Indice generale
PREFAZIONE.
I.
I PICCOLI PRINCIPÎ DI UN GRANDE IMPERO.
II.
LA PRIMA ESPANSIONE MILITARE E
MERCANTILE DI ROMA NEL
MEDITERRANEO.
III.
LA FORMAZIONE DELLA SOCIETÀ ITALIANA.
IV.
MARIO
E LA GRANDE INSURREZIONE PROLETARIA DEL MONDO
ANTICO.
V.
SILLA E LA REAZIONE CONSERVATRICE A ROMA.
VI.
LE PRIME PROVE DI CAIO GIULIO CESARE.
VII.
I FINANZIERI ITALIANI ALLA CONQUISTA
DELL’ORIENTE.
VIII.
MARCO LICINIO CRASSO.
IX.
IL NUOVO PARTITO POPOLARE.
X.
LA CONQUISTA DELL’ARMENIA
E I DEBITI DELL’ITALIA.
XI.
LA DISGRAZIA DI LUCULLO.
XII.
MARCO TULLIO CICERONE.
XIII.
LE SPECULAZIONI E LE AMBIZIONI DI CRASSO.
XIV
IL PUNTO CRITICO DELLA VITA DI CESARE.
XV.
CATILINA E LA GRAN LOTTA CONTRO I CAPI.
XVI.
LA PRESA DI GERUSALEMME.
XVII.
IL MOSTRO DALLE TRE TESTE.
XVIII.
LA CONQUISTA DELL’IMPERO.
INDICE.
1906
A
GINA LOMBROSO.
PREFAZIONE.
In questo volume, e in quello che già si stampa e sarà
pubblicato tra breve, è scritta la storia dell’età di
Cesare, dalla morte di Silla alla battaglia di Filippi:
dell’età in cui la politica conquistatrice di Roma prevalse
definitivamente e l’Italia, convertito il Mediterraneo in lago suo,
intraprese la grande missione storica di mediatrice tra l’Oriente
civile e l’Europa barbara. Precede, diviso in cinque capitoli, un
lungo riassunto della storia di Roma sino alla morte di Silla, che
prego di leggere con pazienza, non ostante i molti difetti:
così quelli inevitabili in simil genere di riassunti, come
quelli di cui l’autore può avere colpa. Senza far precedere
questo largo riassunto, non sarebbe stato possibile indagare e
descrivere a fondo l’età di Cesare.
La storia, come tutti i fenomeni della vita, è l’opera
inconsapevole di sforzi “infinitamente piccoli”; compiuti
disordinatamente da uomini singoli e da gruppi di uomini, quasi
sempre per motivi immediati, il cui effetto definitivo trascende
sempre la intenzione e la conoscenza dei contemporanei; e appena si
rivela, qualche volta, alle generazioni seguenti. Capire per quali
motivi immediati, contingenti, transitori, gli uomini di una
età abbiano faticato; descrivere pittorescamente le vicende,
le ansie, le contese, le illusioni di questa fatica; indagare come e
per quali cagioni, così faticando, una generazione abbia
spesso, non soddisfatte le passioni che la incitavano, ma compiuto
qualche rinnovamento durevole della civiltà: questo pare a me
debba sforzarsi di fare chi scrive storie.
Spero che il libro dimostrerà praticamente l’eccellenza di
questo metodo. Con questo metodo infatti è stato possibile
dimostrare che la conquista romana, grandioso evento che considerato
da lontano par quasi unico e perciò inesplicabile, fu
l’effetto, meraviglioso per condizioni speciali di luogo e di tempo,
di un rivolgimento interno che si ripete nella storia di continuo,
così in vaste nazioni come in piccoli Stati, con le stesse
leggi e le vicende medesime: la formazione di una democrazia
nazionale e mercantile sulle rovine di una federazione di
aristocrazie agricole. Con lo stesso metodo intendo scrivere la
rimanente storia dell’Impero, sino alla dissoluzione. Noi vedremo,
studiando ne I Cesari l’età che corse da Augusto a Nerone,
una nuova aristocrazia formarsi dalla democrazia mercantile dei
tempi di Cesare; vedremo nel L’impero cosmopolita questa
aristocrazia, dominante in pace l’impero, macerarsi quasi a poco a
poco e dissolversi nella propria felicità, mentre il
Cristianesimo e i culti orientali mutano lo spirito antico; la
vedremo nel Tramonto di Roma rovinar di nuovo e rovinare con essa la
parte più venerabile della civiltà greco-latina.
Questa ampia ricerca mira a descrivere una delle più
meravigliose esistenze storiche, dalla nascita alla morte; dai
giorni lontani in cui un piccolo popolo di pastori e contadini
abbatteva le foreste sul Palatino per erigervi gli altari dei propri
Dei, ignaro dell’immensa storia cui dava principio, ai giorni
tragici in cui il sole della civiltà greco-latina
tramontò sulle campagne deserte, sulle città
abbandonate, sulle genti diradate, imbarbarite, sbigottite
dell’Europa latina.
Torino, 1° dicembre 1901.
G. F.
I.
I PICCOLI PRINCIPÎ DI UN GRANDE IMPERO.
Nella seconda metà del secolo quinto avanti Cristo, Roma era
ancora una repubblica aristocratica di contadini, di circa 450
miglia quadrate di superficie1, e con una popolazione libera, sparsa
quasi tutta nella campagna e divisa in diciassette distretti o
tribù rustiche, che non poteva superare le 150 000
anime2. Il maggior numero delle famiglie possedevano un piccolo
campo; e genitori e figli, vivendo nel piccolo tugurio e lavorando
insieme, lo coltivavano quasi tutto a grano, con poche viti ed
ulivi; pascolavano sulle vicine terre pubbliche qualche capo di
bestiame; fabbricavano in casa gli strumenti rustici di legno e i
vestiti, recandosi solo di tempo in tempo nella città
fortificata; dove erano i templi degli dei, il governo della
repubblica, le case dei ricchi, le botteghe degli artigiani e dei
mercanti, per cambiare poco grano, olio e vino con il sale, gli
strumenti rustici di ferro e le armi; per assistere alle feste
religiose, o compiere i doveri civici. Ogni proprietario romano era
inscritto in una delle cinque classi in cui si divideva, secondo la
ricchezza, la popolazione possidente, poi in una delle centurie in
cui si divideva ogni classe; e concorrendo a formare con il proprio
singolo voto il voto della sua centuria, che valeva per uno,
approvava nei comizi centuriati le leggi ed eleggeva i magistrati
maggiori della repubblica. Tuttavia Roma, sebbene ogni magistratura
vi fosse elettiva, era allora una repubblica doppiamente
aristocratica; perchè le centurie contenevano un numero
sempre più piccolo di elettori, a mano a mano che si saliva
dalle centurie delle classi più povere a quelle delle classi
più ricche; e perchè solo un piccolo numero di
famiglie patrizie, che di solito possedevano poderi più
vasti, armenti più numerosi e qualche schiavo, poteva
esercitare, per privilegio ereditario, le alte magistrature. Se la
plebe si radunava in ogni distretto per trattare le faccende sue, ed
eleggere ogni anno certi magistrati, come i tribuni della plebe, che
inviolabili potevano interporre il veto contro ogni atto dei
magistrati; se per la elezione di certi magistrati minori e la
trattazione di certi affari di poco momento votavano, non le
centurie, ma le tribù, tutti cioè gli iscritti alle
diciassette tribù della campagna, e alle quattro tribù
urbane in cui era raccolto il popolino di Roma3; tutto lo stato
restava pur sempre in potere dei patrizi, i quali erano pur essi dei
contadini, e non sdegnavano di lavorare con la vanga e l’aratro4;
abitavano in case piccole e disadorne; usavano di un vitto sobrio e
di un abito semplice5; possedevan pochi metalli preziosi; facevan
fare quasi ogni cosa in casa, il pane come le vesti, dai pochi
schiavi e dalle donne. Perciò Roma comprava poco fuori:
ceramiche per le costruzioni pubbliche e metalli in Etruria; ninnoli
artistici, punici o fenici; gingilli di avorio; profumi per i
funerali e porpore per gli abiti da cerimonia dei magistrati;
qualche schiavo. Poco era esportato; legno da costruir navi, e
sale6. Roma era piccola e povera; anche i ricchi patrizi passavano
la maggior parte del tempo in campagna e venivano in città
solo per esercitare le magistrature e assistere alle sedute del
Senato: l’assemblea di cui facevano parte a vita gli antichi
magistrati scelti come degni, prima dai consoli e poi dai censori;
che vigilava i magistrati, amministrava il tesoro, approvava le
leggi votate e le elezioni fatte dei comizi centuriati e tributi7,
trattava le questioni di guerra e di pace allora così
frequenti.
Tutta l’Italia infatti, sino alla Liguria, all’Emilia, alla Romagna,
ancora popolate, come la pianura del Po, dai Liguri e dai Celti
selvatici, era tempestata di cittadelle fortificate simili a Roma,
che guardavano il corso dei fiumi; vigilavano dall’aspre vette dei
monti la pianura; sbarravano le gole delle montagne; accennavano
lontano sul mare alle piccole navi dei mercanti: rette con
istituzioni aristocratiche o popolari, ma quasi nessuna a monarchia;
signora ciascuna di un territorio più o meno vasto; unite
molte in confederazioni, secondo la razza e la lingua che erano
diverse: osco-sabellica, nell’Italia meridionale; latina, etrusca ed
umbra, nell’Italia centrale; ellenica, nelle belle colonie greche
delle coste, Ancona, Taranto, Napoli. Ma attraverso le paci di
queste alleanze, da città a città, tra il monte e il
piano, tra il fiume e il mare, tra razza e razza, la lotta dell’uomo
contro l’uomo ricominciava, in quell’antica Italia, eterna; sempre
riaccesa da tutti gli incitamenti che alimentano la guerra tra i
barbari: il bisogno di schiavi e di terre, la cupidigia dei metalli
preziosi, lo spirito di avventura e le ambizioni dei grandi, gli
odî popolari, l’urgenza di assalire per non essere assaliti e
distrutti. Roma era allora, come le altre città, impegnata in
questo interminabile duello; ma in condizioni pericolose di
debolezza, sebbene fosse già riuscita a raccogliere intorno a
sè in confederazione le repubblichette rustiche del Lazio, i
cui popoli parlavano tutti la stessa favella latina. L’esercito
romano era la piccola proprietà in armi, sotto il comando dei
possidenti ricchi; perchè, mentre chi non possedeva terra,
non aveva diritto di esser soldato, tutti i proprietari (e dovevano
esser intorno a 30 000, verso la metà del quinto secolo
a. C.) erano obbligati a presentarsi, dai 17 ai 46 anni, ogni volta
che il console indiceva la leva, per ordinarsi in legioni e partire,
sotto il comando dei magistrati scelti tra gli agiati patrizi.
Sventuratamente però tra ricchi e poveri covavano allora
fieri rancori, perchè la popolazione cresceva troppo
sull’angusto territorio, le guerre divenivano spesso cagione di
devastazioni e rovine, la terra era facilmente esausta dalla troppo
intensa coltivazione dei cereali; e mentre la plebe dei piccoli
possidenti era tormentata dai debiti, la nobiltà, nella quale
pure le famiglie erano grosse, si prendeva le migliori terre
conquistate al nemico e aumentava sui pascoli pubblici, togliendone
l’uso ai poveri, i propri armenti; peggio ancora, prestava talora a
usura ai possidenti poveri, riducendoli poi schiavi, per la legge
del nexum. Rinfocolati dall’odio dei plebei ricchi contro i patrizi,
che li escludevano dalle magistrature, questi contrasti generavano
malanimo, tumulti, secessioni, anche nell’imminenza di guerre.
Eppure Roma, postasi a capo della confederazione latina, vinse a
poco a poco le altre città e confederazioni dell’Italia,
perchè nella sua costituzione era insito un principio di
salute: una vigorosa disciplina che contenne in essa quella gran
forza distruggitrice delle nazioni che è il piacere;
reprimendo efficacemente, nella classe ricca e potente, in quella
cioè che più facilmente si sarebbe corrotta, e avrebbe
infettato poi l’intero corpo della repubblica, i vizi dei barbari:
la ubriachezza, la lascivia, il lusso dei metalli preziosi,
l’orgoglio personale che vuol soddisfazione anche con il danno di
tutti.
Roma seppe essere barbara, senza i vizi della barbarie; e
perciò vinse tanti popoli più civili, ma indeboliti
dai vizi della civiltà loro. La antica società romana
rassomigliava, sino a una certa misura, ad alcuni ordini monastici e
sètte religiose che furono dopo; perchè in essa vigeva
una di quelle ingegnose combinazioni di insegnamenti, esempi,
sorveglianze e minaccie reciproche, con cui un piccolo gruppo di
uomini può, sottoponendo ciascuno dei suoi membri alla
tirannia dell’opinione e del sentimento di tutti e togliendo a tutti
il modo di viver fuori del gruppo, far loro spiegare, in certe opere
almeno, maggior zelo, abnegazione e disciplina, di quanto la natura
dei più sarebbe capace. Tutto era vôlto, in Roma
antica, a mantenere e ad accrescere nelle alte classi la forza di
questa combinazione di esempi, insegnamenti, sorveglianze e minaccie
reciproche: lo stato delle fortune; la religione; le istituzioni
dello Stato; la severità delle leggi; la durezza del
sentimento comune che le voleva applicate senza misericordia, in
ogni caso, dai padri ai figli, dai mariti alle spose, dai nobili ai
nobili; la famiglia sopra tutto, che era la prima palestra di questa
dura disciplina delle anime, con cui i ricchi romani imparavano, sin
dalla giovinezza, a godere poco, a contenere l’orgoglio e la
vanità, a subordinare sè stessi, non a un altro uomo
(la monarchia era fanaticamente odiata) ma alla legge e al costume.
