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Guglielmo Ferrero



Grandezza e decadenza di Roma




Vol. I

La conquista dell’Impero




Indice generale



PREFAZIONE.    

I.
I PICCOLI PRINCIPÎ DI UN GRANDE IMPERO.    

II.
LA PRIMA ESPANSIONE MILITARE E
MERCANTILE DI ROMA NEL MEDITERRANEO.    

III.
LA FORMAZIONE DELLA SOCIETÀ ITALIANA.    

IV.
MARIO
E LA GRANDE INSURREZIONE PROLETARIA DEL MONDO ANTICO.    

V.
SILLA E LA REAZIONE CONSERVATRICE A ROMA.    

VI.
LE PRIME PROVE DI CAIO GIULIO CESARE.    

VII.
I FINANZIERI ITALIANI ALLA CONQUISTA
DELL’ORIENTE.  

VIII.
MARCO LICINIO CRASSO.    

IX.
IL NUOVO PARTITO POPOLARE.    

X.
LA CONQUISTA DELL’ARMENIA
E I DEBITI DELL’ITALIA.  

XI.
LA DISGRAZIA DI LUCULLO.    

XII.
MARCO TULLIO CICERONE.    

XIII.
LE SPECULAZIONI E LE AMBIZIONI DI CRASSO.  

XIV
IL PUNTO CRITICO DELLA VITA DI CESARE.    

XV.
CATILINA E LA GRAN LOTTA CONTRO I CAPI.    

XVI.
LA PRESA DI GERUSALEMME.  

XVII.
IL MOSTRO DALLE TRE TESTE.  

XVIII.
LA CONQUISTA DELL’IMPERO.    

INDICE.    

1906



A
 GINA LOMBROSO.

PREFAZIONE.

In questo volume, e in quello che già si stampa e sarà pubblicato tra breve, è scritta la storia dell’età di Cesare, dalla morte di Silla alla battaglia di Filippi: dell’età in cui la politica conquistatrice di Roma prevalse definitivamente e l’Italia, convertito il Mediterraneo in lago suo, intraprese la grande missione storica di mediatrice tra l’Oriente civile e l’Europa barbara. Precede, diviso in cinque capitoli, un lungo riassunto della storia di Roma sino alla morte di Silla, che prego di leggere con pazienza, non ostante i molti difetti: così quelli inevitabili in simil genere di riassunti, come quelli di cui l’autore può avere colpa. Senza far precedere questo largo riassunto, non sarebbe stato possibile indagare e descrivere a fondo l’età di Cesare.

La storia, come tutti i fenomeni della vita, è l’opera inconsapevole di sforzi “infinitamente piccoli”; compiuti disordinatamente da uomini singoli e da gruppi di uomini, quasi sempre per motivi immediati, il cui effetto definitivo trascende sempre la intenzione e la conoscenza dei contemporanei; e appena si rivela, qualche volta, alle generazioni seguenti. Capire per quali motivi immediati, contingenti, transitori, gli uomini di una età abbiano faticato; descrivere pittorescamente le vicende, le ansie, le contese, le illusioni di questa fatica; indagare come e per quali cagioni, così faticando, una generazione abbia spesso, non soddisfatte le passioni che la incitavano, ma compiuto qualche rinnovamento durevole della civiltà: questo pare a me debba sforzarsi di fare chi scrive storie.

Spero che il libro dimostrerà praticamente l’eccellenza di questo metodo. Con questo metodo infatti è stato possibile dimostrare che la conquista romana, grandioso evento che considerato da lontano par quasi unico e perciò inesplicabile, fu l’effetto, meraviglioso per condizioni speciali di luogo e di tempo, di un rivolgimento interno che si ripete nella storia di continuo, così in vaste nazioni come in piccoli Stati, con le stesse leggi e le vicende medesime: la formazione di una democrazia nazionale e mercantile sulle rovine di una federazione di aristocrazie agricole. Con lo stesso metodo intendo scrivere la rimanente storia dell’Impero, sino alla dissoluzione. Noi vedremo, studiando ne I Cesari l’età che corse da Augusto a Nerone, una nuova aristocrazia formarsi dalla democrazia mercantile dei tempi di Cesare; vedremo nel L’impero cosmopolita questa aristocrazia, dominante in pace l’impero, macerarsi quasi a poco a poco e dissolversi nella propria felicità, mentre il Cristianesimo e i culti orientali mutano lo spirito antico; la vedremo nel Tramonto di Roma rovinar di nuovo e rovinare con essa la parte più venerabile della civiltà greco-latina. Questa ampia ricerca mira a descrivere una delle più meravigliose esistenze storiche, dalla nascita alla morte; dai giorni lontani in cui un piccolo popolo di pastori e contadini abbatteva le foreste sul Palatino per erigervi gli altari dei propri Dei, ignaro dell’immensa storia cui dava principio, ai giorni tragici in cui il sole della civiltà greco-latina tramontò sulle campagne deserte, sulle città abbandonate, sulle genti diradate, imbarbarite, sbigottite dell’Europa latina.

Torino, 1° dicembre 1901.

G. F.

I.
 I PICCOLI PRINCIPÎ DI UN GRANDE IMPERO.

Nella seconda metà del secolo quinto avanti Cristo, Roma era ancora una repubblica aristocratica di contadini, di circa 450 miglia quadrate di superficie1, e con una popolazione libera, sparsa quasi tutta nella campagna e divisa in diciassette distretti o tribù rustiche, che non poteva superare le 150 000 anime2. Il maggior numero delle famiglie possedevano un piccolo campo; e genitori e figli, vivendo nel piccolo tugurio e lavorando insieme, lo coltivavano quasi tutto a grano, con poche viti ed ulivi; pascolavano sulle vicine terre pubbliche qualche capo di bestiame; fabbricavano in casa gli strumenti rustici di legno e i vestiti, recandosi solo di tempo in tempo nella città fortificata; dove erano i templi degli dei, il governo della repubblica, le case dei ricchi, le botteghe degli artigiani e dei mercanti, per cambiare poco grano, olio e vino con il sale, gli strumenti rustici di ferro e le armi; per assistere alle feste religiose, o compiere i doveri civici. Ogni proprietario romano era inscritto in una delle cinque classi in cui si divideva, secondo la ricchezza, la popolazione possidente, poi in una delle centurie in cui si divideva ogni classe; e concorrendo a formare con il proprio singolo voto il voto della sua centuria, che valeva per uno, approvava nei comizi centuriati le leggi ed eleggeva i magistrati maggiori della repubblica. Tuttavia Roma, sebbene ogni magistratura vi fosse elettiva, era allora una repubblica doppiamente aristocratica; perchè le centurie contenevano un numero sempre più piccolo di elettori, a mano a mano che si saliva dalle centurie delle classi più povere a quelle delle classi più ricche; e perchè solo un piccolo numero di famiglie patrizie, che di solito possedevano poderi più vasti, armenti più numerosi e qualche schiavo, poteva esercitare, per privilegio ereditario, le alte magistrature. Se la plebe si radunava in ogni distretto per trattare le faccende sue, ed eleggere ogni anno certi magistrati, come i tribuni della plebe, che inviolabili potevano interporre il veto contro ogni atto dei magistrati; se per la elezione di certi magistrati minori e la trattazione di certi affari di poco momento votavano, non le centurie, ma le tribù, tutti cioè gli iscritti alle diciassette tribù della campagna, e alle quattro tribù urbane in cui era raccolto il popolino di Roma3; tutto lo stato restava pur sempre in potere dei patrizi, i quali erano pur essi dei contadini, e non sdegnavano di lavorare con la vanga e l’aratro4; abitavano in case piccole e disadorne; usavano di un vitto sobrio e di un abito semplice5; possedevan pochi metalli preziosi; facevan fare quasi ogni cosa in casa, il pane come le vesti, dai pochi schiavi e dalle donne. Perciò Roma comprava poco fuori: ceramiche per le costruzioni pubbliche e metalli in Etruria; ninnoli artistici, punici o fenici; gingilli di avorio; profumi per i funerali e porpore per gli abiti da cerimonia dei magistrati; qualche schiavo. Poco era esportato; legno da costruir navi, e sale6. Roma era piccola e povera; anche i ricchi patrizi passavano la maggior parte del tempo in campagna e venivano in città solo per esercitare le magistrature e assistere alle sedute del Senato: l’assemblea di cui facevano parte a vita gli antichi magistrati scelti come degni, prima dai consoli e poi dai censori; che vigilava i magistrati, amministrava il tesoro, approvava le leggi votate e le elezioni fatte dei comizi centuriati e tributi7, trattava le questioni di guerra e di pace allora così frequenti.

Tutta l’Italia infatti, sino alla Liguria, all’Emilia, alla Romagna, ancora popolate, come la pianura del Po, dai Liguri e dai Celti selvatici, era tempestata di cittadelle fortificate simili a Roma, che guardavano il corso dei fiumi; vigilavano dall’aspre vette dei monti la pianura; sbarravano le gole delle montagne; accennavano lontano sul mare alle piccole navi dei mercanti: rette con istituzioni aristocratiche o popolari, ma quasi nessuna a monarchia; signora ciascuna di un territorio più o meno vasto; unite molte in confederazioni, secondo la razza e la lingua che erano diverse: osco-sabellica, nell’Italia meridionale; latina, etrusca ed umbra, nell’Italia centrale; ellenica, nelle belle colonie greche delle coste, Ancona, Taranto, Napoli. Ma attraverso le paci di queste alleanze, da città a città, tra il monte e il piano, tra il fiume e il mare, tra razza e razza, la lotta dell’uomo contro l’uomo ricominciava, in quell’antica Italia, eterna; sempre riaccesa da tutti gli incitamenti che alimentano la guerra tra i barbari: il bisogno di schiavi e di terre, la cupidigia dei metalli preziosi, lo spirito di avventura e le ambizioni dei grandi, gli odî popolari, l’urgenza di assalire per non essere assaliti e distrutti. Roma era allora, come le altre città, impegnata in questo interminabile duello; ma in condizioni pericolose di debolezza, sebbene fosse già riuscita a raccogliere intorno a sè in confederazione le repubblichette rustiche del Lazio, i cui popoli parlavano tutti la stessa favella latina. L’esercito romano era la piccola proprietà in armi, sotto il comando dei possidenti ricchi; perchè, mentre chi non possedeva terra, non aveva diritto di esser soldato, tutti i proprietari (e dovevano esser intorno a 30 000, verso la metà del quinto secolo a. C.) erano obbligati a presentarsi, dai 17 ai 46 anni, ogni volta che il console indiceva la leva, per ordinarsi in legioni e partire, sotto il comando dei magistrati scelti tra gli agiati patrizi. Sventuratamente però tra ricchi e poveri covavano allora fieri rancori, perchè la popolazione cresceva troppo sull’angusto territorio, le guerre divenivano spesso cagione di devastazioni e rovine, la terra era facilmente esausta dalla troppo intensa coltivazione dei cereali; e mentre la plebe dei piccoli possidenti era tormentata dai debiti, la nobiltà, nella quale pure le famiglie erano grosse, si prendeva le migliori terre conquistate al nemico e aumentava sui pascoli pubblici, togliendone l’uso ai poveri, i propri armenti; peggio ancora, prestava talora a usura ai possidenti poveri, riducendoli poi schiavi, per la legge del nexum. Rinfocolati dall’odio dei plebei ricchi contro i patrizi, che li escludevano dalle magistrature, questi contrasti generavano malanimo, tumulti, secessioni, anche nell’imminenza di guerre.

Eppure Roma, postasi a capo della confederazione latina, vinse a poco a poco le altre città e confederazioni dell’Italia, perchè nella sua costituzione era insito un principio di salute: una vigorosa disciplina che contenne in essa quella gran forza distruggitrice delle nazioni che è il piacere; reprimendo efficacemente, nella classe ricca e potente, in quella cioè che più facilmente si sarebbe corrotta, e avrebbe infettato poi l’intero corpo della repubblica, i vizi dei barbari: la ubriachezza, la lascivia, il lusso dei metalli preziosi, l’orgoglio personale che vuol soddisfazione anche con il danno di tutti.

Roma seppe essere barbara, senza i vizi della barbarie; e perciò vinse tanti popoli più civili, ma indeboliti dai vizi della civiltà loro. La antica società romana rassomigliava, sino a una certa misura, ad alcuni ordini monastici e sètte religiose che furono dopo; perchè in essa vigeva una di quelle ingegnose combinazioni di insegnamenti, esempi, sorveglianze e minaccie reciproche, con cui un piccolo gruppo di uomini può, sottoponendo ciascuno dei suoi membri alla tirannia dell’opinione e del sentimento di tutti e togliendo a tutti il modo di viver fuori del gruppo, far loro spiegare, in certe opere almeno, maggior zelo, abnegazione e disciplina, di quanto la natura dei più sarebbe capace. Tutto era vôlto, in Roma antica, a mantenere e ad accrescere nelle alte classi la forza di questa combinazione di esempi, insegnamenti, sorveglianze e minaccie reciproche: lo stato delle fortune; la religione; le istituzioni dello Stato; la severità delle leggi; la durezza del sentimento comune che le voleva applicate senza misericordia, in ogni caso, dai padri ai figli, dai mariti alle spose, dai nobili ai nobili; la famiglia sopra tutto, che era la prima palestra di questa dura disciplina delle anime, con cui i ricchi romani imparavano, sin dalla giovinezza, a godere poco, a contenere l’orgoglio e la vanità, a subordinare sè stessi, non a un altro uomo (la monarchia era fanaticamente odiata) ma alla legge e al costume. Anche a godere si impara: e di solito negli anni della giovinezza, dopo la pubertà; quando ognuno contrae il gusto di alcuni tra i molti piaceri della vita, secondo gli accidenti dell’educazione e l’inclinazione; e per goderli si affanna poi, mentre ignora o dispregia gli altri. Ma le famiglie romane erano ancora, in quel tempo, per molte parti, un avanzo della età patriarcale; tanti piccoli monarcati assoluti, che la repubblica aristocratica dei tempi nuovi aveva, pur subordinandoli e comprendendoli in sè, lasciati sussistere, perchè una parte dello sforzo, necessario a mantenere l’ordine morale e politico, poteva più efficacemente che dai magistrati nello stato, esser compiuto in questi regni minuscoli dai padri, che erano così, di fatto se non di nome, organi dello stato. Il padre era un re assoluto nella sua casa; egli solo possedeva, vendeva, comprava, si obbligava; poteva esigere obbedienza piena dal figlio, come dal servo, a qualunque età o magistratura fosse pervenuto; poteva scacciare in miseria, vendere schiavo, condannare ai lavori in campagna, uccidere, il figlio troppo riottoso, e costringere il console, che aveva comandato le legioni in guerra, a obbedirgli come un fanciullo, al ritorno nella casa paterna; era il giudice di tutte le persone della famiglia, della moglie, dei figli, dei nipoti, degli schiavi e doveva condannarli egli stesso, secondo le norme severe fissate dalla consuetudine, talora anche a morte, per le colpe loro contro la famiglia, lo stato, le altre persone8. Con tanto potere fu facile ai padri per molto tempo reprimere nelle nuove generazioni quello spirito di innovazione dei giovani che è, in tutte le età, il maggior veicolo della corruttela e del progresso; crescere i figli a propria immagine e simiglianza; educare i maschi alla sobrietà, alla castità, alla fatica, alla religiosità, alla osservanza scrupolosa delle leggi e dei costumi, al patriotismo angusto ma saldo; far loro imparare i precetti fondamentali dell’arte agraria e della avarizia domestica; insegnare alle fanciulle a vivere sempre sotto l’autorità di un uomo, del padre, del marito, dei tutori, senza mai posseder nulla, nemmeno la dote; ad essere ubbidienti, sobrie, caste, sollecite solo della casa e dei figli; ai maschi e alle femmine insegnare sopratutto la superstiziosa osservanza della tradizione, la fedeltà al semplice vivere antico, l’odio di ogni lusso nuovo.... E guai agli indocili e ai ribelli! Il padre e il tribunale domestico avrebbero castigato il figlio e la donna senza pietà, perchè la tradizione e l’esempio insegnavano a esser duri, ed essere duri era facile a uomini che sin da fanciulli avevano goduto così poco9. Educato così, il nobile romano faceva, ancor giovane, le sue prime prove di guerra, nella cavalleria; giovane ancora si sposava con una donna che gli portava una piccola dote e dalla quale doveva aver molti figli; poi incominciava il lento e lungo curricolo delle magistrature, proponendosi al popolo per essere eletto alle diverse cariche, secondo l’ordine stabilito dalle leggi. Ma nessuno poteva sperar di ottenere il suffragio del popolo e la approvazione del Senato alla elezione sua, se non a condizione di rispettare le tradizioni; e se ogni magistrato romano era provvisto di larghi poteri, se aveva ai suoi ordini molti famigli ed era l’oggetto di un cerimoniale di riverenza, il potere era però diviso tra molti magistrati, e ogni magistratura era gratuita, temporanea (annuale di solito) e collegiale, ogni magistrato avendo sempre un collega, pari a lui per dignità e potere, che lo vigilava e ne era vigilato, mentre il Senato sovrastava a tutti; cosicchè nessun magistrato poteva violar le leggi o le tradizioni senza grave cagione; tutti dovevano, a volta a volta, obbedire, come avevano comandato; e potevano esser chiamati a render conto di ogni atto loro, dopo aver fatto ritorno a vita privata. Dalla nascita alla morte ognuno era spiato senza tregua; e quando, morto il padre, ogni figlio diventava a sua volta reggitore assoluto della propria famiglia, ricominciava nel fôro, nei comizi, nel senato la sorveglianza non meno dura dei censori, che lo avrebbero infamato e cancellato dal ruolo dei senatori, se egli fosse vissuto male; del popolo, che non lo avrebbe eletto alle magistrature; del senato; di ogni singolo cittadino, che poteva trarlo in accusa.

Per questa disciplina delle alte classi, Roma potè riuscire nell’impresa fallita agli Etruschi, prevalendo a poco a poco in Italia, tra le molte repubbliche, razze e favelle. Nella seconda metà del secolo quinto e nei primi decenni del secolo quarto a. C., Roma combattè, alla testa della confederazione latina, contro gli Equi, i Volsci, gli Etruschi, un seguito di guerre, con le quali essa non solo potè nel 387 a. C. costituire, sul territorio ingrandito, quattro nuove tribù, ma fondare, su 98 000 ettari di terra fertile conquistata ai nemici, parecchie di quelle colonie latine10, in cui molti giovani del medio ceto, che non avrebbero potuto ammogliarsi per la piccolezza del patrimonio paterno, acquistavano il potere di generare a Roma nuovi soldati, diventando cittadini e possidenti di una città nuova, retta, a simiglianza di Roma, da leggi proprie, salvo l’obbligo dei cittadini di militare con le legioni. Rinvigorita da questi primi successi, Roma fu tratta poi, dalla necessità di assalire per non esser distrutta, a guerreggiare, nel rimanente secolo quarto e nella prima metà del terzo, contro i Sanniti, gli Etruschi, i Sabini, i confederati latini ribellatisi, i Galli della costa adriatica, le milizie greche di Pirro, chiamate da Taranto; annettè un vasto territorio di 27 000 chilometri quadrati11, tutto il Lazio, una parte della Toscana orientale e occidentale, la maggior parte dell’Umbria, delle Marche e della Campania, riducendovi le città a municipia, i loro abitanti a cittadini obbligati alla milizia e al tributum, ma senza diritto di voto; costrinse o indusse le altre città e stirpi, in varii tempi, come Napoli nel 326, Camerino, Cortona, Perugia, Arezzo, nel 310, i Marrucini, i Marsi, i Pelligni, i Frentani nel 305, i Vestini nel 302, e più tardi Ancona e Taranto, a conchiudere alleanze, con le quali queste città e nazioni, pur conservando le proprie istituzioni e leggi, si obbligavano a fornire a Roma contingenti militari, e a farsi rappresentare dal Senato romano in ogni questione con altri stati; acquistò insomma l’alta sovranità su tutta l’Italia. Ma questo sforzo di guerra e di conquista potè continuare, sempre vittorioso, per secoli, solo perchè, grazie alla disciplina morale e allo spirito conservatore della nobiltà, Roma restò durante tante guerre una società agricola, aristocratica e guerresca. La terra non si conquista definitivamente, anche nelle età barbare, se non con l’aratro; essa appartiene, non a chi solo la bagna di sangue nelle mischie feroci degli eserciti; ma a chi dopo averla conquistata la ara, la semina, la popola prolificando. Per tante guerre non solo la potenza, ma anche la ricchezza di Roma crebbe in modo considerevole; lo Stato dispose di entrate maggiori e si fece per tutta Italia un grosso patrimonio di campi, pascoli, boschi che in parte esso affittò o donò, in parte tenne vuoto, per i bisogni futuri; molte famiglie patrizie e molte plebee arricchirono, comprando schiavi e terre che abbondavano e facendo coltivare per tutta Italia vasti poderi, in parte a grano, in parte a vigneto e a oliveto, da familiæ di schiavi posti sotto la sorveglianza di un fattore schiavo esso pure, e aiutati nella mietitura e nella vendemmia da braccianti liberi a giornata, fatti venire dalla vicina città12; molte esercitarono sulle terre pubbliche dell’Italia meridionale una grandiosa pastorizia primitiva, simile a quella che ora si fa nel Texas e nelle regioni più barbare degli Stati Uniti; la pastorizia vagante degli immensi armenti belanti e muggenti, senza stalle, che pascolano in ogni stagione sotto il sole e dormono sotto le stelle; e che perciò sono condotti ogni inverno e ogni estate da robusti guardiani, che allora erano schiavi, dal monte al piano, dal piano al monte. Dopo che Roma ebbe ridotte in suo potere così le coste dell’Italia meridionale come l’alto Appennino, questa lucrosa pastorizia barbarica diventò possibile, e molti romani si affrettarono a tentarla13. Inoltre i metalli preziosi e specialmente l’argento, conquistati in gran quantità in queste guerre14 abbondarono, cosicchè nel 269 o nel 268 a. C. Roma cominciò a coniar monete d’argento15; e i romani furono in grado di partecipare al commercio mondiale, di procurarsi i lussi della civiltà ellenica, ora meglio nota per gli scambi più frequenti con le colonie greche dell’Italia meridionale16; perchè i metalli preziosi, essendo desiderati cupidamente da tutti i popoli, civili o barbari, come fulgenti ornamenti e tesori facili a esser portati e nascosti, erano, nel mondo antico, di baratto e commercio più universale che ogni altro bene, e il medio più usato negli scambi tra i popoli di civiltà differente. La classe dirigente si rinnovò: molte famiglie plebee arricchite, e ambiziose di conquistare il diritto di essere elette alle cariche, usarono le loro ricchezze a beneficio del medio ceto, per accrescere la loro potenza con la clientela e la protezione; le vecchie famiglie patrizie che già decadevano furono costrette a imitarne l’esempio, e alla fine, per ricostituire i patrimoni declinanti e non perdere tutto il potere, ad accogliere in sè questa ricca borghesia plebea, contrarre matrimoni con le sue famiglie, farla partecipare al dominio. Già nel 421 a. C. si era deliberato che i plebei potessero esercitare la prima e più semplice magistratura, la questura; ricercare, cioè, come questori urbani, i rei di delitti capitali, amministrare l’erario, custodire una parte dei documenti pubblici; amministrar nel campo, come questori militari, i denari dell’esercito e provvedere agli approvigionamenti. Nel 367 fu deliberato che fosse plebeo uno dei magistrati supremi della repubblica, i quali, con il nome di consoli, erano incaricati di convocar il senato e i comizi, di dirigere le elezioni dei magistrati, ammettendo o rifiutando i candidati; di chiamar le leve e comandar gli eserciti in guerra. Nel 365 i plebei poterono essere eletti edili curuli, a vigilare il mercato dei cereali e la vicenda dei prezzi; a curar la conservazione dei monumenti pubblici, la polizia delle strade, dei mercati, delle piazze; a ordinar le feste pubbliche. Nel 350 furono ammessi alla dittatura e alla censura: la prima, una magistratura unica e straordinaria, con la quale, in qualche pericolo supremo, si davano a un solo pieni poteri per breve tempo, sospendendo la costituzione; la seconda, magistratura ordinaria e collegiale di due censori, i quali compilavano il censo quinquennale delle persone e dei beni dei cittadini romani e dei municipi, sorvegliavano i costumi dei grandi, cancellavano nel fare il censo dal ruolo dei senatori e dei cavalieri gli indegni, degradavano da una tribù rustica a una urbana o scacciavano da tutte le tribù, privandolo dei diritti politici, il plebeo di vita turpe; appaltavano e sorvegliavano la costruzione delle opere pubbliche e la riscossione delle imposte. Nel 337 poteron essere plebei anche i pretori, che giudicavano le cause civili tra romani o tra romani e forestieri, e facevano le veci dei consoli assenti o impediti: e questi pretori plebei ben presto accrebbero il potere legislativo dei comizi tributi, nei quali il medio ceto contava più che nei comizi centuriati, portando innanzi ai comizi tributi le loro proposte17. Ma questo arricchimento e questa ricomposizione della classe dirigente non furono seguiti da un allargamento del tenor di vita e da un rivolgimento di costumi; la parsimonia, la semplicità, la rozza austerità dei tempi antichi furono considerate ancora come le virtù somme di ogni nobil famiglia; e l’aumento della ricchezza fu usato, non ad accrescere la civiltà di tutti e i godimenti di ognuno, ma a consolidare il potere in una forte aristocrazia di ricchi possidenti, plasmata nello stampo della educazione tradizionale, per il governo e la guerra; paziente, calma, valorosa, lenta a capire le idee nuove. Solo plebei ricchi erano eletti a queste cariche; il potere passò da un patriziato ereditario a una nobiltà patrizio-plebea di possidenti, ricchi per la semplicità dei loro bisogni, che seppero indurre il medio ceto a riconoscere volentieri la loro signoria, provvedendo a lui con la beneficenza familiare e una legislazione conciliante. Ogni ricca famiglia senatoria assisteva in ogni frangente di consiglio, di denaro, di protezione un certo numero di famiglie di medi possidenti, aiutando anche, di tempo in tempo, qualche famiglia, che si segnalasse di più per valore e intelligenza, a salire in nobiltà, esercitando le magistrature18; e la legislazione divenne tanto più democratica quanto più il sentimento comune diventava spontaneamente aristocratico. Il Senato dovè dare il parere suo sulle proposte prima e non dopo le assemblee popolari19; le deliberazioni delle assemblee della plebe acquistarono con la Lex Hortensia (286 a. C.) valore di legge per tutti, senza l’approvazione del senato; le assemblee tribute furono tolte al controllo del senato; e i comizi centuriati, intorno al 241 riformati in modo che i ricchi vi perdettero a beneficio del medio ceto molto dell’antico potere20; si largheggiò perfino nel concedere il diritto di voto a molti cives sine suffragio: ai Sabini di Rieti, di Norcia e di Amiterno nel 268; intorno al 241 forse agli abitanti del Piceno e ai Velletrani21. Sottoposta così alla protezione di una nobiltà conservatrice degli antichi costumi rustici, questa plebe conservò essa pure il vivere dei padri; restò plebe valorosa e feconda di contadini, che consumavano i maggiori guadagni ad allevare generazioni sempre più numerose di contadini e soldati. Perciò Roma nel quarto e terzo secolo a. C. potè non solo diffondere in Italia con le annessioni e le alleanze l’influsso e le leggi, ma con le colonie anche la stirpe sua; fondare tra il 334 e il 264, diciotto poderose colonie latine, tra le quali Venosa, Lucera, Pesto, Benevento, Narni, Rimini e Ferrara, disseminando nelle diverse regioni d’Italia i forti coltivatori latini, che dalla abbondanza di terre erano incitati a prolificare, accrescendo il numero dei parlanti latino nella confusa mescolanza delle favelle e delle razze italiche; e che alternavano tanto più volonterosi alla dura vita dei campi le fatiche e i pericoli delle milizie, perchè il soldo di guerra e i doni dei generali dopo la vittoria erano per essi un lucro aggiunto a quello dei campi, la guerra una industria suppletiva della agricoltura. Con questa stirpe agreste e bellicosa la nobiltà romana plasmò la ossatura di città di quel corpo che doveva poi esser l’Italia; non estenuando ma rinvigorendo lo Stato a tal segno, che essa potè vincere una prima volta Cartagine, la grande potenza mercantile, la cui espansione commerciale venne alla fine in urto con la espansione militare e agricola di Roma; e dominare, nell’ultimo quarto del secolo terzo a. C., ancor prima di combattere quella guerra contro i Galli d’Italia (225-222), che le aprì, con la conquista della pianura emiliana e padana, la via maestra della sua storia futura, un vasto paese popolato da circa sei milioni di uomini, nel quale essa avrebbe potuto levare, in un supremo pericolo, 770 000 soldati, tra fanti e cavalieri: 273 mila cittadini, 85 000 latini, 412 000 alleati22. I confini della dominazione si allargavano, per forza di pazienza, di tenacia, di metodo, non di vaste audacie geniali. Le somme virtù di tutte le classi erano quelle che adornano le società rustiche ben disciplinate, come oggi le riconosciamo nei Boeri: la sobrietà, la pudicizia, la semplicità delle idee e dei costumi, la profonda conoscenza del piccolo mondo proprio, la forza tranquilla di volontà, l’integrità, la lealtà, la pazienza, la mancanza di eccitabilità propria dell’uomo che non ha vizi, che non sciupa le sue forze nel piacere e che sa poco. Ma le idee facevan lenti progressi; le cose nuove eran ricevute con gran fatica, quando non fossero superstizioni religiose; il genio, come la pazzia o la malvagità, tutto ciò che non capiva entro la tradizione, era soppresso; il formalismo l’empirismo la superstizione parevano le forme supreme della saggezza. Il diritto e la religione in special modo, rigorosamente formalisti, conservavano tra i tardi nepoti la sapienza, gli errori e le paure dei padri cristallizzate. La filosofia greca e le teorie generali erano neglette; la letteratura poverissima si componeva di pochi canti religiosi e popolari in metro saturnio, e di semplicissime composizioni drammatiche, come i fescennini, le sature, i mimi; la lingua letteraria era rozza ed incerta.

Ma nulla è eterno nella vita, nè il bene nè il male; e poichè il bene si volge in male, e il male di nuovo in bene, per una legge di vicenda continua, insita nelle cose, anche questo spirito di disciplina e di semplicità rustica incominciò alla fine, lentamente, a venir meno, per effetto delle vittorie e della cresciuta ricchezza, verso la metà del secolo terzo. La conquista della Magna Grecia, di gran parte della Sicilia, della Corsica e della Sardegna, le guerre combattute felicemente nell’Illiria, nella Gallia e contro Cartagine, resero e costarono molto; fu necessario approvigionar lontano grossi eserciti, costruir flotte; e poichè lo Stato romano non poteva, con poche magistrature ordinate in origine a servire bisogni di una piccola città, provvedere a servizi pubblici tanto cresciuti, gli appalti di questi servizi a speculatori privati diventaron frequenti, e rapidamente, tra le due guerre puniche, si formò dal medio ceto quella classe, che nelle società agricole è il primo veicolo dello spirito mercantile e del lusso, che fu il veicolo dello spirito mercantile nella nuova Italia, fondata dopo il 1848: gli appaltatori23. Nel tempo stesso anche gli avvenimenti politici, specialmente la conquista della Sicilia, favorirono i progressi dello spirito mercantile; il commercio della Sicilia, donde molto olio e grano era esportato, passò dai Cartaginesi ai mercanti romani e italiani, dei quali crebbe il numero e la ricchezza24; anche nella aristocrazia romana che sino allora aveva voluto posseder soltanto terra, molti, vaghi di imitare quella nobiltà cartaginese che avevano vinta e che si componeva di mercanti, cominciarono a tentar speculazioni, a mettere in mare piccole flottiglie proprie, a commerciare sulle esportazioni della Sicilia25, a far lusso, a trascurare il medio ceto. La semplicità dei costumi incominciò a venir meno; la disciplina della famiglia a rallentarsi; il tribunale domestico a essere convocato più raramente; i figli a farsi, mercè il peculium castrense, più indipendenti dal padre; le donne più libere dal marito e dal tutore; la cultura greca a diffondersi in un piccolo numero di grandi famiglie; la letteratura e la lingua letteraria a perfezionarsi. Un greco di Taranto, Andronico, catturato nella presa della città nel 272 e venduto a un Livio, che lo liberò, tradusse in versi saturni l’Odissea, aprì a Roma scuola di greco e di latino, primo tradusse e adattò commedie e tragedie greche con gran successo, tentando di verseggiare in latino con metri greci; poco dopo Nevio, un cittadino romano originario della Campania, lo imitò e compose un poema sulla guerra punica. Anche l’antica unione dei ceti si screpolò; e contro questa nobiltà troppo vaga degli esempi cartaginesi, troppo cupida ed egoista, incominciò a formarsi una opposizione democratica, il cui primo grande capo fu Caio Flaminio. Quando Flaminio propose, nel 232, di assegnare alla plebe lungo la costa adriatica una parte del territorio tolto ai Senoni nel 283 e ai Picenti nel 268, dovè vincere una violenta opposizione dei grandi che probabilmente volevano piuttosto godersi essi quei terreni affittandoli; e quando i Galli di qua e di là dal Po, spaventati da queste assegnazioni, mossero a Roma la grande guerra del 225-222, che finì con la conquista della valle del Po e la fondazione di Piacenza e Cremona, la nobiltà, che pure poco prima aveva minacciata una nuova guerra a Cartagine per toglierle la Sardegna e la Corsica ove sperava gli stessi guadagni che nella Sicilia, rimproverò questa guerra come una colpa a Flaminio26. La nobiltà non condusse la plebe, ma ne fu sospinta quasi a forza verso la grande pianura che si stendeva ai piedi della sublime cerchia delle Alpi, ubertosa di terre fresche e feracissime, fitta di immense foreste di querci, stagnante di vaste paludi, bagnata di bei laghi, popolata di villaggi celtici, corsa dai rapidi fiumi che rotolavano nelle sabbie l’oro delle Alpi, traversata del gran fiume che ai Romani, avvezzi ai piccoli corsi d’acqua dell’Italia centrale, doveva parere un prodigio; non un nobile di gran lignaggio, ma il capo del partito popolare diede il suo nome alla prima grande via, la Flaminia, che congiunse Roma con la valle del Po e condusse le ignare generazioni, fuori delle mura dell’Urbe, verso l’avvenire. L’antica società aristocratica agricola e guerresca si avvicinava al limite della estrema grandezza e potenza, oltre il quale non avrebbe potuto più progredire, senza mutar natura.

A ogni modo, questi principii di discordia sparvero rapidamente, quando Annibale scese nel 218 dalle Alpi nella valle del Po, alla testa dell’esercito, con cui la plutocrazia cartaginese sperava di distruggere la sua nuova rivale. Questa invasione, di un paese che avrebbe potuto opporre sino a 700 000 uomini, con forze relativamente piccole, a immensa distanza dalla base di operazione, era un ardimento quasi incredibile; ma che per tanti anni abbia potuto dubitarsi se l’ardimento non riuscirebbe, prova quanta debolezza fosse insita in quella federazione di repubbliche rustiche, di cui Roma era a capo. Non è nazione viva, ma accozzamento di genti tenute insieme per poco dalla forza delle armi, dove il modo di vivere, pensare, sentire e possedere, o in altre parole, la civiltà, non sia unica almeno nelle classi alte e medie; e la vecchia Roma agricola aristocratica e guerresca aveva potuto ridurre a civiltà unica solo parte dell’Italia. La espansione dei piccoli possidenti latini nelle colonie e nei municipi univa a Roma molte parti d’Italia con vincoli di lingua, di ricordi e di simiglianza nelle istituzioni; ma le colonie e i municipi non occupavano allora nemmeno la metà del territorio italico; e l’altra parte era posseduta dalle città alleate: repubbliche rustiche e aristocratiche le più, che continuavano a vivere una solitaria vita locale, non disturbata da Roma. I Romani avevano protetto, specialmente nell’Etruria e nell’Italia meridionale, le nobiltà locali; ne avevano composte le discordie sanguinose, avevan dato loro il comando dei contingenti levati tra la robusta generazione dei piccoli possidenti, e quindi il modo di segnalarsi in guerra, di acquistare considerazione tra i propri concittadini, di procurarsi oro, argento e nuove ricchezze; facendo di queste nobiltà locali il sostegno del romanismo nelle città alleate. Così nell’Etruria e nell’Italia meridionale le grandi famiglie erano unite da legami di ospitalità, di amicizia, talora anche di parentela, con le famiglie più cospicue di Roma, e ne andavan superbe; imparavano volentieri il latino; affettavano ammirazione per la potente città, per le sue istituzioni, le idee e i costumi dei suoi grandi27: ma il popolo parlava pur sempre la lingua nazionale; e conservava le memorie antiche che sempre appaiono belle ai nepoti malcontenti delle cose presenti. Annibale sembra aver capito che l’Italia non era ancora una nazione, ma una confederazione di repubblichette, di cui molte vivevano in sè e per sè, unite solo politicamente dalla potenza di Roma; e tentò con le promesse, con gli inganni, con le minaccie di rivoltare le città alleate, riuscendovi in parte. Invece cittadini romani e coloni latini, che insieme formavano una vera nazione agricola e aristocratica, difesero con tenacia eroica la terra che i loro padri avevano conquistata, arata, popolata, contro l’eroe della orgogliosa plutocrazia cartaginese; sinchè la guerra terminò con la vittoria della città, saldamente costituita dalle virtù di molte generazioni mediocri, sulla grandezza accidentale e personale del genio. Ma l’antico ordine di cose fu perturbato dalla terribile guerra per modo, che non potè ricostituirsi più. In tante gigantesche battaglie perì il fiore del medio ceto possidente; in molti luoghi, quando l’invasore punico ebbe sgombrato, non si potè riprendere la coltivazione interrotta, perchè gli uomini e gli schiavi mancavano28; nell’Italia meridionale, in special modo, molte regioni restaron deserte, sia perchè agli abitanti ribellatisi fu confiscato il territorio; sia perchè la lunga guerra di devastazione vi aveva distrutto tutto. Nella tensione di un così lungo e insolito sforzo, in mezzo alle cure dell’immensa guerra che fu disputata aspramente in Italia, in Spagna, in Grecia, in Sicilia, in Africa, in un seguito di tremendi assalti e difese caparbie durato diciassette anni, Roma dimenticò molte delle sue pedanterie e superstizioni conservatrici: consumò tutte le riserve pubbliche e private, le prede ingentissime del sacco di Siracusa e di Cartagena; moltiplicò gli appalti e le forniture militari e con esse le occasioni di lauti affari: rallentò il rigore con cui sorvegliava sè stessa; sospese l’osservanza di molte tradizioni politiche e di qualche legge, come quella sull’età e l’ordine delle magistrature; sciolse la antica prudenza in uno spirito nuovo e giovanile di audaeia di cui fu campione Publio Scipione. Non sarebbe stato possibile di vincere altrimenti questa grande guerra, che finì con splendidi acquisti: la signoria della Spagna; l’intero dominio della Sicilia; la parte del ricco territorio campano e leontino confiscato; la decadenza di Capua e l’indebolimento definitivo delle popolazioni alleate d’Italia non romanizzate; 120 000 libbre d’argento che Scipione riportò dall’Africa e la rendita annua di 200 talenti d’argento, che Cartagine avrebbe pagato per 50 anni.

II.
LA PRIMA ESPANSIONE MILITARE E
MERCANTILE DI ROMA NEL MEDITERRANEO.

Ma da questa guerra incominciò una nuova storia di Roma e del mondo, sopratutto perchè essa precipitò, in Italia, l’avvento della êra mercantile nella antica società agricola, aristocratica e guerresca. La guerra annibalica aveva lasciato una grave eredità di guerre, che Roma fu costretta a combattere, appena conchiusa la pace con Cartagine: nella Spagna, che era piena di barbari indomiti; nella pianura del Po, dove l’invasione punica aveva risvegliati spiriti nuovi di ribellione; contro i Liguri, che infestavano le vie del mare tra l’Italia e la Spagna, e latrocinavano le coste galliche e ispane; in Macedonia, il cui re Filippo si era alleato con Cartagine. Sanguinosissima fu tra tutte la riconquista delle regioni che ora si chiamano Romagna ed Emilia, dove, per dieci anni a cominciare dal 200, i Galli Boi rinnovarono ogni anno una guerra micidiale di imboscate, di sorprese, di finte paci e di rivolte improvvise; sinchè nel 191, quando la nobiltà fu quasi tutta distrutta, il paese devastato da capo a fondo, la popolazione atta alle armi annientata, i superstiti si arresero; e Roma potè confiscar loro metà del territorio29. Queste guerre però, più che alla conquista di nuovi territori, miravano a una anticipata difesa. Nella aristocrazia di Roma si formò in quegli anni, con a capo il vincitore di Zama, Publio Scipione Africano, un partito il quale, non dimenticando più il pericolo che aveva visto correre all’Italia, durante l’invasione punica, abbandonò le ambizioni conquistatrici, imperialiste diremmo adesso, cresciute dopo la prima guerra cartaginese; ammonì che i cittadini, su cui Roma poteva contare sicuramente in ogni caso, erano poco più di 200 000 e molti di questi, essendo piccoli possidenti, non potevano esser tenuti sotto le armi, lontano dal paese, lungo tempo; che gli alleati avrebbero potuto rivoltarsi di nuovo; che perciò la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, la Spagna, la pianura del Po componevano un dominio già troppo vasto30. Conquistar nuovi stati, impegnarsi a presidiarli e a difenderli, era imprudente. Roma invece, non ostante l’esaurimento della guerra annibalica, era in grado di fare con successo una politica di guerre brevi e di interventi molteplici che indebolisse gli altri stati, con suo profitto; perchè essa poteva reclutar grossi eserciti nel ceto campagnolo per guerre che non durassero molto; possedeva ordini militari eccellenti; aveva nella Sicilia, nella Sardegna, nella Spagna i granai, ove provvedere agli eserciti più numerosi e lontani, senza correre il rischio di carestie in casa; avrebbe potuto facilmente, riordinando le sue finanze, disporre delle somme necessarie a queste guerre, che avrebbero ben presto reso molto più della spesa. Questo partito rapidamente prevalse; Scipione attese con zelo a riordinare le finanze31; e la sua politica riuscì pienamente. La guerra contro la Macedonia finì senza annessione di territori; ma la Grecia e le città greche dell’Asia, prima sottoposte alla Macedonia, furono dichiarate libere; Filippo dovè distruggere quasi tutta la flotta e l’esercito, e pagare un annuo tributo di 50 talenti, per dieci anni. Oro, argento, schiavi, terre furono pure il profitto delle guerre combattute nella pianura del Po, nella Spagna, nella Liguria; una ingentissima preda di metalli preziosi e un tributo annuo di mille talenti imposto al re di Siria per dodici anni, il profitto della guerra contro Antioco (193-189), che nacque dalla macedonica, e di quella contro i Galati, che si aggiunse alla guerra siriaca. Ma anche questa volta i Galati furon lasciati nel loro e i territori tolti ad Antioco divisi tra Rodi e il re di Pergamo. Parole e illusioni generose colorirono ben presto di idealismo questa politica; Roma combatteva non per sè, ma per dare la libertà ai popoli oppressi.

Queste guerre però, accrescendo rapidamente la ricchezza dell’Italia, accelerarono il rinnovamento dei costumi, dei ceti e delle fortune, incominciato da mezzo secolo. Nei saccheggi della Grecia e dell’Asia, nelle devastazioni della Spagna e della pianura del Po, i generali incominciarono a largheggiare con sè e con i soldati32, e questi a ingegnarsi per proprio conto (già nella guerra contro Filippo di Macedonia se ne eran visti molti esercitar l’usura tra gli indigeni33); molti poveri contadini tornarono con un capitaletto34; nelle campagne d’Italia le avventurose cupidigie si accesero e i volontari accorsero in gran numero per le guerre lucrose35. Nel tempo stesso lo Stato romano riordinò con tante prede e con tanti tributi le finanze dissestate dalla guerra annibalica, pagò i debiti, si trovò in grado di spendere largamente anche per opere civili; e poichè la cultura greca diffusa in un certo numero di grandi famiglie, i mezzi cresciuti, un certo spirito universale di novità e di audacia, rappresentato dal partito di Scipione, incitavano a fare, prodigò per ogni parte il denaro. L’antica politica agraria a pro’ del medio ceto fu ripresa in grande; dal 189 al 177 sei grosse colonie, oltre molte piccole, furono fondate: Bologna, Parma, Modena, Aquileia, Lucca, Luni, nelle quali i coloni ricevettero campi più vasti che nelle colonie più antiche; nel 187 si diè mano a costruire la via Emilia per congiungere Rimini con Piacenza; nel 184 Catone intraprese, tra le altre opere, il compimento della fognatura di Roma36; nel 180 si trasportarono 40 000 Liguri dalle valli native nelle solitudini del Sannio devastato; nel 177 fu aperta la via Cassia; la censura del 174 fu celebre per il gran numero di opere pubbliche ordinate in Roma e nelle colonie. Gli appalti di opere pubbliche e di forniture militari spesseggiarono; e molti giovani del medio ceto, che avevan riportato un capitaletto dalle guerre di Oriente o di Occidente, ne cercarono e ottennero facilmente qualcuno; talora soli, talora in società con amici; talora facendosi prestare i capitali da qualche ricco signore, che partecipava ai guadagni. Ben presto, la conoscenza e la pratica di questi affari si divulgarono; onde rapidamente gli appaltatori crebbero a Roma e nelle città d’Italia di numero, sino a formare un ceto di medi capitalisti, che vivevano agiatamente sulle forniture pubbliche37; e dei quali alcuni più arditi e fortunati fecero grandi fortune. Altri appaltarono la riscossione della decima parte di tutti i prodotti – grano, olio, vino – in Sicilia e in Sardegna; o la riscossione delle decime e dei diritti di pascolo sulle terre pubbliche (scriptura); altri invece arricchirono con la compra di terre private e con l’affitto delle miniere, dei boschi e delle terre pubbliche. L’anno seguente alla pace con Cartagine molti speculavano già, a Roma, sulle terre dell’Italia meridionale che valevano poco, per le devastazioni e le morti dei proprietari, comprandole38; e poi, a mano a mano che i capitali e gli schiavi furono più copiosi, tutta Italia speculò sul nuovo ager publicus. In tanta abbondanza di terre molti medi possidenti, anche tra i latini e gli alleati, ne ottennero facilmente un pezzo che aggiunsero al proprio campo e, comprati con i risparmi della guerra alcuni schiavi, lo misero a coltivazione39; mentre coloro che possedevano capitali considerevoli affittarono vaste terre pubbliche o in Italia o nella valle del Po o in Sicilia per farvi pascolare sopra da schiavi grossi armenti di buoi, di porci, di pecore e capre. La grande pastorizia vagante doveva render molto in quegli anni, a cagione delle grandi spese militari; perchè la ricerca consueta dei suoi prodotti era accresciuta dal bisogno di tanti eserciti che in tante guerre consumavano molto cuoio per le tende, molto pelo di capra per le macchine40, molta carne di porco salato41; onde un certo numero di famiglie senatorie e molti privati arricchirono rapidamente, in special modo con l’affitto dei terreni della Sicilia42.

Ma la prosperità e i rapidi progressi dello spirito mercantile mutarono a poco a poco l’antico modo di vivere. I soldati tornati dall’Oriente, gli appaltatori denarosi, i ricchi fittavoli delle terre pubbliche non vollero più vivere come i loro nonni. Non che i rustici costumi della vecchia Italia si raffinassero: perchè Roma era ancora spregiata in Grecia, nel 174, come un grosso villaggio senza belle vie, senza monumenti, e palazzi43; nella metropoli stessa le case dei grandi erano pur sempre anguste e disadorne44; l’antica e dura educazione dei giovani non fu punto temperata45. Ma la voglia di godere, così a lungo contenuta, proruppe negli appetiti primari e animali: la gozzoviglia, la sensualità, la vanità, il bisogno di commozioni violente; quella ostentazione delle cose care, e quella profusione della ricchezza, fatta solo per mostrare agli altri di possederla, che è il primo e goffo lusso della gente rozza, subitamente arricchita. Roma diventò la metropoli dell’orgia e dello sfarzo: un abile cuoco fu pagato carissimo46; i sobrii pasti di un tempo si prolungarono in banchetti interminabili, per i quali si ricercarono le ghiottonerie più care, come i vini della Grecia, le salsiccie e i pesci salati del Ponto47; l’arte squisita di ingrassare i volatili fu portata dalla Grecia in Italia48; si videro cittadini comparir nelle assemblee ubriachi, magistrati avviarsi al fôro mezzo brilli, con gli occhi lucenti, e interrompere ogni tanto le loro faccende per correre alle anfore, che gli edili facevano porre negli angoli appartati delle strade e delle piazze, a conforto di quanti sentissero per via l’effetto del troppo bevere49; le belle schiave e i bei fanciulli costarono carissimi50; sicchè nel 186 il Senato dovè reprimere i disordini dei Baccanali, e nel 181 promulgare la Lex Orchia contro le gozzoviglie. I culti orientali, dissoluti e eccitanti, incominciarono a divulgarsi51; non solo il pubblico medio imparò a gustare traduzioni e riduzioni di commedie greche, ma tra le antiche, semplici, e troppo rare feste latine, furono intercalati nuovi e violenti spettacoli come le caccie alle belve52, e i giuochi dei gladiatori in occasione di funerali53; la legge Oppia contro il lusso fu abolita54; le mercanzie dell’Oriente, i profumi, i tappeti babilonici, i mobili incrostati di oro e di avorio, furono comprati a Roma a carissimo prezzo dai parvenus55. Le città minori dell’Italia imitavano, nella misura delle proprie forze, la metropoli: e come le piccole nobiltà locali copiavano il cresciuto sfarzo dei grandi di Roma, scialando come essi in feste e banchetti; così il contadino dell’Umbria o delle Puglie, che aveva militato nei ricchi paesi di Oriente, ritornava a casa, come oggi il nostro contadino congedato dal reggimento, con maggiori desideri e bisogni. Molti nel medio ceto rustico, presero a noia le dure fatiche così care ai loro padri; andarono alla guerra con un servitore che portasse il fardello e preparasse il cibo56; tennero un maggior numero di schiavi sul podere, per faticar meno essi.

Ma questi nuovi bisogni e lussi del medio ceto e dei ricchi aumentavano a lor volta, in Roma e in Italia, il lavoro agli artigiani, le occasioni di lucro ai piccoli e grandi capitalisti. Molti Romani e Italiani, che, come soldati o fornitori al seguito degli eserciti, avevano conosciuti i paesi forestieri, le loro merci, i loro prezzi, furono stimolati alla mercatura dalla abbondanza del capitale, dal crescente consumo di merci asiatiche in Italia, dalla potenza sempre più vasta di Roma nel Mediterraneo; comprarono, venduto il campo avito, una nave; alcuni (i più, a quanto sembra, dell’Italia meridionale) si stabilirono, dopo il 192, a Delo, e vi aprirono depositi di mercanzie asiatiche, per i mercanti che venivano dall’Italia a empire di vari oggetti la loro nave57, e ai quali era più comodo di far capo a Delo che a Rodi o a Corinto; altri esercitarono il commercio tra Delo e Roma, o nel Mediterraneo occidentale. Sulle coste italiane si impiantarono molti piccoli cantieri; i boschi pubblici della Sila, ove si raccoglieva la pece, furono appaltati a gran prezzo, tanto il consumo cresceva, per le molte navi costruite58; perfino membri della nobiltà senatoria parteciparono ai lucri di questa mercatura transmarina, prestando a romani del medio ceto o a liberti, i capitali necessari per commerciare59. All’espansione militare seguiva l’espansione mercantile. A Roma intanto, crescendo i mestieri e i commerci con la ricchezza e la popolazione, si aprirono, poco dopo la fine della seconda guerra punica, i primi bagni pubblici60 e nel 174 i primi forni, per gli artigiani e mercanti scapoli o senza schiavi che fabbricassero il pane in casa61; molti artefici greci ci furono portati dai generali per preparare le loro feste e i loro trionfi62; molti orefici si mutarono in cambisti, tanta moneta straniera veniva a Roma da ogni parte, e molti cambisti, incoraggiati dai guadagni e dall’abbondanza del capitale, diventarono banchieri, accettarono depositi e fecero prestiti; molti stranieri e italiani vennero ad aprir taverne, bagni, tintorie, bottega di calzolaio, di orefice e di sarto63; a far gli impresari teatrali e gli scrittori di commedie. Un Umbro di Sarsina, Plauto, dopo aver fallite diverse speculazioni ed esercitati molti umili mestieri per vivere, faceva allora a Roma denari, riducendo, con molto spirito comico e abilità letteraria, commedie greche per il pubblico romano. La gente di campagna traeva insomma in sì gran numero a Roma dal contado, che le città latine se ne lagnarono al Senato nel 187 e nel 17764. Con la popolazione cresceva il prezzo dei terreni; le case di speculazione, altissime, di legno, amministrate da un liberto o da un fìttavolo generale, nelle quali gli artigiani o i piccoli mercanti di Roma affittavano a carissimo prezzo una stanza, resero moltissimo65; nelle vicinanze di Roma si affittarono con gran lucro i corsi d’acqua per tintorie, gli stagni e le sorgenti calde per bagni, gli orti66; chi possedeva già o seppe comprare a tempo terreni in Roma arricchì rapidamente.

Infine, per effetto di questo universale arricchimento crebbe rapidamente il commercio degli schiavi. In Italia tutti ebbero bisogno di lavoranti, in quei trenta anni: i fittavoli delle terre pubbliche, per gli armenti; gli appaltatori, per i lavori pubblici e le forniture militari; lo Stato, per i bassi servizi pubblici; i mercanti navigatori, per le ciurme dei vascelli; i ricchi, per il servizio domestico e per i giuochi dei gladiatori; i piccoli possidenti e il medio ceto, per alleggerirsi le fatiche più gravi. Ma nella civiltà antica ogni nazione che, crescendo di ricchezza e di potenza, avesse bisogno a un tratto di molti lavoranti, non trovava mai numero sufficiente di uomini disposti a lavorare per una mercede contrattata senza altra costrizione che il proprio bisogno, e doveva perciò servirsi di schiavi; perchè il barbaro (e in questo l’uomo antico anche se era civile rassomigliava al barbaro) ama poco il lavoro e meno ancora la subordinazione; onde lavora un poco, come artigiano e mercante, se non è sottoposto a nessuno; si acconcia a dipender da altri, come cliente armigero bravo, se non deve lavorare; ma a lavorare e a dipender da altri non si piega mai volontariamente, e preferisce mendicare o rubare. Infatti l’Italia avviò un gran commercio di schiavi non solo negli accampamenti, dove i prigionieri di guerra erano venduti subito, a vilissimo prezzo, agli ufficiali, ai soldati, ai mercanti che seguivano l’esercito; ma su tutte le frontiere dell’impero, con i reattoli e capi barbari che, come i negrieri dell’Africa, vendevano i prigionieri di guerra e qualche volta anche i loro sudditi. Dalla estrema Gallia, dalla Germania, dalle montagne del Caucaso, lunghi convogli di schiavi incatenati scendevano continuamente verso le ridenti rive del Mediterraneo e del mar Nero, alla volta di Marsiglia, di Aquileia, di Panticapea, di Fanagoria, di Dioscuriade dove i mercanti indigeni e italiani li aspettavano; li pagavano ai capi barbari o ai loro agenti con vino, sale, oro e argento; li imbarcavano o direttamente per l’Italia o – quelli che venivano dal mar Nero – per Delo, dove i mercanti venivano a cercarli per l’Italia, insieme con le altre mercanzie asiatiche67. Molti italiani arricchirono con il commercio degli uomini; altri, datisi invece in Roma o in Italia all’allevamento degli schiavi, facevano educare giovinetti a mestieri o professioni per rivendierli68; o li addestravano alla scherma, per affittarli poi come gladiatori, nei funerali di lusso.

I primi trenta anni del secolo secondo avanti Cristo furono per l’Italia una di quelle età felici, in cui anche chi comincia con poco capitale può far fortuna; perchè il tenor di vita, i desideri, l’industria, il commercio, le idee, la audacia, tutto insomma ingrandisce rapidamente e insieme; onde il lavoro abbonda, i bei guadagni son facili, da ogni ricchezza nuova nascono molte nuove occasioni di lucro, le ricchezze figliano con fecondità progressiva, e la accumulazione dei capitali è rapida, facile, intensa. Molti poveri divennero agiati, molti agiati ricchissimi; accanto alla nobiltà storica crebbe una borghesia nuova di capitalisti milionari, arricchitisi con il commercio degli schiavi, la mercatura transmarina, l’affitto dei terreni e delle miniere dello Stato, le forniture militari, le speculazioni edilizie, che erano iscritti dai censori nelle centurie dei cavalieri; lo spirito mercantile si divulgò in tutte le classi, dal popolino all’aristocrazia, vincendo a poco a poco, anche negli spiriti più tenaci, i pregiudizi e le avversioni dell’êra agricola: esempio Catone, il primo che entrò in Senato di una famiglia di medi possidenti della Sabina; il quale, se in principio aveva voluto essere lo sterminatore degli usurai e il modello del landlord di antico stampo, si buttò poi agli affari, diventò un uomo moderno: usuraio, speculatore di terreni, allevatore di schiavi, socio di mercanti armatori69.

Eppure sotto quella prosperità si preparava un mutamento immenso e terribile in ogni cosa. In ogni classe incominciò il contrasto tra il vecchio e il nuovo, che ne alterò a poco a poco la composizione. Se la plebe romana, rimasta in campagna, viveva ancora al modo antico, parca, feconda, onesta, rispettosa della nobiltà, della legge, quella parte invece del cittadini che, inurbatasi, si era data ai mestieri, alla mercatura, alla navigazione, agli appalti, contraeva tutti i vizi della plebe delle ricche città mercantili: l’eccitabilità, la viziosità, l’avidità, il bisogno di comodi e di sollazzi, lo spirito critico e l’indisciplina, l’egoismo del celibato, la furfanteria; si esaltava a smisurato orgoglio, per la grandezza di Roma e la propria agiatezza; perdeva a poco a poco la originaria purezza latina della stirpe, mutandosi in torbida miscela di gente di ogni razza e paese, a mano a mano che gli schiavi orientali, spagnuoli, galli, ispani, scitici liberati diventavano cittadini di Roma. Ben presto i vecchi dell’età annibalica non riconobbero più la loro Roma di un tempo, tranquilla e composta. Che chiassi invece salutavano ormai ogni scaramuccia vittoriosa su qualche tribù barbara! L’onor del trionfo era prodigato a tutti i generali70, purchè essi piacessero per la poca durezza della disciplina, per la generosità dei doni trionfali, per la prestezza nel finire la guerra. Tutti a Roma erano ormai professori di strategia e di tattica; nel campo stesso e in faccia al nemico questi petulanti plebei denarosi criticavano le mosse del generale e obbedivano di malavoglia71; spregiavano ormai, come sudditi i latini e gli alleati72.

Nella nobiltà storica invece, molte famiglie, come avviene sempre quando la civiltà muta, seppero così poco approfittare delle numerose occasioni nuove di guadagno che si offrivano nella êra mercantile incominciata, come poche famiglie nobili della vecchia Europa hanno saputo, nel nostro secolo, fondare industrie o speculare in Borsa; ma continuarono a vivere al modo antico, sui patrimoni aviti, larghi per la ricchezza di un tempo; come gli Elii, che vivevan tutti, essendo sedici e ciascuno con i figlioli, in una casa sola sul reddito di un podere73; come i Fabrizi Luscini, gli Atilii Calatini, i Manlii Acidini74, i Paolo Emilii75. Altri invece, pur arricchendo, conservarono, come tradizione gentilizia, i costumi e le idee antiche, gloriandosi di essere i campioni della tradizione: tale Tiberio Sempronio Gracco, che, come pretore, aveva pacificata la Spagna, conchiudendo equi trattati di alleanza con i principali popoli; e la aveva salvata dai capitalisti, introducendo nella provincia, per tributo, non la decima appaltata ai pubblicani, che vigeva in Sardegna e Sicilia; ma lo stipendium, una contribuzione fissa, parte in denaro e parte in natura, che era riscossa dal governatore76. Ma ben presto apparve, anche nell’aristocrazia romana, una generazione di politici giovani, ambiziosi, orgogliosi e cupidi, i quali concitarono il moderato e intellettuale spirito di innovazione rappresentato da Scipione e dal suo partito, in uno sforzo rivoluzionario, inteso a far prevalere nella vita privata e pubblica, contro all’antico spirito di disciplina familiare e sociale, le più violenti passioni personali: la cupidigia, l’orgoglio, la fretta di riuscire a ogni costo, la prepotenza, il disprezzo della tradizione, la facile ammirazione della civiltà greco-asiatica. Gli uni concorrevano alle magistrature prima dell’età legale77; altri osarono corrompere apertamente gli elettori78; altri presero a speculare o ad arricchire con le magistrature, facendosi cedere dai censori amici terre pubbliche oltre la misura fissata dalle leggi Licinie, usurpandole come proprie79, tenendosi il denaro ricavato dalla vendita del bottino, depredando le popolazioni soggette e gli alleati80; altri inferocirono e depravarono la diplomazia di Roma, spregiando come una pedanteria quel diritto delle genti che Roma aveva osservato sino allora scrupolosamente nel guerreggiare. Disprezzar tutti gli stranieri, volere aver sempre ragione, prepotere dovunque e riuscir con ogni mezzo, furono i principii della nuova diplomazia; che abbassò gli stati alleati, Rodi, il re di Pergamo, l’Egitto alla abiezione di vassalli; che incoraggiò in Grecia e nelle città indipendenti dell’Asia le discordie e lo spionaggio, e vi protesse i partiti e gli uomini peggiori, pur di dominare sicuramente; che considerò lecita ogni perfidia contro i barbari, anche assalirli e sterminarli senza provocazione o dichiarazione di guerra81, salvo a proteggerli contro gli stati civili, quando pareva vantaggioso82. Negli eserciti le turmae, – i reggimenti, diremmo noi – di cavalleria, nei quali servivano i giovani delle ricche famiglie, divennero il gran fastidio dei generali, per la loro indisciplina83; in molte famiglie nobili le donne acquistaron maggior libertà, si tolsero di dosso la tutela perpetua del marito e degli agnati, si assicurarono la libera amministrazione della dote; gli adulterî e i divorzi divenner frequenti e il tribunale domestico non fu quasi più convocato. Le famiglie nobili che, altere e austere, conservavano le tradizioni antiche; gli uomini insigni per intelletto e carattere; i vecchi avanzi dell’età annibalica; i pedanti, i brontoloni, gli invidiosi delle nuove fortune rammaricavano allora, per motivi diversi, come Dante al principio del quattordicesimo secolo, e come i clericali e i conservatori adesso, i tempi in cui Roma

si stava in pace sobria e pudica;

lamentavano la brutale cupidigia dei pubblicani, la corruzione delle famiglie, la perfidia della nuova diplomazia84, la contaminazione dei costumi romani con usanze asiatiche; di tempo in tempo riuscivano a fare approvare qualche legge che intendeva reprimere l’audacia dei nuovi abusi; o facevano eleggere a magistrato qualcuno dei loro. Talora anche qualche scandalo più grande del solito commuoveva e indignava il pubblico.... Ma gli sdegni a poco a poco sbollivano, i magistrati scadevano; i discorsi e le leggi eran poi dimenticati; i processi posti a dormire85; la severità dei vecchi tempi si rilassava in indulgenza, non solo nell’opinione pubblica, ma anche nelle leggi, che nei primi trenta anni del secolo, abolirono la pena delle verghe e della morte per i cittadini romani a Roma e nelle provincie; abolirono la pena delle verghe e ordinarono una procedura meno speditiva per le condanne a morte, nell’esercito86.

A mano a mano che la cupidigia, il lusso, l’orgoglio personale e familiare si diffondevano nella nobiltà, lo spirito di clientela e di casta, i riguardi di amicizia e di famiglia, l’ambizione, l’avidità del denaro prevalevano sul sentimento del dovere; e gli sforzi per accelerare la rivoluzione mercantile dell’antica società rustica si facevano più intensi, deliberati e risoluti. Parecchi censori, come Tito Quinzio Flaminino, Marco Claudio Marcello, Marco Emilio Lepido, Marco Fulvio Nobiliore rimaneggiarono, a più riprese, nei primi trenta anni del secolo, le liste della cittadinanza, con lo scopo d’accrescere nel corpo elettorale la potenza della infima plebe urbana, meno conservatrice e più corruttibile, a danno del medio ceto rustico; e non solo iscrissero facilmente tra i cittadini i latini venuti a Roma a esercitare il piccolo commercio e i mestieri; ma diedero i pieni diritti politici agli schiavi liberati, che erano tutti forestieri, facendoli votare nelle 31 tribù rustiche, servendosene quindi a diminuire la prevalenza degli elettori di campagna in tutte le circoscrizioni, e componendo così un corpo elettorale cosmopolita ed eterogeneo, con una politica demagogica di larga accoglienza, che non ha riscontro forse che in quella presente degli Stati Uniti. Singolari ironie della storia! Una demagogia cosmopolita, reclutata tra gli stranieri capitati per caso nella metropoli, come inquilini avventizi, da quella parte della nobiltà che si corruppe prima di spirito mercantile, operò il rivolgimento decisivo da cui doveva nascere la politica imperiale e l’impero di Roma, contro le riluttanze della popolazione schiettamente romana, che non voleva uscire dai costumi, dalla morale, dalla politica dei padri suoi87.

Con lo spirito mercantile però, con la potenza mondiale, il cosmopolitismo e il logorio della schietta nazionalità romana progrediva la cultura intellettuale: ultima e terribile forza dissolvitrice della vecchia società. La filosofia greca, specialmente lo stoicismo, si divulgava nelle famiglie nobili, allargando lo spirito alla comprensione delle idee generali; le teorie politiche, elaborate dai greci sulla democrazia, sulla aristocrazia, sulla tirannia cominciarono ad essere note e discusse nella nobiltà che aveva sino allora governato solo con l’empirismo tradizionale; i tentativi letterari cominciati da mezzo secolo, riuscirono alla fine, in mezzo al fermento di questa rinnovazione etnica, intellettuale e sociale di Roma, e per opera di scrittori usciti dal popolo cosmopolita che si mescolava nell’Urbe, alla felice creazione delle prime opere abbastanza originali finite ed intere, da poter essere ammirate poi come classiche. L’umbro Plauto scrisse, in una lingua vivace e potente, le più belle commedie latine; dalla Calabria mezzo greca venne a Roma Ennio, il padre della letteratura latina, che introdusse nel Lazio l’esametro, perfezionò la lingua, verseggiò la storia di Roma per lusingar l’orgoglio, e un trattato sulla buona cucina per compiacere la golosità dei suoi protettori; un pittore e poeta di Brindisi, Pacuvio, scrisse tragedie che restarono lungamente famose; e commedie scrisse Stazio Cecilio, un gallo insubre, probabilmente milanese, catturato forse nelle guerre per la conquista della Gallia Cisalpina e venduto schiavo a Roma. Invece la pittura e la scultura greche erano ancora mal note, e gli artisti delle colonie greche dell’Italia meridionale lavoravano soli per tutta Italia e per Roma.

La guerra contro Perseo (172-168), il figlio di Filippo di Macedonia, che aveva tentato di riconquistare i dominî perduti dal padre, parve determinare una reazione contro lo spirito mercantile della nuova età. La guerra, per l’inettitudine dei generali e la indisciplina dei soldati, cominciò male, con clamorose disfatte, che per un istante fecero vacillare il prestigio di Roma nell’Oriente; sinchè il popolo, ravvedutosi, elesse a comandare la guerra Lucio Paolo Emilio, un illustre avanzo della generazione che aveva combattuto contro Annibale, che da molti anni viveva in disparte, negletto dalla gente nuova, perchè poco amico dei suoi costumi e della sua politica. Egli infatti ridisciplinò l’esercito; non prese nulla per sè dell’immenso bottino; ne divise poca parte tra gli amici e i soldati, serbandolo quasi tutto all’erario; e fu certo l’autore delle principali clausole di pace, che il Senato approvò: non annettere, ma dividere la Macedonia in quattro distretti, ciascuno con governo proprio e senza facoltà di commerciare tra loro; imporle un tributo eguale alla metà di quello che la Macedonia pagava al re; chiuderne le miniere d’oro, affinchè i capitalisti italiani non invadessero il paese88. Mentre egli combatteva in Macedonia, a Roma i censori Tiberio Sempronio Gracco e Gaio Claudio rivedevano con gran severità le liste dei cavalieri, cercavano di infrenare l’avidità degli appaltatori e di scemar la potenza della demagogia cosmopolita, scacciando dalle tribù urbane i liberti e iscrivendoli tutti, a quanto pare, in una sola tribù89. Per un momento il senato e i comizi, spaventati, parvero voler rifare a ritroso il cammino della storia verso le età ormai passate90. Ma il ravvedimento durò poco. Non solo alla pace seguì, per le immense somme versate da Paolo nell’erario, un rapido arricchimento di tutte le classi91; ma dopo la guerra Roma predominò definitivamente nel Mediterraneo: onde esasperata dalla umiliazione delle prime disfatte ed esaltata da tanto successo, la arroganza romana si rizzò, dopo la vittoria, invelenita, sitibonda di vendetta. I re di Bitinia e di Pergamo videro superbamente respinti i loro omaggi; Antioco IV Epifane, re di Siria, ricevette da Popilio, brutalmente, come un servitore, l’ordine di levare l’assedio di Alessandria; chi nell’Asia e nella Grecia aveva anche soltanto esitato a parteggiare per Roma, fu severamente punito; Delo data agli Ateniesi, Antissa rasata, in tutte le città della Grecia i personaggi cospicui uccisi o deportati in Italia; tra gli Achei non meno di mille; e tra questi il più grande storico dell’antichità: Polibio. Molti volevano perfino la distruzione di Rodi; dicendo che aveva desiderata la sconfitta di Roma durante la guerra, ed era troppo superba; in verità per depredarla92. Ma il Senato si contentò di rovinar Rodi, dove erano grandi magazzini di deposito, e che dalle dogane ricavava redditi ingenti93, dichiarando porto franco Delo, il cui emporio rapidamente ingrandì sino a rivaleggiare con Cartagine e Corinto94.

Ma dopo la guerra perseica tutto ristagnò a poco a poco, per un rallentamento quasi direi meccanico: la guerra, il commercio, la speculazione. Domata la Gallia Cisalpina, la Liguria e la Spagna, e l’Oriente giacendo umile dopo Pidna, le occasioni di interventi e di guerre considerevoli mancarono tra il 168 e il 154; onde le forniture militari furono scarse e i lucri straordinari, che la nobiltà e i contadini portavano a casa dalle spedizioni, vennero meno. I lavori pubblici e gli appalti, invece di aumentare ogni anno, si ridussero intorno a una misura costante, dopochè furono compiute, nel trentennio precedente, le grandi opere necessarie alla nuova condizione di Roma e dell’Italia; cosicchè il tesoro dello Stato, non potendo più spendere tutto, rigurgitò di denaro, a tal segno che nel 157 vi ristagnavano 16 810 libbre d’oro, 22 070 libbre d’argento e più che 61 milioni di libbre di denaro monetato95. Anche la speculazione sui terreni pubblici ristette, perchè la maggiore e miglior parte dell’ager publicus era ormai stata affittata, divisa tra colonie o rubata; anche il commercio non progredì più così rapidamente, rallentata la prima foga dello spendere quando i subiti guadagni furono più rari. La generazione nuova che crebbe, in mezzo alla prosperità seguita a questa guerra di Perseo, non si trovò più, a mano a mano che avanzò nella vita, come la generazione precedente, in una facile età di rapidi arricchimenti: ma non rallentò quel rivolgimento di costumi per cui i bisogni e il dispendio del vivere crescevano, anzi si fece più intenso in questa generazione, che fu più cupida di piaceri, di denaro, di eccitamenti, più schiva di dure fatiche che la generazione precedente. Avviene sempre così nella storia: il desiderio di ingrandire il proprio modo di vivere nasce da prima in pochi, ma se questi non sono vinti dalla resistenza dell’antico ordine di cose, che essi debbono in parte guastare per soddisfarsi, e sinchè è possibile accrescere la ricchezza, aumentano di anno in anno, di generazione in generazione il numero di coloro che vogliono partecipare alla ricchezza del vivere nuovo e la misura dei godimenti desiderati da ognuno, per il contagio dell’esempio, per la indefinita forza di esaltazione insita nelle passioni umane, per la necessità quasi direi meccanica degli eventi; perchè a mano a mano che l’antica società perisce, un maggior numero di persone, non potendo più vivere al modo antico, è costretto a cercar di vivere al modo nuovo. Tutto allora si muta, tradizioni, istituzioni, idee, sentimenti, secondo è necessario affinchè l’universale bisogno di un vivere più pieno e più ricco sia soddisfatto. Avvenne così nel secondo trentennio del secolo, che il costo della vita crebbe non solo in Roma, ma in tutte le campagne dell’Italia; perchè i bisogni aumentarono; perchè la crapula96 e la dissolutezza97 fecero rapidi progressi in tutta la società italiana, rovinando corpi, anime e fortune; perchè il prezzo degli oggetti industriali che il possidente comprava dovè crescere per l’abbondanza del denaro, sebbene ci sia difficile determinare di quanto; mentre invece le entrate di molti possidenti diminuirono, quando al ceto campagnuolo di tutta Italia, cresciuto di numero per l’aumento naturale della popolazione durante una generazione, scarseggiarono i lucri straordinari delle guerre. Intorno a Roma infatti, a mano a mano che la popolazione e la ricchezza dell’Urbe crescevano, la terra rendeva molto; anche la Gallia Cispadana, la recente conquista della Emilia e della Romagna, sembra aver sofferto meno delle altre regioni98, certo perchè la via Emilia era molto frequentata dagli eserciti che andavano nella valle del Po; da mercanti e convogli di schiavi; da armenti e mandre che venivano a Roma; cosicchè nelle città fondate lunghessa le derrate delle campagne vicine si vendevano bene. Non così invece nelle campagne poste intorno a città solitarie, lontane dalle grandi vie, specialmente nell’Italia meridionale. I possidenti italici coltivavano allora principalmente grano, secondariamente vigna e uliveto99; ma il grano, come avveniva in tutto il mondo antico, anche nei paesi aperti da comode strade, doveva esser venduto nei mercati vicini, perchè la spesa e il rischio del lontano trasporto lo avrebbero rincarito talmente che non avrebbe più potuto vendersi; mentre le altre derrate, come il vino e l’olio, erano scarse, cattive e spesso non potevano essere esportate per mancanza di vie. Avveniva perciò che quando il piccolo o il medio possidente di un lontano paese d’Italia, stretti dal bisogno di denaro, per le spese crescenti, producevan di più o consumavano essi medesimi meno, per vendere, i prezzi precipitavano sul mercato povero e angusto a tale viltà, che faceva stupire l’abitante della opulenta e carissima Roma100.

Nelle campagne d’Italia infierì il flagello dell’usura; ben presto molte famiglie che da secoli sedevan tranquille intorno al focolare avito, doveron levarsi e andare alla ventura, per le strade dell’Italia e del mondo; l’antica agricoltura italica incominciò a rovinare e con essa a sprofondarsi lentamente, nell’oceano della storia passata, l’Italia multilingue e federale, osca, sabellica, umbra, latina, etrusca, greca, gallica, delle innumeri città turrite e murate, delle solitarie repubblichette alleate, delle colonie latine e dei municipi romani. Molti dei finanzieri e dei senatori che, sul principio del secolo seguente, primeggiarono in Roma, nacquero di famiglie originarie dei municipi e delle colonie latine101; è dunque verisimile supporre che mezzo secolo avanti molte cospicue famiglie dei municipi, delle colonie latine, delle città alleate, incominciando a impoverire, venissero a Roma, dove, lontano da coloro che li avevano visti nella prosperità, potevan senza vergogna vivere modestamente e sperar di rifarsi; che nelle famiglie del medio ceto molti giovani abbandonassero la campagna per la vicina città, sperando di arricchire, come avevano udito esser riuscito a tanti; e i più, trovando scarso il lavoro nelle piccole città che la emigrazione delle famiglie cospicue e lo squallore crescente del contado impoverivano, fossero sospinti a Roma.... La lotta per la vita cominciò a farsi dura in Roma e in Italia; in tutti i mestieri e traffici che potevano essere avviati con poco capitale il concorso crebbe e i guadagni scemarono; la miseria cominciò a ristagnare in tutta Italia in larghe paludi miasmatiche, che avrebbero presto, come sempre avviene, avvelenata anche l’aria respirata dai ricchi; e in Roma, dove i più traevano, seguendo la fama di opulenza della metropoli, la carestia diventò un tormento ed una umiliazione quasi perenne della sua crescente grandezza. Roma, a mano a mano che la popolazione aumentava, doveva cercare su mercati più lontani le provviste maggiori di grano necessarie a nutrirsi; ma quanto più gli estremi mercati si allontanavano, il pane rincarava a Roma; onde appena ricorresse un’annata cattiva, il popolino soffriva la fame e si indebitava con i fornai102.

