgoverno presente, per avversione allo spirito di superbia e di durezza irradiante in tutto il partito conservatore degli ultimi superstiti autentici della aristocrazia romana; ma che eran stati educati e vivevano tra i signori, le persone colte, i nobili; che avevano i sentimenti, le idee, i pregiudizi, gli interessi delle alte classi, e che volevano sì un governo democratico e generoso con il popolino, non la demagogia o la rivoluzione che turbasse le alte classi nel sicuro godimento delle ricchezze, della cultura, dei piaceri. Un’altra parte invece e molto più numerosa, era formata di avventurieri, di malcontenti, di condannati, di esaltati, di spostati, di indebitati, di uomini venuti da tutte le classi, altissime e infime, spesso intelligenti ed energici, non di rado ignoranti, quasi sempre senza principî nè personali nè di classe e incitati dal solo desiderio di soddisfare la propria ambizione, come Dolabella, come Vatinio, coma Antonio, come Fufio Caleno e Ventidio Basso, come Oppio e Cornelio Balbo, come Faberio, il suo abile ma poco scrupoloso segretario. L’ordine pubblico, i diritti e la tranquillità delle alte classi importavano molto meno a questi, che pur di accrescere la propria potenza erano disposti a soddisfare i rancori, le rabbie e i più stravaganti desideri della popolazione povera. La contradizione restò latente sinchè durò la guerra per la conquista del potere; e Cesare si studiò di dissimularla con la sua alterna politica, ora aizzando la demagogia ora civettando con i conservatori: ma scoppiò invece appena il potere parve conquistato, sul principio del 47. La miseria era cresciuta spaventosamente; era cresciuta la disperazione dei debiti e degli affitti non pagati; Dolabella, che era il più indebitato dei tribuni della plebe e un giovinotto senza giudizio di 22 anni sebbene avesse già moglie da tre anni e anzi fosse in procinto di far divorzio, non si lasciò spaventare dalla sorte di Celio, ma incoraggiato dallo avvilimento del vecchio partito conservatore dopo la disfatta di Farsalo e dalla mezza anarchia in cui versava lo Stato per la mancanza dei magistrati maggiori, considerando che Antonio e i tribuni della plebe non avrebbero potuto fare opposizione, il primo perchè poco autorevole, gli altri perchè magistrati ormai per tradizione popolarissimi, deliberò di soddisfare l’esasperazione della parte più inquieta e povera non solo del partito cesariano ma dell’Italia, e di procurarsi una immensa popolarità, riproponendo in gennaio le leggi di Celio, sul condono degli affitti e sull’abolizione dei debiti. I proprietari di case, tra i quali era pure Attico, e i ricchi capitalisti tremarono: ecco sopravveniva a un tratto la rivoluzione sociale, temuta al principio della guerra civile e il cui pericolo poi per un momento pareva esser svanito; Cesare, che pure aveva mostrato di voler rispettare la proprietà, era lontano; il partito conservatore era distrutto e nessuna autorità restava più a mantener l’ordine. Ma ben presto apparve che in una democrazia mercantile la ricchezza ha molte difese invisibili contro la demagogia, oltre le minaccie delle leggi e i muscoli dei soldati. Il partito di Cesare si divise in un partito conservatore e in un partito rivoluzionario. La parte fina e letterata dei cesariani, sospinta dalle amicizie personali, dalle esortazioni dei ricchi, dagli scrupoli morali e giuridici, dalla vergogna di esser considerati nel proprio mondo come partigiani della canaglia, si volse contro queste leggi; i tribuni della plebe Trebellio e Asinio Pollione, il Senato si opposero alla proposta; Antonio indifferente in cuor suo ma lusingato e adulato dai ricchi esitò a lungo non sapendo per chi parteggiare; sinchè la moltitudine degli artigiani, dei piccoli mercanti, dei liberti cui da due anni scarseggiava il guadagno, che erano costretti perfino a rivendere parte del grano avuto nelle distribuzioni pubbliche e vivevano sotto la minaccia di esser scacciati di casa dal padrone cui non pagavano l’affitto, esasperati dalla miseria, proruppero in tumulti728. Il Senato sospese la costituzione e incaricò Antonio di mantener l’ordine, chiamando i soldati in Roma729. Ma Antonio esitava ancora. In quella dovè andare in Campania dove le legioni reduci dalla Grecia, fatte prepotenti dalla guerra civile e dalla lontananza di Cesare, si ribellavano volendo il congedo e le ricompense tante volte promesse730; ma quando, pacificatele a stento, ritornò a Roma, i tumulti ripresero di nuovo incoraggiati dalla rivolta dei soldati. Dolabella continuava la agitazione, non soltanto con i discorsi e tributando onori alla memoria di Clodio, ma con le spade, battagliando con bande contro Trebellio; e a Cicerone che aveva sperato di nobilitarsi sposando a lui Tullia, toccava quest’altra suprema amarezza: di vedere suo genero emular Catilina! Antonio allora si risolvè, pare anche per motivi personali, perchè sospettava che Dolabella – povera Tullia! – fosse amante di sua moglie, a parteggiare per il partito dell’ordine; e incominciò a reprimere rigorosamente i disordini: ma Dolabella non si spaventò; anzi il giorno in cui portò la legge in discussione ai comizi, fece dai suoi partigiani asserragliare il foro per non essere disturbato. Allora il violento e sanguinario Antonio, già eccitato da queste zuffe, vide rosso, slanciò i soldati alla conquista del foro, rovesciò tutti gli ostacoli e disperse le bande ammazzando 800 persone731. Non si era veduto da un pezzo tanto macello in Roma! Per il momento l’agitazione del popolino languì, tanto terrore incuteva Antonio alla folla; ma le alte classi di Italia erano sgomentate da questi eventi, proprio mentre notizie più precise venivano dall’Africa: Catone, Scipione, Gneo Pompeo, Labieno vi avevano raccolti gli avanzi dell’esercito pompeiano; avevano fatta alleanza con Giuba, re di Numidia, ormai così compromesso nella amicizia di Pompeo da dover combattere sino all’ultimo contro Cesare; reclutavano arcieri, frombolieri, cavalieri galli; accumulavano armi, molestavano con la flotta la Sicilia e la Sardegna; tentavano di volgere a loro favore le popolazioni spagnuole malcontente del governo di Quinto Cassio. Nel tempo stesso in cui un nuovo esercito si disponeva a combatter Cesare in Africa, sotto il comando supremo di Scipione, in Asia ricompariva ad un tratto dal piccolo regno del Chersoneso Farnace, il figlio di Mitridate, alla testa di un esercito, per riconquistare i regni di suo padre, e sconfiggeva Domizio Calvino. Le speranze che avevano allietata nell’autunno del 48 la nazione italiana, omai stanca di discordie politiche, di guerre civili, di crisi periodiche, si eran mutate a primavera del 47 in un grande sconforto: la rivoluzione sociale stava per scoppiare in Italia, la guerra civile per riaccendersi in Africa, l’impero d’oriente per essere disputato a Roma dalla stirpe di Mitridate : ma di Cesare non si sapeva nulla....

Finalmente verso la fine di aprile732 si seppe per notizie private che Cesare, ricevuti i rinforzi, si era, il 27 marzo733, impadronito di Alessandria, dopo una battaglia sanguinosissima. Tutti credettero che egli sarebbe tornato subito in Italia; e le sedizioni già languenti si calmarono a Roma come per incanto734. Invece passano i giorni, le settimane e nessuna notizia ufficiale della sua vittoria arriva735, nessuna notizia nemmeno della sua partenza da Alessandria736. I tumulti ricominciano a Roma737; le dicerie più diverse corrono sulle cagioni di questo ritardo; il credito di Cesare diminuisce a tal segno che molti amici inquieti gli mandano lettere supplicandolo di tornare senza indugio, molti anche partono per andare a cercarlo ed affrettarlo al ritorno738. La situazione diventò ben presto così pericolosa che gli amici di Cesare fecero votare dal popolo alcune leggi intese a ributtar giù il coraggio rinascente negli amici di Pompeo: che Cesare avesse facoltà di far la guerra e la pace con ogni popolo, di trattare i partigiani di Pompeo come volesse739. Cesare invece, riconquistata Alessandria e dato il trono dell’Egitto a Cleopatra (Tolomeo era morto durante la guerra), aveva intrapreso con lei un viaggio nell’Alto Nilo740 e prolungava per due mesi tra festini e banchetti, sollazzi e voluttà, con la regina che era incinta, la sua avventura galante e guerresca; sinchè solo ai primi di giugno741 partì per la Siria dopo essersi fatta promettere una visita di Cleopatra a Roma; e dopo aver perduti per i belli occhi della Egiziana nove mesi preziosi742 in un tempo in cui i giorni contavano per anni e gli anni per secoli.... Ad Antiochia trovò fasci di lettere ed un gran numero di personaggi che lo invitavano a venire subito in Italia. Ma ci fu un nuovo ritardo. Cesare non volle ritornare in Italia se non dopo aver riordinato alla meglio l’Oriente; e con una velocità prodigiosa, passati alcuni giorni ad ordinare le cose della Siria e a spedire ordini per la campagna contro Farnace che egli intendeva far subito, lasciò Antiochia ai primi di luglio, incontrò alle foci del Cidno la squadra pompeiana comandata da Caio Cassio il quale aveva passato gran parte del tempo a studiare eloquenza a Rodi con Bruto743 e che gli si arrese; sbarcò a Efeso e con poche forze andò incontro a Farnace che sconfisse interamente il 2 agosto, a Zela744; non tralasciando, pur in mezzo a così rapide corse di levar contribuzioni e far denari a tutti i modi, a Cipro ad esempio portando via tutti gli oggetti d’oro del tempio di Ercole745. Vinto Farnace, tenne a Nicea una dieta, distribuì regni e possessi facendosi dare in cambio molti ricchi regali dai re dell’Oriente, senza però usar rappresaglie contro quelli che avevano combattuto a Farsaglia contro lui; ascoltò le difese che di Deiotaro, re di Galazia, fece Bruto, il quale lo aveva seguito; poi, per la Grecia e Atene ritornò in Italia, sbarcando a Taranto intorno al 24 settembre746; ricevè cordialmente Cicerone che gli era venuto incontro; e rientrò a Roma.

Finalmente! Ma gli animi non erano più così bene disposti come un anno prima. La rivolta latente delle legioni e gli armamenti dei Pompeiani rifacevano molti dubbiosi dell’esito definitivo della guerra; la lunga assenza e le dicerie sui suoi amori con Cleopatra gli avevano nuociuto nella considerazione di molti; l’esaltazione del popolino e la tentata rivoluzione di Dolabella facevano temere di nuovo che anche questa guerra civile finirebbe con violente spoliazioni dei ricchi. Disgraziatamente egli stesso tornava in Italia non solo irritato contro le alte classi per la nuova guerra che gli avanzi del partito aristocratico gli avevan preparata in Africa; ma con intenzioni mutate e ambizioni accese, non più contento di occupare il luogo lasciato vuoto da Pompeo, come primo cittadino della repubblica. Per quanto è lecito presumere, il soggiorno di Alessandria, la relazione con Cleopatra, le feste e il lusso e gli omaggi egiziani avevano risvegliato in lui il desiderio di goder qualche cosa di simigliante in Italia; se non l’ambizione di diventar monarca, almeno quella di instaurare in Roma un potere personale, duraturo, libero da tanti impedimenti che nelle vecchie leggi repubblicane nascevano dal principio della eguaglianza politica di tutti i cittadini. D’altra parte non solo la nuova guerra in Africa era il premio della sua moderazione; ma le rivolte delle legioni nella imminenza di una nuova guerra non potevano non inquietarlo straordinariamente, quando ancora non aveva i mezzi di mantener le vecchie promesse e alle richieste di oro non poteva soddisfare che con nuove parole. Cesare capì che gli bisognava far qualche cosa molto popolare e gradita alle moltitudini, da cui uscivano e tra cui vivevano i soldati; mostrare il proposito di favorire le classi povere che potevan dargli legionari, elettori e la forza invincibile di una popolarità immensa. Infatti mentre tutti credevano che premierebbe Antonio e ucciderebbe Dolabella, egli mostrò pubblicamente di aver questo in grande favore e di essere in collera con l’autore delle terribili repressioni, in cui eran periti 800 plebei747: non solo, ma adottò addirittura una parte delle proposte di Dolabella; non l’abolizione universale dei debiti ma il condono per un anno degli affitti sino a 2000 sesterzi in Roma, e a 500 nelle altre città d’Italia748. Non volle però accettare la nomina a console per cinque anni749; proibì per legge di ipotecare oltre una certa parte della proprietà e obbligò i capitalisti a investir una parte dei loro capitali nel suolo750; impose prestiti forzosi ai ricchi privati e alle città751, pose in vendita i patrimoni di molti caduti nelle guerre civili, tra gli altri quello di Pompeo752: rappresaglia contro i figli di lui e gli altri ostinatisi a una nuova guerra, che parve crudele alle alte classi nelle quali la memoria del vinto di Farsaglia durava ancora pietosa. Antonio acquistò il palazzo di Pompeo, sperando di non pagarlo, e intanto incominciò a far man bassa sulle collezioni d’arte e sui mobili, a vuotar le ricche cantine. Cesare presiedè, invece del console, alle elezioni dei magistrati per l’anno 47 e 46, cioè fece in realtà nominare chi volle e distribuì le propreture; ricompensando largamente i suoi fedeli. Vatinio e Galeno furon consoli per il 47; per l’anno 46 egli e M. Emilio Lepido; tra i pretori era Irzio; nella Gallia Transalpina fu lasciato il suo prediletto Decimo Bruto; nella Gallia Cisalpina fu mandato M. Bruto, che egli prese a favorire per riguardo a Servilia; nella Spagna Ulteriore C. Trebonio, nella Citeriore il suo nipote Q. Pedio e Q. Fabio Massimo; in Acaia Servio Sulpicio Rufo, il giurista che aveva fatta la legge elettorale contro Catilina; nell’Illiria Publio Sulpicio Rufo; in Bitinia Pansa. L’Asia toccò al proconsole P. Servilio Isaurico753. Di lì a poco, quando Cesare ebbe mandato Sallustio alle legioni di Campania per condurle in Sicilia promettendo loro mille denari, lo spavento del militarismo rivoluzionario si rinnovò: i soldati si ribellarono di nuovo, per poco non ammazzarono Sallustio e precipitarono in grosse torme a Roma, uccidendo sulla loro via due senatori, rubando e devastando. Cesare dovette farle entrare a Roma; e riuscì a stento a tranquillarle754. Ma la fretta di finir la guerra in Africa era tanta, che verso la fine di novembre lasciò Roma, ai primi di dicembre755 andò in Sicilia, giunse il 19 a Lilibeo756, si imbarcò con sei legioni il 25 e il 28 sbarcò ad Adrumeto757, incominciando subito la guerra.

Egli lasciava in Italia non solo le alte classi malcontente e inquiete ma il suo partito diviso in una fazione aristocratica e in una fazione demagogica. Alla prima si era aggiunto, dopo il perdono, Cassio. Dalle cruente lotte per le leggi di Dolabella era nato tra queste due fazioni un odio e un disprezzo profondo, che la nuova politica popolare di Cesare rinfocolava, sotto apparenza di sedarli; e che sarebbe cagione di eventi immensi.

XVI.
I TRIONFI DI CESARE.
(Anno 46 a. C.)

I mesi che Cesare guerreggiò in Africa, passarono lenti e tormentosi per le alte classi dell’Italia, così per la piccola parte che viveva nella politica, come per quella, più numerosa, che si dava agli affari. Grande e ansiosa era l’incertezza sulle intenzioni di Cesare. Che cosa avrebbe egli fatto, quando l’estrema resistenza dei Pompeiani fosse vinta? Avrebbe continuata la tirannide demagogica nemica ai ricchi, incominciata con la vendita dei beni dei Pompeiani, con la legge sugli affitti, con la protezione di Dolabella? È vero che dal principio del 46 egli non era più dittatore758; ma non si sarebbe fatti attribuire nuovi onori straordinari, dopo la vittoria purtroppo non dubbia? I ricordi di Silla, rinfrescati dagli ultimi eventi, alimentavano le inquietudini: gli uomini politici che avevano parteggiato per Pompeo e per il partito conservatore temevano di essere esclusi per sempre dalle magistrature; i ricchi, di esser spogliati dei beni; la parte più eletta degli stessi cesariani, di veder troppo potente il partito rivoluzionario e demagogico. Come nelle giornate incerte di primavera, l’aria e la terra si oscurano quando un nuvolone copre il sole, e poi l’aria e la terra brillano lietamente e poi di nuovo si oscurano; così allora nell’anima dell’Italia si succedevano nubi di melanconia che noi vediamo ancora, dopo tanti secoli, passar sui libri scritti in quei mesi dal più raffinato interprete del pensiero e del sentimento delle alte classi. Incitato da Bruto, al quale, dimenticate le questioni del proconsolato in Cilicia, si stringeva di amicizia sempre più intima, Cicerone aveva ripresa la penna759 e ricominciato sul principio del 46 a comporre in forma di dialogo tra Bruto, Attico e lui, secondo la imitazione platonica, quella storia della eloquenza romana che va sotto il nome di Brutus seu de claris oratoribus. Sin dalle prime pagine il dolore della rinata guerra civile fa invidiare a Cicerone la fortuna di Ortensio morto da poco, senza aver visto il foro deserto e muto760. Al principiar del dialogo però, Attico, il prudente banchiere, ammonisce che “non si parlerà di politica”761; ma invano, che le allusioni e i rammarichi scattano fuori ad ogni occasione. Bruto fa un vivo elogio del primo console della repubblica che aveva distrutto la monarchia762 e dal quale Attico, gran dilettante di archeologia, aveva dimostrato che Bruto discendeva per linea paterna; più avanti parla con lode di Marcello, il console del 51, il nemico di Cesare che si appartava nel suo lontano esilio a Mitilene, lungi da queste “comuni e fatali sciagure”763. Ed ecco arrivar le notizie dall’Africa; la guerra era finita il 6 aprile con la battaglia di Tapso vinta da Cesare, il quale però, questa volta, non aveva perdonato: Fausto Silla, L. Afranio, L. Giulio Cesare, venuti in potere di lui, erano stati messi a morte; L. Manlio Torquato, M. Petreio, Scipione si erano uccisi; solo Labieno e Gneo Pompeo erano fuggiti in Spagna, Catone ad Utica. Molti nella alta società piansero per questi amici perduti: ma cagione di maggior dolore e scandalo fu la prontezza con cui la cricca degli amici più ambiziosi di Cesare approfittò della vittoria per fargli decretare, come gli uomini savi temevano, i più straordinari onori: che egli fosse nominato dittatore addirittura per dieci anni, che gli si attribuisse la potestà censoria per tre anni, sotto il titolo di Præfectura morum764; che egli avesse il diritto di proporre i candidati alle magistrature le cui elezioni erano presiedute dal console, tutti cioè fuori che i candidati al tribunato e all’edilità della plebe765. Nemmeno i più pessimisti avrebbero supposta tanta audacia! La dittatura decennale in special modo pareva una mostruosa tirannide quasi monarchica a persone cui la tradizione aveva insegnato un odio così intenso del potere assoluto e delle magistrature singole, lunghe e irresponsabili766; era certo: a questa dittatura seguirebbe un chiuso e rapace governo di consorteria, di confische, di violenze. Ma non era possibile opporsi: tra gli amici di Cesare la piccola cricca degli avventurieri voleva aumentarne il potere per accrescere nel tempo stesso il suo; e questa, con i pochi fanatici ammiratori e i molti impudenti adulatori dell’uomo che ormai, come Silla, era a capo di tutte le milizie dell’impero personalmente a lui devote, prevaleva nel Senato e nei comizi sulla pavida incertezza dei più, sugli stessi partigiani più moderati di Cesare, che, pur disapprovando in cuor loro, non osavano opporsi apertamente a chi pareva signore di tutto. La servilità che aveva accolto in Italia Silla dopo la vittoria, andrebbe ora incontro al reduce vittorioso dall’Africa!