Anche a godere si impara: e di solito negli anni della giovinezza,
dopo la pubertà; quando ognuno contrae il gusto di alcuni tra
i molti piaceri della vita, secondo gli accidenti dell’educazione e
l’inclinazione; e per goderli si affanna poi, mentre ignora o
dispregia gli altri. Ma le famiglie romane erano ancora, in quel
tempo, per molte parti, un avanzo della età patriarcale;
tanti piccoli monarcati assoluti, che la repubblica aristocratica
dei tempi nuovi aveva, pur subordinandoli e comprendendoli in
sè, lasciati sussistere, perchè una parte dello
sforzo, necessario a mantenere l’ordine morale e politico, poteva
più efficacemente che dai magistrati nello stato, esser
compiuto in questi regni minuscoli dai padri, che erano così,
di fatto se non di nome, organi dello stato. Il padre era un re
assoluto nella sua casa; egli solo possedeva, vendeva, comprava, si
obbligava; poteva esigere obbedienza piena dal figlio, come dal
servo, a qualunque età o magistratura fosse pervenuto; poteva
scacciare in miseria, vendere schiavo, condannare ai lavori in
campagna, uccidere, il figlio troppo riottoso, e costringere il
console, che aveva comandato le legioni in guerra, a obbedirgli come
un fanciullo, al ritorno nella casa paterna; era il giudice di tutte
le persone della famiglia, della moglie, dei figli, dei nipoti,
degli schiavi e doveva condannarli egli stesso, secondo le norme
severe fissate dalla consuetudine, talora anche a morte, per le
colpe loro contro la famiglia, lo stato, le altre persone8. Con
tanto potere fu facile ai padri per molto tempo reprimere nelle
nuove generazioni quello spirito di innovazione dei giovani che
è, in tutte le età, il maggior veicolo della
corruttela e del progresso; crescere i figli a propria immagine e
simiglianza; educare i maschi alla sobrietà, alla
castità, alla fatica, alla religiosità, alla
osservanza scrupolosa delle leggi e dei costumi, al patriotismo
angusto ma saldo; far loro imparare i precetti fondamentali
dell’arte agraria e della avarizia domestica; insegnare alle
fanciulle a vivere sempre sotto l’autorità di un uomo, del
padre, del marito, dei tutori, senza mai posseder nulla, nemmeno la
dote; ad essere ubbidienti, sobrie, caste, sollecite solo della casa
e dei figli; ai maschi e alle femmine insegnare sopratutto la
superstiziosa osservanza della tradizione, la fedeltà al
semplice vivere antico, l’odio di ogni lusso nuovo.... E guai agli
indocili e ai ribelli! Il padre e il tribunale domestico avrebbero
castigato il figlio e la donna senza pietà, perchè la
tradizione e l’esempio insegnavano a esser duri, ed essere duri era
facile a uomini che sin da fanciulli avevano goduto così
poco9. Educato così, il nobile romano faceva, ancor giovane,
le sue prime prove di guerra, nella cavalleria; giovane ancora si
sposava con una donna che gli portava una piccola dote e dalla quale
doveva aver molti figli; poi incominciava il lento e lungo curricolo
delle magistrature, proponendosi al popolo per essere eletto alle
diverse cariche, secondo l’ordine stabilito dalle leggi. Ma nessuno
poteva sperar di ottenere il suffragio del popolo e la approvazione
del Senato alla elezione sua, se non a condizione di rispettare le
tradizioni; e se ogni magistrato romano era provvisto di larghi
poteri, se aveva ai suoi ordini molti famigli ed era l’oggetto di un
cerimoniale di riverenza, il potere era però diviso tra molti
magistrati, e ogni magistratura era gratuita, temporanea (annuale di
solito) e collegiale, ogni magistrato avendo sempre un collega, pari
a lui per dignità e potere, che lo vigilava e ne era
vigilato, mentre il Senato sovrastava a tutti; cosicchè
nessun magistrato poteva violar le leggi o le tradizioni senza grave
cagione; tutti dovevano, a volta a volta, obbedire, come avevano
comandato; e potevano esser chiamati a render conto di ogni atto
loro, dopo aver fatto ritorno a vita privata. Dalla nascita alla
morte ognuno era spiato senza tregua; e quando, morto il padre, ogni
figlio diventava a sua volta reggitore assoluto della propria
famiglia, ricominciava nel fôro, nei comizi, nel senato la
sorveglianza non meno dura dei censori, che lo avrebbero infamato e
cancellato dal ruolo dei senatori, se egli fosse vissuto male; del
popolo, che non lo avrebbe eletto alle magistrature; del senato; di
ogni singolo cittadino, che poteva trarlo in accusa.
Per questa disciplina delle alte classi, Roma potè riuscire
nell’impresa fallita agli Etruschi, prevalendo a poco a poco in
Italia, tra le molte repubbliche, razze e favelle. Nella seconda
metà del secolo quinto e nei primi decenni del secolo quarto
a. C., Roma combattè, alla testa della confederazione latina,
contro gli Equi, i Volsci, gli Etruschi, un seguito di guerre, con
le quali essa non solo potè nel 387 a. C. costituire, sul
territorio ingrandito, quattro nuove tribù, ma fondare, su
98 000 ettari di terra fertile conquistata ai nemici, parecchie
di quelle colonie latine10, in cui molti giovani del medio ceto, che
non avrebbero potuto ammogliarsi per la piccolezza del patrimonio
paterno, acquistavano il potere di generare a Roma nuovi soldati,
diventando cittadini e possidenti di una città nuova, retta,
a simiglianza di Roma, da leggi proprie, salvo l’obbligo dei
cittadini di militare con le legioni. Rinvigorita da questi primi
successi, Roma fu tratta poi, dalla necessità di assalire per
non esser distrutta, a guerreggiare, nel rimanente secolo quarto e
nella prima metà del terzo, contro i Sanniti, gli Etruschi, i
Sabini, i confederati latini ribellatisi, i Galli della costa
adriatica, le milizie greche di Pirro, chiamate da Taranto;
annettè un vasto territorio di 27 000 chilometri
quadrati11, tutto il Lazio, una parte della Toscana orientale e
occidentale, la maggior parte dell’Umbria, delle Marche e della
Campania, riducendovi le città a municipia, i loro abitanti a
cittadini obbligati alla milizia e al tributum, ma senza diritto di
voto; costrinse o indusse le altre città e stirpi, in varii
tempi, come Napoli nel 326, Camerino, Cortona, Perugia, Arezzo, nel
310, i Marrucini, i Marsi, i Pelligni, i Frentani nel 305, i Vestini
nel 302, e più tardi Ancona e Taranto, a conchiudere
alleanze, con le quali queste città e nazioni, pur
conservando le proprie istituzioni e leggi, si obbligavano a fornire
a Roma contingenti militari, e a farsi rappresentare dal Senato
romano in ogni questione con altri stati; acquistò insomma
l’alta sovranità su tutta l’Italia. Ma questo sforzo di
guerra e di conquista potè continuare, sempre vittorioso, per
secoli, solo perchè, grazie alla disciplina morale e allo
spirito conservatore della nobiltà, Roma restò durante
tante guerre una società agricola, aristocratica e guerresca.
La terra non si conquista definitivamente, anche nelle età
barbare, se non con l’aratro; essa appartiene, non a chi solo la
bagna di sangue nelle mischie feroci degli eserciti; ma a chi dopo
averla conquistata la ara, la semina, la popola prolificando. Per
tante guerre non solo la potenza, ma anche la ricchezza di Roma
crebbe in modo considerevole; lo Stato dispose di entrate maggiori e
si fece per tutta Italia un grosso patrimonio di campi, pascoli,
boschi che in parte esso affittò o donò, in parte
tenne vuoto, per i bisogni futuri; molte famiglie patrizie e molte
plebee arricchirono, comprando schiavi e terre che abbondavano e
facendo coltivare per tutta Italia vasti poderi, in parte a grano,
in parte a vigneto e a oliveto, da familiæ di schiavi posti
sotto la sorveglianza di un fattore schiavo esso pure, e aiutati
nella mietitura e nella vendemmia da braccianti liberi a giornata,
fatti venire dalla vicina città12; molte esercitarono sulle
terre pubbliche dell’Italia meridionale una grandiosa pastorizia
primitiva, simile a quella che ora si fa nel Texas e nelle regioni
più barbare degli Stati Uniti; la pastorizia vagante degli
immensi armenti belanti e muggenti, senza stalle, che pascolano in
ogni stagione sotto il sole e dormono sotto le stelle; e che
perciò sono condotti ogni inverno e ogni estate da robusti
guardiani, che allora erano schiavi, dal monte al piano, dal piano
al monte. Dopo che Roma ebbe ridotte in suo potere così le
coste dell’Italia meridionale come l’alto Appennino, questa lucrosa
pastorizia barbarica diventò possibile, e molti romani si
affrettarono a tentarla13. Inoltre i metalli preziosi e specialmente
l’argento, conquistati in gran quantità in queste guerre14
abbondarono, cosicchè nel 269 o nel 268 a. C. Roma
cominciò a coniar monete d’argento15; e i romani furono in
grado di partecipare al commercio mondiale, di procurarsi i lussi
della civiltà ellenica, ora meglio nota per gli scambi
più frequenti con le colonie greche dell’Italia
meridionale16; perchè i metalli preziosi, essendo desiderati
cupidamente da tutti i popoli, civili o barbari, come fulgenti
ornamenti e tesori facili a esser portati e nascosti, erano, nel
mondo antico, di baratto e commercio più universale che ogni
altro bene, e il medio più usato negli scambi tra i popoli di
civiltà differente. La classe dirigente si rinnovò:
molte famiglie plebee arricchite, e ambiziose di conquistare il
diritto di essere elette alle cariche, usarono le loro ricchezze a
beneficio del medio ceto, per accrescere la loro potenza con la
clientela e la protezione; le vecchie famiglie patrizie che
già decadevano furono costrette a imitarne l’esempio, e alla
fine, per ricostituire i patrimoni declinanti e non perdere tutto il
potere, ad accogliere in sè questa ricca borghesia plebea,
contrarre matrimoni con le sue famiglie, farla partecipare al
dominio. Già nel 421 a. C. si era deliberato che i plebei
potessero esercitare la prima e più semplice magistratura, la
questura; ricercare, cioè, come questori urbani, i rei di
delitti capitali, amministrare l’erario, custodire una parte dei
documenti pubblici; amministrar nel campo, come questori militari, i
denari dell’esercito e provvedere agli approvigionamenti. Nel 367 fu
deliberato che fosse plebeo uno dei magistrati supremi della
repubblica, i quali, con il nome di consoli, erano incaricati di
convocar il senato e i comizi, di dirigere le elezioni dei
magistrati, ammettendo o rifiutando i candidati; di chiamar le leve
e comandar gli eserciti in guerra. Nel 365 i plebei poterono essere
eletti edili curuli, a vigilare il mercato dei cereali e la vicenda
dei prezzi; a curar la conservazione dei monumenti pubblici, la
polizia delle strade, dei mercati, delle piazze; a ordinar le feste
pubbliche. Nel 350 furono ammessi alla dittatura e alla censura: la
prima, una magistratura unica e straordinaria, con la quale, in
qualche pericolo supremo, si davano a un solo pieni poteri per breve
tempo, sospendendo la costituzione; la seconda, magistratura
ordinaria e collegiale di due censori, i quali compilavano il censo
quinquennale delle persone e dei beni dei cittadini romani e dei
municipi, sorvegliavano i costumi dei grandi, cancellavano nel fare
il censo dal ruolo dei senatori e dei cavalieri gli indegni,
degradavano da una tribù rustica a una urbana o scacciavano
da tutte le tribù, privandolo dei diritti politici, il plebeo
di vita turpe; appaltavano e sorvegliavano la costruzione delle
opere pubbliche e la riscossione delle imposte. Nel 337 poteron
essere plebei anche i pretori, che giudicavano le cause civili tra
romani o tra romani e forestieri, e facevano le veci dei consoli
assenti o impediti: e questi pretori plebei ben presto accrebbero il
potere legislativo dei comizi tributi, nei quali il medio ceto
contava più che nei comizi centuriati, portando innanzi ai
comizi tributi le loro proposte17. Ma questo arricchimento e questa
ricomposizione della classe dirigente non furono seguiti da un
allargamento del tenor di vita e da un rivolgimento di costumi; la
parsimonia, la semplicità, la rozza austerità dei
tempi antichi furono considerate ancora come le virtù somme
di ogni nobil famiglia; e l’aumento della ricchezza fu usato, non ad
accrescere la civiltà di tutti e i godimenti di ognuno, ma a
consolidare il potere in una forte aristocrazia di ricchi
possidenti, plasmata nello stampo della educazione tradizionale, per
il governo e la guerra; paziente, calma, valorosa, lenta a capire le
idee nuove. Solo plebei ricchi erano eletti a queste cariche; il
potere passò da un patriziato ereditario a una nobiltà
patrizio-plebea di possidenti, ricchi per la semplicità dei
loro bisogni, che seppero indurre il medio ceto a riconoscere
volentieri la loro signoria, provvedendo a lui con la beneficenza
familiare e una legislazione conciliante. Ogni ricca famiglia
senatoria assisteva in ogni frangente di consiglio, di denaro, di
protezione un certo numero di famiglie di medi possidenti, aiutando
anche, di tempo in tempo, qualche famiglia, che si segnalasse di
più per valore e intelligenza, a salire in nobiltà,
esercitando le magistrature18; e la legislazione divenne tanto
più democratica quanto più il sentimento comune
diventava spontaneamente aristocratico. Il Senato dovè dare
il parere suo sulle proposte prima e non dopo le assemblee
popolari19; le deliberazioni delle assemblee della plebe
acquistarono con la Lex Hortensia (286 a. C.) valore di legge per
tutti, senza l’approvazione del senato; le assemblee tribute furono
tolte al controllo del senato; e i comizi centuriati, intorno al 241
riformati in modo che i ricchi vi perdettero a beneficio del medio
ceto molto dell’antico potere20; si largheggiò perfino nel
concedere il diritto di voto a molti cives sine suffragio: ai Sabini
di Rieti, di Norcia e di Amiterno nel 268; intorno al 241 forse agli
abitanti del Piceno e ai Velletrani21. Sottoposta così alla
protezione di una nobiltà conservatrice degli antichi costumi
rustici, questa plebe conservò essa pure il vivere dei padri;
restò plebe valorosa e feconda di contadini, che consumavano
i maggiori guadagni ad allevare generazioni sempre più
numerose di contadini e soldati. Perciò Roma nel quarto e
terzo secolo a. C. potè non solo diffondere in Italia con le
annessioni e le alleanze l’influsso e le leggi, ma con le colonie
anche la stirpe sua; fondare tra il 334 e il 264, diciotto poderose
colonie latine, tra le quali Venosa, Lucera, Pesto, Benevento,
Narni, Rimini e Ferrara, disseminando nelle diverse regioni d’Italia
i forti coltivatori latini, che dalla abbondanza di terre erano
incitati a prolificare, accrescendo il numero dei parlanti latino
nella confusa mescolanza delle favelle e delle razze italiche; e che
alternavano tanto più volonterosi alla dura vita dei campi le
fatiche e i pericoli delle milizie, perchè il soldo di guerra
e i doni dei generali dopo la vittoria erano per essi un lucro
aggiunto a quello dei campi, la guerra una industria suppletiva
della agricoltura. Con questa stirpe agreste e bellicosa la
nobiltà romana plasmò la ossatura di città di
quel corpo che doveva poi esser l’Italia; non estenuando ma
rinvigorendo lo Stato a tal segno, che essa potè vincere una
prima volta Cartagine, la grande potenza mercantile, la cui
espansione commerciale venne alla fine in urto con la espansione
militare e agricola di Roma; e dominare, nell’ultimo quarto del
secolo terzo a. C., ancor prima di combattere quella guerra contro i
Galli d’Italia (225-222), che le aprì, con la conquista della
pianura emiliana e padana, la via maestra della sua storia futura,
un vasto paese popolato da circa sei milioni di uomini, nel quale
essa avrebbe potuto levare, in un supremo pericolo, 770 000
soldati, tra fanti e cavalieri: 273 mila cittadini, 85 000
latini, 412 000 alleati22. I confini della dominazione si
allargavano, per forza di pazienza, di tenacia, di metodo, non di
vaste audacie geniali. Le somme virtù di tutte le classi
erano quelle che adornano le società rustiche ben
disciplinate, come oggi le riconosciamo nei Boeri: la
sobrietà, la pudicizia, la semplicità delle idee e dei
costumi, la profonda conoscenza del piccolo mondo proprio, la forza
tranquilla di volontà, l’integrità, la lealtà,
la pazienza, la mancanza di eccitabilità propria dell’uomo
che non ha vizi, che non sciupa le sue forze nel piacere e che sa
poco. Ma le idee facevan lenti progressi; le cose nuove eran
ricevute con gran fatica, quando non fossero superstizioni
religiose; il genio, come la pazzia o la malvagità, tutto
ciò che non capiva entro la tradizione, era soppresso; il
formalismo l’empirismo la superstizione parevano le forme supreme
della saggezza. Il diritto e la religione in special modo,
rigorosamente formalisti, conservavano tra i tardi nepoti la
sapienza, gli errori e le paure dei padri cristallizzate. La
filosofia greca e le teorie generali erano neglette; la letteratura
poverissima si componeva di pochi canti religiosi e popolari in
metro saturnio, e di semplicissime composizioni drammatiche, come i
fescennini, le sature, i mimi; la lingua letteraria era rozza ed
incerta.