A questo si aggiunse un altro male, ancor più grave: l’impoverimento, la disparizione e la corruzione della vecchia nobiltà romana; il progressivo disfacimento fisico, economico e morale della classe dirigente di Roma. Nelle famiglie nobili arricchite nel primo e felice trentennio del secolo, l’orgoglio, la crapula, la dissolutezza precoce corruppero molti giovani, che crebbero inetti, leggeri, malati, stupidi, viziosi; in quelle famiglie che, per inettitudine o per orgoglio, avevan trascurato di accrescere le proprie ricchezze, se una generazione aveva potuto ancora vivere al modo antico in mezzo al lusso, la seguente cede alla forza dell’esempio; e molti giovani si rovinaron di debiti; gli uni smisero la clientela, venderon la casa avita, si ridussero in casa d’affitto103, cercando di sparir nella folla e vivere sugli avanzi della fortuna; altri si studiarono di far denaro con la politica. Roma non fu più governata da una nobiltà che considerava l’esercizio del potere come un dovere gentilizio, ma in parte da una nobiltà ricca e degenerata, in parte da una nobiltà bisognosa, che voleva procurarsi ricchezze; e che pur disprezzando per invidia i milionari recenti iscritti nell’ordine dei cavalieri ne divenne molto amica, per ragioni che è facile supporre; sebbene la corruzione non fosse ancora sfrontata e palese. Qualche scandalo scoppiava talora; come quello del pretore Ostilio Tubulo, che nel 142 fu scoperto a vender la sentenza in un processo d’assassinio104; ma chi poteva vigilare la invisibile corruzione dei pranzi e delle orgie, a cui i ricchi banchieri invitavano, per spegnerne gli ultimi scrupoli, gli ingordi nobili bisognosi; la corruzione degli aiuti prestati nelle elezioni con il denaro e le clientele; dei doni segreti; delle partes – carature, diremmo noi, – nelle società di pubblicani? E intanto – sebbene gli ingenui non capissero per qual ragione – le miniere d’oro della Macedonia, chiuse da Paolo Emilio, erano, dieci anni dopo, con le terre del re di Macedonia, affittate a capitalisti romani105; ogni volta che ricchi capitalisti romani erano chiamati in giudizio dal senato per colpe o negligenze eran sempre difesi da illustri patroni ed assolti106; i ricchi finanzieri si vedevano ormai sedere in posti riservati e d’onore al teatro, e usurpare i distintivi del rango senatorio107. Peggio ancora, si decomponeva l’esercito. A mano a mano che crescevano l’agiatezza, l’orgoglio, la viziosità, la cupidigia di quella oligarchia mercantile di artigiani, liberti, appaltatori, armatori che componevano ora il popolo romano; a mano a mano che la nobiltà degenerando perdeva il rispetto e le ricchezze, e invece di spendere munificamente il suo per il bene comune, ambiva il potere per guadagnare, lo spirito democratico, l’idea che il popolo fosse signore di ogni cosa e comandasse a tutti faceva rapidi progressi108; e se divulgandosi non minacciava ancora di rovina lo Stato, aveva già distrutto la disciplina dell’esercito. I consoli nelle leve esentavano in gran numero, per non farsi dei nemici, i cittadini romani, specialmente gli agiati cui la milizia in lontani paesi, che li toglieva ai traffici e ai piaceri della città, era un peso insopportabile; in guerra gli ufficiali non osavano più castigare i cittadini, che votando nei comizi si sarebbero poi vendicati; li lasciavano condurre nel campo schiavi e prostitute, ubriacarsi, prendere il bagno caldo, commettere crudeltà e rapine, fuggir le fatiche e i pericoli, cosicchè la poltroneria e la viltà prorompevano in tutti gli eserciti109. Si eran studiati tutti i ripieghi per scemare agli impoltriti signori dell’impero il peso della milizia: abbassare il censo degli obbligati al servizio; ridurre questo a sei anni e congedar per sempre i soldati che avessero fatto sei campagne110; aumentare i contingenti delle colonie latine e degli alleati, tra i quali i robusti contadini abbondavano ancora111. Ma ora che le legioni dei cittadini romani erano non il modello, ma lo scandalo degli accampamenti, non si poteva più mantenere la disciplina nelle coorti degli alleati e dei latini; e gli eserciti degeneravano in scuole di gozzoviglia, di rapina e di crudeltà.

Da questa lenta decomposizione di una società guerresca, agricola e aristocratica, incominciata quando essa avea già conquistato il predominio militare nel Mediterraneo, per opera della plutocrazia e dello spirito mercantile, nacque quello che noi chiameremmo il vero imperialismo romano. Lo spirito di violenza brutale e l’orgoglio, crescenti con la ricchezza e il dominio in tutte le classi; la cupidigia della nobiltà e dei capitalisti; lo spavento per la progressiva decadenza militare, inferocirono la savia politica di interventi immaginata da Scipione in una politica di distruzione e conquista, che incominciò con la terza dichiarazione di guerra a Cartagine (149), e seguì poi con la conquista della Macedonia (149-148) e della Grecia (146). Nel 154 era nata in Spagna una guerra, che tutti credettero piccola, con un oscuro popolo alleato; ma ben presto le disfatte si seguirono, e peggio ancora, quando a Roma si seppe che la guerra di Spagna sarebbe stata non una passeggiata militare, ma una lunga e difficile prova, non si trovarono più nè soldati nè ufficiali disposti a partire. Questo scandalo, che rivelò a tutti l’indebolimento militare di Roma, di cui gli osservatori perspicaci avevano osservati i primi segni durante la guerra perseica, acuì le inquietudini nate da un pezzo per la crescente prosperità e ricchezza di Cartagine; Catone riprese con vigore la propaganda da lui già tentata più volte per indurre Roma a distruggere la sua antica rivale prima che questa distruggesse lei; e il disegno fu favorito questa volta dai ricchi capitalisti, i quali volevano impadronirsi del commercio tra l’interno dell’Africa e il Mediterraneo; dalla nobiltà bisognosa, che sperava di guadagnare nella guerra; dagli appaltatori, che speravano abbondanza di affari; dalla plebe urbana, per orgoglio e selvaggio spirito di prepotenza. Invano gli ultimi scrupoli della antica lealtà romana tentarono di impedire la iniqua distruzione di una città che viveva in pace; dopo una perfida dichiarazione di guerra, dopo vergognose sconfitte, dopo molti sforzi e tre anni di guerra, Cartagine fu incendiata da Scipione Emiliano; e il suo commercio passò in parte ai mercanti romani112. Nel tempo stesso, incoraggiate dai rovesci delle armi romane in Africa e in Spagna, la Macedonia e la Grecia si ribellavano; ma vinte, l’una e l’altra erano trattate ferocemente; ridotte a provincie, annesse all’impero, saccheggiate. Anche la splendida Corinto fu incendiata, a spavento della Grecia. Qualche anno dopo, nel 143, il console Appio Claudio, nel Piemonte ancora selvaggio, il Transvaal dei capitalisti di quel tempo, assalì senza provocazione i Salassi, tolse loro parte dei territori auriferi; e subito una società romana affittò le miniere, vi trasportò più di 5000 schiavi e fece di Victumule, nel Vercellese, la sede del commercio dell’oro in Piemonte113. Ai primi sintomi di debolezza e di decadenza, lo spirito pubblico proruppe a Roma in un violento accesso di orgoglio e di ferocia, che, come un turbine, spiantò dalle fondamenta Corinto e Cartagine.

Erano invece spaventati gli uomini illuminati, come Catone, come Sempronio Gracco, come Scipione Emiliano, come Metello il Macedonico, come Gaio Lelio, Mucio Scevola, Licinio Crasso Muciano. Costoro capivano che gli accessi di furore avrebbero non curata, ma accelerata la decadenza: che cosa sarebbe infatti successo di Roma se le campagne avessero continuato a indebitarsi e a spopolarsi? se tutti i cittadini romani si fossero mutati di contadini in mercanti, appaltatori, artigiani e mendicanti? se il lusso, la ignavia, la corruzione della nobiltà fosse cresciuta? Se Roma infatti aveva potuto distruggere Cartagine e Corinto, le barbare popolazioni spagnuole resistevano, e la guerra continuava interminabile in Spagna, non ostante le devastazioni e i massacri orribili dei generali romani, stremando l’erario e l’esercito. L’istinto di conservazione dei singoli, che in ogni età fa resistenza alla storia e vorrebbe salvarsi dai dolori necessari del progresso, si spaventava; e da ogni parte risonava il lamento per quella afflizione che tormenta i saggi, in ogni età in cui una civiltà muta; e mutandosi, molte antiche cose buone e molte cattive periscono insieme, per una necessità di rapporto che sfugge spesso allo spirito dei contemporanei. L’uomo, in mezzo alle confuse vicende della storia, giudica delle cose dal loro primo effetto; ripugna per istinto alla distruzione delle cose buone; paventa sempre rovine definitive, in mezzo alla terribile vicenda delle civiltà periture e delle civiltà nascenti, che rassomiglia alle vicende delle notti e dei giorni nelle estati iperboree: un lunghissimo giorno, un lungo crepuscolo, l’estinzione di ogni cosa nella piena oscurità della brevissima notte; poi di nuovo il crepuscolo dell’aurora che risuscita il mondo. Ma quando, dopo aver vissuto il giorno splendente di una civiltà, vede calare il lento crepuscolo, l’uomo, temendo che la luce si spenga per sempre, si volge indietro disperatamente al sole del dì che tramonta.... Gli uomini illuminati di quel tempo volevano godere della nuova potenza, ricchezza e cultura di Roma; e favorivano con ogni sforzo i progressi della coltura. Così in quegli anni il conquistatore della Macedonia, Metello il Macedonico, avendo deliberato di costruire un tempio a Giove e uno a Giunone, e di circondarli con un gran portico, faceva venire dalla Grecia architetti e scultori, tra i quali Policleto e Timarchide, che pare fossero fratelli e che primi fecero conoscere a Roma la pretta scultura attica114. Ma essi non si rassegnavano a vedere perire la parte migliore dell’antica società agricola e aristocratica; la disciplina familiare, lo zelo civico, la moderazione delle passioni, la concordia dei ceti: bisognava perciò restaurare le cose buone della società antica, aggiungendovi gli eccellenti acquisti dei tempi nuovi; mescolare il passato e il presente; ricostituire il ceto dei piccoli possidenti, seminario di soldati115; ritornare all’antica semplicità i costumi della aristocrazia116; ricordare ai Romani il dovere di generare molta prole117. Eterna illusione e contradizione degli uomini, in ogni trapasso doloroso di civiltà! Questa contradizione fu il tormento e la grandezza dell’uomo figurativo di questa generazione. Publio Cornelio Scipione Emiliano, figlio carnale di Paolo Emilio, adottato da un figlio di Scipione Africano, fu un grande uomo di pensiero e d’azione, avido di cultura, poco cupido di ricchezze e di piaceri, che non sciupò in bagordi e dissolutezze, ma esercitò sin da giovane con lo studio e le opere le splendide qualità naturali. Amico e discepolo prediletto di Polibio, il grande pensatore che gli aveva aperto tutti i segreti della sua profonda sapienza storica, egli aveva lucidamente capito che l’imperialismo avrebbe distrutto alla fine l’impero; che l’orgoglio, la cupidigia, la sete dei piaceri, il celibato, tutte le passioni dell’era mercantile, e la politica di conquista che ne nasceva, avrebbero distrutto la potenza guerresca di Roma, l’ordine interno, la pace tra le classi, scatenando nella metropoli dell’impero l’anarchia demagogica, in cui erano perite tante repubbliche della Grecia. Eppure, siccome egli era uno dei pochi uomini alacri, forti, coscienziosi nella nobiltà disfatta; e il solo grande generale, intelligente ed energico della sua generazione, egli dovè compiere tutte le imprese più difficili e crudeli del feroce imperialismo del suo tempo, che gli altri generali non riuscivano a compiere: la distruzione di Cartagine prima, e poi, la guerra di Spagna continuando, la distruzione di Numanzia. Ma era possibile opporsi a questo fatale andar delle cose? Il discepolo di Polibio sentì più nettamente che ogni altro il fragore della cascata vicina in cui precipitava la corrente del tempo; ma sentì pure, meglio degli altri e con più terribile lucidezza, che nessun nocchiere avrebbe potuto risalir con la nave il fiume della storia e il suo corso fatale118. Tutti coloro che covavano rancori contro il proprio tempo: i proletari miserabili, i possidenti fastiditi dai debiti, le antiche famiglie nobili impoverite, i conservatori a oltranza, scontenti del soverchio mutamento già avvenuto, e i rivoluzionari inconsapevoli, scontenti del mutamento ancora imperfetto, partecipavano in misura diversa a questa tragica contradizione; perchè nessuno poteva prevedere i compensi futuri del male presente; immaginare che intanto, pur precipitando in fondo a una comune miseria, le diverse popolazioni d’Italia si mescolavano, le une nelle città delle altre e tutte in Roma, dimenticando le tradizioni e le lingue locali nella comune ambizione di conquistar una fortuna e una patria più grandi; che intanto lo spirito romano si mondava della tenace ignoranza, dell’angusto empirismo, delle grossolane superstizioni dei tempi antichi e acquistava alla scuola dei Greci lo spirito scientifico, l’attitudine cioè della mente d’indagare, con metodo, la realtà universale. Senza questa educazione scientifica non sarebbero apparsi nel mondo, nel secolo seguente, gli architetti, i maestri, gli operai che costruirono la meravigliosa fabbrica dell’impero: ma i contemporanei di Scipione Emiliano vedevan intanto solamente l’antica società rovinare, l’esercito disfarsi, la miseria diffondersi, e salire su Roma, come una nuvola minacciosa, lo spavento massimo della storia: la guerra civile tra ricchi e poveri.

III.
LA FORMAZIONE DELLA SOCIETÀ ITALIANA.

Il segno alle prime scaramuccie di questa guerra terribile, che doveva durare un secolo, fu dato involontariamente da Tiberio e Caio Gracco, figli di Tiberio Sempronio Gracco, nipoti di Scipione Africano, cognati di Scipione Emiliano: gli ultimi di quella grande famiglia che dopo loro doveva sparire dalla storia.

Nella casa paterna, dove era stato educato da valenti filosofi greci, il giovinetto Tiberio dovette udire sovente gli uomini più insigni del tempo discorrere dei mali di Roma, della sua decadenza militare, della necessità di una riforma che impedisse l’intera distruzione dell’antica società, rinnovando quella protezione pubblica dei poveri, che lo stato romano aveva così bene esercitata nei suoi tempi migliori. La superstizione universale e tenacissima che non si possano guarire i mali di un’età se non con farmachi legislativi doveva essere tanto più comune in Roma, dove lo Stato aveva sempre curato paternamente, nel passato, il male della miseria, distribuendo terre, rimettendo debiti, fondando colonie119. Tiberio Gracco si era imbevuto di queste idee in casa; era stato profondamente impressionato prima dalla guerra di Spagna, a cui aveva preso parte e che, durando da venti anni dispendiosa e vergognosa, minacciava di rovinare l’erario già così florido120, poi dalla grande rivolta di schiavi, scoppiata in Sicilia da poco, che Roma stentava a reprimere; si era spaventato in special modo della rapida decomposizione dell’esercito; e giovane pieno di studi più che pratico della vita, ardente di generosi propositi più che provvisto di esperienza matura, si indusse, per guarire i mali di Roma e rifare l’esercito, a ripigliare vigorosamente l’antica politica agraria delle assegnazioni. Le vaste terre pubbliche dell’Italia che i ricchi latifondisti avevano affittate, o rubate, potevano essere loro ritolte e divise in piccoli campi fra molti coltivatori; ciò facendo, inviando specialmente nell’Italia meridionale una parte dei miserabili di Roma e del Lazio, si sarebbe giovato insieme a Roma e all’Italia meridionale, dove le città che deperivano avrebbero rifiorito, quando intorno le terre fossero di nuovo popolate di quei piccoli possidenti121, che avevano generato a Roma le invitte legioni di un tempo. Molti erano in Roma di questo stesso pensiero122; e Tiberio Gracco, eletto tribuno della plebe per l’anno 133, si propose di recarlo ad atto, in grande, con una legge agraria, che aveva preparata valendosi dei consigli di due dotti greci, Blossio di Cuma e Diofane di Mitilene123, e che mirava a far servire di nuovo, come in antico, l’ager publicus, al bene dei poveri. Questa legge, rinnovando in parte le leggi Licinie Sestie, disponeva che nessun cittadino romano potesse possedere più di cinquecento iugeri di terre pubbliche, aggiunti duecentocinquanta iugeri per ciascun dei suoi figli sino alla misura di altri cinquecento124; aggiungeva, forse, che sarebbero tolte ai latini e agli italici le terre pubbliche non assegnate loro regolarmente, sia che le avessero comprate da altri, od occupate essi stessi125; che i cittadini romani, quasi tutti ricchi possidenti, riceverebbero un risarcimento in denaro per i miglioramenti fatti126, mentre i latini e gli alleati, tra i quali abbondavano piuttosto i piccoli e medi possidenti, potrebbero invece, per compenso, partecipare alla nuova distribuzione delle terre127 insieme con i cittadini romani poveri; i quali però avrebbero pagata una piccola somma, ogni anno, allo Stato, e non avrebbero potuto vendere le terre ricevute. Tre uomini scelti ogni anno dal popolo, nei comizi tributi, assegnerebbero i campi e deciderebbero, in caso di controversia, quali terre fossero pubbliche e quali private128. Tra gli avanzi dell’antico contadiname romano la legge fu accolta con gran favore129; pare fosse accolta bene anche dalla povera plebe urbana dei clienti, dei libertini, degli artigiani, la quale, come sogliono spesso i poveri, si lagnava dell’avarizia dei ricchi e dell’abbandono del governo come della causa unica della propria miseria, e perciò fece festa al primo nobile che si accinse a fare qualche cosa per lei; non fu vista male da molti conservatori illuminati130; e certo le furono favorevoli quei senatori di modesta fortuna, che si trovavano a disagio in mezzo alla opulenza dei nuovi tempi e gioivano in segreto del danno che la legge minacciava ai ricchissimi signori di immensi armenti. Costoro – e dovevano essere nel Senato un piccolo numero – non potevano sperare di far cadere la legge, sebbene fossero potenti nei comizi; essi tentarono perciò una manovra abile, perchè legale; indussero un collega di Tiberio a interporre il veto; opponendo così, contro i disegni del legislatore popolare, la sacrosanta autorità tribunizia che il popolo aveva sempre rispettata religiosamente. Invece la crescente disposizione alla violenza del temperamento romano, provocata da questa manovra, proruppe per la prima volta anche contro l’inviolabilità tribunizia; gli animi si irritarono; l’impetuoso Tiberio, dopo aver invano cercato di smuovere la ostinazione del collega ne propose al popolo, procedimento nuovo e rivoluzionario, la destituzione; il popolo adirato la votò; e deposto il tribuno, la legge fu approvata. Le passioni si accesero ancora di più; la oligarchia dei ricchi fittavoli di terreni pubblici incominciò ad accusar Tiberio di aver offeso la inviolabile persona di un tribuno; Tiberio, commosso dalla esaltazione del popolo, spaventato dal pericolo di questa accusa capitale, esasperato dall’opposizione dei grandi, si volse risolutamente ad eccitare il popolo con le teorie democratiche più radicali; affermò in grandi discorsi che la volontà del popolo era la suprema autorità dello Stato131; e quando si seppe che Attalo re di Pergamo era morto lasciando il regno in eredità al popolo romano, fece approvare che il suo tesoro servisse a provvedere gli strumenti ai nuovi coloni troppo poveri per comperarli; e propose che il popolo e non il Senato ordinasse la nuova provincia132. Questa volta i suoi nemici lo accusarono di voler diventare tiranno di Roma, e atteggiarono abilmente ad opposizione politica la loro avversione alla legge agraria; ciò che indusse Tiberio a cercar di farsi rieleggere tribuno della plebe, anche nell’anno seguente, per essere sicuro da una accusa capitale. Sembra che a questo fine egli annunciasse altre leggi popolari133; ma gli odi si concitarono ancor più; e alle elezioni i due partiti vennero con gran sospetto vicendevole e con torbide, per quanto vaghe, disposizioni alla violenza, che un piccolo tumulto successo a caso, a quanto sembra, durante i comizi, fece esplodere. Un manipolo di senatori, non avendo ottenuto che il console indicesse lo stato d’assedio, si scagliò armato in mezzo alla folla; uccise Tiberio e molti amici suoi134. Questa illegale violenza privata disperse il partito così numeroso di Tiberio, spaventò i conservatori illuminati e dilettanti di riforme, che già l’agitazione democratica di Tiberio aveva disgustati; umiliò la baldanza popolare; e Roma, stordita di stupore, vide dopo tanti secoli di ordine e di legalità, non solo impunita ma ammirata la violenza della prima fazione che si era fatta giustizia da sè. Anche Scipione Emiliano, che allora assediava Numanzia, approvò l’uccisione del troppo democratico suo cognato.

Ad ogni modo, i tre commissari, uno dei quali era Caio Gracco, fratello minore di Tiberio, partirono; andarono nella Gallia cispadana, scesero nell’Italia meridionale; e posero mano all’impresa di ricostituire, nella campagna, l’antica e forte Italia rustica, che aveva vinto Annibale, cominciando le misurazioni e assegnazioni delle terre pubbliche135, riconfermati ogni anno e sostituiti solo in caso di morte. Ma la impresa era ardua; e non poteva più compiersi senza molte ingiustizie; perchè era difficilissimo ritrovare l’antico ager publicus, dopo tanti anni; molti simulando di cedere ad altri le terre pubbliche possedute oltre la misura legale136; altri avendo coltivate con grande spesa le terre ricevute; i documenti di molte vendite e cessioni non ritrovandosi più137. I medi possidenti, ancora numerosi fra i latini e gli alleati, soffrivano di queste ricerche e verifiche in special modo e tanto più crudelmente, perchè proprio in quegli anni l’Italia, come dice Plinio, incominciò a capire il suo bene138; molti possidenti mezzo rovinati si ingegnarono di cercare coltivazioni più lucrose; e poichè coltivando, come avevano fatto fino ad allora, la vigna e l’uliveto quasi solo per i bisogni propri e il grano per venderlo, non potevano più vivere, pensarono di far grano solo per il proprio bisogno, ed olio e vino invece per venderli. L’olio e il vino valevano di più e potevano più facilmente esser portati a vender lontano. Le grandi crisi della storia, che nascono dalla scarsezza dei mezzi non più bastevoli ai bisogni cresciuti, non si risolvono mai – l’Italia contemporanea non dovrebbe dimenticarlo – per le cure o gli studi di legislatori di genio; ma per lo sforzo lento e inconsapevole di tutta la nazione, che lavorando e ingegnandosi proporziona i mezzi ai bisogni, e proporzionandoli crea talora una civiltà più perfetta. Proprio allora invece questi medi possidenti, turbati nell’opera loro salutare da un legislatore troppo zelante, correvano il rischio di ricevere, in cambio di una bella vigna già vegetante, un terreno paludoso. Essi ricorsero perciò a Scipione Emiliano, il quale era ben disposto verso queste genti, da lui conosciute nelle guerre; e Scipione propose in Senato e certo anche fece approvare dal popolo, che non i triumviri ma i consoli giudicassero in avvenire dei terreni pubblici e privati139; cosicchè i triumviri non potendo più cercare la terra da dividere, e i consoli, quasi sempre avversi al partito popolare, lasciando dormire i processi, l’esecuzione della legge fu sospesa140. Solo nel 125 M. Fulvio Flacco, membro della Commissione agraria e amico di Tiberio, tentò, eletto console, di risospingere l’arenata riforma; e per compensare ai latini e agli alleati i danni della revisione dell’ager publicus, propose di conceder loro la cittadinanza141: ma inutilmente.

L’impresa interrotta di Tiberio Gracco fu ricominciata dieci anni dopo da suo fratello Caio, uomo davvero straordinario per potenza e grandezza di mente. Caio che aveva ventun anno, quando Tiberio fu trucidato, era stato nei dieci anni seguenti esempio splendido di alacrità, di studio, di virtù private e civiche alla snervata nobiltà della generazione sua: era stato membro della Commissione agraria; aveva preso parte in varie occasioni alle lotte politiche seguite alla morte del fratello cercando di difenderne la memoria e l’opera; aveva fatto molte campagne ed era stato questore in Sardegna, ma in modo diverso dagli eleganti giovani delle grandi famiglie romane: vivendo nell’accampamento come i soldati e curando molto il loro benessere; spendendo del suo invece di rubare quello dei sudditi; serbandosi casto142. Nè la milizia gli aveva impedito lo studio, di cui la sua mente era avidissima, o l’esercizio di quella straordinaria eloquenza che Cicerone tanto ammirava143; ma molto aveva letto e studiato, mentre le memorie incancellabili, l’osservazione degli avvenimenti seguiti alla morte di Tiberio, le lunghe meditazioni continuavano e maturavano nel suo spirito, lontano da Roma, il pensiero interrotto del fratello. Come Tiberio, anche Caio era mosso dalla considerazione che tutto il passato di Roma non potesse andar distrutto senza grave pericolo; ma il disegno della riforma restauratrice e riconservatrice, pensato nel crepuscolo di una civiltà peritura, cominciava già, per la necessità delle cose, come sempre avviene di questi disegni in simili tempi, a mutarsi nel suo spirito in azione rivoluzionaria, che, invece di restaurare la parte buona del passato, ne avrebbe affrettata la distruzione, insieme con quella delle cose cattive. La sorte del fratello e l’esito della sua riforma dimostravano che invano si sarebbe tentato di provvedere ai mali di Roma, senza prima aver distrutta o almeno umiliata la potente fazione dei grandi fittavoli e usurpatori del terreno pubblico; che il disegno di rifare un ceto di possidenti con la poveraglia di Roma, era troppo semplice e in pratica poco efficace. Caio stesso, come commissario, aveva osservato quale impresa difficile, piena di ingiustizie e di guai, fosse ritrovare l’ager publicus; e poi, anche ammesso che i nuovi coloni coltivassero con zelo le terre ricevute, ciò che non era sicuro144, non per questo era facile far rivivere, in quei quattrocentomila cittadini romani che governavano l’impero (il censo del 125 ne aveva contati 394 376), la parte migliore dello spirito antico. Il popolo romano era ormai una piccola oligarchia di proprietari, banchieri, appaltatori, mercanti, artigiani, avventurieri e pezzenti, cupidi di piaceri, di eccitamenti, di sùbiti guadagni, orgogliosi, petulanti, corrotti dalla vita nella città; e questa oligarchia – era inutile illudersi – avrebbe sempre posto il proprio vantaggio e piacere sopra la necessità della più salutare riforma; mentre gli ultimi avanzi della antica popolazione rustica, che ancor facevan parte di quella oligarchia, erano pochi, poveri, sfiduciati; avevan perduto il loro sostegno e la loro guida di un tempo; le nobili famiglie protettrici. Molti, in questa oligarchia, e specialmente il popolino povero, si lagnavano della condizione presente; ma solo perchè non possedevano e non godevano nella misura del desiderio; e se per sfogare il malumore e la invidia dei ricchi parteggiavano per qualunque riforma si proponesse, agraria ad esempio, non erano disposti a tornare, per la salvezza dello Stato, a una vita più laboriosa, più onesta, più semplice. E nuove idee maturavano nello spirito di Caio Gracco, durante le lunghe spedizioni, lontano da Roma.

Di ritorno dall’ultima spedizione in Sardegna, quando la navicella che lo portava, risalito il Tevere, gettò l’ancora a Roma, egli trovò molta folla che lo accolse, allo sbarco, con grandi applausi145. A poco a poco, svanito il terrore dell’uccisione di Tiberio, era rinato nel popolino povero di Roma il desiderio di un protettore e vendicatore; e cresciuta la speranza nel fratello, noto per le sue virtù e già perseguitato dal sospetto dei grandi. Così venne alla fine il giorno in cui, sospinto dalla memoria del fratello, dagli eventi, dalle aspettazioni della plebe, dalla malevolenza dei suoi nemici, dal suo genio, Caio affrontò il cimento d’una riforma universale, in parte con idee del fratello più maturate, in parte con idee sue, tutte originali e arditissime, alcune anche pericolose. Eletto tribuno della plebe per l’anno 123, in comizi ai quali concorsero moltissimi elettori dalla campagna146, egli tentò anzitutto di togliere alla potente fazione dei grandi fittavoli e usurpatori delle terre pubbliche l’aiuto che le veniva dall’unione, condiscendenza e dipendenza delle altre classi147. I ricchi capitalisti e i nobili senatori si accordavano facilmente per depredare insieme lo Stato e l’impero; ma siccome quelli tolleravan ormai di mala voglia per orgoglio, per desiderio di potenza maggiore, per avarizia, la signoria assoluta nello Stato, nei tribunali, nell’esercito, di tanti nobili a cui essi spesso pagavano i debiti, o le orgie, Caio propose, ripigliando una idea di Tiberio, una lex iudiciaria, per la quale le commissioni permanenti (quaestiones perpetuae), che giudicavano le accuse di malversazione contro i governatori ed altri reati politici, si comporrebbero non più di senatori ma di cavalieri, e forse anche sarebbero provviste di giurisdizione più larga148. Nel tempo stesso un suo collega, Manio Acilio Glabrione, proponeva una gran legge, la lex Acilia Repetundarum, contro le concussioni dei governatori. La legge giudiziaria era un bel dono per i ricchi finanzieri, che avrebbero potuto ora giudicare anche i senatori; ma a questo un altro più splendido ne aggiunse Caio, con la legge che riordinò definitivamente la nuova provincia di Asia, il regno di Pergamo ereditato dieci anni avanti, e che, domata una insurrezione nazionale, era ormai sicuro possedimento di Roma. Caio, contrariamente a ciò che aveva fatto suo padre in Spagna, propose che s’introducessero nella provincia d’Asia le imposte romane della decima di tutti i prodotti; della scriptura o appalto dei terreni pubblici; dei portoria o dogane; e che la riscossione di queste imposte, per le differenti città, fosse appaltata, non in paese come in Sicilia, ma dai censori a Roma, riserbandone gli appalti ai capitalisti romani149. Delle somme che lo Stato avrebbe cavate da questi appalti, di quelle che avrebbe reso un aumento dei diritti doganali sugli oggetti di lusso importati dall’Oriente150, Caio volle servirsi per guadagnare il popolino, togliendo via per sempre la mezza carestia che tormentava Roma, anche negli anni prosperi; e propose a questo fine, con la lex frumentaria, che l’annona fosse convertita in servizio pubblico e che lo Stato provvedesse Roma di grano, vendendolo al prezzo di favore di 6 assi e un terzo il moggio151. Forse egli pensava anche di giovare, con questi larghi acquisti pubblici di grano in tutta Italia, ai possidenti; e ordinando la costruzione in Roma di vasti granai, di dar lavoro agli appaltatori e ai lavoranti152. Per giovar poi ai contadini e ai poveri propose di richiamare in vigore le leggi di Tiberio, attribuendo di nuovo ai triumviri, con una lex agraria, il potere di giudicare delle terre pubbliche e delle private153; aggiunse a questa, riprendendo forse un’idea del fratello, una lex militaris, con la quale si disponeva che nessuno fosse arruolato prima dei 17 anni e che il vestiario militare fosse pagato non dal soldato ma dall’erario154; propose infine con la lex viaria un vasto disegno di nuove vie, da costruirsi in diverse regioni dell’Italia e certo in special modo nell’Italia meridionale, così per dar lavoro ad appaltatori e braccianti come per aiutare gli agricoltori a vendere meglio le loro derrate.

Proponendo, durante il primo suo tribunato, nei comizi tributi, cioè senza dover richiedere prima l’approvazione al Senato, tante cose insieme, di cui ciascuna piaceva o ai ricchi finanzieri, agli appaltatori, o ai cittadini poveri, o ai possidenti; stringendo intorno a sè una coalizione di interessi mercantili, di appaltatori, banchieri, artigiani, proletari; Caio potè facilmente far approvare ogni sua proposta e divenire l’uomo più potente, popolare e affaccendato di Roma155. Non solo infatti egli pensava larghi disegni, ma ne vigilava personalmente la esecuzione con una alacrità infaticabile e una energia sempre fresca, rare ormai nella snervata nobiltà romana; appaltando e sorvegliando la costruzione dei granai in Roma e delle vie dell’Italia; facendo costruire queste con una magnificenza nuova e provvedendole per la prima volta di colonne miliari156; attendendo tutto il dì a mille faccende senza stancarsi, nella casa sua, divenuta il ritrovo degli appaltatori, degli artigiani poveri, dei letterati e sapienti di Roma157. Egli aveva incominciata quella politica di incoraggiamento degli interessi mercantili, che la democrazia romana avrebbe dovuto poi continuare per un secolo con crescente energia: ma, per una curiosa illusione, credeva di poter far servire questa politica a un fine opposto: a restaurare in parte almeno l’antica e più semplice società italica; onde rieletto tribuno l’anno seguente, splendidamente, Caio procede a proposte più ardite, nelle quali si mostrò tutta, alla fine, la potenza creante della sua mente. Roma cresceva troppo; troppi artigiani, mercanti, artisti, sapienti, avventurieri, mendicanti concorrevano, da ogni parte, in quella nuova e mostruosa metropoli del mondo; e ne nascevano infiniti guai, gravissimo tra tutti la difficoltà degli approvvigionamenti e la miseria del maggior numero, per il caro prezzo del pane e degli alloggi, mentre nelle altre regioni dell’Italia tante città si spopolavano158 e le campagne impoverivano intorno. La lex frumentaria non era rimedio senza pericolo, tanta spesa avrebbe dovuto sostenere l’erario, già dissestato dalla guerra di Spagna; bisognava sfollare Roma inducendo una parte dei numerosi finanzieri e mercanti romani, che da Roma trafficavano in tutti i paesi del Mediterraneo, a trasferirsi in altre città acconcie alla navigazione e al commercio; perchè molta gente minuta li avrebbe allora seguiti nelle nuove sedi. Caio gettò gli occhi su tre punti della costa mediterranea: a Squillace era già una dogana per le importazioni asiatiche; Taranto era stata lungamente famosa per commerci e ricchezza: quella parte dei mercanti che da Roma trafficavano specialmente con la Grecia, la Macedonia e l’Oriente non avrebbe potuto risiedere a Taranto o a Squillace, rinominate Nettunia e Minervia159, più comodamente che a Roma? Il commercio dell’Africa era passato ai mercati romani, dopo la distruzione di Cartagine; era perciò evidente che i mercanti romani, i quali commerciavano principalmente in Africa, avrebbero potuto risiedere con maggior comodo loro in Africa che in Roma. Molti infatti già si erano stabiliti a Cirta160. Non si poteva riedificare, dalle rovine della punica, una nuova Cartagine romana, che si chiamasse Giunonia? Egli propose di fondare a Squillace, a Taranto, a Cartagine tre colonie, non di poveri però, come in antico, ma di persone benestanti161, mercanti e capitalisti, a cui, per invogliarli a lasciar Roma, sarebbero state date vaste terre.

Anche queste proposte furono approvate, sebbene, a quanto sembra, con stento; perchè lo sfollamento di Roma nuoceva a molti. Ma Caio, sempre più infervorato nei suoi disegni, ne fu incitato a esprimere alla fine la idea suprema, lungamente meditata in silenzio: concedere, come già aveva proposto il suo amico M. Fulvio Flacco, la cittadinanza romana a tutti gli italiani162; far partecipare in misura maggiore ai benefici e alle responsabilità dell’impero la popolazione italica più numerosa e meno guasta, nella quale sopravviveva ancora la forte razza di contadini, contro cui si era infranto l’assalto di Annibale; rinforzare così la piccola oligarchia mercantile di Roma che, corrotta isterilita ammollita, rassomigliava a una esile colonna consunta dalle intemperie e dagli anni, sulla quale architetti improvvidi ingrandivano la mole già pesante di una fabbrica immensa. Tale era il vasto disegno di Caio Gracco: far di Roma il capo di una nazione italica vitale; posare l’impero non sopra la cupidigia e l’orgoglio di una corrotta oligarchia mercantile e municipale, ma sopra una larga e solida base di classi rurali; restaurare le antiche sedi della civiltà e del commercio distrutte o decadenti; ristabilire un più sano equilibrio vitale in Italia e nell’impero, distribuire meglio per varie terre la popolazione e la ricchezza che si raccoglievano in Roma, minacciando quasi una congestione di sangue a questo cervello dell’impero. Sei generazioni lavoreranno a compiere questo vasto disegno che Gaio Gracco aveva intravisto esser l’opera storica di Roma; ma che poi aveva creduto di poter compier da solo, nella breve ora della sua vita, con mezzi contradittori, rimpicciolendo, per una illusione frequente nella storia, l’opera di un popolo alla misura dell’opera singola di un uomo solo.

E difatti il destino di tante magnifiche idee non era maturo. La proposta della cittadinanza agli italici spiaceva a tutti, non meno che ai grandi al popolino; per vanità e per egoismo; perchè il popolino temeva scemerebbero i lucri delle elezioni e delle guerre, i giuochi e i sollazzi pubblici, se aumentasse il numero dei cittadini163; perchè è più facile togliere agli uomini un guadagno che un privilegio, anche formale, tanto essi adorano tutto ciò che li illuda di esser da più che gli altri. La fazione dei latifondisti colse l’occasione per volgere in odio, con abili intrighi, il favore di cui Caio aveva goduto; cosicchè alle elezioni del 121 Caio non fu più eletto, secondo alcuni; secondo altri ottenne una maggioranza così piccola, che fu facile ai suoi nemici, falsificando lo scrutinio, dichiararlo non eletto. Caio si ritirò a vita privata; sinchè un giorno, avendo i suoi nemici proposto di abolire la colonia di Cartagine, si indusse a parlar nei comizi.... Anche questa volta gli animi erano concitati dalle due parti; nacque un tumulto; i nemici di Caio corsero in Senato a domandare che si indicesse lo stato d’assedio, e ne spaventarono con false notizie anche la parte più onesta e temperata; poi subito, decretato lo stato d’assedio, il console Lucio Opimio, senza tener conto di alcuna legge, fece una strage dei partigiani di Gracco, nella quale anche Caio, il politico più profondo di Roma e il primo dei quattro grandi fondatori dell’impero, fu ucciso.

Ma tutti i mali, su cui il riformatore aveva adoperata la sua medicina, aggravarono rapidamente dopo la morte di lui, quasi che anche i farmaci si voltassero in veleno, in quella società travagliata. Avviene sempre così nella storia: il desiderio di ingrandire il proprio vivere nasce da prima in pochi; ma, se questi non sono sopraffatti dalle resistenze dell’antico ordine di cose che essi debbono in parte guastare per soddisfarsi, il numero di coloro che vogliono vivere al modo nuovo e la misura dei godimenti desiderati da ognuno, aumentano di anno in anno, di generazione in generazione sinchè è possibile accrescere la ricchezza, per il contagio dell’esempio, per la indefinita forza di espansione insita nelle passioni umane, per la necessità quasi direi meccanica degli eventi; perchè, a mano a mano che l’antica società perisce, un maggior numero di persone, non potendo vivere più al modo antico, è costretto a vivere al modo nuovo. Tutto allora si muta, secondo è necessario, affinchè l’universale desiderio di un vivere più pieno e più ricco sia soddisfatto. E così avvenne allora. Era parso che Caio riuscisse, solo perchè aveva lusingate le passioni e favoriti gli interessi mercantili; onde non solo il disegno di restaurare in parte o almeno di conservare gli ultimi avanzi dell’antica Italia rurale e guerresca fallì interamente; ma dopo la morte di Caio la decomposizione mercantile si allargò sempre più rapida nella parte ancor sana della vecchia Italia. Lo sfarzo nelle alte classi; l’odio al lavoro nelle basse; l’orgia, la dissolutezza, la ubriachezza in tutte le classi, e quindi il costo della vita, che già erano molto cresciuti dopo la distruzione di Cartagine e di Corinto, crebbero ancora, dopochè Roma fu entrata in possesso dell’eredità del re di Pergamo. L’anno stesso in cui Caio Gracco moriva, le vigne piantate nel decennio precedente maturarono una copiosa vendemmia, di cui molta parte fu portata a Roma, dove si aprirono cantine in ogni via164; crebbe immensamente la domanda di schiavi165, avendone bisogno i ricchi, il medio ceto rustico, i capitalisti per ostentar ricchezza, per risparmiar fatica, per tentar commerci; la immensa suppellettile del re di Pergamo, portata a Roma e messa all’incanto, fu disputata da una moltitudine di compratori accaniti, quale non si era ancor veduta in Roma; e le spoglie dell’ultimo e pazzo Attalide, disperse per le case di Roma e d’Italia, diffusero da per tutto il gusto della mobilia sontuosa, dei quadri, delle statue, delle suppellettili d’oro e d’argento166. Con i bisogni crebbero nell’aristocrazia romana ed italica i debiti, come sempre avviene quando da un largo e rapido accrescimento della ricchezza una plutocrazia sorge di fronte a una aristocrazia storica; quando il lusso aumenta, la vita rincara, il gusto dei piaceri si divulga; quando i parvenus milionari contendono con fortuna il primato alle antiche famiglie nobili; e il puntiglio, l’orgoglio gentilizio, la sensualità, il lusso spingono queste famiglie a spendere più che non possano. Tolte le poche famiglie, che arricchivano per l’abile avarizia di qualche membro167, come i Licini Crassi, i Pompei, i Metelli, nelle altre famiglie nobili i giovani crescevano crapuloni, viziosi, superbi, talora anche cupidi di sapere e di arte; sempre prodighi e dissipatori. Nel medio ceto invece con i bisogni non crebbero soltanto i debiti; ma e le ambizioni, la audacia, la tenacità degli sforzi. Caio aveva creato, con la legge sull’Asia, un nuovo e lucrosissimo affare per i ricchi capitalisti romani e i loro amici; molte compagnie si formarono a Roma per appaltare queste imposte, nelle quali abili finanzieri investirono capitali, incominciando dopo l’espansione militare e mercantile l’espansione finanziaria dell’imperialismo. I giovani, agitati da un precoce orgoglio ignoto alle età più antiche, non davano più retta ai vecchi; in tutte le famiglie del medio ceto (molte dovevano ancora esser grosse, sebbene sia probabile che la fecondità diminuisse di generazione in generazione), qualche figlio abbandonava presto la casa paterna, annoiato della povertà rustica; traeva alla città vicina o a Roma per vivere di mestieri o traffici; arruolatosi volontariamente o preso dalla leva girava il mondo, sperando e spiando la buona fortuna, che molti trovavano davvero in qualche lucro nuovo, stabilendosi come mercanti in una o nell’altra parte dell’impero. Con i bisogni e il lusso il consumo cresceva, e con il consumo, sebbene più lentamente che nei primi trenta anni del secolo, il commercio. L’espansione mercantile dell’imperialismo progredì; le colonie dei mercanti italiani crebbero nel Mediterraneo e una se ne formò intorno a questi tempi anche ad Alessandria168; in Asia incominciò una immigrazione spicciola di mercanti italiani, che accanto alle grandi compagnie dei pubblicani esercitarono l’usura piccola, commerciarono gli schiavi o le merci asiatiche di cui cresceva la richiesta in Italia; Delo fiorì, popolosa di ricchi mercanti italiani, greci, siriaci, ebrei. Sovente i padri stessi, scontenti della propria mediocrità per i loro figli, li mandarono, anche a costo di indebitarsi, a studiare nella vicina città, affinchè avendo imparato a ben parlare potessero esercitare l’avvocatura, che allora era una professione libera; segnalarsi, acquistar fama, procurarsi la protezione di persone ricche e potenti, che li aiutassero ad essere eletti alle magistrature169. Il medio ceto rustico, che aveva dissodato tanta parte della penisola e vinto Annibale, si consumava; in tutta Italia i piccoli poderi erano uniti in possedimenti più vasti da cupidi accumulatori di terre che sostituivano su quelli gli schiavi ai lavoranti liberi, ormai troppo infingardi, riottosi e avidi; mentre la popolazione libera delle campagne traeva alle città o usciva d’Italia. Certo, ai giovani senza capitali, senza parentele e amicizie, la conquista della ricchezza e della potenza era difficile, in una società in cui le tradizioni aristocratiche erano ancora così tenaci, e pochi privilegiati nascevano pretori, consoli, senatori di padre in figlio, per la forza di una reverenza tradizionale, per le clientele e le parentele consolidate da generazioni170; onde gli spostati e i malcontenti incominciarono a esser numerosi. Pure, in mezzo a questa aristocrazia in dissoluzione, che perdeva nei vizi i beni, la energia, le belle virtù degli antenati, incominciarono, dopo la morte di Gaio Gracco ad aver fortuna, come in ogni età di decomposizione sociale, gli imbroglioni, i violenti e i delinquenti d’ingegno; a farsi largo anche uomini oscuri, self-made-men, purchè fossero intelligenti, senza scrupoli, astuti o violenti. Il piccolo borghese intelligente, ambizioso, astuto, tenace, senza scrupoli, che serve una classe dirigente in dissoluzione e sa farsi ricompensare splendidamente i propri servigi, era già apparso, nella persona di Marco Emilio Scauro, figlio di un modesto mercante di carbone che, studiando, adulando, uccellando eredità, servendo la corrotta oligarchia, affettando abilmente austerità e virtù, aveva già saputo arrivare alle alte cariche, quando morì il Gracco, di cui era stato fierissimo avversario, e si preparava a concorrere al consolato, che ebbe infatti nel 115171. Un uomo all’antica, di intelligenza vivace, ignorante, di abitudini semplici ma violento, ambiziosissimo e di grande energia, era invece Caio Mario; un povero contadino d’Arpino, che aveva acquistata grande reputazione di valore all’assedio di Numanzia, e incominciava a farsi largo nella folla, buttandosi avanti con tanto impeto, orgoglio e sicurezza di sè, che, eletto tribuno della plebe nel 119, per la sola sua riputazione militare, senza aiuto di parentele, clientele e ricchezze, non aveva dubitato di offendere nobiltà e plebe, affrontando con indifferenza e quasi con disprezzo l’odio di tutti i partiti172. Ambedue però, non ostante il diverso temperamento, erano i campioni più fortunati di una borghesia italica che, scuotendo la secolare e docile soggezione alla nobiltà, incominciava a formarsi tra gli antichi medi ceti locali delle varie regioni d’Italia, ambiziosa di conquistare maggior dominio in Italia e nel mondo; una borghesia italica, che doveva essere il corpo della prima nazione italiana esistita nella storia; e che si faceva proprio come, dal 1848 ad oggi, si fece e si forma la borghesia italiana che è il corpo della nuova Italia: per la rovina delle antiche economie locali, per la mescolanza delle popolazioni regionali nella creazione di una nuova e più vasta economia nazionale, per la diffusione della stessa cultura in una parte considerevole delle alte e medie classi. I cittadini delle diverse città italiche si confondevano gli uni nelle città degli altri e tutti insieme per il mondo; i matrimoni, le amicizie, le società mercantili tra persone di diverse città divenivan frequenti; l’uso del latino come lingua comune si divulgava; uomini di tutte le parti d’Italia contraevano abitudini e vizi simiglianti, studiavano la stessa filosofia greca, la stessa retorica ed eloquenza latina....

Ma intanto così gli sforzi della nobiltà in decomposizione per non decadere, come gli sforzi della nuova borghesia che tentava salire, accelerarono la rovina dell’antica società; e nel disordine di questa confusa decomposizione e ricomposizione sociale tutti gli egoismi personali di famiglia di clientela di partito e di classe proruppero sull’Italia con una violenza terribile. La politica di conquista dovè esser sospesa; perchè i soldati e i denari per combattere grosse guerre mancarono il reclutamento divenne sempre più difficile, le finanze dello Stato furono ben presto dissestate, non ostante i nuovi redditi della provincia d’Asia, dalla spesa per le frumentazioni173, e forse da quella per il vestiario militare, decretata da Caio Gracco. Tra il 125 e il 121 a. C., per finir le razzie dei barbari Galli nel territorio dell’alleata Marsiglia e per rendere sicure le vie tra l’Italia e la Spagna, si era ancor conquistata e ridotta a provincia la Gallia Narbonese, le regioni cioè della Francia, poste tra le Alpi e il Rodano; nel 121 un Metello aveva conquistate le Baleari: ma dopo non si guerreggiaron più che guerricciole contro le tribù barbare dei confini o dei paesi già conquistati. Venuti meno così a tutta l’Italia, proprio quando i bisogni della nobiltà e del medio ceto crescevano, i lucri delle guerre, l’Italia torse ben presto in sè stessa le proprie brame. La morte di Caio aveva tolto ogni credito alla dottrina del suo partito: che il demanio pubblico dovesse essere usato dallo Stato a sollievo dei poveri e ad aiuto del medio ceto; mentre il partito dei grandi latifondisti fu pronto a valersi della potenza riacquistata alla morte di Caio per far approvare dal Senato, l’anno stesso in cui Caio fu ucciso, che le terre assegnate dai triumviri potessero vendersi174; e dai comizi, due anni dopo, nel 119, che le leggi agrarie dei Gracchi fossero abolite, aggiungendo però, a modo di compenso, che le somme ricavate dall’affitto delle terre pubbliche fossero distribuite al popolo175. Ma ben presto un’audacia maggiore fu tentata. La revisione degli affitti, ordinata dai Gracchi, aveva danneggiato e spaventato molti, che avevano incominciato a far spese, sulle terre pubbliche, per coltivarle, e che desideravano maggior sicurezza; molti proprietari, tormentati dai debiti e dal crescente costo della vita avrebbero gradito assai qualche improvviso guadagno insolito; molti dei coloni dedotti dai Gracchi, annoiati della semplice vita rustica, desideravano di poter vender bene le terre assegnate loro dai triumviri, che molti accumulatori e speculatori di terre avrebbero volentieri comprate. Tanti desideri diversi furono soddisfatti da una legge, abilmente compilata nel 111 da Spurio Torio, tribuno della plebe176. Con questa legge si dichiaravano proprietà privata, tali cioè che dovevano essere inscritte nel censo, e potevano essere vendute, donate, ereditate, tutte le terre publiche di cui i triumviri avevano giudicato il possesso legittimo, sino quindi alla misura di 500 iugeri per il capo della famiglia e di altri 500 per i figli177; le terre pubbliche date in compenso di altre tolte durante la revisione178, le terre distribuite in qualsiasi modo in seguito alle leggi dei Gracchi179; le terre publiche che fossero state occupate dopo le leggi dei Gracchi, sino a 30 iugeri, purchè fossero state messe a coltivazione180. Si aboliva inoltre la giurisdizione dei triumviri nelle quistioni di terre pubbliche, così molesta alla nobiltà latifondista, per attribuirla a magistrati, come i consoli, i pretori, i censori, che ancora, per tradizione, erano scelti quasi sempre tra i nobili latifondisti; e si estendeva il beneficio della legge così ai cittadini romani, come ai latini e agli alleati181. La legge, sebbene intesa a favorire i grandi proprietari, conteneva eque disposizioni gradite anche al ceto medio, e perciò fu approvata: le terre pubbliche convertite in proprietà privata dovettero aumentare subito di valore; i proprietari indebitati poteron vendere i campi, di cui prima non godevano che i frutti; coloro che avevano incominciato a investire capitali sulla terra si sentirono rassicurati; e il commercio delle terre fu stimolato. Ma intanto lo Stato, già impoverito, perdeva gli affitti del suo vasto demanio; e gli uomini illuminati ed onesti, nei quali vigilava la inquieta saggezza del passato, non potevano non lamentare che la brutale cupidigia di pochi avesse spogliato Roma di così gran parte di quel patrimonio pubblico, che le era stato di tanto aiuto nelle tempestose vicende dei secoli passati. Certo la legge doveva sembrare ai contemporanei ed era, nelle intenzioni degli autori, un assalto al patrimonio pubblico di bramosie private, cieche per la fretta di soddisfarsi; ma le conseguenze dovevano esserne immense e benefiche: perchè per essa furon distrutti in Italia gli ultimi avanzi dell’antico comunismo agrario e quasi tutto il suolo d’Italia divenne proprietà privata, per una rivoluzione economica simigliante a quella avvenuta nel secolo scorso in Europa, quando si vendettero ai privati le terre di mano morta. Altra prova che le opere dei personaggi storici debbono esser giudicate più secondo le intenzioni e i motivi, che non secondo gli effetti, non previsti spesso nemmeno dai loro autori.

Ma se l’aristocrazia in dissoluzione e la borghesia in formazione dilapidavano insieme, in Italia, il demanio secolare di Roma, l’aristocrazia dilapidava fuori, per la medesima fretta di cupidigie brutali, un patrimonio ancor più prezioso: il prestigio di Roma nel mondo. Nessuna classe smarrisce più interamente il senso del bene e del male che un’aristocrazia storica indebitata, bisognosa, invidiosa di una plutocrazia di milionari recenti, ansiosa di conservare il primato, il lusso, la facilità dei godimenti che vengono meno con la povertà. Roma aveva veduti molti scandali aristocratici: sapeva di giudici venderecci, di governatori concussionari, di senatori ladri di terre pubbliche; sapeva di Lucio Cornelio Silla, ultimo discendente di una nobilissima famiglia decaduta che, intelligente e amante degli studi, sciupava il tempo tra mimi, buffoni, cantanti, ballerini, e che aveva rifatta la fortuna della famiglia, con l’eredità di una meretrice greca, arricchita a Roma e innamoratasi già vecchia di lui182. Ma poichè il rispetto verso una aristocrazia lungamente celebre e dominatrice, come l’ammirazione di uno Stato potente per secoli, durano ancor molto tempo tra gli uomini ignari, dopochè la decadenza è cominciata; Roma si illudeva ancora sulla sua nobiltà e ignorava, come forse si illude e ignora adesso una nazione la cui aristocrazia volge a una simigliante rovina, l’Inghilterra, quanto progresso avessero fatto tra i nobili, negli ultimi venti anni e nella generazione coetanea dei Gracchi, sotto il silenzio delle abili dissimulazioni proprie e delle pietose indulgenze altrui, il morbo febrile delle voluttà e delle cupidigie insaziabili, la venalità, l’affarismo, il cinismo. Lo scandalo d’Africa, incominciato nel 112, doveva rilevare a un tratto a Roma questo spaventevole orrore. Micipsa, re di Numidia, morendo nel 118, aveva lasciato un astuto e ambizioso figlio spurio, di nome Giugurta, reggente e tutore dei due figli legittimi; ma ben presto Giugurta, per regnare solo, ne aveva ucciso uno e si era messo in guerra con l’altro, suscitando torbidi, nei quali il governo romano dovè intervenire. Ma allora si vide lo Stato che sulla terra d’Africa aveva distrutto Annibale e incenerito Cartagine, improvvisamente invecchiato a segno da non potere aver ragione di un capo di barbare tribù nomadi; perchè costui comprava i commissari mandati a inquisire nei suoi maneggi, i senatori incaricati di giudicarlo, i generali spediti a combatterlo; sinchè a gran fatica si trovò un solo nobile, un Metello, che lo combattesse davvero, invece di scroccargli denaro. Questo immane scandalo aristocratico fece divampare ad un tratto le passioni democratiche che sordamente covavano da trenta anni nel medio ceto, nel popolino, tra i ricchi finanzieri, nei quali il rispetto alla nobiltà già veniva meno per lo spirito inquieto dei tempi, per l’ingrandirsi delle nuove ambizioni, per il diffondersi della filosofia greca e specialmente dello stoicismo che insegnava tutti gli uomini essere eguali; un prodigio accadde: per la prima volta un contadino, Caio Mario, fu eletto console. Mario, che frattanto era stato pretore e propretore in Spagna, e si era arricchito e imparentato con la famiglia patrizia, ma un poco oscurata, dei Giulii, sposando la sorella di un Caio Giulio Cesare, nobile ma poco illustre183, serviva allora come legatus nell’esercito di Metello in Africa; e, fatto ardito dallo stato dello spirito publico in Italia, domandò al generalissimo licenza di andare a Roma a proporsi come console, per l’anno 107. Metello, che era un bravo uomo, ma non senza pregiudizi aristocratici, stupì di tanta ambizione in un uomo nato contadino; cercò scoraggirlo e impedirgli di partire; Mario si offese; protetto e protettore vennero in discordia e la fortuna di Mario fu fatta. Quando a Roma si seppe che l’aristocratico Metello non voleva che Mario fosse console perchè era nato in un tugurio, Mario divenne l’idolo degli artigiani, dei contadini, del medio ceto, dei finanzieri d’origine plebea, il cui successo doveva significare scorno dei grandi184; Mario fu eletto; e vendicativo come tutti gli ambiziosi volle il comando di Metello. Ma prima di partire per l’Africa, fece come console una grande innovazione nelle leve; reclutando anche i poveri non iscritti in nessuna delle cinque classi possidenti, che secondo la vecchia costituzione non avevano il diritto di militare185. Gli iscritti nelle cinque classi, quasi tutti mercanti, appaltatori, ricchi possidenti erano ormai così poco atti e vogliosi di militare; l’urgenza di ricostituire un esercito valido, che angustiava tutti gli spiriti superiori da trenta anni, e aveva mosso i Gracchi alla riforma, era cresciuta siffattamente, che Mario non potè più come gli altri rimandare le misure radicali di riforma; ma provvide alla fine, usando un procedimento più ardito, speditivo e rivoluzionario che i Gracchi; perchè invece di affaticarsi con riforme stentate a rinvigorire il medio ceto rustico che era l’antico seminario dei soldati, cercò soldati in una classe nuova, nella infima e povera plebe delle città e della campagna, senza probabilmente supporre quanti altri mutamenti gli ordini militari di Roma avrebbero dovuto ricevere in seguito a questo primo186.

Alla fine Giugurta fu vinto da Mario, con l’aiuto di Bocco re di Mauritania e del suo questore Silla, il quale mostrò nella guerra un vigore fisico, una energia di comando, una sicurezza di giudizio e un’abilità diplomatica, che nessuno avrebbe supposta in un giovane così dissoluto. Giugurta fu condotto in catene a Roma; il suo regno in parte aggiunto alla provincia di Africa, in parte dato a Bocco, in parte a un fratello di Giugurta. Ma la vittoria aveva costato sette anni di maneggi e di guerra: troppo, per così grande impero alle prese con così piccolo re. Eppure l’Italia si consumava siffattamente nel travaglio della interna decomposizione e ricomposizione sociale, che di lì a poco parve essere addirittura sopraffatta da due nuovi e imprevisti pericoli. Dagli antichi Stati del re di Pergamo Roma signoreggiava anche nell’interno dell’Asia minore, con un vasto sistema di clientela, avendo facilmente ridotte a clienti le repubbliche di Rodi, Cizico ed Eraclea, la confederazione delle repubbliche della Licia e degli Stati galati187. Ma al di là di questi Stati si stendeva, bagnato dalle acque del mar Nero, il vasto regno del Ponto, formatosi al principio del terzo secolo avanti C. durante la decomposizione dell’Impero di Alessandro, e tra popolazioni diverse per lingua, costumi e razza, sotto la dinastia dei Mitridate: una nobile famiglia persiana ellenizzata. In questo Stato, sino allora quasi ignoto ai Romani, era salito al trono, nel 111, un giovane sovrano, ambizioso e intelligente, il cui nome era Mitridate Eupatore; e che, aiutato da un abile greco di Sinope, Diofante, aveva saputo in pochi anni farsi ammirare in Oriente come l’eroe dell’ellenismo alle prese con i barbari, dopochè aveva salvate le colonie greche del mar Nero dalla dominazione degli Sciti, e conquistata la Crimea: poi incoraggiato da questo primo successo aveva cercato di ridurre in suo potere tutto il bacino orientale del mar Nero; di allargare all’interno il vecchio regno del Ponto sino all’Eufrate; di avviare relazioni con le barbare popolazioni dei Sarmati e dei Bastarni, vaganti tra il Danubio e lo Dnieper, con le tribù galliche restate nella valle del Danubio, con i Traci e gli Illiri188. I re Sciti scacciati di Crimea erano corsi a Roma a domandar aiuto; e a Roma già si cominciava a volgere l’attenzione al giovane re189: ma in quella ecco una nuova e terribile calamità opprimere l’Italia. L’anno 105 il proconsole Quinto Servilio Cepione e il console Gneo Manlio Massimo, ambedue aristocratici, erano mandati a ributtare una invasione di Cimbri e di Teutoni, che minacciava l’Italia; ma nemici tra loro e intesi solo a far bottino, non diedero tregua agli odi privati nemmeno in presenza del nemico, e furono ambedue disfatti. Ancora una volta la nobiltà storica di Roma dimostrava di non essere più buona a nulla. Allora Mitridate, che da un pezzo aveva preparata una alleanza con il re di Bitinia, e a cui i successi accrescevan baldanza, invase e divise con l’alleato, a quanto sembra nella primavera del 104, la Paflagonia, scacciandone i dinasti che corsero a Roma a domandar aiuto, come clienti della repubblica; seguiti da ambasciatori di Mitridate muniti di fortissime somme, e mandati a rinnovare la strategia di Giugurta190. Ma a Roma, quando gli ambasciatori di Mitridate vi giunsero, il partito popolare, fatto potentissimo dal favore pubblico per il disgusto degli scandali africani, per il successo dell’eroe popolare nella guerra contro Giugurta, per la disfatta dei generali aristocratici nella guerra cimbrica, incalzava con accuse, con minaccie, con affronti la nobiltà storica di Roma; e già l’aveva costretta a subire dopo tre anni la rielezione a console di Mario, il solo che secondo la voce pubblica avrebbe saputo vincere i Cimbri. Gli ambasciatori di Mitridate, venuti a profonder l’oro tra i grandi di Roma, furono minacciati da dimostrazioni popolari, eccitate da un focoso demagogo, Lucio Appuleio Saturnino, allora tribuno della plebe191; e il Senato dovè, per salvare le apparenze, mandare una missione in Oriente, incaricare il pretore Antonio di ordinare la provincia di Cilicia; ma corrotto dall’oro pontico, lasciò che Mitridate e Nicomede non solo non sgombrassero la Paflagonia, ma occupassero anche la Galazia192. Per fortuna gli eventi volgevano più prosperi al nord, per merito dell’eroe popolano. I Cimbri e i Teutoni, dopo la sconfitta dei due consoli, non invasero subito l’Italia, ma si rovesciarono sulla Gallia non romana e sulla Spagna; onde Mario ebbe tempo di perfezionare le sue riforme militari: abolì l’ordine manipolare e con l’ordine manipolare la distinzione tra legioni di cittadini romani e coorti di alleati; ordinò le legioni allo stesso modo dei contingenti italici, per coorti, che più compatte, pesanti e uniformi dei manipoli, potevano comporsi di soldati meno eccellenti, come quelli che si reclutavano nella feccia delle città; perfezionò le armi, il pilum e il bagaglio; esercitò energicamente la nuova milizia. Mentre egli preparava così la rivincita, il partito popolare procedeva a Roma di trionfo in trionfo; faceva eleggere in odio alla nobiltà di anno in anno Mario a console, non ostante le leggi; in odio alla nobiltà faceva approvare inasprimenti delle procedure contro i governatori ladri; e la elezione popolare dei collegi sacerdotali che sino allora si erano rinnovati per scelta tra poche famiglie nobili. Tutti gli ambiziosi corteggiavano questo partito; i ricchi finanzieri lo favorivano; perfino i conservatori illuminati ritornavano a considerare con benevolenza il suo programma di riforme sociali e politiche; anzi le leggi agrarie, sempre riproposte e non mai portate a compimento, erano quasi di moda193; e molti riprendevano a sperare salute per l’afflitta nazione da questo partito, erede delle tradizioni dei Gracchi, mentre, quasi a confermare la speranza, il suo eroe sgominava i barbari due volte; a Aix (102) e ai Campi Raudi (presso Vercelli? 101) sgombrando alla fine l’impero da queste orde e tornando a Roma, salutato come terzo fondatore di Roma, dopo Romolo e Camillo: supremo orgoglio per il contadino, nato in un tugurio dell’Arpinate.

IV.
MARIO
E LA GRANDE INSURREZIONE PROLETARIA DEL MONDO ANTICO.

Proprio allora, un secolo prima di Cristo, sebbene i tempi migliorassero in qualche piccola cosa, l’Italia pareva precipitare, con velocità accelerata, verso la catastrofe immane, paventata da tanto tempo. La diffusione della filosofia greca, i progressi dell’istruzione, della ricchezza, della civiltà facevano sentire più vivamente la durezza di tanti rigori formali dell’antico diritto e l’orrore di certe superstizioni barbare che infliggevano sofferenze senza giovare a nessuno; l’abolizione dei sacrifici umani, di cui qualche avanzo restava ancora in Italia, stava per essere decretata194; il diritto progrediva, per opera dei pretori che riconoscevano in misura sempre maggiore le ragioni della equità nei loro editti, per effetto di leggi riformatrici, quale la lex Aebutia, che intorno a questi tempi aveva abolito la vecchia procedura, rigida e pedantesca, delle legis actiones; e introdotta invece la procedura formulare, più flessuosa, più razionale, più acconcia alla nuova età mercantile, in cui i litigi erano tanto più numerosi e arruffati195. Ma nella gara furibonda per la conquista della ricchezza, della cultura, del piacere, del potere gli animi inferocivano, le classi e lo Stato si dissolvevano. Nelle alte classi la coltura letteraria e il lusso artistico, nel medio ceto la pigrizia, i vizi, la cupidigia dei subiti guadagni, l’ambizione di passare nelle classi superiori si diffondevano ormai sfrenatamente, come una epidemia vittoriosa nei giorni del più largo e veloce contagio. I nobili e i ricchi incominciarono a costruire in Roma eleganti palazzi, usando invece del travertino paesano marmi forestieri più fini, come l’imettio196; molti signori si dilettarono di scriver libri, storie, trattati, poesie in greco o in latino; nel fôro parlavano ormai oratori, come Antonio e Licinio Crasso, che erano divenuti, studiando i modelli greci197, maestri di una eloquenza artistica; la conoscenza e il gusto dell’arte attica e asiatica si divulgavano; scultori e pittori greci, tra i quali acquistò gran nome una donna, Iaia di Cizico198, lavorarono numerosi per i grandi di Roma: ma questi lussi, le etère orientali, lo sfoggio degli schiavi e dei metalli preziosi, i bagordi rovinavano quasi tutta la nobiltà storica di Roma, riducendola a vivere di ripieghi, di debiti, di concussioni, di rapine199; a cercare le amicizie e i matrimoni con gli oscuri ma ricchissimi appaltatori e finanzieri. Molti agricoltori leggevano gli scritti degli agronomi greci o il compendio della georgica greca fatto dal cartaginese Magone, che era stato tradotto per ordine del Senato; si facevano prestare un capitaletto, piantavano uliveti e vigneti, s’ingegnavano di coltivar meglio; ma l’inesperienza, la mancanza di vie, l’imperfetto ordinamento del commercio, le forti usure mandavano spesso a vuoto queste prove e rovinavano chi le aveva tentate200. Ogni anno si aprivano a Roma, nelle città latine, nelle città alleate, nuove scuole di rettorica, a cui traevano torme di scolari ogni anno più numerose e nelle quali si preparavano una lingua, uno stile e una eloquenza nazionali201; il latino acquistava terreno, come lingua parlata e scritta, sul sabellico e sull’osco202; l’emigrazione italiana nelle provincie aumentava: ma troppi giovani avvocati non trovavano poi nè protettori per salire, nè clienti da difendere; troppi si davano al commercio, e se alcuni arricchivano a Delo, in Asia, in Egitto, molti fallivano. La legge di Spurio Torio, che convertendo tanta parte del demanio pubblico in proprietà privata le aveva incitate allo spendere, impoveriva definitivamente, dopo un sollievo passeggero, le classi possedenti la terra, accelerando la rivoluzione agraria e sociale, che travagliava e rinnovava l’Italia; gli spostati, i disperati, i mercanti falliti, i possidenti scacciati infestavano in numero sempre maggiore l’Italia; in ogni regione la piccola proprietà spariva, la terra passava in possesso di pochi, l’usura prosperava. Sola arricchiva, in mezzo alla rovina universale, una piccola oligarchia di capitalisti grandi e piccini; composta di qualche nobile romano, di molti liberti, di possidenti arricchitisi con gli affari203, di avanzi delle antiche nobiltà locali dell’Italia, tra i quali era perfino il discendente di una famiglia reale dell’Etruria, Caio Cilnio Mecenate, che, smessi gli orgogli della sua regale prosapia, s’era dato a far l’appaltatore e il finanziere a Roma204. Questa plutocrazia si arricchiva, depredando senza misericordia l’Italia e l’Asia, dove l’aumento delle imposte decretato da Caio, e i soprusi dei finanzieri appaltatori delle gabelle impoverivano e indebitavano il medio ceto e il popolo; onde al lucro dell’appalto delle imposte si aggiungeva per i capitalisti italiani il lucro delle usure sempre più facili e del commercio degli uomini, che essi facevano rubare nei paesi vicini e vendevano in Italia.

Intanto le finanze pubbliche erano rovinate e l’esercito disfatto; la flotta che aveva vinto Cartagine marciva nei porti dell’Italia; Roma non riusciva a domare le nuove e sanguinose rivolte di schiavi scoppiate in Sicilia e in Campania; Mitridate, sempre vigile, aveva approfittato della guerra cimbrica, per rompere l’alleanza con il re di Bitinia, e impadronirsi da solo della Cappadocia, facendone re un suo giovane figlio, sotto la tutela di un suo ministro; a Roma e in Italia, non avevan tregua gli odi e le discordie tra le classi, tra le famiglie, tra i singoli. La rivalità tra i ricchi finanzieri e la nobiltà storica si inveleniva; perchè quelli, pur lasciando alla nobiltà le magistrature per darsi agli affari, divenivano sempre più prepotenti e superbi per la forza del denaro, delle clientele, del diritto di giudicare i senatori; si consideravano pari o superiori alla nobiltà storica impoverita205; e avevano probabilmente contribuito non poco ai successi del partito popolare negli ultimi anni e alle rielezioni trionfali di Mario che salvava l’Italia; mentre una parte della nobiltà storica, disgustata dalla corruzione e dal disordine universale di cui il denaro era il fattore visibile e tangibile, furiosa per la sua povertà e per l’insolenza dei parvenus, sprezzava questi come predoni e furfanti, che mercanteggiavano ogni cosa, anche la giustizia; rammaricava i tempi onesti in cui la nobiltà sola era potente; chiedeva leggi severe contro gli abusi del capitalismo; serbava rancore a quei nobili che, come Caio Giulio Cesare, per speranza di lucro e di potenza, trattavano come pari i villani rifatti della politica e della finanza, ne cercavano le amicizie e le parentele206; o abbandonavano il rango, per darsi agli appalti e agli affari207. Il partito popolare da dieci anni incalzava con accuse e leggi di persecuzione la nobiltà, trovando largo seguito nei malcontenti di tutte le classi; ma degenerato anch’esso dalla grandezza ideale dei tempi dei Gracchi, non possedeva il segreto di nessun farmaco che guarisse i mali comuni; rinnovava sempre la proposta di leggi agrarie simiglianti a quelle dei Gracchi, ma per consuetudine, senza tentarne mai con vigore l’attuazione, che del resto sarebbe stato vano tentare, perchè gli uomini non volevano terre da coltivare con le proprie braccia ma rendite non laboriose; e condotto da Saturnino e Glaucia, uomini eccitabili e imprudenti, come spesso sono i capi dei partiti popolari di opposizione, si esaltava ripetendo le accuse e le invettive, mentre il pubblico incominciava a stancarsi e a disgustarsi di queste persecuzioni feroci, senza misericordia e misura208. Gli avventurieri famelici, gli ambiziosi violenti o pazzi, i furfanti astuti invadevano le magistrature e lo Stato, scacciandone gli uomini onesti, dabbene, ragionevoli, che sapevano vivere con quello che possedevano, senza rubare o far debiti; ai quali non restava altro conforto se non lamentare che la giustizia fosse ormai solo uno strumento di sopraffazioni e vendette, maneggiato dalle clientele e dai partiti, la politica e la vita sociale uno spaventoso aggrovigliamento di processi, intrighi, calunnie; che la violenza, la frode, la corruzione elettorale dilagassero; che ormai a Roma, come un tempo a Cartagine, il denaro fosse il desiderio supremo della vita e la suprema misura del valore personale209; che nel 105 i giuochi dei gladiatori, fino allora ornamento privato dei funerali, fossero ammessi tra gli spettacoli ufficiali, dati a spese dei magistrati; che tanti abbandonassero il modesto ma sicuro stato di agricoltori, per tentar la incerta fortuna degli affari; che tanti modesti possidenti si rovinassero, per far studiare i loro figli, i quali poi, orgogliosi per il loro sapere, volevano acquistare a Roma in pochi anni, chiacchierando nel foro, potenza e ricchezza. Specialmente nelle alte classi era opinione comune che la diffusione della coltura nel medio ceto fosse un male, perchè faceva degli insubordinati, degli spostati210 e dei birbanti. “Chi studia il greco diventa un birbone”211: così dicevano molti, spaventati dalla terribile depravazione di cui è cagione la cultura, nei trapassi di civiltà, quando essa fomenta i desideri e gli orgogli, e non dà poi a molti che le tribolazioni e le umiliazioni della povertà. Tra i pirati, infatti, che insidiavano ormai tutto il Mediterraneo dando la caccia agli uomini per vendere i prigionieri sul mercato di Delo o in Italia, dove al crescente consumo non bastavano più gli scarsi prigionieri delle poche guerre e il commercio con i barbari212, erano numerosi gli spostati dell’Italia; e più di un antico studente, venduti i manoscritti di Omero e Platone, era montato su una nave corsara. Peggio ancora secondo i conservatori, l’idea della cittadinanza italica faceva rapidi progressi, specialmente nel medio ceto impoverito dell’Italia che si illudeva di potere, acquistando la cittadinanza, recar sollievo al proprio disagio; tra i giovani che avevano studiato eloquenza e che eran malcontenti di dover difender piccole cause e concorrere alle umili magistrature municipali nella loro cittaduzza; tra tutti coloro (ed eran molti), i quali desideravano godere i privilegi del cittadino romano, da quello di non poter essere condannati a morte a quello di partecipare ai lucri dell’elettorato e delle magistrature. Le nobiltà locali, che avevano per tanti secoli mantenuto in docile soggezione il medio ceto rustico dell’Italia, erano sparite; i pochi usurai e appaltatori arricchiti che avevano preso il loro posto erano troppo odiati, e non avevano autorità; onde il medio ceto, abbandonato a sè stesso, e tormentato dai debiti, era agitato da spiriti di rivolta ogni anno più intensi. La babelica confusione delle idee, che prorompeva in tutta Italia dal disordine di tanti interessi, ambizioni e propositi discordi, era infine ancora accresciuta dalle innumeri e contradditorie dottrine morali e politiche dei filosofi greci, ormai note e discusse; cosicchè ogni persona colta la pensava a modo suo sui mali del tempo; e le teorie annebbiavano quella poca chiarezza di idee e di propositi che ancor restava; e le discussioni sui guai di Roma erano infinite, ma le opere non seguivano; e dallo snervamento agitato di questa inerzia molti cercavano di scuotersi con un disperato rimpianto dei bei tempi passati, e con la consueta invocazione fanciullesca al genio salvatore. Un uomo, Caio Gracco (si dava la colpa di tutto proprio al più gran politico di Roma!) era stato, secondo gli uomini savi, la cagione di tutti i mali presenti: egli aveva rovinato l’erario con le frumentazioni; fatta onnipotente la plutocrazia e il denaro con la legge giudiziaria; scatenata la demagogia; disfatto definitivamente l’esercito, e abbandonate con la legge asiatica, le provincie al saccheggio dei finanzieri213. Un altro uomo salverebbe l’Italia.

Mario si illuse di poter essere egli il salvatore. Mario non aveva, sino allora, parteggiato per nessun partito, perchè era troppo orgoglioso, imperioso e solitario; perchè dopo la prima elezione a console, aveva dovuto solo accettare, anzichè ricercare i suffragi dei popolari214. Ma i grandi guerrieri e i grandi letterati si persuadono facilmente di poter governare gli uomini; perchè sapendo muovere gli spiriti di altri uomini ad atti e a sentimenti semplici, si inorgogliscono a segno da dimenticare che l’anima di un esercito in guerra e l’anima di un pubblico avido di sapere e di godimenti estetici sono piccole e semplici, in confronto all’anima immensa di una società in cui cozzano, si torcono e tentano di esplodere i più violenti antagonismi di classe. Mario infatti, esaltato dai trionfi cimbrici a nuove ambizioni, volle un sesto consolato; ma per averlo, ora che con la guerra era finita anche la sollecita spontaneità dei suffragi di tanti cittadini paurosi dei Cimbri, dovè questa volta, facendo violenza alla sua natura, legarsi con un partito; non coll’aristocratico a oltranza, che non gli perdonava di essere stato per quattro anni l’eroe popolare; non con il partito dei conservatori illuminati, i quali nelle grandi crisi storiche non contano mai nulla perchè hanno troppa paura; ma con il partito democratico, il solo che lo accogliesse. Mario, Saturnino, Glaucia fecero lega; Mario fu eletto console, Saturnino tribuno della plebe, Glaucia pretore; e insieme inaugurarono il governo popolare dell’anno 100: nel quale i due demagoghi ben presto ridussero a loro strumento il vincitore dei Cimbri215. Saturnino propose una legge agraria, che pare disponesse di assegnare ai romani e agli italiani poveri le terre della Gallia Transpadana devastate dai Cimbri; una legge frumentaria che riduceva il prezzo del grano venduto dal governo in Roma; una legge coloniale che, riprendendo un’idea di Caio Gracco, proponeva di fondare, con i veterani di Mario, colonie in Grecia, in Macedonia, in Sicilia, in Africa216. Proposte non prive di saggezza; ma che non poterono essere discusse pacatamente per la lunga esasperazione degli animi: i conservatori e i popolari trascesero ben presto a violenze; esaltati dalle quali Saturnino e Glaucia fecero approvare le leggi chiamando in Roma bande di contadini armati; non solo, ma alle elezioni per il consolato del 99 Saturnino pare facesse uccidere Caio Memmio, persona dabbene e stimata, che si proponeva contro Glaucia, prorompendo ad aperta rivolta. Era troppo. Il pubblico, specialmente i ricchi capitalisti217, che avevano aiutato sino allora il partito popolare, si spaventarono; il Senato decretò lo stato d’assedio e gli uomini più insigni presero le armi: Mario che, tentennante in mezzo a questa bufera tra gli istinti così poco faziosi del suo spirito e le senili ambizioni politiche, si mostrava irrisoluto, malfermo, incoerente, dovè mettersi alla testa dei senatori e dei cavalieri per reprimere la rivolta; ma agì con tanta esitazione e debolezza che il partito conservatore lo giudicò complice, in cuor suo, dei ribelli, mentre i democratici ardenti lo giudicarono traditore, perchè alla fine la rivolta fu pure domata da lui; Saturnino e Glaucia uccisi da bande di nobili e di capitalisti al suo comando218.