Il libro diventa più malinconico; e basta che Bruto ricordi L. Manlio Torquato, che Cicerone l’ammonisce di tacere; “dolorosa è la memoria dei mali passati e più dolorosa ancora l’aspettazione dei mali futuri767”. Alla fine Cicerone ritorna a invidiar la sorte di Ortensio; a rammaricare che il suo viaggio terreno finisca in questa “notte della repubblica” e quasi a compianger Bruto che, troppo giovane, dovrà vedere un seguito infinito di mali anche maggiori768. Il libro incupisce a mano a mano che si volge alla fine; e piene di tristezza sono le lettere scritte in questi mesi da Cicerone a Varrone769. Crucci privati lo avvilivano, oltre i guai pubblici. La sua Tullietta non poteva più vivere con lo scioperato Dolabella; con Terenzia, era incominciato per ragioni poco chiare uno di quegli strani litigi tra vecchi coniugi, in cui si sfoga a volte la irritabilità senile, cosicchè Roma stava per vedere uno spettacolo singolare: il padre e la figlia divorziare insieme770; ora che l’ardore delle dispute forensi e politiche, il trasporto delle speranze ambiziose, la compiacenza di essere un gran personaggio non lo distraevano più, il fastidio della mezza povertà in cui era caduto e gli affari suoi tanto intralciati lo angustiavano maggiormente. A Cicerone, che non era un uomo senza famiglia, come quasi tutti i grandi del tempo suo, queste tribolazioni private toglievano gli ultimi avanzi della energia necessaria alla lotta. Non restava che consolarsi attendendo agli studi; risolvendo i molti dubbi sulla storia antica di Roma che gli proponeva Attico, gran dilettante di archeologia e compilatore, tra l’uno e l’altro affare, di una storia per annali di Roma; compiacendosi anche di vedere la considerazione in cui lo tenevano gli uomini più insigni e colti del partito di Cesare; i quali cercavano di usar cortesia al grande oratore e al filosofo del De Republica, e lo invitavano quasi ogni giorno a banchetto771. Dolabella e Irzio anzi venivano a prender lezioni di eloquenza e cercavano di rallegrarlo con buoni pranzi772; Dolabella in special modo, di cui restava amico non ostante i suoi torti verso Tullia, poichè, con il brio della inesauribile allegria giovanile, sapeva farsi perdonare la perversità dal vecchio oratore, come da Cesare, come da tutti gli uomini e specialmente da tutte le donne di cui era amico773. Indebolito dagli anni e dai crucci, Cicerone accettava gli inviti per consolarsi, sebbene ne sentisse rimorso di tempo in tempo, quando gli eventi gli rinnovavano il dolore della gran catastrofe in cui tanti amici erano spariti: ultimo tra tutti Catone. Il vecchio aristocratico aveva finita la vita con la stessa inflessibile ostinazione con cui l’aveva vissuta. Incaricato, dopo la battaglia di Tapso, di difendere Utica, egli aveva capito come ogni resistenza fosse inutile; e non volendo accettare il perdono di Cesare, una sera, tranquillamente, dopo aver disposto tutte le cose sue, aveva salutato il figlio, si era ritirato nella sua camera, aveva letto lungamente il Fedone; poi si era trafitto. I familiari accorsi al suo rantolo lo trovarono agonizzante774.

Cesare, intanto, annesso all’impero il regno di Giuba e levate grandi contribuzioni di denaro, partiva da Utica il 13 giugno, sbarcava il 16 a Cagliari e vi si tratteneva fino al 27, mandando di là Caio Didio e soldati in Spagna a perseguitare gli ultimi avanzi del nemico, ma per l’impedimento dei venti contrari non potè rientrare in Roma che il 25 luglio775; aspettato dalle alte classi con un malumore ansioso, misto di vecchio odio, di paura e di invidia nuove, che i grandi onori decretati di recente avevano accresciuto. Qualcuno sperava una restaurazione delle istituzioni repubblicane, ora che la pace era ristabilita: i più temevano una tirannide aperta, violenta e rapace. Ben presto gli uni e gli altri si accorsero di avere errato. Certamente Cesare non intendeva più ritornare a vita privata; perchè sebbene avesse incominciata la guerra non per ambizione del supremo potere, ma per conquistare una condizione onorifica e sicura nella aristocrazia repubblicana, ora il successo, la dimora in Egitto, lo spirito rivoluzionario di spregio delle antiche tradizioni romane che ferveva in Italia e si mostrava in tante forme, dai nuovi gusti letterari della gioventù alla progrediente imitazione dei costumi orientali, avevano risvegliati in lui desideri più audaci. Cesare non era un voluttuoso scettico come Silla; nè un comodo dilettante come Pompeo: era uno spirito inquieto e ardente cui la febrile alacrità, il lavoro soverchio, le commozioni intense erano diventate bisogno. Finalmente, dopo essersi tanti anni arrovellato per aver mezzo di compire qualche impresa memorabile, egli poteva ora comandare a un esercito, mettere nelle magistrature persone fidate, disporre di grandi somme! Rinunziare, tornando alla vita privata, ad attuare i grandi disegni in cui si esaltava il suo spirito, era duro, tanto più che egli aveva preso gusto, se non a tutti, a qualche piacere della onnipotenza. Non al lusso o alla servilità: ma, se egli fosse ritornato uomo privato, sarebbe Cleopatra venuta al convegno che gli aveva dato in Roma?

Ma avesse pur voluto rinunciare al potere supremo, Cesare era, per dir così, prigioniero della sua vittoria, e non avrebbe potuto. Egli aveva vinto, esaltando nelle moltitudini con audacia disperata, come Silla, la passione più fervida e pericolosa dell’era mercantile, la cupidigia; promettendo ai soldati mari e monti, privilegi, terre, denaro, accavallando le promesse come ondate, una più grossa dell’altra; le promesse di Spagna su quelle di Rimini, le promesse di Brindisi su quelle di Spagna, su quelle di Brindisi le nuove e maggiori promesse fatte dopo la sconfitta di Durazzo. E tutti si erano fidati, faticando a credenza, rassicurati dalla sua splendida fama di generosità. Ora però bisognava mantenere. Tutte le altre parole sue egli poteva adesso disdire, come fole date ad intendere agli sciocchi per vincere; non queste promesse fatte ai trenta o quarantamila uomini che lo avean seguito dalla Gallia o eran passati a lui dal nemico; e che da tre anni sognavano di poter presto campar tranquilli di rendita sulle terre e con i denari ricevuti da lui. Le ultime rivolte delle legioni, impazienti di ricevere le ricompense, dimostravano che non si poteva tentar di deludere queste moltitudini, esaltate in modo indicibile dalle promesse e dalla guerra civile, smaniose, pronte a violenza, senza scatenare una rivoluzione militare che avrebbe travolto lui prima di ogni altro; e alcuni piccoli contrasti recenti gli facevano intravedere a quali pericoli si esporrebbe, non soddisfacendo appieno gli smodati appetiti dei suoi più fedeli partigiani. Così Antonio, perchè egli voleva obbligarlo i pagare i beni di Pompeo acquistati all’asta, empiva allora Roma di invettive e di minaccie contro lui, si diceva perfino avesse cercato di armare un sicario!776 Come Silla, egli era personalmente responsabile verso tutti delle promesse fatte e anche delle speranze chimeriche concepite da molti; e come Silla, egli non poteva, prima di aver ricompensati partigiani e soldati, abbandonare il potere supremo, che era il solo mezzo efficace per mantener le promesse. Come avrebbe provveduto sollecitamente a premiare i vincitori il governo del Senato e dei magistrati repubblicani, già così lento per sè e nel quale avrebbero presto riacquistato potere i vinti?

Ricompensare i “compagni”, come egli li chiamava; appagare questo corpo esigente di aspiranti a laute pensioni, formatosi durante la guerra civile, era la più intralciata faccenda che la vittoria legava al vincitore, quasi ad espiazione. Cesare non aveva voluto nè poteva imitare le stragi di Silla; perchè, sebbene di pochi scrupoli nel pericolo e nel bisogno, non era però crudele e pazzo; e aveva sentito anche nel trionfo che in quaranta anni il sentimento pubblico si era raffinato, inclinando ormai alla conciliazione, alla concordia, alla pace; perchè aveva vinta non una rivoluzione ma una guerra civile, nata per le rivalità di clientele politiche in un paese tranquillo e desideroso di pace; nel quale grandi stragi e confische lo avrebbero presto infamato anche tra coloro a cui vantaggio fossero fatte. Ora a pensionar tanti veterani con terre e denaro, senza procedere a confische, in Italia, era necessaria una vasta operazione che richiederebbe gran tempo. Cesare lo capiva; e la consapevolezza di questa difficoltà, la tranquillità sopravvenuta nuovamente dopo la vittoria di Tapso, il malcontento delle alte classi per gli onori decretatigli e specialmente per la dittatura decennale, lo disponevano di nuovo a prudenza e moderazione. Sembra che in questo momento fuggitivo di calma in mezzo alla procella che ne travolgeva lo spirito da tanti anni, Cesare concepisse il disegno di stabilire non un violento governo di partito o di classe, ma un governo equo e savio, che soddisfacesse i desideri ragionevoli e giusti di ogni classe e partito. Appena giunto, tenne un discorso al popolo e uno al Senato, nei quali celebrò la grandezza dei paesi conquistati in Africa, la loro fertilità, l’abbondanza di grano che avrebbero fornito a Roma; assicurò che avrebbe governato senza tirannide, come il capo del popolo777; non accettò subito la dittatura decennale778 contentandosi di essere soltanto console; accettò i poteri elettorali e la præfectura morum incominciando subito, tra l’aspettazione di tutta Italia, a fare e a disfare. Anzitutto trionfò per quattro giorni: il primo sui Galli, mostrando dietro al suo carro Vercingetorice che il giorno dopo fece strozzare soddisfacendo alla fine il rancore ingeneroso ma purtroppo umano contro colui che per poco non ne aveva rovinata la fortuna; il secondo giorno sugli Egiziani, il terzo su Farnace, il quarto su Giuba779. Ma molti che avevano osservato con ammirazione i tre primi trionfi, videro con dolore ostentati nell’ultimo le armi tolte ai Romani e rappresentati in modo offensivo quasi da sconcie caricature i principali nemici, anche Catone780, che dopo morto era diventato l’eroe della romanità e sul quale Cicerone stava scrivendo un elogio, sempre per incitamento di Bruto, di uno cioè dei più insigni rappresentanti della parte conservatrice tra gli amici di Cesare. Grande fu invece la gioia del popolino per i doni e le feste che seguirono. Cesare era tornato dall’Africa ben provvisto di denaro, con 600 milioni di sesterzi in moneta e molti metalli preziosi781; onde pagò a ogni cittadino i 300 sesterzi promessi nel 49; a ogni soldato 24 000 sesterzi; ai centurioni il doppio, ai tribuni il quadruplo782; diede un grande banchetto pubblico; fece una distribuzione gratuita di grano e di olio783. La moltitudine fu contenta; ma a molti spiacquero queste immani profusioni di oro e questo incoraggiamento pubblico alla gozzoviglia, che contrastavano tanto alle vecchie tradizioni di semplicità e di risparmio. Cagione di lieta sorpresa dovette essere invece la politica, con cui Cesare, per instaurare un governo imparziale di ragione e di giustizia, tentò curare il disordine morale e amministrativo, attuando la parte ragionevole del programma dei suoi nemici: ultima oscillazione dello spirito di Cesare verso la politica di moderazione; ultimo dei tanti sforzi fatti da lui per riconquistare il favore delle alte classi. Con la consueta rapidissima alacrità egli fece, aiutato da pochi amici e da pochi liberti, servendosi della potestas centoria o proponendo leggi ai comizi, un seguito di riforme piene di spirito conservatore: riformò i tribunali, dando loro una composizione più aristocratica784; modificò le leggi penali, accrescendo le pene contro i delitti785; sciolse le associazioni facinorose, i collegia di artigiani organizzati da Clodio, di cui pure si era tanto servito nella sua lotta contro il partito conservatore786; ridusse il numero di coloro che, in seguito alla legge di Clodio, partecipavano alle distribuzioni gratuite del grano787; publicò una legge suntuaria che frenava il lusso delle perle, delle lettighe, delle porpore788; volle contenere la emigrazione dei giovani dall’Italia, che rendeva così difficili i reclutamenti789. Tentò anche di riordinare i servizi pubblici; dispose per la coniazione di una moneta d’oro, l’aureus790; chiamò a Roma astronomi egiziani, per rettificare il calendario791; curò di riordinare le finanze imperiali, ristabilendo le dogane e rivendicando allo Stato le cave delle pietre da smeriglio di Creta che molti sfruttavano senza permesso e appaltandole792; incominciò a studiare la famosa lex Julia municipalis, di cui tanto parleremo in seguito e che doveva riordinare la costituzione amministrativa delle città italiane793. Riforme belle e opportune, che dovevan piacere a tutte le persone savie.

Molti, incoraggiati, si domandavano se egli avrebbe anche restaurate, nella misura, in cui era possibile, le istituzioni republicane. Cicerone che frattanto, finito l’elogio di Catone, aveva posto mano all’Orator794, si poneva ogni giorno questa dimanda; spiava ogni atto di Cesare, interrogava gli intimi, un giorno inclinando a sperar bene, un altro disperando. Aveva sperato molto fino alla metà di settembre, a segno che si era risoluto a smettere quello che per lui era quasi il lutto della republica, rompendo in settembre il silenzio tenuto in Senato, per domandare con un discorso pieno di elogi per Cesare il perdono di Marcello; anzi aveva in questo discorso alluso alla ricostituzione di un governo civile795. Ma poi sul finire di settembre, quando Cesare consacrò il tempio a Venere Genitrice, Cicerone e il pubblico videro con scandalo immenso la statua di Cleopatra accanto al simulacro della Dea, scolpito da Archesilao, uno dei più celebri scultori di Roma796; e dovettero assistere al nuovo tripudio di feste celebrate in quella occasione e più grandiose ancora che quelle del trionfo: caccie di fiere, combattimenti di gladiatori, rappresentazioni in tutti i quartieri e in tutte le lingue, affinchè la plebe cosmopolita potesse divertirsi tutta, una naumachia in un lago artificiale!797 Anche certi senatori, scelti da Cesare tra persone oscure – perfino aruspici di professione798 – spiacquero assai; spiacque l’indugio inesplicabile nel convocare i comizi, che furono invano aspettati dagli ambiziosi per il tempo consueto e nei mesi seguenti, cosicchè ad anno avanzato solo i tribuni e gli edili della plebe erano stati eletti; spiacquero ancor più certi abusi segreti. Così un giorno Cicerone ricevè i ringraziamenti di certi principi dell’Oriente per un senatusconsulto che egli avrebbe fatto approvare dal Senato; quando egli invece non conosceva nemmeno l’esistenza di quei personaggi799. La alacrità di Cesare si accelerava in una fretta impaziente: come aveva costretto Archesilao a esporre nel Tempio di Venere Genitrice la statua della dea non finita, per far subito l’inaugurazione800; così, spesso, precipitava le deliberazioni con procedimenti arbitrari che irritavano molte persone. Non piacquero nemmeno le nomine dei governatori per l’anno 45: erano, tranne pochi, i soliti amici di Cesare801, tra i quali alcuni molto odiati e malfamati tra i conservatori: come Vatinio; come Sallustio, che fatto dopo Tapso propretore della Numidia, vi era lasciato ancora un anno a rifar la fortuna dissipata a Roma con le donne. Cesare, come avviene agli uomini anziani, pieni di crucci e di cure, adoperava ormai quasi solamente uomini già conosciuti da molti anni come il fido Oppio, l’abile Balbo, Faberio l’intrigante, l’allegro Dolabella, Vatinio, Caleno, Decimo Bruto, il prediletto tra tutti802, che lo aveva salvato in Spagna e da due anni governava splendidamente la Gallia Transalpina, mantenendola in pace. Solo Antonio era caduto definitivamente in disgrazia e viveva oscuramente con Fulvia, la vedova di Clodio e di Curione che aveva sposata. Tempo e voglia di rinnovare questa compagnia, tra tante cure, mancavano a Cesare; onde molti antichi avversari, che pur avrebbero potuto aiutarlo, restavano in disparte, per diffidenza, per orgoglio, per la noia di dover farsi largo tra i vecchi e molto gelosi amici di Cesare; nella cui cerchia chiusa e angusta erano entrati pochi uomini nuovi: i figli di due sue nipoti, Quinto Pedio e Caio Ottavio e la famiglia di Servilia. Il figlio di lei Bruto, i due generi Caio Cassio e Lepido formavano nel partito di Cesare un piccolo gruppo aristocratico, colto e assai ben trattato dal capo; ma dei quali solo Lepido era veramente intimo di Cesare803. Quanto a Caio Ottavio, era costui un giovinetto diciassettenne, molto intelligente, che dopo la morte del padre e il secondo matrimonio della madre con Lucio Marco Filippo, era stato educato in casa della nonna, sorella di Cesare, e che questi aveva preso da qualche tempo a proteggere, sorvegliandone l’educazione, facendolo conoscere al popolo con distinzioni onorifiche, scegliendogli forse egli stesso, oltre ai maestri che già aveva, due nuovi precettori: Atenodoro di Tarso e Didimo Areo, quest’ultimo membro di quella scuola neopitagorica che noi abbiamo visto studiarsi di diffondere allora nel mondo romano una bella morale di austerità804. Ma il giovinetto era di salute delicata; anzi in quei mesi giaceva in letto per una grave malattia, che inquietava molto Cesare805.

I contemporanei giudicavano variamente queste contradizioni, attribuendole per lo più a segrete intenzioni di Cesare. In verità, invece, Cesare si stancava, smarriva la lucidezza, la coerenza, la risolulezza in un ondeggiare sempre più rapido di contradizioni. Le fatiche, le commozioni, la straordinaria tensione nervosa degli ultimi anni, l’esaltazione del successo, la illusione di forza che nasceva in lui dalla sua stessa stanchezza, lo incitavano ad assumersi un carico di responsabilità, a cui nemmeno egli poteva reggere. L’idea che un uomo solo, per quanto intelligente ed operoso, con pochi amici e liberti raccattati a caso sulle vie della fortuna in dodici anni di guerre e venture, potesse comporre nel vasto impero il disordine nascente da una lunga decomposizione e ricomposizione sociale, era chimerica. Vincere con un esercito il partito conservatore e le alte classi dell’Italia, infiacchite dagli egoismi che dissolvono tutte le classi troppo potenti, era stato facile: impossibile era invece a un uomo comporre con leggi gli immensi antagonismi di quella società avida, violenta, orgogliosa. Le difficoltà rinascevano l’una dall’altra, suscitate dalla stessa fretta faragginosa con cui egli tentava di vincerle; e l’irritazione, la fatica, le delusioni di questo immane lavoro ottenebravano quello squisito senso dell’opportuno e del reale, che era stato per tanti anni così lucido in lui. Qualche volta egli stesso diceva, come stanco, di aver già troppo vissuto806; i suoi intimi, Balbo ed Oppio, osservavano da un pezzo come egli diventasse ogni giorno più irascibile, impulsivo, bizzarro; come ogni accenno anche discreto alla opportunità di deporre parte almeno del potere lo adirasse ogni giorno di più; lo avevano anzi visto irritato a tal segno dallo scritto di Cicerone in lode di Catone, che voleva scrivere una risposta e aveva incitato Irzio a fare altrettanto. Eppure egli non voleva sentirsi dire che violava la costituzione, che sovvertiva la tradizione, che agiva contro lo spirito, se non contro la parola, delle leggi con cui gli era stato dato il potere. In quel tempo stava componendo i Ricordi della guerra civile che mirano ostinatamente a dimostrare come egli avesse osservata scrupolosamente la costituzione; come il partito nemico e non egli avesse dato di piglio nella roba e nel diritto dei cittadini. Ma a ogni mese che passava di questo lunghissimo anno, nel quale tante cose potevano compiersi perchè fu allungato a 15 mesi e a 445 giorni dagli astronomi che riformarono il calendario807, i fatti corrispondevano meno alle intenzioni e alle parole; sinchè verso la fine dell’anno egli commise un grave errore, ospitando in casa sua Cleopatra, venuta a Roma con gran seguito di servi e di ministri. Lo scandalo fu immenso, in Roma e in Italia808. Si sapeva da tutti che la sensualità di Cesare si era quasi riaccesa negli ultimi anni a desideri stravaganti di amori regali; che durante la guerra d’Africa egli si era distratto con Eunoe, moglie del re mauritano Bogud e le aveva fatto immensi regali809: ma questo adulterio ostentato innanzi a tutta Roma sdegnò il pubblico già malcontento e già tanto disposto a prendere ogni pretesto di critica. Siccome la vecchia famiglia latina compieva molte funzioni giudiziarie e disciplinari oggi riserbate allo Stato, la sua dissoluzione contribuiva ad accrescere il disordine dei tempi più che non faccia oggi, venendo meno per essa la punizione di molti reati delle donne e dei giovani a cui la legge non provvedeva ancora e la severità dei parenti non provvedeva più: onde era essa uno dei mali più incurabili e più lamentati dai contemporanei. Questo scandalo ravvivò i lamenti: si commiserò Calpurnia, sposata nel 59 per un intrigo politico, poi abbandonata dal marito vagabondo, ed ora costretta ad accoglierne in casa la amante; lamentevole esempio della sorte riserbata a tutte le donne dell’alta società che non fossero scellerate, viziose, dissolute. Alle oneste, come alla buona Tullietta, come a Cornelia vedova di Publio Crasso e di Pompeo, come a tante restate ignote, che altro toccava se non di essere immolate dai loro parenti alle proprie ambizioni politiche; di esser sposate, abbandonate, risposate da un anno all’altro, senza riguardo ad età o a qualità del marito; di cambiar casa, ancelle, compagnia, secondo le vicende della politica; di non aver sovente nemmeno la consolazione della maternità e di trovare nella casa del marito dei figliastri più vecchi di loro; di esser tradite con ogni sorta di etère e liberte? La vecchia virtù e semplicità latina sopravviveva ancora nelle donne; ma questa annoiava i corrotti politicanti delle alte classi e li faceva fuggire in cerca di amori più raffinati! Era un male dei tempi: uno dei tanti disordini, lamentevole ma inevitabile, di quel gran mutamento di civiltà che si veniva facendo; con il quale la donna contribuiva la parte di dolore che nel rivolgimento doveva esser sua. Ma questa volta il pubblico sfogò su Cesare il dolore per il male tanto diffuso e insieme l’invidia che desta sempre il vizio trionfante: non si poteva tollerare che il dittatore ostentasse i suoi disordini a quel modo!