Ma nulla è eterno nella vita, nè il bene nè il
male; e poichè il bene si volge in male, e il male di nuovo
in bene, per una legge di vicenda continua, insita nelle cose, anche
questo spirito di disciplina e di semplicità rustica
incominciò alla fine, lentamente, a venir meno, per effetto
delle vittorie e della cresciuta ricchezza, verso la metà del
secolo terzo. La conquista della Magna Grecia, di gran parte della
Sicilia, della Corsica e della Sardegna, le guerre combattute
felicemente nell’Illiria, nella Gallia e contro Cartagine, resero e
costarono molto; fu necessario approvigionar lontano grossi
eserciti, costruir flotte; e poichè lo Stato romano non
poteva, con poche magistrature ordinate in origine a servire bisogni
di una piccola città, provvedere a servizi pubblici tanto
cresciuti, gli appalti di questi servizi a speculatori privati
diventaron frequenti, e rapidamente, tra le due guerre puniche, si
formò dal medio ceto quella classe, che nelle società
agricole è il primo veicolo dello spirito mercantile e del
lusso, che fu il veicolo dello spirito mercantile nella nuova
Italia, fondata dopo il 1848: gli appaltatori23. Nel tempo stesso
anche gli avvenimenti politici, specialmente la conquista della
Sicilia, favorirono i progressi dello spirito mercantile; il
commercio della Sicilia, donde molto olio e grano era esportato,
passò dai Cartaginesi ai mercanti romani e italiani, dei
quali crebbe il numero e la ricchezza24; anche nella aristocrazia
romana che sino allora aveva voluto posseder soltanto terra, molti,
vaghi di imitare quella nobiltà cartaginese che avevano vinta
e che si componeva di mercanti, cominciarono a tentar speculazioni,
a mettere in mare piccole flottiglie proprie, a commerciare sulle
esportazioni della Sicilia25, a far lusso, a trascurare il medio
ceto. La semplicità dei costumi incominciò a venir
meno; la disciplina della famiglia a rallentarsi; il tribunale
domestico a essere convocato più raramente; i figli a farsi,
mercè il peculium castrense, più indipendenti dal
padre; le donne più libere dal marito e dal tutore; la
cultura greca a diffondersi in un piccolo numero di grandi famiglie;
la letteratura e la lingua letteraria a perfezionarsi. Un greco di
Taranto, Andronico, catturato nella presa della città nel 272
e venduto a un Livio, che lo liberò, tradusse in versi
saturni l’Odissea, aprì a Roma scuola di greco e di latino,
primo tradusse e adattò commedie e tragedie greche con gran
successo, tentando di verseggiare in latino con metri greci; poco
dopo Nevio, un cittadino romano originario della Campania, lo
imitò e compose un poema sulla guerra punica. Anche l’antica
unione dei ceti si screpolò; e contro questa nobiltà
troppo vaga degli esempi cartaginesi, troppo cupida ed egoista,
incominciò a formarsi una opposizione democratica, il cui
primo grande capo fu Caio Flaminio. Quando Flaminio propose, nel
232, di assegnare alla plebe lungo la costa adriatica una parte del
territorio tolto ai Senoni nel 283 e ai Picenti nel 268, dovè
vincere una violenta opposizione dei grandi che probabilmente
volevano piuttosto godersi essi quei terreni affittandoli; e quando
i Galli di qua e di là dal Po, spaventati da queste
assegnazioni, mossero a Roma la grande guerra del 225-222, che
finì con la conquista della valle del Po e la fondazione di
Piacenza e Cremona, la nobiltà, che pure poco prima aveva
minacciata una nuova guerra a Cartagine per toglierle la Sardegna e
la Corsica ove sperava gli stessi guadagni che nella Sicilia,
rimproverò questa guerra come una colpa a Flaminio26. La
nobiltà non condusse la plebe, ma ne fu sospinta quasi a
forza verso la grande pianura che si stendeva ai piedi della sublime
cerchia delle Alpi, ubertosa di terre fresche e feracissime, fitta
di immense foreste di querci, stagnante di vaste paludi, bagnata di
bei laghi, popolata di villaggi celtici, corsa dai rapidi fiumi che
rotolavano nelle sabbie l’oro delle Alpi, traversata del gran fiume
che ai Romani, avvezzi ai piccoli corsi d’acqua dell’Italia
centrale, doveva parere un prodigio; non un nobile di gran
lignaggio, ma il capo del partito popolare diede il suo nome alla
prima grande via, la Flaminia, che congiunse Roma con la valle del
Po e condusse le ignare generazioni, fuori delle mura dell’Urbe,
verso l’avvenire. L’antica società aristocratica agricola e
guerresca si avvicinava al limite della estrema grandezza e potenza,
oltre il quale non avrebbe potuto più progredire, senza mutar
natura.
A ogni modo, questi principii di discordia sparvero rapidamente,
quando Annibale scese nel 218 dalle Alpi nella valle del Po, alla
testa dell’esercito, con cui la plutocrazia cartaginese sperava di
distruggere la sua nuova rivale. Questa invasione, di un paese che
avrebbe potuto opporre sino a 700 000 uomini, con forze
relativamente piccole, a immensa distanza dalla base di operazione,
era un ardimento quasi incredibile; ma che per tanti anni abbia
potuto dubitarsi se l’ardimento non riuscirebbe, prova quanta
debolezza fosse insita in quella federazione di repubbliche
rustiche, di cui Roma era a capo. Non è nazione viva, ma
accozzamento di genti tenute insieme per poco dalla forza delle
armi, dove il modo di vivere, pensare, sentire e possedere, o in
altre parole, la civiltà, non sia unica almeno nelle classi
alte e medie; e la vecchia Roma agricola aristocratica e guerresca
aveva potuto ridurre a civiltà unica solo parte dell’Italia.
La espansione dei piccoli possidenti latini nelle colonie e nei
municipi univa a Roma molte parti d’Italia con vincoli di lingua, di
ricordi e di simiglianza nelle istituzioni; ma le colonie e i
municipi non occupavano allora nemmeno la metà del territorio
italico; e l’altra parte era posseduta dalle città alleate:
repubbliche rustiche e aristocratiche le più, che
continuavano a vivere una solitaria vita locale, non disturbata da
Roma. I Romani avevano protetto, specialmente nell’Etruria e
nell’Italia meridionale, le nobiltà locali; ne avevano
composte le discordie sanguinose, avevan dato loro il comando dei
contingenti levati tra la robusta generazione dei piccoli
possidenti, e quindi il modo di segnalarsi in guerra, di acquistare
considerazione tra i propri concittadini, di procurarsi oro, argento
e nuove ricchezze; facendo di queste nobiltà locali il
sostegno del romanismo nelle città alleate. Così
nell’Etruria e nell’Italia meridionale le grandi famiglie erano
unite da legami di ospitalità, di amicizia, talora anche di
parentela, con le famiglie più cospicue di Roma, e ne andavan
superbe; imparavano volentieri il latino; affettavano ammirazione
per la potente città, per le sue istituzioni, le idee e i
costumi dei suoi grandi27: ma il popolo parlava pur sempre la lingua
nazionale; e conservava le memorie antiche che sempre appaiono belle
ai nepoti malcontenti delle cose presenti. Annibale sembra aver
capito che l’Italia non era ancora una nazione, ma una
confederazione di repubblichette, di cui molte vivevano in sè
e per sè, unite solo politicamente dalla potenza di Roma; e
tentò con le promesse, con gli inganni, con le minaccie di
rivoltare le città alleate, riuscendovi in parte. Invece
cittadini romani e coloni latini, che insieme formavano una vera
nazione agricola e aristocratica, difesero con tenacia eroica la
terra che i loro padri avevano conquistata, arata, popolata, contro
l’eroe della orgogliosa plutocrazia cartaginese; sinchè la
guerra terminò con la vittoria della città, saldamente
costituita dalle virtù di molte generazioni mediocri, sulla
grandezza accidentale e personale del genio. Ma l’antico ordine di
cose fu perturbato dalla terribile guerra per modo, che non
potè ricostituirsi più. In tante gigantesche battaglie
perì il fiore del medio ceto possidente; in molti luoghi,
quando l’invasore punico ebbe sgombrato, non si potè
riprendere la coltivazione interrotta, perchè gli uomini e
gli schiavi mancavano28; nell’Italia meridionale, in special modo,
molte regioni restaron deserte, sia perchè agli abitanti
ribellatisi fu confiscato il territorio; sia perchè la lunga
guerra di devastazione vi aveva distrutto tutto. Nella tensione di
un così lungo e insolito sforzo, in mezzo alle cure
dell’immensa guerra che fu disputata aspramente in Italia, in
Spagna, in Grecia, in Sicilia, in Africa, in un seguito di tremendi
assalti e difese caparbie durato diciassette anni, Roma
dimenticò molte delle sue pedanterie e superstizioni
conservatrici: consumò tutte le riserve pubbliche e private,
le prede ingentissime del sacco di Siracusa e di Cartagena;
moltiplicò gli appalti e le forniture militari e con esse le
occasioni di lauti affari: rallentò il rigore con cui
sorvegliava sè stessa; sospese l’osservanza di molte
tradizioni politiche e di qualche legge, come quella sull’età
e l’ordine delle magistrature; sciolse la antica prudenza in uno
spirito nuovo e giovanile di audaeia di cui fu campione Publio
Scipione. Non sarebbe stato possibile di vincere altrimenti questa
grande guerra, che finì con splendidi acquisti: la signoria
della Spagna; l’intero dominio della Sicilia; la parte del ricco
territorio campano e leontino confiscato; la decadenza di Capua e
l’indebolimento definitivo delle popolazioni alleate d’Italia non
romanizzate; 120 000 libbre d’argento che Scipione
riportò dall’Africa e la rendita annua di 200 talenti
d’argento, che Cartagine avrebbe pagato per 50 anni.
II.
LA PRIMA ESPANSIONE MILITARE E
MERCANTILE DI ROMA NEL
MEDITERRANEO.