Lo spavento della rivoluzione, che è l’arma del partito conservatore, come gli scandali sono quella del partito popolare, fece cadere il partito popolare e le sue idee in disgrazia del pubblico impaurito, disgustato e svogliato, specialmente dei ricchi e potenti finanzieri; il partito conservatore ritornò al potere, mentre i conservatori illuminati ed onesti continuavano, come sempre, a dare timidamente a tutti buoni consigli non seguiti da nessuno, e Mario, venuto in sospetto a tutti un anno dopo il trionfo cimbrico, partiva per un lungo viaggio in Oriente. Il partito conservatore tentò, per acquistare il favore pubblico, di rinvigorire la politica estera; e se saggiamente fece rifiutare dal Senato la Cirenaica, che Tolomeo Apione aveva legata nel 96 morendo al popolo romano, non volendo assumere, tra tanti guai, la pacificazione di un paese semibarbaro e pieno di disordine; volle però definitivamente comporre le cose in Oriente, ordinando nel 95, questa volta sul serio, a Mitridate e a Nicomede di restituire il mal tolto. La Galazia fu ridata ai tetrarchi, la Paflagonia dichiarata libera, la Cappadocia posta sotto il governo di un nobile persiano, fatto re, Ariobarzane219; e quando Mitridate, di lì a due anni, fatta una alleanza con Tigrane re di Armenia, invase di nuovo la Cappadocia scacciando Ariobarzane, il partito aristocratico di nuovo operò con energia, mandando il propretore Lucio Cornelio Silla, con un piccolo esercito, a rimetter sul trono Ariobarzane220. Ma questi successi non bastavano a tranquillare l’Italia, ove la miseria cresceva e l’idea della cittadinanza agitava sempre più gli Italiani; ove il partito popolare si arrovellava per riacquistare il potere perduto, e Mario era tornato dall’Oriente, non rassegnato a diventare vivo ancora un personaggio storico; ove l’odio tra la nobiltà storica e i finanzieri, conciliati per un momento dallo spavento della rivoluzione di Saturnino, si addensava, sinchè la condanna di Publio Rutilio Rufo, nel 93, lo fece prorompere. Era costui uno dei pochissimi uomini politici del tempo assolutamente onesti; un nobile e un conservatore senza macchia e senza paura, aperto nemico così dei demagoghi come dei capitalisti, ammiratore intransigente del buon tempo antico; il quale, governando come legatus pro pretore l’Asia, aveva energicamente repressi gli abusi dei finanzieri italiani. Ma costoro al suo ritorno a Roma lo fecero accusare di malversazioni da un miserabile e condannare dai loro amici sedenti nel tribunale. Rufo prese la via dell’esilio; ma a Roma, esasperata da questa mostruosa ingiustizia, che sconvolgeva gli ultimi avanzi dell’ordine morale, la parte migliore della nobiltà sentì che bisognava scuotersi, agire, combattere; e alla fine un nobile, di grande ambizione e ardimento, Livio Druso, eletto tribuno per il 91, immaginò di ripetere contro i finanzieri la politica di Caio Gracco contro i latifondisti; stringere cioè in alleanza una parte della nobiltà e il partito popolare, proponendo, con altre che dovevano acquistargli il favore del popolo, due leggi capitali: una che toglieva ai cavalieri la potestà giudiziaria, l’altra che concedeva la cittadinanza agli Italici. Nella nobiltà una parte considerevole era avversa al disegno di concedere la cittadinanza agli Italici per spirito di tradizione e per il ragionevole timore che il disordine demagogico sarebbe ancora cresciuto in seguito a questo aumento dell’elettorato povero e ignorante221; una parte era invece favorevole, considerando la riforma come inevitabile e giusta, non ostante i suoi pericoli222. Invece i finanzieri e gli Italiani molto ricchi erano ferocemente avversi, certo perchè temevano che la riforma politica sarebbe seguita da una rivoluzione sociale; e che gli Italici, dei quali il maggior numero erano poveri e indebitati, avrebbero poi, impadronitisi dello Stato, fatta votare qualcuna di quelle rivoluzionarie leggi agrarie e abolizioni di debiti, così frequenti nella storia antica223. Seguì una terribile agitazione, nella quale la nobiltà si divise; e in parte stette per Livio, in parte si unì ai finanzieri e li aiutò nella violenta opposizione contro Livio; gli odi da tanto tempo accumulati divamparono in altissime fiamme da tutte le parti; sinchè una mattina Livio fu pugnalato da uno sconosciuto nella sua casa; e i cavalieri, in mezzo allo scompiglio gettato da questo assassinio nel partito di Livio, fecero in fretta approvare una legge che istituiva un tribunale straordinario, per procedere contro i sospetti di favorire gli Italici; incominciando a far processare e condannare tutti i membri della nobiltà e del partito popolare più avversi a loro, con l’intenzione di ripulir Roma per molto tempo dai propri nemici224.

Ma a un tratto la terra, scossa da un terremoto, tremò sotto i loro piedi. L’Italia meridionale, le regioni a sud del Liri, quelle cioè di civiltà più antica, più impoverite dai nuovi tempi, più spopolate e desolate dai latifondi, dove i sostegni dell’antico ordine di cose erano più consumati, avevano, stanche dal lungo aspettare, prese le armi per la causa comune degli Italiani contro Roma, le città alleate e le colonie latine dell’Italia centrale e settentrionale che restarono tutte, tolte poche, fedeli225. Roma rabbrividì di terrore; per un momento le discordie di parte posarono; furono richiamate in Italia le legioni sparse per l’impero, richiesti i contingenti marittimi a Eraclea, a Clazomene, a Mileto226; armati liberti e schiavi; Mario stesso, per non screditarsi, dovè domandare un comando: e incominciò una guerra terribile in cui i generali romani devastarono l’Italia senza misericordia come un paese di conquista, incendiando le fattorie, saccheggiando le città, dando la caccia agli uomini, alle donne, ai fanciulli per venderli schiavi o mandarli negli ergastoli dei propri poderi227. In questa guerra fece le prime armi un giovane assai colto, appartenente a una agiata famiglia di Arpino, che si chiamava Marco Tullio Cicerone228. Tuttavia questa guerra di sterminio nel cuore dell’Italia, ebbe un effetto buono; fece cioè prevalere nella nobiltà il partito nemico dei finanzieri e favorevole alla cittadinanza italica; cosicchè non solo il console Lucio Giulio Cesare potè fare approvare, nel 90, che si desse la cittadinanza alle città rimaste fedeli; ma poco dopo, sul finire dell’anno stesso o sul principio del seguente, due tribuni della plebe proposero, con la legge Plauzia-Papiria, che ogni cittadino delle città alleate, domiciliato in Italia, potesse acquistare la cittadinanza pur di farne dichiarazione entro sessanta giorni al pretore in Roma; e nell’89 una lex Plautia tolse i tribunali ai cavalieri, disponendo che i giudici sarebbero eletti dalle tribù in ogni ceto229. Forse in questo stesso anno il console Gneo Pompeo Strabone proponeva che si concedessero alle città della Gallia Cisalpina i diritti delle colonie latine, per sottoporle all’obbligo della leva e compensare le perdite del reclutamento che venivano dalla ribellione degli alleati230. Tante concessioni contribuirono più che gli eserciti a finir la guerra; onde ben presto soltanto i Sanniti e i Lucani rimasero in armi.

Ma l’Italia incominciava appena a riaversi da questo spavento, quando ne sopravvenne un altro, ancor più terribile. Mitridate era stato sorpreso dalla guerra sociale mentre preparava alacremente gli apparecchi di una grande guerra per scacciare Roma dall’Asia: l’audace disegno che egli aveva alla fine concepito, incoraggiato dalla condizione sua e di Roma. L’ammirazione di cui Roma aveva goduto nel mondo greco nei cinquant’anni dopo Zama, si era voltata in odio dopo la distruzione di Cartagine e di Corinto, molti lamentando che Roma non facesse più per il mondo la sua bella politica liberatrice da repubblica, ma una odiosa e ambiziosa politica da monarchia231; l’Asia era malcontenta per lo sfruttamento dei capitalisti romani, per la caccia agli uomini fatta dai pirati su tutte le coste del Mediterraneo per conto dei mercanti italiani; la potenza di Roma decadeva. Egli invece poteva reclutare nei suoi paesi e tra i barbari un grosso esercito; fabbricava sulle rive del Mar Nero una flotta poderosa; aveva nella Crimea il granaio di guerra, necessario a mantenere grossi eserciti in campagna senza affamare il Ponto. Non pronto ancora però, egli aiutò intanto un fratello minore del re di Bitinia a togliere il trono a questo e d’accordo con Tigrane, re di Armenia, riconquistò la Cappadocia, e vi rimise sul trono suo figlio; sperando che Roma non interverrebbe. Ma da Roma invece il partito aristocratico, che voleva mostrar vigore nella politica estera, mandò nel 90 un’ambasciata, con a capo Manio Aquilio, generale valoroso, ma cupido e senza scrupoli, che doveva ricondurre i due re nei loro Stati con l’aiuto del piccolo esercito del proconsole Lucio Cassio. Cassio e Aquilio compirono facilmente la missione232; ma Aquilio, che non era venuto sino in Oriente per così poco come le somme promesse a lui da Nicomede e che perciò voleva una grossa guerra con Mitridate, istigò Nicomede e Ariobarzane a fare incursioni nel Ponto. I due re esitavano; ma Nicomede doveva grosse somme ai banchieri romani di Efeso, prese a prestito durante l’esilio, per preparare a Roma e in Asia il ritorno; e Aquilio gliene fece domandare con insistenza il pagamento, sinchè Nicomede si risolvè a pagare con i guadagni di una razzia nel Ponto233. Mitridate tuttavia, e per guadagnar tempo e per mettere l’avversario dalla parte del torto, mandò a domandare ad Aquilio equi e modesti compensi; rifiutati i quali, quando sul finire dell’anno 89 si credè pronto, Mitridate fece invadere dal figlio la Cappadocia, e mandò a ridomandare energicamente ad Aquilio soddisfazione. Manio rispose intimando a Mitridate la sottomissione senza condizione; e la guerra fu dichiarata234. Ma quando, nella primavera dell’88, la guerra incominciò, Mitridate aveva pronta una flotta di 400 navi e uno di quegli smisurati eserciti, che la strategia dell’Oriente credeva formidabili per il loro numero, come la strategia moderna immagina, per la stessa ragione, invincibili gli eserciti di cui l’Europa è coperta: 300 000 tra mercenari greci, cavalieri armeni, fantaccini cappadoci, paflagoni e galati, Sciti, Sarmati, Traci, Bastarni e Celti235. Manio Aquilio invece, non aveva potuto raccogliere nell’inverno che una debole flotta bitino-asiatica e un esercito di nemmeno 200 000 uomini, nel quale, oltre l’esercito del re di Bitinia, il resto si componeva di giovani reclute asiatiche, inquadrate nei pochi contingenti romani. Difatti in poche settimane i quattro corpi in cui era diviso l’esercito romano furon disfatti o si disfecero; la flotta romana si arrese alla pontica; il re di Bitinia fuggì in Italia; i generali romani caddero prigioni; e Mitridate invase l’Asia236.

Terribile fu la ripercussione in Italia di questo rovescio. La guerra sociale aveva già rovinati molti medi e piccoli possidenti, distrutti gli armenti i casolari le ville e interrotte le rendite a molti ricchi signori che possedevano nell’Italia Meridionale; ed ora l’invasione dell’Asia sospendeva il reddito degli ingenti capitali impiegati dai finanzieri nella provincia; onde i publicani non potevano più pagare, le altre tasse nella miseria crescente rendevano poco, le casse dello Stato erano vuote; i capitalisti, impauriti, nascondevano il denaro, non prestavano più, riscuotevano invece con energia i loro crediti; la moneta scarseggiava a Roma e di quella poca che ancora girava, la più era falsa. L’esasperazione dei beni perduti e la paura di perderli inferocì gli animi; un pretore che voleva frenare le crudeltà dei creditori fu assassinato, un mattino, da un manipolo di capitalisti, mentre offriva un sacrificio; Roma era piena di tumulti, di assassinî, di ruberie, di risse tra i vecchi cittadini e i nuovi, questi esasperati ancor più di quelli perchè il Senato, invece di inscriverli subito nelle 35 tribù, indugiava studiando varie proposte, che tutte avrebbero reso vano il loro nuovo diritto: inscriverli in 10 tribù nuove, inscriverli in 8 delle antiche 35 tribù237. Ben presto giunsero notizie anche più terribili dall’Oriente: non si trattava più di una guerra con un altro Stato, ma di una rivolta proletaria contro la plutocrazia romana. Agli artigiani, ai contadini, al medio ceto dei mercanti e possidenti dell’Asia, oppressi dai banchieri romani e dagli usurai indigeni, ebrei, egiziani, che si raccoglievano intorno ai Romani, Mitridate aveva voluto apparire non solo come l’eroe dell’ellenismo, ma anche come lo sterminatore della plutocrazia cosmopolita; e perciò aveva mandato segreti ordini a tutti i governatori delle provincie conquistate di preparare, per il trentesimo giorno dalla data della lettera, lo sterminio degli Italiani. Le plebi, già inasprite per la condanna del loro buon protettore Rutilio Rufo, erano state abilmente eccitate da agenti; agli schiavi e ai debitori, che avessero uccisi i padroni o i creditori, era stata promessa la libertà o la remissione di mezzo il debito; e al giorno fissato centomila Italiani, uomini, donne, bambini, erano stati inseguiti, assaltati, sgozzati, annegati, bruciati vivi a furore di popolo in tutte le città grandi e piccole dell’Asia; i loro schiavi liberati, i loro beni divisi tra le città e il fisco reale, insieme con quelli di altri capitalisti non italiani, come i depositi dei banchieri ebrei nell’isola di Coo238. Intanto lo spirito di rivolta si comunicava per contagio alla Grecia, dove il popolo di Atene, incitato dai professori dell’Università, insorgeva, prontamente aiutato da Mitridate che mandò in Grecia un suo generale, Archelao, con una flotta e un esercito, a ridurre le città non ancora insorte, a conquistare e devastare Delo239. Incominciava una gran guerra per la signoria del mondo ellenico, tra il monarca asiatico aiutato dalla plebe rivoluzionaria, e la plutocrazia italica aiutata da una aristocrazia in dissoluzione e da una democrazia in formazione, mentre la classe intellettuale, i letterati e filosofi di professione, così numerosi nell’Oriente, si sarebbero, come in tutte le lotte sociali, divisi per l’uno o per l’altro dei due nemici, secondo la simpatia, gli interessi, le relazioni di ciascuno.

Il Senato si affrettò a provvedere: ordinò leve, incaricò Silla, che nell’88 era console, di comandare la guerra; e perchè il tesoro era vuoto, vendè tutta la mano-morta romana, i beni che i templi possedevano in Roma240. Ma erano tempi infuocati, il cui riverbero scompigliava in Italia tutti gli spiriti, sino al furore dei più disperati propositi. Mentre l’Asia e l’impero erano in pericolo, i Sanniti e i Lucani ancora in armi mandavano ambasciatori a Mitridate per allearsi; un gran numero di Italiani, rovinati dalla guerra sociale, per odio al partito conservatore che cercava di eludere la concessione della cittadinanza, per bisogno di campar la vita in qualche modo fuggivano in Asia ad arruolarsi sotto le bandiere di Mitridate241; a Roma i finanzieri erano furibondi per il potere giudiziario perduto; e Mario, rabbioso contro tutti e contro sè stesso perchè si sentiva dimenticato dalle moltitudini; indebolito di mente dalla ubriachezza a cui si era dato; farneticante di togliere a Silla il comando della guerra contro Mitridate, di conquistare gli immensi tesori del re del Ponto e di rivivere le grandi giornate del trionfo cimbrico, macchinava, d’accordo con Publio Sulpicio Rufo, tribuno della plebe e grande oratore, già aristocratico e convertitosi in ardente demagogo, a quanto sembra, per debiti e rancori personali, una rivoluzione, che doveva compiersi con l’aiuto degli Italiani e di una parte del ceto finanziario, la quale sperava di riavere il potere giudiziario con questa temeraria manovra242. Con il pretesto di soddisfare definitivamente i nuovi cittadini, Rufo propose, e assoldando bande di bravi che atterrirono gli elettori e usarono violenza ai consoli, fece approvare una legge, per la quale gli Italiani sarebbero stati distribuiti nelle 35 tribù. I consoli furono costretti ad abbandonar Roma; Silla raggiunse l’esercito suo che si raccoglieva a Nola; Mario, restato padrone con Rufo di Roma, faceva approvare una legge che gli assegnava il comando della guerra d’Oriente, e subito mandava a Silla l’ordine di consegnargli le legioni.

V.
SILLA E LA REAZIONE CONSERVATRICE A ROMA.

La principale cagione per cui i partiti dei ricchi sono spesso così deboli contro i partiti dei poveri, è questa: che non sanno riconoscere i propri campioni per quello spietato spirito di gelosia e di disprezzo reciproco, che divide sempre gli uomini ricchi e colti, il cui male incurabile è in ogni tempo il sentir troppo fortemente di sè. Infatti allora, mentre a Roma la rivoluzione signoreggiava con Mario, solo per caso i conservatori trovarono un proprio campione. Silla, che aveva indugiato sino allora, pur prendendo parte con onore alla guerra cimbrica e sociale, lontano dalle contese politiche, e che solo in quell’anno, già più che cinquantenne, era giunto al consolato, non era nè un fazioso arrabbiato nè un grande ambizioso. Superbo e sensuale, pur di godersi a Roma donne, banchetti, commedianti e libri, avrebbe forse lasciato anche in avvenire i due partiti trucidarsi a vicenda, spregiandoli ambedue; e certo non avrebbe mai, come Mario, per ambizione, scatenata una guerra civile. Ma il caso aveva fatto che il suo consolato cadesse nell’anno in cui la rivoluzione scoppiò e che la rivoluzione si volgesse contro di lui.... A ricevere il messaggio di Mario, Silla non si spaventò; ma, uomo senza pregiudizi e risoluto, come si fu assicurato della fedeltà dell’esercito, osò una audacia inaudita: mosse su Roma, e smessa ogni pedanteria costituzionale, primo di tutti i Romani entrò con i soldati nella metropoli, donde Mario, sorpreso da un assalto così audace, dovè fuggire243. Dodici capi della rivoluzione furono proscritti, tra i quali Sulpicio Rufo fu ucciso e Mario si rifugiò in Africa; mentre Silla, rimasto padrone di Roma, si diportava con moderazione; non perseguitava nessuno; annullava, perchè incostituzionali, le leggi di Sulpicio; lasciava che la elezione dei consoli per l’anno seguente si facesse liberamente, e che con Gneo Ottavio aristocratico fosse eletto console Lucio Cornelio Cinna, in voce di popolare, facendogli soltanto giurare che avrebbe rispettate le leggi244. Egli sapeva che se avesse fatto di più gli stessi conservatori si sarebbero volti contro lui; gli uni per rispetto della tradizione, gli altri per invidia o paura.

Poi partì per la guerra. A conquistare il vasto impero orientale, dove gran parte della popolazione era insorta e che un esercito di 300 000 uomini occupava, Silla partiva da Brindisi al principio dell’87, con sole cinque legioni, qualche coorte spicciola e poca cavalleria, in tutto poco più di 30 000 uomini245, senza flotta bastevole ad assicurargli in ogni caso contro la poderosa flotta nemica l’approvvigionamento dell’esercito dall’Italia; e lasciandosi dietro il partito popolare, impaziente di vendetta. La patria lo cacciava lontano al più disperato cimento per lei, senza un aiuto, quasi nemica: si salvasse se poteva; ma peggio per lui se periva. E difatti quando al suo sbarco in Epiro le milizie politiche e greche, comandate da Archelao e da Aristione, gli abbandonarono abilmente senza combattere, gran parte della Grecia, chiudendosi in Atene e nel Pireo; con l’intenzione di trattenere e logorare l’esercito romano intorno ad Atene, sinchè sopraggiungesse il nuovo esercito che Mitridate preparava in Asia; Silla, sceso dal nord ad assediare Atene, si trovò ben presto in condizione quasi disperata: con a fronte Archelao straordinariamente abile ed energico nel sostener l’assedio; con dall’Asia la minaccia di un esercito di più che 100 000 uomini già sulle mosse per assalirlo alle spalle attraverso la Tracia e la Macedonia; con le comunicazioni tra l’esercito e l’Italia rotte dall’armata pontica; e ben presto infine con il partito popolare signore di nuovo del governo in Italia. Lui partito, Cinna, indotto, a quanto si disse, da un dono di 300 talenti, fattogli dai nuovi cittadini, aveva proposto che gli Italici fossero iscritti nelle 35 tribù; ne erano seguiti combattimenti nelle vie di Roma, tra i due consoli, ciascuno alla testa di partigiani propri; sinchè Cinna, vinto, deposto e proscritto era fuggito per le città d’Italia, mostrandosi come il fuggiasco difensore dei loro diritti, raccogliendo uomini e denari, incitando i Sanniti, che ancora erano in armi, a non deporle; mentre Mario, tornato dall’Africa con un piccolo manipolo di Numidi, girava l’Etruria, ostentandosi vestito di miserabili cenci, armando liberi e schiavi. Il Senato si preparò alla difesa, e per prevenire una nuova rivolta italica concesse il diritto di cittadinanza a tutti gli Italiani, che non lo avevano ricevuto con le leggi Giulia e Plauzia Papiria, tolti i Sanniti e i Lucani, ancora in armi246; ma con Silla in Grecia, il partito conservatore non aveva più un capo energico247, e Mario s’impadronì di nuovo di Roma. Il contadino, inferocito dalle lunghe amarezze della oscura vecchiaia e dal furore della fuga recente, sfogò allora il rancore di tutta la vita su quella nobiltà che non aveva mai voluto ammirarlo; le teste recise di molti grandi decorarono per vendetta sua i rostri del foro o furono portati alle sue case; Silla fu dichiarato nemico della patria e decaduto dal comando; la sua casa di Roma rasata, le sue ville devastate, i suoi beni confiscati; perfino Metella sua moglie dovè fuggire nel suo accampamento.

Intanto intorno ad Atene l’esercito di Silla soffriva la fame, ed era decimato dalle fatiche, dalle malattie, dalle scaramuccie combattute ogni giorno, lungo la immensa linea delle opere d’assedio; se l’esercito di soccorso dall’Asia giungeva prima che Atene capitolasse, Silla e le sue legioni erano perdute senza speranza. Ma in un frangente così terribile248 questo nobile spiantato che aveva cominciato la vita rifacendo la fortuna con l’eredità di una ricca meretrice greca; questo egoista insensibile, superbissimo e intelligentissimo, che, pur prendendo parte a tutte le grandi guerre dell’età sua, pareva avesse voluto faticare soltanto per compiacersi da sè dei propri meriti e acquistare le ricchezze necessarie al piacere, diventò a un tratto l’uomo figurativo, meraviglioso ed orrendo, di uno dei fenomeni più terribili della storia: l’egoismo che prorompe nei tempi di estrema dissoluzione sociale, quando, rotti tutti i vincoli morali tra gli uomini, chi non voglia immolarsi deve cercar di fare della propria personale salvezza la legge suprema della vita. Più i nemici gli si addensarono d’intorno, più l’orgoglioso volle vincer la prova, a qualunque costo: scatenando contro i suoi nemici tutte le forze di distruzione che prorompono da un dissolvimento sociale; tendendo sin quasi a spezzarlo l’arco delle sue facoltà meravigliose: la lucidezza delle idee, l’astuzia, la risolutezza, la resistenza del corpo e della mente alla fatica. Per mantenere l’esercito egli sottopose, senza misericordia, la Grecia a requisizioni tremende; per far le macchine da guerra e le opere d’assedio, tagliò i boschetti del Liceo e recise i platani secolari dell’Accademia, alla cui ombra aveva filosofato Platone; per provvedersi il denaro necessario alla guerra spogliò tutti i templi della Grecia, anche i più venerati, degli immensi tesori, e impiantata nel Peloponneso una zecca, sotto la direzione di un suo giovine ufficiale, Lucio Licinio Lucullo, monetò i tripodi, i vasi, i gioielli, gli oggetti d’arte offerti agli Dei da tante generazioni pie; per disputare ai nemici il dominio del mare, persuase Lucullo a tentar di sgusciare con sole sei navi tra la flotta pontica che bloccava la Grecia, per andare a raccoglier navi nei porti del Mediterraneo; per finir l’assedio, studiò tutte le malizie di guerra; per mantenere animosi i soldati, partecipò a tutte le loro fatiche, accorrendo in tutte le mischie, conducendo in persona le colonne d’attacco: sopratutto profuse tra loro a piene mani il denaro. Sotto le mura di Atene e in quel frangente terribile, egli portò a compimento la riforma militare di Mario, creando definitivamente le milizie mercenarie dell’êra mercantile, con cui Roma doveva proseguire la conquista intrapresa con le milizie nazionali dell’età agricola; e che, reclutate nella feccia della popolazione italica, potevan esser tenute lunghi anni sotto le armi, sottoposte a una disciplina severa, condotte alla fatica e al periglio, purchè fossero ben comandate e lautamente pagate.

Eppure Atene resistè tutto l’estate, resistè tutto l’autunno, ostinatamente, aspettando i soccorsi dal nord.... Per fortuna l’esercito che Mitridate mandava in Grecia, impacciato dalla sua stessa mole, impedito dalla difficoltà degli approvvigionamenti, mal comandato, camminava lento; cosicchè Caio Senzio Saturnino, governatore della Macedonia, potè con poche forze trattenerlo e farlo cogliere dall’inverno in Macedonia, dove fu costretto a svernare249. Silla guadagnò i mesi dell’inverno; ma intanto, sospeso questo, un pericolo più serio gli sorse alle spalle, dall’Italia. Mario era morto, al principio dell’86, ucciso dalle orgie, dall’ubbriachezza, dall’ultimo furore della sua mente scomposta; ma lui morto, il governo rivoluzionario, aveva fatto votare, per guadagnare le moltitudini, una legge, proposta dal console Lucio Valerio Flacco, nominato in luogo di Mario, con cui tutti i debiti erano condonati per tre parti su quattro; e aveva incaricato questo stesso console di togliere il comando a Silla, alla testa di 12 000 uomini, che egli infatti al principio dell’86 incominciò a reclutare250. Silla sarebbe stato, alla primavera, preso tra l’esercito romano e quello di Mitridate.... Per fortuna egli riuscì a impadronirsi con un assalto disperato di Atene il primo marzo dell’86 e poco dopo del Pireo; Archelao si ritirò nella penisola di Munichia, e salpò poi, con l’esercito, tranquillamente, per raggiungere alle Termopili l’esercito di invasione; non inseguito da Silla, che mancava di navi, e che, lasciate invece in Atene poche forze ad assediar l’Acropoli, andò incontro con grande audacia all’esercito pontico molte volte più numeroso del suo, sino in Beozia, e lo disfece a Cheronea251. Padrone allora della Grecia, Silla castigò di confische ed esecuzioni molte città ribellatesi, con durezza maggiore Tebe ed Atene; dove prese la biblioteca di Apellicone di Teo, nella quale era una copia delle opere di Aristotile, ancora ignote ai Romani.

Intanto Valerio Flacco, sbarcato in Epiro, era indotto dalle molte diserzioni dei suoi soldati, che, sapendo della generosità di Silla, lo abbandonavano, e dai consigli del suo legato Caio Flavio Fimbria, uomo scellerato, ma valente soldato, a volgersi verso l’Asia a combattere Mitridate, lasciando Silla. Silla però già si disponeva a inseguirlo, quando fu tratto indietro da una nuova minaccia contro la Grecia. Le classi ricche dell’Asia, la plutocrazia indigena e cosmopolita, sopraffatte al tempo dei massacri degl’Italiani, si erano a poco a poco riavute, e avevano cominciato a intrigare in favore di Roma, approfittando abilmente della mobilità delle plebi povere e specialmente del malcontento di cui eran cagione le continue leve fatte da Mitridate, dolorose a popolazioni pacifiche e industriose come quelle dell’Oriente civile252. Alla fine dell’87 Efeso, la opulenta città mercantile, era già insorta contro Mitridate in favore di Roma253. La battaglia di Cheronea aveva naturalmente incoraggiato in tutta l’Asia il partito romanofilo; onde Mitridate si era risoluto a una doppia audacia: mandar per mare, sotto il comando di Dorilao, un esercito di 70 000 uomini a riconquistare la Grecia; dichiararsi in Asia apertamente il re della rivoluzione sociale, e fare la stessa politica che il partito democratico faceva in Italia: accordando nell’86 la libertà a tutte le città greche restate fedeli, abolendo i debiti, decretando larghe liberazioni di schiavi254; facendo lega segreta con i pirati, affinchè in compenso della libertà di corseggiare, molestassero le città a lui nemiche255. Silla dovè tornare indietro a combattere l’esercito di Dorilao, il quale, dopo aver imbarcato in Eubea 10 000 uomini che Archelao era riuscito a scampare dalla disfatta di Cheronea, aveva invasa la Beozia; e distrutto questo esercito in una sanguinosissima battaglia ad Orcomeno, costretto Archelao a fuggire di nuovo in Eubea, conquistò la Grecia definitivamente256. Ma a questo punto Silla che non aveva navi su cui passare il mare (di Lucullo non gli era giunta ancora notizia) dovè fermarsi; onde, dopo aver terribilmente castigate le città della Beozia e della Locride, prese, alla fine dell’86, i quartieri d’inverno in Tessaglia, mentre l’esercito di Valerio Flacco invadeva la Macedonia, costringeva gli ultimi avanzi dell’esercito pontico a ritornare in Asia e giungeva al Bosforo per imbarcarsi sulla flotta dei Bizantini.

Vinto il primo e più urgente pericolo, altri pericoli più lontani minacciavano ancora. Il partito popolare signore dell’Italia, faceva eleggere ogni anno con la violenza, gli intrighi, il denaro, uomini suoi alle magistrature; aveva molti partigiani nel medio ceto delle città italiche, riconoscenti per l’energia con cui aveva sostenuto i loro diritti; mentre i ricchi finanzieri ondeggiavano tra la paura di una reazione conservatrice e la paura di una rivoluzione proletaria, di cui la riduzione dei debiti approvata nell’86 poteva essere il principio; mentre nel Senato il coraggio di contrastare alla demagogia vittoriosa veniva meno ogni giorno. Molti insigni conservatori erano stati uccisi; altri impauriti si rifugiavano nel campo di Silla o in lontane provincie dell’impero, dove potevano viver sicuri tra amici e clienti: il giovane Gneo Pompeo nelle sue terre del Piceno, Metello Pio in Africa, Marco Licinio Crasso in Spagna; la paura, le gelosie, gli scrupoli costituzionali, la corruzione toglievano ai pochi superstiti gli ultimi avanzi dell’energia. Peggio ancora per Silla, Fimbria era riuscito in Asia a rivoltare i soldati contro Flacco, a farlo uccidere, a farsi acclamare generale; poi con tutto l’esercito era passato a svernare in Bitinia devastandola orrendamente, per continuare nella primavera dell’85 la guerra contro Mitridate e riconquistare egli l’Asia257. Silla, cui i grandi successi della guerra di Grecia non avevano fatto smarrire la lucida visione del reale, capì di non poter affrontare insieme Mitridate, Fimbria, la demagogia italiana; e perduto ormai, nella amara tensione della terribile lotta, ogni avanzo di scrupoli e pregiudizi patriottici come di pietà religiosa o di misericordia umana, concepì un disegno che sarebbe parso abbominevole come un tradimento all’intransigente patriottismo delle vecchie generazioni. Egli aprì trattative con Archelao, lo corruppe con enormi somme di denaro, con il dono di un’immensa tenuta, tagliata fuori dal demanio pubblico di Roma nell’Eubea, e con la promessa del titolo di amico del popolo romano258; lo indusse a consegnargli subito la flotta che aveva ancora al suo comando e a impegnarsi di far conchiudere da Mitridate la pace a queste condizioni: lo statu quo dell’89 sarebbe restaurato; Mitridate conserverebbe integro l’antico regno del Ponto259, e sarebbe chiamato amico e alleato del popolo romano260, pagherebbe a Silla 2000 talenti261, consegnerebbe 70 (o 80) navi da guerra262, cambierebbe i prigionieri e i disertori; Roma amnistierebbe le città ribellatesi263. Nessun generale romano del buon tempo antico avrebbe acconsentito a lasciar tornare nei suoi Stati, senza altro castigo che una contribuzione di guerra, un re che aveva invasa e devastata la più ricca provincia dell’impero; ma Silla non era tale uomo che rischiasse la testa per la vergogna di stringere quasi un’alleanza, contro il partito popolare, con il re che aveva massacrati 100 000 Italiani. Mitridate, che ormai aveva, per la sua politica demagogica, perduto ogni favore nelle alte classi dell’Asia, il cui esercito si disfaceva, ma che non si scoraggiva mai, tentò di ottenere condizioni anche migliori di queste, minacciando di allearsi con Fimbria contro Silla; ma per fortuna di Silla, Fimbria alla primavera si era avventato sugli stanchi eserciti di Mitridate, devastando tutto, impadronendosi di Pergamo264; mentre Lucullo, che dopo varie e lunghe avventure aveva raccolta una flotta, compariva sulle coste dell’Asia, facendo la guerra di corsa, e incitando le città alla rivolta265. Mitridate capì che era più facile intendersi, anzichè con Fimbria, con Silla; il quale intanto veniva con Archelao verso il Chersoneso Tracico, dove Lucullo gli andò incontro con la flotta; Silla e Mitridate si videro a Bardano; e Mitridate, accettate le proposte di Silla, tornò per mare, con gli avanzi dell’esercito, nel suo antico regno266.

Restava Fimbria. Ma Silla con larghe promesse di denaro riuscì a far passare i soldati suoi sotto le proprie bandiere; Fimbria fuggì e si uccise; e Silla fu finalmente padrone dell’Asia267. Gli bisognava ora rientrare in Italia; dove signoreggiava un partito che egli odiava profondamente, non per avversione di classe o discordia di idee, ma per la implacabile ferocia con cui esso aveva cercato di rovinarlo, durante la campagna di Grecia. Certo, la sua reputazione era ingrandita rapidamente per la gloria delle vittorie, per la riconoscenza della borghesia mercantile a cui aveva restituita l’Asia, e della nobiltà di cui aveva salvati tanti profughi; ed era cresciuta anche la forza, perchè egli possedeva ora una flotta e un esercito numeroso e fedele, molto denaro oltre quello di Mitridate: i tributi arretrati di cinque anni, e la enorme contribuzione di 20 000 talenti268 che andava estorcendo dalle città asiatiche. Pure, per la sua indifferenza superba verso ogni cosa che non fosse il proprio piacere. Silla, che frattanto era tornato in Grecia per riposarsi un poco in Atene e curare la gotta ai bagni caldi di Edepso nella Eubea, si sarebbe inteso volentieri per una pace con il partito popolare, non ostante il suo odio, pur di presto tornare a godersi le immense ricchezze guadagnate durante la guerra. Ma non si illudeva che questo lieto ritorno pacifico fosse facile; perchè troppo la parte più esaltata del partito popolare lo odiava, troppo diffidava il medio ceto italico, che temeva in lui un distruttore dei diritti di cittadinanza; mentre molti conservatori lo consideravano con gelosia e sospetto; e non si disponevano a far nulla per lui, tolti alcuni ardimentosi e ricchi giovani della nobiltà, offesi o minacciati dalla rivoluzione popolare, che, aspettando gli eventi, armavano rivoluzionariamente milizie per proprio conto: Gneo Pompeo nel Piceno, sulle sue vaste possessioni, Marco Crasso in Spagna, Metello Pio in Africa. Perciò mentre avviava negoziati con Roma, si preparava all’ultimo cimento, ricompensando splendidamente le milizie di Fimbria e quelle che lo avevan seguito per tante fatiche e travagli dalla Grecia. L’esercito fu distribuito per le città dell’Asia, come nel paese di cuccagna; ogni soldato semplice ricevette dal suo ospite 16 dramme al giorno, e potè invitare da lui a pranzo quanti amici volesse; ogni centurione 50 dramme269; tutti ebbero larghi regali di denaro, e vuotando le cantine dei loro ospiti, pieni di prelibati vini dell’Oriente che in Italia erano ancora un carissimo lusso dei ricchi, gozzovigliando, sfoggiando metalli preziosi, vesti rare, profumi costosi, celebrarono il festino delle loro prime lunghe fatiche finite; mentre intorno a loro, per le contribuzioni e le spese di questa gozzoviglia di 40 000 soldati durata sei mesi, la miseria cresceva; città e privati si indebitavano e i finanzieri italiani, di cui si era creduto distrugger la razza con un massacro, ritornavano più numerosi e più avidi sopra una preda più facile270.

E difatti una nuova guerra aspettava Silla in Italia, quando egli al principio dell’83, lasciate in Asia le due legioni di Fimbria, si volse al ritorno, con 30 000 soldati271, portando seco un tesoro più prezioso che le immense somme sepolte nei fianchi delle sue navi: i manoscritti di Aristotele, rubati nella biblioteca di Apellicone. Invano egli aveva tentato di rassicurare gli Italici che intendeva rispettare il loro diritto di cittadinanza, e aveva acconsentito a trattare con i capi della parte democratica; invano il Senato aveva tentato di interporsi come paciere. I capi del partito popolare, che non si fidavano di lui, che erano molti e pieni di odio e poveri di saggezza, salvo uno, Sertorio; che speravano forse di poter vincere, grazie agli aiuti della Italia, questo piccolo esercito, resero con la loro politica subdola e discorde impossibile ogni intesa. Silla venne; ricevè lietamente i tre aristocratici, Gneo Pompeo, Marco Crasso, Metello Pio che avevano armati soldati per proprio conto; riconobbe come ufficiale il loro comando e affidò loro importanti missioni; ma senza altro aiuto del partito conservatore aprì la guerra, e operando risolutamente e metodicamente, riuscì con l’oro e col ferro a padroneggiare l’immenso disordine di quella società in cui la rivoluzione, sopravvenuta dopo una lunga decomposizione sociale, aveva infranti gli ultimi vincoli morali tra gli uomini. Profondendo tra i soldati e seguaci del partito democratico l’oro di Mitridate, egli riuscì a farne passar alla parte sua molti che erano poveri e ignari della grande contesa per cui combattevano, e molti astuti o paurosi; quelli che restarono fedeli vinse in sanguinose battaglie; e uno dopo l’altro, a mano a mano che la forza del partito popolare venne meno con sconfitte, ne uccise i capi, salvo Sertorio, che fuggì in Spagna; rovesciò il governo rivoluzionario, e restò signore dell’Italia alla testa del suo esercito, sulle rovine del partito popolare e accanto al Senato impotente.

E allora questo orgoglioso, freddo, insensibile sibarita, naturalmente brutale come tutti gli uomini troppo avidi di piaceri sensuali, e che, esasperato dalla terribile lotta in cui per poco non era perito, odiava ormai ferocemente i suoi nemici e disprezzava tutto il genere umano, diventò, per calcolo e per vendetta, un carnefice. Egli non si lasciò illudere dagli omaggi che lo accolsero vincitore e alla testa di un esercito devoto personalmente a lui; ma capì che gli era necessario conservare il potere, e distruggere il partito democratico già tramortito, perchè gli stessi conservatori, a cui le sue vittorie avevano tanto giovato e che egli sprezzava del resto come i loro nemici, invidiosi gli uni, paurosi altri, molti pieni di pregiudizi e opportunisti, si sarebbero scaricati su lui dell’odio pubblico il giorno in cui il partito democratico avesse levata ancora una volta la testa. Egli inventò una amplificazione dell’antica dittatura, per la quale avesse, a tempo indefinito, assoluta potestà di vita e di morte sui cittadini e pieni poteri per riformare la costituzione; e ottenuta facilmente dal Senato, ormai spogliato di ogni autorità, l’approvazione della lex Valeria che lo creava dittatore con simiglianti poteri, perseguitò sin nella famiglia e nella discendenza coloro che avevano partecipato in tutta Italia al moto rivoluzionario; facendoli perire, rompendo i matrimoni dei loro parenti superstiti con persone di famiglie ricche e influenti, decretando che i figli dei proscritti non eserciterebbero mai nessuna magistratura, impoverendone con le confische le famiglie; vendendo per quasi nulla o regalando agli amici i campi, le case, il mobilio, gli schiavi dei proscritti, castigando per l’Italia intere città, con multe, con la demolizione delle fortificazioni, con la confisca di parti del territorio pubblico e privato, che dopo la confisca fu distribuito ai soldati suoi, dedotti in colonia, come su territorio nemico. Nessuno scrupolo, nessuna esitazione o misericordia, in questa persecuzione: i suoi nemici lo avevano troppo odiato e perseguitato, ed egli, che aveva fretta di tornare dopo tante fatiche all’ozio e ai piaceri, voleva finir presto. Sull’Italia, già devastata dal disordine di una decomposizione sociale che durava da 30 anni, infierì – supremo flagello – il dispotismo, non di Silla, ma peggio ancora: di una banda eterogenea di avventurieri che gli si raccolse rapidamente d’intorno, alla strage e al saccheggio. Gli scrupoli, le vergogne, i sentimenti di onore, gli orgogli di casta si confondevano in un furore contagioso di saccheggio; e schiavi, liberti, plebei, nobili rubavano assieme; nobili poveri, come Lucio Domizio Enobarbo, e nobili ricchi, come Marco Crasso, che si fece ricompensare dell’aiuto dato a Silla nella guerra civile, con enormi ricchezze di proscritti comprate per nulla o per poco; mentre Silla, che nemmeno allora contrasse quel bisogno di essere adorato così frequente negli uomini saliti in soverchia grandezza, si godeva la gran vendetta di tante traversie: spregiar tutti, conservatori e popolari, ricchi e poveri, romani e italici, nobili, finanzieri e plebe, tutti egualmente avviliti innanzi a lui dal terrore. Indifferente egli riceveva nella sua splendida casa gli omaggi dei più insigni personaggi di Roma, che, spesso con l’odio in cuore, venivano a riverire l’arbitro della vita e della morte; indifferente vedeva tutta Roma nobile, illustre, elegante, i giovani e i vecchi discendenti delle grandi famiglie, le più belle signore dell’aristocrazia, disputarsi gli inviti alle sue sontuose cene, nelle quali egli troneggiava come un re, in mezzo ai cantanti favoriti, attento solo a bere e a mangiare, non curandosi di conoscere nemmeno il nome dei suoi innumerevoli e illustri invitati272; indifferente lasciava i parenti, i fedeli di antica data, gli amici recenti che volevano farsi credere amici dei dì del periglio, una turba di ambiziosi, di cupidi, di scellerati disputarsi il passo nel suo atrio e ottenere facilmente, dalla sua noncuranza per le piccole cose, tenute, case, schiavi di condannati; perdoni di proscritti di poco conto; condanne di innocenti odiati per ragioni private o per il desiderio di qualche loro ricchezza. Le parentele, le amicizie, gli atti più innocenti compiuti durante la rivoluzione poterono essere torti a delitti capitali dalla viltà, dall’odio, dalla cupidigia dei denunciatori; molti furono rovinati; molti fuggirono tra i barbari, in Spagna, in Mauritania, presso Mitridate; coloro che non riuscirono a procurarsi la protezione di qualche potente amico di Silla, vissero nell’ansia continua di insidie invisibili; e pericolo gravissimo corse il figlio di quel Gaio Giulio Cesare che aveva sposata la sua sorella a Mario e che era morto qualche anno prima, a Pisa, di apoplessia. Il giovane, che portava lo stesso nome del padre, aveva sposata Cornelia, figlia di Cinna; onde Silla, che aveva in sospetto la famiglia per queste sue parentele rivoluzionarie e per le sue molte amicizie nel ceto dei finanzieri, aveva mandato al giovine Caio ordine di far divorzio dalla bella Cornelia. Ma Cesare che, appassionato e di poco giudizio, amava con veemenza la sua giovine sposa e aveva rifiutata per sposarla una ricca ereditiera propostagli dalla famiglia, Cossuzia, rifiutò; e allora caduto in disgrazia ebbe confiscata la dote della moglie e l’eredità del padre, e dovè lasciar Roma; sinchè fu, dopo qualche tempo, perdonato per la intercessione di alcuni parenti presso Silla273.

Ma distrutto il partito popolare, bisognava impedire che rinascesse; e a questo fine Silla tentò di applicare, con una larga riforma aristocratica della costituzione, le idee favorite di quella parte dell’aristocrazia che, avversa egualmente al partito popolare e alla classe capitalista, contemplava ostinatamente, con una ammirazione anacronistica, le antiche istituzioni della êra agricola, e sperava ritrovar in quelle ordine e pace. Silla abolì il servizio pubblico dell’annona a Roma e la censura; aumentò a 8 i pretori e a 20 i questori; tolse ai comizi il diritto di discutere le leggi senza aver prima ottenuta l’approvazione del Senato; attribuì il potere dei comizi tributi ai comizi centuriati; vietò ai tribuni della plebe di proporre leggi e di essere eletti ad altre cariche; dispose che le magistrature non avrebbero potuto essere ottenute se non nell’ordine legale e che le rielezioni non fossero ammesse se non dopo dieci anni; inasprì le pene per molti reati di violenza e di frode; liberò e fece cittadini 10 000 schiavi, i più giovani e forti tra quelli che avevano appartenuto ai proscritti; per accrescere la potenza politica del senato e indebolire quella della borghesia finanziaria fece senatori circa 300 cavalieri e ridiede ai soli senatori la potestà giudiziaria274. Egli tentava di distruggere nel tempo stesso la potenza dei due ceti nuovi, la classe media e i finanzieri, restaurando, con pochi mutamenti, la costituzione puramente aristocratica che vigeva ai tempi della prima guerra punica; quando la vecchia società italica, rustica, aristocratica e guerresca era una stratificazione perfetta di classi: in alto, una nobiltà ricca, disciplinata, concorde e signora senza contrasti; sotto, un medio ceto rustico, sottomesso, paziente, agiato per i suoi bisogni, contento della sua condizione presente; sotto ancora, gli schiavi poco numerosi, trattati con durezza, non però crudelmente, e docili. Ma la restaurava proprio dopochè questi strati erano stati sfondati, rotti, piegati l’uno contro l’altro, prima dal lento moto di sprofondamento della nobiltà e di sollevamento della borghesia, poi dal violento terremoto della rivoluzione; proprio quando i servi erano incitati a tradire i padroni proscritti, e le bande degli amici del dittatore, servi, liberti, medio ceto, nobili devastavano insieme e insanguinavano l’Italia, confondendo ogni legge. Non era quella una restaurazione aristocratica, perchè l’aristocrazia romana non esisteva più; ma in Asia, come in Italia, come in tutto l’impero, l’orgiastico e sanguinario trionfo di una oligarchia di assassini, di ladri, di schiavisti, di nobili bisognosi, di avventurieri senza scrupoli, di usurai rapaci, di soldatesche mercenarie, sopra un vasto impero di milioni di oppressi, che in un impeto di furore avevano tentato invano di ribellarsi. L’impassibile Silla, dalla casa sua piena di mimi, cantanti e ballerine, imbandita ogni sera a sontuosi conviti, contemplava indifferente questo sanguinoso trionfo di cui egli era stato, senza ambirlo, l’autore primo; sinchè ben presto, appena si credè sicuro come uomo privato nell’impero che aveva governato come dittatore, depose la dittatura, per darsi a quei piaceri e stravizi, logorato dai quali, qualche tempo dopo morì.

Silla – sarebbe ingiusto negarlo – fu un dittatore senza ambizioni, uno schietto repubblicano, che si affrettò a lasciare il potere appena potè, senza perder sè stesso e gli amici. Ma non fu un precursore di Giorgio Washington. Spirito superiore per lucidezza, versatilità ed energia, ma senza grandi passioni, senza sublimi idee, senza quel grano di divina follia e quel potere di esaltazione per cui negli spiriti magni si rivela, sia pur torbido e incomposto, l’istinto della vita che si sforza verso il futuro; cupido solo di godimenti, freddo, indifferente a tutto fuori che al proprio piacere, egli vide nei suoi tempi soltanto il disordine incitato dalla malvagità o dalla pazzia umana, che bisognava domar con la forza; come Napoleone, al quale del resto era infinitamente superiore per larghezza, nitidezza, equilibrio di mente, e per vero vigore di volontà, fu autore soltanto di una gigantesca operazione di polizia, pensata con lucidezza, eseguita con energia275. Questa operazione di polizia intesa a ristabilire l’ordine fu forse necessaria a salvare, per il momento, l’impero e la civiltà antica dalla distruzione che le minacciava la disperata rivolta dei proletari: ma il suo valore storico è pur sempre quello delle operazioni di polizia, caduco e passeggero cioè: perchè l’ordine, anche nello stato meglio ordinato, è solo una finzione di giustizia e di saggezza, simile alla terra del campo, che deve essere periodicamente rotta e rivoltata dall’aratro per rinnovare la forza generatrice. La crisi tremenda che travagliava l’Italia era appunto simile alla lama di un aratro, che penetrando nelle viscere della vecchia società voltava e rivoltava le zolle, portando alla luce quelle sepolte, rompendo in polvere quelle cotte e indurite per lunghi mesi dal sole, aprendo nuovi canali nei meati della terra alle acque del cielo, risvegliando le sopite energie generatrici della vita, per preparare la nuova messe. Mario, non ostante le criminose ambizioni e le ferocie della vecchiaia, contribuì a questo rinnovamento vitale, disegnando nelle grandi linee i nuovi ordini militari di Roma, contribuendo a risolvere la questione della cittadinanza agli italici. Silla, no. L’opera sua fu ancor più contradditoria di quella dei Gracchi, perchè dopo aver conquistato il potere con la gran forza della nuova êra mercantile, con il denaro profuso tra amici e nemici, volle servirsene a restaurare le istituzioni politiche dell’era agricola; onde la sua legislazione ben presto fu distrutta come una fragile struttura di canne, investita sulla spiaggia del mare da un gagliardo maestrale; e di lui rimase solo lo spavento di un personaggio nuovo nella storia di Roma, che i contemporanei credettero creato da Silla ed era una apparizione necessaria dell’êra mercantile e della democrazia antica: il capo onnipotente per la forza dell’oro e del ferro di una soldatesca addomesticata con il danaro.

Così finiva questa età tempestosa, cominciata con l’assassinio dei Gracchi; nella quale tra tante rovine si era compito un evento immenso: era sprofondata nel passato l’antica Italia osca, sabellica, umbra, latina, etrusca, greca, gallica. La nazione italiana esisteva, là dove prima era una moltitudine di repubblichette federali; esisteva una agricoltura, un commercio, un costume, una milizia, una cultura italiana, comune ormai a un medio ceto formato da tutte le popolazioni dell’Italia, che l’ambizione di ingrandire con gli studi i traffici e le armi la propria potenza e ricchezza, aveva rimescolate e rifuse.

VI.
LE PRIME PROVE DI CAIO GIULIO CESARE.

Perdonato da Silla, Caio Giulio Cesare, quel giovane di cui abbiam già raccontata la rischiosa avventura e lo scampo, come tutti i giovani di ricca e nobile famiglia che hanno fatto una grossa pazzia, cambiò aria; andò, al seguito del propretore Marco Minucio Termo, all’assedio di Mitilene, l’ultima città ribelle che ancora non si era arresa; e da Mitilene fece un viaggio in Bitinia, mandato da Termo in missione diplomatica a domandar navi, per finire l’assedio, al vecchio re di Bitinia. Sarà vero, come affermarono più tardi i suoi nemici, che nel palazzo di Nicomede, lontano da Roma e dai suoi, il giovane fu traviato per i più riposti e infami cubicoli di quella corte del vizio?276 È possibile, ma non certo; certo è invece che egli fece più viaggi alla corte di Nicomede277, sinchè nel 78, quando il proconsole della Cilicia, Publio Servilio, incominciò una guerra contro i pirati della Licia e della Panfilia, si recò da lui, per accompagnarlo in questa guerra. Ma la lontananza dall’Italia gli era dolorosa; e poco dopo, appena saputo che Silla era morto, tornò a Roma278.

Tornando, egli trovava diffusa nell’aria di Roma, come un veleno volatile, quella diffidenza, mescolata di odio e paura, che le oligarchie vittoriose di una rivoluzione popolare spandono intorno a sè. Silla aveva ridotto tutto lo Stato, i comizi il Senato le magistrature i comandi i tribunali, in potere di una consorteria composta di amici, sgherri e carnefici suoi arricchitisi con le confische; di transfughi del partito mariano; di quasi tutto l’antico partito aristocratico, ormai devoto a lui per gratitudine, per interesse o per paura; di antichi conservatori illuminati, divenuti, dopo la rivoluzione, reazionari intransigenti; di indifferenti sempre pronti a servire chi possiede il potere. Ma appena morto Silla, gli avanzi del partito popolare avevano ripreso coraggio279; e nientemeno che uno dei consoli dell’anno, Marco Emilio Lepido, si era improvvisato capo dei popolari, proponendo il ristabilimento delle frumentazioni280 il richiamo degli esuli281, la restituzione dei diritti elettorali282 e delle terre alle città a cui erano state tolte283. Lepido era di famiglia nobile e ricca; possedeva la più elegante e sontuosa palazzina che fosse a Roma284; era stato sin allora conservatore e aveva accresciuto il suo patrimonio comprando beni di proscritti285; ma irritato perchè Silla aveva cercato di impedirne l’elezione a console, fantastico, di molta ambizione e di poco giudizio, leggero e violento, era passato a un tratto al partito popolare. Se la rivoluzione è come il terremoto, che chi l’ha sentito una volta, sbigottisce, temendo che ritorni, a ogni tremito insolito; lo spavento di una nuova agitazione popolare doveva essere tanto più grande nella consorteria dominante perchè molti dei suoi membri avevan commesse rapine e delitti abominevoli durante la reazione; e perchè mancava in Roma un esercito a sicura disposizione dell’autorità. Il Senato, infatti, intimorito, aveva mostrato di accogliere la domanda delle frumentazioni e del ritorno degli esuli, per contrastare invece con energia maggiore alle altre proposte, sopratutto a quella di restituire le terre286. Ma l’agitazione di Lepido aveva fatto fermentare spiriti di rivolta in tutta Italia; in Etruria, intorno a Fiesole, molti possidenti spogliati da Silla, che vivevano di mendicità e di rapina, avevano scacciati con le armi i nuovi padroni dai loro antichi beni287; gli animi si erano irritati, e in Senato alcuni, con a capo l’altro console Quinto Lutazio Catulo, un aristocratico di gran lignaggio e di grandissima autorità tra i conservatori288, avevano proposto misure energiche considerando questa sommossa come una sobillazione di Lepido. Ma il Senato non aveva osato approvarle sopra semplici sospetti289; e aveva pensato piuttosto di allontanare Lepido da Roma, affrettando, con vari pretesti, ancor prima delle elezioni dei successori, la partenza dei due consoli per le provincie che, a quanto sembra, erano già state assegnate: la Gallia Narbonese a Lepido, l’Italia a Catulo290. Si era dato loro anche molto denaro, per l’amministrazione delle provincie; dopo averli fatti giurare di non combattere l’uno contro l’altro.

Giulio Cesare, tornando a Roma in mezzo a questo fermento, dovè trovare fronti arcigne, accoglienze fredde, diffidenza astiosa nella consorteria dominante; non dimentica ancora delle sue parentele e della sua rivolta contro Silla, e adombrata da questo improvviso ritorno. Invece liete accoglienze gli furon fatte dai superstiti del partito mariano, che già preparavano una rivolta. Lepido aveva preso il denaro del Senato ed era partito; ma giunto in Etruria si era fermato ad arruolare apertamente i miserabili della Toscana e delle altre parti d’Italia, mentre al nord un altro nobile, Marco Giunio Bruto291, che, compromesso nella rivoluzione e risparmiato da Silla forse per riguardi di parentele, si era tenuto nascosto durante la reazione, incominciava, certo d’accordo con Lepido, a reclutare un esercito tra i disperati della valle del Po292. A Roma, molti erano consapevoli del disegno e si accingevano a raggiungere o ad aiutare in vari modi i due capi della rivoluzione; tra questi Cinna, il cognato di Cesare, che cercò di persuadere Cesare a seguirlo293. Ma Cesare rifiutò. Con gli anni e con la esperienza, la avventurosa impetuosità del giovane, che aveva rischiata la testa per amore della sua donna, si temperava; e incominciava ad acquistar vigore uno degli istinti essenziali del suo temperamento: la prudenza.

Ma poichè la guerra era scoppiata, la diffidente consorteria, che sospettava un ribelle in ogni generale, doveva mandare due uomini sicuri contro Lepido e Bruto. Uno era Catulo; ma l’altro? Il giovane più ambizioso, impaziente, inframmettente del partito di Silla era allora Gneo Pompeo; che non esercitava nessuna magistratura; ma che, nato nel 106 di una grande ricca famiglia, si era segnalato giovanissimo al comando di un esercito nelle guerre combattute da Silla al ritorno in Italia contro il partito popolare e aveva sposata una nipote del dittatore294; onde credeva di poter tutto chiedere ed ottenere. Nella perplessità in cui si trovava il Senato, gli intrighi suoi per ottenere un comando nella guerra riuscirono; il Senato si fidò di lui e violando la costituzione gli diede un esercito, per combattere Bruto. Mentre Lepido cercava di prendere Roma, difesa da Catulo e da Appio Claudio, nominato interrege, ai quali il Senato alla fine aveva dati pieni poteri295, al nord Bruto, vinto e chiuso in Modena da Pompeo, si arrendeva a condizione di aver salva la vita, ma era poi dal vincitore slealmente messo a morte296; e periva, lasciando in Roma una bella vedovella di nome Servilia e un figlioletto di poco più che un anno297, che portava il suo nome. In seguito alla sconfitta di Bruto, e forse anche per le perdite sofferte nei ripetuti e inutili assalti contro Roma, Lepido dovè ritrarsi a nord; ma sconfitto a Cosa in Etruria, si imbarcò con gli avanzi dell’esercito per la Sardegna, dove combattè con poca fortuna contro il governatore Caio Valerio Triario298, sinchè fu ucciso dal cruccio della propria rovina, dalla scoperta della infedeltà della moglie, dai disagi. Gli avanzi del suo esercito furono portati in Spagna, a Sertorio, da un ufficiale, di nome Perpenna.

Cesare aveva avuto fortuna e giudizio a non cimentarsi nell’impresa. Ma egli era ambizioso e impaziente di far del rumore intorno a sè.... Egli era nato in una famiglia di nobiltà antica, ma decaduta e imbastardita; nella quale nessuno, risalendo sei generazioni, era stato più che pretore; che si era imparentata con parvenus come Mario e aveva cercate amicizie e parentele nella borghesia capitalista, riuscendo così a non precipitare in rovina, ma non ad arricchire299. Cesare, infatti, poteva vivere con decorosa larghezza grazie soltanto alla saggezza di sua madre Aurelia, nobile modello dell’antica matrona romana300. Bisognava adunque che egli si segnalasse; e sentendosi più ardito ai cimenti di parola che nei moti rivoluzionari, accusò nel 77 due personaggi potenti: prima Cornelio Dolabella, amico di Silla ed ex governatore della Macedonia; poi un altro generale di Silla, Caio Antonio Ibrida, per i guasti fatti in Grecia durante la guerra. La reazione conservatrice, sopravvenuta come ultima calamità dopo una lenta e lunga decomposizione sociale e dopo una rivoluzione, aveva, non ostante le leggi penali e le intenzioni riformatrici di Silla, accresciuta la perversità degli uomini in tutte le classi, specialmente nelle alte; e passato il primo furore delle vendette e dei saccheggi, continuava nello sfrenato abuso del potere che facevano i vincitori della rivoluzione popolare. Ridotti al silenzio i tribuni della plebe, la cui piena potenza equivaleva nella democrazia romana alla libertà di stampa nei regimi contemporanei; disperso il partito popolare e impaurito il medio ceto, il popolo, i finanzieri che ne erano stati la forza, vinto facilmente il tentativo di Lepido, la consorteria sillana dominava senza quasi contrasto; e in essa naturalmente, come sempre nelle consorterie tornate al potere dopo aver vinto una rivoluzione popolare, gli uomini malvagi ed energici prevalevano sui timidi onesti, perchè sapevano o spaventarli o ingannarli, secondo il bisogno. Dappertutto la prepotenza e la corruzione facevan violenza e insultavano sfacciatamente la onestà impotente e la debolezza: a Roma i questori, giovani leggeri i più, ambiziosi e scettici, per non affaticarsi a capire i conti faragginosi dell’erario lasciavano fare gli scribae o impiegati permanenti della finanza, pagavano somme dovute su ordini falsi di pagamento, lasciavano rubare in tutti i modi il denaro pubblico301; uomini violenti, cupidi, senza scrupoli, spesso infamatisi nelle repressioni di Silla, come Caio Verre, Gneo Dolabella, Publio Cetego, e tanti altri di simil conio, erano facilmente eletti alle magistrature e disponevano di grande autorità in Senato, tra i molti e indolenti nobili che ne facevano parte; nella Gallia Narbonese, i finanzieri facevano dai governatori corrotti usurpare con frodi e violenze le terre dei popoli liberi confinanti per averle in affitto per quasi nulla302; nelle provincie i governatori della consorteria commettevano spesso orribili crudeltà e rapine, che non erano mai punite; perchè i tribunali senatorî ricostituiti da Silla funzionavano ancor peggio che quelli dei cavalieri, tanto era facile, a ogni uomo ricco e potente, farsi assolvere, intrigando e pagando303. La materia e le occasioni di accuse meritorie non mancavano davvero.

Ma l’impazienza aveva spinto avanti Cesare in un momento poco propizio, quando passato lo spavento di Lepido, ne incominciava un altro e maggiore: che la rivoluzione proletaria ridivampasse in tutto l’impero, dall’Asia alla Spagna. Sertorio, il piccolo possidente di Norcia che la madre aveva mandato a studiare per farlo avvocato, ed era diventato poi un guerriero, riprendeva ora, in Spagna, in modo impensato da tutti, la difesa suprema di una causa che tutti consideravan perduta: e conquistata quasi la intera penisola, costruito un arsenale, organizzato un esercito, creata una scuola per farvi educare latinamente i figli della nobiltà spagnuola, accolti i profughi del partito mariano e scelto tra costoro un Senato, infliggeva in guerra regolare disfatte su disfatte a Metello Pio. All’altro angolo del mondo Mitridate, il quale non aveva potuto far mettere per iscritto, dal Senato di Roma, il trattato di Dardano, si preparava con straordinaria alacrità a una nuova guerra; forniva denaro e si intendeva di nascosto con i pirati, cresciuti di numero e di audacia nel Mediterraneo durante il disordine della rivoluzione; accumulava provvigioni, fabbricava armi; e, persuaso ormai dall’esperienza che un piccolo ma valido esercito valesse più che gli sterminati eserciti orientali, difficili a nutrirsi, lenti a muoversi, nei quali il numero era più di ingombro che d’utile, tentava di ordinare con l’aiuto di molti Italiani passati al suo servizio, un esercito più piccolo alla romana304. Molti si inquietavano, a Roma, vedendo il tempo segnar minaccia, proprio come nell’89: la guerra civile in casa, Mitridate in armi, i pirati sempre più numerosi e audaci; molti sospettavano che attraverso il mare, tra Spagna e Ponto, corressero intese305. In mezzo a queste ansietà le accuse contro personaggi potenti anche giuste, ricordando gli scandali di cui i tribuni democratici avevano tanto abusato, erano facilmente ritorte dai bricconi contro gli accusatori, denunciando costoro come sovvertitori e rivoluzionari, mentre gli onesti osavano ancora solo in segreto di compiacersi per le persecuzioni dei ribaldi potenti. Difatti i due accusati, non ostante la eloquenza dell’intraprendente giovinotto, furono assolti; e Cesare dopo questi processi fu guardato ancor più di mal’occhio dai grandi, come il petulante e pericoloso nipote di Mario306. Cesare capì di aver commessa una imprudenza, si scoraggì; e partì per ritornare in Oriente, a Rodi questa volta, la città di moda tra i ricchi giovani di Roma che volevano perfezionarsi nella eloquenza, sognando imprese e gesta con cui farsi ammirare a Roma, come Pompeo. Costui era tornato dalla guerra contro Bruto ancor più glorioso, ambizioso e sicuro di sè, che non fosse partito; e non contento degli onori già ricevuti aveva tenuto l’esercito sotto le armi nella vicinanza di Roma, tanto intrigando, per esser mandato in Spagna al soccorso di Metello contro Sertorio, finchè il debole Senato, temendo una sedizione dell’esercito, aveva acconsentito, sebbene Pompeo non fosse ancora stato eletto a nessuna magistratura307. A Cesare invece capitò subito nel viaggio un’avventura spiacevole: i pirati lo catturarono e lo tennero prigioniero a bordo 50 giorni, sinchè la parte del suo seguito, mandata a cercare in Asia il denaro del riscatto, non fu ritornata. Era una fastidiosa disdetta, che doveva far ridere molti a Roma; ma l’ambizioso giovane, umiliato e stizzito, cercò di consolarsene, scrivendo a Roma, quando fu libero, una storia probabilmente molto esagerata di bravate che egli avrebbe compiuto in mezzo ai pirati: che li aveva trattati come i suoi servitori, obbligati ad ascoltare la lettura dei suoi scritti, sgridandoli se non stavano attenti, e perfino minacciandoli di farli tutti impiccare se lo liberavano; che poi liberato aveva armato qualche vascello, e data loro la caccia ne aveva impiccati parecchi308. A ogni modo a Rodi si mise quetamente a studiare e sul serio, per prepararsi, egli non sapeva bene, nella vaghezza generica delle sue ambizioni, a quale destino; mentre dintorno a lui, a insaputa di lui e di tutti, il mondo si rinnovava, a mano a mano che la generazione di Mario e di Silla spariva, e si faceva avanti la generazione nuova dei nati intorno al 100 a. C. La pavida saggezza degli uomini si era, ancora una volta, ingannata! Le calamità di quegli anni terribili, che parevano doverla rovinare per sempre, si volsero invece alla fine in una fortuna magnifica dell’Italia; che per il predominio politico, militare e finanziario di cui già godeva nel Mediterraneo potè rifarsi a usura sull’impero e specialmente sulla Grecia e sull’Asia delle perdite subite nella rivoluzione. La espansione diplomatica, militare, commerciale, finanziaria dell’Italia nel Mediterraneo era stata seguita da un rapido accrescimento e da una larga diffusione di desideri e ambizioni signorili in tutte le classi della società italiana, che a sua volta aveva incitato a maggiori espansioni; cosicchè in Italia ormai il maggior numero voleva vivere, non più poveramente e umilmente, lavorando alla terra o alle arti e contentandosi di una ricompensa meschina; ma signorilmente, sul reddito di capitali collocati a frutto, sul lavoro degli schiavi impiegati nell’agricoltura o nel commercio, su traffici lucrosi, in mezzo alla abbondanza di subiti e grossi, se pur rischiosi guadagni. Per questa cagione l’Italia cercava da un secolo di impadronirsi in tutte le parti dell’impero, con la guerra il commercio e l’usura, delle terre, dei capitali, degli uomini, di tutti i beni insomma che potessero servire a soddisfare le sue signorili ambizioni; ma negli ultimi trent’anni i desideri eran cresciuti nelle moltitudini italiche più rapidamente che i mezzi per soddisfarli; e ne era nata una crisi terribile; il brigantaggio e la pirateria avevano devastato e devastavano l’impero; tante fortune erano state distrutte, e tanti Italiani periti nella guerra sociale, nella guerra civile, nelle guerre mitridatiche. Certo, questa distruzione di uomini e di fortune sarebbe stata una calamità mortale per un popolo soggetto e tributario, povero di capitali e di schiavi, che avesse dovuto coltivare la propria terra e fabbricare da sè gli altri oggetti necessari alla vita, perchè esso avrebbe perduta troppa parte del poco capitale e degli uomini necessari a mantenerlo. Ma l’Italia, pur perdendo molto in quella crisi, aveva salvato l’impero e ricomposta alla meglio la pace interna; si era liberata, con le stragi e le guerre degli anni terribili, di molti spostati e aveva diminuito il numero dei concorrenti a’ profitti di questo sfruttamento, onde in molte famiglie decimate dalla rivoluzione, i superstiti si trovarono più ricchi, al tornare della pace; aveva per di più potuto, come nazione sovrana, decretare e applicare nell’86 la riduzione di tre parti su quattro dei propri debiti, e alleggerire molti patrimoni da gravi debiti, compensando così a tanti, con danno di pochi, le perdite delle guerre civili; aveva potuto, nel tempo stesso, far pagare in parte le spese della propria rivoluzione all’Asia e alla Grecia. Silla aveva confiscate in Grecia molte terre di città e di templi, affittandole a capitalisti italiani; aveva portati dall’Oriente molti schiavi; aveva versati all’erario gli avanzi della preda asiatica, 15 000 libbre di oro e 115 000 libbre di argento309, che oggi varrebbero circa 20 milioni di lire, e che allora valevano molto di più: ma se si potessero conoscere e aggiungere a queste le somme date da lui ai soldati in Asia e che questi portarono in Italia, le somme spese in Italia per corrompere i soldati dell’esercito rivoluzionario, le somme che tenne per sè o diede agli amici, si giungerebbe forse a una somma totale quattro o cinque volte maggiore. Inoltre l’Italia aveva ricostituito in luogo dell’antica e disfatta milizia nazionale un discreto esercito di mercenari con cui ricominciare le fruttuose conquiste.

Roma infatti già riprendeva, sia pur timidamente, il suo fatal cammino verso il dominio mondiale, interrotto dalla rivoluzione. Aveva – è vero – rifiutato nell’81 addirittura l’Egitto, lasciato in eredità al Senato dal re Alessandro II, accontentandosi di prendere i denari del re depositati in Tiro310; ma si era volta invece verso le barbare nazioni traciche che imbaldanzite dall’indebolimento di Roma molestavano la Macedonia, e contro i pirati che erano stati di tanto aiuto a Mitridate nell’ultima guerra. Mentre Publio Servilio incominciava la sua campagna contro gli Isauri, nel 78, Appio Claudio, proconsole di Macedonia, aveva fatto una spedizione in Tracia verso i monti di Rodope; di lì a poco nel 75 Gaio Scribonio Curione, governatore della Macedonia, in una spedizione contro i Dardani, doveva giungere sino al Danubio; e una breve guerra in Dalmazia finiva con la conquista di Salona. Erano guerricciuole; ma fruttavano preda di metalli preziosi e di schiavi all’Italia; e, insieme con la guerra di Spagna, con le guarnigioni che si tenevano in Oriente, recavano molto sollievo alla popolazione più misera dell’Italia, che si arrolava per vivere. Ma il più inaspettato e meraviglioso scampo da quella tempesta fu per l’Italia il predominio finanziario, definitivamente acquistato nel mondo mediterraneo, per effetto della terribile crisi. L’Italia abbondava di capitale, perchè, non ostante le profusioni e le dispersioni degli ultimi decenni, una parte almeno dei metalli preziosi scavati o rubati per il mondo era restata in paese, sia pure in possesso di pochi; perchè molti capitali erano stati portati da Silla e dai suoi soldati, molti rapiti, in Italia stessa, dal sonno dei templi, in mezzo al pandemonio della rivoluzione. Invece molti paesi si trovarono, finita la rivoluzione, in gran penuria di denaro; specialmente la Grecia e l’Asia, dove le devastazioni della lunga guerra, le requisizioni militari, le enormi contribuzioni imposte da Silla costrinsero privati e città a contrarre debiti a interessi onerosissimi311, dai quali non fu più possibile di liberarsi per quanto l’Asia in special modo, industriosa ed esportatrice, traesse a sè instancabile da tutte le parti del mondo i metalli preziosi in cambio delle sue merci, e li accumulasse in tesori nei templi, nelle case private, nelle reggie dei sovrani. Gli Italiani, tra i quali le attitudini al commercio usurario si erano tanto perfezionate e diffuse nella ultima generazione, non furono tardi a cogliere le occasioni di lucro che si offrivano; molti si recarono nella Gallia Narbonese, dove le contribuzioni per l’esercito combattente in Spagna contro Sertorio costringevano privati e città a indebitarsi312; specialmente in Oriente la espansione finanziaria dell’imperialismo crebbe rapidamente: Efeso divenne un gran mercato di capitali italiani, dove i privati e le città dell’Asia cercavano prestiti; le compagnie dei finanzieri italiani si moltiplicarono in Grecia e in Asia; un gran numero di mercanti, messo insieme un capitaletto, emigrarono alla spicciolata dall’Italia in Grecia e in Asia, fecero rifiorire Delo, così maltrattata da Mitridate313; si stabilirono in tutte le piccole città: a Patrasso314, ad Argo315, in Elide316, in Laconia317, a Teno318, a Mitilene319, ad Asso320, a Lampsaco321, in Bitinia322; e probabilmente, oltre che esercitare l’usura, si impadronirono in parte del commercio locale e di esportazione, in luogo dei molti mercanti indigeni che la guerra e le esazioni avevano rovinati. Tra gli altri un giovane, figlio di un ricchissimo appaltatore di Roma, Tito Pomponio Attico, andato dopo la riconquista di Silla ad Atene per studiare, aveva trovato nella Grecia devastata e impoverita un campo fruttuoso all’impiego dei suoi capitali e il modo di accrescere stando in Atene il suo sapere e la sua fortuna, facendo nello stesso tempo lo scolaro e il banchiere323. A poco a poco, in Asia e in Grecia, le città e i privati erano costretti a cedere ai loro creditori gli edifici pubblici, le riserve metalliche, le opere d’arte, gli schiavi, le suppellettili preziose, le case, le terre migliori; gli avanzi dell’impero di Pericle, le ultime spoglie delle conquiste di Alessandro, il patrimonio di civiltà accumulato da tante generazioni sotto il regno degli Attalidi, e fino gli uomini passavano in possesso dei finanzieri italiani; ai quali i padri, quando non restava altra ricchezza, vendevano i figli e le figlie, sinchè alla fine essi stessi, spesso, erano fatti schiavi324.

Ma questo sfruttamento intensivo dell’Oriente, incominciato dopo la riconquista, non trasportava soltanto la ricchezza dell’Oriente in Italia, ma compieva definitivamente il rivolgimento di civiltà incominciato in Italia da un secolo e mezzo. Nell’Oriente erano i paesi di civiltà più antica, le sedi delle arti delle industrie della agricoltura più perfette, i professionisti gli artigiani e i contadini più abili del mondo antico, che lavoravano per i ricchi di tutti i paesi mediterranei; onde non solo tra i beni materiali acquistati con le usure, ma anche tra i numerosi schiavi catturati da Silla durante la guerra d’Oriente e venduti ai mercanti italiani325, tra quelli comprati dopo in Asia dai finanzieri o rubati dai pirati e tutti portati in Italia, abbondava la materia di pregio: abili agricoltori, tintori, tessitori, profumieri, cuochi, scultori, pittori, fabbri, cesellatori, musici, ingegneri, architetti, letterati, grammatici; uomini e donne dallo spirito fine e duttile che, se non sapevano, imparavano facilmente ogni arte lecita e illecita. L’Italia era stata preparata, dalla lenta introduzione della civiltà greco-orientale, a riceverne una subita rapida universale invasione; onde appena gli schiavi e i lussi dell’Asia divennero a buon mercato; quando le famiglie arricchite nella guerra civile si disposero a godere nella pace della fortuna non importa come acquistata; allorchè nelle famiglie impoverite e decimate i superstiti ebbero, più rapidamente che non credevano, per trovarsi in meno, ricostituita un poco la loro fortuna e sentito il beneficio della riduzione dei debiti; il vivere si perfezionò velocemente in tutte le classi, e le ricchezze delle conquiste non furono più consumate solo nel lusso barbarico e per la soddisfazione degli appetiti più animaleschi; ma in misura sempre maggiore a raffinare i costumi, a perfezionare la cultura, a migliorare la agricoltura, e soddisfare una viziosità più elegante. Mentre Giulio Cesare studiava a Rodi, si formava rapidamente a Roma una high-life italica, un mondo mondano di cui facevano parte finanzieri coltissimi e alieni dalla politica, come Tito Pomponio Attico; milionari datisi, come Pompeo e Crasso, alla politica per ambizione; giovani di antiche famiglie nobili riarricchite nella rivoluzione, come Lucio Domizio Enobarbo326 e giovani di ricche o agiate famiglie dei municipi, che splendidamente educati erano venuti a Roma per far vita mondana o per acquistare gloria con l’eloquenza le magistrature e la guerra, come Cicerone, come Varrone, come Caio Ottavio, figlio di un ricco usuraio di Velletri327; avvocati come Ortensio, celebri per la eloquenza e le lucrose difese degli illustri governatori accusati di concussione; uomini di studio, come Valerio Catone, e Cornelio Nepote; etère dei paesi di Oriente salite in grande riputazione di bellezza e contese dai ricchi giovani alla moda; sapienti di Grecia e di Asia, accolti nelle grandi case di Roma; signore emancipate, politicanti, dotte di greco e di filosofia. In questa high-life, composta di uomini così diversi per attitudini, ognuno comunicava agli altri la propria passione più forte: gli uomini di studio, il gusto della cultura ai finanzieri e ai politici; i gaudenti, la cupidità dei piaceri ai letterati e agli uomini d’affari; i finanzieri, lo spirito di speculazione, se non sempre la abilità, ai gaudenti ai guerrieri agli statisti; e a poco a poco tutte le passioni rinfocolandosi per contagio e il commercio dell’Asia provvedendo la materia e gli schiavi maestri di nuovi lussi, il tenor di vita diveniva più dispendioso, raffinato e di impegno. Ognuno doveva ormai possedere ville in campagna e nei luoghi di bagnature che incominciavano a divenire di moda, come Baia328; possedere molti schiavi, di cui ciascuno avesse un ufficio proprio329; non solo i servi di casa, i portatori di lettiga330 e di lampada per la notte331, ma musici332, segretari333, bibliotecari, copisti334, medici335; usare oggetti fabbricatigli tutti in casa dagli schiavi336, salve le cose rare di gran lusso portate da lontani paesi; possedere opere di arte greca: mense delfiche, vasi corinzi, tazze, candelabri, puteali scolpiti, statue, pitture, bronzi. Quasi tutti i ricchi finanzieri e senatori abbandonavano uno dopo l’altro le semplici e anguste case in cui erano nati, e si fabbricavano palazzi ancor più vasti e sontuosi che quello di Lepido, pieni di imitazioni greco-asiatiche, con sale di ricevimento e di conversazione, con biblioteca, con palestra, con bagno, con ornamenti di stucchi e pitture murali337. L’uso di corrisponder per lettera, il bisogno di scrivere agli amici e l’impazienza di riceverne risposta si divulgavano, costringendo ogni persona elegante a mandare continuamente schiavi nelle parti più lontane dell’impero; la curiosità di aver pronte notizie di tutto ciò che succedeva nell’impero e a Roma diventava comune; frequenti erano gli inviti a pranzo e in villa e obbligatorî ormai gli splendori di una ospitalità generosa sino alla profusione; si cominciava a viaggiare, per non scomparire, non più con un piccolo seguito, ma con molti schiavi338. Cresceva il lusso dei funerali e la profusione dei profumi rari sui roghi; si spandeva la moda dei sepolcri gentilizi monumentali, eretti all’ammirazione del pubblico sulle grandi vie dell’Italia339; crescevano le foggie e gli adornamenti del vestito, il lusso delle argenterie, la varietà e il caro delle stoffe340; si formava tra i ricchi di Roma e d’Italia il codice convenzionale dell’eleganza, quella tirannica fisima di perfezione formale di cui le classi ricche divengono sempre più schiave a mano a mano che la civiltà progredisce, sino a perdere in essa il senso della serietà e della realtà della vita; con grande scandalo dei pochi che ancora ammiravano la ruvida schiettezza degli antichi costumi. Vecchi quasi tutti, costoro; tolto un giovane di nobile e ricca famiglia, discendente di Catone il Censore: Marco Porcio Catone, che protestava a modo suo contro l’obbligo dell’eleganza a cui si volevano sottoporre i giovani del suo ceto, uscendo di tempo in tempo senza sandali e senza tunica, per avvezzarsi – egli diceva – a non arrossire che delle cose vergognose davvero e non per convenzione341.