XVII.
LE ILLUSIONI E LE DELUSIONI DI UNA DITTATURA.
(Anno 45-44 a. C.)

Il malcontento cresceva nelle alte classi, malevole verso ogni governo per l’incurabile indisciplina del loro orgoglio, fatte ancor più irritabili dai ricordi della guerra civile, dal dolore degli amici e dei parenti perduti, dall’ira della potenza scemata, dai danni subiti. Chi per le confische dei vinti aveva perdute speranze di eredità, e chi somme deposte nei templi di Italia o dell’Oriente; a moltissimi nuoceva la scarsità del denaro e la difficoltà del credito: Cesare poteva sforzarsi di dimostrare nei Ricordi della guerra Civile che non egli ma Pompeo aveva confiscati i depositi privati, che anzi per opera sua i tesori del venerabile tempio di Diana in Efeso eran stati salvi810; ma Pompeo era morto e i contemporanei sfogavano il malumore per queste perdite su lui che era vivo.

Soltanto un uomo dotato di pazienza e di agilità instancabili, di calma e di discrezione straordinarie avrebbe potuto governare in mezzo a tanti orgogli, rancori e malumori, a tanti contrasti di interessi e di ambizioni. Invece la moderazione costituzionale in cui Cesare aveva cercato di contenersi negli ultimi mesi, durò poco; e a quella seguì, verso la fine dell’anno, un subito rivolgimento, una irrequietezza, una impazienza, una fretta smaniosa di grandi imprese. Non solo l’esaltazione del successo e del potere, le adulazioni, la stessa stanchezza acuivano in lui il bisogno di commozioni violente, ne esaltavano il desiderio di gloria e l’ambizione di pareggiare con imprese immense Alessandro, ne assopivano la vigilanza del senso critico e della prudenza: ma la forza delle cose lo spingeva ad affrancarsi dai vincoli delle leggi, illudendolo che il potere assoluto fosse non ambizione sua ma necessità salutare dei tempi. Troppe impazienze di appetiti, troppe chimeriche attese di aiuti impossibili fervevano intorno a lui! La miseria dell’Italia era spaventosamente cresciuta; gran parte delle classi medie e del popolino eran ridotti dalla interminabile crisi alla disperazione; molti schiavi orientali abili nelle arti e nei mestieri erano liberati in tutta Italia dai padroni meno ricchi che, non potendo trarne profitto nella crisi, non erano in grado di mantenerli; la necessaria riduzione dei partecipi alle distribuzioni di grano accresceva il tormento; uno sterminato numero di miserabili soffriva la fame, in ozio forzato. Una terribile rovina pareva a tutti imminente, se non si portava qualche pronto rimedio; e il soccorso non poteva venire, secondo le idee antiche, che dallo Stato: ma, lo Stato era Cesare, ormai.... Quante cose magnifiche potrebbe egli fare! non solo rinvigorire la esecuzione della sua legge agraria del 59 che era stata applicata sino allora straccamente, con scarse deduzioni di coloni in Campania intorno a Calazia e a Casilino811; ma ripigliare addirittura la grande idea di Caio Gracco; restaurare le sedi della civiltà distrutte o malmenate dalla espansione conquistatrice di Roma; ricostruire Cartagine e Corinto; dedurre colonie nella Gallia Narbonese, a Lampsaco, in Epiro, a Sinope e ad Eraclea, sulle rive del Mar Nero ancor guaste e dolenti per la brutalità dei soldati e dei generali di Lucullo. Una guerra contro i Parti gli provvederebbe i capitali necessari a tanta opera; la vendetta di Crasso, la ricostruzione di Cartagine e di Corinto gli procaccerebbero gloria immortale e la deduzione di tante colonie una popolarità immensa; ma potrebbe egli compiere questi grandi disegni, dovendo rispettare i pregiudizi, le paure, gli interessi di quegli invidi e malevoli senatori di Roma, che in quel momento non badavano se non a rallegrarsi segretamente dei successi di Gneo Pompeo, a scrivere o a leggere con diletto maligno stupidi elogi di Catone? Anche Bruto scriveva una lode del suicida di Utica! Le lentezze costituzionali erano ormai insopportabili alla sua smania di fare, che la vecchiaia, l’esaltazione del successo, l’ambizione di gloria, il desiderio di popolarità esasperavano a precipitosa impazienza. Egli non voleva come Silla spogliare i ricchi per aiutare i poveri: ma quasi a compenso di questa moderazione, gli pareva legittima una usurpazione di grandi poteri che affrettasse ai miserabili il beneficio dell’attese riforme. Non è improbabile che qualche mutamento operasse nel suo spirito anche la visita di Cleopatra; di questa donna fatale che fu pur essa un personaggio figurativo dei più strani e importanti nella catastrofe della grande repubblica; e che, salita al trono quando il governo di Roma si riduceva nelle mani di un dittatore militare, aveva pensata una diplomazia nuova per conservare il regno. Che essa mirasse a farsi sposare da Cesare, è cosa molto verisimile se pure non ci è testimoniata da nessun documento sicuro; che essa con le seduzioni, con i discorsi, con l’esempio contribuisse a risvegliare in lui le ambizioni monarchiche, non è meno verisimile. Poteva pensare altrimenti una regina orientale, giovane, ambiziosa, avida di potere e di lusso? Certo è che Cleopatra era venuta a Roma con il bambino natole da poco e che essa diceva figlio di Cesare, per ottenere il permesso di dargli il nome di lui; e che quando partì da Roma, essa aveva ottenuto con altri regali e privilegi anche questa preziosa autorizzazione812. Eran sopravvenuti infine, ad accrescere l’instabilità spirituale di Cesare, nuovi guai dagli ultimi superstiti del partito nemico. Egli non avrebbe mai creduto che la prole di Pompeo potesse esser così tenace nell’odio. La guerra civile ricominciava in Spagna, dove Gneo Pompeo e Labieno erano riusciti, approfittando della popolarità di cui godeva il nome di Pompeo, dello scontento delle popolazioni per gli abusi dei governatori cesariani, del malumore di parecchie legioni, a reclutare un esercito e a conquistare gran parte della penisola; ma i luogotenenti di Cesare non riuscivano a vincerli e scrivevano a lui di venire in persona. Ben presto, le notizie dei successi di Gneo Pompeo accrescendo la irrequietezza già così grande dello spirito pubblico, Cesare dovè persuadersi esser necessario partire di nuovo.... Ma questa nuova spedizione, in quel momento, non poteva non irritarlo straordinariamente, perchè lo costringeva ad abbandonare a mezzo le riforme e l’Italia piena di disordine, perchè avrebbe ingrandito in tutti l’opinione del pericolo, e, mostrando non ancora definitiva la pace, accresciute le difficoltà già grandi in cui si trovava, il lavoro già immenso a cui doveva bastare.

Irritato dalla guerra di Spagna, irrequieto per la stanchezza, esaltato dall’ambizione, illuso dalla speranza di acquistare immensa popolarità adoperando i pieni poteri a vantaggio della moltitudine disagiata, Cesare mutò verso la fine dell’anno politica, abbandonò il disegno di un governo ragionevole e imparziale per quello di una popolarissima monarchia, ma bruscamente, senza preparare in nessun modo gli spiriti, con un rivolgimento violento e improvviso. Assunse la dittatura, scegliendo a magister equitum non più Antonio, ancora in disgrazia, ma il fido Lepido, che pure era già stato nominato governatore della Spagna Citeriore e della Gallia Narbonese e a cui, con immensa confusione, fu concesso di amministrar le provincie per mezzo di legati813; volle esser nominato console senza collega per l’anno 45814; differì le elezioni degli altri magistrati; mostrò apertamente di voler raccogliere in sua mano i sommi poteri dello Stato. E subito le alte classi, quasi a conferma del timore che il potere assoluto di Cesare significherebbe rivoluzione sociale a danno loro e a vantaggio dei poveri, videro rinnovarsi il vecchio spavento della legge agraria. A un tratto corse voce che Cesare faceva cominciare in varie parti d’Italia le misurazioni per procedere a una confisca di terre o a una spartizione tra i soldati simigliante a quella di Silla815. Ben presto si seppe che questi timori erano soverchi. Cesare sceglieva tra i suoi amici una commissione per cercare in Italia e nella Cisalpina terre da distribuir ai soldati secondo la sua legge agraria del 59, in luogo della vecchia commissione. A più riprese immense porzioni del demanio pubblico erano state mutate in proprietà privata; ma con tanta fretta e disordine che ancora qualche avanzo restava, in possesso dello Stato o usurpato dai privati, specialmente in Etruria e nel territorio leontino e campano; e questo avanzo Cesare voleva dividere tra i suoi veterani, aggiungendo terre comprate dai privati816, con la condizione stessa posta dai Gracchi che non fossero venali se non venti anni dopo, per impedire le pronte e spensierate vendite817. Egli riprendeva insomma anche in questo disegno l’idea, un poco invecchiata, dei Gracchi. Gli animi si tranquillarono alquanto; ma dopochè, verso la fine dell’anno, egli fu partito per la Spagna senza aver convocati i comizi818, e mentre tutti si aspettavano a Roma che egli provvedesse dal viaggio alle magistrature nei modi legali, ecco arrivare un’altra sorpresa: la nomina di otto Praefecti urbi, i quali avrebbero adempiute tutte le funzioni dei pretori e alcune dei questori, come l’amministrazione dell’erario, sotto la direzione di Lepido nominalmente, in verità anche di Cornelio Balbo e di Oppio819. Egli costituiva così, a un tratto, inaspettatamente, quello che noi chiameremmo adesso un governo di gabinetto, nel quale il popolo e il Senato non contavan più nulla; e nel tempo stesso, a preparare idealmente la distruzione del governo repubblicano, scriveva in viaggio un libro contro Catone per confutare l’ideologia repubblicana che pareva rifiorire; si risolveva definitivamente a fare, dopo la guerra di Spagna, una guerra contro la Persia per vendicare Crasso e la onta di Carre820. Una grande vittoria in Oriente sarebbe il preludio alla instaurazione di un governo personale821.

Questo subitaneo mutamento di Cesare irritò in modo straordinario le alte classi dell’Italia; anche la parte più signorile ed eletta del partito di Cesare822, che da un governo personale e demagogico temè la definitiva vittoria della parte più rivoluzionaria e violenta. La concessione del nome suo al figlio di Cleopatra fu giudicata acerbamente823; la nomina degli otto praefecti urbi parve uno dei maggiori arbitrii a cui si fosse assistito824. In quella avvenne un caso atroce e pietoso; Marcello, il console del 51, fu misteriosamente assassinato ad Atene, mentre tornava a Roma, in seguito al perdono di Cesare. Subito il dittatore fu accusato sommessamente di averlo fatto uccidere a tradimento, per vendicarsi, mentre pubblicamente fingeva di perdonare. Indignò anche la divulgazione dello scritto contro Catone, acre, calunnioso, bilioso; e se Cicerone, beato per i molti elogi di lui contenuti nello scritto, mandò per mezzo di Balbo e di Dolabella una lettera di ringraziamento calorosa, non osò di farla leggere prima ad Attico825. Molti erano inquieti per la rinnovazione delle leggi agrarie, la quale risvegliava nel popolino un fermento di speranze, di desideri, di illusioni che potrebbe un giorno diventar pericoloso per tutti; non pochi erano inquieti pure per le ricerche delle terre pubbliche che, se fatte con soverchio rigore, potevano nuocere a molti; cosicchè tutti i commissari erano tempestati di raccomandazioni e di suppliche dai proprietari, dai loro amici, dai parenti che intercedevano826. Troppo vivo era in tutti il desiderio di possedere in Italia, dove il suolo era sottoposto a un regime giuridico privilegiato, non pagava imposta fondiaria salvo il tributum o prestito forzoso e straordinario di guerra, e poteva essere posseduto in piena e assoluta proprietà privata; mentre nelle provincie il suolo apparteneva a Roma, e gli abitanti, i quali ne avevano il possesso più che la vera proprietà, potevano esserne spogliati a ogni momento. Balbo ed Oppio scrivevano e riscrivevano un poco inquieti a Cesare e cercavano intanto di placare con gentilezze e buone maniere gli uomini più insigni, specialmente Cicerone, sulla cui vita pareva scendere l’uggia di una triste serata, il cruccio di una vecchiaia piena di amarezze. Egli si era ammogliato di nuovo con Publilia, una ricca giovanetta di quattordici anni, sul finire del 46827; ma sul principio del 45 era stato colpito da una grave sciagura: Tullia era morta di parto, dopo il divorzio828. Afflittissimo, il vecchio si era volto risolutamente, per consolarsi, a porre in esecuzione un disegno forse vagheggiato da un pezzo, ma dal quale le vicende politiche lo avevano sempre distratto: riassumere la filosofia greca in un seguito di dialoghi simili a quelli di Platone, nei quali interloquissero tutti i grandi personaggi romani delle ultime generazioni, dal vecchio Catone a Lucullo e a Varrone. Cicerone, che possedeva un grande ingegno letterario e drammatico, avrebbe potuto creare, sviluppando questa magnifica idea, un capolavoro della letteratura, plasmando e animando per l’eternità, nel riposo di intimi dialoghi filosofici, queste figure che la storia ci rappresenta soltanto fra guerre e contese politiche. Ma sarebbe stato necessario l’agio di un lavoro continuo e tranquillo; e invece, quante brighe e distrazioni! Egli doveva continuamente sollecitar Dolabella a pagare le rate della dote di Tullia; si crucciava per trovare i denari con cui erigere alla figlia un mausoleo sontuoso; si poneva sempre la gran questione delle intenzioni di Cesare; ne scriveva di continuo a Bruto tornato da poco dal governo della Gallia Cisalpina, e del quale egli, sempre caloroso ed ingenuo nelle amicizie, era diventato negli ultimi tempi amicissimo; leggeva e rileggeva continuamente i grandi trattati della politica greca; leggeva specialmente le lettere che Aristotele e altri dotti greci avevano scritto ad Alessandro Magno per indurlo a governare gli Asiatici come un monarca, ma a restare il primo cittadino tra i Greci, la razza nobile che aveva vissuto sempre, che non poteva vivere se non con istituti di libertà829. Questa lettera di Aristotele gli suggerì l’idea di scriverne una simigliante a Cesare; e scrisse infatti un bell’opuscolo che mandò ad Attico830. Ma il prudente banchiere consigliò Cicerone a far leggere prima il suo scritto ad Oppio ed a Balbo; e questi sconsigliarono Cicerone dal mandarglielo831. Fu una grave delusione per Cicerone; una ragione di nuovi sospetti per le classi colte. Le incerte notizie dalla Spagna accrebbero, nei primi mesi, il disagio e la irrequietezza degli spiriti. Mentre pensava di conquistar la Persia, Cesare andava alla guerra di Spagna con tal negligenza, trascurando siffattamente i preparativi più necessari, che sin dal principio i soldati patiron la fame832, proprio come nella guerra contro Vercingetorice, nella prima campagna di Spagna e nella campagna di Epiro: con questa differenza però che, se nelle guerre precedenti egli non aveva potuto provvedere al vettovagliamento non ostante lo zelo con cui le aveva preparate, ora invece la colpa delle sofferenze dei soldati era tutta nella fretta e nell’imprevidenza di lui che, signore dei più ricchi granai del Mediterraneo, avrebbe potuto provvedere le legioni di ogni cosa necessaria. E intanto per l’assenza di Cesare le riforme incominciate eran sospese o rallentate, a Roma e in Italia. Un avvenimento inaspettato e strano distrasse di lì a poco, per qualche tempo, l’attenzione dell’alta società romana. Bruto ripudiava la figlia di Appio Claudio e sposava Porzia, figlia di Catone e vedova di M. Bibulo833, l’ex collega di Cesare nel consolato, l’ammiraglio morto sul mare, nelle crociere invernali ai tempi della guerra di Epiro. Nobile di gran lignaggio, appassionato dilettante di arte, di letteratura e di filosofia, Bruto era uno di quei prediletti della fortuna cui capita di essere ammirati da tutti, senza aver fatto nulla; che aveva potuto, solo perchè dotato di alcune virtù rare nell’alta società, rigore di costumi, sobrietà, castità, signoria di sè stesso, disdegno di volgari ambizioni, procurarsi una così gran reputazione, da farsi perdonare i piccoli peccati, come quello delle usure di Cilicia; da essere ammirato universalmente e perfino da Cesare come un prodigio di volontà e di energia834, quasi avesse compiuto le più magnifiche imprese; da vedersi offerte spontaneamente le cose che gli altri più si sforzavano di ottenere; da potersi permettere tutto.... Egli aveva combattuto per Pompeo, eppure Cesare per riguardo a Servilia lo aveva colmato di onori e di cariche; era così diventato uno dei membri più considerevoli del partito cesariano aristocratico; ma ciò non aveva impedito che anche Cicerone e i Pompeiani insigni fossero suoi grandi amici! Ed ora ecco egli annunciava a un tratto questo matrimonio con la figlia e la vedova di uno dei più acerbi nemici del dittatore. I matrimoni avevan ormai quasi sempre, nell’alta società, motivi politici; onde tutta Roma si domandò che cosa questo significasse. Avversione di Bruto al nuovo governo di Cesare? Riconciliazione di Cesare con i vecchi avversari? Servilia, che temeva questo matrimonio facesse perdere al figlio il favore del dittatore, cercò di dissuadere Bruto; Cicerone si tenne prudentemente in disparte: ma invano: si trattava probabilmente di una vecchia simpatia tra cugini, risvegliatasi dopo anni e il matrimonio si fece. Bruto però non intendeva romper con Cesare e quasi a guisa di compenso scrisse una difesa di lui contro coloro che lo accusavano di aver fatto uccidere Marcello.