Ma da questa guerra incominciò una nuova storia di Roma e del
mondo, sopratutto perchè essa precipitò, in Italia,
l’avvento della êra mercantile nella antica società
agricola, aristocratica e guerresca. La guerra annibalica aveva
lasciato una grave eredità di guerre, che Roma fu costretta a
combattere, appena conchiusa la pace con Cartagine: nella Spagna,
che era piena di barbari indomiti; nella pianura del Po, dove
l’invasione punica aveva risvegliati spiriti nuovi di ribellione;
contro i Liguri, che infestavano le vie del mare tra l’Italia e la
Spagna, e latrocinavano le coste galliche e ispane; in Macedonia, il
cui re Filippo si era alleato con Cartagine. Sanguinosissima fu tra
tutte la riconquista delle regioni che ora si chiamano Romagna ed
Emilia, dove, per dieci anni a cominciare dal 200, i Galli Boi
rinnovarono ogni anno una guerra micidiale di imboscate, di
sorprese, di finte paci e di rivolte improvvise; sinchè nel
191, quando la nobiltà fu quasi tutta distrutta, il paese
devastato da capo a fondo, la popolazione atta alle armi annientata,
i superstiti si arresero; e Roma potè confiscar loro
metà del territorio29. Queste guerre però, più
che alla conquista di nuovi territori, miravano a una anticipata
difesa. Nella aristocrazia di Roma si formò in quegli anni,
con a capo il vincitore di Zama, Publio Scipione Africano, un
partito il quale, non dimenticando più il pericolo che aveva
visto correre all’Italia, durante l’invasione punica,
abbandonò le ambizioni conquistatrici, imperialiste diremmo
adesso, cresciute dopo la prima guerra cartaginese; ammonì
che i cittadini, su cui Roma poteva contare sicuramente in ogni
caso, erano poco più di 200 000 e molti di questi,
essendo piccoli possidenti, non potevano esser tenuti sotto le armi,
lontano dal paese, lungo tempo; che gli alleati avrebbero potuto
rivoltarsi di nuovo; che perciò la Sicilia, la Sardegna, la
Corsica, la Spagna, la pianura del Po componevano un dominio
già troppo vasto30. Conquistar nuovi stati, impegnarsi a
presidiarli e a difenderli, era imprudente. Roma invece, non ostante
l’esaurimento della guerra annibalica, era in grado di fare con
successo una politica di guerre brevi e di interventi molteplici che
indebolisse gli altri stati, con suo profitto; perchè essa
poteva reclutar grossi eserciti nel ceto campagnolo per guerre che
non durassero molto; possedeva ordini militari eccellenti; aveva
nella Sicilia, nella Sardegna, nella Spagna i granai, ove provvedere
agli eserciti più numerosi e lontani, senza correre il
rischio di carestie in casa; avrebbe potuto facilmente, riordinando
le sue finanze, disporre delle somme necessarie a queste guerre, che
avrebbero ben presto reso molto più della spesa. Questo
partito rapidamente prevalse; Scipione attese con zelo a riordinare
le finanze31; e la sua politica riuscì pienamente. La guerra
contro la Macedonia finì senza annessione di territori; ma la
Grecia e le città greche dell’Asia, prima sottoposte alla
Macedonia, furono dichiarate libere; Filippo dovè distruggere
quasi tutta la flotta e l’esercito, e pagare un annuo tributo di 50
talenti, per dieci anni. Oro, argento, schiavi, terre furono pure il
profitto delle guerre combattute nella pianura del Po, nella Spagna,
nella Liguria; una ingentissima preda di metalli preziosi e un
tributo annuo di mille talenti imposto al re di Siria per dodici
anni, il profitto della guerra contro Antioco (193-189), che nacque
dalla macedonica, e di quella contro i Galati, che si aggiunse alla
guerra siriaca. Ma anche questa volta i Galati furon lasciati nel
loro e i territori tolti ad Antioco divisi tra Rodi e il re di
Pergamo. Parole e illusioni generose colorirono ben presto di
idealismo questa politica; Roma combatteva non per sè, ma per
dare la libertà ai popoli oppressi.
Queste guerre però, accrescendo rapidamente la ricchezza
dell’Italia, accelerarono il rinnovamento dei costumi, dei ceti e
delle fortune, incominciato da mezzo secolo. Nei saccheggi della
Grecia e dell’Asia, nelle devastazioni della Spagna e della pianura
del Po, i generali incominciarono a largheggiare con sè e con
i soldati32, e questi a ingegnarsi per proprio conto (già
nella guerra contro Filippo di Macedonia se ne eran visti molti
esercitar l’usura tra gli indigeni33); molti poveri contadini
tornarono con un capitaletto34; nelle campagne d’Italia le
avventurose cupidigie si accesero e i volontari accorsero in gran
numero per le guerre lucrose35. Nel tempo stesso lo Stato romano
riordinò con tante prede e con tanti tributi le finanze
dissestate dalla guerra annibalica, pagò i debiti, si
trovò in grado di spendere largamente anche per opere civili;
e poichè la cultura greca diffusa in un certo numero di
grandi famiglie, i mezzi cresciuti, un certo spirito universale di
novità e di audacia, rappresentato dal partito di Scipione,
incitavano a fare, prodigò per ogni parte il denaro. L’antica
politica agraria a pro’ del medio ceto fu ripresa in grande; dal 189
al 177 sei grosse colonie, oltre molte piccole, furono fondate:
Bologna, Parma, Modena, Aquileia, Lucca, Luni, nelle quali i coloni
ricevettero campi più vasti che nelle colonie più
antiche; nel 187 si diè mano a costruire la via Emilia per
congiungere Rimini con Piacenza; nel 184 Catone intraprese, tra le
altre opere, il compimento della fognatura di Roma36; nel 180 si
trasportarono 40 000 Liguri dalle valli native nelle solitudini
del Sannio devastato; nel 177 fu aperta la via Cassia; la censura
del 174 fu celebre per il gran numero di opere pubbliche ordinate in
Roma e nelle colonie. Gli appalti di opere pubbliche e di forniture
militari spesseggiarono; e molti giovani del medio ceto, che avevan
riportato un capitaletto dalle guerre di Oriente o di Occidente, ne
cercarono e ottennero facilmente qualcuno; talora soli, talora in
società con amici; talora facendosi prestare i capitali da
qualche ricco signore, che partecipava ai guadagni. Ben presto, la
conoscenza e la pratica di questi affari si divulgarono; onde
rapidamente gli appaltatori crebbero a Roma e nelle città
d’Italia di numero, sino a formare un ceto di medi capitalisti, che
vivevano agiatamente sulle forniture pubbliche37; e dei quali alcuni
più arditi e fortunati fecero grandi fortune. Altri
appaltarono la riscossione della decima parte di tutti i prodotti –
grano, olio, vino – in Sicilia e in Sardegna; o la riscossione delle
decime e dei diritti di pascolo sulle terre pubbliche (scriptura);
altri invece arricchirono con la compra di terre private e con
l’affitto delle miniere, dei boschi e delle terre pubbliche. L’anno
seguente alla pace con Cartagine molti speculavano già, a
Roma, sulle terre dell’Italia meridionale che valevano poco, per le
devastazioni e le morti dei proprietari, comprandole38; e poi, a
mano a mano che i capitali e gli schiavi furono più copiosi,
tutta Italia speculò sul nuovo ager publicus. In tanta
abbondanza di terre molti medi possidenti, anche tra i latini e gli
alleati, ne ottennero facilmente un pezzo che aggiunsero al proprio
campo e, comprati con i risparmi della guerra alcuni schiavi, lo
misero a coltivazione39; mentre coloro che possedevano capitali
considerevoli affittarono vaste terre pubbliche o in Italia o nella
valle del Po o in Sicilia per farvi pascolare sopra da schiavi
grossi armenti di buoi, di porci, di pecore e capre. La grande
pastorizia vagante doveva render molto in quegli anni, a cagione
delle grandi spese militari; perchè la ricerca consueta dei
suoi prodotti era accresciuta dal bisogno di tanti eserciti che in
tante guerre consumavano molto cuoio per le tende, molto pelo di
capra per le macchine40, molta carne di porco salato41; onde un
certo numero di famiglie senatorie e molti privati arricchirono
rapidamente, in special modo con l’affitto dei terreni della
Sicilia42.
Ma la prosperità e i rapidi progressi dello spirito
mercantile mutarono a poco a poco l’antico modo di vivere. I soldati
tornati dall’Oriente, gli appaltatori denarosi, i ricchi fittavoli
delle terre pubbliche non vollero più vivere come i loro
nonni. Non che i rustici costumi della vecchia Italia si
raffinassero: perchè Roma era ancora spregiata in Grecia, nel
174, come un grosso villaggio senza belle vie, senza monumenti, e
palazzi43; nella metropoli stessa le case dei grandi erano pur
sempre anguste e disadorne44; l’antica e dura educazione dei giovani
non fu punto temperata45. Ma la voglia di godere, così a
lungo contenuta, proruppe negli appetiti primari e animali: la
gozzoviglia, la sensualità, la vanità, il bisogno di
commozioni violente; quella ostentazione delle cose care, e quella
profusione della ricchezza, fatta solo per mostrare agli altri di
possederla, che è il primo e goffo lusso della gente rozza,
subitamente arricchita. Roma diventò la metropoli dell’orgia
e dello sfarzo: un abile cuoco fu pagato carissimo46; i sobrii pasti
di un tempo si prolungarono in banchetti interminabili, per i quali
si ricercarono le ghiottonerie più care, come i vini della
Grecia, le salsiccie e i pesci salati del Ponto47; l’arte squisita
di ingrassare i volatili fu portata dalla Grecia in Italia48; si
videro cittadini comparir nelle assemblee ubriachi, magistrati
avviarsi al fôro mezzo brilli, con gli occhi lucenti, e
interrompere ogni tanto le loro faccende per correre alle anfore,
che gli edili facevano porre negli angoli appartati delle strade e
delle piazze, a conforto di quanti sentissero per via l’effetto del
troppo bevere49; le belle schiave e i bei fanciulli costarono
carissimi50; sicchè nel 186 il Senato dovè reprimere i
disordini dei Baccanali, e nel 181 promulgare la Lex Orchia contro
le gozzoviglie. I culti orientali, dissoluti e eccitanti,
incominciarono a divulgarsi51; non solo il pubblico medio
imparò a gustare traduzioni e riduzioni di commedie greche,
ma tra le antiche, semplici, e troppo rare feste latine, furono
intercalati nuovi e violenti spettacoli come le caccie alle belve52,
e i giuochi dei gladiatori in occasione di funerali53; la legge
Oppia contro il lusso fu abolita54; le mercanzie dell’Oriente, i
profumi, i tappeti babilonici, i mobili incrostati di oro e di
avorio, furono comprati a Roma a carissimo prezzo dai parvenus55. Le
città minori dell’Italia imitavano, nella misura delle
proprie forze, la metropoli: e come le piccole nobiltà locali
copiavano il cresciuto sfarzo dei grandi di Roma, scialando come
essi in feste e banchetti; così il contadino dell’Umbria o
delle Puglie, che aveva militato nei ricchi paesi di Oriente,
ritornava a casa, come oggi il nostro contadino congedato dal
reggimento, con maggiori desideri e bisogni. Molti nel medio ceto
rustico, presero a noia le dure fatiche così care ai loro
padri; andarono alla guerra con un servitore che portasse il
fardello e preparasse il cibo56; tennero un maggior numero di
schiavi sul podere, per faticar meno essi.
Ma questi nuovi bisogni e lussi del medio ceto e dei ricchi
aumentavano a lor volta, in Roma e in Italia, il lavoro agli
artigiani, le occasioni di lucro ai piccoli e grandi capitalisti.
Molti Romani e Italiani, che, come soldati o fornitori al seguito
degli eserciti, avevano conosciuti i paesi forestieri, le loro
merci, i loro prezzi, furono stimolati alla mercatura dalla
abbondanza del capitale, dal crescente consumo di merci asiatiche in
Italia, dalla potenza sempre più vasta di Roma nel
Mediterraneo; comprarono, venduto il campo avito, una nave; alcuni
(i più, a quanto sembra, dell’Italia meridionale) si
stabilirono, dopo il 192, a Delo, e vi aprirono depositi di
mercanzie asiatiche, per i mercanti che venivano dall’Italia a
empire di vari oggetti la loro nave57, e ai quali era più
comodo di far capo a Delo che a Rodi o a Corinto; altri esercitarono
il commercio tra Delo e Roma, o nel Mediterraneo occidentale. Sulle
coste italiane si impiantarono molti piccoli cantieri; i boschi
pubblici della Sila, ove si raccoglieva la pece, furono appaltati a
gran prezzo, tanto il consumo cresceva, per le molte navi
costruite58; perfino membri della nobiltà senatoria
parteciparono ai lucri di questa mercatura transmarina, prestando a
romani del medio ceto o a liberti, i capitali necessari per
commerciare59. All’espansione militare seguiva l’espansione
mercantile. A Roma intanto, crescendo i mestieri e i commerci con la
ricchezza e la popolazione, si aprirono, poco dopo la fine della
seconda guerra punica, i primi bagni pubblici60 e nel 174 i primi
forni, per gli artigiani e mercanti scapoli o senza schiavi che
fabbricassero il pane in casa61; molti artefici greci ci furono
portati dai generali per preparare le loro feste e i loro trionfi62;
molti orefici si mutarono in cambisti, tanta moneta straniera veniva
a Roma da ogni parte, e molti cambisti, incoraggiati dai guadagni e
dall’abbondanza del capitale, diventarono banchieri, accettarono
depositi e fecero prestiti; molti stranieri e italiani vennero ad
aprir taverne, bagni, tintorie, bottega di calzolaio, di orefice e
di sarto63; a far gli impresari teatrali e gli scrittori di
commedie. Un Umbro di Sarsina, Plauto, dopo aver fallite diverse
speculazioni ed esercitati molti umili mestieri per vivere, faceva
allora a Roma denari, riducendo, con molto spirito comico e
abilità letteraria, commedie greche per il pubblico romano.
La gente di campagna traeva insomma in sì gran numero a Roma
dal contado, che le città latine se ne lagnarono al Senato
nel 187 e nel 17764. Con la popolazione cresceva il prezzo dei
terreni; le case di speculazione, altissime, di legno, amministrate
da un liberto o da un fìttavolo generale, nelle quali gli
artigiani o i piccoli mercanti di Roma affittavano a carissimo
prezzo una stanza, resero moltissimo65; nelle vicinanze di Roma si
affittarono con gran lucro i corsi d’acqua per tintorie, gli stagni
e le sorgenti calde per bagni, gli orti66; chi possedeva già
o seppe comprare a tempo terreni in Roma arricchì
rapidamente.