Anche i bisogni spirituali aumentavano; e nelle alte classi dell’Italia si diffondeva quel magnifico fervore intellettuale, si accendeva quella sete ardente di sapere che è il segno delle grandi età della storia. Nessun giovane colto, la cui famiglia fosse agiata, poteva dispensarsi dall’andare per qualche anno in Grecia o in Oriente agli studi, a seguire i corsi di qualche retore e filosofo celebre, come allora faceva Cesare; tutti imparavano a recitare discorsi, a scrivere versi e prosa; tutti volevano possedere una farraginosa cultura enciclopedica e leggere libri di ogni argomento: retorica, estetica, storia, geografia, agronomia, strategica, tattica, poliorcetica, filosofia, medicina. Sopratutto ridivenne popolare la enciclopedia di Aristotile342, portata in Italia da Silla, e che era stata così poco ammirata dagli specialisti i quali, nei due secoli precedenti avevano, per il puro diletto di investigare il vero, studiato nella solitudine discreta dei vasti musei mantenuti dai re dell’Oriente, chi l’astronomia, chi la matematica, chi la storia letteraria o le scienze naturali; in parte per l’universale appetito di godimenti che scaldava le alte classi dell’Italia; in parte perchè, dovendo queste reggere un vasto impero ingranditosi a caso e oltre ogni previsione per l’accozzamento successivo di parti diverse, molti dovevano a volta a volta essere guerrieri, statisti, oratori, giudici, finanzieri, ordinatori di feste e di lavori pubblici, ammiragli, agricoltori, ambasciatori presso barbari o presso sovrani dell’Oriente, e perciò aveano bisogno di possedere non questa o quella scienza, ma una larga e solida cultura generale, che servisse a far loro capir presto ogni cosa. Aristotile, il filosofo degli imperi in fondazione, il maestro di Alessandro prima, e degli Arabi poi, offriva ai fondatori dell’impero italico una enciclopedia vasta, bene ordinata, semplicemente e lucidamente scritta, ricca di fatti e di quelle idee generali che, anche imperfette, sono così necessarie a chi deve avventurarsi nell’ignoto dell’immenso avvenire, perchè gli segnano una direzione nella confusione delle cose mutevoli e gli impediscono di mutar cammino a ogni contradizione passeggera degli avvenimenti.

Questo aumento del lusso e dei bisogni in Italia non solo promuoveva il commercio con l’Oriente e quindi accresceva i lucri delle usure in Grecia e in Asia; ma incitava la voglia di spendere e il desiderio di guadagnare in tutte le classi. Lo spirito di risparmio veniva meno e lo spirito di speculazione si diffondeva rapidamente nei ceti superiori, confondendo sino a un certo segno la classe dei grandi finanzieri e dei grandi proprietari, le vecchie famiglie aristocratiche e i parvenus milionari, la nobiltà di spada e di toga e la nobiltà del denaro in una unica classe di affaristi enciclopedici e di cercatori di profitti, nella quale il vecchio antagonismo tra la borghesia finanziaria e la nobiltà latifondista doveva affievolirsi.... Incominciava allora in Italia quella febbre di rinnovamenti e progressi agricoli che doveva, nei cinquanta anni seguenti, compiere la mirabile trasformazione delle culture, intrapresa nei cinquanta anni precedenti343. La agricoltura a schiavi prevalse definitivamente nella maggior parte della penisola344; i piccoli proprietari che coltivavano con le braccia loro e dei figli il podere si ridussero a un piccolo numero, nelle alte vallate; i braccianti liberi furono usati pochissimo345, perchè gli Italiani non volevano più esercitare mestieri così faticosi e così poco lucrosi; tutti i possidenti grandi e medi comprarono schiavi ma scegliendoli con una cura ignota agli antichi mirando ad avere, tra i rozzi schiavi atti alle fatiche più dure e chiusi nei tetri ergastula, fattori e coltivatori più intelligenti, meglio trattati e capaci di perfezionare le culture e di accrescere il guadagno346. Rodi era allora il mercato mondiale del vino347; la Grecia, le isole dell’Egeo, l’Asia minore, erano la Borgogna e la Sciampagna del mondo antico, i paesi da cui la divina bevanda dionisiaca era esportata nei paesi dove la vigna non maturava, o dove i ricchi sdegnavano di bevere il rozzo vino paesano; tra le torme di schiavi orientali che Silla aveva venduto all’Italia, che i pirati, i pubblicani e i mercanti italiani rubavano o compravano in Asia e spedivano in Italia, erano molti agricoltori che conoscevano i più raffinati segreti dell’arte di coltivare la vigna e l’uliveto, di fabbricare il vino e l’olio. Finanzieri arricchiti con gli appalti delle gabelle, con le forniture militari, con le usure asiatiche; possidenti provvisti di capitali; nobili di antico lignaggio capirono che si poteva tentare di togliere all’Asia e alla Grecia il ricco primato delle vendemmie, tanto più che il consumo del vino e dell’olio cresceva in Italia; compravano schiavi orientali; facevano piantare da questi larghe vigne e uliveti nelle regioni acconcie348, vicine al mare o aperte da strade: come nella pianura romagnola intorno a Faenza349, e in Sicilia350. Le fattorie furono costruite con maggior cura, in modo che gli schiavi vi potessero abitare e lavorare meglio351. Anche la pastorizia vagante, la speculazione preferita dalla nobiltà romana nel secolo antecedente, ed esercitata allora con aristocratica noncuranza, quando l’ager publicus abbondava, si perfezionava in quegli anni, per necessità, a mano a mano che il suolo rincarava e la vita si faceva più dispendiosa in Italia; si sceglievano, per farli capi dei pastori, schiavi di una certa intelligenza e istruzione, si badava più alla razza, agli incroci, al nutrimento, all’igiene degli armenti352; molti la esercitavano fuori d’Italia in regioni più spopolate e più barbare, come Attico, che aveva comprato vaste terre in Epiro e vi pasceva immense mandre353; molti tentavano in Italia l’allevamento razionale dei cavalli e degli asini. Pare anzi che certe razze asinine dell’Italia incominciassero intorno a questo tempo ad essere molto migliorate nel territorio di Rieti354. Governatori e ufficiali, nei paesi dell’impero in cui viaggiavano per ragioni di guerra o di governo, osservavano le coltivazioni, le piante, gli animali, gli armenti e il modo di tenerli; interrogavano, acquistavano nozioni utili355. Moltissimi, anche i nobili, si davano a speculazioni finanziarie: cercavano per mezzo di sensali e agenti d’affari di prestar denaro, ad alto interesse, specialmente in Asia; deponevano dei capitali presso i banchieri di Roma o di Efeso, perchè li facessero fruttare; acquistavano partes o particulae – carature e azioni, diremmo noi – delle società di pubblicani che appaltavano i demani, le gabelle, le forniture dell’impero356. Altri aprivano fornaci in cui si scoprissero sedimenti di argilla da mattoni, o costruivano in Roma case d’affittare per il medio ceto e il popolino, che cresceva ogni anno. Molti anche speculavano sugli schiavi orientali abili in quelle arti di lusso, i cui prodotti erano consumati in misura sempre maggiore; compravano architetti, grammatici, medici, capimastri, stuccatori per affittarli a chi ne avesse bisogno; o li liberavano, a condizione che avrebbero pagata una parte dei guadagni professionali all’antico padrone....

Le alte classi dell’Italia incominciavano insomma ad allargare da Roma, sull’impero, come una tela, un vasto sistema di molteplici profitti con cui provvedere ai bisogni di un vivere più signorile e più ampio; naturalmente imitato dalla media borghesia delle città minori dell’Italia, dal popolino dei piccolissimi possidenti, degli artigiani emigrati dall’Oriente, dei liberti di ogni nazione, dei miserabili rovinati dalla guerra civile. A Roma le stesse alte classi fomentavano nel popolino la passione dei divertimenti e la ghiottoneria, aumentando proprio in quegli anni lo splendore delle feste che i candidati e i magistrati davano al popolo e la sontuosità dei banchetti357, nei quali il popolo incominciava a gustare il buon vino, i tordi, i polli, le oche e perfino i pavoni358. Nelle piccole città e nelle campagne d’Italia, i soldati di Silla, ritornati ricchi dall’Oriente, erano diventati, tra il medio ceto rustico e cittadino, maestri dei vizi e dei lussi imparati in Oriente, di ubriachezza, di dissolutezza, di fastosa ostentazione dei metalli preziosi359; e incitavano con il loro esempio le speranze, le ambizioni, gli istinti avventurosi, lo spirito mercantile dei giovani. Gli uni, i più poveri, si arruolavano per lontane spedizioni; altri che avevano qualche capitaletto tentavano uno dei molti traffici di cui con il crescere dei consumi nelle alte classi si offriva la occasione, o cercavano di aver qualche appalto360; altri infine, che avevano ereditato un campicello, si ingegnavano, spiando l’esempio del vicino e ricco possidente, di comprar qualche schiavo, di seminar solo il grano necessario al nutrimento proprio e degli schiavi, e di piantar nella rimanente terra viti, ulivi, alberi da frutta, fiori per le api, per ricavare dalla vendita di queste derrate di lusso e di vasto commercio una rendita in denaro361; i più non volevano aver molti figli, e qualcuno anche si disponeva a sostenere gravi spese per farli studiare compiacendosi nella speranza che sarebbero diventati, non contadini come i loro padri, ma uomini insigni a Roma362. Alla sua volta questo cresciuto consumo popolare aumentava le speculazioni lucrose dei ricchi capitalisti e dei nobili, alcuni dei quali tentavano il piccolo commercio per mezzo di schiavi o di liberti, aprendo, come si faceva dai ricchi signori di Firenze sino a pochi decenni sono, nei loro palazzi una bottega e facendo vendere in quella le derrate dei propri fondi da un commesso, che era sempre uno schiavo o un liberto. La prosperità così ritornava per i superstiti decimati dalla terribile età delle civili guerre; lo spirito mercantile si spandeva ancor più che nella generazione precedente; i prezzi delle cose, il valore delle terre e del lavoro aumentavano; ricominciava per l’Italia una di quelle età felici di rapido accrescimento delle ricchezze in cui le occasioni di lucro nascono le une dalle altre e si moltiplicano con velocità progressiva. Alle catastrofi della rivoluzione seguiva un rapido e meraviglioso rinascimento, e uno sforzo più universale e intenso che quello della generazione precedente per la conquista della ricchezza, della cultura, della potenza, del piacere; speculando, trafficando, studiando si consolidava quella borghesia italica, composta di ricchi e medi possidenti, di ricchi e medi mercanti, di uomini colti e di politicanti ambiziosi, nati da famiglie di ogni parte d’Italia, che si veniva formando da mezzo secolo e che avrebbe ben presto governato l’impero, in luogo della vecchia aristocrazia romana ormai quasi interamente disfatta. Intanto Giulio Cesare indugiava a Rodi tra gli studi di eloquenza e di filosofia363.

VII.
I FINANZIERI ITALIANI ALLA CONQUISTA
DELL’ORIENTE.

Riserbo che nasceva non, come suppongono gli ammiratori troppo ardenti di Cesare, da una preveggenza del futuro quasi profetica, ma da un istinto di moderazione e di prudenza insito nel suo carattere appassionato e nervoso. Tra gli avanzi del partito di suo zio esasperati e macchinanti rivoluzioni, e la consorteria dominante, feroce nell’abusare del potere presente, egli non poteva che astenersi, aspettando. E infatti lo spirito pubblico mutava. Con la prosperità, la diffusione della cultura, il raffinamento del vivere, la mescolanza delle razze, l’aumento dei bisogni e dei godimenti; con i progressi insomma della civiltà si compieva il definitivo rivolgimento, incominciato da un secolo, del carattere romano, che, fermo, paziente, duro, quando l’Italia era ancora una nazione di contadini con poche idee e pochi bisogni, diventava eccitabile, nervoso, squilibrato, oscillante nella contradizione perenne tra l’egoismo, inferocito dalla sete dei piaceri e la sensitività morale, acuita dalla cultura e dal benessere; tra la vigliaccheria, la suscettività morbosa dell’amor proprio, l’orgoglio, i pochi scrupoli, i facili accessi di crudeltà nervosa nella lotta per la ricchezza la potenza e il piacere, che diventavan comuni in tutte le classi; e i sentimenti del patriotismo, della giustizia, della pietà sentiti intensamente, ogni qualvolta le ricchezze, le ambizioni, le voluttà proprie non fossero minacciate. È questa del resto l’incoerenza di tutte le società, come la nostra, molto ricche, voluttuose, cólte e civili, nelle quali sono pochi i freni allo sforzo dei singoli per la conquista della ricchezza, del potere e del godimento; e quei pochi sono appena tollerati. Le classi medie italiane che, nella generazione precedente, avevano fatta la rivoluzione, si pacificavano, diventavano patriottiche, legalitarie, amiche dell’ordine, a mano a mano che nella crescente prosperità piantavano uliveti e vigne, si fabbricavano ville e casette, compravano schiavi, mettevan da parte qualche gruzzolo, e si servivano dei diritti acquistati con la rivoluzione. In parte per il ravvedimento civico che segue sempre al miglioramento delle condizioni economiche, in parte per paura della reazione, in parte per l’intervento di una generazione più giovane e più fiduciosa, in parte per l’influsso della cultura e della civiltà crescenti, la classe media abbandonava gli ultimi rivoluzionari: Lepido prima, Sertorio allora; i vecchi dimenticavano e i giovani ignoravano i servigi resi alla loro classe dalla rivoluzione; i molti profughi della generazione precedente, che per la miseria o per le persecuzioni erano passati a servire Mitridate, e l’ultimo eroe superstite del partito mariano, che ancor turbava dalla Spagna la letizia della nuova prosperità, erano odiati come traditori364. Ma nel tempo stesso tutta Italia detestava il governo della consorteria sillana. Una aristocrazia non può signoreggiare in una nazione solo con il potere politico, se non è tanto più ricca e più colta che il ceto medio, da mantener questo nella sua dipendenza, con la beneficenza, la protezione, la spontanea ammirazione del povero verso chi possiede immense ricchezze la cui origine impura si perde ormai nel passato; sopratutto se non protegge la classe colta che sempre si forma nel ceto medio. Ma l’aristocrazia romana d’allora, se aveva riconquistato per un caso il potere, in parte era rovinata, in parte si era rifatta, a vista di tutti, per mezzo di maritaggi con i ricchi finanzieri, di eredità carpite e di rapine commesse nella guerra civile; e non poteva conservare il potere se non con l’aiuto di molti avventurieri spregevoli; mentre fuori, esclusa dal potere, stava un’alta borghesia di finanzieri molto più ricca e malcontenta per le persecuzioni e le umiliazioni sofferte da Silla; un ceto medio di agiati possidenti, di mercanti, di appaltatori, di giovani colti che, spregiati e non protetti dalle poche famiglie nobili e ricche, costretti a farsi largo nel mondo da sè, orgogliosi per la propria agiatezza o cultura, erano agitati da spirito di opposizione contro il governo aristocratico. Di più, in un tempo in cui le ambizioni e le cupidigie si diffondevano, e la sensitività morale si acuiva, questo governo di consorteria così chiuso, questo regime disordinato e corrotto cui gli orribili ricordi della reazione accrescevan l’infamia, repugnava a molti, anche nella nobiltà, anche nella consorteria. In fine, quasi non bastassero a corrucciare tutta Italia gli abusi dei governatori, la corruzione dei tribunali senatori, le odiose camorre delle elezioni e delle legationes liberae (così si chiamava il diritto di viaggiare gratis, di ottenere dalle provincie alloggio e mezzi di trasporto per sè e per il seguito, senza pagare, concesso dal Senato ai senatori che per affari privati andassero nelle provincie), la consorteria dominante trascurava i più vitali interessi pubblici in maniera vergognosa; lasciava Mitridate preparar la rivincita, i pirati catturare i cittadini romani, Sertorio stravincere in Spagna: anzi molti senatori che non avevano potuto impedire l’invio di Pompeo, ma che erano invidiosi di tanto onore concesso ad un giovane, cercavano di rovinargli l’impresa, impedendo che il Senato votasse i fondi necessari; cosicchè Pompeo aveva dovuto metter mano alla borsa e anticipare del suo i denari per pagare i soldati e le provviste365. Per tanti scandali e a mano a mano che la paura della reazione svaniva, la memoria di Silla e le sue repressioni venivano in odio; in tutte le classi, anche nella nobiltà, si ritornava ad ammirar Mario, il riorganizzatore dell’esercito, l’uomo figurativo della democrazia vittoriosa, il vincitore dei Cimbri366; si diffondeva il disgusto per le malversazioni, le iniquità, le corruzioni di tanti membri della consorteria dominante, sopratutto per la partigianeria e la corruttela dei tribunali dei senatori; rinasceva il desiderio della antica libertà di parola e si dimenticavano i torti dei tribuni della plebe per ricordar solo le loro accuse temute dai ribaldi potenti367; tutti gli anni qualche tribuno più audace, come Lucio Sicinio nel 76, Quinto Opimio nel 75, assalivano la costituzione di Silla, eccitando il popolo sopratutto all’odio e al disprezzo dei tribunali aristocratici368. Nel 75 riuscì infatti al console Caio Aurelio Cotta, zio di Cesare, di far abolire la disposizione di Silla, per cui un tribuno della plebe non poteva essere più eletto a nessuna altra carica369. Tutte le classi si accendevano di passione per tutte le cose belle; per la giustizia, per la libertà, per la democrazia, per il lusso, per l’arte, per la letteratura, per il piacere, per i subiti guadagni della speculazione e per la gloria imperiale....

Ne seguì ben presto un mutamento della politica estera e interna, mentre Cesare era ancora a Rodi. Verso la fine dell’anno 75 o al principio dell’anno 74370 il maligno despota della Bitinia moriva, lasciando il regno e i sudditi in eredità ai Romani, con il solo scopo di travagliare, anche morto, Mitridate e Roma, facendoli azzuffare intorno alla sua tomba. Mitridate non poteva infatti lasciar occupare la Bitinia dai romani senza perdere ogni prestigio in Oriente; ma il Senato romano, che pavido e inerte, aveva più volte, negli ultimi anni, rifiutato di accettare eredità consimili, avrebbe accettata la pericolosa eredità? Le incertezze però furono questa volta sopraffatte dallo slancio della pubblica opinione. La Bitinia, dove i finanzieri italiani già sotto il regno di Nicomede avevano avviato affari371, in cui era un vasto demanio reale di campi, di stagni pescosi, di miniere372 che dopo l’annessione sarebbe stato affittato a capitalisti italiani, insieme con le gabelle delle doviziose città greche e dei porti373, era una preda troppo agognata dal capitalismo italiano, che con il diffondersi delle abitudini di speculazione acquistava vigore; la fiducia rinasceva; il patriotismo si esaltava; si disse comunemente che una guerra con Mitridate era inevitabile374; onde, costretto dall’opinione pubblica, il Senato annette la Bitinia, senz’altro, dichiarando spurio il figlio di Nicomede; subito si formò a Roma una compagnia per l’appalto dei beni della corona di Bitinia375; e incominciarono gli intrighi per disputarsi il comando di questa guerra che si prevedeva lucrosa e gloriosa.

Era console in quell’anno un uomo di una famiglia illustre e malfamata: Lucio Licinio Lucullo. Suo padre era stato sospettato di essersi lasciato corrompere dagli schiavi insorti in Sicilia, nel 102; sua madre, sorella di Metello il Numidico, era accusata di menar vita dissolutissima; suo nonno, console, era stato sospettato di un furto di statue; suo bisnonno, edile, era stato accusato di prevaricazione376. Tuttavia è possibile che queste accuse fossero in parte invenzioni o almeno esagerazioni della maldicenza che aveva infuriato durante la rivoluzione; ed è certo che la famiglia, non ostante la sua nobiltà, era povera; e che Lucio, come il suo fratello minore Marco, se si toglie la splendida cultura letteraria ricevuta, era cresciuto in una famiglia nobile romana di antico stampo: in una casa disadorna, con abitudini semplicissime, contraendo sin da fanciullo l’orgoglio di casta e i principî conservatori, tradizionali nella nobiltà ed esaltati in molti, durante la sua fanciullezza, dall’insolenza della borghesia denarosa e dalla minaccia della rivoluzione popolare. Seguace, come la parte migliore della nobiltà povera, del partito di Rutilio Rufo; nemico della demagogia e del capitalismo; eccellente scrittore di greco e di latino, bravo oratore e appassionato ellenista, aristocratico nell’animo, retto però e generoso, Lucullo era stato, come vedemmo, ufficiale di Silla nella guerra d’Oriente, con grande onore; aveva combattuta con energia e a viso aperto la rivoluzione proletaria, ma benchè povero non aveva preso parte al saccheggio delle fortune dei vinti, e aveva sposato una donna senza dote, ma di razza purissima, una Clodia, figlia di Appio Claudio, console nel 79; aveva poi, dopo la fine della guerra civile, ottenuto la pretura nel 77, il governo dell’Africa nel 76 governando onestamente, il consolato nel 74377. Aveva insomma primeggiato come uno dei personaggi più cospicui della consorteria sillana, ma rappresentandoci almeno con sincerità, in mezzo a tanti avventurieri e criminali, una cosa degna di rispetto: la schietta tradizione aristocratica dei tempi antichi; e ambizioso, intelligente, onesto, ma orgoglioso, appassionato, di poco equilibrio, facile a esagerare nei giudizi e a prorompere nelle azioni, aveva focosamente combattuto, per sincero spirito aristocratico, i tentativi di rovesciare la costituzione di Silla, ed era allora in gran zuffa con il tribuno popolare di quell’anno, Lucio Quinzio; ma nel tempo stesso maltrattava senza riguardi la parte più corrotta della consorteria dominante; la nobiltà bisognosa e viziosa, gli avventurieri. Sopratutto aveva avuto acerbe diatribe con uno degli uomini più infami e potenti della consorteria: Publio Cetego, che, partigiano prima e poi transfuga del partito mariano, si era arricchito con le proscrizioni, ed era allora odiato da tutti in segreto ma riverito e temuto, come sono sempre nei tempi di reazione conservatrice i ribaldi potenti378. Appena si cominciò a parlare a Roma della probabile guerra con Mitridate, le ambizioni del console, che già aveva combattuto sotto Silla contro Mitridate nella prima guerra e perciò pensava di aver maggior diritto di ogni altro a comandar questa, presero fuoco; ma disgraziatamente nel sorteggio delle provincie gli era già toccata la Gallia Cisalpina, e i concorrenti al comando furono ben presto parecchi: il suo collega Cotta; Marco Antonio, figlio del grande oratore e pretore dell’anno innanzi; forse anche Pompeo, che dalla Spagna, adirato perchè il Senato non gli assegnava i fondi necessari a proseguire la guerra e stanco di pagar del suo (aveva speso quasi tutto il suo patrimonio), minacciava di venire a Roma con le legioni379. La morte sopravvenuta allora di Lucio Ottavio, che governava la Cilicia, gli fece concepire il disegno di cambiare la Gallia con la Cilicia, il cui governatore avrebbe certamente avuto la missione di invadere attraverso la Cappadocia il Ponto380; perchè tutti pensavano a Roma che si sarebbe comodamente portata la guerra nel territorio nemico e distrutto alla fine il suo regno. Ma questo scambio di governi non era facile, perchè Lucullo era nel tempo stesso poco amato dalla parte popolare e in urto con la parte più criminosa e potente della consorteria sillana; il tempo stringeva; le ambizioni erano molte: con subitanea veemenza l’appassionato console gettò via in un baleno l’orgoglio aristocratico e la rigidezza; e con meraviglia di tutti si piegò carponi, strisciò, si divincolò per sgusciare attraverso le strette di un complicato intrigo. Come sempre, le donne avevano conservato nella società italiana più a lungo i costumi, le idee e i sentimenti del tempo antico; e molte vivevano ancora, nelle famiglie nobili, come la madre di Cesare, semplicemente e onestamente, conservando perfino la primitiva pronuncia latina, che gli uomini guastavano fuori nelle taverne, nei trivi, nel fôro, tra il cicaleccio della feccia cosmopolita che pullulava a Roma. Ma già apparivano le quattro corruzioni e perversioni di cui è cagione, nel mondo muliebre, il mutamento di una rozza ma disciplinata società rustica e aristocratica, in una civiltà mercantile, ricca, colta e voluttuosa: la prostituzione aristocratica, ossia la venalità delle nobildonne che si acconciano a diventare amanti di un ricco che paga il lusso; la potenza delle donne intelligenti e corrotte, sugli uomini indeboliti dai godimenti e disposti a pregiar più nella donna la viziosità piacente che la onestà noiosa; la caccia alla dote e la tirannia della moglie ricca sul marito bisognoso; il femminismo, cioè lo sforzo delle donne nelle alte classi di mascolinizzarsi, di studiare, di speculare, di cavalcare, di giocare, di far politica come gli uomini. Una delle signore che rappresentavano a Roma in quei tempi la “donna nuova” era l’amante di Cetego, una certa Precia, intelligente, corrotta, abile, che per mezzo dei suoi illustri amanti, e specialmente di Cetego, disponeva di un gran potere. Lucullo si piegò a farle la corte, insieme con Antonio e probabilmente con gli altri concorrenti; le mandò doni, complimenti, preghiere nel tempo stesso in cui si rappacificava con Quinzio, pagandolo profumatamente381. Precia si lasciò commuover dalle premure di questo fiero tra tutti gli aristocratici di Roma; e tanto fece che rappacificò Cetego con lui. Ciò che donna vuole....

Ma il caso aiutò la bella intrigante e i suoi adoratori e protetti. Mitridate da un pezzo si apparecchiava a un nuovo scontro con Roma. Aveva infatti preparato armi, accumulato grano e denaro; aveva mantenuto buone relazioni con i barbari della Tracia e con le città greche del Mar Nero occidentale, come Apollonia, Odessa, Tomi; aveva conchiusa l’intesa con i pirati; e per mezzo di due antichi ufficiali di Fimbria fuggiti a lui dopo l’uccisione del loro generale, Lucio Fannio e Lucio Magio, una alleanza con Sertorio accettandone le condizioni: l’Asia resterebbe romana, la Bitinia, la Paflagonia, la Cappadocia sarebbero di Mitridate; che fornirebbe a Sertorio 4000 talenti e 40 navi, e riceverebbe da lui un generale, Marco Mario382. Ma la morte e il testamento di Nicomede indussere il rischioso sovrano a romper gli indugi e ad affrettare l’inevitabile in un momento propizio. Inopinatamente, nella primavera del 74383, quando a Roma si discuteva ancora comodamente chi comanderebbe la guerra di là da venire, Mitridate mosse il suo esercito di 120 000 uomini e 16 000 cavalli384; una parte ne mandò, forse al comando di Tassilo ed Ermocrate, a invadere la Bitinia, fugandosi innanzi i finanzieri e i mercanti italiani stabiliti nelle città della Bitinia, che si rifugiarono a Calcedonia; con l’altra, al comando di Marco Mario e suo, invase l’Asia, non però come l’altra volta in proprio nome e quale conquistatore, bensì come alleato di Sertorio e al seguito di Marco Mario, che entrava nelle città con le insegne di proconsole e in nome di Sertorio le liberava, e condonava parte dei debiti385; lanciò infine piccole colonne volanti di cavalleria, al comando di Eumaco386, di Fannio e di Metrofane387 in varie direzioni, attraverso la grande Frigia, verso la Cilicia e gli Isauri del Tauro, recentemente domati, a sollevare contro Roma le popolazioni388. Egli ritentava la sua vecchia politica: scatenare in Oriente contro Roma la rivoluzione democratica e proletaria. E il successo, se non fu così grande come la prima volta, fu però, almeno in principio, considerevole: in Asia diverse città minori sul mar di Marmara, in cui il popolo non era dominato da un potente ceto di denarosi mercanti, come Pario, Lampsaco, Priapo, si arresero a Marco Mario389, non però la ricca Cizico, dove le alte classi parteggiavano per Roma contro il monarca rivoluzionario e l’alleato dei pirati: in Bitinia, tutte le città, spaventate dalla invasione dei capitalisti romani, si dichiararono per Mitridate, tolta Calcedonia, che probabilmente fu mantenuta in rispetto dai residenti romani. Il timore di una nuova rivoluzione proletaria si diffuse in tutta l’Asia, dove erano due sole legioni, quelle antiche di Fimbria lasciate da Silla, al comando di un semplice propretore, mentre le due di Cilicia, per la morte del proconsole, erano senza generale; le città fedeli provvidero alla meglio da loro alla propria difesa, e Cesare, in cui la smania di far parlare di sè era stata acuita dallo scoppio di questa grossa guerra, si esaltò, interruppe gli studi a Rodi, e raccolse una piccola milizia per tenere a freno le città della Caria390; rompendo interamente con gli avanzi del partito di suo zio, dichiarandosi legalitario e partigiano del nuovo imperialismo che voleva sopratutto restaurare e ingrandire il prestigio di Roma.

Questa improvvisa invasione, spaventosa ai romani sopratutto per il ricordo della precedente, fece sparire d’un tratto a Roma ogni avversione a provvedimenti straordinari. Nessuno riflettè che il pericolo era questa volta molto minore; tutti dissero che non si poteva, in simile frangente, lasciar l’Asia a un propretore con due legioni, e la Cilicia senza governatore fino all’anno prossimo; Lucullo, per le prove già fatte nella guerra precedente, fu universalmente riconosciuto come l’uomo necessario. La abile Precia potè accomodar tutto e accontentar tutti; Pompeo ebbe i fondi per continuare la guerra contro Sertorio; Antonio il comando della flotta e di tutta la costa, con l’incarico di combattere i pirati e di conquistar Creta loro principale fortezza; Cotta ebbe l’incarico di difendere la Bitinia e il Mar di Marmara; Lucullo il proconsolato della Cilicia, e la missione, con le due legioni di Cilicia, con le due di Asia e con una di coscritti reclutati in Italia, di scacciar Mitridate dall’Asia391: grazioso capolavoro di diplomazia da alcova, ed enorme sproposito militare, perchè divideva fra tre generali le operazioni della guerra, senza dare a nessuno il comando supremo. A ogni modo i due consoli doverono affrettar la partenza; e partirono probabilmente verso la fine della primavera o il principio dell’estate: Cotta, raccolta tra gli alleati una flotta, andò a Calcedonia, per vedere se da questa città ancora in possesso dei romani potesse tentare di riconquistar la Bitinia; mentre Lucullo sbarcato in Asia con la legione di coscritti, ridisciplinava le due vecchie legioni di Fimbria, faceva venire le due di Cilicia, cercava con qualche misura di alleviare il disagio delle città asiatiche, e preparava sollecitamente l’avanzata contro l’esercito di Mitridate, che gli scarsi progressi della rivoluzione, fermatasi a un tratto dopo il pronto principio, trattenevano al nord.

Sembra che Mitridate, saputo che Cotta andava a Calcedonia con una flotta, abbandonasse l’esercito d’Asia e si recasse a quello di Bitinia, per condurlo all’assedio di Calcedonia. Calcedonia era posta proprio sul Bosforo, di faccia a Bisanzio; e una flotta romana avrebbe da Calcedonia potuto molestare le navi pontiche che portavano dal Mar Nero nel Mar di Marmara il grano per l’esercito. Ma quando Mitridate fu giunto con l’esercito sin presso a Calcedonia, è facile immaginare che cosa successe nella città: intorno a Cotta, che sembra fosse uomo poco capace, fecero ressa i ricchi finanzieri rifugiati, impazienti di ritornare agli affari; e lo incitarono a far presto, a tentare un colpo ardito distruggendo Mitridate e liberando la Bitinia; Cotta cedè; ma tentata una battaglia, che finì con una grave disfatta per terra, e con la perdita di tutta la flotta392, dovè chiudersi in Calcedonia. Questo rovescio al principio della guerra era una disgrazia; ma lo compensava in parte la ristabilita unità di comando, poichè Lucullo che restava solo in campo, con i 30 000 uomini e i 2500 cavalli con cui si era avanzato allora sino al Sangario393, era ormai il solo arbitro e signore della guerra sul continente. Senza ascoltare coloro i quali consigliavano la subita invasione del Ponto, Lucullo continuò ad avanzare contro l’esercito pontico che operava in Asia, e al quale Mitridate, dopo la vittoria di Calcedonia, pare avesse fatto ritorno; ma profondamente impressionato dalla sorte di Cotta, incominciò la guerra con grande prudenza e trepidazione; cercò prima, quando fu in vicinanza di Mitridate, di aver sicure notizie sulle forze nemiche; e saputo quanto erano superiori alle sue, non volle rischiare una battaglia; raccolse da ogni parte e caricò quanto più grano potè sui muli e sui cavalli che le legioni si traevano dietro per il trasporto dei bagagli e delle tende, sui servi che le seguivano per aiutare i soldati nelle fatiche più grosse, restringendosi a seguire passo passo il nemico, senza accettar mai battaglia, chiudendosi sempre ogni sera nell’accampamento e cercando con subite irruzioni di cavalleria di rendergli difficili gli approvvigionamenti394. Gli sforzi di Mitridate per ordinare un esercito al modo romano erano riusciti soltanto in parte, come sempre avviene di simiglianti tentativi, perchè ogni esercito è parte organica della propria nazione: onde non ostante i molti italiani presi al proprio servizio e le riforme introdotte, Mitridate aveva dovuto, pur questa volta, scendere in campo con un esercito numeroso, eterogeneo, lento, che consumava molto e i cui approvvigionamenti divenivano più precari, difficili e imperfetti, a mano a mano che, avanzandosi nell’Asia, esso si allontanava dai porti del Ponto sul Mar Nero, dove le navi portavano il grano della Crimea. Il porto di Lampsaco pare non fosse di aiuto bastevole; e i convogli di grano per terra camminavan così lenti e arrivavano così irregolarmente, che spesse volte l’esercito non aveva grano che per tre o quattro giorni395. Perciò Lucullo potè in poco tempo, disturbando un servizio di approvvigionamento già così manchevole per sè stesso, recar tanta molestia al nemico, che Mitridate si vide costretto a ripiegare verso le sue grandi basi di rifornimento, i porti del Ponto sul Mar Nero, abbandonando la provincia d’Asia e la speranza di una vasta insurrezione degli Asiatici, riducendosi a difendersi nel suo paese, e confessandosi già vinto a metà. Ma l’orgoglioso monarca non si acconciò a questa ritirata; volle tentare ancora la fortuna e concepì il disegno di una ardita impresa: impadronirsi del maggior porto sul Mar di Marmara, Cizico; rianimare così il suo partito in Asia; scatenare dappertutto la rivoluzione; riprendere con vigore nella stessa provincia le operazioni contro Lucullo, possedendo un gran porto vicino, ove sbarcare larghe provviste del suo grano. Infatti una sera, levato chetamente il campo, mentre l’esercito di Lucullo dormiva vicino, con una marcia forzata giunse all’alba in vista di Cizico, per prenderla di sorpresa396. La sorpresa fallì, e Mitridate cinse la città di assedio, per terra e per mare; ma quando sopraggiunse Lucullo, egli non ebbe l’ardire di distaccargli contro una parte dell’esercito con cui assediava Cizico, per dargli battaglia; e si lasciò chiudere a sua volta con una vasta linea di fosse e di trincee in un nuovo assedio; sperando di prender Cizico con il tempo, e contando, se i Romani gli chiudevano le vie della terra, di poter sempre approvvigionarsi per mare. Incominciò allora un doppio assedio, nel quale le sorti della guerra dipesero dalla resistenza dei Ciziceni: se Cizico cadeva, Mitridate, padrone di una eccellente base di operazione, avrebbe potuto più facilmente ricacciar via Lucullo dall’Asia; se Cizico resisteva, Mitridate si sarebbe un giorno trovato in una stretta terribile, tra la città e Lucullo. Ma Lucullo riuscì a infonder coraggio ai Ciziceni avvertendoli della sua presenza; l’assedio si prolungò; Mitridate volle ostinarsi e si lasciò cogliere dall’inverno, le cui tempeste resero difficili gli approvvigionamenti; sinchè il pane e i foraggi mancarono, i cadaveri e le carogne insepolte appestarono l’aria; le epidemie infierirono397. Solo tra tutti il superbo monarca pontico, esasperato e così fuori di sè per il lungo e vano assedio, che i suoi generali non osavano rivelargli le condizioni dell’esercito, non vedeva e non sapeva nulla; e continuava a pensare di prender Cizico, quando i suoi soldati erano ridotti a mangiare i cadaveri398. Ma alla fine anche egli dovette sapere il vero; e allora, rassegnato all’inevitabile, tentò una fuga; per illudere il nemico avviò ad oriente, verso la Bitinia, la cavalleria, i somieri, gli uomini inutili, mentre egli si imbarcava, e avviava l’esercito ad occidente, verso Lampsaco, dove egli sarebbe venuto a prenderlo con la flotta. Lucullo infatti si slanciò con l’esercito, attraverso le pianure coperte di neve, dietro la cavalleria, che lentamente si ritirava; raggiunse il convoglio al passaggio del Rindaco, e lo distrusse, facendo una strage terribile, catturando 15 000 prigionieri, prendendo 9000 cavalli finissimi, un gran numero di bestie da soma e una preda immensa: poi, capito che il grosso dell’esercito doveva esser fuggito per altra parte, tornò rapidamente indietro. La fortuna lo aiutò: l’esercito di Mitridate, nel ritrarsi, era stato fermato da una piena sull’Edepo, dove egli lo raggiunse e lo distrusse. Pochi avanzi ne giunsero a Lampsaco, dove Mitridate li raccolse e imbarcò399. La Bitinia era conquistata, Calcedonia libera nei primi mesi del 73. La prima campagna terminava con una brillante vittoria del piccolo, buono ed agile esercito sull’esercito numeroso ed ingombrante, cui Mitridate aveva invano tentato di dare la snellezza e la forza romana. Era stato però di grande aiuto a Lucullo il contegno delle popolazioni asiatiche, tra le quali la rivoluzione questa volta si era propagata meno, perchè troppo recente era ancora la memoria dell’altra rivoluzione così miseramente terminata; troppo grande la vigilanza delle classi ricche e lo sconforto dei poveri.

VIII.
MARCO LICINIO CRASSO.

Frattanto, nell’anno 73 a. C., Cesare tornava a Roma. Come finisse la sua impresa contro Mitridate, noi non sappiamo; ma è probabile che egli fosse corso all’armi per un timore di rivoluzione immaginario, e che congedate ben presto, dopo l’arrivo di Lucullo in Asia, le sue schiere, deliberasse il ritorno, quando ebbe saputo di essere stato eletto pontefice in luogo dello zio Caio Aurelio Cotta, morto in Gallia400. A Roma, come se gli altri guai non bastassero, si aggiungevano allora a fomentare il malcontento pubblico anche le carestie che ricorrevano frequenti (quella dell’anno 75 era stata assai dura)401, perchè la popolazione cresceva, forse anche perchè, progredendo la coltivazione delle vigne e degli uliveti, la granicoltura in Italia si riduceva sempre più, in tutte le fattorie, a soddisfare i bisogni dei soli coltivatori; e i lamenti contro la trascuranza del governo erano tanti e così vivi, che in quell’anno i due consoli Caio Cassio Longino e Marco Terenzio Liciniano Varrone, il fratello minore di Lucullo adottato da Marco Terenzio Varrone, proposero, sebbene conservatori, una legge con la quale si aumentava il tributo di grano della Sicilia in questo modo: le città che erano già sottoposte alla decima avrebbero contribuita un’altra decima, che sarebbe stata loro pagata al prezzo di tre sesterzi il moggio; le città esenti da decima avrebbero dovuto mandare a Roma 800 000 moggia (circa 70 000 ettolitri) di grano, che sarebbero state pagate tre sesterzi e mezzi il moggio402. Così tra grano ceduto gratuitamente e grano dato a prezzo di favore la Sicilia avrebbe dovuto mandare a Roma ogni anno quasi 600 000 ettolitri403. Si sarebbero placati un poco gli incontentabili abitanti dell’Urbe? E invece incominciava in quell’anno uno spavento anche maggiore: una insurrezione di schiavi che, fuggiti sotto la guida di uno schiavo trace di nome Spartaco da una caserma di gladiatori di Capua, ingrossavano da piccola schiera quasi a vero esercito, e già avevano sconfitto qualche legione, reclutata in fretta. Le vittorie di Lucullo erano state cagione di gran gioia; ma Marco Antonio aveva miseramente fallito nell’impresa contro Creta, e dopo aver depredato un poco la Sicilia, si era fatto battere ignominiosamente dai pirati404: onde la gioia si mutò in spavento quando di lì a poco Mitridate, sconfitto in terra, ripigliò la guerra furiosamente sul mare mettendo a profitto le amicizie e le alleanze con le popolazioni e le città della Tracia405; e mentre i luogotenenti di Lucullo Caio Valerio Triario e Barba si avviavano a riconquistare le città della Bitinia ancora fedeli al re del Ponto, saccheggiava le coste del mar di Marmara, assediava Perinto, minacciava Bisanzio e inviava una parte della flotta, sotto il comando di Mario, nell’Egeo, a cercar rinforzi tra i pirati di Creta e della Spagna. Lo spavento in Italia fu grande: certo la flotta pontica dell’Egeo intendeva minacciare l’Italia; una flotta per difenderla mancava406; a questo bel modo il Senato e la consorteria di Silla provvedevano alla cosa pubblica! Il Senato deliberò che Marco Lucullo, console in quell’anno, facesse come proconsole una grande spedizione in Tracia per distruggere gli alleati di Mitridate407; votò precipitosamente 3000 talenti, perchè Lucullo costruisse una flotta, come se una flotta potesse farsi in un giorno; gli prolungò il comando di un anno; forse anche gli diede il governo della Bitinia, mettendo Cotta sotto i suoi ordini408, facendo così per forza ciò che avrebbe dovuto fare per saggezza sin da principio: affidare a uno solo il governo supremo della guerra, per terra e per mare.

Rinfocolata da questi eventi, la opposizione al governo della consorteria diventava universale in tutte le classi e in essa rinasceva il partito popolare, ma come un partito nuovo; non più rivoluzionario e composto di disperati, ma legalitario e composto della parte migliore delle medie e delle alte classi. Dappertutto si voleva un governo più giusto, più onesto e più energico, che non lasciasse lo Stato in balìa dei ladri, l’Italia in balìa degli schiavi ribellati, il mare in balìa dei corsari; e molte case signorili diventavano clubs di opposizione, dove anche i giovani delle famiglie nobili si infervoravano nell’entusiasmo delle nuove idee e nella aspettazione del prossimo mutamento: frequentata tra tutte la casa di Servilia, la giovane, spiritosa e intelligente vedova di quel Marco Giunio Bruto che era perito per mano di Pompeo nella rivoluzione del 78 e che, rimaritatasi con un nobile di sentimenti democratici, Decimo Giunio Silano, aveva aperta la casa a tutta la gioventù “moderna” delle alte classi409. Questa volta Cesare fu ricevuto volentieri non solo in casa di Servilia, ma anche in molte altre case, che gli erano state poco amiche al suo primo ritorno d’Oriente410; perchè aveva solo 27 anni411; perchè era bello, nobile, colto, eloquente; perchè l’aver osato ribellarsi a Silla e l’esser nipote di Mario diventavano meriti. Difatti ben presto fu eletto dal popolo tribunus militum, colonnello diremmo noi, comandante cioè di 1000 uomini in guerra; e incoraggiato da queste accoglienze incominciò ad aprirsi la via degli onori, cercando popolarità. Ma l’impresa non era facile. Dopo la concessione del suffragio agli Italiani, gli elettori erano cresciuti intorno a quei tempi, a 910 000412; ma siccome solo una parte aveva dimora permanente in Roma, e degli altri, che abitavano nelle città dell’Italia, era difficile sapere quanti si troverebbero a Roma ogni anno per le elezioni, già solo per questa cagione ogni elezione era una vicenda assai incerta. Ma più incerta ancora essa diventava per la composizione dell’elettorato. Una parte era plebe minuta: piccoli mercanti, artigiani, clienti e parassiti dei signori, funzionari dello Stato occupanti gli umili impieghi serbati agli uomini liberi, mendicanti, oziosi, spostati; e questa vendeva facilmente il voto; anzi il commercio dei voti era a poco a poco organizzato da uomini abili i quali reclutavano la marmaglia elettorale in clubs o collegia; ne accaparravano i voti con pranzi, con favori, con piccoli sussidi e vendevano poi a forfait i voti ai candidati con complicate cautele, che garantissero la fedele esecuzione dei contratti413. Invece gli agiati borghesi di Roma e di Italia, gli appaltatori, i mercanti, i possidenti, i liberti denarosi, gli uomini colti, i grandi capitalisti, che l’agiatezza, la potenza mondiale dell’Italia, la cultura, lo spirito dei tempi facevano orgogliosi e capricciosi, erano indotti a votare ora in un modo ora in un altro dai motivi più diversi: simpatie personali, riguardi per personaggi potenti, speranze o ambizioni proprie, contagio di entusiasmi o di odi passeggeri, pregiudizi popolari, dicerie false.... Il volubile vento del favore popolare si voltava, nei comizi, quasi di ora in ora; spesso per incidenti minimi, dalla sera alla mattina, le probabilità si invertivano; spesso le più lunghe preparazioni erano scompigliate da una audacia improvvisa; spesso all’ultimo momento le lunghe incertezze della lotta elettorale si risolvevano, per un subito rivolgimento degli spiriti, nella sorpresa di un resultato inaspettato da tutti414. Acquistar potere sopra un elettorato così vasto, eterogeneo e mobile, senza l’aiuto della consorteria dominante, non era facile; e Cesare ci si provò cominciando quei lavori forzati di propiziazione e di lusinga, a cui erano condannati gli uomini politici di Roma: alzarsi all’alba, ammettere subito tutti i seccatori di Roma e delle altri parti dell’Italia che venivano o soltanto a vedere l’uomo celebre di Roma, o più praticamente a domandare l’assistenza in un processo, un sussidio di denaro, un prestito, un appalto pubblico, una esenzione dalla milizia, una lettera di raccomandazione per qualche governatore di lontana provincia; scendere poi di buon mattino al fôro a difender cause, andare dai magistrati o in Senato o da qualche ricco banchiere a intercedere per questo o per quello; lasciarsi fermare nella via da ogni importuno; riconoscerlo con l’aiuto della propria memoria o con quella dello schiavo nomenclatore il cui ufficio era di riconoscere per nome il maggior numero di elettori e suggerire destramente il padrone, affinchè l’elettore potesse illudersi di essere conosciuto personalmente; avere per tutti una parola gentile, un complimento, una promessa sempre pronta; invitar tutte le sere gente a pranzo, assistere ai matrimoni, ai funerali, a tutte le feste di famiglia del maggior numero possibile di cittadini; brigare in tutte le elezioni per questo o per quel candidato; raccogliere e sussidiar regolarmente, tra il popolino di Roma, un certo numero di clienti, pronti a far da spie in mezzo al popolo, da galoppini nelle elezioni, da claque nei discorsi del fôro, da bravi in qualche baruffa.

Ma l’ora di Cesare era ancora lontana. Per il momento altri uomini grandeggiavano nella ammirazione del pubblico: Pompeo che in Spagna, sebbene lentamente e faticosamente, guadagnava terreno su Sertorio; Lucullo che, incoraggiato ed esaltato dal successo di Cizico, aveva in fretta raccolta una flotta tra gli alleati, e con quella si era messo alla caccia della flotta pontica nell’Egeo, assalendo e distruggendo una dopo l’altra le varie squadre, perseguitando con speciale accanimento i transfughi italiani e Marco Mario, che egli uccise in uno di questi scontri; mentre i suoi luogotenenti procedevano a ridurre le città bitiniche ancora in armi, facendo un gran bottino di schiavi e di oggetti415. Così verso la metà del 73 Lucullo aveva ridotto in suo potere, tranne Eraclea, tutte le città bitiniche; e costretto Mitridate a tornar nel suo regno per mare con gli avanzi dell’esercito condotto l’anno innanzi alla conquista della Bitinia: dopo di che, nel consiglio di guerra che Lucullo tenne nell’estate del 73 a Nicomedia, parecchi generali giudicarono si potesse riposare sino alla prossima primavera i soldati416. Ma Lucullo non volle riposo. Avveniva in lui un mutamento singolare. Questo uomo che già toccava quasi la cinquantina e che sino allora aveva mostrato tanta fierezza aristocratica, tanta semplicità di vita, tanto orgoglioso disdegno delle arti volgari dell’ambizione, facilmente si contradiceva e mutava, come tutti gli uomini intelligenti di temperamento appassionato, veemente, poco equilibrato, sotto impressioni dalle cose diverse, esagerando però a volta a volta in ogni mutamento e illudendo con queste appassionate esagerazioni coloro che lo credevano un magnifico esempio di carattere. Cresciuto nella nobiltà conservatrice, povera, nemica dei capitalisti e della demagogia, fedele al vecchio costume, egli era stato lunghi anni austerissimo, semplicissimo, nemicissimo del lusso, del denaro, di tutti gli usi nuovi, orgoglioso della sua povertà e del suo merito, spregiatore della vana arte di diventar celebre in mezzo al volgo abietto. A poco a poco però, a mano a mano che gli avanzi di questo vecchio mondo aristocratico sparivano; a mano a mano che la ricchezza, il lusso, la avidità dei piaceri, il desiderio delle ammirazioni popolari si divulgavano intorno a lui; dopochè ebbe visto Pompeo salir tanto alto per forza di popolarità e molti amici suoi diventati ricchi nella guerra civile sfoggiare, godersi tutti i piaceri del senso e dell’intelletto, egli aveva incominciato a mutarsi. Gli intrighi orditi per ottenere il comando della guerra erano stati il primo segno di questo mutamento, sino allora invisibile a tutti, e forse anche alla vista interiore dell’uomo che, senza saperlo, si rinnovava.... L’esaltazione del successo, l’immenso potere, la ricchezza e la grandezza di quel mondo orientale, di cui stava per diventare il signore, per conto di Roma, precipitarono il mutamento, alla fine; e dopo le vittorie di Cizico e dell’Egeo, Lucullo fu un altro uomo: ambiziosissimo, intrigante, cupido, che voleva farsi prolungare il comando per tanti anni quanti potesse, avere anche il governo dell’Asia e unire tutto l’Oriente sotto il suo impero; che pagava a Roma i capi del partito popolare affinchè non impedissero questi ingrandimenti di potere417; che dopo ogni battaglia, dopo ogni resa di città, dopo ogni saccheggio mandava a Roma, ai suoi amministratori, carichi immensi di monete, di metalli preziosi, di opere d’arte. Conveniva perciò a lui incominciare subito una nuova grande spedizione, a mezzo la quale fosse imprudente di richiamarlo; ed egoista, come tutti gli uomini geniali che invasati dal furore di fare misurano le forze altrui dalle proprie, non considerò nemmeno se le stanche milizie potessero tener dietro al nuovo slancio dell’immaginazione sua; ma deliberò di invadere subito il regno di Mitridate. Egli avrebbe puntato con tutto l’esercito su due porti, Amiso e Temiscira, con lo scopo di procurarsi una base di rifornimento per una lunga campagna nell’interno montuoso del Ponto, dove Mitridate si ritirava per preparare un nuovo esercito nel triangolo formato da Cabira, Amasia, Eupatoria, mentre aspettava l’esito delle richieste di aiuto fatte a suo genero Tigrane re di Armenia, a suo figlio Macare vicerè della Crimea, e agli Sciti418: intanto Cotta andrebbe ad assediare Eraclea; Triario aspetterebbe con 70 navi, nell’Ellesponto, le squadre pontiche di ritorno dalla Spagna e da Creta, ed egli stesso, sapendo come i regni si conquistano non solo con il ferro ma anche con l’oro, tenterebbe generali e alti funzionari di Mitridate con grandi promesse419. Difatti, dopo una marcia lunga e difficile attraverso la Bitinia e la Galazia, Lucullo si gettò con l’esercito nel Ponto indifeso, abbandonando il paese ricco, popoloso, pacifico da lungo tempo, ai soldati, i quali predarono bestiame, vettovaglie, oggetti, e fecero un’immensa razzia di schiavi, catturando ogni sorta di persone che capitasse in loro potere: uomini, donne; contadini, cittadini; ricchi, poveri. Coloro che potevano pagare un riscatto erano, come al solito, lasciati liberi; gli altri venduti ai mercanti italiani che seguivano l’esercito. Ben presto, nel campo romano uno schiavo non costò che quattro dramme, meno cioè di quattro franchi420; ma l’esercito, non ancora contento, si lagnava che il frettoloso generale desse appena il tempo, nella rapida marcia, di prendere qualche cosa, e che accettasse così spesso rese di città e di villaggi alla condizione di rispettare la proprietà421. Inutilmente però: Lucullo, troppo infervorato nel suo piano, appena badava a questi lamenti; e conduceva rapido le legioni sin sotto Amiso e Temiscira, che con una resistenza vigorosa obbligarono l’esercito romano a passar l’inverno del 73-72 nelle trincee.

Nella primavera del 72, la guerra ricominciò vigorosa nel Ponto, in Tracia, in Spagna, contro Mitridate e i suoi alleati. Lucullo, avendo saputo che il nuovo esercito di Mitridate era quasi pronto, e non volendo essere assalito sotto le mura delle due città, risolvè con savia arditezza di muovergli contro con una parte dell’esercito, mentre l’altra, sotto il comando del suo generale Lucio Licinio Murena, continuerebbe l’assedio; e con una marcia e una campagna che la difficoltà degli approvigionamenti resero difficile e pericolosa, con l’aiuto del tradimento di diversi generali pontici da lui corrotti, riuscì a infliggere una disfatta decisiva a Mitridate, che aveva perduto il suo migliore esercito l’anno prima nella invasione dell’Asia e della Bitinia, e non aveva ricevuto nessuno degli aiuti richiesti; a impadronirsi del suo campo e dei tesori che il re e i suoi generali avevano portati con loro; ma per arraffar i quali Mitridate fu lasciato, in mezzo al disordine della rotta, fuggire in Armenia, dopo aver dato ordine di uccidere tutte le donne del suo harem422. Nel tempo stesso il fratello di Lucullo, Marco, mandato proconsole in Macedonia, conquistava definitivamente la Tracia, oltre i Balcani, sino al Danubio423; faceva tagliare le mani a intere tribù per spaventare le altre424 e saccheggiava non solo i villaggi dei barbari, ma anche le belle e celebri città greche della costa425 amiche di Mitridate; mentre Pompeo in Spagna riusciva alla fine ad avviare la guerra al suo termine, non tanto per merito suo, quanto per opera di Perpenna che aveva ucciso Sertorio; e incominciava una guerra di devastazione e sterminio contro le città che avevano parteggiato per Sertorio o che avevano accolto i senatori suoi partigiani426. Invece in Italia Spartaco, sconfitti i due consoli dell’anno, scorrazzava vittorioso da un capo all’altro della penisola invano rincorso dalle legioni, e seguito da un nugolo di mercanti che poco patrioticamente gli vendevano il ferro e le altre materie necessarie a far le spade e gli strumenti da guerra427. Le alte classi e la borghesia benestante tremavano per le vigne e per gli uliveti piantati da poco che queste bande potevano saccheggiare; per le fattorie, le cui cantine ben provviste erano votate dagli insorti; per la fedeltà dei molti schiavi importati in Italia da poco tempo e da ogni dove, ancor memori della loro patria, non ancora acconciatisi alla nuova condizione e nei quali questa rivolta, effetto delle affrettate e soverchie importazioni di schiavi, aveva trovato certo il maggior numero di soldati. Che cosa faceva intanto questo Senato di concussionari e di ladri, capaci solo di derubare le provincie inermi? In quella generazione eccitabile e nervosa, tutto era contagioso, il coraggio come la vigliaccheria; e i soldati mandati a combattere Spartaco, gli ufficiali, tutto il mondo politico erano disanimati a tal segno, che nelle elezioni per il 71 i candidati scarseggiarono, tanto spaventava l’idea di avere un comando contro l’invincibile schiavo428. Il Senato capì che bisognava a qualunque costo trovare un uomo volenteroso e capace, che finisse la guerra; e lo trovò in un pretore di quell’anno, nel discendente di una grande famiglia, che noi abbiamo visto durante la reazione primeggiare tra i partigiani di Silla e partecipare al bottino della guerra civile: Marco Licinio Crasso. Crasso era un prediletto della fortuna, che della fortuna aveva ricevuti tutti i doni: discendenza illustre, ricca sostanza, pronte e facili occasioni di segnalarsi, splendida educazione, intelligenza versatile e avida di cultura, alacrità, perseveranza. Egli aveva già una bella riputazione militare, perchè durante la guerra civile aveva vinto, intervenendo a tempo, la battaglia della Porta Collina, una delle più importanti combattute da Silla e che Silla stava per perdere: era poi divenuto, per la parte presa nella repressione di Silla e per le ricchezze, un personaggio autorevole, così da essere, senza fatica, eletto nell’ordine legale a tutte le cariche fino a quella di pretore; si era dato con fortuna agli affari ed era ormai uno dei più potenti capitalisti di Roma; aveva aperta la sua casa ai sapienti orientali, studiato filosofia, esercitate felicemente le sue facoltà letterarie ed oratorie. Ricco, intelligente, celebre, potentissimo, Crasso avrebbe dovuto esser felice.... Eppure egli aveva un tormento: la gloria di Pompeo, quasi coetaneo suo e compagno d’armi nella guerra contro la rivoluzione. In mezzo a tante fortunate vicende Crasso si era persuaso di valere come generale quanto Pompeo e Lucullo, di essere pari a Cesare per eloquenza, di non dovere restar secondo a nessuno per onori, potenza e considerazione pubblica: ma la sua natura non era quella di un grande ambizioso, audace, esaltato, fantastico, prodigo; bensì quella di un banchiere sagace e tenace, come ce ne sono stati tanti nella generazione degli Ebrei che ora scompare: con pochi bisogni e senza vizi, di costumi rispettabili429, che amava la sua famiglia, che nella vita e negli affari spiegava uno straordinario spirito di ordine, uno zelo minuzioso e tenace in ogni impresa, tentata per poco o per molto; una sollecitudine a sfruttare, con prudenza e perseveranza, tutte le occasioni di vantaggio piccole e grandi. Così mentre Pompeo pareva ricevere gli onori e gli omaggi con una superba indolenza, senza, almeno in apparenza, degnarsi di sollecitarli, stando lontano, come gli fossero dovuti; egli, per accrescere il suo potere veniva prestando largamente denaro, senza interesse; difendeva tutte le cause che gli erano proposte, anche quelle di gente così abietta e vile che Cesare rifiutava; prodigava gentilezze e saluti e complimenti a ogni sorta di persone. Spirito non penetrante e geniale come Cesare, non veemente e passionato come Lucullo, non aristocratico e altero come Pompeo, ma ingegnoso, minuzioso e tenace, egli sapeva raggiungere i fini che si proponeva; non odiava a morte nè amava svisceratamente nessuno; non era crudele per diletto ma non aveva scrupoli di onestà, di casta o di alterigia; senza accorgersene, anzi illudendosi di essere generoso, cercava un vantaggio immediato con ogni suo atto; non era grandioso mai per istinto ma sempre per calcolo, e alternava atti splendidamente munifici con pitoccherie vergognose, secondo gli conveniva. Molti che avevano approfittato dei suoi larghi prestiti graziosi, credendoli prova di una sincera amicizia, si erano veduti poi domandare inesorabilmente la restituzione del capitale, se alla scadenza Crasso pensasse di non aver più bisogno del suo beneficato430. Eppure non ostante i molti prestiti, le moltissime cause difese, i saluti prodigati a ogni sorta di persone, la tenace continuazione di tanti piccoli sforzi per piacere, egli era meno ammirato di Pompeo, che con minor fatica aveva ricevuto onori ben maggiori dei suoi – sino un trionfo e un comando proconsolare prima di avere esercitato una magistratura: e questa fortuna del suo rivale bastava ad amareggiargli il godimento di tutti gli altri beni che possedeva.

A ogni modo, considerando il credito di questo largo dispensatore di prestiti graziosi e la sua reputazione militare, è facile capire come egli fosse scelto a comandante per la guerra contro Spartaco. Crasso, stimolato dalla gloria di Pompeo per le vittorie di Spagna, e sapendo che il vincitore degli schiavi sarebbe divenuto popolarissimo, accettò volentieri; e si mise all’opera subito con energia, cominciando, per vincere la vigliaccheria contagiosa dei soldati, con rinnovare un esempio di severità ormai da moltissimo tempo non più usato, facendo decimare le prime coorti che fuggirono davanti al nemico431; ma pur infliggendo al nemico alcune disfatte, non riuscì nemmeno egli a distruggerlo e a catturarne il capo; tanto che un momento si era quasi scoraggiato egli pure....432 L’esasperazione delle classi agiate dell’Italia cresceva; e il Senato alla fine si risolvè a chiamar Pompeo in Italia, incaricandolo di finire Spartaco433. Crasso, per non lasciarsi togliere l’onore di terminare la guerra, raddoppiò di celerità, di energia, di audacia; respinse le proposte di pace che Spartaco gli aveva fatte; si accanì a perseguitarlo.... Spartaco era un uomo di genio e aveva fatto miracoli; ma il suo esercito raccogliticcio ed eterogeneo non poteva resistere indefinitamente; le discordie, l’insubordinazione, le diserzioni aiutarono Crasso, che potè alla fine vincere una battaglia nella quale Spartaco morì434; mentre a Pompeo che ritornava dalla Spagna, restò ancora di disperdere una banda di 5000 fuggiaschi incontrata nelle Alpi435. La vendetta seguita alla vittoria fu terribile: 6000 schiavi presi vivi furono crocifissi lungo la via Appia436, a terrore dei loro compagni in cattività, a soddisfazione non solo della nobiltà sempre spietata contro i ribelli, ma del medio ceto, che incominciava a posseder schiavi; e che, disposto a sentimenti umani in ogni altra occasione, diventava feroce, quando era minacciato negli averi.

Intanto Lucullo che aveva passato l’inverno del 72-71 a Cabira, nel palazzo del profugo re437, adoperava il suo piccolo esercito alla conquista definitiva del Ponto, come fosse uno strumento inanimato, non un corpo vivo e senziente. Lucullo non era crudele, ma come tutti gli uomini appassionati e orgogliosi, tollerava con poca pazienza le opposizioni; e cadeva in uno stato di cecità e di estremo egoismo, quando era invasato da una idea o da un desiderio. Il potere assoluto di generale, la gloria dei successi, l’immensa vastità dei piani, che agitava nel suo spirito esaltato, le infinite cure del suo ufficio, l’ambizione e la cupidigia, tanto più intense perchè recenti, ne avevano allora accresciuto a dismisura la impazienza, l’orgoglio, la franchezza brutale, l’egoismo e la cecità. I soldati lamentavano che non venisse tra loro mai come un compagno a passar di tenda in tenda, a parlar loro amichevolmente, a lodarli, a incoraggiarli; che passasse sempre in fretta a cavallo con il seguito e solo per ragioni di servizio, accigliato, tacito, non avendo occhi e voce se non per scoprire mancanze, per punirle, per domandare un servizio più pericoloso e più duro, dopo l’altro; che donasse si qualche ricompensa sulle prede, ma con avarizia, come se temesse di guastarli: gli ufficiali, appartenenti i più a famiglie cospicue, si dolevano che egli li maltrattasse continuamente per la loro mollezza, lentezza, incapacità, senza riguardi nè di nomi nè di famiglie; che mandasse impazientemente ordini su ordini, aggiungesse incarico a incarico, come se fossero di ferro e non di carne, e non si stancassero anche essi; poi, per quanto facessero, non riescissero mai a contentarlo438. Eppure egli amava i suoi soldati e stimava molti dei suoi ufficiali; ma non si rappresentava più, nella fretta di pensare e di fare, il beneficio immenso che a certi momenti avrebbe recato una lode e una gentilezza; non si accorgeva con quanta incoerenza egli, che, preso ormai dal demone della ricchezza, mandava in Italia, ai suoi intendenti, carichi immensi di monete, di opere d’arte, di oggetti preziosi, volesse poi frenare la feroce avidità delle sue milizie, come se tutti i soldati non dovessero faticare che per la gloria sua. Così i soldati aspettavano allora che Lucullo espugnasse le piccole fortezze poste su alte rôcche munite, dove erano deposti i tesori della corte, i metalli preziosi, gli arredi, i gioielli439, abbandonando loro a compenso delle fatiche gli scrigni e le suppellettili del nemico di Roma: ma Lucullo, argomentando giustamente esser più savio impadronirsi prima davvero di tutto il Ponto e conquistarne le grandi città greche, Amasia, Amiso, Sinope, non badò, come al solito, al desiderio dei soldati; e ricevuta per denaro la dedizione di alcune fortezze, si trasse dietro le legioni scontente alla conquista delle belle e prosperose città, ultimi monumenti, sulle rive del Mar Nero, della potenza civilitrice della Grecia. La resistenza di queste fu lunga, perchè la dominazione romana, dopo il malgoverno del regno di Pergamo, era odiata e temuta da tutti i Greci di Asia; e prima della fine dei 71 solo Amiso cadde440. Ma fu una sera terribile, per Lucullo, quella in cui i suoi soldati, impadronitisi con un assalto improvviso della città, si sparsero muniti di fiaccole per le vie a massacrare e a rubare, e per la fretta appiccarono il fuoco a molte case. Lucullo, spirito generoso e raffinato dalla cultura, guerriero ammiratore dell’ellenismo, quando vide Amiso, la bella creatura di Atene, l’Atene del Ponto, prender fuoco, si gettò come un forsennato tra i soldati; tentò di fermarli, ricondurli alla ragione, riordinarli, far loro spegnere il fuoco, e impedire tanta violenza barbarica contro una opera così insigne di quella civiltà che egli adorava. Ma era troppo: il soldato, da lungo tempo malcontento del suo generale, perdè la pazienza: anche quando esso stava per ricompensarsi alla fine delle lunghe fatiche, a modo suo, bestialmente, sopra una città ricca, questo fastidioso generale trovava modo di molestarlo con assurde preghiere ! Lucullo, per poco non fu fatto a pezzi dalla soldatesca imbestialita; e dovè ritrarsi, lasciar piangendo la ferocia soldatesca prorompere sulla bella figlia di Atene: terribile simbolo di quella età in cui, mentre le più alte facoltà dello spirito si raffinavano nel desiderio e nel godimento dei beni più eletti della vita, gli istinti animali si esaltavano nella lotta dell’uomo contro l’uomo, per la conquista della ricchezza e del potere. Il generale filelleno non potè che liberare in seguito i sopravvissuti alla strage e darsi cura di far risorgere la città dalle ceneri441.

IX.
IL NUOVO PARTITO POPOLARE.

Non meno di Crasso, Pompeo, il quale nella seconda metà del 71 ritornava con l’esercito dalla Spagna, era un favorito della fortuna: a 36 anni, senza esser nemmeno senatore e senza aver esercitata nessuna carica, aveva, per un seguito di eventi felici, già ricevuto il titolo di imperatore, comandato e vinto guerre con autorità di proconsole, trionfato e acquistata con le vittorie di Spagna una grande popolarità nel medio ceto, che aveva dimenticato per quelle la sua partecipazione alle carneficine di Silla442. Nessuna delle leggi che obbligavano tutti i cittadini nella repubblica, pareva valere per lui. Ma una fortuna straordinaria, toccata in principio a un uomo non interamente indegno di averla, costituisce spesso un impegno d’orgoglio che può diventar mortale, per tutta la vita; onde non è a meravigliarsi se Pompeo tornasse a Roma deliberato a concorrere di primo acchito alla massima tra tutte le magistrature, il consolato, sebbene non fosse stato nemmeno questore, sebbene non avesse nè conoscenza nè pratica della costituzione e del cerimoniale politico, e già fosse segno di tante invidie per la sua fortuna senza pari. Dopo aver comandato eserciti come proconsole, Pompeo non poteva acconciarsi a ricominciare, come questore edile, il curricolo delle magistrature. D’altra parte egli tornava a Roma, sdegnato contro il suo partito per la voglia mostrata, rifiutandogli i mezzi e i denari, che egli fallisse nella impresa di Spagna, e per l’invidia di cui tanti lo perseguitavano; esaltato dal crescente favore popolare a speranze di grandezze ancora maggiori; consapevole del mutamento avvenuto nello spirito pubblico; e già quasi risoluto per questi motivi, poichè il suo partito gli diventava nemico, a voltarsi alle idee e ai sentimenti democratici che si divulgavano nel medio ceto, nelle classi colte, nella parte più spregiudicata e libera della nobiltà. Tuttavia egli potè essere eletto console facilmente, non ostante l’odio dei grandi, per una singolare e strana fortuna: e cioè perchè Crasso, il cui vecchio rancore era stato esasperato dall’intervento di Pompeo nella guerra contro gli schiavi443, volle essere console anche lui, quando seppe della candidatura di Pompeo. Queste candidature erano così irregolari, che i due generali capirono esser necessario di unirsi, sebbene si detestassero a vicenda: Pompeo per vincere, con l’aiuto di Crasso così potente in Senato, la opposizione dei senatori; Crasso, molto meno popolare di Pompeo, per esser raccomandato da lui al popolo444. Ambedue, con il pretesto di aspettare il trionfo, tennero in armi l’esercito proprio sotto Roma; il Senato intimorito da questi eserciti cedè, ammettendo le due candidature; Pompeo promise ai tribuni della plebe di restaurare la potestà tribunizia; Crasso lavorò per suo conto; ed ambedue furono eletti. Pompeo pregò allora il suo amico Marco Terenzio Varrone di comporgli un memoriale sui doveri del console, di cui egli non sapeva nulla445.

Le promesse di Pompeo e la popolarità di cui già godeva nel medio ceto incoraggiavano il partito democratico a sperare qualche mutamento considerevole da questo consolato, ed, erano invece cagione di molta inquietudine alla consorteria. Ma nei mesi che corsero tra l’elezione (che si faceva in luglio) e la fine dell’anno (i consoli entravano in carica al 1° gennaio), le speranze dei popolari furono continuamente turbate dal malanimo che durava tra i due consoli designati, non ostante la loro coalizione elettorale. Pompeo diffidava di Crasso e in lui, così ricco e potente, temeva il più forte campione della consorteria sillana, onde rimandava con tutti i pretesti il trionfo, per non congedare l’esercito; Crasso a sua volta, che diffidava di Pompeo e avrebbe voluto nuocergli, ma che temeva di rischiar troppo, non sapeva se dovesse seguir Pompeo nei suoi democratici mutamenti o opporglisi e dichiarava, anche dopo essere entrato in Roma celebrando una ovatio, che non avrebbe sciolto l’esercito se non dopo Pompeo, Pompeo per risposta si dichiarava sempre più apertamente per la democrazia; e quando il tribuno della plebe Marco Lollio Palicano, tra la fine di novembre e il principio di dicembre, gli condusse fuori delle mura, in mezzo all’esercito con cui egli aspettava il trionfo, una gran moltitudine a udire il suo programma consolare446, Pompeo pronunciò un ardito discorso di intonazione popolare: disse che bisognava por fine agli intollerabili abusi della giustizia e dei governi provinciali; fece capire di voler restaurata nella sua pienezza antica la potestà tribunizia. Il successo fu immenso; ma Crasso, che non aveva idee politiche e badava solo al suo vantaggio, esitava ancora; e questa infausta discordia dei due consoli poteva render vani così eccellenti propositi: amici comuni si interposero, promossero dimostrazioni popolari chiedenti a Crasso e a Pompeo di conciliarsi; sinchè, quando Pompeo l’ultimo giorno di Dicembre ebbe celebrato il trionfo e preso possesso il primo Gennaio della carica, Crasso fu vinto dal gran movimento popolare in favore delle idee di Pompeo, e primo si dichiarò pronto alla conciliazione. La conciliazione fu suggellata, pubblicamente, a quanto pare nei primi giorni del consolato; gli eserciti riceverono subito congedo447; e ben presto, fra la letizia del grano che Crasso profondeva al popolo e delle feste sontuose che Pompeo preparava, la costituzione di Silla, questa gran macchina di guerra della reazione, fu rovesciata a terra e disfatta, tra il giubilo di tutta l’Italia. Pompeo propose che fossero restituiti ai tribuni i poteri tolti da Silla, e specialmente quello di proporre leggi senza la approvazione precedente del Senato: siccome però abbisognava che il Senato approvasse questa ultima proposta, Cesare fu lieto di mettersi all’opera come il campione più alacre della nuova democrazia legalitaria e il più efficace strumento di Pompeo448; molte concioni popolari furono tenute; Crasso mosse abilmente tutte le influenze di cui disponeva in Senato; una grande agitazione incominciò, intesa a smuovere la maggioranza del Senato, in mezzo alla quale tutti coloro che da un pezzo erano scontenti della consorteria dominante presero coraggio a combatterla, e l’odio contro i governatori ladri e i senatori venderecci divampò nella moltitudine media in cui tanti, potendo, avrebbero rubato egualmente, ma che appunto per questo odiavano tanto più ferocemente coloro i quali potevano malfare. Poco prima, a quanto pare, che l’agitazione incominciasse erano venuti a Roma gli ambasciatori di molte città della Sicilia, per intentare un processo contro Caio Verre, un transfuga del partito popolare che, come Cetego, aveva saputo saltare a tempo dalla nave in procinto di affondare; e diventato uno dei peggiori manigoldi del partito reazionario, era stato eletto pretore per l’anno 74 e mandato poi come propretore a governare la Sicilia, dove, per la compiacenza dei suoi amici di Roma, era purtroppo riuscito a restare tre anni invece di uno: tre lunghissimi anni di passione per la sventurata isola di Proserpina e di Polifemo. Attorniato da una corte di avventurieri, di etère, di liberti, egli aveva sfogato sull’isola la crudeltà capricciosa e la cupidigia sfrenata di un despota orientale; rubando e saccheggiando senza misericordia, prendendo nei templi e nelle case private le più belle opere d’arte di cui era fanatico collezionista, commettendo innumerevoli abusi non solo contro i Siciliani, ma anche contro i cittadini romani449. Queste malversazioni erano note da un pezzo a Roma dove si diceva perfino che Verre avesse rovinata con le sue rapine la agricoltura del maggior granaio di Roma; e la mormorazione era divenuta così grande negli ultimi tempi, che il suo successore Lucio Metello, sebbene arciconservatore, era andato in Sicilia con l’onesto proposito di riparare ai mali del suo predecessore450. Incoraggiate da queste disposizioni, le città siciliane avevano mandata una deputazione a Roma per tentare una accusa e si erano rivolte a un giovane avvocato, nato da un’agiata e colta famiglia dell’Arpinate, che era stato nel 75 questore in Sicilia e che veniva procurandosi fama nelle cause più diverse con una eloquenza di un artificio e di una veemenza ignota prima di lui: Marco Tullio Cicerone. Pompeo e i capi del nuovo movimento democratico capirono subito che un gran processo di concussione avrebbe fomentata magnificamente la agitazione contro la consorteria dominante; Cicerone che aveva allora come Pompeo 36 anni, che da un pezzo spiava l’occasione di conquistare, in un gran processo il primato dell’eloquenza, e che intendeva proporsi edile per l’anno seguente, accettò con entusiasmo; nel mese di gennaio stesso, a quanto pare, riuscì a far escludere dal pretore Manio Acilio Glabrione una accusa analoga alla sua portata contro Verre da un suo antico questore, Quinto Cecilio, non si sa se sul serio o d’accordo con Verre; e fattosi assegnare un termine di 110 giorni per raccogliere le prove, parti subito per la Sicilia451.