Intanto la guerra di Spagna era vinta, ma dopo pericoli e traversie che nessuno si aspettava. Cesare era caduto a più riprese malato; e aveva condotte con tanta stanchezza e negligenza le operazioni, che a Munda, il 17 marzo 45, per poco non era stato sconfitto e fatto prigioniero. Alla fine, scampato da questo pericolo, morti Gneo Pompeo e Labieno (solo Sesto Pompeo era riuscito a fuggire più al nord), egli ritornava in Italia, aspettato ansiosamente. Si saprebbe finalmente se egli voleva essere il tiranno rivoluzionario della sua patria! I presagi però non erano lieti. Della vittoria aveva subito approfittato il partito demagogico dei cesariani per proporre nuovi onori, subito, naturalmente, approvati: fra gli altri che Cesare portasse il titolo di imperator come un prenome ereditario; che fosse console per dieci anni; che avesse anche il diritto di proporre i candidati alla edilità e al tribunato835. Il malcontento per questi onori tra gli amici di lui più conservatori di idee e di temperamento fu grande; e appena confortato dalla tenue speranza che egli non vorrebbe accettarli. Ma Cesare fu lento al ritorno; indugiò in Spagna prima, dove attese a mutare in colonie romane diverse città, come Ispali836, Cartagena837, Tarragona838, confiscando parte del loro territorio e dandolo a un certo numero di suoi soldati che congedò; indugiò poi nella Narbonese e in questa lasciò un suo amico di nobile famiglia che gli aveva resi utili servigi nella guerra di Alessandria, Caio Claudio Nerone, a distribuir terre ai veterani della decima legione intorno a Narbona, a quelli della sesta nel territorio di Arles839. Altre due legioni eran così congedate. L’ansietà e l’impazienza crescevano in Italia; Balbo ed Oppio, per contentare Cesare e per impressionare il pubblico, pregavano tutti i grandi di Roma di andargli incontro a fargli onore; anche Antonio, stanco della povertà e della oscurità cui era condannato, partiva da Roma risoluto a trovar modo di farsi perdonare840; anche Trebonio si mosse a incontrarlo ma così malcontento per la nuova politica, che qualche volta pensava se non fosse meglio toglierlo di mezzo con un colpo di pugnale841; anche Bruto d’accordo con Cicerone, che era impaziente di sapere, gli andò incontro nella Gallia Cisalpina, per scrutarne gli intendimenti e forse anche per sapere se il suo matrimonio fosse stato mal giudicato. Ma a Bruto ogni cosa era permessa: egli fu ben ricevuto e lodato per l’amministrazione zelante dell’anno avanti, seppe che era già nominato pretore per il 44; e lieto di questa accoglienza trovò che tutto andava bene; scrisse a Cicerone che le sue paure erano vane, che Cesare voleva ricostituire un governo aristocratico secondo il desiderio dei conservatori842.

E davvero Cesare, intimidito dal malcontento pubblico e dalla discordia dei cesariani, parve un momento voler dare soddisfazione alla parte più moderata del suo partito, alle alte classi, ai conservatori: si riconciliò con Antonio e gli fece fare una parte del viaggio nella sua stessa lettiga, perdonando così quasi ostentatamente all’autore delle terribili repressioni del 47; revocò i praefecti urbi; rifiutò alcuni degli onori; depose il consolato singolo; convocò i comizi, fece nominare i magistrati ordinari e scegliere a consoli uno dei suoi generali di Spagna, Q. Fabio Massimo e Trebonio: quest’ultimo uno dei più illustri e dei più malcontenti tra i cesariani conservatori. Ma Cicerone non cessò mai dal dubitare.... E non a torto. In quei sette mesi, la decomposizione dello spirito di Cesare aveva progredito veloce. Gli attacchi di epilessia, cresciuti di frequenza e violenza, non gli davan più tregua843; il corpo e lo spirito erano esausti. Il bellissimo busto di lui che è al Louvre, opera di un grande maestro ignoto, rappresenta meravigliosamente l’estremo sforzo di questa prodigiosa vitalità quasi consumata: la fronte è solcata da rughe immense, la faccia asimmetrica triste e macilenta come di chi soffra di stomaco, la espressione stanca. Egli era stanco e pur non poteva prendere riposo, come avviene agli spiriti esausti; una fretta faragginosa, una smania di grandezze impossibili, un fervore chimerico di disegni irreali lo agitavano tormentosamente. Alla breve moderazione succedè presto una nuova esaltazione. Grandiose feste avevano celebrato il trionfo di Spagna e immensi banchetti popolari, nei quali Cesare per primo aveva fatto servire, invece dei vini greci, alcuni vini italiani che, meglio preparati dagli schiavi orientali, incominciavano a divenir celebri, per farli conoscere, promuoverne il consumo, incoraggiare la viticultura italica che faceva tanti progressi pur in mezzo alla crisi terribile844. La legge sulle colonie transmarine fu subito proposta e approvata; il reclutamento dei coloni tra i soldati, i cittadini, i liberti incominciò. Poi continuarono le sorprese: ogni giorno Roma stupita udiva di una nuova opera o impresa che egli voleva compiere: deviare il corso del Tevere, prosciugare le paludi pontine, fabbricare tutto il campo di Marte e trasportare questo sotto il Monte Vaticano; erigere un teatro, quello che finito poi da Augusto fu detto il teatro di Marcello e i cui avanzi grandiosi si drizzano ancora; incaricar Varrone di impiantare in tutta Roma vaste biblioteche; tagliare l’istmo di Corinto, fare una via sull’Appennino, costruire un gran porto ad Ostia; dar immenso lavoro ad appaltatori ed artigiani; raccogliere tutte le leggi in un corpo solo; conquistar la Persia845.

Ma Cesare si illudeva, questa volta, credendo che tanta profusione di idee grandiose commoverebbe ancora tutta l’Italia, preparando nella opinione pubblica la monarchia. Il popolino cosmopolita era esaltato a speranze chimeriche dalle promesse di colonie e di lavoro; ma le classi medie erano disposte al malumore e alla critica dalla crisi finanziaria di cui nessuno vedeva la fine; ma le classi alte, offese nei sentimenti repubblicani, nell’orgoglio, nei pregiudizi, dalle onoranze, dai privilegi, dalla potenza concessa a questo uomo; sempre paurose di una rivoluzione sociale che togliesse loro i beni dopo il potere e di cui una dittatura fosse l’organo, come ai tempi di Silla, si domandavano se Cesare non diventava matto, deridevano anche le riforme serie, come quella del calendario846. Intanto per trovare nella gran crisi il denaro necessario a far tante cose, Cesare doveva vendere alla disperata i beni confiscati ai vinti, le terre pubbliche non atte a deduzioni di colonie, e quelle dei templi847; e di questa finanza, arruffata di troppo frettolosi espedienti, approfittavano gli amici suoi, prendendosi per poco o per nulla immense terre. Servilia aveva ricevuto per nulla un grande possedimento confiscato nella guerra848; grandi fortune facevano intorno a lui alcuni liberti; già ricco era quel giovane schiavo germanico che egli aveva promosso agli uffici dell’amministrazione per averlo scoperto a far l’usuraio con i suoi compagni di servitù e che, con il nome di Licinus, era diventato uno dei suoi amministratori più abili. Sopratutto la guerra contro i Parti indignava. Il temerario conquistatore delle Gallie non aveva procurato sufficienti guai alla repubblica, con l’insaziabile desiderio di vittorie? Era lecito, dopo essersi fatti dare tanti poteri, abbandonar la repubblica ancor piena di disordine, per correre la rischiosa avventura?849 Un gran malcontento si diffondeva, per un motivo o per un altro, in tutte le classi; mentre Cesare, sempre più irascibile, contradditorio, puntiglioso, insofferente di consigli e di opposizioni, smarriva quella misura e quella signoria di sè, che tanto gli aveva giovato sino allora; si lasciava sfuggire frasi imprudenti: la repubblica non esister più che di nome, Silla essere stato stupido a deporre la dittatura, quello che egli diceva valer per legge850. La lex municipalis era stata approvata dal popolo; ma sentiva la fretta in ogni rigo, tanto era faragginosa, complicata, piena di disposizioni diverse, priva della limpida e asciutta chiarezza latina!851 Affidò le zecche e il servizio delle finanze a dei servi orientali, probabilmente egiziani852; introdusse servi e liberti suoi in tutti i servizi pubblici, fece delle scenate a Ponzio Aquila, tribuno della plebe, perchè passando egli un giorno davanti ai seggi dei tribuni non si era levato853; facilmente prorompeva in invettive e rimproveri acerbi; si sdegnava per la poca osservanza delle sue leggi, specialmente delle più assurde come quelle sul lusso, e per farle osservare si ostinava in puntigliose persecuzioni. Ma non voleva si dicesse che egli ambiva essere re o tiranno; e più volte inveì contro coloro che gli dicevano di volerlo proclamare re. Eppure si crucciava intanto segretamente per il desiderio di avere un figlio cui lasciare il potere; eppure nel testamento che aveva fatto al ritorno della Spagna, in considerazione della partenza per la Persia, aveva nominato dei tutori al figlio futuro che potrebbe nascergli, e aveva adottato come figlio Ottavio, il nipote di sua sorella854; eppure un giorno che due tribuni tolsero via da una sua statua un diadema, posto da mano ignota, egli si arrabbiò, disse che avevano voluto fargli sfregio855. Quello splendido spirito lottava ancora contro il destino, ma invano. Tra questo turbinoso disegnare di grandi cose, una sola ne preparava davvero, dimenticando la promessa di non uscir d’Italia prima d’aver riordinato lo Stato: la guerra contro la Persia, accumulando denari, facendo a Demetriade un gran deposito d’armi, studiando un piano di guerra e avviando innanzi ad Apollonia Caio Ottavio con i suoi maestri e sedici legioni, composte in parte di nuove reclute. Molti giovani, spinti dalla povertà, si arruolavano, sperando trovare fortuna in Persia.

Ma le ultime esitazioni di Cesare dovevano esser presto vinte dagli incitamenti della parte peggiore del suo partito; dei liberti non romani, degli spostati, degli indebitati, dei disperati che lo avevano seguito per la speranza di ricchezze e di onori. Tutti vedevano come egli preferisse sempre più gli avventurieri che lo lusingavano e lo compiacevano in ogni capriccio; come prediligesse tra tutti Dolabella che con le piacevolezze e la romorosa allegria lo divertiva; come egli già così sobrio, si desse all’orgia in compagnia di costoro856: ma la vittoria di questa combriccola sulla parte più eletta e conservatrice dei cesariani fu definitiva e piena quando passò nelle sue file, abbandonando il vecchio partito, Antonio. Troppo duramente costui aveva espiati, con la oscurità e la miseria di due anni, i servigi resi nel 47 alla causa dell’ordine contro la demagogia e Dolabella! Indifferente a principî e a teorie, cupido solo di ricchezze e di sollazzi, Antonio, dopo essersi riconciliato con Cesare, si buttò senza scrupolo a lusingarne le ambizioni senili; pensando che, siccome Cesare resterebbe signore di ogni cosa per tutta la vita, il miglior consiglio era di acquistarne la fiducia e l’affetto compiacendolo, dicessero gli altri quello che volevano. E gli effetti si videro subito, quando, verso la fine del 45, Cesare fece le elezioni, usando del potere concessogli dopo Munda di designare tutti i magistrati ai comizi, cioè di eleggerli egli, lasciando al popolo la sola facoltà di confermare la sua proposta. Nominò sè stesso console e si scelse Antonio a collega; nominò il fratello di lui Lucio tribuno della plebe, dando alla parte conservatrice dei cesariani, quasi a compenso, la nomina a pretori di Bruto e di Cassio: ma il conforto di queste nomine fu scarso, in paragone al malcontento di cui fu cagione, in tutto il mondo politico, questo intero trasferimento a Cesare delle nomine dei magistrati. A che cosa si riduceva ormai la repubblica se un uomo solo poteva distribuir tutte le cariche? Uno scandalo accrebbe il disgusto. Cesare, che intendeva partire tra poco per la Persia, voleva nominare a console suffectus, per il tempo di quell’anno in cui resterebbe assente, Dolabella, che aveva allora solo venticinque anni, che non era stato nemmeno pretore. Immaginarsi lo sdegno della gente seria e dabbene! Ma Antonio, che era audace, capì di aver tanto guadagnato nell’animo di Cesare da poter sfogare questa volta il suo odio contro Dolabella; e nella seduta del 1° gennaio 44 in cui Cesare manifestò la sua intenzione, dichiarò che come Augure avrebbe impediti i comizi per Dolabella. Cesare tacque.

A ogni modo la vittoria di questa cricca apparve ben presto dagli straordinari e scandalosi onori che i più impazienti e petulanti degli avventurieri al seguito di Cesare indussero il Senato e il popolo a votargli, nei primi giorni del 44. Si faceva di Cesare quasi un Dio, trasportando in Roma una delle più abbominevoli aberrazioni delle monarchie orientali; si decretava un tempio a Jupiter Julius; si rimutava in Julius il nome del mese Quintile; gli si concedeva di essere sepolto nel Pomerio; di avere una guardia di senatori e cavalieri857. Non era già un re di fatto, se pure il nome mancava? Peggio ancora, quando il Senato era andato a partecipargli questi onori, egli lo aveva ricevuto senza levarsi858; nominava senatori ogni sorta di gente, perfino dei Galli; voleva crear vice-dittatore per il 44, quando Lepido sarebbe andato nella provincia come si disponeva a fare, Caio Ottavio, il suo nipote, che era un giovinetto di 18 anni! Alle tradizioni più antiche e più venerate Cesare faceva ora violenza aperta, trasportando audacemente dalla letteratura e dalla filosofia nella politica quel rivoluzionario disprezzo per il venerando passato di Roma, in cui si sfogava la petulanza dei giovani scrittori e studiosi.

Eppure all’ingrandimento dei poteri corrispondeva un progressivo infiacchimento dell’autorità. Il dittatore, a mano a mano che ambiva nuovi onori e poteri, diventava meno atto a servirsene. Non possedendo più nè la lucidezza necessaria a discernere il possibile dal chimerico nè la pazienza di operare in ogni cosa con graduale costanza; e d’altra parte non potendo incrudelire come Silla e tentar di vincere con la forza le resistenze che le tradizioni e gli interessi opponevano alle ambizioni sue; egli cedeva, concedeva, transigeva maggiormente con tutti, specialmente con i conservatori, a mano a mano che assumeva un nuovo onore o tentava una nuova riforma troppo grandi, per la speranza di addolcire i nemici che non poteva atterrire o distruggere, per la fretta di vincer subito un impedimento, per necessità o irrequietezza nervosa. Impressionato dal malcontento per l’usurpazione della nomina di tutti i magistrati, egli studiò una transazione, facendo proporre, a quanto pare al principio del 44, da Lucio Antonio una molto bizzarra lex de partitione comitiorum, con la quale si raddoppiava il numero dei questori e dei pretori, facendone eleggere metà dal popolo e metà proporre sine repulsa da Cesare nei comizi; si disponeva forse anche che dei tribuni e degli edili plebei metà sarebbero proposti da Cesare, e metà eletti dal popolo; che i consoli sarebbero proposti ambedue da Cesare, e dal popolo invece i due edili curuli859. Così i diritti del popolo erano in parte rispettati e Cesare avrebbe avuto agio di distribuir cariche agli amici suoi. Forse anche intesa a compiacere i conservatori era la lex Cassia, per la quale Cesare doveva reintegrare il numero delle antiche famiglie patrizie, di cui molte si erano spente. Mentre prima aveva concesso a rilento il ritorno in Italia ai pompeiani, negli ultimi mesi li amnistiò tutti; e per conciliare gli animi al nuovo regime, non solo li accolse in Italia, non solo rese alle vedove e ai figli dei morti parte dei beni confiscati860, ma li favorì in tutti i modi, trascurando un poco i suoi partigiani dei tempi burrascosi861. Invano Irzio, invano Pansa lo ammonivano di guardarsi862: congedò ogni guardia, sin gli schiavi spagnuoli; volle essere accompagnato in giro solo da littori863; avvisato che si tenevano qua e là per Roma delle radunanze notturne in cui si parlava male di lui e forse anche si tramava, si contentò di pubblicare un editto dicendo di essere a cognizione di tutto, e di fare un discorso al popolo avvisando i maldicenti di chetarsi in avvenire864. “Preferisco morire, anzichè vivere come un tiranno865” – aveva detto un giorno a Irzio e a Pansa. Faceva a tutti, quando non era in grado di dare, ogni sorta di promesse, possibili e impossibili866; non tentava nemmeno più di frenare il saccheggio del denaro pubblico che gli amici di lui facevano sotto i suoi occhi867. Così il vigore della dittatura tremolava in una lentezza e incertezza senile di condiscendenze, poco minore che quella del vecchio governo repubblicano; si avvolgeva, quasi a nascondersi, nei serpentini attorcimenti di mezzucci ingegnosi ed inutili. Molti suoi veterani avevan ricevuto campi a Volterra e ad Arezzo, il cui territorio, confiscato ma lasciato da Silla ai vecchi possidenti, era stato rivendicato allo Stato da Cesare; un numero considerevole ricevevano terre alla spicciolata, qua e là per l’Italia, ed erano posti a vivere, come membri dell’ordine dei decurioni o delle aristocrazie municipali riordinate dalla Lex Julia, in molte città, da Ravenna a Larino, da Capua, da Suessa, da Calazia, da Casilino a Siponto868. Ma le ricerche degli avanzi del demanio pubblico procedevano lente, perchè i commissari erano continuamente trattenuti da raccomandazioni di uomini potenti; onde il maggior numero doveva contentarsi ancora solo di promesse869. Nè le colonie transmarine riuscivano meglio: pare che un certo numero di coloni partisse per Lampsaco870 e il Mar Nero871; ma i preparativi per Cartagine e per Corinto procedevan più lenti872; e la idea di mandare una colonia in Epiro dovè essere abbandonata. Cesare aveva, trattandosi di suolo delle provincie, confiscata una parte delle terre della città di Butroto, che non gli aveva pagata una multa impostale durante la guerra civile, e intendeva assegnarla ai coloni: ma Attico, che era anche egli tra i possidenti di Butroto spogliati, mosse intorno a Cesare – non si dimentichi che egli amministrava il patrimonio di un gran numero di uomini politici – tante persone del suo stesso partito, tanto disse, intrigò e lavorò, che Cesare revocò il decreto di confisca, a patto che Attico pagasse la multa dei Butroti, sebbene già i coloni fossero quasi pronti a partire. Il finanziere che non aveva esercitata mai magistratura, era stato più potente che il dittatore dell’impero! Tuttavia Cesare continuò i preparativi per la colonia, sinchè Attico e Cicerone, che aveva molto lavorato per l’amico suo in questa faccenda, ritornarono un poco inquieti a domandar spiegazioni. Cesare, che non voleva si sapesse aver egli rinunciato a fondare una colonia per compiacere uno dei maggiori plutocrati di Roma, li pregò di tener nascosta la cosa: ma stessero tranquilli; egli intendeva imbarcare i coloni; quando fossero in Epiro, li manderebbe altrove, non sapeva ancora dove873. Di simili mezzucci doveva servirsi il signore del mondo! Nemmeno era riuscito a comporre la discordia tra Antonio e Dolabella; cosicchè il primo aveva impedito come Augure i comizi, in cui Dolabella doveva essere eletto consul suffectus. Anche il dittatore in apparenza onnipotente era preso nella rete di raccomandazioni, di servigi, di compiacenze, di favori che formava l’essenza di quella come di tutte le società mercantili, in cui il denaro è il fine supremo della vita; e non poteva romperne i fili invisibili.