Infine, per effetto di questo universale arricchimento crebbe
rapidamente il commercio degli schiavi. In Italia tutti ebbero
bisogno di lavoranti, in quei trenta anni: i fittavoli delle terre
pubbliche, per gli armenti; gli appaltatori, per i lavori pubblici e
le forniture militari; lo Stato, per i bassi servizi pubblici; i
mercanti navigatori, per le ciurme dei vascelli; i ricchi, per il
servizio domestico e per i giuochi dei gladiatori; i piccoli
possidenti e il medio ceto, per alleggerirsi le fatiche più
gravi. Ma nella civiltà antica ogni nazione che, crescendo di
ricchezza e di potenza, avesse bisogno a un tratto di molti
lavoranti, non trovava mai numero sufficiente di uomini disposti a
lavorare per una mercede contrattata senza altra costrizione che il
proprio bisogno, e doveva perciò servirsi di schiavi;
perchè il barbaro (e in questo l’uomo antico anche se era
civile rassomigliava al barbaro) ama poco il lavoro e meno ancora la
subordinazione; onde lavora un poco, come artigiano e mercante, se
non è sottoposto a nessuno; si acconcia a dipender da altri,
come cliente armigero bravo, se non deve lavorare; ma a lavorare e a
dipender da altri non si piega mai volontariamente, e preferisce
mendicare o rubare. Infatti l’Italia avviò un gran commercio
di schiavi non solo negli accampamenti, dove i prigionieri di guerra
erano venduti subito, a vilissimo prezzo, agli ufficiali, ai
soldati, ai mercanti che seguivano l’esercito; ma su tutte le
frontiere dell’impero, con i reattoli e capi barbari che, come i
negrieri dell’Africa, vendevano i prigionieri di guerra e qualche
volta anche i loro sudditi. Dalla estrema Gallia, dalla Germania,
dalle montagne del Caucaso, lunghi convogli di schiavi incatenati
scendevano continuamente verso le ridenti rive del Mediterraneo e
del mar Nero, alla volta di Marsiglia, di Aquileia, di Panticapea,
di Fanagoria, di Dioscuriade dove i mercanti indigeni e italiani li
aspettavano; li pagavano ai capi barbari o ai loro agenti con vino,
sale, oro e argento; li imbarcavano o direttamente per l’Italia o –
quelli che venivano dal mar Nero – per Delo, dove i mercanti
venivano a cercarli per l’Italia, insieme con le altre mercanzie
asiatiche67. Molti italiani arricchirono con il commercio degli
uomini; altri, datisi invece in Roma o in Italia all’allevamento
degli schiavi, facevano educare giovinetti a mestieri o professioni
per rivendierli68; o li addestravano alla scherma, per affittarli
poi come gladiatori, nei funerali di lusso.
I primi trenta anni del secolo secondo avanti Cristo furono per
l’Italia una di quelle età felici, in cui anche chi comincia
con poco capitale può far fortuna; perchè il tenor di
vita, i desideri, l’industria, il commercio, le idee, la audacia,
tutto insomma ingrandisce rapidamente e insieme; onde il lavoro
abbonda, i bei guadagni son facili, da ogni ricchezza nuova nascono
molte nuove occasioni di lucro, le ricchezze figliano con
fecondità progressiva, e la accumulazione dei capitali
è rapida, facile, intensa. Molti poveri divennero agiati,
molti agiati ricchissimi; accanto alla nobiltà storica crebbe
una borghesia nuova di capitalisti milionari, arricchitisi con il
commercio degli schiavi, la mercatura transmarina, l’affitto dei
terreni e delle miniere dello Stato, le forniture militari, le
speculazioni edilizie, che erano iscritti dai censori nelle centurie
dei cavalieri; lo spirito mercantile si divulgò in tutte le
classi, dal popolino all’aristocrazia, vincendo a poco a poco, anche
negli spiriti più tenaci, i pregiudizi e le avversioni
dell’êra agricola: esempio Catone, il primo che entrò
in Senato di una famiglia di medi possidenti della Sabina; il quale,
se in principio aveva voluto essere lo sterminatore degli usurai e
il modello del landlord di antico stampo, si buttò poi agli
affari, diventò un uomo moderno: usuraio, speculatore di
terreni, allevatore di schiavi, socio di mercanti armatori69.
Eppure sotto quella prosperità si preparava un mutamento
immenso e terribile in ogni cosa. In ogni classe incominciò
il contrasto tra il vecchio e il nuovo, che ne alterò a poco
a poco la composizione. Se la plebe romana, rimasta in campagna,
viveva ancora al modo antico, parca, feconda, onesta, rispettosa
della nobiltà, della legge, quella parte invece del cittadini
che, inurbatasi, si era data ai mestieri, alla mercatura, alla
navigazione, agli appalti, contraeva tutti i vizi della plebe delle
ricche città mercantili: l’eccitabilità, la
viziosità, l’avidità, il bisogno di comodi e di
sollazzi, lo spirito critico e l’indisciplina, l’egoismo del
celibato, la furfanteria; si esaltava a smisurato orgoglio, per la
grandezza di Roma e la propria agiatezza; perdeva a poco a poco la
originaria purezza latina della stirpe, mutandosi in torbida miscela
di gente di ogni razza e paese, a mano a mano che gli schiavi
orientali, spagnuoli, galli, ispani, scitici liberati diventavano
cittadini di Roma. Ben presto i vecchi dell’età annibalica
non riconobbero più la loro Roma di un tempo, tranquilla e
composta. Che chiassi invece salutavano ormai ogni scaramuccia
vittoriosa su qualche tribù barbara! L’onor del trionfo era
prodigato a tutti i generali70, purchè essi piacessero per la
poca durezza della disciplina, per la generosità dei doni
trionfali, per la prestezza nel finire la guerra. Tutti a Roma erano
ormai professori di strategia e di tattica; nel campo stesso e in
faccia al nemico questi petulanti plebei denarosi criticavano le
mosse del generale e obbedivano di malavoglia71; spregiavano ormai,
come sudditi i latini e gli alleati72.
Nella nobiltà storica invece, molte famiglie, come avviene
sempre quando la civiltà muta, seppero così poco
approfittare delle numerose occasioni nuove di guadagno che si
offrivano nella êra mercantile incominciata, come poche
famiglie nobili della vecchia Europa hanno saputo, nel nostro
secolo, fondare industrie o speculare in Borsa; ma continuarono a
vivere al modo antico, sui patrimoni aviti, larghi per la ricchezza
di un tempo; come gli Elii, che vivevan tutti, essendo sedici e
ciascuno con i figlioli, in una casa sola sul reddito di un
podere73; come i Fabrizi Luscini, gli Atilii Calatini, i Manlii
Acidini74, i Paolo Emilii75. Altri invece, pur arricchendo,
conservarono, come tradizione gentilizia, i costumi e le idee
antiche, gloriandosi di essere i campioni della tradizione: tale
Tiberio Sempronio Gracco, che, come pretore, aveva pacificata la
Spagna, conchiudendo equi trattati di alleanza con i principali
popoli; e la aveva salvata dai capitalisti, introducendo nella
provincia, per tributo, non la decima appaltata ai pubblicani, che
vigeva in Sardegna e Sicilia; ma lo stipendium, una contribuzione
fissa, parte in denaro e parte in natura, che era riscossa dal
governatore76. Ma ben presto apparve, anche nell’aristocrazia
romana, una generazione di politici giovani, ambiziosi, orgogliosi e
cupidi, i quali concitarono il moderato e intellettuale spirito di
innovazione rappresentato da Scipione e dal suo partito, in uno
sforzo rivoluzionario, inteso a far prevalere nella vita privata e
pubblica, contro all’antico spirito di disciplina familiare e
sociale, le più violenti passioni personali: la cupidigia,
l’orgoglio, la fretta di riuscire a ogni costo, la prepotenza, il
disprezzo della tradizione, la facile ammirazione della
civiltà greco-asiatica. Gli uni concorrevano alle
magistrature prima dell’età legale77; altri osarono
corrompere apertamente gli elettori78; altri presero a speculare o
ad arricchire con le magistrature, facendosi cedere dai censori
amici terre pubbliche oltre la misura fissata dalle leggi Licinie,
usurpandole come proprie79, tenendosi il denaro ricavato dalla
vendita del bottino, depredando le popolazioni soggette e gli
alleati80; altri inferocirono e depravarono la diplomazia di Roma,
spregiando come una pedanteria quel diritto delle genti che Roma
aveva osservato sino allora scrupolosamente nel guerreggiare.
Disprezzar tutti gli stranieri, volere aver sempre ragione,
prepotere dovunque e riuscir con ogni mezzo, furono i principii
della nuova diplomazia; che abbassò gli stati alleati, Rodi,
il re di Pergamo, l’Egitto alla abiezione di vassalli; che
incoraggiò in Grecia e nelle città indipendenti
dell’Asia le discordie e lo spionaggio, e vi protesse i partiti e
gli uomini peggiori, pur di dominare sicuramente; che
considerò lecita ogni perfidia contro i barbari, anche
assalirli e sterminarli senza provocazione o dichiarazione di
guerra81, salvo a proteggerli contro gli stati civili, quando pareva
vantaggioso82. Negli eserciti le turmae, – i reggimenti, diremmo noi
– di cavalleria, nei quali servivano i giovani delle ricche
famiglie, divennero il gran fastidio dei generali, per la loro
indisciplina83; in molte famiglie nobili le donne acquistaron
maggior libertà, si tolsero di dosso la tutela perpetua del
marito e degli agnati, si assicurarono la libera amministrazione
della dote; gli adulterî e i divorzi divenner frequenti e il
tribunale domestico non fu quasi più convocato. Le famiglie
nobili che, altere e austere, conservavano le tradizioni antiche;
gli uomini insigni per intelletto e carattere; i vecchi avanzi
dell’età annibalica; i pedanti, i brontoloni, gli invidiosi
delle nuove fortune rammaricavano allora, per motivi diversi, come
Dante al principio del quattordicesimo secolo, e come i clericali e
i conservatori adesso, i tempi in cui Roma
si stava in pace sobria e pudica;
lamentavano la brutale cupidigia dei pubblicani, la corruzione delle
famiglie, la perfidia della nuova diplomazia84, la contaminazione
dei costumi romani con usanze asiatiche; di tempo in tempo
riuscivano a fare approvare qualche legge che intendeva reprimere
l’audacia dei nuovi abusi; o facevano eleggere a magistrato qualcuno
dei loro. Talora anche qualche scandalo più grande del solito
commuoveva e indignava il pubblico.... Ma gli sdegni a poco a poco
sbollivano, i magistrati scadevano; i discorsi e le leggi eran poi
dimenticati; i processi posti a dormire85; la severità dei
vecchi tempi si rilassava in indulgenza, non solo nell’opinione
pubblica, ma anche nelle leggi, che nei primi trenta anni del
secolo, abolirono la pena delle verghe e della morte per i cittadini
romani a Roma e nelle provincie; abolirono la pena delle verghe e
ordinarono una procedura meno speditiva per le condanne a morte,
nell’esercito86.
A mano a mano che la cupidigia, il lusso, l’orgoglio personale e
familiare si diffondevano nella nobiltà, lo spirito di
clientela e di casta, i riguardi di amicizia e di famiglia,
l’ambizione, l’avidità del denaro prevalevano sul sentimento
del dovere; e gli sforzi per accelerare la rivoluzione mercantile
dell’antica società rustica si facevano più intensi,
deliberati e risoluti. Parecchi censori, come Tito Quinzio
Flaminino, Marco Claudio Marcello, Marco Emilio Lepido, Marco Fulvio
Nobiliore rimaneggiarono, a più riprese, nei primi trenta
anni del secolo, le liste della cittadinanza, con lo scopo
d’accrescere nel corpo elettorale la potenza della infima plebe
urbana, meno conservatrice e più corruttibile, a danno del
medio ceto rustico; e non solo iscrissero facilmente tra i cittadini
i latini venuti a Roma a esercitare il piccolo commercio e i
mestieri; ma diedero i pieni diritti politici agli schiavi liberati,
che erano tutti forestieri, facendoli votare nelle 31 tribù
rustiche, servendosene quindi a diminuire la prevalenza degli
elettori di campagna in tutte le circoscrizioni, e componendo
così un corpo elettorale cosmopolita ed eterogeneo, con una
politica demagogica di larga accoglienza, che non ha riscontro forse
che in quella presente degli Stati Uniti. Singolari ironie della
storia! Una demagogia cosmopolita, reclutata tra gli stranieri
capitati per caso nella metropoli, come inquilini avventizi, da
quella parte della nobiltà che si corruppe prima di spirito
mercantile, operò il rivolgimento decisivo da cui doveva
nascere la politica imperiale e l’impero di Roma, contro le
riluttanze della popolazione schiettamente romana, che non voleva
uscire dai costumi, dalla morale, dalla politica dei padri suoi87.
Con lo spirito mercantile però, con la potenza mondiale, il
cosmopolitismo e il logorio della schietta nazionalità romana
progrediva la cultura intellettuale: ultima e terribile forza
dissolvitrice della vecchia società. La filosofia greca,
specialmente lo stoicismo, si divulgava nelle famiglie nobili,
allargando lo spirito alla comprensione delle idee generali; le
teorie politiche, elaborate dai greci sulla democrazia, sulla
aristocrazia, sulla tirannia cominciarono ad essere note e discusse
nella nobiltà che aveva sino allora governato solo con
l’empirismo tradizionale; i tentativi letterari cominciati da mezzo
secolo, riuscirono alla fine, in mezzo al fermento di questa
rinnovazione etnica, intellettuale e sociale di Roma, e per opera di
scrittori usciti dal popolo cosmopolita che si mescolava nell’Urbe,
alla felice creazione delle prime opere abbastanza originali finite
ed intere, da poter essere ammirate poi come classiche. L’umbro
Plauto scrisse, in una lingua vivace e potente, le più belle
commedie latine; dalla Calabria mezzo greca venne a Roma Ennio, il
padre della letteratura latina, che introdusse nel Lazio l’esametro,
perfezionò la lingua, verseggiò la storia di Roma per
lusingar l’orgoglio, e un trattato sulla buona cucina per compiacere
la golosità dei suoi protettori; un pittore e poeta di
Brindisi, Pacuvio, scrisse tragedie che restarono lungamente famose;
e commedie scrisse Stazio Cecilio, un gallo insubre, probabilmente
milanese, catturato forse nelle guerre per la conquista della Gallia
Cisalpina e venduto schiavo a Roma. Invece la pittura e la scultura
greche erano ancora mal note, e gli artisti delle colonie greche
dell’Italia meridionale lavoravano soli per tutta Italia e per Roma.