Intanto la consorteria sillana, indebolita da tanti scandali, non aveva potuto resistere all’assalto di Pompeo. Quando la proposta sulla potestà tribunizia venne in discussione in Senato, solo pochi osarono di opporsi: Catulo, il quale riconobbe però che la proposta di Pompeo poteva sembrar giustificata dalla ignominiosa corruttela dei tribunali senatorii452; Marco Lepido, Marco Lucullo453; ma la maggioranza approvò454: prova capitale che le idee e i sentimenti di opposizione contro il governo aristocratico erano ormai diffusi, dopo dieci anni di scandali e di lotte politiche, in tutte le classi e anche in una parte della nobiltà: la migliore e la peggiore; la più giovine, energica e intelligente; la più spregiudicata, ambiziosa e corrotta. Allora, come sempre quando una società aristocratica e agricola si è quasi interamente convertita in una società mercantile e plutocratica, non restava dell’aristocrazia di Roma che un certo numero di famiglie illustri e antiche, quasi tutte povere455, le quali, per mantenersi nelle classi alte, ormai formate dagli uomini più abili, arditi e fortunati nella gara universale per la ricchezza, la cultura e il potere, facevano il grosso commercio, speculavano, studiavano, cercavano di arricchire con le magistrature, come gli uomini nuovi della borghesia. Alcuni – è vero – specialmente i ricchi, conservavano ancora le idee e i sentimenti che sopravvivono in tutte le aristocrazie alla propria rovina politica, e che la reazione di Silla aveva ravvivate: l’odio contro le classi nuove, il disprezzo del presente come volgare e corrotto, la superstizione del principio di autorità e quindi l’orrore di ogni disordine politico, non importa se pazzesco, criminoso, o se necessario al progresso. Costoro non potevano tollerare che il figlio del villano di Velletri arricchito con le usure a milioni gareggiasse con loro di ricchezza, che il figlio del borghese di Arpino ambisse spartirsi con loro le magistrature, che una turba di oscuri avvocati e di tribuni ignobili assalisse di accuse, che i calzolai, gli artigiani, i piccoli venditori al minuto, i liberti cosmopoliti fischiassero nel fôro o non eleggessero quei patrizi che il popolo del buon tempo antico venerava come semidei; che insomma non si rispettasse più nulla, nè la saggezza, nè il casato, nè il censo. Ma molti altri nobili invece, per ambizione, per interesse, per convinzione filosofica, per necessità, intendendo cioè che era inutile opporsi, riconoscevano e talora anche si compiacevano che fosse ormai instaurata la democrazia: un regime sociale in cui la intelligenza e la ricchezza contavano più che la discendenza; e si disponevano a agire, a sentire, a pensare come era necessario, per vivere meglio che potessero nel tempo proprio, senza rammaricare un passato ormai passato.

Dopo il primo successo, gli assalti contro la consorteria già potentissima furono tentati da tutte le parti. Il tribuno Plozio, aiutato da Cesare, fece approvare una amnistia per tutti i superstiti delle guerre civili, compresa quelle di Lepido e di Sertorio456; la censura, sospesa da 17 anni, fu ristabilita, i censori Lucio Gellio e Gneo Lentulo, indetto il censo in aprile o in maggio, ripulirono con soddisfazione universale il Senato di molti amici di Silla, scacciando tra gli altri quel Caio Antonio Ibrida che Cesare aveva accusato con così poca fortuna nel 77; il pretore Lucio Aurelio Cotta, uno dei tanti nobili di sentimenti liberali, propose di ridare il potere giudiziario ai cavalieri, che essendo quasi tutti ricchi non si sarebbero più fatti corrompere457. Ma questa proposta non potè essere approvata così facilmente come le altre, non ostante la energica propaganda di Cotta; e intorno allo stesso tempo Cicerone, sbarcando in Sicilia, trovava il governatore Lucio Metello cambiato come dal giorno alla notte; diventato amico zelante di Verre; e infaticabile, invece che nel riparare i guasti lasciati da costui, nell’intralciare e sviare con tutti i mezzi la inchiesta458. Che cosa era avvenuto? Nella consorteria dominante quelli che, per il loro passato o per il loro temperamento, non volevano o non potevano riconciliarsi con il partito popolare, e che dalla vittoria di questo sarebbero stati privati di ogni potere, avevano, passato lo sbalordimento delle prime disfatte, incominciato a resistere. I buoni propositi e la bella morale di tutti i partiti e di tutte le classi valgono solo sinchè con quelli si può conservare il potere; onde il partito conservatore, in cui pure molti riconoscevano da un pezzo esser necessario ravvedersi, far giustizia e reprimere gli abusi, non esitò, nello spavento di perdere il potere, a buttar via tutti i propositi di emenda; e non solo a cercare di far cadere la legge giudiziaria; ma a tentare il “salvataggio” di Verre, il cui processo e la cui condanna dovevano svergognare e screditare tutto il partito. Per l’anno prossimo intendevano proporsi candidati parecchi conservatori cospicui, a consoli Quinto Ortensio, il celebre avvocato, e Quinto Metello; a pretore, Marco Metello, fratello di Quinto e di Lucio, governatore della Sicilia. Ben presto questi candidati e altri uomini considerevoli dell’aristocrazia come Caio Scribonio Curione si intesero con Verre; costui accettò di lavorare per loro con tutte le forze nelle elezioni; Ortensio ne assunse la difesa; Quinto e Marco Metello scrissero al fratello Lucio affinchè disperdesse quante più prove poteva dei misfatti di Verre: se essi riuscivano eletti, se la legge di Cotta non passava, si sarebbe cercato di rinviare il processo sino all’anno prossimo, quando sarebbe stato discusso davanti a un tribunale di senatori, presieduto forse da Marco Metello, e con la difesa di un console459.

Tuttavia Cicerone potè fare, non ostante gli imbrogli di Metello, la sua inchiesta e tornare per il tempo fissato, con un carico di documenti e un lungo seguito di testimoni, verso la fine di Aprile460: ma non potè subito discutere il suo processo, dovendo aspettare che prima finisse un’altra causa contro un governatore della Macedonia, forse intentata e certo tirata in lungo ad arte, solo per giovare a Verre. Tuttavia questo ritardo sarebbe stato più di vantaggio che nocivo a Cicerone, il quale doveva prepararsi per luglio alle elezioni di edile, se il nuovo partito popolare non fosse stato minacciato da una crisi precoce, pochi mesi dopo la sua prima vittoria. Crasso e Pompeo, dopo una breve pace, avevano ricominciato a litigare. Pur troppo gli storici antichi non ci dicon quasi nulla sui motivi e le occasioni di questa discordia, che fu poi cagione di tanti eventi; ma è probabile che essa nascesse dalle ambizioni di Pompeo e dal temperamento dei due consoli; dei quali Pompeo era orgoglioso, petulante, sicuro di sè e forse già allora pensava di esser mandato a sostituir Lucullo nella grande guerra d’Oriente461; invece Crasso era diffidente come un vero banchiere, ostinato e geloso; temeva continuamente di essere “giuocato” dal fortunato collega, servendo troppo ai suoi piani; e sapendo di non potere ottenere un onore equivalente a quello ambito da Pompeo, si compiaceva malignamente di rovinargli, con una guerra ostinata, il desiderio di essere mandato in Oriente; onde ben presto, irritati come donnicciuole da una stizza puntigliosa, i due consoli non poterono a meno di contradirsi e litigare in ogni questione462. Comunque sia, questa discordia era funestissima al partito popolare, che dopo così lunga persecuzione non aveva più organizzazione nè di uomini nè di interessi da opporre alla consorteria sillana così potente ancora, non ostante le disfatte recenti, per clientele, per uomini, e per denaro; onde, se i due nuovi capi non provvedevano d’accordo a continuare la conquista del potere già incominciata, esso avrebbe perduto presto il poco acquistato. Infatti Cotta era lasciato solo a perorare per la sua legge; e nelle elezioni del 69 il partito popolare pare non proponesse uomini propri: cosicchè tutti i candidati della consorteria, Ortensio, Quinto e Marco Metello furono eletti. Verre esultò; anzi d’accordo con i suoi protettori concepì, nell’allegrezza di quella vittoria, un disegno ardito; fare intimidire, da Ortensio e da Metello, gli ambasciatori siciliani, per indurli a desistere dall’accusa; e far cadere a furia di denaro e di intrighi Cicerone nella elezione degli edili: la sconfitta di Cicerone avrebbe scoraggiati definitivamente i Siciliani, già turbati dall’esito delle elezioni consolari; e tutto sarebbe finito in pochi giorni463. Ma Cicerone, che frattanto aveva studiata profondamente la causa, vagliando ordinando e classificando le prove, fu eletto; e i Siciliani non si lasciarono spaventare.

A ogni modo la condizione di Verre, dopo le elezioni, era così buona, che Pompeo, i principali uomini del partito popolare e l’opinione pubblica furono scossi un poco dal loro torpore. La legge di Cotta fu abilmente attenuata, disponendo che i giudici sarebbero scelti non tra i soli cavalieri, ma tra i senatori, i cavalieri e la parte più agiata del ceto plebeo; e fu facilmente fatta approvare464; gli animi si accesero di sdegno anticipato per la assoluzione di Verre, se fosse avvenuta; non si parlò più in Roma e in Italia che dell’imminente processo, ma come di uno spettacolo di gladiatori, nel quale, sotto gli occhi di un pubblico avido di commozioni e appassionato, i due partiti si sarebbero contesa la condanna di Verre, un giovane e promettente avvocato avrebbe affrontato il principe degli oratori romani, e tutte le difese e offese forensi sarebbero state adoperate maestrevolmente ed implacabilmente dalle due parti. Le dicerie e le previsioni si incrociavano; chi sapeva che si tentasse di corrompere i giudici sorteggiati; chi parlava di prove schiaccianti trovate in Sicilia e tenute in serbo per dare il colpo di grazia; chi scetticamente affermava che questo, come tanti altri sorci, fuggirebbe dalla trappola senza lasciarci nemmeno la coda; il duello oratorio tra Cicerone e Ortensio era speciale oggetto di grande aspettazione, tra i molti dilettanti di eloquenza. Cicerone, dicevano gravemente coloro che presumevano intendersi di queste materie, era una speranza del fôro, un giovane studiosissimo e abile; ma gli mancava l’esperienza del suo formidabile avversario.... Intanto le parti si preparavano. Cicerone, la cui immaginazione, eccitata dalla aspettazione universale e dalla grandezza decisiva del cimento, era entrata in uno stato di straordinaria lucidezza, capì che era inutile giocar di astuzia con avversari così abili e potenti; che bisognava far colpo sul pubblico, sorprendendolo con un seguito di rivelazioni straordinarie; e perciò si studiava di raggruppare le testimonianze nel modo più acconcio per stampare una impressione profondissima nello spirito della folla, e di preparare per ogni gruppo un breve ma efficace discorso suo di introduzione e delucidazione465. Verre, invece, e i suoi amici, incoraggiati dal successo delle elezioni, cercavano di circuire e placare i testimoni, si facevano mandare dalle città di Sicilia decreti onorifici per Verre, studiavano un piano di difesa tutto irto di finissime astuzie, per impedire all’accusa gli assalti: intanto tirare in lungo sino al 16 agosto, giorno in cui si sospenderebbero per 15 giorni le udienze per celebrare i giuochi promessi da Pompeo sin dai tempi della guerra contro Sertorio; poi continuare la stessa manovra sino a rimandare all’anno nuovo il processo. Si sperava di riuscire, perchè frequenti sospensioni di tribunale avvenivano nei rimanenti mesi: tra il 4 e il 19 settembre per i Ludi Romani; tra il 26 ottobre e il 4 novembre per i giuochi della Vittoria; tra il 4 e il 17 novembre per i Ludi plebei466.

La mattina del 5 agosto467, quando il processo incominciò, una folla immensa si pigiava nel fôro, intorno ai banchi disposti per i giudici, i testimoni, le parti. Verre arrivò con Ortensio, accompagnato da molti grandi personaggi, con portamento sicuro e piglio audace; pieno di fiducia nelle astuzie lungamente pensate con il suo avvocato468. Ma Cicerone aveva intuito assai meglio che Ortensio la condizione dello spirito pubblico.... A mano a mano che i documenti e le testimonianze abilmente disposte da Cicerone furono conosciuti dal pubblico; a mano a mano che la passione della Sicilia era raccontata nel fôro con l’esagerazione naturale in testimoni esacerbati per averla sofferta, tutte le collere accumulate da dieci anni nel pubblico contro la consorteria sillana proruppero irrefrenate: a certe testimonianze patetiche il pubblico quasi pianse, ad altre mormorò indignato, ad altre schiamazzò di rabbia; alla fine di ogni udienza le rivelazioni del processo si spandevano in un baleno per tutta Roma, raccontate, deformate, esagerate di bocca in bocca, muovendo tutte le anime, in tutte le classi, a sdegno; e il giorno dopo una folla maggiore gremiva il fôro, tentando di udire i terribili racconti, gridando e sdegnandosi anche quando senza udire vedeva i più vicini al tribunale gridare e sdegnarsi. Un giorno anzi, quando un testimonio narrò come Verre avesse crocifìsso un cittadino romano che aveva gridato invano civis romanus sum, la folla si era mossa, furibonda; e se il pretore non avesse subito sospesa l’udienza, Verre sarebbe stato fatto a pezzi, quel giorno, sul fôro. Non un partito, ma l’Italia, che pure mandava per tante regioni eserciti a devastare e a catturare uomini, che spogliava con le usure tanta parte dell’universo, si indignava ora sul fôro di Roma per le piccole crudeltà di un omiciattolo, impazzito per soverchia potenza; e con un furore così violento, che Verre e i suoi amici, sorpresi e sopraffatti, furono ben presto disanimati, perderono la sicurezza, l’alterigia, la fiducia nei loro intrighi; sentirono a un certo momento che irritare ancor più questa forza cieca, sarebbe terribile469. Sospeso il giorno 14 il processo, Verre, per salvare una parte della fortuna, se ne andò spontaneamente in esilio; e sparve per sempre, per la via solitaria ed oscura dell’oblio universale, mentre Cicerone, diventato ormai un personaggio primario di Roma, si slanciava nella lunga e soleggiata via della gloria. Nè l’uno nè l’altro pensavano, nel volgersi le spalle verso destini così diversi, che l’una e l’altra via li avrebbero portati a incontrarsi ancora un istante, dopo ventisette anni, sull’orlo del medesimo abisso.

Mentre queste cose avvenivano in Italia, Lucullo era andato a passar l’inverno del 71-70 nella provincia di Asia di cui era stato nominato governatore, e vi era stato indignato e spaventato dalle angherie con cui i finanzieri italiani tribolavano le popolazioni, dalla brutalità cieca con cui rompevano i rami per cogliere più presto i frutti. Lucullo, che era cresciuto in una famiglia aristocratica e povera, in un tempo in cui l’odio contro i villani rifatti e la borghesia capitalista era intenso e diffuso in tutta la nobiltà romana, non amava molto, nemmeno allora, gli uomini di finanza; e spirito retto e pronto, aveva cercato con l’impeto e l’energia consuete di frenare in vari modi e con diversi provvedimenti la cupidigia dei pubblicani, senza considerare quali potenti nemici irritava con questa politica umana470. Egli si sentiva così forte, così grande, così sicuro di sè; e volgeva nella mente esaltata un disegno così vasto: invadere e conquistare addirittura tutto il regno di Tigrane, re d’Armenia e genero di Mitridate, presso il quale Mitridate aveva cercato rifugio! Grazie prima alla indifferenza della politica romana durante la crisi italica, poi alla fretta di conquistar la Bitinia e alla lunga guerra con Mitridate, Tigrane aveva potuto, nei quindici anni precedenti, con le conquiste, con le alleanze, con le dedizioni in vassallaggio, dilatare l’impero suo verso tutti i punti dell’orizzonte: a nord, sino al Caucaso, riducendo a vassalle le semibarbare popolazioni degli Albani e degli Iberi; a sud, ad est, ad ovest, conquistando quasi tutto l’impero dei Seleucidi, la Cilicia pianigiana, la Siria, la Fenicia; togliendo ai Parti molte provincie e molti vassalli, come i satrapi della Grande Media, della Media Atropatene, del Gordiene471. Già la piccola e feroce aquila romana sbatteva furiosamente le ali, dal Ponto, per piombare sull’immenso e sonnolento pachiderma.... Ma Lucullo, prima di invader l’Armenia, e per non lasciarsi nemici alle spalle, aveva voluto conquistar definitivamente il Ponto; e mentre mandava suo cognato Appio Claudio a Tigrane a domandargli la consegna di Mitridate472, per avere nel sicuro rifiuto il pretesto della guerra, egli si era volto nella primavera del 70 a finire l’assedio di Sinope e di Amasia, che nell’autunno si arresero e alle quali questa volta Lucullo potè risparmiare parte almeno delle brutalità soldatesche, sebbene anche in queste città molti degli abitanti fossero presi e catturati473. Più sfortunata era stata, nella primavera, Eraclea, intorno alla quale si era affaticato per terra lo stupido e feroce Cotta, per mare il valente e ferocissimo Triario; i quali, dopo averla presa e dopo aver rubato senza misericordia nelle case e nei templi la suppellettile preziosa, i depositi di denaro, l’oro e l’argento, avevan massacrata o ridotta schiava tutta la popolazione, e levata dalla piazza anche la stupenda statua di Heracles, celebre su tutte le coste del Mar Nero, per la clava meravigliosamente lavorata a martello, per la pelle di leone, il turcasso, gli strali che erano tutti di oro massiccio. Poi avevan dato fuoco alle città; e mentre il fumo saliva al cielo, le navi romane avevano abbandonato il porto, così colme e gravi di preda, che parecchie affondarono nel viaggio474.

Intanto era giunta la risposta di Tigrane. Egli rifiutava di consegnar Mitridate, per orgoglio, non per affetto, giacchè, indotto a quanto pare da consiglieri che temevano in Mitridate un rivale, egli non aveva voluto riceverlo e lo aveva quasi relegato nella lontana residenza di un suo castello. Non mancava più il pretesto alla invasione, che sarebbe cominciata nella primavera del 69.

X.
LA CONQUISTA DELL’ARMENIA
E I DEBITI DELL’ITALIA.

A Roma intanto l’anno 70 era finito malamente, per il partito popolare. Pompeo, che forse, avvezzo ai facili successi, aveva creduto di poter ottenere senza fatica l’ambito comando in Oriente, era stato talmente sorpreso, sconcertato ed esasperato degli intrighi di Crasso, che per la prima volta aveva rinunciato al suo disegno, e in un impeto di impazienza, per celare con un atto di indifferenza altera la rabbia di non esser riuscito, aveva dichiarato di ritornare, dopo il consolato, a vita privata475, e mantenne la promessa, restando a Roma, ma sdegnatissimo. Crasso era tornato ai suoi affari, rinunciando ad avere una delle solite provincie che gli avrebbe reso assai meno che le sue speculazioni, ma contento di aver costretto Pompeo a restare in Roma. I conservatori, lietissimi dell’insuccesso di Pompeo, avevano di nuovo occupate quasi tutte le magistrature. Del resto l’impero, dopo la sconfitta di Mitridate, era tranquillo; nè per il momento era in vista altra impresa che la guerra contro i pirati di Creta, i quali, dopo la sconfitta di M. Antonio, avevano mandato inutilmente ambasciatori a Roma a cercar pace476.

Solo Lucullo non riposava; anzi incominciava nella primavera del 69 una delle più temerarie campagne, invadendo, senza autorizzazione del Senato, con due legioni e qualche corpo di ausiliari asiatici, galati e traci, in tutto nemmeno 20 000 uomini477, l’Armenia: vasto paese su cui non possedeva che vaghe notizie, e dove Mitridate e Tigrane, ora tornati in amicizia in seguito alle intimazioni di Lucullo, gli preparavano contro un grosso esercito. Rapidamente, senza fermarsi mai se non la notte, senza concedere a sè o all’esercito nessun riposo, per la grande via delle carovane che tagliava la Melitene, egli scese sino all’Eufrate; lo varcò, marciò su Tigranocerta, e ributtò con tanto impeto l’esercito del generale Mitrobarzane, che Tigrane spaventato si ritrasse precipitosamente al nord dell’Armenia, abbandonando in Tigranocerta i suoi tesori e il suo harem a un generale478. Lucullo pose l’assedio a Tigranocerta; ma ben presto Tigrane, che aveva un esercito di 80 000 uomini479, si riebbe dallo spavento, come Lucullo aveva preveduto480, e preso da un accesso di impazienza violenta, mosse al soccorso della città, senza aspettare Mitridate che era in viaggio con forti corpi di cavalleria. Lucullo ripetè allora la manovra di tutti gli abili generali che assediano una città contro gli eserciti di liberazione che si avvicinano: lasciati 6000 soldati sotto il comando di Murena nelle trincee481, andò incontro all’esercito liberatore con circa 14 000 tra fanti e cavalli. Quando i due eserciti giunsero l’uno a vista dell’altro sulle due sponde del Tigri, Tigrane e lo stato maggiore dell’esercito armeno, tolto qualche generale che conosceva meglio i romani, pensavano, per la fatua confidenza in tutte le apparenze della forza così frequente nei soldati di professione, che i romani si sarebbero ritirati davanti a un esercito cinque volte più numeroso. Ma Lucullo, il cui impeto audace e veloce, esaltato dalle vittorie, nulla poteva più trattenere, non esitò; e una mattina guadato il Tigri lanciò il suo piccolo esercito contro gli Armeni come una muta di mastini in una immensa torma di pecore; ne fece un massacro, li disperse, volse in fuga il re, che si salvò, seguito solo da 150 cavalieri; poi tornò all’assedio di Tigranocerta, che prese dopo poco. E allora nella gioia di tanto successo, gli istinti generosi del suo carattere, di solito repressi dalla fretta di fare, dalla irritabilità nervosa, dall’impazienza, dalla estrema tensione dello spirito verso i fini della sua immensa ambizione, proruppero: egli ordinò che le donne e le proprietà dei Greci fossero rispettate; rimandò gli abitanti di città greche e i barbari, che Tigrane aveva deportato a forza per popolare la città, alla patria loro; abbandonò il resto della città al saccheggio; e con gli 8000 talenti (circa 48 milioni) trovati nel tesoro reale; con gli altri 16 milioni, ricavati dalla vendita degli oggetti confiscati, provvide questa volta non soltanto a sè e all’erario di Roma, ma anche ai soldati, ognuno dei quali ricevè la lieta sorpresa di un dono di 800 dramme482. Gli antichi vassalli di Tigrane, trattati gentilmente da Lucullo, si arresero; Antioco l’asiatico, fu riconosciuto re di Siria; l’esercito fu condotto a svernare nella ricca regione della Gordiene; mentre Lucullo che ormai era signore delle provincie di Tigrane a sud del Tigri si sentiva tentato dall’idea di una impresa ancora più meravigliosa per l’anno prossimo: ripetere l’avventura di Alessandro Magno, invadere la Persia, conquistare l’impero dei Parti al cui re aveva mandato un ambasciatore per distoglierlo dall’alleanza con Tigrane.

Lo stizzoso senatore, che a Roma, tra le meschine querele di una aristocrazia in dissoluzione, aveva ottenuto a fatica il comando di una piccola provincia montuosa per gli intrighi di una bella cortigiana, e che era apparso in Asia alla testa di un minuscolo esercito (supremo sforzo, molti pensarono in Asia, di uno Stato morente), era ormai in Asia, dopo sei anni, con le sue poche legioni, l’emulo di Alessandro il Grande: sempre in cammino, dopo un successo, per una nuova impresa più lontana; e così veloce, così audace, così intrepido attraverso piani e montagne, contro eserciti sterminati e fortezze inespugnabili, come se non avesse bisogno di riposo e mai non potesse veder l’ultimo termine delle proprie ambizioni; sicuro di sè, indipendente ormai dalla autorità del Senato, senza esitazione nelle risoluzioni e nelle opere; non soltanto cupido di ricchezze e di gloria, ma avido di soddisfar la sua ardente ammirazione per la civiltà ellenica con la generosità verso i vinti.... Quando le superstiziose popolazioni dell’Oriente lo adoravano quasi come una apparizione divina, non avrebbe l’Italia dovuto ammirarlo come il primo eroe del nuovo imperialismo? Ma se Lucullo era il primo di un certo numero di uomini superiori della sua generazione, i quali sforzando le proprie energie ed abusandone sino alla estrema misura dovevano restare nella storia tra i più splendidi campioni della grandezza umana, lo stesso demone che agitava lui, agitava in misura minore tutta Italia e la tribolava con i dolori acutissimi di una crisi di sviluppo. L’oro e l’argento affluivano con abbondanza in Italia, dove agli immensi tesori già accumulati dalle generazioni precedenti si aggiungevano tesori nuovi, acquistati per la forza delle armi o del denaro già posseduto: i capitali che Marco Lucullo aveva portati dal saccheggio dei villaggi traci e delle città greche del Mar Nero; quelli che mandava dall’Asia suo fratello Lucio; gli interessi dei capitali prestati a usura o impiegati nelle varie parti dell’impero in campi, tenute, case; il bottino personale portato dai soldati o dagli ufficiali ritornanti dalle guerre; i tributi pagati allo Stato. Lo Stato romano aveva allora un bilancio annuo di 50 milioni di dramme483, che, supponendo tra il valore dell’oro e dell’argento il rapporto di 1 a 15 e mezzo che esisteva in Europa prima degli ultimi rinvili del metallo bianco, corrisponderebbero a una somma tra 38 e 39 milioni di franchi, dei quali la maggior parte proveniva dalle provincie484. Ma assai più rapidamente cresceva il bisogno di denaro: denaro, e in quantità sempre maggiori, occorreva per comprare in ogni parte dell’impero il grano necessario a nutrire Roma; denaro, per preparare le guerre, per pagare e mantenere tanti eserciti in Spagna, in Macedonia, nella Gallia narbonese; denaro per prestare ai privati, alle città, ai sovrani stranieri bisognosi di capitali; denaro per soddisfare i bisogni del consumo rapidamente e universalmente crescente; denaro occorreva sopratutto per soddisfare il furore contagioso di speculazioni, in cui divampava ormai in Italia lo spirito mercantile e il desiderio di accrescere i propri guadagni, naturale in tanto crescer del lusso. In pochi anni quel movimento di affari incominciato dopo la restaurazione dell’ordine era divenuto vertiginosamente rapido; e ormai tutti, uomini e donne, nobili e plebei, ricchi capitalisti e possidenti delle città minori, modesti mercanti, artigiani, liberti, allucinati da quella febbre di speranze ardenti e fallaci, senza la quale l’uomo non farebbe mai nulla, speculavano sfrenatamente. La terra dell’Italia sopratutto era disputata, venduta, ricomprata, tormentata senza tregua da una smania di rapide speculazioni agrarie che, dopo mezzo secolo di lenti rimutamenti nella proprietà, prorompeva e ferveva allora dalla combinazione di tre grandi fatti: la legge di Spurio Torio che convertendo in proprietà privata tanta parte del suolo aveva accresciuta la materia del commercio delle terre; lo spirito mercantile che si spandeva da un secolo e mezzo; la concessione della cittadinanza che aveva comunicato a tutti gli Italiani il vecchio diritto romano. Ormai tutti gli Italiani, con la sola formalità della presenza di 7 cittadini romani, potevano, per mezzo della mancipatio, comprare e vendere le terre dell’Italia anche più lontane dal luogo del contratto, comprarle a misura, come del grano, non cioè quel tal fondo, con quei tali confini, ma genericamente tanti jugeri485 di terra in quella regione; e molti compravano e vendevano rapidamente, come si fa ora in Australia, speculando sulla differenza dei prezzi; molti acquistavano schiavi che fossero abili agricoltori, piantavano vigne, uliveti, alberi da frutta, per far concorrenza all’Oriente. Ma siccome i più non possedevano capitali sufficienti e l’introduzione recente della istituzione greca486 dell’ipoteca agevolava il credito, l’abuso del credito diventò generale: chi aveva già comprato un campo lo ipotecava per comprar gli schiavi e piantar le vigne; chi possedeva un terreno in città vi costruiva sopra la casa con denari presi a prestito ipotecando il terreno; altri ipotecavano le loro terre in Italia, per riprestare nelle provincie, in Asia o in Africa, a privati, a città, a sovrani, il denaro preso a prestito, sperando maggiori guadagni487. Pochi si spaventavano se il denaro, in tanta ricerca, era caro; l’Italia era piena di possidenti che, contratto temerariamente un primo debito per migliorare le coltivazioni, ne venivano facendo poi altri per pagare gli interessi troppo alti, impigliandosi sempre più invece di liquidare, per la speranza di rifarsi un giorno488; Roma era piena di gente rovinata dal mal della pietra, che aveva preso a prestito a troppo alti interessi per costruire, e poi di debito in debito rischiava di perdere anche il capitale proprio investito nel terreno o nella casa489; l’Italia era piena di uomini politici, di possidenti, di giovani figli di famiglia che si indebitavano perchè spendevano troppo, e che tiravano innanzi aggiungendo debiti a debiti490.

Incominciava una crisi, in mezzo alla quale il movimento popolare di politico si mutava in sociale, come avviene nelle democrazie, in cui pochi sono ricchi e molti in debito e in disagio. Crasso attendeva, tranquillo e soddisfatto, ai propri affari; Pompeo, invece di continuare le riforme incominciate nel consolato, non pensava che alla rivincita contro Crasso e i conservatori; e orgoglioso, poco alacre, intollerante dei piccoli fastidi e dei piccoli obblighi della vita, come sono spesso gli uomini guasti da soverchia fortuna, si mostrava poco in pubblico, non scendeva quasi mai nel fôro a difender cause, non ammetteva alla sua amicizia che pochi491; Cesare si era dato alla vita elegante e galante, si sciupava nelle dissolutezze e faceva molti debiti, mettendo forse a profitto le amicizie della sua famiglia con l’alta borghesia capitalista; ma era ancora troppo poco ricco, poco celebre e poco influente, sebbene le sue prodigalità, la sua abilità di cavallerizzo, l’eloquenza delle sue difese, la cordialità dei suoi modi, gli avessero procurata grande popolarità nel popolino492. Mancando capi energici al partito popolare, pullulavano dal medio ceto italico e dalle famiglie oscure tribuni della plebe violenti, i quali ben presto eccitarono con crescente acrimonia il rancore latente nella moltitudine malcontenta per i debiti contro tutti coloro che arricchivano, e specialmente contro i generali che nelle guerre si facevano dei patrimoni; ripetendo che mentre in Italia tanti versavano in angustie, pochi privilegiati si appropriavano immense parti di quel bottino, che era beneficio comune e proprietà dello Stato493; assalendo più fieramente Lucullo che la plebe ammirava ma non amava, e che allora combatteva la guerra più lucrosa di tutte. Se molti cittadini ricchi e insigni, per testimoniargli la propria ammirazione – era questo un costume che si andava diffondendo e che la frequenza del celibato favoriva – gli lasciavano frequentemente morendo dei legati e delle eredità494, la moltitudine si lasciava disporre a malevolenza da voci fantastiche sui tesori che egli mandava in Italia; commiserava persino i re di Armenia e dell’Oriente, che egli – si diceva – derubava per conto suo invece di far la guerra, secondo gli ordini del Senato; trovava che il suo comando in Oriente durava ormai da troppo tempo495. Anzi dopo la battaglia di Tigranocerta, egli fu accusato dalla voce pubblica di non aver inseguito Tigrane, solo per trarre in lungo la guerra e rubare ancora496.

Lucullo, dal fondo dell’Asia, appena badava a queste mormorazioni della moltitudine contro di lui; e forse poco danno ne avrebbe ricevuto, senza altri nemici più potenti che la moltitudine genericamente scontenta: i finanzieri, rabbiosi per le sue riforme nell’amministrazione dell’Asia; Pompeo, impuntigliatosi a prender la sua rivincita, andando in luogo di Lucullo in Oriente. La condizione dello spirito pubblico e gli intrighi dei finanzieri costrinsero il Senato, nel quale pure gli amici di Lucullo erano tanti, a far qualche cosa; e il Senato forse per salvare il resto e deluder Pompeo, contentando sul punto essenziale i finanzieri che erano gli alleati più potenti di Pompeo, deliberò di togliere a Lucullo per l’anno 68, il governo dell’Asia, ridandolo a un propretore497. Era questa la ricompensa delle sue straordinarie vittorie dell’anno precedente! Ma più grave segno fu di lì a poco la rivolta delle legioni lasciate nel Ponto, le quali, quando giunse al loro legato, Sornazio, l’ordine di raggiungere Lucullo per invadere con lui nella primavera del 68 la Persia e marciare su Ctesifonte, si rifiutarono di partire498. Era questa una rivolta spontanea delle milizie stanche di tante avventure? O l’effetto di qualche abile sobillazione mormorata da Roma? Certo è che anche le milizie che Lucullo aveva sotto i suoi ordini nella Gordiene mostrarono di non voler avventurarsi nella Persia; e Lucullo, costretto a rinunciare al suo piano, pensò di invadere nella primavera del 68 l’Armenia, senza accorgersi che una rete invisibile di intrighi, la cui officina era a Roma, nella casa di Pompeo, veniva ravvolgendo lui e l’esercito suo.

XI.
LA DISGRAZIA DI LUCULLO.

In quell’anno stesso Quinto Metello andava come proconsole all’impresa di Greta, e Cesare, eletto questore499, incominciava il corso ufficiale degli onori, come un campione del nuovo partito popolare; ma avendo intorno a sè, per l’ingegno, la eloquenza, la gentilezza, il temperato ardire delle idee, un largo consenso di simpatie in tutte le classi, anche nei conservatori non fanatici. Del resto sebbene noi non sappiamo quali fossero allora le sue idee politiche, possiamo, considerando nel tempo stesso la sua condizione, la natura della sua mente e l’influsso del pensiero greco sulle classi colte del tempo suo, supporre con verisimiglianza che esse non fossero tali da alienargli molti degli spiriti equanimi, in tutti i partiti. Quando gli Italiani cominciarono a essere i discepoli dei Greci, due Elladi avevano già vissuto una dopo l’altra: la classica Grecia di Sofocle, di Demostene, di Fidia, di Platone, di Pericle e di Aristotele, con le molte città indipendenti, con le piccole splendide e turbolente democrazie, con le arti locali e popolari, le letterature dialettali, le scuole private di filosofia enciclopedica; e la vasta Ellade cosmopolita delle grandi monarchie burocratiche fondate da Alessandro in Asia e in Africa; con le splendide e dotte città capitali, la lingua comune, le letterature auliche, i regi istituti di cultura, le nuove filosofie, stoica ed epicurea. Nella Roma di Cesare, sintesi vivente di tutta la civiltà antica, le diverse correnti del pensiero e del sentimento delle due Elladi si precipitavano urtandosi, roteando e ribollendo come un vortice: chi professava il platonismo, chi lo stoicismo, chi l’epicureismo; chi imitava i decadenti e romantici poeti alessandrini e chi lo schietto classicismo dei poeti eolici o dei tragici; chi nella eloquenza studiava l’enfasi dello stile asiatico e chi imitava invece la purezza leggera e trasparente dell’atticismo; chi gustava la complicata e raffinata arte greco-asiatica o greco-egiziana, e chi ammirava solo la sobrietà arcaica del periodo di Fidia; chi si chiudeva nelle ricerche minute di qualche scienza speciale creata nella solitudine di un regio Museo e chi spaziava nelle vaste enciclopedie pensate dai privati maestri della Grecia classica. Roma riviveva, in un istante solo, con straordinaria intensità, tutta la successione di culture create in cinque secoli; ma in mezzo a tanti contrasti e a tante contraddizioni la Grecia classica rinasceva con maggiore freschezza. Demostene diventava il modello di perfezione imitato da tutti gli oratori; Cicerone avvicinava l’eloquenza dalla profusione asiatica alla sobrietà classica; la classica arte attica di Fidia, di Policleto, di Scopa, di Prassitele, di Lisippo godeva di un favore crescente e maggiore che la scuola di Rodi e tutte le scuole asiatiche500; incominciava ad acquistar fama tra i ricchi di Roma il grande scultore di questa età, Pasitele, un greco dell’Italia meridionale e perciò cittadino romano, capo di una scuola di scultura neo-attica, dove si facevan copie di antiche opere classiche, ed autore di opere originali, il cui pregio era una eleganza splendida e sobria ottenuta con lo studio della natura e dei grandi modelli classici501. Sopratutto rinovellò frondi e fruttificò di nuovo la teoria della libertà, formulata da Aristotele. Nelle repubbliche greche si era già pensata ed espressa la teoria democratica, secondo la quale non è libertà se non dove il popolo comanda; la teoria aristocratica, che il popolo deve stare sotto ai ricchi e ai nobili; la teoria monarchica, l’ottimo governo essere quello di un solo. Ma dalla discussione di queste teorie e dalla osservazione dei travagli in cui si consumavano i governi repubblicani, la Grecia classica aveva tratta la dottrina del governo composito di monarchia, di aristocrazia e di democrazia; che affermava (è noto a tutti esser questa una delle idee cardinali della politica di Aristotele): il popolo dover possedere tanta autorità sulla cosa pubblica quanta era necessaria affinchè i grandi non l’opprimessero; le famiglie insigni per ricchezza e nobiltà godessero di molto potere, ma per il bene comune, e fossero esempio di virtù civiche un magistrato sovrastasse pure, se era necessario, a tutti, come un presidente di repubblica investito di larghi poteri, ma fosse l’ottimo nella città, governasse secondo la legge e desse esempio per il primo di osservarla, perchè la legge doveva essere il vero sovrano impersonale della città. Senza questa contemperanza salutare degli opposti principî, la democrazia degenerava in demagogia, la aristocrazia in oligarchia, la monarchia in dispotismo: pessimo di tutti i governi quest’ultimo, che poteva convenire alle snervate e servili popolazioni d’Oriente, non alla nobile stirpe degli Elleni. Queste teorie di Aristotele, che Polibio aveva rinnovate, studiando la società romana dei tempi di Scipione Emiliano, si diffondevano, come quelle che parevano conciliare le tradizioni antimonarchiche e aristocratiche della storia di Roma, le nuove correnti democratiche, la speranza di un componimento del presente disordine di cui tutti credevan cagione, per una illusione così comune, i difetti dello Stato.

È probabile che Cesare vagheggiasse allora una conciliazione dell’aristocrazia con la democrazia nell’imperialismo; una repubblica libera e conquistatrice, artistica e colta, simile a quella che aveva illuminato il mondo dalle colline di Atene, ma più colossale e poderosa, il cui corpo fosse l’Italia e il cui capo fosse Roma; che, governata, con l’aiuto di un medio ceto agiato e colto, da una aristocrazia energica, sapiente, aperta agli uomini e alle idee nuove, riprendesse e compiesse l’ambizione del dominio universale fallita ad Alessandro e facesse dell’Italia la colonna maestra della civiltà, la metropoli della forza, del capitale, dell’arte, della scienza, della eloquenza, della libertà. Cesare non possedeva il temperamento impulsivo, la immaginazione stravagante, l’orgoglio violento e spesso crudele degli uomini d’azione, che non studiano e non osservano, ma si precipitano in mezzo ai pericoli, per audacia d’impulso, senza vederli, e son giudicati grandi se riescono, matti se falliscono; ma era un giovane zerbinotto alla moda, benevolente di disposizioni e gentile di maniere, come delicato di salute e di forme; vivace, nervoso, ambizioso, avido di godimenti, dotato di intelligenza plastica e di temperamento fervido in ogni cosa, nelle amicizie, negli studi, nei piaceri; che tra le dissipazioni della vita elegante e galante, sforzava la intelligenza all’acquisto di una cultura enciclopedica. Non solo era già diventato uno dei primissimi oratori di Roma502, ma si era dato con passione agli studi di astronomia, divulgando tra i primi a Roma la conoscenza della astronomia scientifica, creata circa un secolo prima da Ipparco, e che in Asia e in Egitto aveva fatto poi tanti progressi503; studiava con gran passione la storia, e nei migliori testi la tattica; educava il gusto della bellezza, e il senso della magnificenza, per diventare uno splendido preparatore di feste e un costruttore di monumenti magnifici. Un ingegno plastico e fervido insomma, un carattere piuttosto equilibrato, non ostante una certa delicata nervosità di temperamento, quasi da artista, accresciuta dalla stanchezza di una vita dissipata. È perciò verisimile che egli inclinasse, in politica, a dottrine di conciliazione, che non spiacessero nelle alte classi a coloro che non erano faziosi arrabbiati; tanto più che spendendo troppo egli aveva bisogno di denaro e questo non poteva essergli prestato che dai ricchi capitalisti, i quali inclinavano a sentimenti democratici, ma avevano orrore della demagogia. Infatti, quando il partito popolare già si volgeva in demagogico, Cesare continuava a insistere sui motivi patriottici; e quell’anno stesso, essendogli morta la moglie che egli aveva così fervidamente amato, e la zia che era vedova di Mario, fece, nella processione funebre, portare le immagini di Mario504. Poi partì per la Spagna, come questore del pretore Antistio Vetere505.

Pompeo invece restava a Roma a consumare la rovina di Lucullo, che, ignaro di tutto e intrepido come al solito, si era avventurato nell’Armenia e aveva raggiunto, sui pianori del lago Van, gli eserciti uniti di Mitridate e di Tigrane. Ma dietro le trincee di un campo, fortemente munito secondo il modello romano sulla cima di una collina, i due re eran deliberati di aspettare che gli inverni precoci dell’Armenia costringessero l’esercito romano a una ritirata rovinosa; onde Lucullo alla fine, dopo molti vani tentativi di dar battaglia, cercò di smuovere il nemico, marciando contro la capitale Artassata. Difatti Tigrane, non potendo tollerare il pensiero che il suo harem e i suoi tesori cadessero in potere di Lucullo, levò il campo, lo seguì, tentò di impedirgli il passaggio dell’Arsaniade e ricevè ancora una sconfitta506. Lucullo allora domandò ai suoi soldati lo sforzo supremo di una marcia sopra Artassata, senza sospettare che non solo i suoi nemici intrigavano a Roma per togliergli il proconsolato della Cilicia; ma che nel suo campo stesso diversi ufficiali erano intesi con Pompeo per sobillare i soldati: più pericoloso di tutti il cognato di Lucullo, Publio Clodio, uno dei più turbolenti tra i giovani nobili spiantati che per far carriera si erano voltati al partito popolare507. I soldati per un poco obbedirono; ma quando incominciarono i terribili freddi del precoce inverno armeno, si rifiutarono così risolutamente di continuare, che Lucullo fu costretto a cedere.

Quest’urto improvviso contro la realtà interruppe alla fine la grandiosa farneticazione di Lucullo; ma troppo tardi. Egli era avviluppato da intrighi, da ogni parte. A Roma il partito aristocratico si sforzava di salvarlo ed era riuscito a far comporre la commissione, che doveva riordinare la nuova provincia del Ponto, di persone tutte amiche e devote a Lucullo, mettendo in essa persino il suo fratello Marco; ma gli aveva dovuto togliere il governo della Cilicia, e l’aveva dato, sperando il colpo gli sarebbe stato meno doloroso e pericoloso, al console di quell’anno, Quinto Marcio Re, che era cognato di Lucullo. I nemici suoi però non riposavano; e Clodio, approfittando di una assenza di Lucullo, incominciò a sobillare apertamente le legioni ritornate dalla Armenia in Mesopotamia, descrivendo loro gli agiati riposi dei soldati di Pompeo508: il ritorno di Lucullo lo costrinse a fuggire; ma disgraziatamente nel tempo stesso Mitridate entrava con 8000 soldati nel Ponto, sollevava i contadini, riusciva a chiudere il legato, lasciato da Lucullo nel Ponto con poche forze, in Cabira; e quando Lucullo si levò per accorrere in suo aiuto, le legioni rifiutarono di muoversi, avanti la primavera del 67. Le sobillazioni di Clodio non erano state invano. Per fortuna l’ammiraglio di Lucullo, Triario, potè sbarcare rinforzi nel Ponto e sbloccare il legato da Cabira; ma non scacciare Mitridate dal Ponto e dovè svernare in faccia all’esercito nemico a Gaziura, nel cuore del Ponto, mandando corrieri su corrieri a domandar rinforzi a Lucullo, il quale, esautorato e impotente, era costretto a guardare i soldati, che attendevano tranquillamente alla mercatura e a godersela, come se i loro compagni non versassero in grave pericolo e tutto fosse pace509.

A Roma, quando sul finire del 68 giunsero le notizie di questi eventi, il partito popolare e la cricca di Pompeo tripudiarono; e Quinto Marcio fu circuito, minacciato, accarezzato affinchè non prestasse aiuto a suo cognato: così l’anno dopo sarebbe successa in Asia una catastrofe, e Pompeo riceverebbe sicuramente per acclamazione popolare il comando della guerra. Crasso vedea, rodendosi, gli intrighi del suo rivale riuscire mirabilmente; ma che cosa poteva egli fare, contro un uomo di cui la fortuna pareva innamorata pazzamente? Infatti, proprio allora, come per favorire Pompeo, l’agitazione popolare, languente dopo l’anno 70, si riaccendeva; a Roma, come in tutte le democrazie che il disagio fa fermentare in demagogia, si cominciavano a formolar proposte, alcune tiranniche altre ragionevoli, tutte però intese a far danno o dispetto ai grandi; come ad esempio che si proibisse (l’aveva proposto in quell’anno un bravo uomo, ma di mente corta. Caio Cornelio, tribuno della plebe) di prestare denaro nelle provincie, per impedire ai ricchi di mandar fuori d’Italia il denaro di cui tanto era il bisogno in Italia; che si riconfermasse nel popolo la facoltà, usurpata dal Senato, di dispensare dall’osservanza delle leggi510. Fortuna ancor maggiore per Pompeo: nell’inverno dal 68 al 67 capitò la carestia. Siccome gli uomini attribuiscono sempre i propri guai, anche quelli la cui cagione è nelle cose, alla malignità degli altri uomini; questa volta la colpa della carestia fu data ai pirati, che intercettavano sul mare i convogli del grano; al Senato e ai magistrati che in tanti anni non erano stati capaci di ripulire i mari; a Lucullo il cui generale Triario, mandato nell’Egéo con una flotta, non aveva saputo far nulla e aveva lasciato il pirata Atenodoro saccheggiargli, proprio sotto il naso, Delo. Pompeo capì che poteva approfittare di questa condizione dello spirito pubblico per ottenere una missione straordinaria, con cui preparare la sua elezione, ancor contrastata in Senato, in luogo di Lucullo; un tribuno della plebe, Aulo Gabinio, uomo di origine oscura e di media fortuna511, propose che si nominasse un dittatore del mare per far la guerra ai pirati; il quale fosse un uomo di rango consolare (egli non nominava nessuno), avesse una flotta di 200 navi, un grosso esercito, 6000 talenti e autorità proconsolare assoluta per tre anni su tutto il Mediterraneo e sulle coste sino alla profondità di 50 miglia512; potesse scegliersi 15 legati, reclutare soldati e rematori e raccoglier denari in tutte le provincie513. Il partito conservatore avversò questa dittatura del mare, che sarebbe stata senza dubbio assegnata a Pompeo e che avrebbe minacciato i comandi di Lucullo e di Metello, il quale dopo il suo consolato era andato a conquistar Creta; ma Cesare, che era tornato dalla Spagna, e i tribuni, agitarono il popolo; Pompeo e la sua cricca lavorarono con molta energia, e dopo lunghe e tempestose discussioni la legge fu approvata, Pompeo investito di poteri anche più larghi di quelli proposti in principio, perchè gli si concesse di arruolare un esercito di 120 000 uomini e 5000 cavalieri, di raccogliere una flotta di 500 navi e di nominare 24 legati514.

Cesare aveva sostenuta la proposta di Gabinio, perchè Pompeo era potente e perchè la legge era popolare; ma egli si studiava in pari tempo di procurarsi quanti più amici potesse nelle classi alte e ricche, tanto che in quell’anno sposò la bella e ricca Pompeia, figlia di Quinto Pompeo Rufo morto nell’88 combattendo contro il partito mariano, e di Cornelia, figlia di Silla; nipote quindi di Silla e di Quinto Pompeo Rufo, ardente aristocratico e console nell’anno stesso in cui suo figlio era ucciso dai mariani515. Che il nipote di Mario potesse sposare la nipote di Silla e la figlia di una vittima della rivoluzione popolare, prova non solo quanto i rancori di famiglia e di partito si perdessero nelle nuove correnti dello spirito pubblico; ma prova anche quanto poco Cesare ambisse allora d’essere il capo d’un partito popolare in guerra aperta e inconciliabile con la nobiltà516. Intanto Lucullo si era sul principio della primavera del 67 incamminato con le legioni al soccorso di Triario; e Pompeo era partito a raccoglier non 120 000 soldati ma un piccolo esercito, non 500 navi, come era stato il suo primo disegno, ma solo 270, tutte quelle che potè trovare, in tanta trascuranza delle cose navali, nei vari porti degli alleati517; e le aveva divise tra i suoi numerosi legati, scelti tra gli uomini più cospicui delle alte classi e anche del partito conservatore518, incaricando ognuno di ripulire una parte del Mediterraneo. Uno di questi legati era Marco Terenzio Varrone. Lucullo però seppe per via che Triario, o per ambizione di vincer da solo o per errore, aveva data battaglia a Mitridate, ed era stato disfatto con grandi perdite a Gaziura519; onde domandati soccorsi a suo cognato Marcio, governatore della Cilicia, corse veloce in aiuto raggiungendo presto Mitridate; ma cercò invano di indurlo a battaglia, per annullare con una vittoria la impressione della sconfitta del suo generale. Pompeo invece riusciva in poco più di un mese a compiere, con breve fatica, l’impresa che tutti avevano creduta ciclopica. Solo in un momento di irritazione i pirati avevano potuto apparire come nemici formidabili per velocità per astuzia e per audacia alla nervosa metropoli mondiale; ma essi solo a Creta avevano una specie di governo militare, il quale del resto Quinto Metello veniva combattendo da un anno; mentre le altre numerose e piccole bande non avevano intesa tra loro, e infestavano i mari con tanta audacia solo per il disordine in cui la conquista romana aveva gettato il Mediterraneo. La notizia che a Roma si era creato un dittatore del mare, fatta una leva di illustri generali, apprestato tanto apparecchio di armi, si divulgò rapidamente per tutte le coste e spaventò molti di questi nemici creduti formidabili; le notizie delle prime catture di navi e dei primi supplizi accrebbero lo spavento; qualche banda di pirati si arrese; l’astuto Pompeo, il quale sapeva che nelle età civili, eccitabili, facili alle esagerazioni, l’uomo abile può illudere e stupir facilmente la folla con un successo apparente ma subitaneo, non li mandò sul patibolo ma a ripopolare questa o quella città devastata; e ben presto i pirati, rassicurati da questa specie di amnistia, vennero da tutte le parti a consegnare spontaneamente flottiglie ed armi ai generali di Pompeo520. Per qualche tempo il mare divenne più sicuro; e Pompeo fu salutato a Roma come l’eroe meraviglioso, che aveva annientato in un baleno un nemico tanto formidabile; e invece non aveva fatto niente, perchè di lì a poco, quando lo spavento del dittatore del mare fu passato, le navi da corsa furono prestamente armate e calate in mare su tutte le coste, e la pirateria riprese, audace come prima, a correre i mari521.

Invece al povero Lucullo, che aveva davvero distrutta per sempre una grande monarchia, toccò di esser privato, a questo punto, di tutto il frutto della sua fatica. Quando si seppe a Roma della disfatta di Triario, i tribuni della plebe si avventarono su lui; e Gabinio, certo d’accordo con Pompeo, tornò all’assalto, proponendo una nuova legge con cui si toglieva a Lucullo il comando della guerra contro Mitridate e le provincie del Ponto e della Cilicia che erano attribuite al console Manio Acilio Glabrione; si congedavano le legioni di Fimbria e si minacciava la confisca a quelli che disobbedirebbero522. Ben presto le disgrazie grandinarono su Lucullo: il Senato dovè questa volta abbandonarlo e lasciar approvare la legge; Marcio, non volendo porsi a rischio per il cognato in disgrazia, gli rifiutò i soccorsi, pretestando che i soldati non volevano muoversi523; Tigrane, almeno così correva voce, si avvicinava con un grosso esercito per unirsi con Mitridate524; il proconsole d’Asia rese pubblico l’editto del richiamo di Lucullo525. Lucullo però non cedè ancora alla fortuna e, senza badare ai decreti, marciò contro Tìgrane, per sorprenderlo in cammino, impedirgli di unirsi a Mitridate e infliggergli una disfatta che rivolgesse ancora una volta la fortuna. Ma fu l’ultimo disperatissimo sforzo; per via le milizie, stanche e sobillate, sfogarono alla fine i lunghi rancori e si ribellarono, rifiutando di seguire colui che non era più loro generale. Lucullo capì allora in un baleno, per una rivelazione improvvisa, tutti i torti, le durezze, le trascuranze con cui aveva disgustato i soldati; fu preso da un’impazienza puerile di ripararle; e con l’impeto consueto proruppe dall’orgoglio in una profusione di umili tenerezze nelle quali si risvegliava a un tratto, e troppo tardi, l’affetto che egli veramente sentiva per i suoi soldati, ma che di solito, quando il suo spirito era occupato dalle cure e dai piani della sua vasta ambizione, restava come chiuso; si gettò in mezzo ai soldati, pianse, supplicò, prese per le mani i capi della rivolta. Invano: i soldati dichiararono che aspetterebbero sino alla fine dell’estate, e, se allora il nemico non si fosse presentato, se ne sarebbero andati, i congedati a casa, gli altri dal console Glabrione. Lucullo dovè cedere alla fortuna; e a poco a poco, mentre Mitridate riconquistava il suo regno e Tigrane saccheggiava la Cappadocia, colui che due anni prima era stato in Asia quasi un secondo Alessandro, diventò nel campo lo zimbello e la derisione dei soldati526.

XII.
MARCO TULLIO CICERONE.

Se Pompeo si era compiaciuto di farsi ammirare come il benevolo signore del mare, Quinto Metello, che combatteva dal 68 contro i corsari di Creta, metteva l’isola a ferro e a fuoco, trucidava i prigionieri, si arricchiva smisuratamente con le spoglie dei pirati. Metello apparteneva a quella cricca aristocratica di conservatori intransigenti, che avrebbero voluto governar l’impero come ai tempi di Scipione Africano, e che si compiacevano di ostentare, nella politica interna ed estera, una durezza irragionevole e pericolosa, per tradizione, per affettazione, per orgoglio, per odio della nuova sentimentalità democratica. Alla fine però i pirati, ridotti alla disperazione, offrirono a Pompeo di arrendersi a lui; e Pompeo, il quale avrebbe volentieri umiliato un conservatore così autorevole come Metello, accettò, affermando che la legge Gabinia subordinava a lui anche il proconsole Metello; e mandò Lucio Ottavio a Creta con l’ordine a Metello di sospendere la la guerra e alle città di non obbedirgli più. Ma il risoluto e superbo patrizio accolse Ottavio con villanie; disse che a Creta egli e nessun altri comandava; punì crudelmente le città che gli rifiutavano l’ubbidienza in forza dei decreti di Pompeo; onde Lucio Ottavio, per sostenere il diritto del suo generale, stava quasi per impegnarsi – scandalo singolare ! – in una guerra a difesa dei pirati contro il proconsole romano. Fortunatamente eventi più gravi distrassero Pompeo dal pericoloso puntiglio527.

Sulla fine del 67 giunsero a Roma pessime notizie dall’Oriente. Lettere su lettere dei loro corrispondenti di Asia descrivevano ai ricchi finanzieri il disordine della provincia in modo pauroso: Lucullo senza comando; Glabrione e Marcio incapaci; Mitridate di nuovo signore del Ponto; la Cappadocia devastata da Tigrane; colonne volanti già apparse in Bitinia ad abbruciare i villaggi di frontiera....528 L’eccitabile mondo della alta finanza, il Senato, il popolo si spaventarono, rividero un’altra volta Mitridate a Pergamo, gli Italiani massacrati, i capitali confiscati, la provincia perduta; l’idea che non si potesse provvedere a tanto pericolo con le magistrature ordinarie, già popolare nel partito democratico per odio alla nobiltà, diventò persuasione di tutti, anche dei finanzieri; e al principio del 66 il tribuno Manilio propose che ai poteri già concessigli con la legge Gabinia Pompeo aggiungesse il governo dell’Asia, della Bitinia e della Cilicia; il comando della guerra contro Mitridate e contro Tigrane; la facoltà di dichiarar guerra e stringere alleanze in nome del popolo romano con chi volesse529. Crasso, già crucciato per il successo di Pompeo nella guerra dei pirati, fremeva vedendo il rivale in procinto di vincere definitivamente, in vista di tutta Italia, il duello di intrighi, incominciato con lui quattro anni prima, e di ottenere tutti gli onori a cui per tre anni egli lo aveva costretto a rinunciare; il partito conservatore, che già aveva severamente biasimata la sua democratica clemenza verso i pirati530, avversava naturalmente questa dittatura militare del suo nemico su metà dell’impero; alcuni dei suoi membri più insigni, come Catulo e Ortensio, tentarono di combattere la legge, eccitando i sentimenti repubblicani e dimostrando che quella dittatura era simile a monarchia531. Questa volta però, dopo il successo nella guerra contro i pirati, Pompeo, benchè lontano, benchè solo, era più potente di Crasso a Roma, del partito conservatore, delle tradizioni, di tutto e di tutti. Appariva ormai chiaro un fenomeno nuovo, nella società italiana: la potenza intermittente ma invincibile dell’opinione pubblica. Come sempre nelle democrazie, quando con la civiltà e con la ricchezza cresce la varietà dei piaceri e delle opere, e aumenta l’impressionabilità del temperamento, avveniva allora che le classi alte e istruite, i possidenti ricchi e agiati, i capitalisti, i mercanti, gli artisti, i professionisti e gli uomini colti, intenti di solito a molteplici affari e piaceri, chi a scrivere, chi a speculare, chi a studiare, chi a godersi, chi a coltivar le sue terre, si interessavano della pubblica cosa solo di tempo in tempo, allorchè un avvenimento straordinario commoveva tutti gli spiriti, abbandonando negli intervalli, per egoismo, per mancanza di tempo, per soverchia delicatezza di sentimento, lo Stato in potere di un piccolo numero di politicians di professione: ma quando poi una di queste commozioni dello spirito pubblico si diffondeva per l’Italia, nessun partito, nessuna cricca di politicanti, nessun corpo politico osava più di resistere, tanta paura tutti avevan di essere impopolari. Così nel 70 un furore contagioso di odio contro la consorteria conservatrice aveva indotto anche i conservatori ad approvare le leggi democratiche; poi il fervore pubblico era venuto meno, e invano Cesare, Pompeo, i tribuni della plebe avevano cercato di eccitarlo con stimoli artificiali. Ma adesso il pubblico si era di nuovo commosso; tutta Italia, lieta per il successo della guerra contro i pirati, ammirava Pompeo come un generale meraviglioso, non aveva fiducia che in lui, voleva lui solo per finir Mitridate; non solo gli arruffapopoli chiedevano la dittatura dell’Oriente, ma l’alta finanza, la gente denarosa, i numerosi senatori e cavalieri che avevano collocati capitali in Asia; non Cesare solo si adoperava a fare approvare la legge, ma anche colui che primo avrebbe rappresentata a Roma questa figura nuova di tutte le democrazie che inciviliscono: il letterato, fatto potente tra gli uomini dalla forza della letteratura. Dopo la clamorosa accusa di Verre, Cicerone aveva continuato ad accrescere la propria cultura, leggendo uno sterminato numero di libri, ad esercitare la velocità dello scrivere così da divenire uno dei più intensi e rapidi lavoratori del tempo suo, a perfezionare la eloquenza; e primo aveva acquistato, in quella società avida di godimenti intellettuali, tanta ammirazione e tanto credito, da essere eletto, non ostante la modestia delle origini e della fortuna, edile e pretore, e da contare ormai come uno dei personaggi più cospicui di Roma. Certo, come tutti i letterati, egli sapeva signoreggiare l’immaginazione e il sentimento delle folle assai più che le volontà dei singoli uomini; e se ritto innanzi a una moltitudine di ascoltatori egli era un dominatore potente; se questo successo straordinario e questa meravigliosa dominazione spirituale, in una età agitata da così intenso fervore di desideri e di speranze, avevano eccitata in lui la vaga ambizione di divenire il Demostene della colossale democrazia italica; se come tanti altri guerrieri e letterati egli incominciava a illudersi di poter essere un gran reggitore di Stati; tra gli uomini invece, in cui si scomponevano le immense folle che egli affascinava parlando, Cicerone diventava un omiciattolo incerto e debole, che, non ostante molte belle qualità morali, si lasciava facilmente ingannare e spaventare. Immune, per nascita, dalla orribile depravazione morale della decaduta nobiltà romana; borghese d’origine e dotato delle antiche e solide qualità morali del medio ceto italico; onesto, non cupido, non crudele, non dissoluto, affettuoso con i suoi, sensitivo e nervoso, egli era nel tempo stesso tormentato dai piccoli mali di una vanità quasi feminea e da un delirio di persecuzione leggero; cosicchè da esaltazioni in cui si sentiva dominatore e sfogava la propria baldanza nella libertà di una critica mordace contro tutti, nelle ambizioni più audaci, nelle lodi altere di sè, egli cadeva periodicamente, come se due persone vivessero in lui, in avvilimenti, prostrato dai quali temeva le inimicizie di ognuno, mendicava la lode di tutti e si inteneriva di gratitudine per il primo cialtrone che gli dicesse qualche lode banale. Sopratutto non aveva mai potuto liberarsi da una certa soggezione verso le altissime classi; e se, avidissimo di celebrità, si compiaceva di esser noto a tutti e di vedere il popolino voltarsi nelle vie a guardarlo, temeva assai più che si parlasse male di lui nelle grandi case di Roma; ambiva ardentemente le difficili relazioni con i nobili non degenerati ed autentici; spasimava di compiacenza per le molte amicizie procuratesi con la fama oratoria tra i ricchi capitalisti di Roma, i quali, più democratici e spregiudicati dei nobili, trattavano più facilmente come un eguale, quando erano colti come Attico, un self made man della letteratura. Insomma anche quando fu divenuto un gran personaggio della storia universale, egli restò in molte cose quel che era nato: un piccolo borghese, cui la ricchezza e la nobiltà abbagliava e beava. Si comprende perciò che egli cercasse, allora, come Cesare, di farsi ammirare nel tempo stesso dai democratici e dai conservatori, ma inclinando, diversamente da Cesare e appunto perchè borghese, verso la nobiltà; che avesse accusato Verre nell’anno della rinascenza popolare e combattuta la corrotta consorteria conservatrice; ma che poi avesse rifiutato la candidatura a tribuno della plebe, per non parere di incanagliarsi agli occhi dei grandi532.

La legge Manilla offriva una occasione così bella per piacere a una parte considerevole delle alte classi ai ricchi capitalisti e a tutto il popolo; che Cicerone, il quale in quell’anno era pretore, pronunciò, a favore della legge, un grande e bellissimo discorso; dicendo al suo pubblico di ricchi mercanti, di senatori usurai, di agiati appaltatori, di artigiani e tavernieri, che l’Asia era la provincia più ricca dell’impero, che dall’Asia fluivano i più lauti redditi dell’erario; che in Asia erano impiegati i maggiori capitali dei pubblicani, dei mercanti, dei privati; che per ciò conveniva a tutte le classi difendere questa provincia sino all’ultimo sangue533. La legge, sostenuta anche da Cesare, che intendeva proporsi edile per l’anno 65 e raddoppiava di zelo per aver popolarità, fu approvata, non ostante il furore di Crasso; e Pompeo, ricevutane la notizia in Cilicia dove aveva svernato, nella primavera del 66 diè subito opera alla guerra. Sempre fortunato, egli era mandato a uccidere un uomo morto. Ormai Mitridate era venuto in discordia con Tigrane, che lo sospettava di fomentargli le frequenti rivolte dei figli per avere sul trono di Armenia un alleato più ligio; non aveva più flotta e possedeva ancora solo un avanzo di esercito: 30 000 uomini e qualche migliaio di cavalieri, tra i quali un certo numero di fuggiaschi italiani534. Forse egli avrebbe potuto sperare aiuto dal nuovo re dei Parti, Fraate, successo ad Arsace; ma Pompeo prestamente mandò un’ambasceria a persuaderlo di muover piuttosto guerra a Tigrane, per ricuperare le provincie perdute;535 e lasciando le tre legioni di Marcio in Cilicia536, forse per il timore di non poter nutrire nel Ponto devastato tutto l’esercito, andò con un forte corpo di milizie a rilevare dal comando Lucullo, che si ostinava a restare in mezzo alle sue legioni disobbedienti. Pompeo non poteva non fargli una visita; ma come sarebbe finito il colloquio tra l’esasperato generale in disgrazia e il petulante favorito della fortuna? Amici comuni si misero di mezzo, affinchè questa suprema cerimonia, così difficile per Pompeo, così dolorosa per Lucullo, si compisse con dignità e senza scandalo; l’incontro fu stabilito a Danala, in Galazia537; e il colloquio cominciò bene, con complimenti reciproci. Ma ben presto Lucullo, che era sempre stato poco abile diplomatico ed allora era fuori di sè per il cruccio, si mise a sostenere una tesi impossibile: che Pompeo non aveva più nulla da fare, perchè la guerra era stata finita da lui: tornasse quindi a casa! La discussione si incalorì; e il colloquio terminò con grida e male parole538. L’ostinato Lucullo volle ancora emanar dei decreti e distribuire le terre della Galazia da lui conquistata, per mostrare agli altri e illuder sè stesso che non cedeva; ma Pompeo gli tolse facilmente tutti i soldati, lasciandogliene soli 1600 per accompagnarlo in Italia; e con un esercito, che doveva superare di poco i 30 000 uomini539 invase il Ponto. Mitridate tentò, con il suo esercito piccolo e perciò relativamente agile, una strategia di temporeggiamenti e guerriglie sulle comunicazioni del nemico, simile a quella che Lucullo aveva fatto contro di lui nella campagna del 74540. Ma alla fine, dopo aver perduta in una imboscata una parte della cavalleria, dopochè Pompeo ebbe aperta una via di rifornimento breve e sicura con la Acelisene, provincia dell’Armenia al di là dell’Eufrate, ed ebbe ordinato alle legioni di Cilicia di raggiungerlo, Mitridate, che si era trincerato in una forte posizione a Dasteira, capì che sarebbe stato presto circuito da forze soverchianti541; e una notte, passando inosservato tra i campi romani, tentò di raggiungere l’Eufrate, varcarlo, ritrarsi in Armenia, per cercare di continuare la guerra. Pompeo però lo raggiunse al terzo giorno e manovrando con abilità gl’inflisse una grave disfatta542. Pure Mitridate riuscì ancora a salvarsi e con gli avanzi dell’esercito andò a Sinoria, il più forte dei suoi castelli posti sui confini dell’Armenia; prese una forte somma di denaro, pagò ai soldati un anno di paga, distribuì loro gran parte delle altre sue ricchezze e mandò a domandare ospitalità a Tigrane re di Armenia; poi senza aspettar la risposta a Sinoria, così vicino al nemico, risalì velocemente la riva destra dell’Eufrate sino alle sorgenti con il suo piccolo esercito, reclutando per via soldati; ridiscese nella Colchide, che in mezzo al disordine degli ultimi anni era divenuta quasi indipendente; la traversò e si fermò a Dioscuriade, l’estrema grande città greca della costa, fondata ai piedi del Caucaso543.

Pompeo, che nella campagna contro Mitridate aveva compiuto il suo capolavoro di stratega, non poteva inseguire con un grosso esercito un manipolo fuggente veloce attraverso le montagne; onde si volse a conquistare l’Armenia, pensando che avrebbe facilmente preso alla primavera Mitridate nella Colchide: donde non poteva tornare indietro in Armenia, non fuggire sul mare dominato dalla squadra romana, non rifugiarsi nella Crimea, dove regnava il suo figlio Machares, diventato, nella disgrazia del padre, amico dei romani e da cui lo separavan le popolazioni barbare del Caucaso, che egli non aveva potuto domare nemmeno nei tempi della sua maggiore potenza. Ma la fatica di conquistare l’Armenia gli fu risparmiata dalla dedizione di Tigrane. Tigrane era stato assalito da Fraate e dal figlio ribelle; ma quando Fraate, stanco di assediare Artassata, si era ritirato, e il figlio ribelle, spaurito di dover continuar da solo la guerra contro il padre, ebbe ricorso per aiuto a Pompeo, anche il padre, fatti incatenare i messi di Mitridate, posta a prezzo la sua testa, venne solo, a piedi, in atto e vestimento umile, nel campo romano. Pompeo lo ricevè gentilmente, lo confortò, gli restituì tutti i dominî ereditari della famiglia, lo conciliò con il figlio, a cui diede la Sofene, lo chiamò amico e alleato del popolo romano a condizione che pagasse 6000 talenti, circa ventotto milioni a lui, cinquanta dramme a ogni soldato, mille a ogni centurione, diecimila a ogni colonnello544. Poi portò le milizie a svernare sulle rive del Ciro, all’estrema frontiera settentrionale dell’Armenia; e per preparare, per l’anno dopo, l’invasione della Colchide, avviò trattative con gli Albani che abitavano il Cirvan e il Daghestan, e con gli Iberi della Georgia. Ma Pompeo si ingannava credendo che Mitridate fosse ormai vinto; l’indomabile vecchio aveva anche egli avviate trattative con gli Iberi e gli Albani, con i quali aveva conchiusi nei tempi della potenza trattati di amicizia e di commercio; e li aveva persuasi ad aiutarli in un ultimo sforzo disperato contro Roma. Nel mese di dicembre, all’improvviso, le legioni svernanti sul Ciro furono assalite da un esercito di Albani; ma la sorpresa fallì; l’assalto fu respinto e Pompeo, sempre fortunato, ricevè con poco danno l’avviso di esser più cauto con questi barbari545.

XIII.
LE SPECULAZIONI E LE AMBIZIONI DI CRASSO.

Ma fu l’ultimo pericolo. Nella primavera del 65 Pompeo incominciava una lunga, piacevole, lucrosa e non pericolosa avventura, tra le vaste monarchie, le città libere, le repubbliche marinare, le piccole teocrazie, gli stati di briganti e pirati, formatisi in Asia, in mezzo alle macerie dell’impero di Alessandro. Egli si avviava a vedere i luoghi favolosi della leggenda e della poesia greca, le regioni, le città, i campi di battaglia più celebri dell’Oriente; a osservare la infinita varietà di nazioni barbare che dal Caucaso all’Arabia vivevano sparse per l’Asia con lingue, con costumi, con culti diversi; a conoscere le meraviglie e le corruzioni di quel vecchio Oriente industriale e ellenizzato, così diverso dalla civiltà nuova dell’Italia: i mostruosi culti compositi di superstizioni molteplici; le magnifiche e laboriose coltivazioni delle sue parti più fertili; i monumenti, le arti e le industrie delle famose città che fabbricavano i lussi per tutte le regioni mediterranee; le popolazioni di queste metropoli industriali, ingegnose, laboriose, sobrie, risparmiatrici, devote, eccitabilissime, e così diverse dagli Italiani, aggressivi, spregiudicati, prodighi, cupidi di subiti guadagni, rischiosi e infingardi; la classe dei filosofi, degli scienziati e dei letterati di professione, così rari ancora in Italia; il lusso, i vizi, i delitti, i tesori, i cerimoniali delle corti, che tanto eccitavano la curiosità della ancor semplice democrazia italica. Al principio della primavera Pompeo invase il paese degli Iberi e li sottomise; vide da lungi le vette nevose del Caucaso, su cui era stato inchiodato Prometeo; passò nella valle del Rioni (l’antico Fasi) e scese nella Colchide, tutta piena dei ricordi di Medea, di Giasone, degli Argonauti, per catturar Mitridate....546 Ma troppo tardi: l’indomabile vecchio aveva sforzato, con il suo piccolo esercito, il passaggio fino in Crimea lungo 700 chilometri di pendici del Caucaso dirupanti nel mare e infestate da barbari; aveva sorpreso e costretto a fuggire il figlio ribelle, riconquistando un altro Stato547. Il prudente Pompeo non volle invadere dal mare la Crimea; ma ordinatone il blocco, tornò nella valle del Kur, l’antico Ciro, e fece una spedizione nel paese degli Albani, che pare sorprendesse a tradimento; poi si ricondusse nella piccola Armenia548, riportando agli avventurosi mercanti italiani sicure notizie sulla grande via commerciale delle Indie, sino allora ignota agli Italiani, che dal porto di Fasi risaliva la valle del Rioni, sboccava nella valle del Kur e quindi attraverso il paese degli Iberi e degli Albani, arrivava al Caspio; raggiungeva attraverso il Caspio la foce e risaliva il corso dell’Amudaria, che in antico si chiamava Oxus, e sboccava non nel Lago d’Aral, come ora, ma nel Caspio549. Naturalmente, molti metalli preziosi erano stati rubati e moltissimi schiavi catturati, in queste spedizioni. Dalla piccola Armenia Pompeo attese per quell’anno a conquistare gli ultimi castelli e a confiscare gli immensi tesori di Mitridate; a Talaura trovò le sue collezioni meravigliose di cui fu necessario un mese a far l’inventario: 2000 tazze di onice incrostate d’oro, un immenso numero di fiale, di vasi, di letti, di sedie, di briglie, di corazze, gemmate e dorate550; in un altro castello trovò la corrispondenza, le memorie segrete di Mitridate, le ricette dei veleni e le lettere d’amore, a quanto sembra assai licenziose, che il re del Ponto aveva scambiate colla sua favorita Monima551. Tutti i tesori dell’ultimo grande monarca ellenizzante dell’Asia appartenevano ormai all’audace democrazia italica.