Il malcontento si esasperava874, rinfocolato da tutti i rancori che seguono ogni rivoluzione trionfante; la stizza di molti cesariani, i quali non avevano avuto la ricompensa aspettata o si dolevano che antichi pompeiani fossero trattati meglio di loro; la rabbia di quanti vedevano beni di parenti e amici passati in proprietà di liberti e venturieri; l’invidia di coloro che avevano conosciuto Cesare eguale ed ora lo vedevano adorato quasi come un semidio875. Voci strane giravano: che Cesare voleva sposare Cleopatra, trasportare la metropoli dell’impero a Ilio o ad Alessandria876, fare dopo conquistata la Persia una grande spedizione tra i Geti e gli Sciti, ritornando in Italia per la Gallia877. Uno scandalo clamoroso rinfocolò gli animi. Il 26 gennaio 44 Cesare fu da alcuni popolani salutato nelle vie, mentre passava, re; i due tribuni della plebe, che egli aveva già redarguiti per il diadema, incarcerarono alcuni di questi schiamazzatori; ma Cesare adirato protestò che i due tribuni avevano incitato quei popolani a gridare, per renderlo sospetto di ambizioni monarchiche; e i due tribuni essendosene risentiti, egli li fece destituire con una legge e li scacciò dal Senato con grande scandalo del pubblico, per il quale il tribuno era sempre il più sacro dei magistrati, e che proruppe in dimostrazioni per i due tribuni878. Intanto Cesare e la parte della clientela che lo spingeva al monarcato assoluto, abbattevano gli ultimi impedimenti e le estreme apparenze. Nella prima quindicina di febbraio879 il Senato ed popolo nominavano Cesare dittatore perpetuo880, monarca se non di nome, di fatto; e ad accrescere lo scandalo sopraggiunse al 15 la festa dei Lupercali. Sembra che Cesare volesse promuovere una dimostrazione popolare per la monarchia, sperando di fare impressione sulle alte classi; e che a questo fine concertasse con Antonio una pantomima pubblica. Antonio si presentò a Cesare, che presiedeva la festa, con un diadema e fece atto di porglierlo sul capo; Cesare rifiutò; Antonio insistè; Cesare ripetè più energicamente il diniego. Ma egli fu applaudito fragorosamente quando rifiutava il diadema; onde adirato fece inserire nel Calendario che in quel giorno il popolo gli aveva offerta la corona reale ed egli l’aveva rifiutata. L’indignazione per questa menzogna fu vivissima881. E intanto mentre i debiti continuavano a tormentare l’Italia e il medio ceto versava in angustie crudeli, cresceva nel popolino povero d’Italia e di Roma uno strano fermento di vaghe aspettazioni rivoluzionarie, che spaventava le classi possidenti ogni giorno di più. Cesare, con le colonie e la guerra di Persia, ricondurrebbe l’età dell’oro; finirebbe la tirannide dei ricchi e dei grandi; un nuovo governo comincierebbe! Le memorie della grande rivoluzione popolare si erano talmente ravvivate, che un certo Erofilo, originario della Magna Grecia, veterinario di professione e mattoide, spacciatosi per nipote di Mario, era diventato in un baleno popolarissimo, era scelto a patrono da municipi, da colonie di veterani, da collegia artigiani, aveva formato attorno a sè quasi una corte e osava trattar da pari a pari con Cesare e i grandi. E Cesare, per non scontentar la plebe, non ardì toglierlo di mezzo; ma si contentò di relegarlo fuori di Roma882.

XVIII.
LE IDI DI MARZO.
(Gennaio-marzo 44).

E allora, un uomo riprese l’idea balenata a Trebonio e pensò di ucciderlo. Quell’uomo fu Cassio883: l’antico questore di Crasso nella guerra partica, il genero di Servilia; giovane intelligente, ambizioso, provvisto di alta cultura, orgoglioso di carattere, aspro e violento, che uccidendo Cesare non poteva illudersi di guadagnare più di quanto poteva sicuramente aspettarsi dal suo favore. Cassio incominciò ad aprirsi cautamente con qualche amico, che sapeva avverso al dittatore; il primo gruppo di congiurati fu raccolto; si cominciò a considerare la possibilità e i pericoli dell’impresa; e si convenne bisognava trarre nella congiura il cognato di Cassio, Bruto884, che godeva di grande autorità in tutti i partiti e pareva, perchè figlio di Servilia, quasi un intimo di Cesare. Se si sapesse che anche egli era pronto ad uccidere Cesare, molti incerti e pavidi prenderebbero coraggio....

Come tanti altri strumenti vivi della storia e del destino nelle rivoluzioni, Bruto era un uomo debole; uno di quei temperamenti frequenti nelle famiglie aristocratiche dei tempi civili, intelligente ma poco alacre, poco sensuale, orgogliosissimo ma chiuso in sè e poco ambizioso con gli altri, poco vendicativo e crudele e perciò incline alla austerità e alla benevolenza passiva. Facile alla imitazione, come tutti gli spiriti deboli, si era dato un momento a far l’usuraio; aveva parteggiato prima per Pompeo, quando le alte classi, nello spavento della presa di Rimini, avevano seguito in folla colui che meglio pareva avrebbe difeso l’ordine e la proprietà; poi si era riconciliato con Cesare e ne aveva goduta l’amicizia. Non era però per natura nè un grande accumulatore di milioni nè un grande ambizioso; ma piuttosto un erudito di costumi austeri, che in tempi consueti sarebbe stato soltanto un gran signore dilettante di studi, un po’ fantastico e altero, che negli studi avrebbe goduto quanto gli altri nell’amore, nella gloria, nella ricchezza. Ma in quei tempi straordinari, la fervente ammirazione popolare per il suo carattere aveva fatto contrarre anche a lui, oltre il piacere degli studi, un’altra passione: l’orgoglio di credersi e di essere ammirato come un eroe dalla volontà di ferro, modello delle virtù difficili, che si esercitano solo con dolorosi sforzi sopra sè stessi. C’era un mezzo sicuro di render questo timido e questo debole capace delle massime audacie ed ostinazioni; persuaderlo che altrimenti egli verrebbe meno alla sua reputazione di eroe. Cassio, che era un uomo intelligente, lo intese e seppe porre abilmente l’assedio alla anima debole del cognato. Bruto incominciò ad esser turbato da certi biglietti che, posti da Cassio, egli trovava la mattina sul suo tribunale di pretore o che sapeva essere stati appesi al piedistallo della statua del primo Bruto nel Foro; biglietti su cui era scritto: “Così vivessi tu ancora, o Bruto!” oppure: “Bruto, tu dormi!”885. Qualche volta nella via egli si sentì gridar dietro: “Abbiamo bisogno di un Bruto!”886. L’idea dell’assassinio apparve a quello spirito nella forma migliore per essere accolta, come un mandato del popolo all’uomo fortissimo, solo capace di una azione così terribile; ma l’anima benevola e timida dell’erudito che si credeva eroe, dovè in principio raccapricciare, considerando il pericolo e l’atrocità del misfatto; ricordare la bontà e i benefici di Cesare, la vecchia amicizia di lui per sua madre. Continuando a essergli amico, egli diventerebbe ancor più potente e ricchissimo, tanti doni Cesare aveva fatti e farebbe alla sua famiglia! Ma intanto ora egli osservava le ambizioni asiatiche di Cesare, a cui prima appena badava; ricordava la gloria degli uccisori ed espulsori dei tiranni, nella letteratura greca e nella tradizione romana, gli argomenti sottili dei tanti filosofi antichi che giustificavano il regicidio per motivi ideali. Terribili ondeggiamenti! Appunto perchè Cesare lo aveva beneficato, egli doveva più risolutamente ammazzarlo e vincere per il dovere pubblico l’affetto privato, come il vecchio Bruto che per la repubblica aveva reciso il capo ai figlioli. Cassio gli si aprì alla fine e seppe tentarlo: non essere egli un pretore come gli altri; Roma aspettar da lui imprese uniche; egli solo potere essere il capo di tanta impresa887. Se il debole Bruto avesse vissuto nell’intimità di Cesare, ne sarebbe stato soggiogato a tanta ammirazione da non ascoltar simili consigli. Ma Cesare, occupato in troppe faccende, lo lasciava a sè stesso e lo vedeva di rado; onde Cassio vinse; e la idea della congiura, come era nata, così si diffuse dalla cricca dei parenti di Servilia, dal gruppo dei cesariani aristocratici, come reazione alla quasi piena vittoria della fazione demagogica e rivoluzionaria. Solo Lepido in quella cricca non seppe nulla e restò fedele.

Bruto e Cassio cercarono un gran numero di congiurati e li trovarono facilmente, nell’odio che per tante cagioni si addensava intorno a Cesare: tutti senatori e persone di conto888; avanzi del partito di Pompeo, membri illustri del partito di Cesare, parecchi dei suoi generali più celebri, come Caio Trebonio e Servio Sulpicio Galba. Molti storici moderni giudicano severissimamente questa facilità con cui tanti entrarono nella congiura, contro l’uomo di genio che si logorava a riordinare lo Stato.... Ma questo giudizio nasce da una illusione. Quei tempi, simiglianti a noi in tante cose, ne erano diversi in due: la guerra e la schiavitù, che diffondevano come sentimento necessario il disprezzo della vita umana. La lotta dell’uomo contro l’uomo aveva fatto il pugnale strumento familiare nelle mani dei grandi come la tavoletta da scrivere o i rotoli dei libri.... Tutti costoro avevano affrontata la morte tante volte in battaglie, avevano condannato a morire provinciali e soldati, nei loro governi, schiavi nella loro casa. La vita di un uomo valeva poco, per loro. Nè era umanamente possibile che essi vedessero in Cesare, come la ingenua posterità, un eroe e un semidio, adorabile pur quando errava o maltrattava. Certamente anche piccoli motivi personali spinsero molti a prendere parte alla congiura; ma questi motivi particolari di ciascuno furono spinte secondarie, non la cagione della congiura, la quale, come l’opera di Cesare, non si può giudicare con i criteri personali del merito o della colpa, perchè così Cesare come i suoi nemici erano obbligati ad agire da uno stato di cose che ne dominava le volontà con la forza fatale attribuita dagli antichi al destino. Così Cesare come i suoi uccisori non meritano nè le invettive nè l’isterica ammirazione di cui furon fatti segno, a volta a volta. Cesare fu uno dei più splendidi campioni del genio umano nella lotta dell’uomo contro l’uomo e del genio latino rivoluzionario nelle età di decomposizione e ricomposizione sociale: avido di scienza e di arte, plastico e molteplice sin quasi alla universalità, grandiosamente immaginoso ma positivo, armonioso, realistico, e, pur in mezzo alle più pericolose esaltazioni, immune di misticismo, indifferente ai motivi etici e incredulo. Una portentosa lucidezza e plasticità di pensiero, una alacrità infaticata, una mirabile fretta, una straordinaria resistenza nervosa furono le sue virtù maggiori, con le quali egli avrebbe potuto riuscire in ogni età e tempo un grande uomo: un grande organizzatore d’industrie negli Stati Uniti, un grande esploratore e speculatore di terre e miniere nella Africa meridionale, un grande scienziato o scrittore nell’Europa contemporanea. In Roma antica le tradizioni della famiglia e l’ambizione lo spinsero nella politica, il peggior cimento in cui possa consumarsi un uomo di genio, perchè quello in cui più spesso avviene che l’effetto non corrisponda allo sforzo per l’intervento improvviso di cause imprevidibili: ma nella politica potè diventar un gran generale, un grande scrittore, un gran personaggio, non un grande uomo di Stato889. Tre principali idee politiche egli ebbe: la ricostituzione del partito democratico legalitario nel 59; l’ingrandimento della politica riconquistatrice di Lucullo nel 56; la costituzione di un governo personale dopo la morte di Pompeo. Ora di queste idee le due prime eran tardive e la terza era acerba, onde fallirono tutte: fallì la prima nella rivoluzione democratica del Consolato; fallì la seconda nella catastrofe di Crasso in Persia e nelle sanguinose rivolte galliche; fallì la terza nella strage delle Idi di marzo. Ma sarebbe stolto attribuire questi insuccessi a colpa o ad errore di Cesare. Egli non fu uomo di Stato perchè non poteva esser tale, in una democrazia in cui chi non volesse compiacere alle stravaganze e ai traviamenti più folli di un popolo esaltato da una smania frenetica di potere di ricchezze di godimenti, poteva raccogliersi a filosofare, non cimentarsi nella politica. Una fatalità inesorabile domina tutta la vita di lui: alla rivoluzione democratica del Consolato egli fu costretto dagli eventi; la necessità di salvare sè, il suo partito, la sua opera lo costrinse alla maggiore temerità nella sua vita, l’annessione della Gallia; dopo, egli non potè più ritrarsi, dovè procedere a quelle sanguinose repressioni che sono la parte davvero repugnante della sua storia. La guerra civile nasce con così fatale necessità dalla rovina della sua politica conquistatrice, che gli estremi sforzi di lui per impedirla non riescono. Il successo in questa guerra fu immenso e insperato, ma troppo grande; perchè Cesare, trovatosi a un tratto signore in apparenza di tutto, si trovò anche in una delle più difficili situazioni: senza essere in grado di abbandonare il potere, e costretto, se lo conservava, a dovere imprendere l’impossibile fatica di governare solo, con pochi amici, un immenso impero in disordine. Che egli si illudesse di bastare a impresa sì grande, è umano: ma a tanta distanza di tempo, con esperienza più matura delle cose storiche, noi possiamo capire a fondo la fallacia di questa illusione. Cesare fu non un grande uomo di Stato, ma il più gran demagogo della storia. Egli personificò tutte le forze rivoluzionarie, splendide e orrende, dell’era mercantile in lotta con le tradizioni della vecchia società agricola: l’incredulità religiosa; l’indifferenza morale; la mancanza dei sentimenti familiari; l’opportunismo e la indisciplina politica; il disprezzo delle tradizioni; il lusso orientale; il militarismo rapace; la speculazione, la corruzione e l’affarismo; lo spirito democratico, il raffinamento intellettuale, il primo addolcimento della durezza barbarica, la passione della arte e della scienza. Che l’imperatore di Germania e di Russia abbiano preso il nome di questo grande rivoluzionario è una delle maggiori stranezze della storia; che i conservatori del tempo suo lo odiassero come un mostro, si capisce; che egli grandeggiasse secondando questo grande movimento degli spiriti non fu effetto di caso o di miracolo, ma di quella specie di logica che è insita negli eventi della storia. Ma allorchè egli si illuse di poter sovrapporre la volontà sua e il suo pensiero a tutte le correnti intellettuali e sociali del tempo, dominandole, egli scontentò tutti e fu travolto.... Non importa che nella ultima parte della sua vita egli fosse spesso più savio che nella prima; che cercasse in parte di riparare, come riformatore, sebbene con molte contradizioni, gli errori commessi come demagogo; che avesse intravisto come una società rovina necessariamente, quando tutta la sua morale si riassume in una sfrenata cupidigia di denaro e di piaceri. Impedir questa catastrofe nè egli nè altri poteva. Troppi antagonismi si torceano nella società romana del tempo suo, dall’antagonismo inconciliabile tra i molti debitori e i pochi creditori, tra i poveri e i ricchi, al contrasto tra lo spirito demagogico e lo spirito di autorità, tra il lusso asiatico e la vecchia parsimonia latina, tra la nuova cultura greco-orientale e le tradizioni romane. Certo egli aveva mostrata una agilità e un vigore meraviglioso, più grande che ogni altro contemporaneo, nel resistere per tanti anni allo snervante rullìo e beccheggio di quella democrazia mercantile, abbandonata, come una nave sopra un mar tempestoso, in balìa delle formidabili oscillazioni di una opinione pubblica nervosissima, mutevole, contraditoria. Ma come avrebbe potuto Cesare comporre e dominare questi immensi antagonismi in tutta la società, quando non poteva nè comporli nè annullarli nel suo stesso partito? Sinchè questi antagonismi non si fossero risoluti in una grande crisi storica che in questi giorni incomincia e che durò dieci anni, non sarebbe stato possibile a una generazione nuova ricomporre un mondo più tranquillo e più saldo, con la materia preparata da questa generazione: grande operosa fortunata generazione, ma ormai troppo travagliata e stanca, troppo orgogliosa, troppo divisa da odii, troppo avvezza a una sfrenata licenza politica, morale, intellettuale. Una generazione più modesta, più prudente, più paziente doveva comparire e questa sparire: sparir Cesare, come erano spariti Crasso, Pompeo, Catone; come sparirebbe tra poco Cicerone e il fiore di quella aristocrazia che aveva visto il maggior fervore della storia di Roma.

E difatti i congiurati rappresentavano un grande movimento di spiriti e di partiti che avveniva in Italia: l’alleanza cioè degli avanzi del vecchio partito conservatore con la parte più conservatrice e signorile dei cesariani, contro la monarchia demagogica, straniera, minacciosa al potere e alla ricchezza delle alte classi; la repubblica latina e conservatrice dei ricchi contro la monarchia asiatica e rivoluzionaria degli straccioni. Verso il primo marzo molti erano già a parte del disegno: chi dice 60 e chi 80890; tra gli ultimi anche Decimo Bruto, il prediletto di Cesare, tornato verso la fine di febbraio dalla Gallia a Roma; non Cicerone cui non fu detto nulla, perchè non si aveva troppa fiducia nel suo coraggio e si volle risparmiare il rischio al vecchio scrittore da tutti ammirato. Tanto numero di congiurati può parere soverchio, quando si pensi che il pericolo di indiscrezioni e di tradimenti aumenta nelle congiure con il numero delle persone che vi prendon parte; ma la ragione fu forse questa: che i congiurati, credendo fedelissimi a Cesare gli eserciti e favorevole a lui, più che non fosse in realtà, il popolino, la cui esaltazione pareva crescere di giorno in giorno, pensaron che bisognava far apparire Cesare come ucciso non da pochi nemici personali, ma dall’intero Senato, per imporre rispetto alle legioni, alla plebe, a tutto l’impero. Ciò spiega forse come, dopo lunghe discussioni, fosse deliberato di non uccidere, insieme con Cesare, Antonio, che allora era console; al quale giovarono non gli scrupoli di Bruto che voleva risparmiare il sangue romano, ma la considerazione che la morte di ambedue i consoli avrebbe impedita la subita restaurazione della antica costituzione891; e la speranza che egli, convertito da poco al partito della tirannide, ritornerebbe ai vecchi amici appena morto Cesare. Il luogo e il modo della strage confermano poi che tale davvero era il disegno dei congiurati. La questione era grave; molti piani furon considerati892 nelle visite che i congiurati, per non dar sospetto, si facevan l’un l’altro, senza mai trovarsi tutti insieme893; ma il tempo passava e urgeva affrettare, perchè Cesare era sulle mosse per partire per la Persia; e già da tutte le parti d’Italia arrivavano e alloggiavano nei templi, per fargli scorta d’onore alla uscita dalla città, i suoi veterani894. La esitazione era grande; le proposte furono molte, ma nessuna piacque; le discussioni snervarono i congiurati, dei quali molti, in segreto già pentiti, incominciarono a spaventarsi; le paure e le riluttanze di tutti, sino allora represse dalla soggezione vicendevole, proruppero; e molti volendone approfittare per trarsi fuori del pericolo, si fu in procinto di abbandonare l’impresa895. Ma gli eventi, la forza delle cose, il pericolo già affrontato riordinarono ben presto le volontà riluttanti. Cesare aggiungeva usurpazione a usurpazione; non aveva fatto approvare dal Senato che si eleggessero prima della sua partenza i magistrati per tre anni, supposta durata della sua assenza? Irzio e Pansa erano già stati designati ai primi di marzo consoli per il 43; e con essi i tribuni della plebe. Corse anche voce, che un oracolo della Sibilla dicesse i Parti poter esser vinti solo da un re, che il console del 65 Lucio Aurelio Cotta, quello contro cui Cesare aveva congiurato nel 66, proporrebbe di proclamarlo re di tutto l’impero, fuori che dell’Italia896. Quando finalmente si seppe che Cesare avrebbe convocato il Senato il 15 nella Curia di Pompeo, per risolver tra le altre la questione del consolato di Dolabella e poi partire il 17, tutti convennero che la occasione migliore era quella. Cesare ucciso nel Senato dal fiore dei senatori, come Romolo, sarebbe parso ucciso da Roma stessa897.

Ormai non era più possibile trarsi indietro. A qualunque costo, alle idi di marzo, bisognava uccidere Cesare. E i giorni che separavano dalla seduta incominciarono a passare terribilmente lenti, per i capi della congiura. A ogni cadere del sole, in ottanta delle più signorili case di Roma, uomini che avevano affrontata tante volte la morte, si ritraevano stanchi per l’ansietà nei piccoli cubicoli cercando invano il sonno, domandandosi se qualcheduno non tradirebbe involontario il segreto, se Cesare non li farebbe trucidar tutti, nella notte. E all’alba ricominciava il lavoro faticoso delle visite vicendevoli per intendersi, fatte e restituite con cautela, eludendo nelle vie gli occhi curiosi dei passanti con l’indifferenza di chi va a fare una visita di cerimonia; eludendo nelle case le orecchie indiscrete degli schiavi. Bruto in special modo era tormentato da ansie ed esitazioni continue; e se si mostrava fuori con volto sereno, in casa piombava in lunghi e tristi silenzi, dormiva sonni agitati, rotti da sospiri, di cui Porzia non sapeva indovinar la cagione. La timidezza, la gratitudine, l’affetto combattevano in lui una dura battaglia contro l’orgogliosa ostinazione di essere eroe898. Tuttavia i giorni passavano; Roma restava tranquilla; il segreto era ben custodito899; nè Cesare nè il suo seguito parevano accorgersi di nulla; sola Porzia, a furia di domandare, aveva saputo dal debole marito il terribile segreto. E intanto, nei conciliaboli, il disegno della strage era a poco a poco finito nei particolari: i congiurati porterebbero i pugnali sotto la toga, Trebonio terrebbe a bada fuori, con discorsi, Antonio; Decimo Bruto porrebbe nel vicino teatro di Pompeo gladiatori assoldali da lui per i giochi e che in caso di bisogno difenderebbero i congiurati; appena ucciso Cesare, Bruto avrebbe pronunciato un discorso al Senato, spiegando le ragioni del misfatto e proponendo la ricostituzione della repubblica. Anche il 14 marzo sorse, passò lento, declinò verso la sera, senza che succedesse nulla; quella sera. Cesare avrebbe pranzato da Lepido che preparava fuori di Roma un piccolo esercito per partire per la provincia; e sarebbe rincasato tardi: era un buon segno che non dubitava di nulla. Quanti occhi, in quella notte, dovettero tornare a scrutare il cielo, per vedere se le stelle tramontavano al fine, se si levava il sole che avrebbe visto il sangue di Cesare e la repubblica restaurata! Solo Cesare, rincasato tardi, dormiva, ignaro di tutto, il suo sonno agitato di uomo stanco e infermiccio.