La guerra contro Perseo (172-168), il figlio di Filippo di
Macedonia, che aveva tentato di riconquistare i dominî perduti
dal padre, parve determinare una reazione contro lo spirito
mercantile della nuova età. La guerra, per l’inettitudine dei
generali e la indisciplina dei soldati, cominciò male, con
clamorose disfatte, che per un istante fecero vacillare il prestigio
di Roma nell’Oriente; sinchè il popolo, ravvedutosi, elesse a
comandare la guerra Lucio Paolo Emilio, un illustre avanzo della
generazione che aveva combattuto contro Annibale, che da molti anni
viveva in disparte, negletto dalla gente nuova, perchè poco
amico dei suoi costumi e della sua politica. Egli infatti
ridisciplinò l’esercito; non prese nulla per sè
dell’immenso bottino; ne divise poca parte tra gli amici e i
soldati, serbandolo quasi tutto all’erario; e fu certo l’autore
delle principali clausole di pace, che il Senato approvò: non
annettere, ma dividere la Macedonia in quattro distretti, ciascuno
con governo proprio e senza facoltà di commerciare tra loro;
imporle un tributo eguale alla metà di quello che la
Macedonia pagava al re; chiuderne le miniere d’oro, affinchè
i capitalisti italiani non invadessero il paese88. Mentre egli
combatteva in Macedonia, a Roma i censori Tiberio Sempronio Gracco e
Gaio Claudio rivedevano con gran severità le liste dei
cavalieri, cercavano di infrenare l’avidità degli appaltatori
e di scemar la potenza della demagogia cosmopolita, scacciando dalle
tribù urbane i liberti e iscrivendoli tutti, a quanto pare,
in una sola tribù89. Per un momento il senato e i comizi,
spaventati, parvero voler rifare a ritroso il cammino della storia
verso le età ormai passate90. Ma il ravvedimento durò
poco. Non solo alla pace seguì, per le immense somme versate
da Paolo nell’erario, un rapido arricchimento di tutte le classi91;
ma dopo la guerra Roma predominò definitivamente nel
Mediterraneo: onde esasperata dalla umiliazione delle prime disfatte
ed esaltata da tanto successo, la arroganza romana si rizzò,
dopo la vittoria, invelenita, sitibonda di vendetta. I re di Bitinia
e di Pergamo videro superbamente respinti i loro omaggi; Antioco IV
Epifane, re di Siria, ricevette da Popilio, brutalmente, come un
servitore, l’ordine di levare l’assedio di Alessandria; chi
nell’Asia e nella Grecia aveva anche soltanto esitato a parteggiare
per Roma, fu severamente punito; Delo data agli Ateniesi, Antissa
rasata, in tutte le città della Grecia i personaggi cospicui
uccisi o deportati in Italia; tra gli Achei non meno di mille; e tra
questi il più grande storico dell’antichità: Polibio.
Molti volevano perfino la distruzione di Rodi; dicendo che aveva
desiderata la sconfitta di Roma durante la guerra, ed era troppo
superba; in verità per depredarla92. Ma il Senato si
contentò di rovinar Rodi, dove erano grandi magazzini di
deposito, e che dalle dogane ricavava redditi ingenti93, dichiarando
porto franco Delo, il cui emporio rapidamente ingrandì sino a
rivaleggiare con Cartagine e Corinto94.
Ma dopo la guerra perseica tutto ristagnò a poco a poco, per
un rallentamento quasi direi meccanico: la guerra, il commercio, la
speculazione. Domata la Gallia Cisalpina, la Liguria e la Spagna, e
l’Oriente giacendo umile dopo Pidna, le occasioni di interventi e di
guerre considerevoli mancarono tra il 168 e il 154; onde le
forniture militari furono scarse e i lucri straordinari, che la
nobiltà e i contadini portavano a casa dalle spedizioni,
vennero meno. I lavori pubblici e gli appalti, invece di aumentare
ogni anno, si ridussero intorno a una misura costante,
dopochè furono compiute, nel trentennio precedente, le grandi
opere necessarie alla nuova condizione di Roma e dell’Italia;
cosicchè il tesoro dello Stato, non potendo più
spendere tutto, rigurgitò di denaro, a tal segno che nel 157
vi ristagnavano 16 810 libbre d’oro, 22 070 libbre
d’argento e più che 61 milioni di libbre di denaro
monetato95. Anche la speculazione sui terreni pubblici ristette,
perchè la maggiore e miglior parte dell’ager publicus era
ormai stata affittata, divisa tra colonie o rubata; anche il
commercio non progredì più così rapidamente,
rallentata la prima foga dello spendere quando i subiti guadagni
furono più rari. La generazione nuova che crebbe, in mezzo
alla prosperità seguita a questa guerra di Perseo, non si
trovò più, a mano a mano che avanzò nella vita,
come la generazione precedente, in una facile età di rapidi
arricchimenti: ma non rallentò quel rivolgimento di costumi
per cui i bisogni e il dispendio del vivere crescevano, anzi si fece
più intenso in questa generazione, che fu più cupida
di piaceri, di denaro, di eccitamenti, più schiva di dure
fatiche che la generazione precedente. Avviene sempre così
nella storia: il desiderio di ingrandire il proprio modo di vivere
nasce da prima in pochi, ma se questi non sono vinti dalla
resistenza dell’antico ordine di cose, che essi debbono in parte
guastare per soddisfarsi, e sinchè è possibile
accrescere la ricchezza, aumentano di anno in anno, di generazione
in generazione il numero di coloro che vogliono partecipare alla
ricchezza del vivere nuovo e la misura dei godimenti desiderati da
ognuno, per il contagio dell’esempio, per la indefinita forza di
esaltazione insita nelle passioni umane, per la necessità
quasi direi meccanica degli eventi; perchè a mano a mano che
l’antica società perisce, un maggior numero di persone, non
potendo più vivere al modo antico, è costretto a
cercar di vivere al modo nuovo. Tutto allora si muta, tradizioni,
istituzioni, idee, sentimenti, secondo è necessario
affinchè l’universale bisogno di un vivere più pieno e
più ricco sia soddisfatto. Avvenne così nel secondo
trentennio del secolo, che il costo della vita crebbe non solo in
Roma, ma in tutte le campagne dell’Italia; perchè i bisogni
aumentarono; perchè la crapula96 e la dissolutezza97 fecero
rapidi progressi in tutta la società italiana, rovinando
corpi, anime e fortune; perchè il prezzo degli oggetti
industriali che il possidente comprava dovè crescere per
l’abbondanza del denaro, sebbene ci sia difficile determinare di
quanto; mentre invece le entrate di molti possidenti diminuirono,
quando al ceto campagnuolo di tutta Italia, cresciuto di numero per
l’aumento naturale della popolazione durante una generazione,
scarseggiarono i lucri straordinari delle guerre. Intorno a Roma
infatti, a mano a mano che la popolazione e la ricchezza dell’Urbe
crescevano, la terra rendeva molto; anche la Gallia Cispadana, la
recente conquista della Emilia e della Romagna, sembra aver sofferto
meno delle altre regioni98, certo perchè la via Emilia era
molto frequentata dagli eserciti che andavano nella valle del Po; da
mercanti e convogli di schiavi; da armenti e mandre che venivano a
Roma; cosicchè nelle città fondate lunghessa le
derrate delle campagne vicine si vendevano bene. Non così
invece nelle campagne poste intorno a città solitarie,
lontane dalle grandi vie, specialmente nell’Italia meridionale. I
possidenti italici coltivavano allora principalmente grano,
secondariamente vigna e uliveto99; ma il grano, come avveniva in
tutto il mondo antico, anche nei paesi aperti da comode strade,
doveva esser venduto nei mercati vicini, perchè la spesa e il
rischio del lontano trasporto lo avrebbero rincarito talmente che
non avrebbe più potuto vendersi; mentre le altre derrate,
come il vino e l’olio, erano scarse, cattive e spesso non potevano
essere esportate per mancanza di vie. Avveniva perciò che
quando il piccolo o il medio possidente di un lontano paese
d’Italia, stretti dal bisogno di denaro, per le spese crescenti,
producevan di più o consumavano essi medesimi meno, per
vendere, i prezzi precipitavano sul mercato povero e angusto a tale
viltà, che faceva stupire l’abitante della opulenta e
carissima Roma100.
Nelle campagne d’Italia infierì il flagello dell’usura; ben
presto molte famiglie che da secoli sedevan tranquille intorno al
focolare avito, doveron levarsi e andare alla ventura, per le strade
dell’Italia e del mondo; l’antica agricoltura italica
incominciò a rovinare e con essa a sprofondarsi lentamente,
nell’oceano della storia passata, l’Italia multilingue e federale,
osca, sabellica, umbra, latina, etrusca, greca, gallica, delle
innumeri città turrite e murate, delle solitarie
repubblichette alleate, delle colonie latine e dei municipi romani.
Molti dei finanzieri e dei senatori che, sul principio del secolo
seguente, primeggiarono in Roma, nacquero di famiglie originarie dei
municipi e delle colonie latine101; è dunque verisimile
supporre che mezzo secolo avanti molte cospicue famiglie dei
municipi, delle colonie latine, delle città alleate,
incominciando a impoverire, venissero a Roma, dove, lontano da
coloro che li avevano visti nella prosperità, potevan senza
vergogna vivere modestamente e sperar di rifarsi; che nelle famiglie
del medio ceto molti giovani abbandonassero la campagna per la
vicina città, sperando di arricchire, come avevano udito
esser riuscito a tanti; e i più, trovando scarso il lavoro
nelle piccole città che la emigrazione delle famiglie
cospicue e lo squallore crescente del contado impoverivano, fossero
sospinti a Roma.... La lotta per la vita cominciò a farsi
dura in Roma e in Italia; in tutti i mestieri e traffici che
potevano essere avviati con poco capitale il concorso crebbe e i
guadagni scemarono; la miseria cominciò a ristagnare in tutta
Italia in larghe paludi miasmatiche, che avrebbero presto, come
sempre avviene, avvelenata anche l’aria respirata dai ricchi; e in
Roma, dove i più traevano, seguendo la fama di opulenza della
metropoli, la carestia diventò un tormento ed una umiliazione
quasi perenne della sua crescente grandezza. Roma, a mano a mano che
la popolazione aumentava, doveva cercare su mercati più
lontani le provviste maggiori di grano necessarie a nutrirsi; ma
quanto più gli estremi mercati si allontanavano, il pane
rincarava a Roma; onde appena ricorresse un’annata cattiva, il
popolino soffriva la fame e si indebitava con i fornai102.
A questo si aggiunse un altro male, ancor più grave:
l’impoverimento, la disparizione e la corruzione della vecchia
nobiltà romana; il progressivo disfacimento fisico, economico
e morale della classe dirigente di Roma. Nelle famiglie nobili
arricchite nel primo e felice trentennio del secolo, l’orgoglio, la
crapula, la dissolutezza precoce corruppero molti giovani, che
crebbero inetti, leggeri, malati, stupidi, viziosi; in quelle
famiglie che, per inettitudine o per orgoglio, avevan trascurato di
accrescere le proprie ricchezze, se una generazione aveva potuto
ancora vivere al modo antico in mezzo al lusso, la seguente cede
alla forza dell’esempio; e molti giovani si rovinaron di debiti; gli
uni smisero la clientela, venderon la casa avita, si ridussero in
casa d’affitto103, cercando di sparir nella folla e vivere sugli
avanzi della fortuna; altri si studiarono di far denaro con la
politica. Roma non fu più governata da una nobiltà che
considerava l’esercizio del potere come un dovere gentilizio, ma in
parte da una nobiltà ricca e degenerata, in parte da una
nobiltà bisognosa, che voleva procurarsi ricchezze; e che pur
disprezzando per invidia i milionari recenti iscritti nell’ordine
dei cavalieri ne divenne molto amica, per ragioni che è
facile supporre; sebbene la corruzione non fosse ancora sfrontata e
palese. Qualche scandalo scoppiava talora; come quello del pretore
Ostilio Tubulo, che nel 142 fu scoperto a vender la sentenza in un
processo d’assassinio104; ma chi poteva vigilare la invisibile
corruzione dei pranzi e delle orgie, a cui i ricchi banchieri
invitavano, per spegnerne gli ultimi scrupoli, gli ingordi nobili
bisognosi; la corruzione degli aiuti prestati nelle elezioni con il
denaro e le clientele; dei doni segreti; delle partes – carature,
diremmo noi, – nelle società di pubblicani? E intanto –
sebbene gli ingenui non capissero per qual ragione – le miniere
d’oro della Macedonia, chiuse da Paolo Emilio, erano, dieci anni
dopo, con le terre del re di Macedonia, affittate a capitalisti
romani105; ogni volta che ricchi capitalisti romani erano chiamati
in giudizio dal senato per colpe o negligenze eran sempre difesi da
illustri patroni ed assolti106; i ricchi finanzieri si vedevano
ormai sedere in posti riservati e d’onore al teatro, e usurpare i
distintivi del rango senatorio107. Peggio ancora, si decomponeva
l’esercito. A mano a mano che crescevano l’agiatezza, l’orgoglio, la
viziosità, la cupidigia di quella oligarchia mercantile di
artigiani, liberti, appaltatori, armatori che componevano ora il
popolo romano; a mano a mano che la nobiltà degenerando
perdeva il rispetto e le ricchezze, e invece di spendere
munificamente il suo per il bene comune, ambiva il potere per
guadagnare, lo spirito democratico, l’idea che il popolo fosse
signore di ogni cosa e comandasse a tutti faceva rapidi
progressi108; e se divulgandosi non minacciava ancora di rovina lo
Stato, aveva già distrutto la disciplina dell’esercito. I
consoli nelle leve esentavano in gran numero, per non farsi dei
nemici, i cittadini romani, specialmente gli agiati cui la milizia
in lontani paesi, che li toglieva ai traffici e ai piaceri della
città, era un peso insopportabile; in guerra gli ufficiali
non osavano più castigare i cittadini, che votando nei comizi
si sarebbero poi vendicati; li lasciavano condurre nel campo schiavi
e prostitute, ubriacarsi, prendere il bagno caldo, commettere
crudeltà e rapine, fuggir le fatiche e i pericoli,
cosicchè la poltroneria e la viltà prorompevano in
tutti gli eserciti109. Si eran studiati tutti i ripieghi per scemare
agli impoltriti signori dell’impero il peso della milizia: abbassare
il censo degli obbligati al servizio; ridurre questo a sei anni e
congedar per sempre i soldati che avessero fatto sei campagne110;
aumentare i contingenti delle colonie latine e degli alleati, tra i
quali i robusti contadini abbondavano ancora111. Ma ora che le
legioni dei cittadini romani erano non il modello, ma lo scandalo
degli accampamenti, non si poteva più mantenere la disciplina
nelle coorti degli alleati e dei latini; e gli eserciti degeneravano
in scuole di gozzoviglia, di rapina e di crudeltà.