Ma questa democrazia vittoriosa non poteva gioire delle sue vittorie. Avveniva allora in Italia ciò che avviene in tutte le società, in cui fervono tra i ricchi e i poveri, tra la nobiltà e il medio ceto, odi ereditati dal passato e inaspriti nel presente, non dalla vera miseria, ma, ed è peggio, dal disagio dei molti che spendono e desiderano più di quanto possiedono, mentre i progressi della civiltà e della ricchezza diffondono lo scetticismo politico: due piccole minoranze politicanti, conservatrice e democratica, si combattevano con crescente furore, in cospetto del pubblico, ricaduto, dopochè la commozione popolare per la dittatura di Pompeo fu spenta, in un torpido malumore; e le piccole combriccole intrigavano, in ciascun partito, con straordinaria impudenza: potentissima tra tutte quella formatasi nel partito popolare dopo la partenza di Pompeo, con Crasso e con Cesare a capi. La legge Manilia era stata una ferita crudelissima per l’orgoglio di Crasso. Esaltato dalla vittoria riportata nel 70 sopra Pompeo, dalla gloria della guerra contro Spartaco, dalle immense ricchezze, e divenuto insaziabile, Crasso si era sforzato in quei quattro anni, con una tenacia instancabile, di ingrandire, di ingrandire, di ingrandire ancora la propria potenza e ricchezza. Egli non comprava, come tanti incauti, terreni a prezzi altissimi sperando favolosi rialzi; ma speculava invece, forte dei suoi grandi capitali, sugli speculatori manchevoli di capitale. Gran mercante e allevatore di schiavi, acquistava molti schiavi orientali scegliendo con cura quelli che conoscevano qualche parte dell’arte di costruire: ingegneri, architetti, capimastri; aveva istituita nella sua casa una specie di scuola di queste arti per l’educazione di giovani schiavi; e li affittava poi ai piccoli e medi costruttori di case, troppo poveri per comprarsi essi stessi schiavi così cari, guadagnando enormemente. Inoltre, siccome gl’incendi erano frequentissimi a Roma, dove tante case erano di legno e gli edili trascuravano il servizio dell’estinzione, Crasso aveva costituito tra i suoi schiavi una squadra di pompieri, e disposto per tutti i quartieri di Roma vedette: appena un incendio scoppiava, la vedetta volava ad avvertire la squadra; questa accorreva, con un incaricato di Crasso, il quale, giunto sul luogo, comprava dal padrone, per una miseria, la casa incendiata e spesso anche le case vicine, minacciate dal fuoco; poi, conchiuso il contratto, faceva spegnere il fuoco e rifar la casa. In questo modo egli acquistava in gran numero con poca spesa le case dei piccoli costruttori, che non avrebbero potuto più rifarsi la casa bruciata; diventava uno dei più grandi proprietari di case e terreni in Roma; barattava, vendeva, ricomprava poi queste case in varie maniere552. Ormai era forse l’uomo più ricco, il banchiere meglio fornito, il maggior creditore di Roma; un rimestatore di milioni la cui potenza cresceva a mano a mano che la penuria del denaro gli rendeva più servili i molti suoi debitori e in generale tutti i bisognosi di denaro, cioè i più; il capo di una grande coorte di computisti, di amministratori, di segretarii, nei cui libri era inscritto per nome un infinito numero di persone: gli appaltatori, i mercanti, i costruttori che avevano affittato da lui schiavi; gli innumerevoli inquilini delle sue case; i numerosissimi senatori che si erano fatti prestar denaro. Egli aveva potuto, per un momento, illudersi di esser l’uomo più potente dell’impero. Ma a un tratto Pompeo aveva rotta questa esaltazione felice della soddisfatta ambizione, per la forza di una ammirazione popolare quasi fanatica, che a lui non era mai riuscito di godere; onde il milionario, disilluso sulla potenza del suo oro ed esasperato, voleva ora a sua volta la sua rivincita, onori equivalenti a quelli della legge Manilia, sopratutto una popolarità eguale alla popolarità di Pompeo, a qualunque costo. Pompeo era divenuto così popolare e potente, perchè, vincendo i pirati, aveva rifatta l’abbondanza a Roma? Egli farebbe di più: farebbe decretare dal popolo la conquista dell’Egitto e ne otterrebbe il comando. La proposta non poteva non esser popolarissima; perchè l’Egitto era un paese fertile, dove ogni anno il grano avanzava al bisogno e dove tutti i paesi in carestia mandavano a comprare, con il permesso del re; perchè, quando il paese fosse di Roma, tutta quell’annuale abbondanza sarebbe riserbata alla metropoli e la fame non minaccerebbe più. La conquista dell’Egitto significava allora ai Romani ciò che adesso l’abolizione del dazio sul grano: pane a buon mercato. Ma siccome bisognava agitar questa idea in mezzo al popolo, Crasso, che non si sentiva atto da solo a questa impresa, cercò un aiuto; e si intese facilmente con Cesare. Per sua fortuna Cesare, in quel momento, era in gran bisogno di denari. Cesare non si compiaceva, come gli uomini perversi, di fare il male; ma viveva in un tempo e in una società in cui l’ardore delle passioni, la fretta di riuscire, l’orgoglio disponevano molti al cinismo; ma faceva parte di un mondo politico in cui gli onesti lasciavano una parte sempre maggiore del campo, in tutti i partiti, ai violenti e ai farabutti; ma era ambizioso, aveva molti debiti, e dall’ambizione e dai debiti già contratti era spinto, per potere un giorno pagarli, a perfezionarsi nell’arte difficile e faticosa di richiamare continuamente l’attenzione pubblica sopra la propria persona: sola maniera di riuscire, in quella democrazia eccitabile ed obliviosa, che oggi delirava per un uomo e domani l’aveva già dimenticato. Per accrescere il proprio prestigio davanti alla moltitudine democratica sì, ma pur sempre ammiratrice delle discendenze illustri, egli aveva perfino inventato di discendere per linea materna da Anco Marzio e per linea paterna addirittura da Venere: ma un discendente di Anco Marzio e di Venere sarebbe stato, se pitocco, ridicolo; onde egli, che era stato eletto edile per l’anno 65 e che già aveva debiti con tutti i banchieri di Roma, doveva continuare le prodigalità, i regali, gli inviti, i prestiti e i doni con cui aveva cominciato a farsi largo, sino al giorno in cui, fatto pretore, avrebbe potuto predare una provincia. Anzi voleva dare, come edile, giuochi e feste di una magnificenza non ancora veduta, perchè lo sfarzo affascinava quella cupida democrazia mercantile più di ogni altra cosa. Proprio allora però la crisi gli rendeva più difficile il credito presso i banchieri, i quali naturalmente, scarseggiando il denaro, largheggiavano meno con gli uomini politici, a cui, sotto colore di prestare, in verità donavano, per corromperli pulitamente. In simile frangente, le ambizioni e le gelosie di Crasso erano per Cesare una miniera di oro: ed egli non esitò a mettersi, per potergli spremer denaro, ai servigi del milionario, con il proposito però di non inimicarsi Pompeo, il quale non avrebbe potuto lagnarsi se Cesare, dopo averlo aiutato a ottenere il comando in Oriente, aiutava Crasso, che pure era un cittadino insigne, ad aver l’Egitto. Questa venalità era poco onorevole; e questa politica di doppia amicizia molto difficile: ma Cesare, che era giovane e ambizioso, che era riuscito in tutte le agitazioni tentate per Pompeo, non dubitava di riuscire. Tutti, del resto, nel corrotto mondo di politicians in cui viveva, affettavano con tanta petulanza il cinismo e l’audacia! Egli non sapeva che per il poco oro di Crasso stava per affrontare una bufera, nella quale la sua fortuna e il suo nome quasi perirono553.

L’anno 65 infatti era incominciato male, con un grosso scandalo. Nelle elezioni dei consoli, per favorire Lucio Aurelio Cotta e Lucio Manlio Torquato, il Senato aveva radiato dalla lista dei candidati Lucio Sergio Catilina, un antico partigiano di Silla che tornava dall’Africa dove era stato propretore, con la scusa che non aveva presentata la domanda a tempo e che era minacciato di un processo per concussione dagli africani. Ma poichè non ostante questo intrigo erano stati eletti invece Publio Antronio e Publio Silla, nipote del dittatore, il figlio del candidato Lucio Manlio Torquato554 aveva querelato per corruzione elettorale i due eletti; ed era riuscito, certo per intrighi e camorre, a farli condannare e decadere dalla carica; poi le elezioni erano state rifatte ed eletti i due candidati prima respinti. Gli animi si erano riscaldati per questo spudorato intrigo; già durante il processo erano successi tumulti555; il partito popolare aveva preso la difesa dei due consoli condannati per poter denunziare le camorre dei grandi; i due condannati, incoraggiati dal favore popolare, si erano intesi per tentare una congiura, ammazzare i consoli al primo giorno dell’anno e far rifare le elezioni. Catilina per vendetta e alcuni giovani nobili pieni di debiti come Gneo Pisone per ambizione, si erano uniti alla congiura; Crasso e Cesare, che volevano incominciare la agitazione per la conquista dell’Egitto, avevano incoraggiati i congiurati, sperando, se essi fossero stati eletti consoli, di averne l’aiuto a far decretare la conquista dell’Egitto. La congiura però era stata scoperta; il Senato si era radunato per deliberare; la città commossa aspettava una punizione esemplare.... Ma Crasso, così per smentire d’un colpo le innumerevoli chiacchiere della città sulla congiura e sulla sua partecipazione, come per mostrare a tutti la propria potenza, era intervenuto energicamente, aveva voluto non solo salvare, ma far ricompensare i rei della fallita congiura; e il Senato, in cui tanti erano debitori di Crasso, si era piegato, dando a Gneo Pisone un comando straordinario in Spagna, mentre il console Torquato si impegnava a difendere Catilina dall’accusa di concussione556. Se la congiura non era riuscita, Crasso aveva però potuto fare un dispetto a Pompeo, di cui Gneo Pisone era nemicissimo, e ottenere una straordinaria soddisfazione di amor proprio.

Il seguito dell’annata corrispose a questo principio. Lucullo aveva fatto ritorno in Italia, triste e rabbioso, con il miserabile corteo di 1600 soldati, portando dal Ponto conquistato all’Italia, insieme con molto denaro coniato, con molto oro e argento in verghe557, un dono più umile e più prezioso: un albero ancora ignoto, il ciliegio, che dopo lui si cominciò a coltivare in Italia558. Quando vediamo a primavera, solitario in mezzo a un campo, un ciliegio, ridente e splendente nella violacea pruina dei suoi fiori, pensiamo che quello è l’ultimo avanzo delle gigantesche conquiste del generale romano, salvatosi solo dai naufragi storici di venti secoli! Ma se i posteri dimenticano i benefici, i contemporanei spesso li ignorano; e Lucullo, non ostante le vittorie, i tesori e i trofei georgici, trovò le porte di Roma chiuse alla sua modesta processione trionfale, dai tribuni della plebe i quali, per far dispetto ai grandi, incominciarono a interporre il veto, ogni volta che il Senato voleva deliberare il suo trionfo. Nel tempo stesso, i suoi ufficiali e generali erano presi di mira: Cotta in special modo, il vinto di Calcedonia e il distruttore di Eraclea, che era stato ricevuto a Roma con grandi onori dal Senato e chiamato Pontico. Ma quando Cotta incominciò ad ostentare, con un lusso insolente, le ricchezze guadagnate nella guerra, i tribuni lo assalirono, minacciandolo di processi, proponendo la liberazione dei captivi di Eraclea.... Cotta, sentendo crescere intorno la tempesta, pensò gittare a mare una parte della preda e versò una grossa somma all’erario. Ma i popolari incalzarono: era una commedia; Cotta si era tenuta la parte maggiore; e la proposta di liberare i prigionieri fu portata nei comizi. I capi del partito popolare prepararono, per quella radunanza, una rappresentazione patetica: cercarono, per le case, per i trivi, per i capannoni dei mercanti di schiavi quanti prigionieri di Eraclea poterono, li vestirono a lutto, diedero loro dei rami d’ulivo e li fecero venire all’assemblea; e quando un certo Trasimede di Eraclea sorse a parlare, e ricordata l’antica amicizia di Eraclea per Roma, descrisse l’assedio, il saccheggio, la strage, l’incendio della città, gli schiavi incominciarono a singhiozzare, a lamentarsi, a tendere le braccia, in atto supplichevole.... Cotta potè appena parlare, tanto il pubblico era inferocito; e fu contento di scampar l’esilio559.

A queste provocazioni il partito conservatore rispondeva, come fanno sempre i conservatori in condizioni simiglianti, accusando a ogni momento i propri nemici di voler sovvertire lo Stato. Non era dubbio: Pompeo, quando fosse tornato dall’Oriente, con l’esercito vittorioso, si sarebbe proclamato monarca e avrebbe distrutta la repubblica! Eppure, nonostante questa paura, essi trovavan modo di alienarsi anche Crasso e di inimicarsi mortalmente Cesare. Crasso, che era in quell’anno censore con Catulo, smanioso, dopo l’insuccesso della congiura, di fare qualche cosa che accrescesse la sua popolarità, la sua fama, il suo potere, per preparare l’approvazione della legge sull’Egitto, volle inscrivere, nei registri dei cittadini, gli abitanti della Gallia transpadana. Ma Catulo glielo impedì, sostenuto da tutto il partito conservatore560; ne seguiron litigi tra i due censori che non fecero più nulla. Intanto Cesare, per servire l’ambizione di Crasso e la sua, adornava come edile di quadri e di statue il Campidoglio, il Comizio, il Fôro, le Basiliche; celebrava con straordinario lusso i giuochi Megalesi e i Romani (certamente Crasso pagò le spese); dava in memoria di suo padre splendidi giochi di gladiatori, nei quali per la prima volta splenderono nelle mani dei gladiatori freccie e lancie di argento e ogni cosa fu di argento; dispose, in portici costruiti provvisoriamente, sul Foro e nelle Basiliche, una esposizione di tutti gli oggetti di cui si serviva per i giuochi e per gli adornamenti monumentali561; fece di sorpresa trovare una mattina, sul Campidoglio, ritti i trofei di Mario, che Silla aveva rovesciati562. I vecchi soldati di Mario, gli avanzi delle campagne cimbriche e teutoniche trassero in folla a rimirarli; molti piansero di commozione; per qualche giorno tutta Roma fu in moto verso il Campidoglio e parlò di questa audacia di Cesare; ma i conservatori si arrabbiarono; discussioni violente ebbero luogo in Senato, e Catulo gridò che Cesare procedeva oramai apertamente a sovvertire le istituzioni dello Stato563. Un momento i conservatori cercarono anche, per vendicarsi di Gabinio, di impedirgli, con cavilli legali, di andare come legato di Pompeo in Oriente; ma non riuscirono564. Ebbero invece una gran soddisfazione quando Cesare, credendo di aver preparato il popolo con queste magnificenze tentò per mezzo dei tribuni un’agitazione popolare, per far deliberare la conquista dell’Egitto, prendendo a pretesto il testamento del re Alessandro, e per farne dare il comando a Crasso565. Siccome le discussioni dei partiti politici procedono sempre per tesi e antitesi, e ognuno a sua volta nega e afferma ciò che l’altro afferma e nega, il partito conservatore diventò in quell’occasione partigiano della politica casalinga; mise in dubbio l’autenticità del testamento; disse che Roma non doveva desiderare e assaltar tutto nel mondo566. Ma Cesare, il quale possedeva una sensibilità squisita dello spirito pubblico, si accorse subito che l’agitazione non riusciva; che nemmeno il pane a buon mercato e la conquista del più fertile granaio del mondo commuovevano il pubblico567. Le classi ricche, specialmente i finanzieri, che avevano sino allora favorito e incoraggiato il partito popolare, incominciavano a inquietarsi per la violenza demagogica, per le proposte di leggi avverse ai capitalisti in cui il movimento democratico pareva finire, come un fiume in una vorticosa cascata; e inclinavano perciò verso i conservatori, i cui capi li allettavano con abili manovre, facendo, ad esempio, ridare allora ai cavalieri il privilegio, abolito da Silla, di sedere in teatro sui banchi dei senatori. Il medio ceto, disilluso dalle vittorie democratiche precedenti che gli avevano fruttato solo il cruccio degli insopportabili debiti, era snervato, svogliato, distratto. Ben presto bisognò lasciar cadere la cosa.

Il fervore di queste contese cresceva così con gli urti e i riurti; eppure si combatteva per ombre e fantasmi, tra un numero di combattenti minore, a mano a mano che gli animi si accendevano. Le alte classi non possedevano più, come al tempo dei Gracchi, privilegi politici ed economici che impedissero il progresso delle classi medie; e se le tradizioni dell’êra aristocratica conservavano pure in questa democrazia qualche vantaggio agli ultimi avanzi di una nobiltà gloriosa; se certe alte cariche, come la censura e il consolato, erano ancora riserbate a queste grandi famiglie superstiti, tutta l’Italia formava ormai una classe sola di dominatori, unita nel prendere dall’impero le migliori ricchezze, con uno sfruttamento così vasto e molteplice che tutti, anche la classe media e il popolino dell’Italia, potevano in misura maggiore o minore parteciparvi con lucro. Il figlio di un piccolo possidente povero con molta famiglia poteva procurarsi, facendo il soldato, il capitaletto necessario a comprare un bel podere e qualche schiavo o a cominciare un traffico; nelle legioni i gradi di centurione (capitano, diremmo noi), talora anche quello di præfectus fabrum, o capo del genio, erano serbati a Toscani, a Emiliani, a Romagnoli, a Abruzzesi, a Pugliesi di umile o di media origine, che arruolatisi si segnalavano per intelligenza e valore; quelli che avessero qualche capitale e una certa fortuna potevano farsi appaltatori di lavori pubblici o fornitori militari, emigrare in Grecia e in Asia, diventare a Roma tribuni, edili plebei, questori, qualche volta anche pretori, partecipare ad affari e a guerre lucrose, andare nelle provincie al seguito di qualche uomo politico potente; un giovane di ingegno, anche se di modesta fortuna, poteva, studiando, servendo i capi dei partiti, facendo l’avvocato, esercitando la giurisprudenza, arricchirsi, ricevere molte eredità, acquistar fama; i figli dei ricchi finanzieri, facevano, volendo, rapidamente carriera politica; e perfino i vagabondi e gli oziosi incorreggibili trovavano da vivere a Roma nei clubs elettorali, vendendo il voto, come clienti e bravi dei capopartiti. C’era posto per tutti nell’impero; sotto generali aristocratici o popolari servivano ufficiali di tutti i partiti, e i capi dei due partiti erano amici degli stessi finanzieri, favorivano con eguali procedimenti il medio ceto mercantile ed agrario, cercavano la popolarità con le stesse corruzioni e con gli stessi doni alla folla. Si declamava molto, dai popolari, contro gli abusi dei magistrati, ma solo per vezzo e per calcolo; perchè con questi abusi specialmente si compiva il frettoloso sfruttamento del mondo necessario a soddisfare l’intensa avidità di tutta Italia; tanto è vero che i magistrati popolari non commettevano meno abusi dei magistrati conservatori. Molto si discuteva e si intrigava; ma oltre le rivalità degli uomini e delle consorterie, un solo guaio serio davvero esisteva allora: i debiti. Per la soverchia fretta di godere e di arricchire, moltissimi, in tutte le classi, erano impigliati in debiti che non potevano pagare; e la democrazia signora del mondo, dai senatori di gran nome agli umili coltivatori, da Giulio Cesare ai tavernieri, era in potere di un piccolo numero di grandi, medi, piccoli usurai, di cui molti eran sordidi e oscuri liberti, figli di liberti, plebei ignoranti568: gente rozza e avara, che viveva poveramente, senza lusso e senza ambizioni costose; e che perciò poteva accumulare, accendendosi a cupidità più insaziabili, a mano a mano che il denaro accumulato diveniva strumento più potente di nuove usure. Quante volte un celebre senatore, quante volte Giulio Cesare stesso, aveva dovuto far entrare nella sua casa e contrattare con un sordido vecchio, con qualche orientale portato schiavo a Roma e poi liberato, che viveva al fondo dell’immensa metropoli indifferente a tutto fuori che all’oro suo! Una tempesta politica sarebbe scoppiata, quando un audace fosse apparso ad agitare, tra creditori e debitori, questa ardente questione.

XIV
IL PUNTO CRITICO DELLA VITA DI CESARE.

Intanto, la congiura del 66, la faccenda dell’Egitto, i molti debiti, quella vendita aperta dei suoi servigi a Crasso screditavano Cesare; e gli facevano perdere, nella crescente irrequietezza ed esasperazione degli animi, la benevolenza dei conservatori equanimi e della gente imparziale. Costoro lo vedevano con disgusto sprofondare ormai nella melma dei debiti e dell’affarismo politico, come Publio Clodio, il sobillatore delle legioni di Lucullo, e tanti altri avanzi di una nobiltà gloriosa, ma disfatta e incanaglita dai vizi. Purtroppo la conciliazione da lui sognata dei grandi e del popolo, l’alchimia aristotelica dell’aristocrazia e della democrazia diventava un sogno; e mentre gli uomini ragionevoli si traevano fuori dalla politica, mentre il partito conservatore degenerava in una combriccola testarda e violenta, mentre le classi agiate cominciavano a impaurirsi, nel partito democratico, in via di diventare partito dei disperati, il fastidio dei debiti, la rabbia dei desideri insoddisfatti, l’invidia contro i ricchi facevano fermentare propositi comunisti. Già si parlava di leggi agrarie, di condono dei debiti, di confisca delle prede ai generali, e di altri procedimenti rivoluzionari, che piacevano al popolino miserabile, ma avrebbero rivoltati contro i capi del movimento popolare i ricchi, ormai già pentiti delle antiche inclinazioni democratiche.

In quel tempo Cesare dovè pensare più volte a Pompeo, con invidia. Pompeo fortunato, ricco, glorioso poteva tenersi lontano da queste agitazioni, senza perdere il favore del popolo; e in quella primavera del 64 riaccogliere intorno a sè ad Amiso una corte di re orientali, distribuire, ingrandire, permutar regni, creare due nuovi re della Paflagonia della Colchide, accrescere i domini dei tetrarchi galati, nominar Archelao, figlio del difensore di Atene contro Silla, gran sacerdote di Comana, dividere il territorio del Ponto tra undici città e ricostituire in queste, sotto la sorveglianza del governatore romano, le istituzioni repubblicane della polis greca569. Pompeo, come tutti gli uomini colti dell’Italia, considerava, in quella rinascenza del pensiero politico classico, le repubbliche locali di tipo elleno-italico, come il miglior governo; ed era lieto di ricostituirle tra genti greche sulle rovine di una monarchia orientale distrutta dalla democrazia italica. Nè acquistava solo gloria e potenza, ma una immensa ricchezza; non solo aveva guadagnato molto sopra le prede, ma faceva dappertutto grandi razzie di uomini, e mentre vendeva ai mercanti italiani i poveri, si prendeva il riscatto dei ricchi570; impiegava in Oriente stesso parte dei capitali guadagnati in guerra prestandoli a interessi usurari a sovrani, come ad Ariobarzane, re di Cappadocia571. Cesare invece, a Roma, doveva, con estremi sforzi di destrezza, condurre la navicella della sua fortuna nelle correnti del movimento popolare che precipitavano, attraverso una stretta, sempre più rapide e vorticose verso il vicino fragore di una cascata.... Crasso, più ostinato che mai a vincere il suo puntiglio di ambizione facendosi mandare in Egitto, era ritornato nei primi mesi del 64 al suo primo disegno: fare eleggere per il 63 due consoli disposti a secondarlo. Cesare perciò doveva assumersi un’altra volta la parte più faticosa e più pericolosa dell’opera necessaria a far riuscire questo piano. I candidati al consolato per l’anno 63 erano sette: Publio Sulpicio Galba e Caio Licinio Sacerdote, aristocratici dabbene, ma poco autorevoli; Caio Antonio Ibrida, il generale di Silla che Cesare aveva accusato nel 77 e che, prodigato il mal tolto, si presentava agli elettori con tutti i beni ipotecati; Quinto Cornificio, Lucio Cassio Longino, uomini di poco conto; e infine Cicerone e Catilina572: uomo, quest’ultimo, di intelligenza considerevole, ma senza scrupoli, cupido, ambizioso, vendicativo e violento, a cui la repulsa ricevuta nel 65 aveva rinfocolata la già ardente ambizione del consolato. Chi conveniva aiutare tra tanti? Cicerone temeva di essere combattuto dalla nobiltà conservatrice, che gli serbava rancore per il discorso a favore della legge Manilia e, ostinata a volere il consolato per le famiglie di gran lignaggio, trovava troppo oscura l’origine sua; e perciò chiedeva a se stesso se non gli convenisse unirsi con Catilina573. Ma Crasso e Cesare lo prevennero. Catilina per l’energia, per la mancanza di scrupoli, per l’odio dei conservatori; Antonio per il cinismo, per la fiacchezza, per la corruttela bisognosa convenivano troppo ai loro disegni. Essi si intesero con Catilina e con Antonio; e si disposero ad aiutarli con estrema energia: Crasso con il denaro, Cesare con l’opera personale574. Cicerone però trasse un vantaggio immenso e impensato da questa lega. I conservatori paventarono talmente i due consoli strumenti di Crasso e di Cesare, che dimenticarono i piccoli puntigli di classe: a Catilina occorreva opporre un candidato autorevole; e poichè Cicerone era uno degli uomini più celebri e più popolari, risolvettero di opporlo, come campione loro, alla demagogia. Il lavorio fu intenso dalle due parti: Catilina spese immense somme sue e di Crasso; Cesare si adoperò con tutte le forze a favore di Catilina, e – ironie della politica! – del generale che 13 anni prima egli aveva accusato; Crasso mobilitò i suoi clienti, i liberti e gli inquilini morosi; le elezioni si fecero in mezzo a una agitazione straordinaria. Il risultato mostra la perplessità degli elettori: nessuno dei due partiti vinse o fu disfatto interamente; Catilina, il candidato popolare che incuteva più timore, non fu eletto, e fu eletto invece Cicerone; ma insieme con Antonio. A ogni modo Crasso aveva fallito ancora una volta, perchè non avrebbe potuto far nulla, avendo amico uno solo dei consoli, e il meno capace.

Sopravvenne, dopo la lunga tensione, la pausa di un breve riposo, durante il quale giunsero frammentarie notizie di Mitridate che ormai, perduto nelle lontananze mitologiche della Tauride, pareva ai Romani già uscito dal mondo. Egli aveva tentato, a quanto sembra nell’estate del 64, di aprire trattative di pace con Pompeo. Ma Pompeo le aveva respinte domandando un’arresa a discrezione575; e si era poi volto a una vasta spedizione in Siria e in Arabia, mentre forse andava pensando a una guerra con i Parti. Mandò infatti Lucio Afranio, che già aveva occupata la Gordiene, in Siria, attraverso la Mesopotamia, non ostante la amicizia con Fraate576; e mentre Afranio, avventurandosi per regioni mal note, rischiava di perdersi con l’esercito577, egli entrava senza trarre la spada in Siria. Mandati innanzi, nella Fenicia e nella Celesiria, a occupar Damasco, due suoi generali, Aulo Gabinio e Marco Emilio Scauro, figlio di quel Marco Emilio Scauro che nato da un negoziante di carbone era diventato presidente del Senato578. Pompeo ricominciò a distribuire regni e territorii; diede a quell’Antioco che Lucullo aveva fatto re di Siria, la Commagene579; dichiarò libera Seleucia e favorì in compenso di una grossa somma Antiochia580; fu generoso con il re degli Osroeni, e duro con il capo degli Arabi Iturei581; dichiarò infine la Siria provincia romana, con l’obbligo per ciascun abitante di pagare il ventesimo dei propri redditi, pretestando che ormai la dinastia nazionale era perita582, ma in verità per fare anche egli una grande conquista, per poter gloriarsi che, come Lucullo aveva conquistato il Ponto, egli aveva conquistata la Siria. Una grave e pericolosa questione parve essere portata al suo giudizio, quando Tigrane ricorse a lui per aiuto contro Fraate, che, irritato per l’atto di Afranio e non osando affrontare Pompeo stesso, aveva mossa guerra per vendicarsi al re d’Armenia. Molti dei suoi ufficiali lo incitavano a invadere e a conquistar la Persia, come aveva voluto far Lucullo, e forse in principio egli stesso: ma Pompeo, che non aveva come Lucullo un temperamento ardente e impetuoso, era ormai divenuto troppo celelebre, troppo potente e troppo ricco. Egli sarebbe tornato in Italia più glorioso di Lucullo, più dovizioso di Crasso; ma la gloria e la ricchezza acquistate ne accrescevano non l’audacia, bensì la prudenza, il timore di guastare con una temerità il successo; onde, mutato il contegno provocatore tenuto fino allora con il re dei Parti, disse che bisognava essere saggi, non ambire troppo; e mandò tre commissari a decidere le questioni tra i due re583. Intanto Scauro e Gabinio avevano trovato una miniera d’oro, nella vicina Giudea, dove fervea guerra civile tra due membri della famiglia reale e sacerdotale degli Asmonei, Aristobulo e Ircanio. Ambedue si erano rivolti ai generali romani per aiuto; e Aristobulo l’ottenne, dando poco meno di due milioni a Scauro, di un milione e mezzo a Gabinio584.

Le facili conquiste di paesi ricchissimi si seguivano; e nessuno sospettava che in Crimea l’indomabile vecchio pensasse a rinnovare, a 70 anni, dalla Crimea, l’impresa di Annibale. Mitridate reclutava alacremente un piccolo esercito, con il quale intendeva mettersi in cammino lungo le sponde settentrionali del Mar Nero, ingrossandolo per via di Sarmati e di Barstarni; risalire la valle del Danubio, raccogliendo sotto le sue bandiere le tribù celtiche; traversare la Pannonia e piombare in Italia, alla testa di un poderoso esercito. Egli aveva veduta, giovane, la grande rivolta degli Italiani; e si illudeva potesse ripetersi, all’apparire di un nuovo Annibale, come se le condizioni dell’Italia non fossero in nulla mutate585. Ma gli Italiani ignoravano, non meno di Pompeo andato in Siria, questo stravagante disegno; e raccoglievan sicuri tutta la forza di attenzione e passione di cui erano capaci sopra la lotta sociale, sempre più aspra e veemente, che si combatteva all’ombra del colle capitolino. Crasso e Cesare, non scoraggiti dalla caduta di Catilina, si studiavano, poichè il medio ceto agiato non voleva muoversi, di rinfocolare il fermento demagogico nel popolino di Roma, povero, riottoso, sempre malcontento, potentissimo nei comizi, per la sua dimora nell’Urbe; e prima della fine dell’anno, quando Cicerone, ancora console designato, pregustava in immaginazione le vanitose delizie di un consolato ammirato dai ricchi e dai nobili, corse voce che i tribuni della plebe designati preparassero un nuovo spavento per i ricchi: una legge agraria. Cicerone, che la timidezza, la bontà e la vanità rendevan smanioso di piacere a tutti, anche quando un uomo di molto minore ingegno avrebbe capito essere necessario offender qualcuno, si presentò ai tribuni della plebe, con l’idea di corteggiar la democrazia; disse che anch’egli desiderava di giovare al popolo; che potevano intendersi con lui per qualche grande legge di beneficio universale. Ma fu respinto ironicamente dai tribuni, i quali risposero che non gli avrebbero detto nulla; che simili leggi non erano pane per i suoi denti; che a far approvare la loro legge, avrebbero pensato essi, senza bisogno dell’aiuto suo586. Alla fine, sul cader di dicembre, si seppe che cosa questa legge agraria era: era una di quelle mostruose concezioni tiranniche e comunistiche che piacciono tanto alle moltitudini irritate dal proprio disagio e dalla invidia delle ricchezze altrui. La legge costituiva una specie di dittatura economica di dieci commissari eletti dal popolo per 5 anni, dichiarati irrevocabili, irresponsabili e superiori alla intercessione tribunizia; i quali avrebbero potuto vendere, in Italia e fuori, tutte le proprietà che fossero diventate pubbliche nell’anno 88 e quelle la cui vendita era stata deliberata dal Senato dopo l’anno 81; inquisire sulle prede fatte dai generali, tolto Pompeo, e obbligarli a rendere quella parte che si fossero tenuta; comprare, con il danaro ricavato a questo modo, terre in Italia, da distribuire ai poveri587. La proposta era certamente stata sobillata ai tribuni da Cesare e da Crasso, i quali speravano così di suscitare una grande agitazione popolare, in mezzo alla quale ottenere l’Egitto588. Ma anche questa volta Crasso non ebbe fortuna. L’Italia stanca, snervata, intontita si commosse così poco, che Cicerone potè facilmente persuadere il popolo a respinger la legge, con tre abilissimi discorsi, in cui ripetè più volte di parlare per il vantaggio non dei grandi, ma del popolo, al quale, pur senza professare il suo sviscerato amore a ogni istante, portava più amore che tanti demagoghi.

Anche questo pericolo era passato; ma Cesare e Crasso non si diedero ancora per vinti. I tribuni della plebe si fecero avanti quasi tutti, uno dopo l’altro, con proposte sfacciate, che miravano ad aizzare i rancori e le male voglie della infima plebe, a mettere Cicerone nell’impaccio e a costringerlo a guastarsi o con i conservatori o con il popolo. Un tribuno proponeva nientemeno che l’abolizione dei debiti, l’altro che fosse tolta a Publio Autronio e Publio Silla, i congiurati del 66, la pena dell’interdizione dai pubblici uffici; un altro, che si restituisse ai figli dei proscritti da Silla il diritto di essere eletti alle magistrature589. Chi infondeva in questi oscuri tribuni tanta petulanza? Ma se queste proposte erano maneggi e finte, accrescevano però non solo la irritazione dei conservatori, ma anche il disagio di tutte le classi590; perchè i capitalisti spaventati si inducevano più difficilmente a prestare; il denaro già scarso in tempi ordinari scarseggiava maggiormente con terribile pericolo di molti debitori. Secondo il rozzo diritto ipotecario allora vigente, se alla scadenza il debitore non pagava, il creditore si pigliava il bene ipotecato, anche se valeva due o tre volte la somma prestata; onde molti, che non trovavano ora nuovo denaro a prestito per pagare gli interessi o rimborsare il capitale, dovevano vendere, a prezzi di ribasso, terre, case, gioie, opere d’arte; il valore delle cose rinviliva rapidamente; e ne soffrivano tutti in misura maggiore o minore, anche i ricchi senatori, cui veniva a mancare la facile abbondanza del credito, necessaria alla faragginosa amministrazione dei vasti patrimoni591. Gli animi si esasperavano; sul capo di tutti pendeva un’aria fosca da stato d’assedio; la gente per bene e denarosa, i conservatori amanti dell’ordine, inferociti, borbottavano a denti stretti vaghe minaccie: succedesse qualche tumulto e si potesse pronunciare il classico videant consules,... indire lo stato d’assedio: poi, come ai tempi di Caio Gracco e di Saturnino, si penserebbe a dare un esempio a tutti i sobillatori del popolo. Intanto, per sfogarsi, avevano trovata la vittima su cui accanirsi, a cui far scontare le colpe di tutti: Cesare! Crasso non solo poteva nascondere i maneggi più pericolosi, ma era troppo ricco, troppo potente, troppo temuto: i senatori e i finanzieri, non osavano neanche mormorare i pensieri d’odio che covavano contro di lui: ma Cesare era povero, pieno di debiti, operava alacremente in vista di tutti e non aveva parentele potenti! È probabile che la aristocratica parentela della moglie lo avesse già abbandonato; e quanto alla famiglia sua, essa continuava a imbastardirsi con parvenus, per restaurare alla meglio la cadente fortuna, rovinata interamente dalle matte prodigalità di Caio. Così poco prima una sua nipote aveva sposato un certo Caio Ottavio, il ricchissimo figlio di un usuraio di Velletri, che con i denari del padre cercava di acquistar amicizie nell’high-life romana e far carriera politica. Cesare poteva dunque scontare il fio di ogni cosa, in luogo di Crasso. Costui del resto non lo aveva pagato per questo? Era egli, dicevano i conservatori, il peggior sobillatore delle plebi ignare, che per salire e per pagare i debiti voleva sovvertire lo Stato! E tutti ad avventarglisi contro: i senatori lo detestavano, le grandi famiglie rompevano le relazioni con lui, molti capitalisti, per vendetta e diffidando ormai di lui, del suo credito, del suo avvenire, gli chiudevano le casse. Cesare, esposto all’odio dei grandi in un momento in cui il partito conservatore riacquistava credito nel ceto medio e nelle classi ricche spaurite, si trovò per la prima volta in grave pericolo, costretto a combattere la prima grande lotta della sua vita. E allora, per la prima volta, Cesare si mostrò il singolare combattente che egli era: nervoso, ma nè pavido nè temerario, che vedeva i pericoli maggiori del vero e li temeva troppo, ma non si smarriva, anzi ne era concitato a preparare, con alacrità e rapidità meravigliose, difese molteplici, più grandi ancora del bisogno. Investito da tanti odi, egli cercò di rinsaldare le amicizie già strette con i capi della democrazia, valendosi, per riescire, anche delle donne, il cui potere cresceva nella società romana592, corteggiando, facendo doni a Servilia, alla moglie di Crasso, alla moglie di Pompeo, alla moglie di Gabinio, a tal segno che il pubblico malignò fosse l’amante di tutte593: storielle probabilmente inventate o esagerate in questi anni, salvo per la moglie di Pompeo, dai conservatori, per nuocere a Cesare e rendere vano lo sforzo di conservare l’amicizia dei mariti, anche per mezzo delle signore. Nel tempo stesso tentò di spaventare i nemici, assalendoli a sua volta, movendo contro di loro, poichè il ceto agiato era impaurito, il popolino riottoso di Roma, ammiratore degli eroi della rivoluzione: e scovato un vecchio senatore, Caio Rabirio, che si diceva avesse ai tempi della sedizione di Saturnino, cioè 37 anni prima, ucciso con le sue mani il tribuno; lo fece accusare di perduellione, per questa azione, da un certo Tito Azio Labieno, giovane oscuro che era suo amico e tribuno della plebe; lo fece rinviare dal pretore, che era d’accordo con lui, davanti a due giudici, di cui uno era egli; e che lo giudicarono reo594. Ora la pena della perduellione era la morte. L’audacia della mossa e la sorte del disgraziato vecchio commossero il partito conservatore; Rabirio si appellò al popolo; Cicerone ne assunse la difesa e lo difese davvero con grande eloquenza, dicendo apertamente che si voleva non la testa di Rabirio ma l’indebolimento delle difese dell’ordine, per poter rovesciare più facilmente lo Stato595. Rabirio però sarebbe stato condannato, se un senatore non avesse mandato a vuoto l’adunanza con uno stratagemma. Cesare, che non voleva la testa di Rabirio, lasciò in pace il vecchio, contento di aver temperata la ammirazione dei conservatori per le rapide procedure dello stato d’assedio, mostrando loro quanto fosse facile eccitare contro quelle il popolino, anche dopo 37 anni.

Intanto era rimasto vacante, per la morte di Metello Pio, il pontificato massimo; carica vitalizia, che attribuiva la direzione suprema del culto ufficiale, una grande dignità e il privilegio di abitare in un edificio pubblico. Silla aveva tolto al popolo e dato al collegio dei pontefici il diritto di eleggere il pontefice massimo; ma Cesare, che il pericolo incitava all’audacia, concepì un ardito disegno; far ristabilire con una legge, che Labieno proporrebbe, l’elezione popolare del pontefice massimo e presentarsi candidato. Se egli riusciva a divenire il capo del culto, difficilmente un console avrebbe osato travolgerlo in qualche massacro tumultuario ordinato in seguito al videant consules. Molti personaggi illustri, come Catulo e Publio Servilio Isaurico, concorrevano al pontificato; e questi in principio risero quando seppero che un uomo non ancora quarantenne, ateo, pieno di debiti, compromesso con la più triviale demagogia, appassionato cultore dell’astronomia di Ipparco, concorreva con loro a una carica così solennemente conservatrice. Catulo non esitò nemmeno a fare a Cesare una proposta insolente, che suonava come l’oltraggio di venduto e di venale: offrirgli, denaro, perchè abbandonasse la candidatura596. Ma Cesare si slanciò nella mischia con impeto straordinario, sentendo di trovarsi a quel punto critico della sua vita, in cui un rovescio anche piccolo può essere difficilmente riparato; e avuti da Crasso denari e aiuti, tanto disse, fece e pagò, che, mutato il modo della elezione, fu eletto, il 6 marzo, Pontefice Massimo597. Egli aveva vinto, per lo aiuto di Crasso e di pochi amici, restatigli fedeli nella avversità, tra i quali era, diletta tra tutti, Servilia. Sarà vero, come dice qualche antico scrittore, che Cesare ne fosse l’amante?598 Ad ogni modo a Servilia lo avvincevano certamente l’ammirazione per la intelligenza e lo spirito largo di lei, la storia della sua famiglia, piena di guerre contro quella oligarchia che ora lo odiava tanto, il piacere di ripigliar lena, per la lotta, nella sua casa, tra la gioventù liberale, che la frequentava. Ci veniva il giovane Marco Emilio Lepido, figlio del console del 78, che era morto nella rivoluzione insieme con il primo marito di Servilia; ci venivano tre fratelli ugualmente inclini al partito popolare, Caio, Quinto e Lucio Cassio Longino; e in mezzo a questi crescevano le figlie di Servilia e il figlio Bruto, che allora aveva circa 15 anni e mostrava un carattere riservato e uno straordinario amore degli studi. Il patrigno Decio Giunio Silano, una brava persona, moderatamente favorevole al partito popolare, lasciava la moglie sua far della casa, nonostante le parentele con famiglie conservatrici, un club dell’opposizione democratica599.

XV.
CATILINA E LA GRAN LOTTA CONTRO I CAPI.

I conservatori si consolarono un poco di queste sconfitte con un piccolo successo: facendo decretare il trionfo a Lucullo, che finalmente potè entrare in Roma con i suoi pochi soldati. Ma non ostante i centomila barili di vino che Lucullo distribuì al popolo nell’occasione600, la cerimonia fu fredda; come se tornasse un oscuro generale da qualche piccola spedizione contro i barbari, e non colui che aveva creato il nuovo e popolarissimo imperialismo delle immense conquiste successive, che Pompeo intanto imitava in Oriente, acquistando grandissima gloria. La nazione dimenticava presto chi non sapeva alimentare continuamente l’ammirazione di sè601. Del resto poco importava ciò a Lucullo; che disgustato e stanco ritornava, dopo tanti anni di assenza, nella casa paterna, rassegnato a contentarsi per ricompensa dell’ammirazione delle alte classi e delle immense ricchezze guadagnate. Ma lo aspettava al ritorno un’altra ignominia: scoprire che Clodia, la donna che egli aveva sposata senza dote, aveva contratta una relazione incestuosa con suo fratello Publio Clodio, il sobillatore delle sue legioni602. Egli dovè ripudiarla, con orrore. Invece al fortunato Pompeo, una rivolta militare toglieva di mezzo, in quell’anno, Mitridate. Il figlio Farnace, i soldati, il popolo della Crimea, spaventati dal suo proposito di invasione dell’Italia, temendo di esser tratti a perdizione dal vecchio folle, si erano rivoltati nella primavera del 63; e Mitridate, disperando di poter domare la rivolta, si era ucciso. Così era finito questo re, che all’intelligenza, all’energia, all’audacia, propria di un self made man, univa lo sconfinato orgoglio, e l’assoluto egoismo di un monarca orientale, cui il proprio successo è la legge suprema del mondo; e che come Annibale si era impegnato in un duello personale contro Roma e l’Italia. Anche questa volta però l’uomo possente ma solitario si era, dopo i primi successi, stancato ed esausto contro il sistema. Come Annibale non aveva potuto vincere l’aristocrazia romana, consolidata da secoli, Mitridate non aveva potuto vincere la democrazia italica in formazione; e invano aveva concepito l’audace disegno di far perire Roma, attizzando intorno a tutto il Mediterraneo e in Italia stessa il più terribile e vasto incendio di rivoluzione, che il mondo antico avesse veduto. Il figlio di colui che aveva sognato di dominare l’Oriente dovè contentarsi di riconoscere, come dono romano, il piccolo regno della Crimea. Non se ne compianga la sorte; perchè sebbene la democrazia italiana fosse piena di vizi, lo sfrenato assolutismo e la burocrazia mercenaria che governavano il Ponto erano ancora peggiori. È probabile che questo vasto impero greco-asiatico rovinasse così facilmente, perchè già disfatto dalla corruzione burocratica, dalla abiezione dinastica, dalla voluttuosa civiltà dell’Oriente ellenizzato, i cui vizi incominciavano soltanto a diffondersi nella democrazia italiana: la venalità, l’incertezza della morale sociale, l’egoismo politico.

La notizia di questa morte fu cagione di molta letizia a Roma; e Pompeo, cui il partito popolare attribuiva il merito di tutti gli eventi felici, acquistò nuova gloria. Cesare gli fece decretare a Roma solennissimi onori603. Poi le notizie dell’Oriente ridiventarono monotone: Pompeo percorreva la Fenicia e la Celesiria, taglieggiando i principotti604; sola gli aveva chiuse le porte la piccola città capitale di un piccolo popolo, con cui i Romani erano entrati in relazioni amichevoli, quasi di protettori a distanza, fin dal 139605, che si chiamava Gerusalemme; ma si trattava di un caso senza importanza. Era avvenuto che i due sovrani discordi degli Ebrei, cui Scauro e Gabinio avevano già estorto tanto denaro, erano ricorsi a Pompeo; che Pompeo, dopo aver molto esitato, si era risoluto ad aiutare Aristobulo, per la promessa di una forte somma; ma quando Gabinio era entrato in Gerusalemme per riscuotere il denaro, il popolo insorto lo aveva scacciato, e Pompeo aveva dovuto porre l’assedio606. L’attenzione pubblica non poteva seguire con viva attenzione questa piccola guerra, quando la lotta politica inferociva in Italia; e l’anno 63 aveva incominciato a essere per i conservatori l’anno degli spaventi. È vero che il prudente Crasso, scoraggito e irritato da tanti insuccessi, non intendeva quell’anno intervenire nelle elezioni e aveva ormai rotto ogni relazione con Catilina, senza abili indugi e trapassi, con la fretta brutale di un banchiere che tronchi d’un colpo un affare rovinoso con un cliente povero607. Ma all’improvviso, nella primavera, si vide arrivare a Roma, a proporsi candidato al tribunato per l’anno 62, con un gran seguito di schiavi liberti ed amici, con un grosso bagaglio e una lunga carovana di muli e cavalli, che erano prova delle molte ricchezze accumulate in Oriente, un cognato e generale di Pompeo, Quinto Metello Nepote608. Metello apparteneva ad una delle famiglie più nobili di Roma, era figlio del Console del 98, nipote del conquistatore delle Baleari, bisnipote del Macedonico609; ma come tanti altri del suo ceto si era messo al seguito di Pompeo fra i popolari per ambizione, per cupidigia, per fretta di riuscire e spirito di rivolta. Era evidente: Metello non avrebbe lasciato il proficuo comando nell’esercito di Pompeo, se non d’accordo con Pompeo, per qualche segreto scopo di costui. Questa candidatura inquietò tanto i conservatori, che si indusse Catone a porre la candidatura sua per il tribunato accanto a quella di Metello. Catone era quello stravagante che abbiamo visto protestare contro la eleganza dei suoi coetanei; uomo di pochi bisogni, casto, sobrio, angusto di idee, il cui orgoglio, unica ma tenace passione della sua anima semplice, si compiaceva soltanto nella ostinazione di vivere come un romano antico, in quella età piena di vizi e disordine. Solo uno stravagante intrepido come costui avrebbe osato di porre, essendo uno dei conservatori più intransigenti, la candidatura a una carica così popolare. Ma sarebbe egli riesci to? Frattanto ecco Cesare annunzia la sua candidatura alla pretura, per l’anno 62. Due spaventi: ai quali si aggiunse un terzo di lì a poco, e maggiore di tutti.

Ben presto si seppe infatti che l’orgoglioso e violento Catilina ritenterebbe la prova del consolato, con estrema energia, a costo di consumare tutta la fortuna fatta rubando in Africa. Abbandonato da Crasso, Catilina, che la vita avventurosa e disordinata di nobile decaduto, le dicerie e gli scandali seguiti alla prima e alla seconda candidatura avevano messo in sospetto presso i conservatori e avvicinato al partito popolare, capì che doveva aiutarsi da sè, se voleva riuscire; e non solo cercò amici e fautori nelle signore indebitate e corrotte, nei giovani nobili dissipatori; ma volle procurarsi una grande popolarità nel medio ceto e nella plebe di tutta Italia, agitando con veemenza, per programma elettorale, in quella Italia indebitata, la questione dell’abolizione dei debiti610. Il programma era arditamente rivoluzionario; ma non bisogna per questo credere che Catilina tramasse nemmeno allora una insurrezione armata, quando egli mirava solo a muovere le moltitudini con una proposta, che pareva scellerata ai capitalisti e ai creditori, ma alla quale invece gli spiriti del maggior numero non erano impreparati; e salva la forma più brutale, non si diportava in modo diverso da un deputato socialista il quale promettesse oggi ai suoi elettori la riduzione al 2% della rendita o come il candidato democratico nelle penultime elezioni presidenziali degli Stati Uniti, il Bryan, il quale voleva si permettesse che i debiti contratti in oro fossero pagati in argento. Le riduzioni, i condoni, le abolizioni dei debiti erano frequenti nella storia greca, allora tanto studiata, e nella romana, dai tempi più antichi sino all’ultima, deliberata nell’86: e sono del resto un espediente a cui si tenta di ricorrere periodicamente, da tutti i popoli, allorchè la civiltà progredisce rapidamente e molti si indebitano per la fretta di godere e di arricchire.

Un’annata con Metello Nepote tribuno della plebe, Cesare pretore e Catilina console: che cosa sarebbe restato della repubblica dopo, – domandavano i conservatori sgomenti – se non un mucchio di rovine e di macerie? Ma lo spavento fu ancora accresciuto dal rapido successo del programma di Catilina. Questa audace proposta rivoluzionaria esprimeva così bene il segreto desiderio di tanti, che Catilina divenne in un baleno popolarissimo, tra la gioventù dissipatrice e la nobiltà decaduta di Roma; nel popolino di tutta Italia; anche in quel medio ceto di agiati possidenti che per la smania di speculare si era troppo aggravato di debiti611; cosicchè ben presto a Roma e in molte città d’Italia egli ebbe fautori zelanti: antichi soldati e coloni di Silla, come Caio Manlio di Fiesole, oscuri borghesi, agiati possidenti delle città secondarie612; nobili bisognosi a Roma, come Publio Lentulo Sura, Caio Cetego, Publio Silla, Marco Porcio Leca; e Sempronia, elegante dama indebitatissima e moglie di Decimo Bruto, che era stato console nel 77613.

Così la gioventù frivola e spensierata, gli avanzi dell’antica nobiltà decaduta, la media borghesia preparavano l’espropriazione dei ricchi capitalisti, illudendosi di poter ciò fare comodamente con leggi, pacificamente approvate da maggioranze numeriche nei comizi. Ma l’illusione fu breve. I ricchi capitalisti, che in principio avevano considerato la agitazione con il consueto disprezzo per tutti i maneggi dei partiti politici, furon presi da viva inquietudine, quando videro Catilina così popolare; e in pochi giorni l’inquietudine diventò ansia, spavento, panico folle, per una di quelle violente e subitanee concitazioni di spiriti, che, in quella età nervosa, scoppiavano di tempo in tempo come tempeste improvvise, e, raddoppiando di furore di minuto in minuto, travolgevano tutto. Nessun banchiere volle prestare più; il denaro rincarì spaventosamente; i fallimenti dei debitori si moltiplicarono614; tutta l’alta finanza, di solito così scettica politicamente, si convertì in un baleno, sgomenta, alle idee più ciecamente conservatrici. Per loro fortuna non tutta la nobiltà si era voltata contro i re del denaro e i rimestatori di milioni, che le avevano tolta tanta parte dell’antico potere; ma la sua parte migliore, le famiglie che godevano ancora di larga considerazione e fortuna, erano pronte ad aiutare l’alta finanza che pure spregiavano; più che per interesse, per odio alla democrazia e per la speranza di confondere il partito popolare. Catilina voleva sovvertire – così dicevano e pensavano costoro, – non solo le leggi dei debiti e dei crediti, ma tutto lo Stato, tanto era cresciuta l’audacia dei demagoghi, nella noncuranza universale per il disordine che essi, i rampognatori inascoltati, venivan denunciando da anni.... Alleatisi così, per paura, gli avanzi migliori dell’aristocrazia storica e la plutocrazia, il partito conservatore si atteggiò d’improvviso alla minaccia e alla lotta, risoluto, iroso, violento come da un pezzo non si mostrava; sconcertando a un tratto la facile e prospera propaganda del programma catilinario, sconvolgendo le disposizioni, le intenzioni, il contegno degli altri partiti, delle classi, dei politicians. La pacifica borghesia italiana, che in principio aveva accolto con tanto favore il programma, fu intimidita; Crasso si spaventò; Cesare si trasse in disparte, come chi vuole osservare, imparziale. La nervosa indole di Cesare era una strana oscillazione ritmica di temerità e di prudenza, per la quale poco dopo aver compiuta, stimolato dalla passione o dal pericolo, una audacia, egli ridiventava prudente, anche se l’audacia riusciva, per prorompere poi, al primo stimolo, in una nuova audacia. Così egli aveva provocato giovanissimo Silla e poi era restato queto e lontano sino alla sua morte; aveva rifiutato di partecipare alla insurrezione di Lepido e poi aveva audacemente accusato Dolabella e Antonio; aveva di nuovo abbandonato Roma, ma a Rodi aveva reclutato per suo conto una milizia, nella guerra mitridatica. Dopo aver tanto combattuto, nei due anni precedenti, i conservatori, dopo essersi proposto a pontefice massimo, contro Catulo e Servilio, egli sentiva allora, in uno dei suoi periodici ritorni di prudenza, di aver già troppo osato; e non volle arrischiarsi in questa nuova avventura, badando solo a riuscir pretore615. Invece Cicerone che, già amico di molti capitalisti, ambiva di entrare nelle grazie della nobiltà storica, incoraggiato dal sentimento predominante nelle alte classi, diventò ardito ed energico, e si oppose alla democrazia, risolutamente questa volta e a viso aperto: incominciò a comprare la neutralità del collega nelle elezioni future, cedendogli la provincia di Macedonia toccata a lui; formò il disegno di una legge che inasprisse la pena della corruzione per i senatori e commutasse il modo di votazione in maniera nociva a Catilina; incaricò di studiarla nei particolari un illustre giureconsulto, Servio Sulpicio616. Intanto, avvicinandosi il mese di luglio, il lavorio elettorale incominciava, ma in mezzo a una grande incertezza di tutti; adiratissimi i conservatori, esitante il medio ceto, discordi i popolari. Per il consolato si presentavano, oltre Catilina, tre candidati: Servio Sulpicio, il giureconsulto che aveva preparata la legge elettorale; Lucio Licinio Murena, l’ex-generale di Lucullo, e Decimo Giunio Silano, il marito di Servilia: e tra questi Crasso pare lavorasse per Murena, Cesare certo dava aiuto a Silano, come Catone a Sulpicio; mentre Catilina si aiutava da solo. Ben presto girarono voci inquietanti: che Catilina avrebbe fatto venire per le elezioni i veterani di Silla dalla Toscana, che questi erano risoluti a tutto, che Cicerone sarebbe stato ammazzato617. Catilina si era risoluto davvero a far venire bande di contadini da Arezzo e da Fiesole, per aumentare il numero dei votanti per lui, e quindi le dicerie contenevano una parte di vero; ma poi ingrossavano per via, come avviene quando gli spiriti sono commossi, perchè ognuno che racconta ha bisogno di fare impressione sulla persona a cui parla, esagera quello che ha saputo, afferma per cosa veduta quella che gli fu raccontata, aggiunge del proprio, inventando, sinchè passando la voce tra mille e mille persone, una piccola supposizione diventa in poche ore una storia lunga e piena di particolari. Roma era piena di persone che avevano udito, che avevano visto, che avevano saputo e che avevano bisogno di raccontare a tutti le cose udite o sapute; molti correvano a riferirle ai magistrati, per un improvviso furore epidemico di zelo civico, per darsi importanza, per partecipare alla commozione pubblica, non come spettatori ma come attori618. Nel mondo politico queste dicerie erano molto discusse e giudicate diversamente; i conservatori arrabbiati non solo le affermavano con piena sicurezza, ma volevano costringer tutti a crederci, denunziando come complicità ogni dubbio, un poco per malafede ed odio di parte, ma un poco credendoci davvero; i popolari invece, anche in Senato, dicevano che erano tutte frottole ed invenzioni619. Intanto le elezioni si avvicinavano, l’agitazione elettorale cresceva; l’oro cominciava ad essere profuso, da Cesare, da Metello, da Catilina e da Murena, che ne aveva guadagnato molto in Oriente; torme di contadini e possidenti, chiamati da Catilina, entravano ogni giorno nell’Urbe; i conservatori e i capitalisti si adoperavano con tutte le forze contro Catilina; le dicerie incalzavano, sempre più minacciose: in Etruria si faceva, per conto di Catilina, una leva di soldati e si minacciava un’insurrezione come quella di Lepido; Catilina voleva trucidare il Senato620.

Le previsioni diventavano sempre più incerte ed ansiose: queste dicerie paurose, la violenta opposizione dei conservatori, la acutissima crisi finanziaria avevano spaventato la classe media possidente; ma Catilina agitava con straordinaria energia il popolino riottoso e disperato di Roma, chiamava a Roma il proletariato d’Italia. I capitalisti e i conservatori, sempre più esasperati e tetri, ripetevano da mattina a sera che la Repubblica era minacciata da un vasto complotto, ordito non solo da Catilina, ma da Cesare e da tutto il partito popolare; gli arrabbiati incominciavano a domandare provvedimenti energici. Cicerone, pieno di alacrità e di zelo, riscaldandosi sempre più nell’azione, aveva messo una spia ai fianchi di Catilina, Quinto Curio, un giovinastro ciarliero, che raccontava ogni detto e ogni fatto di Catilina alla sua amante Fulvia, donna di nascita non oscura ma corrottissima, la quale gli riferiva poi tutto; ascoltava pareri, inquisiva, riceveva a ogni ora le spie di mestiere e le spie per diletto; ma non era acciecato a segno da non vedere come a queste dicerie corrispondessero soltanto sospetti e presunzioni, non fatti, che bastassero a far prendere gravi misure621. A un tratto però un incidente impensato complicò ancora le cose già tanto arruffate. Servio Sulpicio, il giureconsulto, si era messo a sollecitare il consolato, rispettando la legge contro la corruzione fatta da lui, senza spendere un soldo; ma ben presto si accorse che nessuno lo prendeva sul serio, mentre gli altri candidati e specialmente Murena profondevano l’oro, quasichè la legge sua fosse stata scritta per burla. Sdegnato, Servio, nel bel mezzo dell’agitazione elettorale, dichiarò a un tratto di ritrarsi e di querelare Murena per corruzione; e si mise infatti a raccogliere le prove, aiutato da Catone, anch’egli sdegnato si abbandonasse così il migliore dei candidati conservatori622. Questo scandalo, alla vigilia delle elezioni, scompigliò i conservatori e accrebbe l’audacia di Catilina, il quale in quei giorni, sempre più sperando la vittoria dall’infima plebe, tenne un gran discorso ai suoi elettori, dicendo loro che i miseri non dovevano sperare che i ricchi e i felici pensassero alla sorte loro623. Per fortuna dei conservatori, Cicerone che corteggiato, lusingato, adulato dai grandi, era ormai tutto dedito a loro, non si smarrì; non solo accettò il patrocinio di Murena e si diede a preparargli, in mezzo a tante brighe, una abilissima difesa; ma, aiutato da Catone, che quasi a ogni seduta del Senato assaliva Catilina con accuse di corruzioni e con minaccie di processi624, incominciò una abile strategia per chiudere lui e le sue bande in un cerchio di diffidenze e di sospetti, per alienare da lui il medio ceto, accreditando le dicerie che Catilina volesse ammazzare il console e conquistare il consolato come una fortezza, con le armi. Non è improbabile che questi campagnuoli fatti venire da Catilina, molti dei quali erano condotti da antichi soldati di Silla, gozzovigliando nelle taverne di Roma con i denari di Catilina, tenessero discorsi imprudenti; non è improbabile che Manlio, il vecchio soldato di Silla, deridesse già allora gli scrupoli legalitari con cui l’agitazione per l’abolizione dei debiti era incominciata, tra i giovani di questa generazione leggiera e pavida: egli, l’avanzo di una generazione rivoluzionaria, sapeva che la liberazione dei debiti non si poteva conseguire che con la spada. Ma il pubblico frivolo, scettico, leggero, sempre disposto a sospettare il governo e a dar ragione ai suoi nemici, avrebbe credute queste dicerie, e se ne sarebbe sdegnato, quanto bastava a rovinare la candidatura di Catilina? Bisognava far qualche cosa, per impressionare il pubblico e spaventarlo, nell’imminenza della elezione. Cicerone si assunse di tentare una abile astuzia: il giorno prima convocò d’improvviso il Senato e con una certa solennità propose che si rimandasse l’elezione di alcuni giorni, per trattare nel dì seguente della pericolosa condizione in cui versava lo Stato; e il giorno dopo raccontò con grande enfasi tutte le dicerie che correvano sui propositi di Catilina, e quasi intimò a costui di scolparsi, sperando ne nascesse qualche scandalo. Ma Catilina rispose con insolenza, che egli intendeva di essere il capo del solo corpo vigoroso che fosse ancora nello Stato: il popolo625. Era stato conseguito l’intento, a cui era ordinata questa scena? Ma sarebbe stato pericoloso differire ancora le elezioni; e queste ebbero luogo negli ultimi giorni di luglio o nei primi di agosto626. Cicerone andò a presiedere i comizi accompagnato da una guardia di amici, con la corazza che egli lasciava luccicare di tempo in tempo, aprendo la toga, per spaventare gli incerti e i timidi dal votar Catilina; tutti i conservatori e i capitalisti vennero a votare, con atteggiamento di ansia e di risolutezza, come se in quella elezione si decidesse la guerra. Il pubblico, già avvilito dalla crisi finanziaria, e nel quale del resto la agitazione catilinaria, non ostante l’entusiasmo del principio, non aveva vinto lo snervamento contro cui si erano affaticati invano Cesare e Crasso, fu impressionato da queste ostentazioni; onde Catilina, nemmeno questa volta, non ostante i voti del popolino, fu eletto. Cesare invece fu eletto pretore, Metello tribuno, ma insieme con Catone.

Restava a Catilina ancora una speranza: che Murena fosse condannato nel processo intentato da Sulpicio. Allora sarebbe stato necessario rifar l’elezione. Ma Murena, difeso eloquentemente da Cicerone, con un discorso che noi possediamo, fu assolto. Ormai, dopo tre insuccessi, non gli restava altro consiglio che deporre il pensiero del consolato e sparire a vita privata. Ma il violento ed orgoglioso Catilina non era uomo di rassegnazione; ma i conservatori e i capitalisti eran nemici da rappresaglie, che non avrebbero tralasciato di trarre vendetta dell’immenso spavento avuto. Esasperato dalla caduta ed inquieto per l’avvenire, Catilina perde la calma, e prese, nel furore, una risoluzione temeraria: diede a Manlio, che ritornava in Toscana, denaro e l’incarico di reclutare tra i miserabili un piccolo esercito; e persuase i più disperati dei suoi partigiani a tentare una audace sorpresa, uccidendo Cicerone e occupando con la forza il consolato, quando l’esercito di Manlio fosse pronto627. A preparare questo tentativo furono consumati l’agosto e il settembre; ma non fu possibile tenere per tanto tempo ogni preparativo così nascosto, che dicerie paurose di prossima rivoluzione non tornassero a girare. Ben presto la breve pace succeduta alle elezioni fu nuovamente turbata da spaventi subitanei di vaghe voci; e Cicerone incominciò ad essere tempestato di denuncie dai conservatori, di avvisi, di esortazioni sempre più vive a vegliare.... Cicerone ricominciò la sua vigile alacrità, pur proponendosi di non precipitare a deliberazioni affrettate: ma i conservatori più violenti volevano ormai lo stato d’assedio, per paura e per vendetta; e incalzavano, a mano a mano che le dicerie ingrossavano, sinchè Cicerone, che sino allora aveva esitato, impressionato alla fine da tanta agitazione delle alte classi e anche dal pericolo che egli stesso pareva correre, incitato da tutti a far presto, si risolvè alla fine a convocare il Senato per il 21 ottobre, e ad affermare, come fatti veri, i quali risultassero a lui Console da informazioni sicure, le più gravi delle dicerie che correvano, per indurre il Senato a dichiarar lo stato d’assedio. Infatti nella seduta del 21, a cui anche Catilina venne spavaldamente, egli affermò di “sapere tutto” cioè di possedere le prove sicure delle più gravi dicerie che correvano e la cui verità non gli risultava affatto628; tra le altre, che il 27 ottobre Caio Manlio avrebbe prese le armi in Etruria alla testa di un esercito, e che per il 28 Catilina aveva ordito una strage di senatori629. Catilina, invitato dal Console a scolparsi, rispose con molta insolenza; ma il Senato, convinto dalle esplicite dichiarazioni di Cicerone (nessuno pensò che egli avrebbe affermato cose sì gravi, senza prove sicure) non osò più indugiare ancora a dichiarar lo stato d’assedio630.

Grande fu la commozione di Roma per questa notizia. I ricordi del passato, dai quali gli uomini si ostinano sempre, per lunghi anni, a giudicare il presente, si levarono ad un tratto nella memoria di tutti; tutti pensarono di rivedere, come ai tempi dei Gracchi e di Saturnino, una adunata di senatori e di cavalieri in armi, una strage di popolari. Cesare dovè passare qualche ora terribilmente ansiosa! Invece non successe nulla; dei presidî furono messi in varii quartieri della città; ma i senatori se ne tornarono a casa tranquillamente, molto commossi per le notizie, per la seduta e per la deliberazione. I tempi erano mutati; perduta l’audacia impulsiva e la irruenza collerica delle età più barbare, gli uomini erano diventati, come in tutte le civiltà troppo ricche e voluttuose, meno arditi ad affrontare i rischi e più lenti all’azione, per paura, per dolcezza, per scrupolo. Alcuni più arditi affermarono ancora che Cicerone aveva mentito631; molti pensarono che il partito popolare, passata la paura, avrebbe vendicato i suoi capi uccisi; molti avevano consentito lo stato d’assedio per debolezza, ma non erano persuasi che il pericolo fosse poi così grande; molti anche erano trattenuti da scrupoli morali, legali e costituzionali. Del resto sulla nazione più nervosa e sensitiva la minaccia era efficace, come nei tempi più barbari la stessa violenza; cosicchè per il momento, oltre la vaga minaccia della legge marziale, il partito conservatore si restrinse a far intentare un processo per violenze, contro Catilina da un giovane, Lucio Emilio Lepido, un altro figlio del capo della rivoluzione del 78, ma che seguiva la parte aristocratica. L’agitazione però cresceva in Roma, le dicerie paurose si incalzavano sempre più grosse come le onde sul mare; e tutti i personaggi potenti ricevevano avvisi, denuncie, lettere anonime, contenenti rivelazioni. Cicerone, che certo era molto inquieto in quei giorni, sapendo che, se una parte almeno delle affermazioni fatte in Senato non fosse vera, egli avrebbe pagato più caro degli altri il fio di quella menzogna, incominciò a rassicurarsi il giorno in cui Crasso stesso venne a portargli un fascio di lettere anonime e di denuncie ricevute632. Anche il potente banchiere, che le minaccie di rivoluzione proletaria inquietavano, credeva dunque vero il pericolo di una rivoluzione! Ma Catilina, un poco disanimato dalle minaccie che si appuntavano contro di lui, da ogni parte, tentò di eludere gli odî dei suoi nemici, e in ogni caso di guadagnar tempo, mostrandosi alieno da propositi di violenza; e si presentò alla casa di M. Lepido domandando di esservi accolto, per dimostrare che egli non temeva di vivere sotto la vigilanza quotidiana di un uomo autorevole, tanto si sentiva innocente: non avendo Lepido acconsentito a far il suo carceriere fiduciario, con un’audacia maggiore, andò da Cicerone a offrirgli di abitare in casa sua; respinto anche da Cicerone, trovò un Marco Marcello, che lo accolse633.

Il pubblico imparziale esitava, disorientato da queste manovre. A chi credere? A Cicerone o a Catilina? Cicerone era un uomo illustre e dabbene: ma era pur singolare che, dopo aver annunciata una rivoluzione, non facesse nulla contro colui che egli stesso aveva indicato come capo. Catilina era un uomo audace; ma poteva egli essere sfrontato a segno, da domandar alloggio in casa del Console accusatore, mentre preparava la rivoluzione! Di tempo in tempo la mareggiata delle dicerie era rotta da pause, in cui il sospetto che Cicerone avesse inventato ogni cosa si allargava, per poi sparire sotto un’onda di nuove notizie paurose. Fortunatamente per Cicerone, dopo qualche giorno venne la notizia ufficiale che Manlio era apparso in Etruria apertamente, alla testa di un piccolo esercito634; e di lì a poco giunsero lettere di Manlio stesso a Quinto Marcio, nelle quali dichiarava che egli e i suoi insorgevano non potendo più tollerare i debiti da cui erano oppressi635. Catilina era uno scellerato: e Cicerone un cittadino esemplare! Il pubblico si commosse; i conservatori proruppero: non c’era tempo da perdere, bisognava agire con vigore! In Senato tutti furono travolti, e, dopo tanto esitare, precipitarono a deliberazioni severissime, come se tutta Italia insorgesse: si promisero premi a chi darebbe notizie sul complotto; si mandò Quinto Metello che aspettava ancora il trionfo per la conquista di Creta, in Puglia, Quinto Marcio in Toscana, Quinto Pompeo Rufo in Campania, Quinto Metello Celere nel Piceno636. Cicerone, con sua meraviglia e letizia, si vide da un giorno all’altro ammirato da tutti come un portento di energia e di doppia vista nel vigilare lo Stato: ma non per questo osò ancora procedere contro Catilina. Catilina invece, fallita la sua audace manovra elusoria, e sentendo le simpatie degli ultimi amici venirgli meno dintorno, gli odî dei nemici tenderglisi contro più feroci, pare per un momento pensasse di impadronirsi, al 1.° novembre, della fortezza di Preneste637; ma fallitogli anche questo disegno per la vigilanza di Cicerone, ruppe gli indugi: deluse la sorveglianza del suo ospite, raccolse nella notte dal 6 al 7 novembre638 in casa di Leca i suoi fedeli più compromessi, dimostrò loro la necessità di promuovere una vasta insurrezione in tutta Italia che aiutasse la offensiva di Manlio; ne abbozzò un piano, che incominciava con l’assassinio di Cicerone, il quale, ammirato dagli altri come un meraviglioso difensore dell’ordine, era temuto dagli amici di Catilina come il più terribile loro nemico, vivo il quale, essi non potrebbero fare nulla639. Due cavalieri presenti acconsentirono ad andar la mattina dopo a salutar Cicerone, e ad ucciderlo; ma la solita spia subito avvertì il Console, che diede ordine ai servi di non lasciar passare i sicari, e convocò d’urgenza, per il giorno dopo, il 7 novembre, il Senato. Catilina, audace sino all’ultimo, intervenne; ma si vide, al suo entrar nella sala, sfuggito da tutti, lasciato solo sul suo banco; e quando Cicerone, incoraggiato da questo contegno, ebbe inveito contro di lui, con un discorso violentissimo, entusiasticamente applaudito, Catilina si levò, pronunciò poche parole di minaccia ed uscì. La sera egli partiva per la Toscana, ma liberamente e con numeroso seguito. Cicerone non aveva osato di trattenerlo.

Cicerone si persuase facilmente che questa fuga era una grande vittoria sua. Alcuni conservatori arrabbiati protestarono – è vero – che il console avrebbe dovuto far prendere e uccidere Catilina, non lasciarlo tranquillamente uscire dalla città per recarsi alla guerra; mentre pochi affermavano ancora che si era calunniato Catilina640. Ma Cicerone non si affliggeva molto di queste critiche, ora che era divenuto, in poche settimane, l’uomo più popolare di Roma dopo Pompeo, oscurando Cesare e Crasso, i quali parevano caduti a un tratto nella più grande indifferenza pubblica; e raddoppiando di zelo ben presto potè illudersi di dover affrontare da solo un cimento ancor più terribile per la patria. I più compromessi dei partigiani di Catilina, Lentulo, Cetego, Statilio, Cepario, quando Catilina, che era il solo uomo intelligente tra loro, fu partito, perdettero la testa; e sentendosi in pericolo, vedendo disperdersi, fingere di non riconoscerli, tutti coloro che li avevano incoraggiati nei bei tempi in cui si sperava una facile abolizione dei debiti, si diedero a ordire una sciocca cospirazione in fretta e furia, sul disegno abbozzato da Catilina, per sollevare il popolino e gli schiavi e accrescere la confusione di Roma, appiccando qua e là qualche incendio, quando Catilina si sarebbe avvicinato a Roma, con l’esercito. Erano vane farneticazioni di gente che aveva perduto siffattamente il senno per la paura, da aprir perfino trattative con certi ambasciatori Allobrogi, venuti a Roma a portar lagni al Senato, affinchè procurassero loro aiuti di soldati e cavalleria per l’insurrezione. Ma gli Allobrogi li venderono; le prove scritte dell’alto tradimento vennero facilmente nelle mani di Cicerone, il quale abilmente, con gran prestezza, fece la mattina del 3 dicembre imprigionare e condurre i principali congiurati davanti al Senato, dove mostrò loro le lettere date agli ambasciatori per i capi Allobrogi e li pose a confronto con questi. Sorpresi e confusi, confessarono tutti. In un baleno, la voce di questa scoperta si divulgò, si ingrandì, spaventò tutta Roma: era stata fatta una immensa congiura per bruciare la città e lanciare i Galli sull’Italia! La nervosa metropoli allibì; non solo i ricchi capitalisti e i nobili, ma tutti coloro che avevano qualche cosa, la media borghesia degli appaltatori, dei mercanti, dei bottegai, si spaventarono e si sdegnarono, come nella imminenza di un pericolo supremo; il pubblico che Cesare e Crasso avevano tentato invano di muovere, si commosse, ma ben diversamente che nel 70, in favore questa volta del partito conservatore e così violentemente, che anche i capi del partito popolare e il turbolento popolino, sempre fautore dei demagoghi, ne furono sgomenti. Da tutte le parti una gran folla ansiosa trasse verso il Senato, per aver notizie; e quando, finito l’interrogatorio, Cicerone comparve, dovè raccontar tutto e fu fatto segno a una grande ovazione. Scese su Roma una notte insonne, in cui tutti si cercavano, si consultavano, si preparavano, come a un cimento supremo per il giorno dopo: i conservatori, esasperati e gioiosi nel tempo stesso, protestavano che bisognava smettere alla fine le compiacenti debolezze verso il partito popolare, colpire non solo i complici di Catilina, ma tutti i capi del partito popolare e specialmente Cesare; i capitalisti, il medio ceto, invasati da uno zelo civico contagioso, si disponevano a uscire il giorno dopo armati, per mantenere nell’ordine i facinorosi; da ogni parte si domandava un esempio con tanto furore, che diversi padri, i cui figli si erano compromessi nell’agitazione catilinaria, si ricordarono che, secondo l’antico diritto, essi erano i giudici dei figli e li fecero uccidere dagli schiavi. Il giorno dopo il Senato si radunò per udire altri testimoni e continuar l’inchiesta; ma gli spiriti erano profondamente turbati; i capi del partito conservatore, e specialmente Catulo, cominciarono a tentar malignamente i congiurati con domande capziose, per far loro confessare che anche Cesare era consapevole del complotto; un delatore, certo per giovare ai congiurati, affermò che Crasso era complice, ma il Senato troncò con violenti romori questa accusa; voci minacciose arrivavano, che il popolino insorgerebbe per liberare i prigionieri. Tutti avevano perduta la testa, fuori che due uomini: Cicerone e Cesare. Cicerone davanti alla straordinaria esaltazione del popolo, si spaventò, sentì svanire per incanto quella ebbrezza in cui viveva da un mese; e ritornando per un momento nella timidezza e quindi nella saggezza a lui naturale, intravide i pericoli di una difesa troppo rivoluzionaria dell’ordine641; ma non seppe o non potè prendere una deliberazione così prudente quanto erano savi questi timori; e spaventato da tante dicerie deliberò di troncar subito tutto, facendo decidere il giorno dopo, il 5 dicembre, la sorte dei congiurati. Cesare invece capì che se il giorno dopo avesse taciuto, sarebbe stato in seguito accusato di viltà; ma che a difendere gli imputati poteva, in tanto eccitamento, incoraggiare i suoi nemici a tentare qualche violenza contro di lui. Quando il 5 dicembre il Senato si radunò, tra l’agitazione della immensa folla che gremiva il fôro, i templi e tutte le vie adiacenti, Silano interrogato per primo propose la morte, e molti altri assentirono; ma allorchè venne la sua volta di parlare, Cesare, dopo aver giudicato severissimamente il delitto degli accusati, dimostrò che la pena di morte sarebbe stata illegale e pericolosa, proponendo invece il confino a vita e la confisca. Il discorso abilissimo ed efficacissimo piegò molte menti; l’assemblea parve esitare; Cicerone parlò ambiguamente, lasciando intendere che inclinava al parere di Cesare642; ma Catone si levò a contradire Cesare con tanta veemenza e così ostinatamente e fieramente sostenne doversi restaurare la reverenza della autorità con una condanna a morte, tutti erano così intimiditi dalla esaltazione delle alte classi, che di nuovo il partito del patibolo prevalse e la morte fu decretata. Cicerone dovea subito mettersi in giro per Roma e andare a prendere nelle case private, in cui erano stati posti a custodia, gli imputati per condurli al carcere Mamertino, dove gli schiavi che facevano i carnefici li avrebbe strozzati: ma i conservatori intransigenti proposero allora al Senato di accompagnare Cicerone solennemente in questo giro funereo nella città e sino al carcere, per fare una solenne dimostrazione autoritaria in mezzo al popolino riottoso della metropoli, che era tutto moralmente complice della rivolta.

Quasi tutti andarono, tolti pochi, come Cesare, il quale però all’uscir dal Senato fu minacciato con le spade da un gruppo di capitalisti. Roma vide passare questo strano e solenne corteo del carnefice, composto di tutta la nobiltà senatoria, dei ricchi finanzieri, degli agiati mercanti rappacificati per un momento e condotti dal console, il quale, compiuta la esecuzione, tornò, a casa accompagnato da un gran seguito, tra applausi ed ovazioni entusiastiche. Giustizia era fatta; e Catilina, con le poche migliaia di uomini che aveva potuto armare fu facilmente vinto e ucciso, dopo qualche settimana, presso Pistoia. Cicerone si illudeva di aver egli con le energiche misure compresso il vasto impeto rivoluzionario che agitava l’Italia, e veramente aveva mostrato molta capacità e molta energia, in queste torbide giornate; perchè la approvazione e l’ammirazione concordi della alta borghesia denarosa e dell’aristocrazia, l’esaltazione del pericolo, il successo avevano infuso nelle sue vene un coraggio e una energia insolita, così da farlo apparire quasi un altro uomo da quello che egli era. Ma in verità questo grande pericolo pubblico era venuto meno rapidamente, perchè l’Italia non era stata mai disposta ad insorgere. L’Italia aveva favorito il movimento politico per l’abolizione dei debiti con cui Catilina aveva cominciato, credendolo facile e non violento; ma quando, a poco a poco, una piccola congiura rivoluzionaria si era formata entro a questa agitazione politica, per un seguito quasi fatale di eventi più che per un perseverante e chiaro proposito di pochi capi, essa aveva abbandonata e detestata l’impresa. La generazione rivoluzionaria della guerra sociale e civile, di Saturnino, di Mario, di Silla, di Carbone, di Sertorio era sparita; e nella nuova generazione era avvenuto in misura più piccola lo stesso mutamento dell’Europa rivoluzionaria del secolo XIX dopo il 1870: l’accrescimento della ricchezza, del benessere, dei godimenti, della cultura nelle moltitudini; il raffinamento della vita cittadina; la formazione di una numerosa borghesia agiata; la diffusione di un tenor di vita comodo e largo facevano la popolazione più pavida, più timida, più irresoluta, più desiderosa di ordine e pace. La media borghesia delle diverse città d’Italia, mercantile, speculatrice, avida di civiltà, di godimenti, di ricchezze, che possedeva campi, case, schiavi, che trafficava, appaltava, si ingegnava in tutte le maniere per arricchire, avrebbe sì volentieri tralasciato di pagare i suoi numerosi debiti, se una comoda legge l’avesse dispensata da questo fastidioso dovere; ma non arrischiati i beni, la speranza dei godimenti futuri, la vita in una rivoluzione. I possidenti diventavano in special modo nemici delle guerre civili, perchè essi coltivavano dovunque vigne, oliveti, alberi, che non portano frutto se non dopo anni di crescita, e la cui distruzione nelle guerre è un danno infinitamente maggiore che la distruzione delle messi, seminate, raccolte, consumate da un anno all’altro.