Spuntò alla fine l’alba del 15 marzo. I congiurati furono per tempo al portico di Pompeo, nella vicinanza del luogo dove è ora il Campo dei Fiori; Bruto, che era pretore, salì sul tribunale e incominciò ad ascoltare i piati dei litiganti, tranquillamente, dominando l’interna commozione; gli altri congiurati, che aspettavano l’aprirsi della seduta, si intrattenevan sotto i portici, parlando con i colleghi e cercando di restar tranquilli900; nel vicino teatro di Pompeo si die’ principio a uno spettacolo; nelle vie incominciò l’usata frequenza. Cesare doveva arrivare da un momento all’altro.... Ma Cesare tardava a venire, trattenuto, a quanto pare, da una indisposizione, che un momento lo aveva quasi indotto a rimandar la seduta. I congiurati, già ansiosi, cominciarono a inquietarsi, a trasalire, spaventati, ad ogni stormire di foglie. Un amico si avvicinò a un congiurato, Casca, e gli disse ridendo: “Tu nascondi dei segreti ma Bruto mi ha detto ogni cosa”. Casca, sbigottito, stava per rivelar tutto, quando l’altro, continuando, mostrò di alludere alla prossima candidatura di Casca alla edilità. Un senatore, Popilio Lena, avvicinatosi a Bruto e a Cassio, disse loro, piano, all’orecchio: “Possiate riuscire; ma fate presto901.” E Cesare non veniva; il sole era già alto sull’orizzonte – potevano essere le dieci della mattina902; i congiurati incominciavano ad essere snervati ed esausti dall’attesa, a impaurirsi. Certo si era scoperta ogni cosa! Cassio alla fine si risolvè a mandar Decimo Bruto a casa di Cesare, per veder che cosa succedeva e trarlo nella Curia. Decimo prestamente per le viuzze del Campo Marzio risali sino al Foro, entrò nella Regia, dove abitava Cesare come Pontefice Massimo: e lo trovò appunto in procinto di rimandar la seduta, per il malessere che lo tormentava. Ma nel pericolo egli attinse il coraggio feroce di trarre al macello con discorsi amichevoli l’uomo che si fidava di lui a occhi chiusi; e lo indusse a venire903. Ecco finalmente spuntar la lettiga di Cesare! Presso la Curia il dittatore scese; e i congiurati, che già si eran raccolti nella aula, videro da lontano Popilio Lena avvicinarglisi e parlargli a lungo sottovoce. Fu per Bruto e Cassio un istante terribile: li tradiva egli forse? Cassio stava per perder la testa: ma Bruto, più calmo, ebbe il coraggio di guardare, in quel momento, in faccia a Cesare: quella faccia scarna, severa, stanca da tanti pensieri e cure era tranquilla, come di chi ascolta una cosa che preme a colui che parla. Bruto fece cenno a Cassio di tranquillarsi904. Ma ci fu ancora una pausa: il tempo che Cesare stette fuori della Curia facendo i sacrifici imposti dalla liturgìa politica. Finalmente Cesare entrò, si assise; mentre Trebonio tratteneva fuori a discorsi Antonio. Tullio Cimbro si avvicinò al dittatore domandandogli il richiamo di un suo fratello esiliato; gli altri gli si fecero attorno, come per unire le loro preghiere a quelle di Cimbro; sinchè Cesare, sentendosi troppo addosso la gente, si alzò, facendo il gesto di allontanarli.... Tullio gli afferrò allora la toga, che scivolò lungo la persona lasciando il busto coperto solo della leggiera tunica. Era il segnale: Casca gli tirò il primo colpo ma trepidante sbagliò, ferendolo all’omero. Cesare si voltò verso lui di scatto; impugnò gridando lo stilo per scrivere; Casca spaurito chiamò il fratello, che infisse il suo pugnale nel fianco di Cesare; Cassio lo ferì al viso, Decimo all’inguine; tutti gli furono addosso così agitati che si ferivan tra loro, mentre Cesare si dibatteva come una belva e i senatori dopo un istante di stupore balzavano in preda a subitaneo spavento e fuggivan tutti urlando, buttandosi a terra, calpestandosi, anche i Cesariani, anche Antonio. Soltanto due si slanciarono al soccorso di Cesare.... Invano! Divincolandosi furiosamente Cesare era arrivato ai piedi della statua di Pompeo e là era stramazzato in un mare di sangue, morto!905

Bruto si voltò allora per recitare il suo discorso al Senato: ma la Curia era vuota. I congiurati non avevan pensato che un panico da fanciulli renderebbe vano il loro studiato disegno di far subito decretare la restaurazione. Che fare? Nella concitazione in cui tutti si trovavano, tennero un breve consiglio; e temendo dei veterani e del popolino risolvettero di chiamare i gladiatori di Decimo, di andar con quelli sul Campidoglio e fortificarsi, poi deliberare là con maggior calma. Uscirono infatti, con le toghe arrotolate intorno al braccio sinistro come scudi, brandendo nella destra i pugnali sanguinolenti, portando sopra un bastone un pileo, simbolo della libertà, acclamando alla libertà, alla repubblica, a Cicerone, il filosofo del De Republica; ma trovarono in ogni via un gran tumulto di grida e di fughe906. Nel portico e nelle vie adiacenti la gente si era spaventata all’improvviso fuggire dei senatori urlanti e all’accorrer dei gladiatori armati; in un baleno grida di allarme eran corse; era cominciato un fuggi fuggi; le urla e le voci giunte al teatro di Pompeo avevan spaventato il pubblico, che scappava esso pure in tumulto, mentre i marioli facevan man bassa delle ceste e carrette dei venditori ambulanti intorno al teatro907; tutti cercavano rifugiarsi nelle case e nelle botteghe, che i padroni si affrettavano a chiudere. La apparizione di questa frotta di armati, lordi di sangue, accrebbe il disordine nelle vie che percorrevano; invano essi, e specialmente Bruto, gridavano, facevan gesti per tranquillare la folla908; questa non udiva e non vedeva. Intanto la notizia rapidissima correva sino ai più lontani quartieri di Roma, facendo dovunque fuggir la gente spaventata nelle case. Di lì a poco Antonio si asserragliava in casa; i congiurati si fortificavano sul Campidoglio; tutta la gente si nascondeva spaurita; Roma si spopolava in un funereo silenzio. Tutti avevan paura di tutti.

Incominciava una delle crisi più terribili della storia di Roma; ed una delle più salutari. Non il corpo solo di Cesare era stato squarciato; anche l’opera sua contradditoria e frettolosa degli ultimi anni sarebbe in gran parte distrutta. Venti anni tragici ancora; e poi, quando tutti gli uomini insigni di questa età, spenti violentemente, dormirebbero il sonno eterno per tutte le terre dell’impero da loro tanto ingrandito, il mondo si ricomporrebbe in ordine e pace a godere i tardi frutti dell’opera loro. Apparirebbe allora come i congiurati avevano in parte intuito il giusto: che i tempi della monarchia militare non erano maturi: che nessun cittadino poteva ancora edificare una reggia orientale nella metropoli della gloriosa repubblica latina; che la morte, liberatrice provvida, aveva tratto Cesare fuori da un viluppo di difficoltà inestricabile anche da lui; che non per la dittatura di un tiranno geniale, ma per la libera, lenta, a volte tempestosa esplicazione di innumeri e piccole forze sociali, splenderebbe alla fine sul mondo, dopo il mattino procelloso, il luminoso e pacato meriggio dell’impero di Roma.

FINE DEL SECONDO VOLUME.

APPENDICI CRITICHE.

A.
Sul commercio dei cereali nel mondo antico.
(a pag. 63 del I volume).909

È opinione comune tra gli storici che la concorrenza del grano straniero – siciliano e africano – fu la cagione delle crisi agricole da cui l’Italia incominciò ad esser travagliata dopo il 150 a. C. Soli il Weber, R. A. G. 225 e il Salvioli, D. P. F. pag. 62 seg. hanno dubitato che questa affermazione sia giusta. Io credo invece che questa spiegazione sia assolutamente falsa. Nel mondo antico non esistè un commercio privato e internazionale dei cereali simile al commercio moderno, ma ogni regione consumava il grano suo. Eccone le prove.

Nel V e IV secolo a. C. l’Attica, essendo diventata una regione industriale e una nazione politicamente assai potente, la popolazione si addensò tanto che i raccolti del paese non bastarono più. L’Attica infatti doveva importare anche nelle annate buone una provvista di grano che secondo un passo di Demostene in Lept. 31 era di 800 000 medimni cioè circa di 415 000 ettolitri; ma che il Boeck (E. P. A. pag. 154) calcola invece a un milione di medimni, cioè circa 518 000 ettolitri: provvista come si vede assai piccola, almeno per il commercio moderno. Eppure il commercio privato non sarebbe stato capace di fornire all’Attica questo mezzo milione di ettolitri, senza l’assistenza e qualche volta senza la costrizione dello Stato. Dal discorso di Demostene in La crit. 50-51 risulta che tutte le navi appartenenti ad Ateniesi, e quelle ai cui padroni cittadini o meteci ateniesi prestavano il denaro necessario al commercio erano obbligate, sotto minaccia di gravi pene, a portar nel ritorno una parte del carico di grano. Dal discorso di Dem. in Phorm. c. 36-37 si ricava che il padrone di una nave che commerciava tra Atene e le colonie greche della Crimea, l’Argentina o il Far-west della Grecia, e che, avendo caricato grano, lo vendesse in un altro posto che non fosse Atene, poteva esser punito di morte. Dal c. 38 si ricava che per un ricco capitalista aver sempre osservate queste leggi sul commercio dei grani era un merito civico. Cfr. anche su queste leggi: in Theoc., c. 10. – Ciò dimostra che il commercio d’importazione dei cereali, anche in Atene che pure giaceva quasi sul mare, era una specie di obbligo oneroso che lo Stato imponeva ai mercanti, quasi a compenso della protezione e degli altri vantaggi loro accordati. Nè basta: se l’importazione del grano era per metà obbligatoria, il commercio del grano stesso, appena giunto in Attica, non era punto libero. Due terzi del grano sbarcato al Pireo, doveva essere, ci dice Aristotele, Ath. resp. 51, portato ad Atene; l’incetta era proibita, come risulta dal discorso di Lisia adversos frumentarios, con la pena di morte; mentre il commercio al minuto di tutte le altre cose era sorvegliato dagli αγορανόμοι, la sorveglianza del mercato de’ cereali era affidata a un magistrato speciale, i σιτοφυλακες (Lys. 22, 16), i quali (Dem. 20, 32) dovevano tenere i conti del grano che era portato dai vari paesi. Tuttavia l’approvvigionamento era manchevole e le carestie frequenti, cosicchè di tempo in tempo dovevano farsi ad Atene distribuzioni di grano a prezzo di favore, simili a quelle che furono più tardi regolari a Roma, a spese dello Stato o di generosi privati, come risulta da Aristoph, Vesp. 718 e Scolio relativo; Scolio a Equit. 103; Demosth. in Phorm. 37, seg.; C. I. A., 2, 108; 143; 170; 194 e 195, – Dagli Scholia in Aristoph. Achar. 548 sembra risultare che Pericle facesse costruire un grande granaio pubblico. Anzi, all’acquisto dei grani provvedevano magistrati speciali, eletti dal popolo e non sorteggiati, detti σιτῶναι, i quali spesso contribuivano anche denaro proprio. Demost. de Cor. 248; C. I. A., 2, 335 e 353.

Infine, mentre oggi i paesi industriali cercano di restringere quanto più possono la importazione dai paesi produttori di cereali, con dazi di protezione, Atene cercava con tutti i sussidi della diplomazia e della guerra di rendere l’importazione più sicura e abbondante che potesse. Demostene in Lept. 29 e seg. celebra come un grande beneficio di Leucone, signore della Crimea, il privilegio concesso da lui ai mercanti ateniesi di esportare grano senza restrizioni di quantità, e senza pagar dazio di esportazione, ciò che equivaleva a un dono di 13 000 medimni all’anno, meno di 7000 ettolitri. Eppure questo dono sembra a Demostene magnifico. Gli Ateniesi, nel tempo della loro massima potenza, ambirono di avere la signoria del mar Nero e specialmente del Bosforo, per poter riservare a sè la esportazione del grano o concederla a chi volessero, sotto condizioni determinate.

Boeck, E. P. A. 124; Demosth. de cor. 87; C. I. A. 1, 40. – Noi possediamo molti decreti in onore di re di Egitto che concessero il permesso di esportare grano.

Questi fatti non si possono spiegare se non ammettendo che il grano non era facilmente portato e commerciato fuori del mercato locale. Tranne in alcuni paesi, in cui la popolazione era rada e la terra molto fertile, come la Crimea; dove la popolazione era fitta ma sobria e la terra fertilissima, come l’Egitto, negli altri le raccolte bastavano di solito appena al bisogno; e quindi grande era la ripugnanza all’esportazione, tanto è vero che i divieti di esportazione sono frequenti. Quindi la materia del commercio era scarsa; ma anche questa poca non era trafficata dal mercante, che quando concorrevano condizioni speciali. Nel mondo antico le spese e il rischio dei trasporti anche per mare erano grandi: per la scarsezza del capitale e l’altissimo interesse, per la piccolezza, la poca capacità e la lentezza delle navi; per le tempeste, le guerre frequenti, la pirateria, la malafede, la barbarie. Queste spese e questi pericoli erano ancor maggiori nei trasporti per terra. In condizioni simiglianti, il commercio mirava a far poche e poco faticose operazioni, ma guadagnando molto su ciascuna; a trasportare merci di poco volume, il cui prezzo nel paese di acquisto fosse molto basso o il prezzo nel paese di rivendita altissimo, in modo da poter guadagnare lautamente anche trasportandone poco. Questa è la ragione per cui, come fu notato da molti, i popoli antichi scambiavano tra loro quasi soltanto oggetti di lusso; gli oggetti cioè il cui consumo era piccolo e i cui prezzi potevano salire molto nei paesi in cui erano importati o venduti ai ricchi. Inoltre, siccome nel Mediterraneo molti popoli barbari vivevano tra pochi popoli civili, e siccome il valore delle cose è una funzione della civiltà, avveniva che molti oggetti, anche se non fossero di lusso, come la frutta secca, la lana, il miele, i profumi, ecc., valevano pochissimo in un paese poverissimo e barbaro, e molto in paesi più ricchi e civili; e anche di questi si faceva commercio. Si commerciava insomma in modo che ogni carico di nave o carovana facesse guadagnare una somma considerevolissima (Boeck. E. P. A. 130), così da poter pagare le spese del viaggio, l’interesse del capitale e i grossi rischi che il mercante aveva incorso. Ma i cereali sono una merce ingombrante il cui trasporto quindi è caro, onde avveniva che al mercante privato non conveniva portare in un paese grano forestiero comprato anche per poco se non in tempi di terribile carestia, e a condizione di portarne solo una piccola quantità che scemasse di poco, non annullasse la carestia. Se egli ne avesse portata una quantità così abbondante da far ribassare i prezzi di molto, egli non avrebbe guadagnato più quanto bastava per ripagarsi le spese ingenti del trasporto di una merce così ingombrante; e ricompensare il suo rischio. In altre parole il commercio privato dei cereali poteva sussistere in quanto era una speculazione sulle carestie locali e parziali; non come adesso quale procedimento continuo per distribuire in tutti i paesi egualmente la provvista e pareggiare i prezzi, cosicchè non ci sia in nessun paese rincaro o rinvilio soverchio. Questo è confermato da Senofonte, Oec. 20, 27-28, il quale espressamente dice che i mercanti di grano da un paese all’altro speculavano sulle carestie; e da Demosth. il quale nel discorso in Dionys. 7-11 descrive una specie di curiosissimo trust fatto tra parecchi commercianti, per speculare su tutte le carestie che avvenissero nei paesi mediterranei, portando un poco di grano dai paesi dove scendeva a prezzi vili, a quelli dove scarseggiava, guadagnando sulla forte diversità di prezzo. Se il commercio del grano fosse stato internazionale, la speculazione al rialzo si sarebbe dovuta fare, non nello spazio, ma, come adesso, nel tempo: comperare non nei paesi di abbondanza ma nei tempi di rinvilio, per rivendere in quelli di rincaro. Inoltre, siccome i mercati locali e ristretti sono molto variabili, queste speculazioni erano molto rischiose: come ci attesta Demosth. in Zenothemidem, 25.

Ho trattato a lungo il caso dell’Attica, perchè le notizie abbondano: ma le condizioni della civiltà antica essendo rimaste, in questo, eguali, simili considerazioni valgono anche per Roma e per l’Italia. Se nel V e IV secolo il grano del Ponto o dell’Egitto non poteva esser portato, senza il sussidio dello Stato o dei ricchi negozianti che spontaneamente o costretti dalla legge si assumevano parte della spesa, ad Atene, che era quasi sul mare e per i tempi una gran città opulenta, come avrebbe potuto due secoli dopo il grano dell’Egitto esser venduto nell’interno dell’Italia, nella Gallia Cispadana, nelle città poste sulle vette dell’Appennino? Trasportato lassù il grano sarebbe costato talmente da non poter fare in nessun modo concorrenza al grano indigeno, e le spese di trasporto e il lucro del mercante avrebbero protetto la granicoltura indigena assai più che i dazi protettori moderni: proteggevano anzi tanto e rendevano così difficile la importazione del grano che, almeno a Roma, si dovette ricorrere a procedimenti artificiali, simili a quelli usati ad Atene, per stimolare la importazione. Gli acquisti a spese dello Stato, le frumentazioni, le distribuzioni gratuite di privati generosi sono provvedimenti dello stesso genere e suggeriti dalle stesse necessità che quelli che noi abbiamo veduto a Atene. Quando, Roma crescendo, la popolazione si agglomerò intorno ai sette colli, il prezzo dei cereali crebbe rapidamente, a mano a mano che bisognò cercare le provviste in una zona più vasta, appunto perchè le spese del trasporto crescevano e cresceva la difficoltà di portare a Roma, normalmente, la grossa provvista necessaria a nutrire tanta gente. Gli europei e gli americani del secolo XIX e XX sono tanto avvezzi a vedere immense metropoli di milioni di uomini nutrite regolarmente dal commercio privato, che pensano esser questa una condizione naturale di cose; e invece questa regolarità di approvvigionamenti è uno dei più meravigliosi e recenti progressi della civiltà, di cui è stata cagione l’invenzione delle ferrovie e del battello a vapore, la potentissima organizzazione dell’industria e del commercio moderno, la diffusione delle abitudini di lavoro, l’immenso aumento della ricchezza. Nel mondo antico era difficile approvvigionare una città di centomila abitanti. Ciò spiega come quasi tutte le città antiche, tolte poche, fossero molto piccole; ciò ammonisce a non credere facilmente alle grossissime cifre cui si fa ascendere la popolazione di alcune di queste città; ciò spiega come, quando in una nazione arricchita, sia con l’industria e il commercio, come l’Attica, sia con le usure, la esportazione di capitali e le conquiste come l’Italia, la popolazione si addensava dalle campagne in qualche grossa città, la difficoltà degli approvvigionamenti divenisse una questione politica importantissima. Era questione vitale per lo Stato poter provvedersi nei paesi in cui era annualmente una certa sovrabbondanza di grano; e perciò esso doveva o conservare buone relazioni diplomatiche con questi paesi, come Roma e Atene fecero con l’Egitto, o conquistarli. Ciò spiega anche come la espansione militare degli Stati antichi dipendesse in parte dal possesso di regioni molto fertili di grano. Roma potè mandare eserciti in tutte le regioni circummediterranee, dopochè ebbe conquistata la Sicilia, la Sardegna, la Spagna e avviate sicure relazioni diplomatiche con l’Egitto; cioè dopochè ebbe ampi granai aperti alle sue domande. Mitridate potè impegnarsi nel gran duello con Roma dopo aver conquistata la Crimea frugifera. Un esercito numeroso è una città mobile, un addensamento artificiale di popolazione, che deve esser nutrito. Un paese molto popoloso che producesse appena il grano necessario ai suoi bisogni, sarebbe stato ridotto alla carestia perpetua, se avesse dovuto mandar lontano una parte del suo grano, per nutrire gli eserciti. Per queste ragioni mi pare verisimile che Cesare e Crasso, proponendo nel 65 la conquista dell’Egitto, proponessero sopratutto la conquista del più ricco granaio dei paesi mediterranei, e sperassero che l’idea sarebbe accolta dal popolo, sempre pauroso di carestie, con entusiasmo eguale a quello con cui era stata accolta la vittoria di Pompeo sui pirati.