Da questa lenta decomposizione di una società guerresca,
agricola e aristocratica, incominciata quando essa avea già
conquistato il predominio militare nel Mediterraneo, per opera della
plutocrazia e dello spirito mercantile, nacque quello che noi
chiameremmo il vero imperialismo romano. Lo spirito di violenza
brutale e l’orgoglio, crescenti con la ricchezza e il dominio in
tutte le classi; la cupidigia della nobiltà e dei
capitalisti; lo spavento per la progressiva decadenza militare,
inferocirono la savia politica di interventi immaginata da Scipione
in una politica di distruzione e conquista, che incominciò
con la terza dichiarazione di guerra a Cartagine (149), e
seguì poi con la conquista della Macedonia (149-148) e della
Grecia (146). Nel 154 era nata in Spagna una guerra, che tutti
credettero piccola, con un oscuro popolo alleato; ma ben presto le
disfatte si seguirono, e peggio ancora, quando a Roma si seppe che
la guerra di Spagna sarebbe stata non una passeggiata militare, ma
una lunga e difficile prova, non si trovarono più nè
soldati nè ufficiali disposti a partire. Questo scandalo, che
rivelò a tutti l’indebolimento militare di Roma, di cui gli
osservatori perspicaci avevano osservati i primi segni durante la
guerra perseica, acuì le inquietudini nate da un pezzo per la
crescente prosperità e ricchezza di Cartagine; Catone riprese
con vigore la propaganda da lui già tentata più volte
per indurre Roma a distruggere la sua antica rivale prima che questa
distruggesse lei; e il disegno fu favorito questa volta dai ricchi
capitalisti, i quali volevano impadronirsi del commercio tra
l’interno dell’Africa e il Mediterraneo; dalla nobiltà
bisognosa, che sperava di guadagnare nella guerra; dagli
appaltatori, che speravano abbondanza di affari; dalla plebe urbana,
per orgoglio e selvaggio spirito di prepotenza. Invano gli ultimi
scrupoli della antica lealtà romana tentarono di impedire la
iniqua distruzione di una città che viveva in pace; dopo una
perfida dichiarazione di guerra, dopo vergognose sconfitte, dopo
molti sforzi e tre anni di guerra, Cartagine fu incendiata da
Scipione Emiliano; e il suo commercio passò in parte ai
mercanti romani112. Nel tempo stesso, incoraggiate dai rovesci delle
armi romane in Africa e in Spagna, la Macedonia e la Grecia si
ribellavano; ma vinte, l’una e l’altra erano trattate ferocemente;
ridotte a provincie, annesse all’impero, saccheggiate. Anche la
splendida Corinto fu incendiata, a spavento della Grecia. Qualche
anno dopo, nel 143, il console Appio Claudio, nel Piemonte ancora
selvaggio, il Transvaal dei capitalisti di quel tempo, assalì
senza provocazione i Salassi, tolse loro parte dei territori
auriferi; e subito una società romana affittò le
miniere, vi trasportò più di 5000 schiavi e fece di
Victumule, nel Vercellese, la sede del commercio dell’oro in
Piemonte113. Ai primi sintomi di debolezza e di decadenza, lo
spirito pubblico proruppe a Roma in un violento accesso di orgoglio
e di ferocia, che, come un turbine, spiantò dalle fondamenta
Corinto e Cartagine.
Erano invece spaventati gli uomini illuminati, come Catone, come
Sempronio Gracco, come Scipione Emiliano, come Metello il
Macedonico, come Gaio Lelio, Mucio Scevola, Licinio Crasso Muciano.
Costoro capivano che gli accessi di furore avrebbero non curata, ma
accelerata la decadenza: che cosa sarebbe infatti successo di Roma
se le campagne avessero continuato a indebitarsi e a spopolarsi? se
tutti i cittadini romani si fossero mutati di contadini in mercanti,
appaltatori, artigiani e mendicanti? se il lusso, la ignavia, la
corruzione della nobiltà fosse cresciuta? Se Roma infatti
aveva potuto distruggere Cartagine e Corinto, le barbare popolazioni
spagnuole resistevano, e la guerra continuava interminabile in
Spagna, non ostante le devastazioni e i massacri orribili dei
generali romani, stremando l’erario e l’esercito. L’istinto di
conservazione dei singoli, che in ogni età fa resistenza alla
storia e vorrebbe salvarsi dai dolori necessari del progresso, si
spaventava; e da ogni parte risonava il lamento per quella
afflizione che tormenta i saggi, in ogni età in cui una
civiltà muta; e mutandosi, molte antiche cose buone e molte
cattive periscono insieme, per una necessità di rapporto che
sfugge spesso allo spirito dei contemporanei. L’uomo, in mezzo alle
confuse vicende della storia, giudica delle cose dal loro primo
effetto; ripugna per istinto alla distruzione delle cose buone;
paventa sempre rovine definitive, in mezzo alla terribile vicenda
delle civiltà periture e delle civiltà nascenti, che
rassomiglia alle vicende delle notti e dei giorni nelle estati
iperboree: un lunghissimo giorno, un lungo crepuscolo, l’estinzione
di ogni cosa nella piena oscurità della brevissima notte; poi
di nuovo il crepuscolo dell’aurora che risuscita il mondo. Ma
quando, dopo aver vissuto il giorno splendente di una
civiltà, vede calare il lento crepuscolo, l’uomo, temendo che
la luce si spenga per sempre, si volge indietro disperatamente al
sole del dì che tramonta.... Gli uomini illuminati di quel
tempo volevano godere della nuova potenza, ricchezza e cultura di
Roma; e favorivano con ogni sforzo i progressi della coltura.
Così in quegli anni il conquistatore della Macedonia, Metello
il Macedonico, avendo deliberato di costruire un tempio a Giove e
uno a Giunone, e di circondarli con un gran portico, faceva venire
dalla Grecia architetti e scultori, tra i quali Policleto e
Timarchide, che pare fossero fratelli e che primi fecero conoscere a
Roma la pretta scultura attica114. Ma essi non si rassegnavano a
vedere perire la parte migliore dell’antica società agricola
e aristocratica; la disciplina familiare, lo zelo civico, la
moderazione delle passioni, la concordia dei ceti: bisognava
perciò restaurare le cose buone della società antica,
aggiungendovi gli eccellenti acquisti dei tempi nuovi; mescolare il
passato e il presente; ricostituire il ceto dei piccoli possidenti,
seminario di soldati115; ritornare all’antica semplicità i
costumi della aristocrazia116; ricordare ai Romani il dovere di
generare molta prole117. Eterna illusione e contradizione degli
uomini, in ogni trapasso doloroso di civiltà! Questa
contradizione fu il tormento e la grandezza dell’uomo figurativo di
questa generazione. Publio Cornelio Scipione Emiliano, figlio
carnale di Paolo Emilio, adottato da un figlio di Scipione Africano,
fu un grande uomo di pensiero e d’azione, avido di cultura, poco
cupido di ricchezze e di piaceri, che non sciupò in bagordi e
dissolutezze, ma esercitò sin da giovane con lo studio e le
opere le splendide qualità naturali. Amico e discepolo
prediletto di Polibio, il grande pensatore che gli aveva aperto
tutti i segreti della sua profonda sapienza storica, egli aveva
lucidamente capito che l’imperialismo avrebbe distrutto alla fine
l’impero; che l’orgoglio, la cupidigia, la sete dei piaceri, il
celibato, tutte le passioni dell’era mercantile, e la politica di
conquista che ne nasceva, avrebbero distrutto la potenza guerresca
di Roma, l’ordine interno, la pace tra le classi, scatenando nella
metropoli dell’impero l’anarchia demagogica, in cui erano perite
tante repubbliche della Grecia. Eppure, siccome egli era uno dei
pochi uomini alacri, forti, coscienziosi nella nobiltà
disfatta; e il solo grande generale, intelligente ed energico della
sua generazione, egli dovè compiere tutte le imprese
più difficili e crudeli del feroce imperialismo del suo
tempo, che gli altri generali non riuscivano a compiere: la
distruzione di Cartagine prima, e poi, la guerra di Spagna
continuando, la distruzione di Numanzia. Ma era possibile opporsi a
questo fatale andar delle cose? Il discepolo di Polibio sentì
più nettamente che ogni altro il fragore della cascata vicina
in cui precipitava la corrente del tempo; ma sentì pure,
meglio degli altri e con più terribile lucidezza, che nessun
nocchiere avrebbe potuto risalir con la nave il fiume della storia e
il suo corso fatale118. Tutti coloro che covavano rancori contro il
proprio tempo: i proletari miserabili, i possidenti fastiditi dai
debiti, le antiche famiglie nobili impoverite, i conservatori a
oltranza, scontenti del soverchio mutamento già avvenuto, e i
rivoluzionari inconsapevoli, scontenti del mutamento ancora
imperfetto, partecipavano in misura diversa a questa tragica
contradizione; perchè nessuno poteva prevedere i compensi
futuri del male presente; immaginare che intanto, pur precipitando
in fondo a una comune miseria, le diverse popolazioni d’Italia si
mescolavano, le une nelle città delle altre e tutte in Roma,
dimenticando le tradizioni e le lingue locali nella comune ambizione
di conquistar una fortuna e una patria più grandi; che
intanto lo spirito romano si mondava della tenace ignoranza,
dell’angusto empirismo, delle grossolane superstizioni dei tempi
antichi e acquistava alla scuola dei Greci lo spirito scientifico,
l’attitudine cioè della mente d’indagare, con metodo, la
realtà universale. Senza questa educazione scientifica non
sarebbero apparsi nel mondo, nel secolo seguente, gli architetti, i
maestri, gli operai che costruirono la meravigliosa fabbrica
dell’impero: ma i contemporanei di Scipione Emiliano vedevan intanto
solamente l’antica società rovinare, l’esercito disfarsi, la
miseria diffondersi, e salire su Roma, come una nuvola minacciosa,
lo spavento massimo della storia: la guerra civile tra ricchi e
poveri.
III.
LA FORMAZIONE DELLA SOCIETÀ ITALIANA.
Il segno alle prime scaramuccie di questa guerra terribile, che
doveva durare un secolo, fu dato involontariamente da Tiberio e Caio
Gracco, figli di Tiberio Sempronio Gracco, nipoti di Scipione
Africano, cognati di Scipione Emiliano: gli ultimi di quella grande
famiglia che dopo loro doveva sparire dalla storia.