XVI.
LA PRESA DI GERUSALEMME.

Intanto Pompeo e i suoi ufficiali avevano potuto osservare, durante l’assedio della piccola capitale del piccolo popolo ebreo, un seguito di fatti strani ed insoliti. La città, di cui Ircano aveva aperte le porte, era stata presa facilmente; ma una parte del popolo si era rifugiata e si difendeva disperatamente nel tempio, edificato sopra una collina dominante la città e munito come una fortezza da alte mura. Pompeo aveva dovuto far venire un parco d’assedio da Tiro; far montare e mettere a posto le macchine, sotto i colpi degli Ebrei che saettavano e lapidavano con accanimento i soldati; disporsi a un lungo e faticoso assedio. Ben presto però i Romani osservarono un fatto singolare: periodicamente, un giorno ogni sette, gli assediati, come colpiti da stupore, li lasciavano lavorare intorno alle macchine senza più lanciar pietre e dardi. Pompeo interrogò Ircano; e seppe che ogni sette giorni ricorreva il sabato, in cui la legge faceva obbligo ai fedeli di non lavorare e i bigotti avevano scrupolo perfin di difendersi643. Allora Pompeo ordinò ai soldati di lavorare soltanto in questi giorni; e potè, in tre mesi, alzare comodamente le torri sino all’altezza del muro e dar l’assalto. Pare che Fausto, figlio di Silla, fosse il primo a saltare sugli spalti; ma la difesa fu accanita e la strage terribile. Conquistato il tempio con tanta fatica, Pompeo volle visitarlo tutto anche nei più segreti recessi, dove solo il sommo sacerdote era ammesso; ma cercò invano una statua un quadro che rappresentasse la divinità; ammirò la strana lampada a sette bracci, che gli Ebrei parevano tenere in grande venerazione, la tavola d’oro, la immensa provvista d’aromi per le cerimonie, i tesori sepolti nei sotterranei, che avrebbero dovuto ricompensare le fatiche dell’esercito romano. Ma il Dio della Bibbia fece la maggior prova di quella potenza, il cui timore doveva diffondersi poi in tanta parte del mondo, facendo rispettare questa volta, unico degli Dei dell’Oriente, il suo oro da un condottiero romano. Pompeo fu così stupito da quel fanatismo intenso e strano, che non osò portar via questi tesori644. Dalla Palestina Pompeo avrebbe potuto andar in Egitto dove il re Tolomeo, impegnato in guerre civili e forse inquieto per i disegni di Crasso e di Cesare, lo invitava con grandi doni e con offerte di denaro affinchè ristabilisse l’ordine645; ma Pompeo, che non era come Lucullo un ambizioso insaziabile, e che, dopo aver acquistata tanta gloria e ricchezza, e tanto curiosato in Oriente, desiderava il ritorno, dichiarò la Palestina, insieme con la Celisiria, provincia romana, sottopose Gerusalemme a tributo, diede il sommo sacerdozio ad Ircano, e conducendo seco Aristobulo prigioniero, fece ritorno nel Ponto646.

L’Italia intanto si riaveva dallo spavento della rivolta di Catilina; ma quanto diversa, da quella che essa era pochi mesi prima! Nelle età che vivono fervidamente e si rinnovan veloci, piccoli eventi sembrano generare a volte grandi e inaspettati rivolgimenti, perchè soverchiano definitivamente con una ultima spinta la resistenza passiva di uno stato di cose più antico, il cui disfacimento è incominciato, a insaputa di tutti, da un pezzo. La congiura di Catilina non era stata un cimento terribile; ma quello spavento aveva scompigliato gli animi, come una bufera scompiglia, torcendolo e ritorcendolo a fasci, il grano di un campo; aveva mutate le disposizioni delle classi, dei partiti, dei singoli; aveva affrettata la fine di quel nuovo partito popolare, signorile, temperato, dilettante di riforme, che aveva goduto tanto favore intorno all’anno 70 e il cui campione era stato Pompeo. Le simpatie delle classi medie e di parte delle classi alte, dei possidenti, dei mercanti, dei capitalisti, degli uomini colti, dei nobili senza pregiudizi erano state come un vento vigoroso nelle vele di questo partito: ma questo vento si era affievolito a poco a poco, negli anni seguenti, perchè l’indifferenza politica era cresciuta; perchè le soverchie speranze poste in quel partito erano state in parte deluse; perchè il fastidio dei debiti aveva distratti e il principio della demagogia disgustato molti; perchè, nelle democrazie civili, eccitabili, avide di vita, la moltitudine non dura in un odio o in un amore, oltre un certo tempo, senza stancarsene. Dopo la congiura di Catilina, quel vento cessò interamente. Le classi benestanti e colte, che avevano sempre presa poca parte alle pubbliche faccende, si chiusero, spaventate, nella egoistica sollecitudine delle private faccende, che molti avevano piene di guai e di crucci; concepirono una diffidenza incurabile per i politicians del partito popolare e per i loro programmi, senza però riacquistar fiducia nei politicians del partito conservatore; lasciarono gli uni alle prese con gli altri, spregiando in fondo ambedue. Ma le conseguenze di questa improvvisa paralisi dello spirito pubblico furono immense. Il partito conservatore si mutò in una combriccola di reazionari feroci, perchè gli arrabbiati e gli intransigenti, imbaldanziti dal gran successo della repressione, dallo spavento delle classi agiate, si illusero che il mutamento durerebbe eterno; soverchiarono facilmente in Senato, con a capo Catulo e Catone, gli uomini temperati, che son sempre molto timidi; vollero stravincere, e impegnarono una guerra a morte contro il partito popolare, tentando di allargare i processi ordinati contro i complici di Catilina a una vasta persecuzione sistematica dei propri nemici. Il momento pareva propizio. Pompeo era lontano; Metello Nepote che egli aveva mandato a Roma era poco autorevole; Crasso, spaventato dalla congiura, si era tratto fuori in fretta e furia dagli intrighi e dai pericoli del partito popolare, alla cui testa restava solo lo screditato, l’indebitato, il detestato Cesare. La tempesta, quetata un istante, stava per scoppiare sul capo di Cesare di nuovo, più violenta. Guai a lui se egli fosse stato un temperamento troppo sensibile, delicato per pregiudizi aristocratici o per scrupoli morali! Ma allora apparve che Cesare era meravigliosamente temprato per le lotte di questa età turbolenta, perchè, nel fondo dell’indole sua era non la violenza e la crudeltà di tanti uomini di azione, ma una indifferenza profonda per il male e per il bene; uno scetticismo non perverso, ma senza esitazione e senza vergogne, in parte innato, in parte contratto vivendo tra avventurieri, nobili rovinati, donne corrotte, affaristi furfanti; una indifferenza, che unita a una vivace nervosità, ne facevano il carattere straordinariamente plastico, atto a fare il bene o il male, secondo il bisogno. Quando egli vide che il vento del favore pubblico era cessato, non esitò a spingere avanti la nave del partito popolare a forza di remi, reclutando la ciurma nei quartieri miserabili dell’Urbe, e affrettando il rivolgimento della democrazia incominciato già da quattro o cinque anni, mutandola nel manesco, turbolento, triviale partito della “piazza”647. Abitava a Roma, nelle immense case costruite dagli avidi speculatori, uno sterminato popolino di liberti, di artigiani, di mercanti girovaghi, di bottegai umilissimi, di avventurieri, mendicanti, manigoldi, convenuti da ogni parte dell’Italia e dell’impero; i quali vivevano di tutti i mestieri, leciti e ignominiosi, che gli schiavi lasciavano loro, lavorando nelle opere pubbliche, facendo i muratori, i tessitori, i fiorai, i carrettieri, i vasai, gli scalpellini, i cuochi, i flautisti, servendo le cricche politiche e gli ambiziosi come bravi, come spie, come faccendieri, usurpando la cittadinanza e vendendo il voto, rubando, truffando, partecipando alle distribuzioni pubbliche di grano e ai banchetti politici; ma svogliati i più e senza famiglia, crapuloni, pigri, avidi di denaro e di gozzoviglie, sempre in bisogno, sempre malcontenti, pieni di un odio violento contro i ricchi, che l’anarchia politica, il disordine delle classi, l’universale egoismo acuivano. Molti di questi artigiani erano anche costituiti in società o collegia, che da qualche tempo il Senato aveva preso a perseguitare, tentando di sciogliere quelle già formate e di impedire che nuove se ne formassero648. Questo popolino aveva ammirato Catilina, aveva cercato di farlo riuscire, era pronto, purchè trovasse capi che ne incitassero l’odio contro i ricchi, a empir di tumulto lo Stato; e a capo di questo popolino si posero, scandalo quasi incredibile, il bisnipote di Metello il Macedonico e il Pontefice Massimo, incominciando a impugnare la legalità della condanna dei congiurati, ad assalire i conservatori, a corteggiare in tutti i modi Pompeo, affinchè non mancasse anch’egli ai popolari, come Crasso. Di nuovo Cesare oscillò dalla prudenza dimostrata negli ultimi tempi della agitazione catilinaria a un accesso di violenza; e appena ebbe preso possesso della pretura, assalì addirittura Catulo, accusandolo di malversare i fondi con cui era stato incaricato di restaurare il Campidoglio dai guasti subiti nella guerra civile e proponendo di affidare invece questo lavoro a Pompeo649. L’opposizione energica dei conservatori fece cadere la proposta; ma intorno allo stesso tempo, Metello Nepote, aiutato da Cesare, ne mise innanzi una più audace: che si richiamasse Pompeo in Italia con l’esercito, affinchè impedisse che altri cittadini fossero in avvenire condannati a morte illegalmente. Con questa proposta si poneva apertamente la questione se le condanne pronunziate dal Senato contro i complici di Catilina fossero legali: questione che, passato lo spavento della congiura, era diventata un magnifico pretesto di agitazione contro i conservatori e una eccellente difesa contro l’abuso delle denunzie e dei processi, che ancora continuavano per la rivolta di Catilina. I conservatori fremettero: ecco, quasi per incoraggiare i facinorosi, il partito popolare accusava coloro che recentemente avevano difeso l’ordine con tanto pericolo proprio, e voleva incaricare ufficialmente Pompeo di fare il colpo di Stato! Catone, allora tribuno della plebe, andò solo ad interporre il veto la mattina in cui la legge fu portata in discussione nei comizi; Cesare e Metello lo fecero scacciare a sassate da bande di malviventi; i conservatori, incoraggiati dal loro esempio, corsero pur essi a reclutare bande e tornarono in tempo per scacciare Cesare e Metello prima che la legge fosse votata. La questione fu così, per il momento, risolta a colpi di bastone: ma lo scandalo era stato troppo grande, e fu accresciuto dalle proteste di Metello che, minacciando vendetta, uscì di Roma, per ritornare da Pompeo. Il Senato, nel quale pure molti erano persone sensate, non faziose, ma deboli, non seppe resistere alle imprecazioni della combriccola reazionaria, e destituì Metello e Cesare dalla carica; ma Cesare seppe così bene atteggiarsi a vittima di un sopruso dei grandi, che il turbolento popolino tumultuò, sinchè il Senato pauroso più della piazza che dei reazionari fu costretto a reintegrarlo nella carica650. I capi del partito reazionario, esasperati, tentarono allora di implicarlo nei processi contro i complici di Catilina; ma il fermento della infima plebe crebbe tanto651, che Catone stesso propose di aumentare, per tranquillarlo e conciliarlo al partito conservatore, le distribuzioni di grano al popolo per una somma di circa sette milioni, accrescendo il numero di coloro che vi avevano diritto652.

Ma più di tutti si sentiva a disagio, in questi torbidi, il vincitore di Catilina. Se l’energia che aveva dimostrata nelle ansiose giornate della congiura, fosse stata, non una fugace esaltazione di un temperamento sensitivo e nervoso, ma una virtù profonda della sua indole. Cicerone si sarebbe avventato in quella mischia, audacemente, insieme con Catone, a capo dei conservatori. Ma Cicerone era un temperamento delicato di artista.... Dopo essersi illuso per un istante di aver acquistato per sempre il primato fra gli uomini politici di Roma, Cicerone vedeva ora il partito popolare rimestare sempre più sfacciatamente tutta la faccenda di Catilina, metter in dubbio la sua buona fede, affermare che il 6 dicembre si era compiuto, non un giudizio, ma un assassinio. Almeno l’ammirazione degli altri lo avesse compensato! Ma molti che l’avevano tanto ammirato e plaudito nei giorni della paura, turbati dalla violenta agitazione popolare, incominciavano a dubitare che Cicerone avesse almeno esagerato il pericolo; e quanto alle classi alte, egli si accorgeva, pur troppo, che la gratitudine non è virtù dei ricchi e dei nobili; che per essere ammirati da costoro non basta difenderne gli interessi, ma bisogna maltrattarli con arroganza brutale. Essi avevano rispettato Silla il terribile; ma questo letterato, così ossequioso, così mite, così debole, che gongolava quando uno di essi lo invitava a casa sua, li seccava. Sprovvisto dell’indifferenza di Cesare, troppo onesto e orgoglioso da rinnegare l’opera sua, ma non abbastanza insensibile e duro da disprezzar popolari e conservatori, Cicerone soffriva dell’odio degli uni e dell’indifferenza degli altri; si avviliva; e come tutti gli spiriti delicati, che hanno compiuto, in un momento di concitazione, un grande sforzo di vigore, era presto ricaduto in uno snervamento inquieto, che gli faceva commettere gli errori più gravi. Così non aveva voluto andare nella provincia, essendosi troppo affaticato con le brighe consolari; ma pur restando a Roma, invece di prender parte energicamente a quelle lotte, lasciava agli altri difendere l’opera sua, non osava schierarsi risolutamente con i conservatori, importunava tutti ripetendo ad ogni occasione, per consolarsi, i meriti e la gloria del suo consolato; si disponeva a scrivere una storia del suo consolato in greco, quando sul fôro i partiti si percuotevano a colpi di bastone. Ben presto altri crucci si aggiunsero. Cicerone non era nè avido nè prodigo, ma possedeva una fortuna modesta, la amministrava disordinatamente, era costretto, come uomo politico in vista, a spese considerevoli, e, vivendo con persone invasate dalla mania di speculare, aveva contratto una superficiale passione da dilettante per le speculazioni edilizie. D’altra parte se era retto, non era un eroe, la cui rettitudine, in mezzo a tanti esempi di sfrontata disonestà, non addivenisse qualche volta, in segreto, a sofistici componimenti con il bisogno. Così, quando aveva ceduto ad Antonio la sua provincia, aveva pattuito che Antonio gli darebbe una parte dei guadagni: ma la notizia di questo contratto era trapelata, con tanta maggior noia e vergogna di Cicerone, perchè Antonio non manteneva i patti e non gli mandava nulla. Peggio ancora, siccome Antonio era stato vinto in una spedizione contro i Dardani653 intrapresa per far bottino e a Roma volevano richiamarlo, Cicerone aveva dovuto mettersi di mezzo per fargli continuare il comando654; anzi, a questa diceria poco onorevole, avevan tenuto dietro altre calunnie: che i capitalisti lo avevano pagato per far condannare i complici di Catilina. Questo si diceva, proprio quando egli era in grande angustia per pagare certe case comprate a credito da Crasso, il gran mercante di terreni e di fabbriche655.

In quel tempo stesso Pompeo indugiava nel viaggio di ritorno, così paventoso ai conservatori. Eppure, se non fosse difficilissimo, anche agli uomini più intelligenti, di capire, in mezzo alle contese politiche i personaggi odiati come nemici o ammirati come campioni del proprio partito, nessuno avrebbe temuto che Pompeo potesse essere un nuovo Silla, al suo ritorno d’Oriente. Proprio allora, invece, egli formava il disegno di riconciliarsi con i conservatori. In Oriente era apparso finalmente il suo vero carattere maturato dagli anni: egli era un autentico gran signore di antica stirpe; uno squisito e intelligente dilettante di ogni cosa, di arte, di letteratura, di scienza, di politica, di guerra, di affari, come se ne trovano tra i nobili nei tempi civili, a cui mancava la tenacia di Crasso, la impetuosa immaginazione ed energia di Lucullo, la intelligenza profonda di Cesare; versatile d’ingegno, ma superficiale, poco alacre, senza passioni intense; ambizioso ed orgoglioso ma non violento nè insaziabile; abile e astuto ma facilmente ingannato dagli intriganti energici e impressionato dalle cose insolite; gentile ma, come spesso i nobili, freddo ed egoista. Giovane, egli era stato un partigiano feroce e violento delle guerre civili; poi, nell’esaltazione delle prime fortune, un intrigante incontentabile; ma alla fine tante soddisfazioni avevano saziato il suo desiderio di gloria, di potenza, di ricchezza656; e in Oriente non aveva, come Lucullo, traversato a corsa immensi imperi, rovesciato eserciti, prese città, in un trasporto di audacia e di ambizione crescente con il successo; ma vagabondato e curiosato con lenta compiacenza fra piccoli stati cadenti. Ora che tornava a Roma, più celebre di tutti per tante imprese, più ricco di tutti per gli immensi capitali raccolti e collocati a frutto in Asia, più potente di tutti per gli obblighi personali che tanti re dell’Oriente avevan contratto con lui, non solo non ambiva altra grandezza; ma aristocratico e conservatore per temperamento concepiva una intensa avversione per la turbolenta e triviale demagogia, accresciuta dai maneggi di Crasso, dalle dicerie sull’adulterio di sua moglie Muzia con Cesare, dall’incanaglimento di Cesare a capo della feccia di Roma. Mentre molti temevano che egli volgesse nella mente i più ambiziosi disegni, egli pensava solo a non guastarsi il trionfo e a non disgustar nessuno, tacendo nelle lettere che mandava al Senato sulla faccenda di Catilina657; a divorziare da Muzia; a prepararsi la riconciliazione con i conservatori, per mezzo di donne, con qualche maritaggio658; a falciare, con un bel viaggio regale attraverso il mondo ellenico, l’ultima e più copiosa messe di diletti spirituali e di soddisfacimenti d’amor proprio. Andò a Lesbo dove liberò Mitilene, per compiacere il suo favorito Teofane, nato nella città; ammirò il bel teatro e formò il disegno di costruirne un altro simigliante e più vasto a Roma659; fu poi a Rodi dove visitò Posidonio, il filosofo e lo storico tanto ammirato dai ricchi romani, e distribuì denari ai professori660; poi tornò ad Efeso ove si era raccolto l’esercito e la flotta. Prima di imbarcarsi ricompensò i commilitoni: diede ad ogni soldato 6000 sesterzi, circa 1500 franchi, somme maggiori ai centurioni e ai tribuni, per una somma totale che varrebbe ora circa settantacinque milioni di franchi; ai suoi generali cento milioni di sesterzi così che, anche contando che fossero 25, ognuno ebbe una somma corrispondente circa a un milione di franchi: ricompensa assai lauta per quattro anni di guerra non pericolosa.661 Poi mise la vela verso la Grecia con la parte dell’esercito che tornava in Italia; andò ad Atene, dove si trattenne ad ascoltare i filosofi e regalò alla città 50 talenti per il restauro dei suoi più gloriosi edifici662; mandò una lettera di divorzio a sua moglie Muzia663, la sorella di Metello; e imbarcatosi per l’Italia sbarcò verso la fine dell’anno a Brindisi. Il Silla democratico arrivava! I conservatori tremavano e Crasso si disponeva ad abbandonar Roma, con la famiglia664.

A Roma però, mentre si aspettava con una certa ansia il suo ritorno, era scoppiato, nei primi giorni di dicembre665, uno scandalo clamorosissimo. La moglie di Cesare, Pompeia, che era una donnetta lasciva e leggera, amoreggiava con Clodio, il sobillatore delle legioni di Lucullo; ma la severa suocera vigilava spietatamente.... Clodio era uno di quei degenerati e pazzi morali che infestano spesso le famiglie nobili decadute: imberbe come un ermafrodito666, sebbene fosse nella piena virilità667; femmineo nelle movenze e nei gusti (vestirsi da donna era uno dei suoi maggiori piaceri668); così profondamente perverso, che cercava e godeva solo i piaceri scandalosi e nefandi; ostentatore spudorato della sua perversità, violentissimo e ferocissimo negli odii; astuto nelle piccole, più che intelligente di cose grandi, e troppo pazzo da agire con coerenza per un fine ragionevole, oltre quello di soddisfare, di giorno in giorno, le sue scomposte passioni669. Si diceva a Roma che egli avesse stuprate, una dopo l’altra, le tre sorelle670; ed ora, poichè Pompeia doveva quell’anno presiedere, come moglie del pretore, la cerimonia della Dea Bona, alla quale solo le signore potevano partecipare, egli pensò, per un capriccio empio più che per amore671, di vestirsi da donna, e dare un appuntamento a Pompeia durante la cerimonia. Ma fu scoperto. Una società così scettica e incredula avrebbe dovuto ridere di questo scandalo, tanto più che non mancavano gravi argomenti, a cui lo spirito pubblico potesse volgersi. È vero che lo spavento di Pompeo svanì in quei giorni lietamente; perchè Pompeo, sbarcato a Brindisi, con gioia e stupore dei conservatori, congedò l’esercito, e si avviò con un piccolo seguito verso Roma a domandare il trionfo. Proprio allora però giungevano notizie inquietanti dalla Gallia: che gli Allobrogi, sollevatisi, avevano devastata parte della Gallia Narbonese672, che gli Elvezi, i quali avevano preso parte all’invasione dei Cimbri e dei Teutoni e poi si erano stabiliti intorno al lago di Ginevra, volevano emigrare, perchè molestati dagli Svevi, verso le coste dell’Oceano attraversando la provincia romana673. Invece il partito conservatore prese la cosa tragicamente: bisognava non solo punire un sacrilegio orribile, ma reprimere con un nuovo esempio, poichè quello di Catilina non era bastato, la insolenza della gioventù che cresceva ancor più riottosa, dissoluta, sfrontata che la generazione matura. Il Senato interrogò il collegio dei Pontefici per sapere se l’atto di Clodio costituiva sacrilegio; e avendo il collegio risposto che sì674, incaricò i Consoli dell’anno 61, M. Pupio Pisone e M. Valerio Messala, di proporre una legge che stabilisse una procedura e un tribunale speciale, per giudicare un processo così grave675. La proposta di un tribunale straordinario, fatta quando il partito popolare protestava ogni giorno contro la condanna illegale dei complici di Catilina, parve una provocazione al partito popolare, che subito prese Clodio sotto la sua protezione; una vivace agitazione contro la legge fu incominciata, per opera specialmente di un tribuno della plebe di nascita oscura, uscito dalla classe media e ambizioso di segnalarsi, Quinto Fufio Caleno; i conservatori, per rappresaglia, si ostinarono a voler la condanna del sacrilego; onde l’avventura galante di Clodio scatenò una baruffa politica, alla quale gli uomini più noti dovettero prendere parte.

Cesare infatti, che doveva partire per la sua provincia, la Spagna, fu costretto a sospendere la partenza; ma in compenso approfittò dello scandalo per far divorzio da Pompeia, le cui parentele, ora che aveva rotto in guerra aperta col partito conservatore, non gli giovavano più. Pompeo fu subito sollecitato dai due partiti; e sebbene si schermisse più che potè, fece alla fine dichiarazioni ambigue molto, ma che parvero ed erano più favorevoli ai conservatori che ai popolari676. Anche Cicerone non potè restare in disparte, anzi fu tratto oltre il segno da lui voluto, da un singolare intrigo di Clodio, che, per averne l’aiuto, aveva tentato di farlo sedurre da una delle sorelle, la seconda, moglie di Quinto Metello Celere677. Questa Clodia era una donna sfrenatamente lasciva che aveva comprato un giardino sulle rive del Tevere nel luogo dove i giovani andavano a bagnarsi nudi, e nella sua casa vendeva e comprava la voluttà, facendosi pagare da una parte dei suoi amanti e pagando essa l’altra. Ma Terenzia, la moglie di Cicerone, donna energica e maligna, vigilava; e caricando il marito di rimproveri e di accuse lo indusse, per aver la pace in casa, a darle la prova maggiore di fedeltà, adoperandosi per far approvar la legge giudiziaria contro Clodio678; Clodio furioso proruppe in ingiurie e minaccie contro Cicerone; chiamandolo tra l’altro il signor “So tutto”679: allusione velenosa alle affermazioni fatte da Cicerone in Senato nella faccenda di Catilina; Cicerone, fatto irascibile dai crucci ed esasperato da questa ingiuria atroce, si precipitò per vendicarsi nel folto della mischia.... Approvata la legge, ma con modificazioni favorevoli a Clodio, proposte da Caleno, Cesare persuase Crasso, che, un poco rassicurato, inclinava di nuovo agli intrighi politici, a sborsar denaro per corromper i giudici; i conservatori prepararono le testimonianze più infamanti per Clodio; e quando il processo si fece, Clodio negò sfrontatamente di essere stato alla festa della Dea Bona: l’uomo sorpreso era altri, quel giorno egli non era nemmeno in Roma. Cesare interrogato come testimonio dichiarò di non saper nulla680; Lucullo venne a rivelare l’incesto di Clodia con il fratello681; ma Cicerone, volle portar egli il colpo di grazia all’accusato deponendo che Clodio, quel giorno, era a Roma e tre ore prima del delitto gli aveva fatta una visita in casa682. Tutti credevano sicura la condanna; ma l’oro di Crasso fu più forte della verità. Clodio fu assolto, con gran giubilo del partito popolare e grande scorno dei conservatori.

I conservatori, tentarono di vendicarsi su Cesare, che si disponeva a partire per la provincia. Molti creditori, sobillati dai suoi nemici politici, trassero fuori un fascio di vecchie syngraphae non pagate – cambiali in sofferenza, diremmo noi – e lo minacciarono di sequestrargli, se non pagava, il grosso bagaglio con cui tutti i governatori viaggiavano. Queste intimazioni erano certo un intrigo politico: se no, sarebbero stati ben stolti quei creditori che trattenevano Cesare in Roma, proprio quando stava per recarsi nella provincia, a cercar il denaro necessario per pagarli. Cesare si rivolse ancora una volta a Crasso; Crasso offrì la sua garanzia, che i creditori non osarono di rifiutare; e Cesare, liberato così, partì subito683, lasciando a Roma Pompeo intento a preparare il trionfo; Lucullo ritirato a riposo; la aristocrazia signora del mondo tutta intesa a piccoli odii, a piccoli intrighi, a piccole cose.

Ma tutta la vita di quella generazione doveva essere uno sforzo ininterrotto per creare cose grandiose; e, anche allora, durante quella pausa, un solitario amico di Cicerone lavorava, in un angolo recondito di Roma, a compire l’opera della letteratura latina veramente imperiale, per la grandezza e l’audacia. Era costui un certo Tito Lucrezio Caro; probabilmente un modesto rentier che viveva sul reddito di qualche terra, in Roma, in piccola casa; e un povero infermo tormentato da una malattia terribile: che gli psichiatri chiamano follia alternante o circolare, e che consiste in una vicenda di tetre melanconie e di frenetici gaudii, di torbidi istupidimenti e di sfolgoranti esaltazioni684. Questo infermo di genio aveva dovuto ritrarsi dalla politica negli studi; e viveva tra i libri, con poche amicizie nelle alte classi, senza ambizioni, senza cupidità di ricchezze, godendosi nel contemplare l’infinito come lo aveva descritto Epicuro: inondato dalla pioggia eterna degli atomi, scintillante di astri, popolato di mondi, vibrante per l’immenso sforzo vitale, nel quale Roma e il suo impero erano come un piccolo scoglio perduto nell’immenso oceano agitato della eternità. Ma non era un dilettante, trattosi fuori da una età di violente passioni, per trastullare con egoistici diletti intellettuali i nervi ammalati: era nei periodi di esaltazione un creatore ardente, un lavoratore infaticabile, un ambizioso insaziabile, a modo suo, nella solitudine degli studi, come Lucullo in mezzo al tumulto dei campi; che sfogava i fervori e le tetraggini della malattia, scrivendo un poema immenso sulla natura, incitando i contemporanei a rovesciare dai loro troni eterei gli Dei bugiardi venerati sino allora, tentando da solo conquistare, non una provincia nuova con le armi, ma con uno sforzo titanico di pensiero, la signoria spirituale della natura. La lingua dei contadini del Lazio era ancora torbida, povera, concreta, la metrica rozza e imperfetta? Come Lucullo aveva osato avventurarsi alla conquista di tanti imperi con 30 000 uomini, Lucrezio osò fare violenza alla greve sua lingua materna che tanti dichiaravano ancora inetta a esprimere altro che comandi di leggi, dispute di politica e conti di affari: la ammollì e purificò nel fuoco di una commozione ardentissima, la martellò ostinatamente sull’incudine del pensiero sino a farle perdere la durezza e l’opacità antiche; piegò e ripiegò con le braccia poderose il rigido arco della metrica, sino a poter lanciare con vigore gli esametri leggeri nell’infinito; poi con questa lingua e con questo metro scrisse non un arido riassunto verseggiato di una dottrina astratta, ma una filosofia pittoresca ed entusiastica dell’universo; espresse la più intensa esaltazione e il più voluttuoso sbigottimento che anima umana abbia sentito, davanti alla rivelazione della eterna agitazione della vita universale; proiettò sull’infinita natura le vicende di ombre e di luci, di melanconie e di gaudi che passavano nel suo spirito infermo; descrisse con meravigliosa vivacità gli episodi dolci e i terribili dell’esistenza: il riso primaverile dei prati verdeggianti dopo la pioggia, il lascivo tripudio degli animali in mezzo ai pascoli, il fragoroso prorompere dall’atmosfera sonante degli uragani nelle selve e nei campi, le violente piene dei fiumi, le paci e le collere del mare, gli sforzi della umanità ferina per vivere e incivilirsi, gli orrori delle epidemie e delle guerre, i folli terrori della morte, la ardentissima sete d’amore di tutti i viventi, la eternità e la identità della vita, che circola nel tutto, attraverso le forme periture degli esseri. Frammenti grandiosi, scritti negli impeti dell’estro, che egli cercava di comporre con estremi sforzi, quanto la malattia e la mole immensa dell’opera gli consentivano, nella unità viva di una immensa lirica di ottomila versi solenne e quasi religiosa: la più sublime lirica filosofica che l’uomo abbia scritto; non la più perfetta, ma la più grandiosa opera della letteratura latina; non il capriccio di un solitario perduto nella metropoli dell’impero, ma uno dei tanti sforzi verso la grandezza, la potenza e la scienza, che quella età tentava in ogni parte del mondo reale e ideale. Lucrezio fu un uomo figurativo del tempo suo, come Lucullo, come Cesare, come Cicerone; tra i quali rappresentò lo sforzo eroico della ragione, che per sapere distrugge le superstizioni, le tradizioni, le religioni; il suo poema, la Natura, fu una delle creazioni maggiori di Roma, che, poco ammirata in principio, sopravvisse nei secoli, quando i trofei, i monumenti e la fama di tanti generali erano stati travolti dalla corrente del tempo.

XVII.
IL MOSTRO DALLE TRE TESTE.

Giunto nella Spagna ulteriore, Cesare, cui l’ultima malignità dei suoi nemici aveva ridimostrata l’urgenza di assestare il patrimonio, si diè subito a far quattrini in tutti i modi. Con dieci coorti nuove, aggiunte alle venti che già erano nella provincia, intraprese spedizioni contro i Calleci e i Lusitani, saccheggiando senza misericordia i loro villaggi, anche quelli che si arrendevano685; e siccome la provincia era molto aggravata di debiti, contratti per la guerra di Sertorio con capitalisti italiani, applicò alla Spagna la politica di Catilina: decretò una diminuzione legale degli interessi, e si fece dare in compenso una grossa somma dalle città686. In quello stesso tempo, Pompeo aveva fatto eleggere fra i consoli per l’anno 60 il suo generale Lucio Afranio, a collega di Quinto Metello Celere, il cognato di Clodio; ma differiva ancora il trionfo, per aspettare che giungessero dall’Asia tutti i tesori conquistati. Alla fine di settembre ogni cosa fu pronta; e il giorno 29 il corteo mosse a suo agio per l’ampia via Appia affollatissima ed entrò in Roma: precedevano due grandi tavole in cui si recapitolavan le imprese di Pompeo e si affermava aver egli aumentate le entrate pubbliche con i tributi delle nuove provincie da 50 a 85 milioni di dramme687; seguiva una interminabile processione di carri, colmi di spade, di corazze, di elmi, di rostri di navi corsare; poi una lunghissima processione di muletti, carichi di denaro e portanti circa 60 milioni che il conquistatore versava nel tesoro; poi la meravigliosa collezione di gemme di Mitridate, artisticamente disposta; poi, ciascuna sopra un carro, le prede di gran valore: un meraviglioso tavolo da giuoco, formato di due sole e smisurate pietre preziose; tre letti fastosissimi, un letto d’oro massiccio donato dal re degli Iberi; 35 corone di perle; 9 grossissimi vasi da mensa d’oro e gemmati; 3 colossali statue d’oro di Minerva, di Marte e di Apollo, un tempietto delle Muse gemmato e sormontato da un orologio; un letto su cui aveva dormito Dario figlio di Istaspe; il trono e lo scettro di Mitridate; la sua statua d’argento; il suo busto d’oro colossale; la statua d’argento di Farnace; un busto di Pompeo fatto di perle da un abilissimo artefice orientale; molte strane piante tropicali, come l’albero dell’ebano. Per ore e per ore la processione dei meravigliosi tesori dell’ultimo monarca ellenizzante si divincolò a stento, attraverso le anguste vie delle metropoli della vittoriosa democrazia italica, sotto gli occhi di una folla immensa, in cui si mescolavano e si pigiavano le grandi dame e le liberte orientali, i senatori, i cavalieri, il popolino minuto degli artigiani, gli schiavi; una folla chiassosa, paziente del sole, della polvere, della ressa, delle lunghe soste del lento corteo, che pareva non stancarsi e non saziarsi mai di veder cose nuove e ne aspettava sempre di più mirabili; in cui le classi si confondevano e tutti si domandavano a vicenda spiegazioni sugli oggetti portati; commentavano, salutavano di esclamazioni, di grida, di applausi le cose più strane e ammirande. Gli occhi delle donne in special modo sfavillavano, vedendo tante e così grosse e così splendide gemme. Il giorno dopo – era il dì natalizio di Pompeo – sfilò la preda vivente: prima grosse torme di prigionieri di tutti i paesi, dai pirati agli Arabi e agli Ebrei, non però in catena ma liberi e vestiti con i costumi nazionali, pittoresco corteo etnografico che rappresentava la immensa varietà di genti su cui Roma aveva esteso il suo impero; poi una frotta di principi e di ostaggi: due celebri capi di pirati, il figlio di Tigrane, che venuto in discordia con Pompeo si era ribellato ed era stato privato della Sofene; sette figli di Mitridate, Aristobulo, con un figlio e due figlie, molti notabili degli Iberi e degli Albani; poi grandi quadri figuranti gli episodi maggiori della spedizione, come la fuga di Tigrane e la morte di Mitridate; poi strani idoli barbarici. Veniva finalmente il trionfatore, sopra un carro gemmato, indossando una magnifica veste che si diceva fosse stata portata da Alessandro Magno, seguito da uno splendido corteo di legati e di tribuni a piedi e a cavallo688.

La democrazia italiana non aveva mai goduto così intensamente con gli occhi l’immenso impero suo; mai si era così intensamente esaltata nel tripudio dell’essere che sente la propria forza aumentare vittoriosa nel contrasto con le cose e con gli uomini; ma la meraviglia somma che confermava la nazione italica nell’orgoglio di essere la prima tra tutte era questa: che finita la processione il trionfatore, il quale affermava di aver ingrandito l’impero fino ai confini del mondo, svestiva l’abito di Alessandro e rientrava modestamente, cittadino privato, nella casa paterna.

Ma passata la festa, tra la fine del 61 e i primi mesi del 60 le discordie infuriarono di nuovo. Pompeo era fermo nel pensiero di riconciliarsi con i conservatori; e a questo fine aveva domandato a Catone in moglie, una per sè e una per il suo figlio maggiore, chi dice due nipoti e chi due figlie689. La fortuna di Cesare non corse mai tanto rischio.... Ma l’intransigente Catone rifiutò, non volendo mescolare le faccende private alle pubbliche e diffidando della riconversione di questo antico transfuga del partito conservatore; la combriccola reazionaria, accanita negli odii e che ora, dopochè Pompeo aveva congedato l’esercito, non lo temeva più, badò solo a sfogare il rancore contro l’antico suo favorito, che l’aveva tradita. Quando Pompeo domandò che il Senato convalidasse le disposizioni da lui prese in Oriente, molti si opposero subito; Crasso e Lucullo per vendicarsi, Catone e il partito conservatore per fargli perdere il credito di cui godeva presso i sovrani d’Oriente e forse anche per mettere in pericolo le somme ingenti che egli aveva prestate loro690. Un’altra cagione, non meno grave, di discordie furono gli aumenti delle pubbliche entrate e l’uso che se ne farebbe. Pompeo voleva ragionevolmente spenderle in parte a pro’ dei suoi soldati, comprando, come egli aveva fatto proporre dal tribuno Lucio Flavio, terre in Italia e dandole loro; in parte a vantaggio di tutta Italia, abolendo le dogane di importazione, come egli faceva proporre da Metello Nepote. Era questo, insieme con quello di Silla, il congedamento più numeroso di soldati, fatto dopochè la milizia era diventata mestiere delle infime classi; e bisognava provvedere a pensionare questi veterani; che non avevano tutti, restando 20 o 25 anni in Oriente, risparmiato abbastanza da poter campare nei vecchi anni; e perciò desideravano una pensione: una terra, sulla quale con i risparmi portati dall’Oriente farsi una casetta, comprar qualche schiavo, tentare una lucrosa coltivazione. L’abolizione delle dogane invece era desiderata da tutta Italia, perchè il consumo dei vini, dei profumi, dei mobili, dei colori, delle stoffe, degli oggetti d’arte orientali cresceva anche nelle città minori che si adornavano, e dove i ricchi e il medio ceto volevano pur vivere, seguendo l’esempio di Roma, sempre meglio e consumando di più. Aperte le frontiere dell’Italia, le mercanzie orientali avrebbero rinvilito, il consumo sarebbe cresciuto, sarebbero finite le liti così frequenti con i pubblicani appaltatori delle imposte, i quali avrebbero appaltato con maggior profitto le imposte delle nuove provincie orientali, di cui si indiceva allora l’incanto691. Disgraziatamente questo aumento delle entrate aveva svegliato troppi appetiti; e non solo i conservatori desideravano che i nuovi fondi restassero a disposizione del Senato, per poter aumentare le somme assegnate alle provincie e ai diversi servizi pubblici, su cui tanti senatori lucravano, ma la potente compagnia appaltatrice dei tributi dell’Asia approfittava di quella abbondanza, per domandare al Senato, aiutata da Crasso, che probabilmente era azionista, una diminuzione del canone, lamentandosi di aver offerto troppo nell’appalto e quindi di perderci692. La domanda era tanto indiscreta, che tutti i senatori di buon senso l’avversavano; onde ne nacquero discussioni, intrighi, querele che disorientarono Pompeo e rovinarono del tutto i nervi già malati di Cicerone. Pompeo, sazio di successi, era tornato a Roma con l’intenzione di godersi i più vari e grandi diletti della gloria e della ricchezza: l’ammirazione incontrastata dei suoi concittadini, la celebrità in tutto l’impero, la ostentazione della munificenza, il grande teatro simile a quello di Mitilene, la splendida casa e le diverse ville che aveva incominciato a far costruire. Invece si trovava impegnato in una lotta di intrighi spietata, che lo sdegnava tanto più vivamente, perchè egli, per quanto affettasse di spregiare i suoi nemici, non riusciva a vincerli. Cicerone disgustato dei conservatori, impensierito dall’odio crescente dei demagoghi, afflitto per la rapida decadenza del credito suo, difendeva la domanda degli appaltatori in Senato, per non inimicarsi anche i banchieri, ma scriveva ad Attico che tanta cupidigia era vergognosa; tentava di avvicinarsi a Pompeo, vergognandosene però e scusandosi con Attico, con dire che faceva ciò per convertire il capo del partito popolare693; aveva finalmente pubblicata la storia greca del suo consolato694. Ma troppo sollecito di giustificarsi, aveva raccontato come Crasso gli avesse portate, quella sera, lettere e denunzie contro Catilina; e Crasso che, passata la paura, di nuovo desiderava popolarità, si era corrucciato per questa rivelazione, che lo annoverava tra i persecutori di Catilina. Cosicchè anche Crasso gli era adesso nemico695. Ma intanto, sebbene le discussioni si seguissero in piazza e nel Senato, nulla era approvato, fuori che l’abolizione delle dogane696: nè l’amministrazione di Pompeo in Oriente, nè la legge agraria, nè la remissione degli appalti; e per maggior disgrazia presto vennero nuove notizie inquietanti dalle Gallie. Gli Edui, antichi amici e alleati di Roma, erano stati sconfitti dagli Svevi, chiamati dai Sequani; un Druido eduo, Diviziaco, era venuto a Roma a domandare aiuto al Senato ed era ospite di Cicerone; gli Elvezi parevano proprio sulle mosse, per la loro migrazione, e già facevano scorrerie nella provincia697. Per un momento le altre questioni furono messe in disparte; l’occasione di un intervento in Gallia pareva offrirsi; ma il Senato, che pure l’anno prima aveva decretato che il governatore della Gallia Narbonese aiutasse gli Edui contro ogni loro nemico, non osò, irresoluto come al solito, intervenire apertamente in Gallia; ordinò che i due consoli traessero a sorte tra loro le due Gallie, la Cisalpina e la Narbonese; che si facessero leve; che si sospendessero tutte le esenzioni dalla milizia; che si mandassero nella Gallia tre ambasciatori a studiare lo stato delle cose698.

Cesare affrettava, intanto, verso la metà dell’anno 60, il ritorno dalla Spagna per concorrere al consolato dell’anno 59. I candidati al consolato erano quell’anno tre: egli, un milionario di nome L. Lucceio, che aveva abitato a lungo in Egitto e si dilettava di scriver storie; e un conservatore intransigente, Marco Bibulo, che già era stato collega di Cesare nell’edilità e nella pretura, e che i conservatori, disperando di far cadere Cesare, gli volevano mettere a fianco. Lucceio, che non aveva partito e solo desiderava di essere eletto, fu sollecitato da ambedue i candidati i quali speravano di fargli pagare le proprie spese; ma essendosi egli risoluto a pagare per Cesare, Bibulo dovè mettere mano alla propria borsa e pregare di aiutarlo gli amici, i quali si quotarono, Catone compreso699. Cesare e Bibulo furono eletti, e il povero milionario che aveva pagato restò a terra. Ma alla elezione il partito conservatore rispose prontamente facendo votare dal Senato che ai due consoli per l’anno 59 si assegnerebbe, come incarico proconsolare, la sorveglianza dei boschi e delle vie dell’impero: una meschina missione amministrativa, di importanza secondaria, per deludere così, anticipatamente e in modo quasi ridicolo, le vaste ambizioni, che tutti facilmente supponevano Cesare volgesse nell’animo per il proconsolato700.

Quali fossero allora queste ambizioni noi non sappiamo. Certo è che tre grandi imprese restavano ancora da compiersi: la conquista dell’Egitto, l’invasione della Persia, l’ingrandimento della dominazione romana sul continente europeo, verso il Danubio ed il Reno. Da questa parte dell’impero una guerra pareva imminente; ma Metello Celere, cui era toccata la Gallia Cisalpina, si disponeva a comandarla701: inoltre di tempo in tempo le notizie suonavano più pacifiche702. A ogni modo questo primo maneggio del Senato ammoniva a non illudersi sulle disposizioni del partito conservatore: e Cesare, che inclinava sempre a creder maggiori del vero le difficoltà e perciò si preparava spesso con uno sforzo molto più grande del necessario, incominciò subito gli apparecchi per il cimento, ma in modo assai diverso da quello che i nemici pensavano. Dopo il governo in Spagna e la elezione a console, Cesare si sentiva ancora una volta disposto a moderazione: nuova oscillazione verso la prudenza, dalla temerità demagogica delle violenze commesse durante la pretura; onde immaginò, per combattere questa lotta difficile contro il partito conservatore, un disegno molto savio: restaurare la democrazia dell’anno 70, signorile, temperata, riformatrice, favorita dalle classi alte e medie, decaduta poi per colpa di uomini e di eventi, disfatta dalla congiura di Catilina; conciliare e unire a questo fine gli uomini più autorevoli, Crasso, Pompeo e Cicerone. L’impresa era difficile; ma Pompeo aveva bisogno che la sua amministrazione in Oriente fosse approvata; Crasso, screditato presso i conservatori dalle ambizioni egiziane, presso i popolari dal contegno subdolo tenuto durante la congiura, doveva desiderare di riacquistare il favore pubblico; quanto a Cicerone, non sarebbe stato lieto di terminare le fastidiose discussioni sulla sua politica nel 63? Cesare tanto disse e tanto fece, nei mesi che passò a Roma come console designato, che riusci a riconciliare Crasso e Pompeo, segretamente però, affinchè i potenti nemici avvertiti non muovessero contro questa alleanza i formidabili strumenti di guerra703; mentre P. Cornelio Balbo, uno spagnuolo di Cadice, fatto cittadino romano da Pompeo e amico di molti grandi personaggi a Roma, parlava per conto suo a Cicerone, facendogli intravvedere la possibile alleanza con Crasso e Pompeo. Cesare sperava, con un contegno conciliante, con l’aiuto di Cicerone, di Crasso e di Pompeo, di trarre a sè i senatori equi e ragionevoli, che erano i più e che per timidezza votavano sempre, dopo la congiura di Catilina, per la piccola cricca dei conservatori intransigenti; rinnovando così i bei giorni del 70. Anche allora, in fatti, la gran battaglia politica contro la combriccola conservatrice non era stata vinta, in Senato, nei comizi, sul Fôro, da lui, da Pompeo, da Crasso e da Cicerone uniti? Ma Cicerone, che ormai era ammalato di una specie di svogliatezza dubitosa, sebbene molto lusingato, non si indusse a rispondere nè si nè no704. A ogni modo la tranquillità sopravvenuta nel suo spirito per le ricchezze acquistate, per il buon esito delle spedizioni in Spagna, per la potenza accresciuta; la stanchezza dei due partiti dopo tante lotte furibonde, avevano fatto rinascere in Cesare la naturale temperanza e prudenza; se Cicerone non voleva, l’unione di Crasso e di Pompeo basterebbe a ricostituire il partito; ed egli ne ricaverebbe, questa volta, il maggior vantaggio, come Pompeo nel 70, non solo procurandosi un importante comando proconsolare, ma continuando l’arricchimento cominciato in Spagna. Per le amicizie e le parentele della sua famiglia, per il contagio dei tempi, per soddisfare l’indole sua di largo spenditore e l’inclinazione del suo temperamento vivace e nervoso ad adoperare gli strumenti più nuovi, più rapidi e più pronti del godimento e della dominazione, Cesare, sebbene fosse il capo del partito dei miserabili, non partecipava in nessun modo all’odio del popolino contro il ceto dell’Oro; anzi voleva imitare i capitalisti e diventare anche egli un potentissimo capitalista, come Crasso e Pompeo. Ambizioso e generoso, egli desiderava il denaro per spenderlo, non per accumularlo; ordinato e preciso nelle faccende sue, sapeva tenere i conti delle prodigalità con esattezza; scettico e indifferente al bene ed al male, non aveva scrupoli; cosicchè allora, pur essendo tornato dalla Spagna con molto denaro, non pagò i suoi creditori, quelli almeno che non lo importunarono come Attico, cui doveva più di 200 mila lire, e Pompeo705; e allora ordiva uno scandaloso imbroglio con i direttori della Compagnia appaltatrice delle imposte d’Asia che continuavano a domandare la diminuzione del canone. Egli si impegnava, come console, di farla loro ottenere; essi in compenso gli avrebbero date molte azioni della Compagnia706.

Così, appena entrato in carica, egli espresse in un discorso al Senato la speranza di agire in ogni cosa d’accordo con Bibulo; e mostrò in molti atti, sia pure formali, molto riguardo al collega707. Fece pure una riforma amministrativa, che non solo doveva piacere al medio ceto, ma che merita a Cesare un posticino anche nella storia del giornale: istituì cioè a Roma il giornale popolare. Crescendo con la cultura e con la ricchezza la curiosità delle notizie, a Roma molti si ingegnavano di campar la vita, facendo i giornalisti: raccoglievano cioè le notizie pubbliche e private che credevano più importanti e curiose; ne compilavano ogni tanti giorni un quinternetto, ne facevano scrivere diverse copie da uno schiavo e le portavano, agli abbonati diremmo noi: ai signori che pagavano per aver questi fascicoli708. Ma naturalmente solo i ricchi potevano associarsi. Cesare pare facesse deliberare che un magistrato compilerebbe un riassunto delle notizie più importanti e le farebbe scrivere in vari luoghi della città su muraglie imbiancate, facendo poi dare una mano di bianco sulle notizie invecchiate, per scriverne altre709; in modo che anche il popolino potesse saper tutto, presto. Cesare dispose anche, affinchè i resoconti del Senato fossero più regolarmente fatti e resi pubblici710. Preparati in questa maniera, secondo egli credeva, gli animi, Cesare propose una legge agraria per la quale venti commissari sarebbero incaricati di distribuire ai veterani e ai poveri gli ultimi avanzi del demanio pubblico, tranne la Campania, e terre comprate ad eque condizioni con il denaro delle prede di Pompeo711; proposte moderate e savie712, che Cesare sottopose al Senato dichiarando di voler ascoltare le obbiezioni di tutti. Ma le sue speranze di rinnovare la democrazia signorile e le vittorie del 70 furono presto deluse. I tempi e gli animi erano troppo mutati. I conservatori intransigenti inferocivano solo a udire i nomi di Cesare e di legge agraria; e i possidenti, che in Senato erano molti, si inquietavano per una legge che attribuiva a venti commissari la facoltà, così facile ad essere male usata, di espropriare le loro terre sia pur pagandole; onde non fu difficile ai conservatori di far rinviare la discussione da questo Senato di scettici e di deboli, ora con un pretesto ora con un altro713. Cesare pazientò per molti giorni, mentre Caleno che era pretore, e Publio Vatinio, un oscuro avventuriere politico, che era tribuno della plebe, proponevano riforme della legge giudiziaria714; ma alla fine, visto che nè egli nè Crasso riuscivano a far discutere dal Senato la legge, dichiarò che l’avrebbe proposta senz’altro ai Comizi715. Gli animi si accesero: Bibulo, aiutato da Catone e dai conservatori, incominciò un accanito ostruzionismo liturgico per impedire le radunanze del popolo716; Cesare si ostinò, agitò il popolo, sinchè, dopo aver cercato in tutti i modi di smuover Bibulo, tentò un espediente supremo: chiamò apertamente in aiuto Crasso e Pompeo, i quali vennero nel fôro e dichiararono che l’ostruzionismo fazioso dei conservatori doveva esser vinto anche colla forza, se la persuasione non bastava717. La legge fu approvata tra grandi tumulti, nei quali Vatinio operò come uomo d’armi e capo dei bravi di Cesare, aggiuntaci una clausola che obbligava i senatori a giurare, entro un certo tempo, fedele osservanza della legge; ma questo successo fu piccola cosa in confronto al subitaneo rivolgimento, inaspettato da tutti e anche da Cesare, che seguì all’improvvisa rivelazione dell’alleanza tra questi tre potentissimi personaggi, creduti da tutti nemici. La discordia di Crasso e di Pompeo era stata la principale cagione per cui la combriccola reazionaria aveva conservato tanto potere, non ostante le sconfitte e gli scandali; ed era così antica, così acerba, così velenosa che tutti la consideravano come eterna. Ecco a un tratto, da un giorno, come per un incantesimo, si vedevano i due nemici d’accordo, ed uniti al popolarissimo capo del popolino di Roma. Tutti furono sbalorditi. Era evidente che Pompeo Crasso e Cesare sarebbero stati, se concordi, signori dei comizi, delle magistrature, della banca; i bosses, direbbero in America, i capi di un caucus, di una combriccola politica potentissima; che difficilmente si sarebbe potuto avere una magistratura, un comando, una legazione libera, un prestito di favore senza la volontà loro. La maggioranza dei senatori senza partito, desiderosi solo di onori lucrosi e di potere, che parteggiavano sempre per i più forti, disertarono tumultuariamente la piccola fazione dei conservatori intransigenti, a capo della quale, dopo la morte di Catulo, stava Catone; e se non passarono subito a riverire e a servire i tre potenti, non vollero più impegnarsi in lotta aperta con loro.

Avviene degli spiriti come dei corpi, che quando fanno uno sforzo troppo grande contro un ostacolo e questo cede all’improvviso, perdono l’equilibrio. Così avvenne allora a Cesare; che si appassionava facilmente sebbene facilmente sapesse ricomporsi, e non poteva non sentire il contagio di quel mondo politico che, mentre gli uomini ragionevoli se ne ritraevano, si riduceva sempre più, da Catone a Clodio, da Bibulo a Gabinio, a una babele di violenti e di maniaci. La subita rivelazione di potenza avvenuta dopo l’annunzio dell’unione sua con Pompeo e Crasso, l’ira per la ostinazione dei nemici e la paralisi improvvisa in cui vide caduto il Senato, gli fecero mutar politica in un baleno, con una velocità e una agilità quasi incredibile. Alla prudenza del principio seguì una nuova oscillazione di audacia. Imbaldanzito dal successo per la legge agraria, e adirato dalla opposizione faziosa dei conservatori, egli abbandonò all’improvviso la politica di conciliazione; immaginò l’attuazione in Roma della pura dottrina democratica, la costituzione di una democrazia alla greca che governasse sola, nelle radunanze del popolo, senza il Senato, l’impero; che, capeggiata da tre Pericli, potenti per eloquenza, per gloria e ricchezza, decidesse anche le questioni diplomatiche e finanziarie, di cui il Senato era stato il solo arbitro fino ad allora; e che intanto fosse agile strumento a conseguire gli intenti immediati del suo consolato. Senza indugio od esitazione, così prontamente come aveva mutato pensiero, Cesare precipitò all’azione; e per trarsi dietro, nella audace e lucrosa avventura politica, l’aristocratico Pompeo, il prudente Crasso, i diffidenti capitalisti, fece riconoscere dal popolo come amico di Roma Tolomeo Aulete re d’Egitto, in compenso di 6000 talenti che divise con Pompeo; fece conceder dal popolo la remissione degli appalti domandata dai pubblicani al Senato; fece approvare dal popolo gli atti di Pompeo718. Le azioni della Compagnia per le imposte d’Asia rincarirono assai, in pochi giorni719. Roma, i conservatori intransigenti, i senatori furono sbalorditi da questa audacissima usurpazione dei poteri del Senato, che era una rivoluzione; ma avevano appena cominciato a riaversi che Cesare li sopraffece con un’altra audacia. Verso la fine di febbraio, Quinto Metello Celere, che si disponeva a partire come proconsole per la Gallia Cisalpina, moriva ancor giovane e così all’improvviso che la voce pubblica accusò sua moglie Clodia di averlo avvelenato720; il governo della Gallia Cisalpina, al quale era per necessità unito il comando della probabile guerra contro i Galli, restava vacante721. Ma Cesare colse prontamente l’occasione per impedire al Senato di assegnar la provincia a qualche favorito; cercando di far credere che una grossa guerra in Gallia fosse imminente722, fece subito proporre al popolo da Vatinio una legge, con la quale, si concedeva a lui il governo della Gallia Cisalpina e dell’Illirico con tre legioni per cinque anni, dal giorno in cui la legge sarebbe promulgata, affinchè se la guerra scoppiasse prima della fine dell’anno egli potesse, come aveva fatto Lucullo, accorrere a prenderne il comando. Per la velocità con cui Cesare fece proporre la legge, e per lo stupore in cui Roma giaceva, dopo la subita rivelazione dell’alleanza dei tre potenti, la legge fu approvata senza contrasto e promulgata il primo marzo: ma Cesare ancor più imbaldanzito dal nuovo successo, preparò a Roma due nuove sorprese: per consolidare maggiormente, per un tempo indefinito, l’alleanza provatasi così potente, sposò in aprile a Pompeo la sua figlia Giulia723, che era fidanzata a Servilio Cepione, facendo dare da Pompeo a costui in compenso la sua figlia; e verso la fine di aprile724 ripropose una seconda legge agraria, con la quale si divideva tra i poveri con famiglia anche il territorio della Campania, dal cui affitto lo Stato ricavava un reddito considerevole. Questa legge mirava forse anche a impoverire l’erario e quindi il partito conservatore, che, potente in Senato, aveva così spesso usato i fondi pubblici ai suoi fini di partito; ed ebbe certo per effetto di compire la rivoluzione agraria incominciata da Spurio Torio nel 111, distruggendo gli ultimi avanzi del comunismo in Italia.

Insomma il Senato non era stato assalito mai con tanta audacia nelle prerogative più antiche e più sacre: per assalti che in confronto erano omaggi, Cajo Gracco era stato ucciso con molti partigiani. Ma Cesare invece trascurava omai di convocare il Senato e appariva dovunque, faceva e disfaceva come se fosse il signore di Roma725. Catone tentava di riordinare una opposizione conservatrice; Bibulo aveva dichiarate nulle in precedenza tutte queste deliberazioni con cavilli liturgici e pubblicava editti su editti violentissimi, contro Cesare, contro Pompeo, contro Crasso; Varrone aveva chiamata l’alleanza di Cesare, di Pompeo e di Crasso la brutta bestia con tre teste, e il motto aveva fatto furore negli aristocratici salotti di Roma dove si laceravano da mattina a sera i tre capi della democrazia vittoriosa: Crasso l’usuraio spilorcio, che vendeva il voto in Senato e ricettava in casa sua per danaro i criminali; Pompeo, il ridicolo vincitore di guerre senza battaglie, il babbeo cui Cesare aveva messe le corna con la prima moglie e che si era lasciata dare in isposa la sua figlia; Cesare il complice di Catilina e il drudo di Nicomede. Il caucus dei tre potenti aveva soggiogata la turba dei politicanti, ma non era punto ammirato dal ceto medio ed alto, tra le persone ricche e colte, che, pur non partecipando alle contese politiche, le osservavano, giudici imparziali e supremi. L’invidia è il cancro delle democrazie civili; e l’immenso potere della triarchia aveva trasportato su Cesare, su Crasso e Pompeo molta parte di quella avversione che in Roma e in Italia perseguitava sempre il partito o gli uomini al potere, qualunque fossero. La gente faceva calca, così che non si poteva più passare, agli angoli delle vie, dove erano esposti i furibondi editti di Bibulo, che quasi diveniva popolare726; Cesare, Pompeo e Crasso avevano ricevuto più volte a feste e cerimonie pubbliche, accoglienze fredde727; la generazione nuova dei giovani delle alte classi, fra i 20 e i 30 anni, ancor più eccitabile, orgogliosa, mutevole, precoce e squilibrata nel bene e nel male che quella matura, affettava un gran disprezzo per la triviale demagogia definitivamente stabilita da Cesare in Roma728. Cicerone in ispecial modo era afflitto e irritato contro i “dinasti”; scriveva ad Attico che Pompeo ambiva senza dubbio la tirannide, e che la repubblica era ormai mutata in monarchia, per la viltà dei grandi e l’audacia di pochi ambiziosi; tetraggine di visioni a cui lo disponevano insieme motivi personali e ideali: il malumore per essere decaduto ormai tra i personaggi di secondaria importanza729; la ripugnanza sincera per la tirannide demagogica; lo spavento per la crescente audacia di Clodio che Crasso, Pompeo e Cesare proteggevano apertamente. Clodio che, per un altro dei suoi stravaganti capricci, voleva allora degradarsi da patrizio tra i plebei, per diventare tribuno della plebe, non aveva ancora potuto buttar via il patriziato per difficoltà legali; ma Cesare era venuto in suo aiuto e con una lex curiata de arrogatione lo aveva finalmente implebeiato, onde sarebbe sicuramente stato eletto tribuno l’anno prossimo730.

Rabbie e afflizioni vane del resto. Pompeo – è vero – era stato un poco sorpreso e sconcertato da quell’improvviso rivolgimento di cose, per cui, quando credeva di ridiventare, come nel 70, il capo del nuovo partito popolare, signorile e legalitario, si era trovato capo, con Cesare e con Crasso, di un caucus demagogico, che repugnava al suo temperamento aristocratico. Egli soffriva di queste contumelie, in segreto, acerbamente; non sapeva bevere alle pozze melmose della ingiuria democratica; non poteva tollerare il pensiero che tutta Roma ripetesse le violenti invettive di Bibulo, per quella delicata suscettività così frequente nei grandi signori, che li rende anche oggi, di istinto, così nemici della libertà di stampa731; era anche un poco spaventato dalle audacie demagogiche di Cesare e cercava con abili sofismi di sceverare la responsabilità sua da quella di lui732. Ma Crasso, più scettico ed egoista, si godeva la nuova potenza dimenticando l’odio contro Pompeo; e Cesare sempre più audace e impetuoso signoreggiava Roma, indifferente alla malevolenza delle alte classi. Nessuno gli si opponeva più, nessuno osava ripetere in pubblico le cose che tutti dicevano in privato; pochi comparivano alle rare tornate del Senato, e pochissimi alle radunanze del partito conservatore, che potevano tenersi nella casa di Bibulo733, tanto era scarso il concorso; Cicerone scriveva ad Attico cose di fuoco contro la viltà dei senatori, ma anche egli faceva come gli altri734. Eppure se il partito democratico non era, come pretendeva Catone, una banda di ubbriaconi735, Cesare, Pompeo e Crasso eran soltanto i capi di una clientela politica, detestata dai ceti superiori che possedevano la ricchezza e la cultura. Come poteva questa clientela dominare uno stato libero, retto con istituzioni elettive? Quale misteriosa malia distruggeva a un tratto la forza dei ceti superiori e di quell’assemblea, che aveva governata, per tanti secoli, prima il piccolo Lazio, poi l’Italia, poi un immenso impero mondiale? Il Senato aveva avuto energia, ed autorità propria, nell’antica società rustica, aristocratica e guerresca, sinchè era stato l’organo di una unica classe signoreggiante sicuramente su tutte le altre: di quella aristocrazia di grandi proprietari, educata solo a guerra e a politica, sottoposta a una forte disciplina familiare e sociale, concorde nelle poche questioni essenziali e nei pochi fini supremi di una politica semplice in una civiltà semplice, discorde solo nei particolari e nei mezzi. Ma con l’imperialismo e i progressi dello spirito mercantile, del lusso, dei godimenti, della cultura, di quella insomma che suol chiamarsi la civiltà, le tradizioni dell’antico vivere eran venute meno; le passioni personali, la cupidigia, l’ambizione, la voluttà si erano esaltate, distogliendo un gran numero di persone delle classi alte dalle faccende pubbliche; i cittadini del vecchio tempo, disciplinati, pronti ai carichi pubblici, tutti plasmati nello stesso stampo della educazione tradizionale, sparivano; cresceva invece una molteplice varietà di uomini, avidi ognuno di certi piaceri, alacre ognuno in certe opere, infermo ognuno per certi vizi, che non volevano accrescere le proprie fatiche o disturbare i propri piaceri per le cose pubbliche; troppo affaccendati privatamente, troppo egoisti e troppo diversi da poter lavorare insieme per un fine comune a tutti.

Proprio allora infatti appariva in Roma il primo e grandissimo poeta lirico, il cui canto sfrenatamente appassionato e personale segnava appunto questo tempestoso mutar della stagione del tempo su Roma. Nato nell’84 da una ricca famiglia di Verona736, Caio Valerio Catullo, dopo aver ricevuta una splendida educazione letteraria, era venuto a 20 anni a Roma, dove, presentato da Cornelio Nipote all’alta società, aveva in breve conosciuto tutti gli uomini insigni, i ricchi mercanti, le grandi dame, e appassionato e impetuoso come un selvaggio, pur continuando a comprar libri e a studiare737, si era dato a una sfrenata vita galante spendendo senza contare, sfoggiando, facendo debiti, venendo in discordia con l’avaro genitore738, corteggiando le donne; sinchè si era innamorato perdutamente della bellissima e lascivissima Clodia, la moglie di Metello Celere. Non aveva faticato molto a conquistare questa donna così facile, a cui i trasporti frenetici dell’ingenuo giovinetto dovettero piacere un momento, come un sollazzo nuovo a distrazione di tanti amori brutali; ma al capriccio fugace di Clodia egli corrispose con una passione tormentosa gelosa e terribile per la sua “Lesbia” che egli avrebbe voluta interamente sua; e per la quale si logorava in quegli anni in una vicenda di liti e di paci, di ingiurie e di suppliche, di disperazioni e di rassegnazioni739, che non disturbavano per nulla Clodia dalla sfrenata dissipazione galante, ma nemmeno la crucciavano con il tormentoso adoratore, al quale essa tornava di tempo in tempo, per lasciarlo poi ancor più innamorato, più desideroso di lei e insoddisfatto. Tuttavia in mezzo a questi crucci, per conforto e per inclinazione, Catullo esercitò il suo straordinario ingegno poetico e letterario, poetando con una sincerità quasi brutale, con una potenza e una varietà di metrica, di motivi, di espressioni meravigliosa, tutti i momenti, i più frivoli e i più dolenti, della sua vita: gli improvvisi e violenti appetiti del senso; i capricci fugaci della lascivia; le affettuose confidenze dell’amicizia; la comica desolazione dei debiti; la melanconia delle partenze per viaggi lontani; il rimpianto del fratello, morto giovane in Asia; lo sfrenato turpiloquio dell’ira triviale, prontissima e fugacissima; l’intenerimento passeggero delle rimembranze, quando in mezzo alla torbida Roma ripensava al suo bel Garda azzurro, solitario e tranquillo, sulle cui rive la casetta placida di Sirmione, amica e ridente, che l’aveva visto bambino, l’aspettava come una vecchia nutrice aspetta il figlio oblivioso e vagabondo e triste nella lontananza; il cruccio degli amori gelosi, e il rodimento di quella contradizione insolubile, che egli espresse in due versi mirabili:

– L’odio e l’amo. Forse mi domandi: perchè?
– Non lo so. Ma lo sento e mi arrovello740. –

La lirica di Catullo basterebbe a spiegare il successo della rivoluzione politica fatta da Cesare, durante il consolato. Questa poesia così personale e appassionata poteva prorompere solo da una età, in cui le classi alte e colte si erano disperse nella ricerca dei godimenti più vari, dalla ricchezza all’amore, dal giuoco alla filosofia, abbandonando lo Stato a una classe di politicians di professione, nella quale la maggioranza serviva sempre la cricca o il partito che per il momento pareva più forte. Dopo l’improvvisa usurpazione dei poteri del Senato fatta da Cesare, il maggior numero dei senatori aveva temuto, cadendo in disgrazia dei tre capi della democrazia, fatti così potenti dalla unione, di riceverne danno nelle ambizioni e nelle cupidigie personali; e Cesare dominava; Catone e Bibulo tentavano invano di riordinare un’opposizione; le classi alte subivano, scontente ma inerti, la nuova tirannide demagogica; e Lucullo che, un momento aveva voluto contrastare alla triarchia, minacciato da Cesare di un processo per le prede da lui fatte nelle guerre in Oriente, subito tacque.

Tuttavia Cesare, che inclinava sempre anche nella fortuna a considerare maggiori del vero i pericoli, non si illuse; e vide chiaramente già allora che il potere acquistato in un baleno poteva venir meno in breve tempo. Egli aveva fatto approvare un seguito di leggi rivoluzionarie; ma sapeva bene che i conservatori avrebbero, quando egli non fosse più in Roma, cercato di annullarle. Perciò con una alacrità veramente ammirabile,Cesare attese, nella rimanente parte dell’anno, a consolidare il potere della triarchia. Bisognava anzi tutto fare eleggere consoli per l’anno seguente uomini devoti a Cesare e ai suoi amici; e furono scelti difatti a candidati Aulo Gabinio, devotissimo a Pompeo, e Lucio Calpurnio Pisone, di una antica famiglia nobile che aveva perso lo stampo della stirpe dopochè il padre suo, impoverito, si era dato agli affari, aveva fatto denari come fornitore militare al tempo della guerra sociale e aveva sposata la ignobile ma ricca figlia di un mercante di Piacenza741. Pisone, uomo, a quanto pare, triviale e ambizioso, era pronto a servire qualunque partito pur di avere ricchezze ed onori; ma Cesare, per esser più sicuro di lui, si fidanzò con la sua figlia Calpurnia. Era inoltre necessario allontanare da Roma il maggior numero di conservatori autorevoli; e signoreggiare con una maggioranza sicura i comizi, a cui Cesare aveva ormai trasportato il governo dello Stato; affinchè, anche quando egli fosse lontano, il partito conservatore non potesse far abolire dal popolo ciò che egli aveva fatto approvare. Fatalmente il partito democratico era di nuovo tratto a cercar le fonti del potere, oltre l’egoismo civico delle classi alte e medie, nella infima plebe urbana; perchè torme di elettori sicuri e pronti a votare ai cenni di un capo si potevano reclutare solo nel popolino povero e rozzo, fra i mendicanti, gli artigiani, i liberti. Ma Cesare non volle questa volta essere il capo di una plebe disgregata e mobile come le arene del mare; pensò di organizzarne almeno una parte in un vero corpo di elettori; e scelse abilmente a questo ufficio Clodio, nel quale l’orgoglio aristocratico degli avi si era pervertito in una passione di tutte le cose brutali e volgari; che si godeva tra i ladri, i beceri, i lenoni, i furfanti e la feccia delle taverne, come altri nelle più elette compagnie. Cesare gli propose di aiutarlo a essere eletto tribuno della plebe, a condizione che Clodio divenisse il suo massimo agente elettorale; e Clodio accettò per ambizione, per il desiderio di spaventare e scandalizzare Roma per un anno, come tribuno; e per la smania di vendicarsi di Cicerone, contro cui, per la deposizione da lui fatta nel processo di sacrilegio, aveva concepito un odio ferocissimo.

Ma Bibulo rimandò le elezioni dal luglio all’ottobre. Intanto Cicerone, che verso il principio di giugno era tornato dalla Campania a Roma742, vedeva il suo credito rinascere rapidamente in mezzo a quella agitazione. Pompeo non tralasciava occasione di usargli cortesia743; Cesare gli proponeva di nominarlo suo generale in Gallia744, ambedue desiderando che egli non si mettesse contro di loro; l’opposizione, i malcontenti, i conservatori, i giovani affollavano di nuovo la sua casa come ai tempi di Catilina, quasi egli solo fosse capace di restaurare la costituzione745. Solo Clodio empiva Roma di invettive e minaccie contro di lui746. Cicerone, ormai snervato e tormentato da dubbi continui, si commosse poco per le lusinghe di Cesare e di Pompeo, perchè la sua avversione alla tirannide demagogica era troppo profonda e sincera; ma non si risolvè nemmeno a intraprendere una opposizione energica, ondeggiando sempre, a volte agitato da una viva impazienza di grandi battaglie, a volte avvilito dalla ignavia dei conservatori747. Tutti parlavano male, in privato, di Cesare, ma che cosa erano poi pronti a dire pubblicamente e a fare? Uno solo dei candidati per l’anno 58 aveva avuto la fermezza di non giurare l’osservanza delle sue leggi. Inoltre le minaccie di Clodio incominciavano a inquietarlo a tal segno, da fargli dimenticare i guai pubblici. Ne aveva parlato con Pompeo, il quale lo rassicurava: Clodio essersi impegnato con loro a non far nulla contro di lui748; e per un momento si era tranquillato; ma tornava ad inquietarsi di nuovo di lì a poco, vedendo Clodio continuare nelle invettive; e scriveva ad Attico di venire presto a Roma, dove l’avrebbe aiutato a conoscere le intenzioni di Clodio, per mezzo di Clodia di cui pare Attico fosse molto amico749. Clodio infatti ingannava Pompeo, perchè egli voleva far condannare all’esilio Cicerone, accusandolo di aver fatto giustiziare illegalmente i complici di Catilina: ma astutamente nascondeva a tutti la propria intenzione, sapendo quanto fosse difficile scacciar da Roma un oratore così celebre, per sorprenderlo all’improvviso750. Intanto Cesare proponeva una legge contro gli abusi dei governatori, assai minuta e ben fatta, sebbene di difficile applicazione; e faceva proporre da Vatinio una legge che lo autorizzava a dedurre a Como 5000 coloni di diritto latino751. Ma Pompeo, sempre esitante, incerto e pentito di essersi impegnato in questa mischia di partito, era cagione di inquietudine a Cesare, il quale pare ricorresse, per vincerne le esitanze, a una insidia tenebrosa: fargli credere che la nobiltà romana tramava un complotto contro di lui. Vatinio indusse un agente provocatore di nome Vezio a incitare alcuni giovani più leggeri dell’aristocrazia a ordire una congiura contro Pompeo, per poi svelarla; e, Vezio ne parlò al figlio di Scribonio Curione; ma questi più astuto lo disse subito al padre, che svelò tutto a Pompeo. Vezio imprigionato denunziò parecchi giovani, fra i quali Bruto, il figlio di Servilia. Non è improbabile che Vezio avesse parlato della cosa anche a Bruto (ciò dimostrerebbe che l’agente provocatore conosceva gli uomini); e che Bruto avesse commesso una imprudenza; ad ogni modo Servilia corse da Cesare; Cesare visitò Vezio in prigione; e poi, radunato il popolo, lo fece comparire e raccontare la lunga storia di un complotto, in cui non si parlava più di Bruto, ma si accusavano vagamente uomini potenti del partito conservatore, Lucullo, Domizio Enobarbo, anche Cicerone. Ma poi della cosa non si parlò più; si disse anzi che Vezio fosse stato fatto uccidere, da Cesare, in prigione752.

In ottobre Pisone e Gabinio furono eletti consoli; Clodio tribuno della plebe; diversi conservatori, tra gli altri Lucio Domizio Enobarbo, pretori. Di lì a poco il Senato, nel quale il partito conservatore aveva perduto gran parte del suo potere, diede, su proposta di Crasso e di Pompeo, anche il governo della Narbonese con una legione a Cesare753; il quale, sicuro oramai del comando proconsolare, si volse a consolidare definitivamente il suo potere nel fôro, organizzando la “Tammany Hall” di Roma antica. Non appena entrato in carica il 10 dicembre, Clodio annunziò un seguito di leggi, una più popolare dell’altra, certo preparate d’accordo con Cesare: una legge frumentaria per la quale i cittadini poveri riceverebbero il grano dello Stato, non più a prezzo di favore, ma gratuitamente; una legge che disponeva il popolo potesse radunarsi ed approvare leggi in tutti i giorni fasti; una legge che accordava piena libertà di associazione alle classi operaie di Roma, le cui società erano state negli ultimi anni tanto perseguitate dai conservatori754. Qualche conservatore, anche Cicerone, voleva opporsi energicamente a queste proposte, ma Clodio li ingannò astutamente, dando ad intendere che, se gli approvavano queste leggi, egli avrebbe lasciato tranquillo Cicerone755; e Cicerone illuso, come avviene spesso ai timidi, dal proprio desiderio di pace, cede, si mantenne quieto, consigliò gli altri ad astenersi, cosicchè nei primi giorni dell’anno 58 tutto fu approvato senza opposizione. Subito Clodio, con una nuova legge, fece incaricare dal popolo un suo cliente, Sesto Clodio, di oscura e povera famiglia, di compilare le liste degli ammessi alla distribuzione gratuita del grano756. Avvenne allora un fatto imprevisto e curioso: molti bottegai, rivenditori ambulanti, artigiani, che possedevano qualche schiavo, il cui mantenimento era caro a Roma per la scarsezza del grano, li liberarono per farli cittadini e metterne il mantenimento a carico dello Stato757: largo compenso alla diminuzione di diritti che seguiva la liberazione. Il numero dei partecipi alle distribuzioni aumentò rapidamente; Sesto non fu severo nel compilare le liste; il beneficio di questa legge, largamente diffuso nel popolino, accrebbe la popolarità della triarchia e di Clodio, il quale facilmente potè con un rapido lavoro, aiutato da Sesto e complici i consoli, organizzare, nell’infima plebe artigiana di Roma e per ogni quartiere, un gran numero di società operaie ed elettorali nel tempo stesso; dividere in decurie, ed ordinare in squadre un gran numero di liberti e anche di schiavi sotto caporali, che, a un ordine di Clodio, li avrebbero portati a votare758. Di questo esercito elettorale, reclutato nel popolino cosmopolita di Roma, simile a quello che la “Tammany Hall” recluta nella plebe cosmopolita di New York, e posto ai servizi della clientela di Cesare, di Crasso e Pompeo, lo Stato pagava il mantenimento, con la legge frumentaria; per provvedere alla quale Clodio fece approvare con una legge del popolo la conquista di Cipro e la confisca dei tesori del suo re, con il pretesto che si ostinava maliziosamente a aiutare i pirati759. Clodio, avendo servito con zelo e abilità la triarchia, voleva ora la sua ricompensa: la condanna di Cicerone, che Cesare, Crasso e Pompeo, non avendo potuto trarlo dalla loro parte, avrebbero invece voluto allontanare da Roma, ma in modo onorevole; e a cui Cesare, uscito di Roma, in attesa di partire per la Gallia, offrì di nuovo la nomina a suo legato in Gallia. L’astuto Clodio, che aveva sempre dato a intendere ai tre capi della democrazia di non volere nuocere a Cicerone ma solo spaventarlo, aspettò di avere organizzate le associazioni elettorali; e poi all’improvviso, come un animale in agguato che piomba sulla preda, propose una legge che minacciava la interdizione a chi avrebbe o avesse già condannato a morte, senza appello al popolo, un cittadino romano760; e una lex de provinciis, nella quale, contro le disposizioni della recente legge di Cesare si attribuivano a Pisone la Macedonia e a Gabinio la Siria, con il diritto di far guerra fuori della provincia e di giudicare anche presso i popoli liberi, e con l’assegnazione di grosse somme di denaro, per indurre con questo compenso i consoli a lasciarlo liberamente perseguitar Cicerone761. Cicerone e i suoi amici tentarono di resistere; una deputazione di senatori e di capitalisti si recò dai consoli; Cicerone sollecitò l’intervento di Pisone, di Pompeo e di Crasso; i suoi amici tentarono di convocare meetings popolari per protestare contro la legge di Clodio. Inutilmente. Pompeo, Crasso e Cesare, pur dolendosi che Clodio li avesse astutamente ingannati, e li facesse in parte responsabili dello scandalo di questo esilio di un cittadino così illustre, non vollero impegnarsi in un conflitto con il potentissimo demagogo; solo Crasso lasciò lavorar per lui il figlio suo Publio, giovane di grande ingegno e di nobili passioni, che doveva partire con Cesare per la Gallia, e che ammirava con trasporto il grande oratore; il pubblico, intimorito da Clodio, scoraggiato dall’astensione dei tre capi della democrazia, non si commosse; e gli amici sorpresi all’improvviso furono costretti a consigliar Cicerone di cedere per il momento alla sventura e andare spontaneamente in esilio, sperando in un prossimo e onorifico ritorno. Cicerone in principio si disperò, protestò, rifiutò; ma poi, vinto dalla necessità, si appigliò al solo partito savio che gli restasse; e ai primi di marzo abbandonò Roma. Lui partito, Clodio fece confermare l’esilio con una legge; e gli distrusse le case e le ville762. Poco dopo partivano anche Cesare, che aveva ricevute notizie inquietanti dalla Gallia; e Catone, che Clodio aveva incaricato per legge della impresa di Cipro. Cesare andava in Gallia, seguito da molti amici, che avrebbero servito sotto gli ordini suoi nell’esercito: Labieno, il tribuno dell’anno 63; Mamurra, un cavaliere di Formia, probabilmente sino allora appaltatore, che sarebbe stato capo del genio; Publio, figlio di Crasso. Catone invece non voleva accettare la missione straordinaria di Cipro, comprendendo che Clodio intendeva non fargli onore, bensì allontanare da Roma il capo del partito conservatore per render più sicuro il potere dei triarchi, per conto dei quali agiva; ma poi considerando che Clodio lo avrebbe processato per disobbedienza a un ordine del popolo, e che, poichè a Roma non si poteva più far nulla, egli a Cipro salverebbe almeno i tesori del re per l’erario, partì763, conducendo seco il nipote Marco Bruto, cui, dopo la faccenda di Vezio, conveniva fare un viaggio. Ma Bruto lo seguì a malincuore, dolendogli di lasciare Roma e i suoi studi, ai quali attendeva con gran trasporto, e per i quali era già noto, non meno che per una purezza dei costumi, rara nella gioventù così dissoluta del tempo suo764.