Non essendo possibile ammettere che la agricoltura italiana dopo il 150 a. C. fosse rovinata dalla concorrenza dei grani forestieri, ho congetturato che l’aumento del tenore e del costo della vita fosse cagione di questa crisi. È una congettura perchè i fatti mancano: ma è una congettura che mi par verisimile. Gli scrittori antichi raccontano in mille modi il continuo e funesto aumento del lusso in Italia, dopo la fine della seconda guerra punica, e di questo aumento Plinio ci ha conservati alcuni fatti capitali, da me citati nel corso della narrazione. Ora questo aumento del lusso, che non era altro se non un innalzamento del tenor di vita per imitazione di una civiltà più raffinata, considerato nei suoi effetti immediati dai moralisti, potè esser cagione sufficiente delle crisi, in un paese che era molto povero. Fatti analoghi sono frequentissimi nella storia. In parte, ad esempio, la crisi economica di cui ha sofferto l’Italia nell’ultimo ventennio nacque dall’aumento di spese di cui fu cagione l’introduzione della civiltà industriale anglo-francese nella società agricola che aveva durato fino al 1818. Non è avvenuto lo stesso fatto in Russia, dopo il 1863? Un fenomeno di questo genere, più piccolo, mi par sufficiente a spiegare quella gran crisi, nel modo che ho esposto nel libro. La civiltà greca e orientale, più voluttuosa e costosa, penetrando nell’antica Italia rustica e povera, la decompose non solo moralmente, ma anche economicamente, rovinando l’antico assetto delle fortune nelle famiglie e nelle classi. Ma è argomento questo grave e vasto, che intendo trattare più minutamente in uno studio parziale.

B.
Sulla cronologia delle guerre di Lucullo.
(a pag. 223 del I volume).

Sino al Reinach, si era sempre ammesso che la guerra per la conquista della Bitinia incominciò nella primavera del 74. Tale è anche l’opinione del Mommsen: R. G. 3, 55 seg. Il Reinach invece, ammettendo che Nicomede morì alla fine del 74, fa cominciare la guerra nel 73 (M. E. 321, n. 1); e la sua opinione fu seguita da Jürgens, De Sallustii historiarum reliquiis, Gottingen 1892. Invece più recentemente il Maurenbrecher, Sallusti historiarum reliquiae, Leipzig 1893; e Bernhardt, Chronologie der Mithridatischen Kriege, Marburg 1896, sono ritornati alla vecchia cronologia.

Dopo lungo studio, mi sono persuaso che la rettificazione di Reinach non si può accogliere. Cic. pro Mur. 15, 33; Liv. P. 93, Eutropio 6, 6, e App. Mith. 72 dicono, parlando o di Lucullo e Cotta o del solo Lucullo, che i consoli furono mandati a comandar la guerra. Affermare che tutti e quattro hanno scritto consoli per proconsoli, mi pare ardito. L’argomento tolto da Cic. Acad. prior, 2, 1, 1 che dice: Consulatum ita (Lucullus) gessit ut.... admirarentur omnes; post ad Mithridaticum bellum missus a senatu..., non regge. Lucullo passò a Roma, come console, 4 o 5 mesi almeno: e Cicerone allude evidentemente a questi mesi. Nemmeno la frase di Velleio 2, 33 L. Lucullus.... ex consulatu sortitus Asiam è un documento valevole. Velleio riassume in lungo inciso, attaccato con un qui al nome di Lucullus, incidentalmente e per sommi capi, la storia della guerra, e commette in questo riassunto frettoloso e farraginoso diversi errori e confusioni: attribuisce a Lucullo la provincia dell’Asia invece che la Cilicia; enumera la vittoria di Cizico – la prima riportata da Lucullo – dopo le sconfitte inflitte a Mitridate, che sono quelle delle campagne seguenti. Ciò dimostra che Velleio non conosceva bene la storia di queste guerre complicate, che riassume per sommi capi; e come è stato inesatto nel nominar la provincia e nell’enumerare i fatti memorabili, così ha potuto sbagliare nell’indicare la carica con cui Lucullo andò in Asia. In queste condizioni la autorità sua non può valere contro quella di Eutropio, di Appiano, di Livio, e sopratutto di Cicerone.

Senza enumerare altri argomenti, desunti dai testi, che si possono trovare nello studio del Bernhart, io credo che si possa arrivare a conclusioni definitive, anche su questa questione, per un’altra via; studiando la storia di questa guerra e i suoi numerosi punti oscuri. Noi conosciamo questa storia da due fonti principali: Plutarco, Vita di Lucullo; e Appiano, Le guerre Mitridatiche: ma anche Plutarco, che forse ha riassunto Sallustio e certo un racconto migliore che quello di cui si serve Appiano (Nicola di Damasco?), è pieno di oscurità e di incertezze; come chi, volendo stringere in breve il racconto di un episodio assai complesso, dimentica molto, compendia troppo e trascura fatti essenziali, cosicchè tutta la narrazione riesce manchevole e poco chiara. E infatti, io credo che la confusione dei due racconti antichi, e di quelli di molti storici moderni, anche del Reinach, nasca dall’aver tutti taciuto, che Mitridate invase la Bitinia e l’Asia – non discutiamo se nel 74 o nel 73 – ma – è questo il dato essenziale – all’improvviso, quando Cotta e Lucullo erano ancora in Italia; quando il governo della Cilicia era vuoto, per la morte di Ottavio; e in Asia eran solo le due legioni fimbriane, al comando di un semplice propretore.

Se difatti non si ammette questo fatto, la storia del primo anno di guerra presenta molte difficoltà insolubili. Se Cotta aveva già occupato la Bitinia con un esercito, prima che Mitridate l’invadesse, come si spiegherebbe che nessuna città della Bitinia, fuori di Calcedonia, fece resistenza? Cotta avrebbe certo messo una guarnigione almeno a Nicomedia, la capitale, dove erano i tesori del re; e almeno a Nicomedia sarebbe stata tentata una resistenza contro Mitridate. Invece Calcedonia sola resiste; ed è l’unico punto in possesso dei Romani; segno evidente che, quando Mitridate entrò in Bitinia, l’esercito Romano non c’era ancora. Se Lucullo fosse già stato con cinque legioni in Asia, quando Mitridate l’invase, gli arruolamenti fatti da Cesare, che studiava a Rodi (Svet. Caes. 4) sarebbero stati una spacconata ridicola e un crimine, di cui Lucullo avrebbe potuto domandargli conto: invece diventano un provvedimento ragionevole e meritorio se pure inutile, se si ammette che l’invasione fu inaspettata, quando in Asia non erano che le due legioni di Fimbria al comando di un propretore; se si ammette che le classi ricche temerono una nuova rivoluzione e probabilmente tutte le città pensarono a difendersi come potevano. Lucullo. quando in principio si cominciò a parlare a Roma della guerra, intendeva avere il governo della Cilicia, per tentare attraverso la Cappadocia l’invasione del Ponto (Plut. Luc. 6): e invece poi quando ha ottenuto la Cilicia, non va nella sua provincia, ma sbarca in Asia, dove non aveva ancora nessuna autorità al contrario di quello che afferma Reinach, M. E. 321 n. 1 (Cfr. Lange, R. A. 3, 201).

Dunque Lucullo mutò il piano di guerra. Ora quale altra cagione si può trovare a questo mutamento, se non che, frattanto, Mitridate aveva invasa l’Asia, e che invece di invadere il territorio nemico, secondo il primo disegno, bisognava difendere il proprio? Ma la prova per me decisiva è data dalla spartizione del comando tra Cotta e Lucullo; e dal decreto che deliberò questa spartizione, fortunatamente riassuntoci da Cic. pro Mur. 15, 33: ut alter Mithridatem persequeretur, alter Bithyniam tueretur. Supporre che il Senato facesse un decreto simile, quando Mitridate era ancora nel Ponto, e non si sapeva che cosa deliberasse, e tutti pensavano a Roma di poter fare una guerra offensiva, è assurdo. Perchè mandare Cotta a difendere la Bitinia e la Propontide che nessuno minacciava? Perchè dare a Lucullo l’incarico di inseguire Mitridate, espressione che chiaramente indica un nemico già all’opera? Invece questa deliberazione diventa ragionevole quando si ammette che fu presa, dopo che il Senato seppe che la Bitinia e l’Asia erano invase da due eserciti. Il Senato mandò Cotta a tentar di riconquistare la Bitinia; e Lucullo a combattere l’esercito che era in Asia; ciò che spiega come Lucullo sbarcasse in Asia. E infine come si spiegherebbe che Lucullo appena arrivato in Asia deliberò, senza averne un potere legale, degli alleviamenti finanziari per gli Asiatici, se Mitridate non era già in Asia, e se al generale in capo non fosse parso urgente di placare il fermento delle popolazioni, prima di avanzare al nord, dove l’esercito pontico si trovava? Infine questa supposizione risolve chiarissimamente l’imbroglio del comando assegnato a Lucullo, che in Plutarco, dove questo antecedente è taciuto, è oscurissimo. Se in principio Lucullo doveva intrigare, raccomandarsi a Precia e a Lucio Quinzio per avere il proconsolato della Cilicia, quando invece si seppe che Mitridate aveva invasa la Bitinia e l’Asia e si temè un nuovo scompiglio simile a quello dell’anno 88, si riconobbe che non si poteva lasciare tanta mole di guerra a un propretore con due legioni, e il comando della Cilicia vuoto; ma si volle mandare, a qualunque costo, anche con un provvedimento straordinario del genere di quello con cui si era mandato Pompeo in Spagna, un uomo capace di cimentarsi con il nemico. Quest’uomo non poteva esser che Lucullo. Egli non solo era console, ma aveva una grande riputazione militare, conosceva l’Oriente, dove aveva già combattuto con grandissimo onore contro Mitridate. Nel pericolo, gli altri concorrenti furono messi in disparte, e solo per contentarli si diedero loro comandi subordinati.

Dunque Mitridate invase l’Asia o la Bitinia nella primavera immediatamente successiva alla morte di Nicomede, e quando a Roma non si era presa ancora nessuna disposizione per la guerra. Era questa la primavera dell’anno 74 o quella dell’anno 73? Senza dubbio, la primavera del 74. Lucio Ottavio fu proconsole in Cilicia nel 74: se la guerra fosse scoppiata nel 73, il governo della Cilicia sarebbe stato occupato dal suo successore ordinario, e non avrebbe avuto luogo la vacanza straordinaria che fu cagione di tanto spavento; Lucullo sarebbe già stato nella sua provincia della Gallia e non a Roma. Non solo dal racconto di Plutarco si ricava chiaramente che gli intrighi per il comando di Oriente avvennero quando Lucullo e Cotta erano in Roma come consoli: ma la cosa è verisimile per sè stessa. Se quando già Lucullo avrebbe dovuto essere proconsole in Gallia, si fosse trattenuto a Roma per avere il proconsolato della Bitinia e non più in luogo di un proconsole morto, ma del governatore già nominato, noi lo sapremmo: tanto il procedimento sarebbe stato insolito e illegale. Più semplice è di seguire Cicerone che ci dice chiaramente essere stati mandati alla guerra i consoli Lucullo e Cotta: ciò che se non era più frequentissimo, non era nemmeno così raro, come il Reinach pensa. Quanto alla data della morte di Nicomede, l’argomento dei tetradrammi bitinici, coniati nell’anno 224 dell’era bitinica, che comincia con l’ottobre del 74, portato dal Reinach, M. E. 318, n. 2, per provare che Nicomede è morto alla fine del 74, è già stato confutato dal Maurenbrecher. Non è assurdo supporre che anche dopo la morte di Nicomede, nel disordine politico che seguì all’annessione, si sia continuato a coniar le vecchie monete; tanto più se, come dice il Maurenbrecher, queste monete portano l’effigie non del re morto, ma di suo padre Nicomede II (S. H. R. pag. 228).

Ho ammesso che Mitridate, nella prima invasione, accompagnava il corpo che entrò in Asia e non quello che invase la Bitinia, basandomi specialmente su Plut. Sert. 24: testo che certamente si riferisce a questa prima invasione, e che non può essere messo in dubbio perchè troppo pieno di particolari. Del resto non è strano che Mitridate, il quale desiderava molto che l’Asia si rivoltasse, volesse con la sua presenza accanto a Marco Mario dimostrare che l’insurrezione non significava distacco da Roma: e quindi indurre alla rivoluzione i ceti meno audaci e più favorevoli a Roma. Da questa congettura è derivata l’altra, assai meno sicura, che i due generali, Tassilo ed Ermocrate, nominati da Appiano, Mith. 70, fossero mandati in Bitinia. Ma Eutr. 6, 6, e App. Mith. 71, dicono che Cotta fu vinto a Calcedonia da Mitridate. Ciò mi ha indotto a supporre che, quando Mitridate seppe che Cotta andava con una flotta a Calcedonia, abbandonasse l’esercito d’Asia, e si recasse in persona a prendere il comando di quello di Bitinia per condurlo all’assedio di Calcedonia. La presenza di una flotta romana a Calcedonia poteva nuocer molto a tutto l’esercito pontico: premeva perciò a Mitridate di vincere Cotta, tanto più che il moto rivoluzionario faceva in Asia pochi progressi; e perciò andò in persona a comandare le operazioni contro Cotta. Egli ripeteva così lo stesso errore dei Romani, dividendo le sue forze per due scopi; ma l’imprudenza di Cotta gli fece risultare l’errore in un vantaggio. Egli ebbe tempo di sconfiggere Cotta e di tornare, probabilmente conducendo seco una parte delle milizie che assediavano Calcedonia, contro Lucullo, che frattanto, riordinato l’esercito e preparata ogni cosa, si avanzava.

Si potrebbe obiettare che se Mitridate invase l’Asia quando Cotta e Lucullo erano ancora in Italia, egli per almeno tre mesi non ebbe a combattere in Asia che forze minime. Perchè non ne approfittò per impadronirsi di maggior parte della provincia di Asia? Perchè si mantenne sempre nel nord? Dovette esser cagione di ciò il contegno delle città asiatiche. Solo poche e tra le minori si dichiararono per l’invasore; le altre, atterrite dai ricordi della rivoluzione precedente così miseramente fallita e così duramente espiata, vigilate dai residenti Romani e dalle classi ricche che questa volta non si lasciarono sorprendere così spensieratamente (si ricordino sempre i reclutamenti di Cesare) non si mossero. Sarebbe stato imprudente, per la difficoltà degli approvvigionamenti, avventurarsi nel cuore di un paese nemico e sciupare in assedi quelle forze che Mitridate voleva conservare integre per l’urto con l’esercito romano, che presto gli sarebbe venuto contro.

C.
Crasso, Pompeo e Cesare, dal 70 al 60 a. C.
(a pag. 337 del I volume).

I rapporti tra Crasso e Pompeo, nel decennio che passa tra il loro consolato e il consolato di Cesare, sono di gran momento per spiegare gli eventi di quel tempo; ma i racconti degli storici antichi sono così confusi e manchevoli, che credo necessario aggiungere questa nota, per spiegare in seguito a quali congetture mi sia indotto a narrarli così come li ho narrati.

Ammesso, come ho già detto nel testo, aggiungendo le ragioni (vol. I, pag. 262), che Pompeo e Crasso lasciarono il consolato nemici, ho congetturato che cagione prima dell’odio fossero gli intrighi di Crasso, che riuscì a mandare a vuoto le ambizioni concepite da Pompeo fin d’allora sulla successione di Lucullo. Supporre che Pompeo avesse già allora questa ambizione è così naturale e così necessario a spiegare quanto segue, che anche il Mommsen R. G. 3, 106, lo ha supposto; solo spiegando l’abbandono dell’idea, con il fatto che nel 70 la guerra mitridatica pareva finita. Ora mi pare più verisimile che Pompeo rinunciasse all’idea perchè costrettovi da Crasso. Infatti era facile anche nel 70 argomentare che dalla guerra mitridatica sarebbe nata quella armena. Inoltre l’odio tra i due rivali, rinato dopo la conciliazione del gennaio 70 e quindi per fatti connessi con il consolato, deve avere avuto, se fu così feroce e lungo, se mise a tanto rischio le sorti del partito popolare, motivi seri, non piccoli urti e puntigli personali. Ora quale motivo più serio e più probabile che una contesa di ambizione per ottenere comandi proconsolari straordinari? Infine con la congettura da me proposta, si spiega quella notizia di Velleio, 2. 31, che Pompeo console giurò se in nullam provinciam ex eo magistratu iturum: dichiarazioni pubbliche e solenni che dovettero esser fatte per qualche motivo. Non è verisimile supporre che Crasso, aiutato dai conservatori, mettesse in giro calunnie sulle ambizioni di Pompeo, spandesse la voce, per esempio, che egli volesse andare in Oriente per diventar poi signore di tutto l’impero come Silla (di questa ambizione egli fu sospettato sino al suo ritorno dall’Oriente); e che Pompeo, fastidito da queste calunnie, irritato dalle difficoltà che incontrava, abbia fatto quella sprezzante dichiarazione? Io non so immaginare altrimenti l’occasione e il motivo di quella dichiarazione. Inoltre non mi par possibile che Pompeo restasse a Roma dopo il consolato, se non per forza; e il contegno sdegnoso e riserbato che tenne, l’odio che mostrò contro Crasso fanno verisimile che colui che costrinse allora Pompeo a restar uomo privato, fosse Crasso.

Questa ipotesi è confermata dal contegno successivo di Crasso. Durante gli anni 69 e 68, quando Pompeo copertamente intriga contro Lucullo e apparentemente si rassegna all’ozio della vita privata, Crasso attende pacificamente agli affari astenendosi dalla politica: non si muove neanche dopochè nel 67 Pompeo è mandato a combattere i corsari. Ma dopochè nel 66 Pompeo ha ottenuto la successione di Lucullo, Crasso riapparisce di nuovo all’improvviso, e con una ambizione così inquieta e temeraria, che difficilmente si riconoscerebbe il prudente banchiere degli anni precedenti. Tutto ad un tratto egli vuole indurre il Senato a dichiarare, senz’altro, la conquista dell’Egitto, paese amico e alleato da tanto tempo, con grande scandalo dei conservatori (Plut. Cras. 13). È vero che Svet. Caes. 11, dice che Cesare ambiva questo comando; ma io credo che qui ha ragione Plutarco, perchè Cesare, che allora era appena stato eletto Edile, che aveva tanti debiti o così poca autorità, non poteva proporsi sì grande ambizione. Siccome sappiamo che Cesare in quegli anni fu ai servigi di Crasso e il suo più alacre luogotenente, è probabile che Svetonio abbia scambiato la propaganda fatta da Cesare a favore di Crasso, per un’ambizione personale. Dunque a un tratto Crasso diventa ambizioso di straordinari trofei militari; non solo, ma egli così ricco, così prudente, così incline per temperamento e per interesse alle idee conservatrici e ad ogni modo così riservato e prudente sino ad allora, si avventa nella lotta tra popolari e conservatori, diventa un demagogo, evidentemente per ottenere il comando della guerra di Egitto; propone di concedere il diritto di cittadinanza ai Transpadani; ha parte – non importa quale – nella congiura del 65; spende per far riuscire Catilina console nel 63.

Questo mutamento, se non lo si vuol spiegare come una alienazione mentale, dovette avere anche una cagione esterna. Ora mi par verisimile che la cagione fosse questa: che l’invio di Pompeo in Oriente era un grave smacco personale di Crasso. Egli probabilmente si vantava di aver tolta a Pompeo la successione di Lucullo; e questo successo aveva accresciuto smisuratamente la reputazione di Crasso. Aveva vinto perfino Pompeo! Ma ecco Pompeo prendersi la rivincita! La rivalità antica si risveglia; Crasso vuole compensi, un incarico straordinario che di nuovo lo rimetta al di sopra di Pompeo. Viceversa se Pompeo nel 70 avesse rinunciato spontaneamente, invece che costretto da Crasso, alla provincia, tutto ciò apparirebbe quasi inesplicabile.

Quale fu la parte di Crasso nella congiura del 66? Tutte le ipotesi sono possibili, perchè mancano documenti diretti e documenti di controllo. Sebbene Dione 36, 42 e Sallustio C. C. 18 non nominino Crasso tra gli autori della congiura; sebbene Svetonio Caes. 9 e Ascon. in toga candida scrivano, a proposito delle partecipazioni di Crasso, che si trattava di una dubbia diceria; io credo che Crasso e Cesare ne furono consapevoli. Non si può spiegare altrimenti, come bene ha notato lo John, il contegno così remissivo del Senato. Se il Senato e i consoli si fossero trovati di fronte solo Autronio, Silla e Pisone, li avrebbero distrutti, tanto più che il processo intentato contro Silla, tre anni dopo, mostra come la volontà di vendicarsi non mancava ai minacciati: invece li risparmiarono, anzi li premiarono, senza nessun dubbio perchè dietro loro stava qualche uomo molto più potente; e quest’uomo così potente non può essere che quello stesso il quale in quei tempi si mostra agitato da tante ambizioni, e che comparisce, anche nel racconto di Sallustio, come l’autore degli onori decretati a Pisone, in premio della sua congiura. Ma quale fu la ragione per cui Crasso si adoperò a far dare questa missione a Pisone? Questa questione si connette con l’altra; per quale ragione Crasso partecipò alla congiura? Dico partecipò, perchè mi par verisimile, al contrario di quanto suppone lo John, che Crasso non la ordisse egli; ma piuttosto incoraggiasse i promotori, che dovettero essere i due consoli. La diceria raccolta da Svetonio, che Crasso volesse farsi eleggere dittatore con Cesare magister equitum non mi pare risponda al vero. A che avrebbe giovato, sia al suo odio contro Pompeo come agli scopi di una ambizione più generica, esser dittatore nel 65, quando Crasso non aveva esercito? Silla aveva potuto dominare l’Italia per anni, ma non in virtù del nome di dittatore conferitogli; bensì per mezzo all’esercito devoto a lui, che egli aveva ricondotto dall’Asia. Anche ammesso che Crasso, per difendersi contro possibili assalti di Pompeo al suo ritorno, o addirittura per distrugger Pompeo, ambisse allora un potere dittatoriale come quello di Silla, bisognava si procurasse un esercito; e questo non poteva farlo che in una guerra. Mi pare perciò più verisimile che egli volesse, aiutando Silla e Antonio a riconquistare il consolato, avere i due consoli favorevoli, ciò che gli avrebbe servito ad ottenere più facilmente il comando in Egitto; a quel modo stesso che nel 64 spese molto per far riuscire consoli Antonio e Catilina. Fallito il tentativo egli tenta nel 65 di far concedere la cittadinanza ai Transpadani, poi l’agitazione popolare per mezzo di Cesare, i cui giuochi da edile furono certo pagati da lui: falliti questi due tentativi l’ostinato ritorna all’idea di far eleggere due amici a consoli; e si mette d’accordo con Catilina ed Antonio. L’insuccesso di questo tentativo, poi la bufera della congiura disperdono i propositi; e Crasso rinuncia definitivamente ai suoi disegni ambiziosi. Io credo insomma con il Mommson R. G. 3, 172 seg. che la conquista dell’Egitto e l’incarico di compierla, ambito da Crasso, furono lo scopo supremo di tutte queste agitazioni, con le quali Crasso mirava a prendersi la rivincita della rivincita di Pompeo; e quindi lo scopo anche della partecipazione di Crasso a questa prima congiura. Perciò l’invio di Pisone in Spagna non potè essere determinato da propositi rivoluzionari perchè poco avrebbe servito per il fine di conquistar l’Egitto il governo della Spagna: ma fu nel tempo stesso un dispetto fatto a Pompeo di cui Pisone era nimico; e una orgogliosa soddisfazione personale di Crasso, una ostentazione di potere che egli volle fare in faccia a Roma e un maneggio per troncare definitivamente le dicerie sulle sue partecipazioni alla congiura. Resta invece inesplicabile il rôle di Sizio. Invano ho cercata una supposizione che lo spiegasse in modo soddisfacente.

Resta a giustificare il mio racconto dei rapporti tra Crasso e Cesare, durante la lontananza di Pompeo. Il Mommsen, seguito dal John, suppone che Cesare e Crasso si fossero uniti per procurarsi, con la conquista dell’Egitto e con l’invio di Pisone in Spagna, un esercito, da contrapporre a quello di Pompeo. Ma a questa teoria si può opporre una obiezione che a me sembra insuperabile: e cioè che Cesare, a differenza di Crasso, non aveva ragioni di timore o di odio con Pompeo, con il quale era in amichevoli rapporti. Cesare aveva contribuito a far approvare, al principio del 66, la legge Manilia: per qual ragione, alla fine del 66, quando Pompeo non aveva ancora vinto definitivamente Mitridate, egli avrebbe cercato di difendersi contro gli effetti della legge che dieci mesi prima aveva fatto approvare? Il suo contegno sarebbe di una incoerenza assurda. Inoltre i progressi della potenza di Pompeo, indebolendo la consorteria conservatrice, accrescendo fiducia al partito popolare, giovavano a Cesare, il quale allora, eletto appena edile, non poteva nemmeno sognare di rivaleggiare con Pompeo per il primato nella città. Da parte sua Pompeo non aveva ragioni di diffidare di Cesare, molto meno potente, povero, a cui egli probabilmente aveva prestato quattrini e che già gli aveva resi molti servigi e altri avrebbe potuto rendergli. Tuttavia se, aiutando Crasso, Cesare rischiò di corrucciarsi con Pompeo, di cui gli conveniva invece restare quanto più potesse amico, dovette ciò fare per qualche serio motivo: ed io non so vederne altro che il denaro. Cesare, carico di debiti, versava allora in strettezze: lo prova l’offerta di Catulo nella elezione a pontefice e il sequestro dei bagagli, alla partenza per la Spagna; lo induce a supporre la crisi da cui era travagliata l’Italia, la grande scarsezza di denaro che è la cagione di tutti i torbidi politici di quella età, e che rendeva più difficile la rinnovazione dei crediti. Eppure Cesare doveva continuare a spendere con l’usata profusione e per di più fare le grandi spese dell’edilità. D’altra parte ci è noto che Crasso diede denaro a Cesare. La conclusione tratta da questi fatti mi par verisimile; e mi par confermata da un’altra considerazione: che Cesare evidentemente cercò che il suo zelo per le ambizioni di Crasso non significasse nimicizia di Pompeo, del quale si studiò di restare amico, riuscendovi. Nel 63 infatti, Cesare sostiene la proposta presentata da uno dei suoi più devoti seguaci, Labieno, con cui, essendo finita la guerra Mitridatica, si attribuivano a Pompeo straordinari onori; nel 62 propone in persona altri onori, si unisce per far la guerra ai conservatori con Q. Metello Nepote, partigiano di Pompeo e autore della proposta di richiamar Pompeo in Italia. Anche se l’insuccesso degli intrighi di Crasso stimolò questo rinnovato zelo amichevole per Pompeo, come avrebbe potuto Cesare far queste proposte e unirsi con Metello, se nei due anni precedenti si fosse schierato apertamente con i nemici di Pompeo? Come avrebbe potuto due anni dopo interporsi come paciere tra Crasso o Pompeo e comporne la lunga discordia, se non fosse stato amico dell’uno o dell’altro? È evidente che Cesare affermò di essere amico di Crasso e di Pompeo; che, come aveva aiutato Pompeo ad avere il comando in Asia, così voleva aiutar Crasso, che era pure un cittadino insigne, ad avere il comando in Egitto. Che Crasso desiderasse questo comando anche per gelosia di Pompeo era cosa che, pur recandogli dolore, non lo riguardava. Pompeo non poteva non riconoscere la giustizia e la lealtà di questa condotta. Ma ciò riconferma che motivi personali indussero Cesare ad aiutar Crasso: l’amicizia, avrà detto pubblicamente; l’amicizia e il denaro, in verità.

Qualche devoto del culto degli eroi considererà quasi come una bestemmia supporre un motivo così meschino e così personale a un seguito di atti, che ebbero una influenza immensa nella vita di Cesare e che quindi sono eventi primari della storia universale. Non sarà tanto scandalizzato chi conosce le cose del mondo; chi sa come molto spesso gli atti più importanti della vita sono compiuti appunto perchè se ne ignorano le conseguenze ultime; chi sa come quando dei politicians indebitati assediano la fortezza del potere per prenderla, vendono ogni cosa, per avere il denaro necessario a condurre sino alla fine l’assedio.

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– S. R. – Studia romana. – Berolini, 1859.

INDICE.

I.
La guerra contro gli Elvezi e contro gli Svevi.
(Pag. 1 a 32)910.

Le trattative con gli Elvezi. – L’emigrazione degli Elvezi. – Le prime mosse di Cesare. – Il combattimento della Saona. – Dummorige. – Il primo errore di Cesare. – La battaglia di Ivry. – L’esito della battaglia di Ivry. – La pace con gli Elvezi. – Cicerone in esilio a Tessalonica. – La tirannia di Clodio. – La guerra contro Ariovisto. – Il panico di Besançon. – La prima vittoria di Cesare. – La legge di Gabinio contro i capitalisti.

II.
L’annessione della Gallia.
(Pag. 33 a 55).

La spedizione contro i Belgi. – La ritirata dei Belgi. – La sottomissione dei Belgi. – Disfacimento del partito democratico. – L’annessione della Gallia. – L’ “uomo fatale”. – Cesare. – Tolomeo e i banchieri di Roma. – La questione egiziana. – Il convegno di Lucca.

III.
La democrazia imperialista.
(Pag. 56 a 71).

I neo-pitagorici. – Il teatro di Pompeo. – Il lusso di Roma. – La navicella di Catullo. – Crediti o debiti in Italia. – Cesare, il gran corruttore. – La democrazia imperialista. – Caio Gracco e Giulio Cesare.

IV.
Il secondo consolato di Crasso e Pompeo.
(Pag. 72 a 95).

La prima rivolta gallica. – Cicerone e Cesare. – Cicerone e Varrone. – La Gallia è dichiarata provincia romana. – La guerra contro i Veneti. – La condizione della Gallia. – Politica di Cesare in Gallia. – Crasso e Pompeo, consoli per la seconda volta. – La spedizione di Gabinio in Egitto. – Gli Usipeti e i Tencteri. – Il teatro di Pompeo. – La lotta dei conservatori contro la guerra di Persia.

V.
La prima delusione della democrazia imperialista:
la conquista della Britannia.
(Pag. 96 a 117).

Le spese di Cesare. – Gli schiavi di Cesare. – La maldicenza dei salotti conservatori. – Cicerone e il “De Republica”. – Gli ultimi anni di Catullo. – Le elezioni e le corruzioni per l’anno 53. – La spedizione di Cesare in Britannia. – La morte di Giulia. – La guerra contro il re Cassivellauno. – Gabinio e Rabirio in Italia. – La prima grave rivolta gallica.

VI.
La grande catastrofe
della democrazia imperialista:
la invasione della Persia.
(Pag. 118 a 153).

La società gallica. – La decadenza militare della Gallia. – Malcontento della Gallia contro il dominio romano. – Le prime rivolte del 53. – Il piano di guerra di Crasso. – La mossa dei Parti sulla Siria. – L’avanzata di Crasso nella Mesopotamia. – L’inseguimento dei Parti. – La battaglia di Carre. – La ritirata su Carre. – L’abbandono di Carre. – La morte di Crasso. – I consoli dell’anno 53. – Lo sterminio degli Eburoni. – La anarchia a Roma. – La morte e i funerali di Clodio.

VII.
La suprema crisi della democrazia imperialista:
la rivolta della Gallia.
(Pag. 154 a 199).

Commio e Labieno. – Decadenza del partito democratico. – La discordia tra Cesare e Pompeo. – La nuova rivolta della Gallia. – La nuova candidatura di Cesare al consolato. – Il passaggio delle Cevenne. – Cesare raggiunge le legioni. – Il piano strategico di Cesare. – Vercingetorice. L’assedio di Avarico. – La presa di Avarico e le sue conseguenze. – L’errore di Cesare. – Gergovia. – L’insurrezione quasi generale della Gallia. – Critica condizione di Cesare. – La grande e la piccola guerra. – La ritirata di Cesare. – La prima battaglia campale. – Vercingetorice si ritira ad Alesia. – L’assedio di Alesia. – La fame. – La capitolazione di Vercingetorice. – Perchè Cesare vinse.

VIII.
I disordini e i progressi dell’Italia.
(Pag. 200 a 220).

Le leggi di Pompeo. – Il terrore nel consolato di Pompeo. – I progressi delle vigne e degli uliveti. – La grande e la media possidenza. – I progressi industriali delle città minori d’Italia. – Le nuove correnti intellettuali. – I giovani. – Conservatori e rivoluzionari intellettuali. – I debiti.

IX.
I “Ricordi di Gallia”.
(Pag. 221 a 247).

Reazione della opinione pubblica contro Cesare. – I “Ricordi di Gallia”. – Le rivolte galliche del 51. – Cicerone, proconsole in Cilicia. – Crudeltà di Cesare in Gallia. – Marco Claudio Marcello. – La questione della cittadinanza ai comaschi. – Il viaggio di Cicerone. – Le prime scaramuccie politiche contro Cesare. – La pubblicazione del “De Republica”. – La seduta del Senato del 30 settembre 51. – Cicerone in Cilicia e i Parti. – Cicerone “imperatore”!

X.
Le brighe di un governatore romano.
(Pag. 248 a 281).

Impopolarità crescente di Cesare. – Lo spirito conservatore in Cesare. – Cesare e le alte classi. – Curione. – I maneggi di Curione per Cesare. – L’opinione pubblica vuole la pace. – Curione incomincia l’opposizione a Pompeo. – Pompeo e l’opposizione di Curione. – Cicerone nella sua provincia, – La Cilicia. – Le sofferenze e il disordine di una provincia romana. – Le brighe di un governatore onesto. – L’amministrazione di Cicerone. – Cicerone e il commercio delle malleverie. – L’imbroglio di Valerio e di Volusio. – Importanza storica del proconsolato di Cicerone. – Il matrimonio della figlia di Cicerone.

XI.
“Initium tumultus”.
(Pag. 282 a 317).

Le elezioni per l’anno 49. – Cesare nella Gallia Cisalpina. – Il ritorno di Cicerone in Italia. – La censura di Appio. – Le speranze di Cesare nella pace. – La tornata del Senato del primo dicembre 50. – Le tre votazioni discordi del Senato. – La conversione di Pompeo ai conservatori. – Gli intrighi dei primi dieci giorni del dicembre 50. – Il colpo di Stato di Marcello e di Pompeo. – Cesare e Pompeo. – Supremi tentativi di Cesare per la pace. – Gli ultimi giorni di dicembre. – La fortuna di Pompeo e le disgrazie di Cesare. – Cesare e la guerra civile. – La seduta del Senato del primo gennaio 49. – Ultimi tentativi e ultime speranze di pace. – Il partito della guerra vince definitivamente.

XII.
“Bellum civile”.
(Pag. 318 a 352).

Cesare e il suo esercito. – Le supreme esitazioni di Cesare. – “Alea est iacta”. – Il panico a Roma. – Lo sbigottimento di Pompeo. – Lo sgombro di Roma. – La partenza dei consoli e di Cicerone. – Nuove trattative di pace. – Cesare si impadronisce di tutto il Piceno. – Fiacchezza del partito conservatore. – Cesare in cammino per Corfinio. – Pompeo e gli ondeggiamenti di Domizio Enobarbo. – L’assedio di Corfinio. – La ritirata di Pompeo e l’inseguimento di Cesare. – La partenza di Pompeo per la Grecia.

XIII.
La guerra di Spagna.
(Pag. 353 a 383).

L’Italia e la guerra civile. – Cesare, dopo la fuga di Pompeo. – Cesare in viaggio per Roma. – Il colloquio tra Cesare e Cicerone. – Cesare in Roma. – La violenza di Cesare contro il tribuno Metello. – L’esercito di Pompeo in Spagna. – Marsiglia. – L’ultima politica di Cesare nella Gallia. – Antonio. – L’assedio di Marsiglia e la guerra di Spagna. – Critica condizione di Cesare sotto Ilerda. – La partenza di Cicerone dall’Italia. – Decimo Bruto salva Cesare. – Cesare nominato dittatore.

XIV.
Farsaglia.
(Pag. 384 a 416).

La miseria dell’Italia. – La morte di Curione in Africa, – Cesare dopo le vittorie di Spagna. – Il ritorno di Cesare a Roma. – La prima dittatura di Cesare. – Cesare e la questione dei debiti. – Cesare parte da Brindisi. – Cesare e Pompeo sull’Apso. – Nuove trattative di pace. – Il campo di Pompeo. – L’arrivo dei rinforzi di Cesare. – La temerità di Cesare e la prudenza di Pompeo. – La battaglia di Durazzo perduta da Cesare. – Critica condizione di Cesare. – Farsaglia.

XV.
Cleopatra.
(Pag. 417 a 447).

Dopo Farsaglia. – La fuga di Pompeo in Egitto. – La morte di Pompeo. – L’opera di Pompeo. – Gli onori decretati a Cesare. – Cesare ad Alessandria. – Cleopatra. – Le tristezze di Cicerone dopo Farsaglia. – Il partito di Cesare. – Le discordie del partito di Cesare. – La rivoluzione sociale di Dolabella. – Cesare prende Alessandria. – Il ritorno di Cesare in Italia. – Nuova politica popolare di Cesare. – La guerra d’Africa.

XVI.
I trionfi di Cesare.
(Pag. 448 a 471).

Il “Brutus” di Cicerone. – Nuovi onori a Cesare, dopo Tapso. – I crucci privati di Cicerone. – La morte di Catone. – Le ricompense ai veterani della guerra civile. – I trionfi di Cesare. – Le riforme di Cesare. – Atti diversi di Cesare. – Caio Ottavio. – La decadenza intellettuale di Cesare. – Cleopatra a Roma.

XVII.
Le illusioni e le disillusioni di una dittatura.
(Pag. 472 a 505).

Le ultime ambizioni di Cesare. – Cesare e le idee di Caio Gracco. – La monarchia popolare di Cesare. – Gli otto “Praefecti urbi”. – Il malcontento delle alte classi. – Gli scritti di Cicerone. – Bruto. – Nuovi onori decretati a Cesare dopo Munda. – Cesare e Bruto. – Grandiosi e chimerici disegni di Cesare. – Leggi e riforme di Cesare. – La conversione di Antonio. – Lo supreme onoranze di Cesare. – Le illusioni di una dittatura. – Le colonie di Cesare. – La colonia di Butroto e gli intrighi di Attico. – La festa dei Lupercali.

XVIII.
Le idi di marzo.
(Pag. 506 a 528).

L’autore della congiura. – Cassio e Bruto. – I motivi della congiura. – Le idee politiche di Cesare. – Cesare, il gran demagogo. – Una congiura di ottanta cospiratori.– Il piano della congiura. – Le esitazioni di Bruto. – Le idi di marzo. – La morte di Cesare. – Il principio della crisi suprema.

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Appendici critiche.

A. – Sul commercio dei cereali nel mondo antico.

B. – Sulla cronologia delle guerre di Lucullo.

C. – Crasso, Pompeo e Cesare, dal 70 al 60 a. C.

Indice degli autori citati

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