XVIII.
LA CONQUISTA DELL’IMPERO.

Intanto incominciava in Italia un nuovo e maggior progresso del lusso. Lucullo, che dopo il ritorno aveva, se non abbandonata del tutto, trascurata la politica, come la sua missione storica sulla terra fosse finita, ne cominciava un’altra: dopo aver suscitato nel popolo italiano la passione e il coraggio delle conquiste indefinite, creando l’ultima e più ardita politica dell’imperialismo romano, mostrare alla nazione, inconsapevole maestro di lusso e di magnificenza, come si dovevano usare le ricchezze acquistate. Senza misura ormai e senza freno in tutte le cose, trasportato da una esaltazione quasi maniaca che cresceva con la vecchiaia, questo uomo, restato povero e semplice sino a cinquanta anni, sinchè aveva conquistato gli immensi regni e i tesori di due sovrani di Oriente, sfogava allora il suo tardo delirio di grandezza in un fasto asiatico, non ancor visto a Roma, e stupiva con quello l’Italia, come prima l’aveva stupita con la sua audacia guerresca. Con i denari di Mitridate e di Tigrane egli si era fatto costruire in quella parte del Pincio che si chiama la Trinità dei Monti, nell’area compresa tra la via Sistina, la via Due Macelli e la via Capo le Case, una magnifica villa, con palazzi, con portici, con sale, con giardini, con biblioteche, tutta adorna di meravigliose opere d’arte765; aveva comprato Nisida e l’aveva convertita, con immense spese, in un delizioso soggiorno766; aveva costruita una villa a Baia, e comprate vaste terre nel Tusculano, costruendo però in ciascuna non una rozza fattoria, ma splendidi palazzi, con opere d’arte e sale da pranzo magnifiche767; faceva lavorare una coorte di architetti greci, dicendo loro che lo rovinassero768; convitava torme di amici, di dotti, di artisti greci, a cene sontuosissime, preparate dai migliori cuochi di Roma, nelle quali soddisfaceva la senile ghiottoneria, unica passione del senso che si era ancor risvegliata in un uomo datosi a godere così tardi. Afrodite non aveva voluto entrar nella casa, aperta da questo vecchio frettoloso alle Voluttà. Certo, in mezzo a questi sontuosi conviti, il vecchio non sospettava che, dopo aver creato quella politica la cui gloria doveva toccare poi quasi tutta a Cesare, il suo nome sarebbe diventato celebre per queste profusioni; che la posterità avrebbe dimenticato il dono da lui fatto all’Italia del ciliegio, misconosciuta l’importanza storica delle sue conquiste in Oriente, ma si sarebbe ricordata dei pranzi che egli imbandiva. Eppure con questi pranzi, con queste costruzioni, con queste sontuosità Lucullo continuava la missione storica incominciata con la conquista del Ponto, con le rapine di metalli preziosi e le catture degli uomini: essere con l’esempio della vita privata un potente veicolo della civiltà greco-orientale, industriosa, colta, sibaritica nella rude e semplice Italia rustica.

E di fatti intorno a lui si accelerava il mutamento, ferveva intensamente il processo vitale della grande êra imperialista: l’assimilazione degli schiavi orientali. Giammai l’Italia era stata così piena di schiavi come in quei tempi: le conquiste dei due Luculli e di Pompeo, le piccole guerre di frontiera, il commercio consueto dei debitori ridotti in schiavitù o degli uomini rapiti dai pirati, avevano trasportata e trasportavano in Italia una moltitudine varia di uomini e donne, di architetti, di ingegneri, di medici, di pittori, di orefici, di tessitori, di fabbri asiatici, di cantatrici e ballerine siriache, di piccoli mercanti e fattucchieri ebrei, di stregoni e venditori di semplici e di veleni; di pastori galli, germani, scitici, spagnoli. Dispersi nelle case dei ricchi e del medio ceto di Roma e dell’Italia, questi infelici cui la lotta dell’uomo contro l’uomo aveva tolto il focolare, dispersa la famiglia, rapita la fortuna, avevano dovuto ricominciare, a qualunque età fossero giunti, la vita; e a poco a poco nella moltitudine si era fatta una cernita: alcuni troppo ribelli erano stati condannati a morte dai padroni; altri fuggiti si erano buttati al brigantaggio o alla pirateria; altri si erano perduti nella grande metropoli o sulle vie dell’Italia, erano periti in qualche rissa, in qualche insidia, per qualche accidente naturale; molti erano stati uccisi dalle malattie, dal disagio, dal dolore della patria perduta, della fortuna e dei cari dispersi. In tutte le grandi emigrazioni della famiglia umana, volontarie o forzate, attraverso la terra, molti spariscono nell’ignoto, così. Ma molti, specialmente quelli dei paesi civili dell’Oriente, che erano abili artefici di mestieri fini, avevano incominciato a poco a poco a conoscere gli uomini e le cose; a orientarsi, a dimenticare un poco la patria lontana, a imparare alla meglio la lingua dei vincitori, a far conoscere ai loro padroni le proprie attitudini; avevano ottenuto il permesso di esercitare in parte a beneficio proprio, in parte a beneficio del padrone la professione, in una bottega che il padrone apriva; talora anche avuta la libertà, a condizione di dare al padrone una parte del guadagno. La legislazione sui doveri economici e morali dei liberti si perfezionò, determinando e risolvendo con precisione i singoli casi769; i liberti formarono una classe di artigiani, che manteneva nell’agiatezza o nel lusso, cedendo parte del suo lavoro, la classe media ed alta dell’Italia; i rapporti tra padroni e servi si fecero più umani; cominciò a esser costume di dare la libertà a uno di questi schiavi abili e fedeli, dopo sei anni di servitù770. Lo spirito di speculazione, universale negli Italiani, favorì mirabilmente gli sforzi degli schiavi; molti signori facevano qualche schiavo più abile maestro dell’arte sua ad altri schiavi giovinetti; le case dei ricchi e del medio ceto in Roma e in Italia si mutavano in scuole di arti e mestieri. Così un profumiere di Mitridate, che era stato schiavo e poi liberto di un Lutazio, aveva aperta a Roma una bottega e preparava le sue ricette odorose, non più per le concubine del re, ma per le signore di Roma771; così in tutta Italia le case dei ricchi e degli agiati avevano schiavi e liberti fabbri, falegnami, tessitori di stoffe e di tappeti, capomastri, pittori, tappezzieri, i quali lavoravano per il signore e per il pubblico sempre più avido di lusso; così, nella campagna, antichi agricoltori delle isole dell’Egeo e della Siria perfezionavano la coltura della vite e dell’ulivo, insegnavano a fabbricare oli e vini migliori, ad allevare gli animali con maggior cura; così nella società italiana cresceva la molteplicità dei gusti e delle attitudini, la varietà delle opere, delle arti e dei mestieri. Di liberti si componeva in gran parte anche il ceto umile e meritorio dei maestri – grammatici e retori – notevolmente cresciuto per soddisfare il desiderio di istruirsi, diffusosi nella classe media772. Altri schiavi capivano le debolezze e i bisogni dei loro padroni, nei quali sopravviveva ancora, così spesso, tanta parte della antica rozzezza italica; ne diventavano, se uomini, i contabili, gli amministratori, i fattori, i consiglieri, i bibliotecari, i copisti, i traduttori, i segretari, i mezzani, i corruttori; le concubine padrone, se donne; li servivano insomma e li dominavano. Specialmente le case dei grandi, come quella di Pompeo, di Crasso, di Cesare erano simili a ministeri, ove numerosi liberti e schiavi orientali aiutavano i padroni; ordinavano le feste sontuose per il popolo, tenevano la corrispondenza, i conti, i registri dei clienti, gli archivi della famiglia.

Nel tempo stesso in cui tanti stranieri venivano dalle provincie in Italia, un gran numero di Italiani emigrava nei paesi conquistati. Come ora piccole colonie di Inglesi e di Tedeschi si stabiliscono in ogni parte del mondo, così allora, in ogni paese del Mediterraneo, vivevano numerosi residenti Italiani: non solo in Grecia e nella provincia d’Asia, antica meta dei primi cercatori di fortuna che l’Italia mandò per il mondo; ma sulle coste dell’Adriatico da poco conquistate, a Salona773 e a Liesc774; nella Gallia Narbonese; nelle città della Spagna come Cordova e Siviglia775; in Africa, ad Utica, ad Adrumeto, a Tapso776; ad Antiochia e in tutta la Siria, dove dopo le legioni di Pompeo erano accorsi dall’Italia777 numerosi avventurieri e mercanti778. Questi Italiani si davano dappertutto ad opere varie: erano fornitori degli eserciti, appaltatori delle imposte, mercanti di schiavi e di prodotti indigeni, direttori, vice-direttori, impiegati delle grandi compagnie di publicani, agenti di signori italiani che avessero beni o crediti nella provincia, proprietari essi stessi, fittavoli dei demani pubblici, usurai il più spesso; e si raccoglievano in specie di clubs, o associazioni rette con statuti e chiamate conventus civium romanorum; erano il corteggio e i consiglieri dei frettolosi governatori, sbalzati nella provincia a un tratto e ignari del paese, che sempre ne diventavano o gli strumenti inconsapevoli o i complici. Questi residenti, partiti spesso dall’Italia poveri, diventavano presto nelle isolette, nei villaggi, nelle cittaduzze, dove i casi della fortuna li avevano condotti, particelle vive di quella unica anima immensa, che, imperiosa e cupida, dominava ed atterriva dall’Italia tutte le coste mediterranee; formavano tra gli indigeni una minuscola aristocrazia, orgogliosa, prepotente per la ricchezza, per la cittadinanza romana, per la protezione dei governatori; e come piccoli monarchi, maltrattavano e spogliavano gli indigeni, si dispensavano dall’osservanza di ogni legge, si atteggiavano qualche volta anche a benefattori generosi779. Così le torme dei vinti ed i pochi vincitori si incontravano sulle grandi strade dell’Impero, in viaggio verso i proprii opposti destini; avviati gli uni a servire con le braccia, con le attitudini tecniche, con l’astuzia, con i vizi, con la coltura; gli altri ad usare e ad abusar del dominio, con il denaro, con le leggi, con le armi, con l’orgoglio cieco del signore, che non vede quale terribile insidia si appiatti nella docilità di ogni servo.

La vecchia Roma schiettamente latina, povera, modesta, piccola, piena di boschetti e di prati tra i quartieri ancor radi, con le case dei suoi patrizi basse e solitarie, ognuna separata da un giardinetto come i cottages inglesi, con il suo piccolo quartiere degli scarsi artigiani780, prorompeva ormai da ogni parte oltre il cerchio antico delle mura, con il tumultuoso disordine delle immense case di speculazioni per la plebe innumere, pigiate l’una contro l’altra, alte come torri, aggrappate ai pendii più ripidi e alle vette più aguzze dei sette colli781; con i vasti giardini e gli ampi palazzi, solitari come le anime dei loro orgogliosi signori, della nuova e discorde oligarchia di capitalisti, di mercanti, di generali, arricchitisi predando, con la guerra e l’usura, l’Africa, l’Asia e l’Europa; con i molti avanzi della vecchia città latina: orribili e veneratissimi templi di legno imputriditi, vecchie case patrizie di stile latino, basiliche e monumenti pubblici fregiati dalle rozze ceramiche etrusche. Quella disciplina del piacere, quella combinazione ingegnosa e quasi monastica di insegnamenti, esempi, sorveglianze e minaccie reciproche, con cui la vecchia nobiltà romana si era assicurata il dominio del mondo, trattenendo in sè e nella plebe la fretta di consumar subito i frutti delle prime vittorie, era ormai distrutta; la cupidigia, l’ambizione, tutte le Voluttà, Afrodite, il Dio Dionisos, le Nove Muse, la Filosofia, avevano invaso Roma, come la torma delle Baccanti, in un tumulto orgiastico; e da Roma si erano sparse per l’Italia ad accendere dovunque un’ardente cupidigia di ricchezza, di potenza, di piaceri e di sapere. Il grande Impero ricordava appena i suoi piccoli principi; come Lucullo, tra gli splendori opulenti, che nella villa sul Pincio allietavano gli ultimi anni al vecchio conquistatore del Ponto, si ricordava appena, come di un altro uomo vissuto in età lontana, di un giovinetto austero, semplice, povero, orgoglioso della sua povertà, che il terribile Silla aveva prediletto. Che valeva ricordare e confrontare! Osservatori e partecipi, i contemporanei giudicavano questo grande rivolgimento come una “corruzione” degli antichi costumi; come un male quindi nato dalla incurabile infermità della umana natura, di cui nessuna forza umana poteva impedire il meraviglioso e spaventoso progresso. Ma noi possiamo oggi giudicar meglio, con più matura esperienza storica, questa “corruzione” romana, divenuta celebre nei secoli per i lamenti e per le invettive degli scrittori antichi, come l’orgia più sfrenata che il tempo abbia visto, di una stirpe troppo favorita dalla fortuna; e giudicando meglio questa corruzione, capire, nella essenza sua, la conquista romana. Gli antichi chiamavano “corruzione” tutti i mutamenti di cui furono cagione nella antica società italiana, aristocratica, agricola e guerresca, i progressi della conquista; e che erano simili a quelli di cui i progressi dell’industria sono stati cagione, in misura diversa, nella Inghilterra e nella Francia, durante il secolo XIX, nell’Italia del Nord e nella Germania dopo il 1848, nell’America di Washington e di Franklin dopo la guerra di secessione. Come ora avviene in questi paesi, a mano a mano che progredisce l’industria e la ricchezza cresce, così allora, a mano a mano che la conquista romana si allargò vittoriosa per il Mediterraneo, un numero maggiore di persone, abbandonate le opere rustiche, si era data in Italia alla mercatura, all’usura, alle speculazioni; anche l’agricoltura era diventata industriosa, bisognosa di capitali, studiosa di migliorie, pronta alle innovazioni; il costo della vita, il desiderio del benessere, il lusso erano cresciuti in tutte le classi, aumentando in ciascuna di decennio in decennio, di generazione in generazione, con velocità progressiva; i mestieri e quindi il ceto artigiano eran cresciuti di numero e di varietà in ogni città; la vecchia nobiltà terriera era decaduta; i ricchi mercanti e i rimestatori di milioni avevan formata una classe numerosa, orgogliosa, potentissima; il ceto medio aveva acquistato maggiore agiatezza e indipendenza; la cultura, diletto di una piccola aristocrazia in antico, era stata cercata avidamente, in special modo dalle classi medie, convertita da queste in strumento di potenza e di arricchimento, diffusa come forza animatrice e rinnovatrice delle antiche tradizioni in tutta la vita pubblica e privata, dalla educazione alla medicina, dal diritto alla guerra, dalla agricoltura alla politica; il denaro e la intelligenza erano divenuti i due più potenti strumenti di dominazione; Roma era cresciuta così rapidamente come nel secolo XIX Parigi, New- York, Berlino e Milano; anche le città minori incominciavano ad ingrandire e ad abbellirsi perchè il gusto del vivere cittadino si diffondeva.

L’Italia non era più una nazione di contadini laboriosi e parchi, ma la conquistatrice e l’usuraia del mondo mediterraneo, un’avida nazione “borghese” nella quale, tolti pochi miserabili, tutte le classi, la nobiltà, i finanzieri, i mercanti, il medio ceto si mutavano in una borghesia, che voleva vivere largamente sul reddito di capitali posti a frutto, sui lucri violenti della conquista, sul lavoro di una moltitudine di schiavi, i quali coltivavano sotto la sua vigilanza la terra, esercitavano le industrie e le professioni, facevano il servizio domestico, li aiutavano come impiegati nel commercio, nella amministrazione, nella politica; e tra cui gli schiavi orientali, docili, pieghevoli, astuti erano il veicolo di una immensa trasformazione di idee, di costumi, di sentimenti.... Il disagio, che aveva tormentata l’Italia e generato il disordine catilinario era stato alleviato dai grandi capitali portati in Italia da Pompeo, dai suoi ufficiali e soldati; dai redditi delle nuove provincie conquistate e dai nuovi appalti di imposte; la scarsezza dei metalli preziosi era diminuita, la facilità del credito era ritornata, e con essa l’arditezza della speculazione, e l’aumento del consumo. In tutta l’Italia i boschi secolari erano tagliati; le rozze case coloniche dei medi e dei grandi proprietari abbattute; i tetri “ergastula”, le torme degli schiavi incatenati, i desolati latifondi sparivano; dappertutto la coltivazione della vite e dell’ulivo si diffondeva; intorno alle città sorgevano eleganti cascine e ville in mezzo a vaste tenute, dove, sotto la direzione di un intelligente fattore greco o orientale, schiavi meglio trattati coltivavano la vite e l’ulivo, allevavano animali da stalla e da cortile; la campagna era sparsa di belle casette di medi proprietari che coltivavano il fondo con l’aiuto di qualche schiavo. Le città ancor chiuse nelle mura ciclopiche delle antiche età, in cui dal monte al piano, dal fiume al mare, tra città e città la guerra ricominciava eterna, si abbellivano dentro, nella vasta pace che si diffondeva per la penisola, di templi, di fôri, di basiliche più ornate, di palazzine più sontuose, opera di architetti orientali. In faccia al suo bel mare e al suo bel cielo l’Italia spogliava la antica e rozza veste barbarica di boschi e di cereali; vestiva una bella veste fronzuta di alberi dell’Oriente, di vigne e di uliveti; ricopriva tutto il suo corpo, come di gemme, di belle città, di ville, di cascine.

L’Italia si rinnovava, in quella età, come l’Europa e gli Stati Uniti si rinnovano ora; si mutava da nazione aristocratica, agricola, guerresca in una democrazia borghese e mercantile; e cadeva nelle stesse contradizioni che perturbano la civiltà nostra: la contradizione tra il sentimento democratico e la disuguaglianza delle fortune; tra le istituzioni democratiche e lo scetticismo politico delle alte e medie classi; tra la decadenza delle virtù guerresche e l’orgoglio nazionale, l’amore platonico per la guerra, le ambizioni conquistatrici delle classi pacifiche. Decaduta la vecchia nobiltà, rotti i vincoli di protezione tra questa e il medio ceto, cresciuti l’indipendenza, l’orgoglio e il potere del ceto medio, diffusa con la cultura e la filosofia l’ideologia politica, formatosi a Roma un proletariato artigiano numeroso, indocile, abbandonato a sè stesso, era caduto l’angusto, ma vigoroso governo aristocratico dei tempi in cui la nobiltà sola esercitava la magistratura, sedeva in Senato e imponeva a tutta Italia la propria volontà concorde; l’idea che lo Stato fosse la “cosa di tutti”, la politica materia sottoposta al giudizio di ognuno, i magistrati, non padroni, ma servi e ministri della nazione, si era divulgata, come ora in Europa. Nel tempo stesso però, come avviene negli Stati Uniti e in Europa, sia pur in misura diversa, la maggior parte delle classi alte e medie, per darsi ai traffici, alla agricoltura, agli studi e ai piaceri, negligeva le pubbliche faccende, non voleva esercitare le magistrature, partecipare alle contese politiche, prestare lungo servizio militare, nemmeno andare a votare. Non che queste classi vivessero neghittose ed inutili. Esse piantavano sui nostri colli gli alberi ignoti dell’Oriente, miglioravano le vigne, gli uliveti, gli armenti, studiavano la filosofia greca, introducevano in Italia le arti e le industrie dell’Asia, abbellivano i templi, le case, le piazze di opere d’arte, incominciavano insomma ad ornare l’aspra Italia agreste per l’ammirazione e il godimento di tutte le generazioni future. Anche oggi, dopo sedici secoli che l’Impero è caduto, sopravvive l’opera di queste classi ignote, che nelle storie scritte dagli antichi sono quasi nascoste dietro la persona di pochi politicanti e generali e delle quali troppi storici moderni non hanno avvertita la presenza invisibile in tutti gli eventi dei tempi e non hanno perciò potuto comprendere questi; anche oggi sui nostri colli e nelle belle pianure le vigne, gli uliveti, i frutteti agitano al vento gli ultimi trofei della conquista mondiale. Ma intanto, allora, lo spirito civico si spegneva in queste classi e le istituzioni elettive dello Stato cadevano in potere dei dilettanti di politica e dei politicanti di professione, che, per soddisfare l’ambizione e la cupidigia, si disputavano le magistrature; tra i quali vincevano più facilmente la gara coloro che sapevano muovere e organizzare gli operai di Roma: la sola parte della popolazione che ancora si appassionava per la politica, perchè trovava nella politica un divertimento gratuito in luogo degli svaghi più costosi delle alte classi, e perchè aveva maggior bisogno dell’aiuto dei partiti politici e dello Stato. Senza questo aiuto il popolino di Roma sarebbe restato senza pane; non avrebbe potuto di tempo in tempo ubriacarsi con vini generosi e rimpinzarsi di tordi e di porco, in qualche banchetto pubblico; non avrebbe avuto mai nè il facile lavoro delle opere pubbliche, nè lo svago degli spettacoli, nè qualche sesterzio spicciolo per giocare ai dadi o per pagare le etère dei trivii. In forma più grossolana questo fatto non corrisponde forse alla potenza crescente che acquista oggi, negli stati con istituzioni elettive, il partito socialista, formato dagli operai delle città, più bisognosi della protezione dello Stato; e alla decadenza politica della borghesia, che meno bisognosa d’aiuti diretti dello Stato, distratta dalle faccende private, snervata dai piaceri troppo abbondanti e molteplici, orgogliosa per la cultura, per la potenza, per la ricchezza e perciò troppo incline alla critica, al disprezzo, alla maldicenza, alle discordie, si apparta dalle lotte politiche ? Cesare aveva solo compiuto, con la rivoluzione politica del consolato, una trasformazione incominciata da lungo tempo; e in questa parte dell’opera sua può, sino ad una certa misura, esser comparato con un moderno leader dei socialisti, o piuttosto con un boss della “Tammany Hall” di New York. Così la politica romana era diventata una fiera mondiale di cariche, di leggi, di privilegi, di provincie, di regni, di lucri immondi; piena di intrighi, di frodi, di tradimenti, di violenze; frequentata non solo dagli uomini più perversi e violenti, ma dalle donne più corrotte del tempo; dalla quale un onest’uomo che vi capitasse a caso era presto scacciato, se non si incanagliava con gli altri. Al modo stesso del sentimento civico, anche l’attitudine alla guerra veniva meno in quella nazione borghese. Le conquiste di Lucullo e di Pompeo avevano accresciuto a dismisura l’orgoglio imperiale nella classe media italiana, diffusa l’ammirazione e il culto di Alessandro il Grande, divulgate le fantasticherie del dominio mondiale. Ma il maggior numero di coloro che, ogni tanto, a pranzo e nei crocchi degli amici, proponevano di conquistare il mondo sulle orme del Macedone, non avrebbero acconsentito a vivere un giorno nei campi militari. La legge per cui tutti i maschi dai 17 ai 46 anni erano obbligati al servizio militare, vigeva ancora; ma i mercanti, i capitalisti, i possidenti, i professionisti non volevano più essere impacciati nei proprii affari, nei proprii piaceri, nei proprii comodi dagli obblighi militari, cosicchè i magistrati che facevan le leve non arruolavano che volontari, come ora in Inghilterra782; mercenari, cioè, disperati di città e di campagna, che si davano al mestiere delle armi per il soldo di 225 denari all’anno (circa altrettanti franchi)783, per il vitto, il vestiario, la speranza dei doni dei generali e della promozione sino al grado di centurione o capitano. Solo qualche volta, se i volontari scarseggiavano, lo Stato faceva uso del diritto di obbligare al servizio; ma sempre scegliendo nel volgo, tra i mendicanti delle città, tra i contadini liberi, tra i piccolissimi proprietari delle montagne, dove era rimasto qualche avanzo dell’antica stirpe agreste, che aveva vinto Annibale. Anzi i progressi dell’agiatezza erano così grandi e tutta l’Italia si convertiva così rapidamente in una nazione borghese, gaudente, lucrante, studiosa ed imbelle, che, sebbene gli eserciti fossero poco numerosi, diventava sempre più difficile mantener pieni i ruoli reclutando i novizi in Italia; e non solo bisognava tener gli arruolati sotto le armi per lunghissimi anni, ma cercare soldati oltre il Po, tra i latini della Gallia cisalpina; ove la vita era rimasta più semplice, e la antica stirpe celtica e gli immigranti italiani si eran mescolati in un ceto di medi possidenti, nei quali sopravviveva in parte l’Italia di un secolo e mezzo prima: con famiglie numerose, con abitudini povere, con disposizioni al faticoso mestiere delle armi784. Noi vedremo infatti, nei decenni seguenti, gli arruolatori della Repubblica abbandonar quasi l’esausta Italia e percorrere la valle del Po, in cerca di giovani.

Solo di tempo in tempo, proprio come avviene adesso in Europa, il mare stagnante di questo scetticismo civico era agitato da una violenta marea; da una di quelle concitazioni della opinione pubblica, di solito apatica, che sorprendevano le cricche politiche e i loro capi, i caucuses e i loro bosses. Questa anarchia di avventurieri, che non temeva più nè gli Dei del cielo nè alcuna autorità della terra, tremava solo davanti a questa potenza impalpabile ed invisibile: l’opinione del ceto medio e delle classi alte, imparziali nel giudicare, perchè estranee alle contese politiche. Nessuna di queste clientele discordi e rivali era così forte da osar di far violenza sistematicamente al sentimento dei ceti potenti per ricchezza, per numero, per coltura; e tutte, sebbene commettessero innumerevoli infamie, le negavano e cercavano nasconderle.... Il ricchissimo e potentissimo Pompeo si era fatto scrupolo di non offendere il sentimento repubblicano del ceto medio; il ricchissimo e potentissimo Crasso cercava di disperdere il ricordo degli intrighi suoi negli ultimi anni; Cesare andava in Gallia con l’intento di acquistar con splendide vittorie l’ammirazione di questo ceto, presso il quale l’avevan troppo screditato la vita disordinata, i debiti, la venalità, le violenze demagogiche degli ultimi anni, la rivoluzione radicale del consolato. Tante contraddizioni laceravano quella età!

Senonchè, se la civiltà moderna soffre e si strugge per queste contraddizioni, l’antica Italia rischiava perirne. Lo scetticismo politico e la crescente inettitudine delle nazioni civili alla guerra, non sembrano – almeno per ora – minacciare rovina alla civiltà bianca, perchè il rapido aumento delle ricchezze, che è la condizione vitale delle democrazie mercantili nella civiltà nostra, nasce da uno sforzo nel quale la lotta dell’uomo contro la natura prevale sulla lotta dell’uomo contro l’uomo; dall’industria, cioè, che si studia di impiegare nel modo più fruttuoso le forze naturali. La lotta dell’uomo contro l’uomo prevalse invece sulla lotta contro la natura, nello sforzo per fondare la democrazia mercantile dell’antica Italia. Dopo le simiglianze che abbiamo notate, è necessario studiare anche questa differenza essenziale; della quale era cagione la maggior povertà, la minor coltura, la minor produzione e la minor popolazione del mondo antico. Una borghesia mercantile simile a quella che allora si formava in Italia, può oggi costituirsi così in un piccolo paese quasi inerme come il Belgio, come in una gran nazione marinara e conquistatrice come l’Inghilterra; in una immensa democrazia formatasi come gli Stati Uniti dell’America del Nord sopra un continente quasi deserto, e in una monarchia guerresca, consolidatasi sulle terre più sterili dell’Europa, come la Germania. Basta infatti che un piccolo numero di uomini alacri e ingegnosi si costituisca in aristocrazia industriale, accumuli un certo capitale, e lo impieghi sapientemente a crescere nuova ricchezza. Nel mondo antico invece era necessario un vasto impero e una larga supremazia militare. Oggi dovunque una potente aristocrazia industriale offra lavoro, gli operai concorrono volontariamente, se nel paese le braccia scarseggiano, anche attraverso agli Oceani, anche in cerca dei lavori più duri; scendono volontariamente nelle viscere della terra; consentono a passar tutta la vita sopra un fragile schifo natante nel mare; restano ogni dì dal mattino al tramonto nell’antro dei Ciclopi, davanti alle fornaci ove il ferro si liquefa; obbediscono il codice autoritario della subordinazione e della disciplina industriale. Così nelle officine degli Stati Uniti si affatica una moltitudine di operai cosmopoliti, emigrata volontariamente da ogni parte del mondo; alla quale si potrebbe paragonare la moltitudine degli schiavi e dei liberti orientali, galli, germani, spagnuoli, sciti, che in Roma e in tutte le altre città lavoravano per i ricchi e agiati borghesi dell’Italia, se questi, invece di essere usciti di patria per proprio volere, non fossero stati portati a forza in Italia, quasi tutti se non tutti, nei convogli di schiavi. Eppure noi vedremo in seguito che non si potrebbe spiegare come le razzie di uomini fatte dai Romani non abbiano rovinato per sempre i paesi dell’Oriente, se non supponendo che la popolazione sovrabbondasse allora in quei paesi almeno un poco, come ora nei paesi d’Europa, da cui salpano tanti emigranti. Perchè dunque gli artigiani e i professionisti non emigravano allora dall’Oriente, in numero sufficiente a soddisfare i bisogni della borghesia italica? Perchè la terra era troppo poco popolosa e la vita troppo semplice in quella età. Nella civiltà moderna il vivere delle classi sociali sale dalla miseria alla ricchezza per una gradazione lentissima di bisogni, di piaceri, di lussi innumerevoli, cosicchè in ogni classe, anche nel ceto operaio, intercedono da uomo a uomo, da mestiere a mestiere, differenze di bisogni e di lussi non minori che tra le diverse classi confrontate fra loro. Questa gradazione molteplice di bisogni è lo strumento incorporeo, delicatissimo, potentissimo con cui una borghesia capitalista può nei tempi moderni indurre, anche a distanza, gli uomini dei più lontani paesi a servirla. Non è oggi infatti possibile che manchino mai in un mondo così popoloso e così avido di godere, purchè se ne stimoli la volontà graduando la ricompensa, uomini i quali, per ornare il proprio vivere di qualche bisogno, piacere e lusso maggiore, si acconcino a imparare e a compire anche i lavori più faticosi e difficili che richiedano maggiore virtù di disciplina e governo di sè. Nel mondo antico invece la gradazione dei bisogni era più rozza e più povera, e dai pochi lussi, carissimi e possibili solo ai ricchi, precipitava quasi a picco nella semplicità obbligatoria del popolo, che oltre al parco alimento, non poteva godersi che un poco di amore, qualche bevanda inebriante, qualche festa data gratuitamente dai sacerdoti, dai ricchi, dallo Stato. Avendo minori bisogni, l’artigiano libero dell’Oriente era meno alacre e intraprendente che l’operaio moderno; anche se, crescendo troppo la popolazione, stentava la vita, pure restava nel suo paese; e non avendo nè modo nè desiderio di migliorar il proprio vivere, non era spinto ad affrontare i pericoli e i dolori di una emigrazione lontana e a lavorare per un signore straniero. Gli avventurieri e i vagabondi venivano in gran numero, spontaneamente, a Roma da ogni parte del mondo; non i lavoratori, se non erano presi e portati a forza. Questa fu la cagione della schiavitù nel mondo antico; e non come vuole il Loria, la terra libera, perchè non un palmo di terra, in tutto l’Impero, era libero allora. Ma la schiavitù incoraggiava e rendeva necessarie le conquiste, perchè con i prigionieri, che oggi sono un impiccio, si pagavano in parte le spese della guerra; cosicchè l’audacia e la grandezza delle conquiste romane crebbe con il bisogno di schiavi; e le conquiste di Lucullo e di Pompeo furono popolari, anche perchè accrebbero l’abbondanza degli schiavi, sui mercati dell’Italia bisognosa di braccia.

Quando una borghesia capitalista e industriosa prospera in una regione, la popolazione vi cresce in modo che il territorio vicino non basta più a nutrirla. Così avviene ora in molti paesi europei; così avvenne allora in Roma. Ma oggi il commercio privato provvede facilmente a questo bisogno; perchè i trasporti costano poco e perchè in paesi nuovi, poco popolosi, fertilissimi, vivono uomini della stessa nostra civiltà, con i nostri stessi bisogni, i quali mietono ogni anno più grano che non occorra loro; e, desiderando consumare i prodotti delle nostre fabbriche, offrono spontaneamente, in cambio di questi prodotti, il grano loro, in tanta abbondanza che molti paesi industriali ne rifiutano parte, imponendo i dazi di importazione sui cereali. Un antico che rivivesse oggi non troverebbe invece istituto per lui più incomprensibile e stravagante, che il dazio sul grano. Allora quasi tutti i paesi producevano appena il grano necessario ai proprii bisogni; e anche quei pochi che, come la Sicilia, l’Egitto, la Crimea, godevano di solito una certa abbondanza, cercavano di conservare le proprie provviste; onde i paesi capitalisti dovevano, non impedire ma stimolare con le leggi l’importazione, conquistare o acquistare un predominio politico nei paesi prediletti di Cerere, per render sicuro il proprio diritto di esportare da quelli il grano785. L’approvigionamento di Roma fu infatti una delle questioni predominanti di tutta la politica romana, appena Roma incominciò ad essere una metropoli mondiale. Ma anche per queste ragioni, la democrazia mercantile in antico era incitata alla politica di conquista.

Infine i progressi di una democrazia mercantile, erano allora determinati, come sono ora, dall’aumento progressivo dei bisogni di generazione in generazione; dall’aumento del numero di coloro che vogliono partecipare a un vivere più ricco e dei desideri di ognuno. Noi abbiamo seguito, di generazione in generazione, questo progresso, dalla generazione cresciuta sul finire della guerra annibalica, a quella di Cesare, per 150 anni. Tutti possono osservare, guardando attorno, lo stesso fenomeno nella civiltà moderna. Ma gli strumenti di produzione, di cui noi disponiamo, sono così potenti, tanta è la ricchezza già accumulata dagli uomini che, sinchè l’energia di coloro i quali governano l’industria di una democrazia mercantile non si infiacchisce, è facile soddisfare questi bisogni crescenti delle nuove generazioni, consumando una parte della ricchezza prodotta, non per soddisfare i bisogni presenti, ma per produrre altra ricchezza. Tutte le cose necessarie ad aumentare la produzione saranno facilmente trovate, sulla terra piena di beni, da queste industri aristocrazie: così i metalli preziosi necessari agli scambi cresciuti, come le maggiori provviste di cereali e di materie prime, come le più rapide macchine di trasporto. I metalli preziosi sopra tutto abbondano tanto, sono così facilmente prestati, che non mancano mai a chi rassicuri di pagare un tenue interesse e di renderli. Nel mondo antico invece, siccome la produzione era più lenta e più scarsa, i desideri delle generazioni crescevano più veloci che i mezzi per soddisfarli; e le democrazie mercantili si trovavano periodicamente in penuria dei mezzi necessari ad accrescere la produzione e il consumo; bisognose specialmente di metalli preziosi. Noi abbiamo veduto infatti che, dal 70 al 60 avanti Cristo, quando pure l’Italia era l’usuraia del Mediterraneo, e Roma era la Londra del mondo antico, la metropoli del capitale dove i sovrani e le città di ogni regione del Mediterraneo venivano a trattar i prestiti, per una contradizione singolare l’Italia era tormentata da una carestia continua di metalli preziosi; si lagnava dell’alto interesse del denaro; voleva impedirne l’esportazione: farneticava abolizioni di debiti. Il bisogno del denaro cresceva insomma più rapidamente che il denaro; così rapidamente che guai se a soddisfarlo non si fosse aggiunta, all’usura, la guerra, il saccheggio di tutti i tesori dei templi, delle reggie, dei ricchi, presso i popoli civili e presso i barbari. La guerra stimolava la circolazione dei capitali, troppo pigra e lenta per i frettolosi desideri di una democrazia mercantile in formazione, come l’Italia; e compieva perciò una funzione vitale, che ora non compie più.

Certo se per la povertà, per la scarsa popolazione, per la poca potenza produttiva del mondo antico, una borghesia capitalista non poteva formarsi senza la guerra e la lotta dell’uomo contro l’uomo, la guerra impediva a sua volta che la popolazione crescesse, che l’industria progredisse, che la ricchezza aumentasse in tutti i paesi, con le distruzioni e gli sperperi terribili di cui era cagione; sebbene questi fossero allora minori che adesso, perchè la guerra antica costava meno. Un popolo allora arricchiva e si inciviliva quasi sempre a scapito di altri. Ma i contemporanei di Cesare non potevano uscire da questo ferreo cerchio fatale; e avrebbero quindi avuto bisogno di un esercito e di uno Stato potente, per ingrandire l’impero, come gli Stati Uniti o la Germania hanno oggi bisogno di una industria potente e molteplice. Invece l’esercito e lo Stato, tutti i servizi pubblici, i più umili come i più vitali, eran disfatti da un disordine, tanto più spaventoso ed immenso perchè a Roma tutte le magistrature erano elettive e mancava una burocrazia stabile, simile a quella degli Stati moderni, che continuasse, almeno meccanicamente, pure in mezzo allo scompiglio dei partiti, le più necessarie funzioni pubbliche. In Roma stessa le case bruciavano e rovinavano, mentre gli edili attendevano a preparare i giuochi; l’acqua scarseggiava perchè, dopo aver costruito un primo acquedotto nell’anno 312 a. C, un secondo nel 272, un terzo nel 144, un quarto nel 125, il governo non aveva, più pensato a provvedere ai bisogni della popolazione tanto cresciuta786; le navi che provvedevano Roma dovevano ancorare nella rada naturale di Ostia, malsicura, piccola, senza opere d’arte787, o risalire il Tevere e scaricar la merce ancora sull’Emporium, i docks diremmo noi, che erano stati costruiti nel 192 e nel 174 sotto l’Aventino, dove ora sono il Lungo Tevere dei Pierleoni e il Lungo Tevere Testaccio788; le vie di Roma erano più malsicure che i boschi pieni di banditi, che una città battuta ogni giorno dal terremoto, tanti assassini789 e ladri l’infestavano, tanto i carri, le macerie, gli incendi, le subitanee rovine minacciavano gli incauti passanti. Al disordine della metropoli corrispondeva l’anarchia dello Stato. Dopochè era nata nella società italiana una varietà di attitudini, di desideri, di opere, simile a quella che ammiriamo nella società contemporanea, il Senato si era a poco a poco mutato come i parlamenti moderni in un club di nobili, di dilettanti di politica, di affaristi, di avvocati ambiziosi, di letterati, di politicanti, che si detestavano a vicenda e avevano origini, appartenevano a classi, seguivano tradizioni, professavano idee, esercitavano professioni, miravano a fini, oltre quello comune a quasi tutti di arricchire con la politica, tanto diversi quanto era vario il nuovo consorzio sociale. Grandi proprietari come Domizio Enobarbo, grandi finanzieri come Crasso; generali, come i due Luculli e Pompeo; letterati come Cicerone; avvocati come Ortensio; eruditi come Varrone; astronomi e agronomi come Nigidio Fibulo o Tramellio Scrofa; giureconsulti, come Sulpicio Rufo790, ne facevano parte; e ognuno si sforzava prima verso i fini suoi, di arricchimento o di ambizione personale, poi verso quelli della sua classe, del suo partito, della sua clientela; onde il Senato era diventato, come sono quasi tutti i parlamenti moderni, uno strumento di cui tentavano servirsi, a volta a volta, le molteplici forze sociali che fuori di lui si disputavano la signoria dell’Impero e che, tolta la burocrazia e la grande industria, erano allora le medesime che nel presente: l’alta finanza, la grossa e media possidenza, le sopravvissute tradizioni aristocratiche, le ambizioni e le cupidigie del medio ceto, il militarismo, la demagogia. Queste forze sociali cercavano con tutti i mezzi di poter usare, ciascuna a proprio servizio, i poteri che il Senato conservava ancora dal tempo in cui era l’organo della unica classe signoreggiante; ma il Senato, tranne allorchè si aspettava uno scandalo in tempi di commozione universale, era poco frequentato; non governava più; abbandonava tutta l’amministrazione pubblica alla routine della tradizione o alla violenza rivoluzionaria delle clientele e delle fazioni. Quando l’Italia era diventata, nel Mediterraneo, la metropoli del capitale, il Senato continuava a coniar soltanto argento, come ai tempi della prima guerra punica; cosicchè gli innumerevoli prestiti che si trattavano a Roma, eran fatti con monete straniere o con verghe brute; e soltanto i generali che avevan facoltà di batter moneta per pagare i soldati, avevan cominciato a coniar l’oro, ma ciascuno con conio, con lega, con tipo suo791. Le finanze dello Stato erano in continuo dissesto come oggi quelle della Turchia; contro la pirateria, un poco infiacchita dalla rovina di Mitridate, dalla conquista di Creta e della Siria, non si faceva nulla; il brigantaggio infestava ogni parte dell’impero. Ora che l’antica milizia nazionale si era mutata in un esercito mercenario, sarebbe stato necessario immaginare e attuare una regola di istruzione per le reclute; ma nessuno ci pensava; le legioni abbandonate alle lontane frontiere si riducevano sovente alla metà e anche meno del numero vero792; i generali mutavano ogni anno, arrivavano in gran fretta dalle baruffe del fôro, con gran codazzo di amici che dovevano essere gli ufficiali superiori, tutti con grosso bagaglio e numeroso seguito di schiavi, ma tutti quasi sempre digiuni affatto dell’arte di cui avrebbero dovuto esser maestri ai soldati, o sapendone quel poco che avevan letto in qualche manuale greco; solleciti più di trovare nella provincia qualche buon impiego di capitale, che di esercitarsi in tattica e strategia. E tutti di lì a poco ripartivano in fretta. Anche Cesare andava ad assumere il comando di quattro legioni senza avere altra pratica della guerra, che quella dell’assedio di Mitilene e delle piccole razzie comandate in Ispagna nel 61. Solo i centurioni scelti nella milizia comune conoscevano un poco il mestiere delle armi. Cosa ancor più curiosa, l’esercito non si componeva più che di fanteria. In antico i giovani delle famiglie ricche componevano i corpi di cavalleria; ma nessuno aveva pensato a riformare questo ordinamento antiquato; e siccome i giovani delle famiglie ricche preferivano prestare il denaro al 40% nelle provincie, o consumare a Roma il frutto di simili usure fatte dai padri; siccome del resto, anche avessero tutti militato, non avrebbero potuto provvedere tanti cavalieri che bastassero ai molti eserciti, Roma era costretta ad arruolare cavalleria barbara di Traci, di Galli, di Germani, di Spagnuoli, di Numidi, formando squadroni a cui i generali romani dovevano comandare per mezzo di interpreti. Roma – singolare incoerenza delle cose umane! – compì le sue maggiori conquiste con un esercito disordinato, che essa lanciava temerariamente dappertutto; le conquiste facevano una nazione imbelle; il militarismo antico corrispondeva così pienamente all’industrialismo moderno che, come questo, faceva decadere le virtù militari.

Infine il governo della politica estera era stato tolto al Senato. Lucullo e Pompeo avevano guerreggiato in Oriente, conchiuse paci, conquistati imperi, mutata e rimutata la carta politica dell’Asia, di propria iniziativa, senza autorizzazione del Senato. L’ultimo tentativo fatto dal partito conservatore, dopo la congiura di Catilina, per ristaurare la cadente autorità della antica assemblea, era stato vinto dal caucus di Pompeo, di Crasso e di Cesare; vinto facilmente, non ostante lo stupore quasi incredulo dei più. Cesare aveva dovuto soltanto uccidere un morto. Ormai il governo era passato dalla Curia negli atrii e nei cubiculi dei palazzi di Pompeo e di Crasso, nella tenda e nella lettiga di Cesare vagabondo per la Gallia. Pompeo sarebbe stato il ministro degli esteri, a cui avrebbero scritto, con cui avrebbero trattato, nella cui casa sarebbero scesi gli ambasciatori dei re dell’Oriente e i re stessi; il ministro dei lavori e dei divertimenti pubblici, che primo avrebbe intrapreso con denaro suo un sistematico abbellimento monumentale di Roma e un più costante e copioso ordinamento delle feste popolari. Cesare stava per diventare il ministro della guerra, se così si può dire; il solo che avrebbe provveduto a preparare ed esercitare un valido esercito nell’immenso impero, che pur si reggeva solo per la forza delle armi. Cesare, Pompeo e Crasso avrebbero d’accordo maneggiata la politica interna ed esterna dell’impero, distribuite le cariche, preparate le leggi da sottoporsi all’approvazione del popolo, provveduto all’annona, deliberate le spese del pubblico bilancio, facendo tutto approvare dalle bande elettorali di Clodio e da pochi senatori compiacenti, che si acconcierebbero a continuare in sedute deserte la finzione dell’antico governo parlamentare; facendosi aiutare, per la corrispondenza, per i conti, per gli studi, per gli intrighi dai più intelligenti ed abili tra i numerosi schiavi e liberti, i quali divenivano così gli impiegati irresponsabili di questo irresponsabile e confuso governo di tre privati. Le classi alte e medie, tutte intente ai lucri e ai piaceri, accettavano, pur detestandolo e parlandone male, questo governo. Ma poteva l’immensa macchina dell’impero volgersi sui fragili assi delle fratellanze artigiane di Roma e del servidorame di tre personaggi così diversi tra loro? Erano costoro uomini tanto migliori dei loro concittadini da poter spartirsi l’immenso impero, il retaggio di tante generazioni? Pompeo era un gran signore intelligente, ma rammollito dalla sazietà degli onori, dall’immensa ricchezza, dalla fortuna, dall’improvviso amore di cui, in età già matura, era stato preso per la giovane e vezzosa Giulia; non vecchio, ma giunto già a quella stagione della vita in cui gli uomini troppo fortunati cercano anche nel lavoro soltanto una varietà di facili distrazioni; un uomo, persuaso ormai di essere un grande guerriero, un grande diplomatico, un grande amministratore, che era disposto a governare il mondo, ma voleva un governo del mondo comodo, che disturbasse poco le sue cene, le sue costruzioni, i suoi diporti con la vezzosa consorte. Crasso era un uomo più saldo e tenace, un ambizioso insaziabile di potere e di ricchezza, che non contento di posseder tanti schiavi, tante case, tanti crediti, tanto oro, tante terre, tante miniere, ricominciava a considerare l’antico disegno di una grande impresa di guerra, che lo mettesse a pari di Lucullo e di Pompeo, e compensasse gli insuccessi degli ultimi anni; ma era anche, tranne che nella famiglia, uno spaventoso egoista, cui l’ordine e il disordine dell’impero importavano meno che la salute dei figli o un piccolo errore nei conti della sua amministrazione privata; ma la sua ragione acuta e tenace cominciava, sulle vette altissime di tanta ricchezza e potenza, a esser tentata dalle vertigini della grandezza. Cesare.... Nessuno avrebbe potuto allora giudicar Cesare, imparzialmente. Questo patrizio che possedeva tanto ingegno letterario, che parlava e scriveva così meravigliosamente, che aveva studiate e imparate rapidamente tante cose, dall’astronomia alla strategia, che aveva incominciato con moderazione e con senno, aveva poi deluse tutte le aspettazioni delle persone serie: con tanto cinismo aveva fatto immensi debiti, venduta l’opera sua, mutato e rimutato da un giorno all’altro programmi e idee, mescolati nella politica gli intrighi femminili; con tanta violenza aveva incitata l’infima plebe contro i ricchi ed i nobili; con tanta audacia egli, capo del partito dei poveri che voleva frenare gli abusi dei grandi capitalisti, avea osato vendersi a questi in uno dei più loschi imbrogli del tempo, la riduzione dell’appalto asiatico. Era egli forse uno di quegli scellerati leggeri e violenti, astuti e senza scrupoli, cupidi e bisognosi di vivere tra le vane ostentazioni del lusso e i vani clamori della fama triviale, provvisti di intelligenza superficiale ma espressiva, che sanno scrivere e parlare magnificamente, e che prosperano nel disordine di una democrazia mercantile in formazione, quando si diffonde la cupidigia senza scrupoli, il gusto della letteratura, lo scetticismo morale e politico, quando la letteratura diventa potente tra gli uomini? che possono allora servirsi della penna e della parola per taglieggiare volta a volta, come briganti, i partiti, le clientele, i capitalisti, gli ambiziosi e perfino le classi povere? Molti, certo, inclinavano a pensare così. Ed ora quest’uomo così poco serio andava in Gallia: a che fare? Guerre e conquiste? Ma se non aveva pratica di guerra; ma se tutta Roma sapeva che non aveva nemmeno salute, che era di complessione delicata e infermiccia, che soffriva di epilessia! I contemporanei, attribuendo tutti gli eventi all’opera di pochi uomini, non potevano capire come gli eventi avessero invece quasi fatalmente fatto violenza alle intenzioni più savie di Cesare, ai suoi disegni più belli, alle sue inclinazioni più profonde. Quest’uomo che quasi tutti gli storici moderni immaginano, con infantile ingenuità, risoluto fin da giovane a conquistare solo l’impero del mondo, di cui descrivono la vita come uno sforzo consapevole, deliberato, diritto come il pensiero, verso il fine supremo di così immensa ambizione, era stato invece sino allora, più che ogni altro uomo illustre del tempo suo, in balia degli eventi, costretto e ricostretto dagli eventi ad agire in modo diverso dai suoi propositi. Dotato di una splendida intelligenza scientifica ed artistica, immaginoso, nervoso, alacre, ambizioso, egli vagheggiava in ogni cosa, anche nello Stato, la forza e la bellezza dell’armonia e dell’equilibrio; e difatti aveva cominciato come campione di una democrazia signorile, artistica e colta; con le ambizioni di un Pericle romano, che si addestra al governo di un vasto impero nelle scuole della eloquenza, dell’arte e dell’eleganza. Ma la povertà della sua famiglia e il progressivo scetticismo politico delle alte classi gli avevano rovinato il bel disegno; egli aveva dovuto indebitarsi per farsi conoscere, poi vendere a Crasso l’opera sua, mentre la democrazia si mutava in demagogia; era incorso così nell’odio dei grandi e, perseguitato senza misericordia, aveva dovuto difendersi, cercando il favore delle classi povere e procurandosi denaro con ogni espediente; cosicchè a poco a poco era diventato il capo della canaglia, un demagogo rivoluzionario, un affarista senza scrupoli. Indifferente al bene e al male, versatile e plastico, questo patrizio era diventato un demagogo, un intrigante, un affarista senza vergogna, senza rimorso, con audace sicurezza; nervoso ed eccitabile aveva anche perduto a certi momenti, nel furore della lotta, la moderazione, incalzando con violenza i nemici, tentando audacie scandalose; eppure non si era mai lasciato trarre a perdizione dalla propria esaltazione; si era sempre trattenuto e ricomposto al momento di trascendere a una follia irreparabile. Troppo erano profondi in lui gli istinti della prudenza e della moderazione, pur in mezzo alle concitazioni di quei tempi agitati.

Anche allora infatti il destino lo sospingeva ignaro, lui, il quarto Caio della democrazia romana, verso l’avvenire, per quella via Flaminia che il primo Caio della democrazia romana aveva aperta sull’avvenire, a compiere senza saperlo l’opera cominciata da Caio Flaminio, continuata da Caio Gracco e da Caio Mario. Eppure egli voleva solo, andando in Gallia, riacquistare con splendide vittorie l’ammirazione delle alte classi, perduta per un seguito fatale di eventi793. Tale era la legge della vita, in quella, come in tutte le età. Gli uomini grandi del tempo, ignoravano tutti di quale immensa opera storica dovevano essere nel tempo stesso gli strumenti inconsapevoli e le vittime; erano in balìa di quello che noi possiamo chiamare il Destino nella storia e che è solo la coincidenza e la precipitazione imprevista degli eventi, lo scoppio delle forze nascoste nei fatti, che nessuno, in una civiltà complicata e disordinata, può discernere, quando esse sono ancora latenti. Quegli uomini erano saliti in tanta grandezza, non per una sovrumana energia di volontà e di intelletto che fosse in loro, ma per la singolare condizione dei tempi; perchè i natali, la gloria, la ricchezza, l’ambizione, l’intelligenza, la fortuna avevano fatto loro acquistare una potenza progressivamente maggiore, a mano a mano che le istituzioni dello Stato antico si dissolvevano, nel crescente scetticismo politico delle alte classi. Ma presto verrebbe il giorno in cui la grandezza presente sarebbe per tutti un impegno mortale, e li costringerebbe ad assumersi responsabilità e carichi superiori alle forze, come allora godevano onori più grandi del merito. Tragiche cose preparava per tutti l’oscuro Destino! Solo in mezzo a tanto disordine, Lucullo, l’uomo più singolare e bizzarro della storia di Roma, nei vasti e sontuosi giardini del Pincio, dall’alto luogo dove ora è il Belvedere della villa Medici, poteva ormai, filosofando con i dotti greci sulla corruzione romana, contemplare in pace l’Urbe: immenso e basso mare mosso di continuo da maree e da tempeste, fuori delle quali egli si era tratto in un aere lucido e pacato, in un alto e delizioso isolotto di godimento e riposo. Lui solo, l’Eutanasia, la dea greca della morte tranquilla, aspettava. Tra poco, questo stravagante geniale, questo solitario fortunato, sarebbe giunto alla sera della sua giornata terrestre, dopo aver compiuto, inconsapevole anch’egli, una gran missione nella storia; e mentre si preparava la tragica catastrofe del nuovo imperialismo creato da lui, avrebbe, solo tra i grandi del suo tempo, reclinato placidamente il capo in seno alla Dea silenziosa.

FINE DEL PRIMO VOLUME.

INDICE.

I.
I piccoli principii di un grande impero.
(Pag. 1 a 30)794.

L’Italia nella seconda metà del secolo quinto a. C, – Le guerre tra le piccole repubbliche e loro cagioni. – Roma, piccola repubblica aristocratica e agricola: sua condizione in mezzo a queste guerre. – Ordinamento della famiglia; spirito conservatore della nobiltà; istituzioni rigidamente aristocratiche e repubblicane dello Stato. – Le prime guerre di Roma alla testa della confederazione latina nel V e nella prima metà del IV secolo a. C. – Loro effetti: ingrandimento del territorio, invio di colonie, conclusione di alleanze, aumento dei redditi dello Stato e della ricchezza privata, abbondanza di schiavi, diffusione della grande pastorizia vagante, aumento dei metalli preziosi. – Lento progresso del lusso, tenace conservazione degli antichi costumi, consolidamento del potere in una aristocrazia di grandi proprietari. – Le guerre vittoriose del IV e III secolo a. C. e la conquista della egemonia politica in Italia. – Il massimo fiore della società rustica e aristocratica; sue virtù e suoi difetti. – La conquista della Magna Grecia, la prima guerra con Cartagine e la conquista della Sicilia. – Origine dello spirito mercantile. – I primi appaltatori. – La nobiltà incomincia a darsi alle speculazioni. – Principi della letteratura. – Prima apparizione di un partito democratico. – Caio Flaminio e la conquista della valle del Po. – L’invasione di Annibale: forza e debolezza, perdite e guadagni di Roma in questa guerra.

II.
La prima espansione militare e mercantile
di Roma nel Mediterraneo.
(Pag. 31 a 74).

Le guerre in Macedonia, in Spagna, in Liguria, nella valle del Po, nei dieci anni successivi alla pace con Cartagine, – Loro carattere politico e finanziario. – Avversione alle conquiste. – Scipione e la nuova politica. – La guerra contro Antioco re di Siria. – Rapido arricchimento pubblico e privato; abbondanza di lavori pubblici e di forniture militari. – Gli appaltatori. – Speculazioni sull’ager publicus; progressi della pastorizia; aumento del lusso e dei bisogni; progressi del commercio tra l’Italia e l’Oriente. – Molti Romani e Italiani si danno alla mercatura. – Prosperità di Delo. – Aumento della popolazione a Roma, emigrazione dalle campagne, speculazioni edilizie. – Aumento del bisogno degli schiavi e rapidi progressi della tratta. – I capitalisti e loro rapidi progressi. – Mutamento dello spirito pubblico a Roma: oscuramento della vecchia nobiltà conservatrice e principio della nobiltà demagoga e affaristica; dissoluzione progressiva della famiglia; rilassamento dei costumi e dell’opinione pubblica. – La lotta fra la tradizione e la nuova politica. – Progressi della letteratura e della coltura; Ennio, Plauto Pacuvio; diffusione della filosofia greca. – La guerra contro Perseo e i suoi effetti. – Principî di crisi nella agricoltura italiana. – Impoverimento e corruzione dell’aristocrazia; crescente potere dei finanzieri; progressi dello spirito democratico e dissoluzione dell’esercito. – La guerra di Spagna; suoi scandali militari e loro effetto sull’opinione pubblica; inferocimento, prepotenza e propositi di riforma. – La distruzione di Cartagine e di Corinto; la conquista della Grecia e della Macedonia; la conquista dei campi d’oro nel Vercellese. – Pessimismo dominante nelle alte classi sulla condizione di Roma verso il 150 a. C. – Metello il Macedonico e i primi artisti greci in Roma. – Publio Scipione Emiliano. – Movimento riformista nelle alte classi.

III.
La formazione della società italiana.
(Pag. 75 a 119).

Tiberio Gracco e la crisi dell’agricoltura italiana. – Idea essenziale, carattere conservatore della sua riforma agraria. – L’opposizione: carattere politico e rivoluzionario che l’agitazione prende in seguito all’opposizione. – La morte di Tiberio. – L’agricoltura italiana dopo la morte di Tiberio: progressi della cultura dell’ulivo e della vite. – Caio Gracco, suo carattere, sua vita, suoi studi. – Piano delle sue riforme. – La legge giudiziaria, la legge asiatica, la legge frumentaria, la legge militare, la legge agraria, la legge viaria. – Seconda elezione a tribuno e disegno di sfollare Roma. – Proposta di concedere la cittadinanza a tutti gli Italiani. – Impopolarità di queste proposte. – La morte di Caio Gracco. – L’eredità del Re di Pergamo e la vendita a Roma del suo mobilio. – Aumento del lusso e dei bisogni; diffusione dello spirito mercantile; aumento del commercio italo-orientale; sforzi del medio ceto per far studiare i figli e per accrescere la propria ricchezza. – Decomposizione dell’aristocrazia romana e italica; formazione di una borghesia italiana. – Indebolimento militare di Roma e sospensione delle conquiste. – La legge agraria di Spurio Torio e la sua importanza. – La sparizione del comunismo agrario e la conversione in proprietà privata delle terre pubbliche dell’Italia. – La guerra contro Giugurta e la rivelazione della corruzione nella nobiltà. – Prima esplosione dello spirito democratico: la elezione di Caio Mario a console. – I nuovi nemici dell’impero: Mitridate, i Cimbri e i Teutoni. – Sconfitta dei due generali aristocratici mandati contro i Cimbri e i Teutoni; rielezione di Mario a console; sue grandi riforme militari e sue vittorie. – Potenza del partito democratico e umiliazione della nobiltà.

IV.
Mario la grande insurrezione proletaria
del mondo antico.
(Pag. 120 a 146).

Impoverimento, scontento, disordine morale dell’Italia al ritorno di Mario dalla guerra; disagio di tutte le classi; accentramento delle fortune; prepotenza dei capitalisti; dissoluzione dello Stato; principio di rivalità tra la nobiltà storica e l’alta borghesia dei finanzieri. – Il proletariato intellettuale. – Diffusione del desiderio della cittadinanza nelle popolazioni italiche e sue cagioni. – Crescente violenza demagogica del partito democratico a Roma. – Morbose ambizioni di Mario e sua lega con i demagoghi. – Il sesto consolato di Mario e la rivoluzione di Saturnino. – La rovina politica di Mario e il ritorno al potere del partito aristocratico. – Sua energica politica estera. – Crescente avversione della nobiltà contro i capitalisti. – Il più grande scandalo giudiziario della storia di Roma: il processo di Rutilio Rufo. – Livio Druso, le sue leggi e la sua proposta di cittadinanza agli Italiani. – Opposizione dei capitalisti, assassinio di Livio Druso. – Insurrezione degli Italiani. – Prime e parziali concessioni del Senato agli insorti. – Scoppio della guerra con Mitridate. – Crisi economica in Italia e torbidi per la distribuzione degli Italiani nelle 35 tribù. – L’Asia invasa da Mitridate; la rivolta proletaria contro la plutocrazia italiana; lo sterminio dei residenti italiani. – Il Senato incarica Silla della guerra contro Mitridate. – Rivoluzione di Mario e di Sulpicio Rufo.

V.
Silla e la reazione conservatrice a Roma.
(Pag. 147 a 174).

Silla e il suo carattere. – Silla marcia con l’esercito su Roma. – Fuga di Mario. – Restaurazione del governo aristocratico. – Partenza di Silla per la Grecia: assedio di Atene. – Nuova rivoluzione a Roma e ritorno al potere di Mario. – Situazione critica di Silla all’assedio di Atene e sua meravigliosa energia. – Violenze del governo democratico a Roma e morte di Mario. – Caduta di Atene e battaglia di Cheronea. – Il console Valerio Flacco propone la riduzione dei debiti e parte per la Grecia contro Silla. – Battaglia di Orcomeno. – Silla fa la pace con Mitridate per combattere la rivoluzione in Italia. – Valerio Flacco ucciso dal suo generale Fimbria. – Guerra tra Silla e Fimbria. – Silla signore dell’Asia. – Imposte, contribuzioni, castighi. – Trattative tra Silla e i capi del partito democratico. – Ritorno di Silla in Italia e guerra civile. – Vittoria di Silla; sua dittatura militare; reazione conservatrice; confische, persecuzioni, proscrizioni. – Le riforme di Silla. – La consorteria conservatrice da lui fondata. – Mario e Silla.

VI.
Le prime prove di Caio Giulio Cesare.
(Pag. 175 a 209).

Il primo viaggio di Cesare in Oriente. – Cesare all’assedio di Mitilene e alla Corte di Nicomede. – Scandalose dicerie su questo soggiorno. – Ritorno di Cesare a Roma. – La rivoluzione di Lepido e di Bruto. – Pompeo. – Il patrimonio e la nobiltà della famiglia di Cesare. – Cesare accusa Dolabella e Antonio. – Corruzione della consorteria conservatrice. – Insuccesso di Cesare e suo ritorno in Oriente. – La cattura dei pirati. – La guerra contro Sertorio. – Rapido ritorno della prosperità in Italia dopo la rivoluzione e sue cagioni. – Ripresa delle conquiste. – Espansione finanziaria dell’Italia. – Gli usurai e i capitali italiani in Gallia, in Spagna, in Grecia, in Asia. – Commercio degli schiavi. – Gli schiavi asiatici in Italia e loro influsso incivilitore. – L’high-life di Roma. – Raffinamento del costume e del lusso. – La toilette femminile. – Il codice dell’eleganza e Catone. – Diffusione della cultura; sete di sapere enciclopedico; la filosofia di Aristotile. – Aumento degli schiavi nell’agricoltura e progressi agricoli. – Progressi della enologia e della ulivicoltura. – Perfezionamento della pastorizia. – Diffusione delle società per azioni. – Aumento dei bisogni, diffusione dello spirito mercantile nel medio ceto. – Smania di far studiare i figliuoli. – La borghesia italica.

VII.
I finanzieri Italiani alla conquista dell’Oriente.
(Pag. 210 a 233).

Mutamento dello spirito pubblico. – Affievolimento dello spirito rivoluzionario nel medio ceto e rinvigorimento del sentimento nazionale e democratico. – Opposizione alla consorteria conservatrice. – I primi assalti dei tribuni contro la costituzione di Silla. – Morte, testamento del re di Bitinia. – L’annessione della Bitinia all’Impero; suoi motivi finanziari. – Probabilità di una guerra con Mitridate e intrighi a Roma per averne il comando. – Lucullo. – Precia, l’amante di Cetego e la donna nuova. – Improvvisa invasione di Mitridate in Asia e in Bitinia. – La divisione dei comandi. – Frettolosa partenza di Lucullo e di Cotta per l’Oriente. – La battaglia di Calcedonia perduta da Cotta. – Prudente strategia di Lucullo. – Mossa di Mitridate su Cizico. – Il doppio assedio di Cizico. – La distruzione dell’esercito di Mitridate.

VIII.
Marco Licinio Crasso.
(Pag. 234 a 267).

Ritorno di Cesare a Roma. – Condizioni dello spirito pubblico. – La rivolta di Spartaco. – La guerra marittima di Mitridate,. – Malcontento crescente contro il governo. – Cesare intraprende la vita politica. – La giornata di un uomo politico a Roma. – Lucullo conquista tutta la Bitinia e delibera la invasione del Ponto. – Il carattere di Lucullo. – Grande razzia di schiavi nelle pianure del Ponto. – Fine della guerra contro Sertorio. – Vittorie di Spartaco. – Lo scandalo delle elezioni per l’anno 71. – Marco Licinio Crasso; sua storia e suo carattere. – Sua guerra e vittoria su Spartaco. – Lucullo, i suoi ufficiali e i suoi soldati. – La presa e l’incendio di Amiso.

IX.
Il nuovo partito popolare.
(Pag. 258 a 280).

La candidatura al consolato di Crasso e di Pompeo. – La riconciliazione di Crasso e di Pompeo. – Le leggi democratiche di Pompeo. – Accusa dei Siciliani contro Verre. – Discussione e approvazione delle proposte di Pompeo. – Il partito conservatore e il “salvataggio” di Verre. – Nuove discordie tra Crasso e Pompeo. – Le elezioni per il 69 e la legge giudiziaria di Cotta. – Gli intrighi di Verre. – Il processo di Verre e il primo grande successo di Cicerone. – Lucullo conquista Sinope, Amasia, Eraclea.

X.
La conquista dell’Armenia e i debiti dell’Italia.
(Pag. 281 a 294).

Crisi nel partito popolare alla fine del 70. – Odii tra Crasso e Pompeo. – Lucullo invade il regno d’Armenia, – La battaglia del Tigri. – Lucullo e Alessandro il Grande. – Il bilancio della repubblica romana. – La mania delle speculazioni in Italia. – L’abuso sfrenato del credito. – Indebitamento universale. – I principî della demagogia a Roma. – Pompeo, i finanzieri e i demagoghi contro Lucullo. – Lucullo intende invadere la Persia. – Prima rivolta dei suoi soldati.

XI.
La disgrazia di Lucullo.
(Pag. 295 a 313).

Il rinascimento classico a Roma, ai tempi di Cesare. – Prassitele. – La politica di Aristotele. – Le prime idee politiche di Cesare. – Cesare questore. – Nuova campagna di Lucullo contro Mitridate e Tigrane. – La battaglia dell’Arsaniade. – Publio Clodio nel campo di Lucullo. – L’inverno armeno e la seconda rivolta delle legioni. – Intrighi a Roma contro Lucullo. – Mitridate riinvade il Ponto. – Terza rivolta delle legioni di Lucullo. – La carestia del 67 e i pirati. – Pompeo dittatore del mare. – La guerra contro i pirati. – Il richiamo di Lucullo.

XII.
Marco Tullio Cicerone.
(Pag. 314 a 327).

Pompeo, Metello e i pirati di Creta. – L’alta finanza e la guerra di Oriente. – La legge Manilia. – Marco Tullio Cicerone e il suo carattere. – Il discorso di Cicerone per la legge Manilia. – Pompeo, generalissimo in Oriente. – Pompeo e Lucullo a Danala. – L’ultima battaglia di Mitridate. – Pompeo e il re d’Armenia.

XIII.
Le speculazioni e le ambizioni di Crasso.
(Pag. 328 a 347).

La fuga di Mitridate in Crimea. – La via continentale delle Indie e la spedizione di Pompeo nel Cirvan e nel Daghestan. – Gli archivi e i tesori di Mitridate. – Le speculazioni e le ambizioni di Crasso. – Cesare e i suo debiti – Cesare al soldo di Crasso. – La congiura del 66. _ Il ritorno di Lucullo in Italia. – Lucullo e il ciliegio. – Cotta il Pontico e il processo per la distruzione di Eraclea – Cesare edile. – Il pane a buon mercato: l’agitazione per la conquista dell’Egitto. – Suo insuccesso. – L’Italia e l’Impero. – I debiti.

XIV.
Il punto critico della vita di Cesare.
(Pag. 348 a 366).

Scredito di Cesare. – Pompeo ad Amiso. – Il riordinamento del Ponto. – Arricchimento di Pompeo. – La candidatura di Cicerone e di Catilina al consolato per l’anno 63. – Le vicende della lotta: trionfo di Cicerone e insuccesso di Catilina. – Pompeo invade e annette la Siria. – Pompeo e i Parti – Scauro e Gabinio in Giudea. – L’ultima farneticazione di Mitridate. – La legge agraria. – Le agitazioni politiche e la crisi finanziaria 64-63. – L’odio dei conservatori contro Cesare. – Cesare e le mogli dei capi del partito popolare. – Cesare e la moglie di Pompeo. – Il processo contro Caio Rabirio. – Cesare, Pontefice Massimo. – La casa di Servilia.

XV.
Catilina e la gran lotta contro i capitalisti.
(Pag. 367 a 400).

La morte di Mitridate. – Le elezioni per il 62. – La nuova candidatura di Catilina. – Il suo programma dell’abolizione dei debiti. – Successo del programma e spavento delle alte classi. – Il panico finanziano e lo scompiglio politico a Roma. – L’alleanza dei conservatori con i capitalisti. – Cicerone, leader dei conservatori. – Gli intrighi e gli scandali della lotta elettorale. – L’ultimo espediente dei conservatori. – L’insuccesso di Catilina. – Principî della congiura. – Intrighi per ottenere la dichiarazione dello stato d’assedio. – La denuncia di Crasso. – Gli ultimi tentativi di Catilina a Roma. – Partenza di Catilina. – La congiura a Roma. – Trattative con gli Allobroghi. – La cattura dei congiurati. – Il 3, il 4, il 5 dicembre dell’anno 63. – Il processo e il supplizio dei congiurati. – La congiura di Catilina e l’Italia. – Il tramonto dell’età rivoluzionaria.

XVI.
La presa di Gerusalemme.
(Pag. 401 a 427).

L’assedio di Gerusalemme e il sabato. – La presa di Gerusalemme. – Pompeo nel tempio. – La reazione in Italia dopo la congiura di Catilina. – Lo scetticismo politico delle alte classi. – Il proletariato di Roma e le fratellanze artigiane. – Il partito popolare diventa il partito dei proletari. – Cesare in lotta con la reazione. – Le delusioni, i crucci e i debiti di Cicerone. – Il carattere di Pompeo. – Suo viaggio di ritorno. – Clodio e il sacrilegio della Dea Bona. – Il ritorno di Pompeo. – Il processo di Clodio. – Cicerone, Clodia e Terenzia. – L’assoluzione di Clodio. – Le “cambiali in sofferenza” di Cesare. – Sua partenza per la Spagna. – Tito Lucrezio Caro e il suo poema “La Natura”.

XVII.
Il mostro dalle tre teste.
(Pag. 423 a 471).

Il governo di Cesare in Spagna. – Il trionfo di Pompeo. – Nuove discordie civili a Roma. – La pensione dei veterani. – L’abolizione delle dogane. – I direttori della Compagnia per le imposte dell’Asia domandano la riduzione del canone. – Le delusioni di Pompeo. – Cicerone e i banchieri. – Cicerone pubblica la storia del suo consolato. – Rivelazioni scandalose per Crasso. – I torbidi in Gallia. – La candidatura e la elezione di Cesare al consolato. – Preparativi di Cesare per il consolato. – Cesare riconcilia Pompeo e Crasso, tenta di guadagnare Cicerone. – Suo disegno di restaurare la democrazia dell’anno 70. – Alleanza segreta con Crasso e Pompeo. – Primi atti del Consolato. – Cesare fonda a Roma il giornale del popolo. – La legge agraria. – Ostruzionismo dei conservatori. – Rivelazione dell’alleanza. – Il mostro dalle tre teste. – Improvvisa rivoluzione politica di Cesare. – Cesare, per un compenso di azioni, fa diminuire dal popolo il canone della Compagnia appaltatrice delle imposte dell’Asia. – Rincaro delle azioni della Compagnia. – Il governo quinquennale della Gallia Cisalpina. – Onnipotenza della clientela di Crasso, di Cesare e di Pompeo. – Vano furore dei conservatori. – Le afflizioni di Cicerone. – Impotenza politica delle alte classi. – Sue cagioni. – Catullo, i suoi amori, la sua poesia. – La poesia di Catullo, come segno dei tempi; e la rivoluzione democratica di Cesare. – Misure di Cesare per consolidare la sua potenza. – Alleanza con Clodio. – Clodio, Cicerone, Pompeo. – Il complotto di Vezio. – Le elezioni per il 58. – Il governo della Narbonese. – Le leggi di Clodio. – La “Tammany Hall” di Roma antica. – L’esilio di Cicerone. – Partenza di Cesare e di Catone dall’Italia.

XVIII.
La conquista dell’impero.
(Pag. 472 a 514).

Il lusso di Lucullo. – La sua villa sul Pincio. – L’ultima missione del conquistatore del Ponto. – Gli schiavi orientali in Italia. – L’emigrazione degli Italiani nelle provincie. – I conventus civium romanorum. – L’antica e la nuova Roma. – Roma nel 58 a. C. – La “corruzione romana”. – La conquista di Roma antica e i progressi dell’industria nella civiltà moderna: loro effetti simiglianti. – L’Italia, conquistando l’impero, diventa una nazione “borghese” e una democrazia mercantile. – I progressi della civiltà e la nuova borghesia dell’Italia. – Le contraddizioni della democrazia mercantile nel mondo antico e nel moderno. – Scetticismo politico e inettitudine alle armi delle alte classi, nei tempi di Cesare. – Crescente potere politico degli operai della città. – L’opinione pubblica. – Pericoli di queste contraddizioni. – Perchè nel mondo antico una democrazia mercantile era per necessità conquistatrice e bellicosa. – La schiavitù e le sue cagioni. – Il commercio dei cereali. – Come un antico giudicherebbe il dazio sul grano. – Il bisogno dei metalli preziosi. – Perchè Roma conquistò l’impero. – Perchè la guerra ha oggi perduta la antica importanza economica. – Disordine politico e amministrativo ai tempi di Cesare. – Il Senato: ragioni della sua decadenza. – La dissoluzione dell’esercito. – Il potere di Crasso, Pompeo e Cesare: sue cagioni, – Pompeo. – Crasso. – Cesare. – Che cosa Cesare intendeva di fare in Gallia. – I grandi della terra e il Destino. – Gli ultimi anni di Lucullo.

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Alla fine del secondo volume il lettore troverà un indice spiegativo delle abbreviazioni usate nelle citazioni; e tre appendici critiche: a) Sul commercio dei cereali nel mondo antico; b) La cronologia delle guerre di Lucullo; c) Pompeo, Crasso e Cesare dal 70 al 60.