Nella casa paterna, dove era stato educato da valenti filosofi
greci, il giovinetto Tiberio dovette udire sovente gli uomini
più insigni del tempo discorrere dei mali di Roma, della sua
decadenza militare, della necessità di una riforma che
impedisse l’intera distruzione dell’antica società,
rinnovando quella protezione pubblica dei poveri, che lo stato
romano aveva così bene esercitata nei suoi tempi migliori. La
superstizione universale e tenacissima che non si possano guarire i
mali di un’età se non con farmachi legislativi doveva essere
tanto più comune in Roma, dove lo Stato aveva sempre curato
paternamente, nel passato, il male della miseria, distribuendo
terre, rimettendo debiti, fondando colonie119. Tiberio Gracco si era
imbevuto di queste idee in casa; era stato profondamente
impressionato prima dalla guerra di Spagna, a cui aveva preso parte
e che, durando da venti anni dispendiosa e vergognosa, minacciava di
rovinare l’erario già così florido120, poi dalla
grande rivolta di schiavi, scoppiata in Sicilia da poco, che Roma
stentava a reprimere; si era spaventato in special modo della rapida
decomposizione dell’esercito; e giovane pieno di studi più
che pratico della vita, ardente di generosi propositi più che
provvisto di esperienza matura, si indusse, per guarire i mali di
Roma e rifare l’esercito, a ripigliare vigorosamente l’antica
politica agraria delle assegnazioni. Le vaste terre pubbliche
dell’Italia che i ricchi latifondisti avevano affittate, o rubate,
potevano essere loro ritolte e divise in piccoli campi fra molti
coltivatori; ciò facendo, inviando specialmente nell’Italia
meridionale una parte dei miserabili di Roma e del Lazio, si sarebbe
giovato insieme a Roma e all’Italia meridionale, dove le
città che deperivano avrebbero rifiorito, quando intorno le
terre fossero di nuovo popolate di quei piccoli possidenti121, che
avevano generato a Roma le invitte legioni di un tempo. Molti erano
in Roma di questo stesso pensiero122; e Tiberio Gracco, eletto
tribuno della plebe per l’anno 133, si propose di recarlo ad atto,
in grande, con una legge agraria, che aveva preparata valendosi dei
consigli di due dotti greci, Blossio di Cuma e Diofane di
Mitilene123, e che mirava a far servire di nuovo, come in antico,
l’ager publicus, al bene dei poveri. Questa legge, rinnovando in
parte le leggi Licinie Sestie, disponeva che nessun cittadino romano
potesse possedere più di cinquecento iugeri di terre
pubbliche, aggiunti duecentocinquanta iugeri per ciascun dei suoi
figli sino alla misura di altri cinquecento124; aggiungeva, forse,
che sarebbero tolte ai latini e agli italici le terre pubbliche non
assegnate loro regolarmente, sia che le avessero comprate da altri,
od occupate essi stessi125; che i cittadini romani, quasi tutti
ricchi possidenti, riceverebbero un risarcimento in denaro per i
miglioramenti fatti126, mentre i latini e gli alleati, tra i quali
abbondavano piuttosto i piccoli e medi possidenti, potrebbero
invece, per compenso, partecipare alla nuova distribuzione delle
terre127 insieme con i cittadini romani poveri; i quali però
avrebbero pagata una piccola somma, ogni anno, allo Stato, e non
avrebbero potuto vendere le terre ricevute. Tre uomini scelti ogni
anno dal popolo, nei comizi tributi, assegnerebbero i campi e
deciderebbero, in caso di controversia, quali terre fossero
pubbliche e quali private128. Tra gli avanzi dell’antico contadiname
romano la legge fu accolta con gran favore129; pare fosse accolta
bene anche dalla povera plebe urbana dei clienti, dei libertini,
degli artigiani, la quale, come sogliono spesso i poveri, si lagnava
dell’avarizia dei ricchi e dell’abbandono del governo come della
causa unica della propria miseria, e perciò fece festa al
primo nobile che si accinse a fare qualche cosa per lei; non fu
vista male da molti conservatori illuminati130; e certo le furono
favorevoli quei senatori di modesta fortuna, che si trovavano a
disagio in mezzo alla opulenza dei nuovi tempi e gioivano in segreto
del danno che la legge minacciava ai ricchissimi signori di immensi
armenti. Costoro – e dovevano essere nel Senato un piccolo numero –
non potevano sperare di far cadere la legge, sebbene fossero potenti
nei comizi; essi tentarono perciò una manovra abile,
perchè legale; indussero un collega di Tiberio a interporre
il veto; opponendo così, contro i disegni del legislatore
popolare, la sacrosanta autorità tribunizia che il popolo
aveva sempre rispettata religiosamente. Invece la crescente
disposizione alla violenza del temperamento romano, provocata da
questa manovra, proruppe per la prima volta anche contro
l’inviolabilità tribunizia; gli animi si irritarono;
l’impetuoso Tiberio, dopo aver invano cercato di smuovere la
ostinazione del collega ne propose al popolo, procedimento nuovo e
rivoluzionario, la destituzione; il popolo adirato la votò; e
deposto il tribuno, la legge fu approvata. Le passioni si accesero
ancora di più; la oligarchia dei ricchi fittavoli di terreni
pubblici incominciò ad accusar Tiberio di aver offeso la
inviolabile persona di un tribuno; Tiberio, commosso dalla
esaltazione del popolo, spaventato dal pericolo di questa accusa
capitale, esasperato dall’opposizione dei grandi, si volse
risolutamente ad eccitare il popolo con le teorie democratiche
più radicali; affermò in grandi discorsi che la
volontà del popolo era la suprema autorità dello
Stato131; e quando si seppe che Attalo re di Pergamo era morto
lasciando il regno in eredità al popolo romano, fece
approvare che il suo tesoro servisse a provvedere gli strumenti ai
nuovi coloni troppo poveri per comperarli; e propose che il popolo e
non il Senato ordinasse la nuova provincia132. Questa volta i suoi
nemici lo accusarono di voler diventare tiranno di Roma, e
atteggiarono abilmente ad opposizione politica la loro avversione
alla legge agraria; ciò che indusse Tiberio a cercar di farsi
rieleggere tribuno della plebe, anche nell’anno seguente, per essere
sicuro da una accusa capitale. Sembra che a questo fine egli
annunciasse altre leggi popolari133; ma gli odi si concitarono ancor
più; e alle elezioni i due partiti vennero con gran sospetto
vicendevole e con torbide, per quanto vaghe, disposizioni alla
violenza, che un piccolo tumulto successo a caso, a quanto sembra,
durante i comizi, fece esplodere. Un manipolo di senatori, non
avendo ottenuto che il console indicesse lo stato d’assedio, si
scagliò armato in mezzo alla folla; uccise Tiberio e molti
amici suoi134. Questa illegale violenza privata disperse il partito
così numeroso di Tiberio, spaventò i conservatori
illuminati e dilettanti di riforme, che già l’agitazione
democratica di Tiberio aveva disgustati; umiliò la baldanza
popolare; e Roma, stordita di stupore, vide dopo tanti secoli di
ordine e di legalità, non solo impunita ma ammirata la
violenza della prima fazione che si era fatta giustizia da
sè. Anche Scipione Emiliano, che allora assediava Numanzia,
approvò l’uccisione del troppo democratico suo cognato.
Ad ogni modo, i tre commissari, uno dei quali era Caio Gracco,
fratello minore di Tiberio, partirono; andarono nella Gallia
cispadana, scesero nell’Italia meridionale; e posero mano
all’impresa di ricostituire, nella campagna, l’antica e forte Italia
rustica, che aveva vinto Annibale, cominciando le misurazioni e
assegnazioni delle terre pubbliche135, riconfermati ogni anno e
sostituiti solo in caso di morte. Ma la impresa era ardua; e non
poteva più compiersi senza molte ingiustizie; perchè
era difficilissimo ritrovare l’antico ager publicus, dopo tanti
anni; molti simulando di cedere ad altri le terre pubbliche
possedute oltre la misura legale136; altri avendo coltivate con
grande spesa le terre ricevute; i documenti di molte vendite e
cessioni non ritrovandosi più137. I medi possidenti, ancora
numerosi fra i latini e gli alleati, soffrivano di queste ricerche e
verifiche in special modo e tanto più crudelmente,
perchè proprio in quegli anni l’Italia, come dice Plinio,
incominciò a capire il suo bene138; molti possidenti mezzo
rovinati si ingegnarono di cercare coltivazioni più lucrose;
e poichè coltivando, come avevano fatto fino ad allora, la
vigna e l’uliveto quasi solo per i bisogni propri e il grano per
venderlo, non potevano più vivere, pensarono di far grano
solo per il proprio bisogno, ed olio e vino invece per venderli.
L’olio e il vino valevano di più e potevano più
facilmente esser portati a vender lontano. Le grandi crisi della
storia, che nascono dalla scarsezza dei mezzi non più
bastevoli ai bisogni cresciuti, non si risolvono mai – l’Italia
contemporanea non dovrebbe dimenticarlo – per le cure o gli studi di
legislatori di genio; ma per lo sforzo lento e inconsapevole di
tutta la nazione, che lavorando e ingegnandosi proporziona i mezzi
ai bisogni, e proporzionandoli crea talora una civiltà
più perfetta. Proprio allora invece questi medi possidenti,
turbati nell’opera loro salutare da un legislatore troppo zelante,
correvano il rischio di ricevere, in cambio di una bella vigna
già vegetante, un terreno paludoso. Essi ricorsero
perciò a Scipione Emiliano, il quale era ben disposto verso
queste genti, da lui conosciute nelle guerre; e Scipione propose in
Senato e certo anche fece approvare dal popolo, che non i triumviri
ma i consoli giudicassero in avvenire dei terreni pubblici e
privati139; cosicchè i triumviri non potendo più
cercare la terra da dividere, e i consoli, quasi sempre avversi al
partito popolare, lasciando dormire i processi, l’esecuzione della
legge fu sospesa140. Solo nel 125 M. Fulvio Flacco, membro della
Commissione agraria e amico di Tiberio, tentò, eletto
console, di risospingere l’arenata riforma; e per compensare ai
latini e agli alleati i danni della revisione dell’ager publicus,
propose di conceder loro la cittadinanza141: ma inutilmente.
L’impresa interrotta di Tiberio Gracco fu ricominciata dieci anni
dopo da suo fratello Caio, uomo davvero straordinario per potenza e
grandezza di mente. Caio che aveva ventun anno, quando Tiberio fu
trucidato, era stato nei dieci anni seguenti esempio splendido di
alacrità, di studio, di virtù private e civiche alla
snervata nobiltà della generazione sua: era stato membro
della Commissione agraria; aveva preso parte in varie occasioni alle
lotte politiche seguite alla morte del fratello cercando di
difenderne la memoria e l’opera; aveva fatto molte campagne ed era
stato questore in Sardegna, ma in modo diverso dagli eleganti
giovani delle grandi famiglie romane: vivendo nell’accampamento come
i soldati e curando molto il loro benessere; spendendo del suo
invece di rubare quello dei sudditi; serbandosi casto142. Nè
la milizia gli aveva impedito lo studio, di cui la sua mente era
avidissima, o l’esercizio di quella straordinaria eloquenza che
Cicerone tanto ammirava143; ma molto aveva letto e studiato, mentre
le memorie incancellabili, l’osservazione degli avvenimenti seguiti
alla morte di Tiberio, le lunghe meditazioni continuavano e
maturavano nel suo spirito, lontano da Roma, il pensiero interrotto
del fratello. Come Tiberio, anche Caio era mosso dalla
considerazione che tutto il passato di Roma non potesse andar
distrutto senza grave pericolo; ma il disegno della riforma
restauratrice e riconservatrice, pensato nel crepuscolo di una
civiltà peritura, cominciava già, per la
necessità delle cose, come sempre avviene di questi disegni
in simili tempi, a mutarsi nel suo spirito in azione rivoluzionaria,
che, invece di restaurare la parte buona del passato, ne avrebbe
affrettata la distruzione, insieme con quella delle cose cattive. La
sorte del fratello e l’esito della sua riforma dimostravano che
invano si sarebbe tentato di provvedere ai mali di Roma, senza prima
aver distrutta o almeno umiliata la potente fazione dei grandi
fittavoli e usurpatori del terreno pubblico; che il disegno di
rifare un ceto di possidenti con la poveraglia di Roma, era troppo
semplice e in pratica poco efficace. Caio stesso, come commissario,
aveva osservato quale impresa difficile, piena di ingiustizie e di
guai, fosse ritrovare l’ager publicus; e poi, anche ammesso che i
nuovi coloni coltivassero con zelo le terre ricevute, ciò che
non era sicuro144, non per questo era facile far rivivere, in quei
quattrocentomila cittadini romani che governavano l’impero (il censo
del 125 ne aveva contati 394 376), la parte migliore dello
spirito antico. Il popolo romano era ormai una piccola oligarchia di
proprietari, banchieri, appaltatori, mercanti, artigiani,
avventurieri e pezzenti, cupidi di piaceri, di eccitamenti, di
sùbiti guadagni, orgogliosi, petulanti, corrotti dalla vita
nella città; e questa oligarchia – era inutile illudersi –
avrebbe sempre posto il proprio vantaggio e piacere sopra la
necessità della più salutare riforma; mentre gli
ultimi avanzi della antica popolazione rustica, che ancor facevan
parte di quella oligarchia, erano pochi, poveri, sfiduciati; avevan
perduto il loro sostegno e la loro guida di un tempo; le nobili
famiglie protettrici. Molti, in questa oligarchia, e specialmente il
popolino povero, si lagnavano della condizione presente; ma solo
perchè non possedevano e non godevano nella misura del
desiderio; e se per sfogare il malumore e la invidia dei ricchi
parteggiavano per qualunque riforma si proponesse, agraria ad
esempio, non erano disposti a tornare, per la salvezza dello Stato,
a una vita più laboriosa, più onesta, più
semplice. E nuove idee maturavano nello spirito di Caio Gracco,
durante le lunghe spedizioni, lontano da Roma.
Di ritorno dall’ultima spedizione in Sardegna, quando la navicella
che lo portava, risalito il Tevere, gettò l’ancora a Roma,
egli trovò molta folla che lo accolse, allo sbarco, con
grandi applausi145. A poco a poco, svanito il terrore dell’uccisione
di Tiberio, era rinato nel popolino povero di Roma il desiderio di
un protettore e vendicatore; e cresciuta la speranza nel fratello,
noto per le sue virtù e già perseguitato dal sospetto
dei grandi. Così venne alla fine il giorno in cui, sospinto
dalla memoria del fratello, dagli eventi, dalle aspettazioni della
plebe, dalla malevolenza dei suoi nemici, dal suo genio, Caio
affrontò il cimento d’una riforma universale, in parte con
idee del fratello più maturate, in parte con idee sue, tutte
originali e arditissime, alcune anche pericolose. Eletto tribuno
della plebe per l’anno 123, in comizi ai quali concorsero moltissimi
elettori dalla campagna146, egli tentò anzitutto di togliere
alla potente fazione dei grandi fittavoli e usurpatori delle terre
pubbliche l’aiuto che le veniva dall’unione, condiscendenza e
dipendenza delle altre classi147. I ricchi capitalisti e i nobili
senatori si accordavano facilmente per depredare insieme lo Stato e
l’impero; ma siccome quelli tolleravan ormai di mala voglia per
orgoglio, per desiderio di potenza maggiore, per avarizia, la
signoria assoluta nello Stato, nei tribunali, nell’esercito, di
tanti nobili a cui essi spesso pagavano i debiti, o le orgie, Caio
propose, ripigliando una idea di Tiberio, una lex iudiciaria, per la
quale le commissioni permanenti (quaestiones perpetuae), che
giudicavano le accuse di malversazione contro i governatori ed altri
reati politici, si comporrebbero non più di senatori ma di
cavalieri, e forse anche sarebbero provviste di giurisdizione
più larga148. Nel tempo stesso un suo collega, Manio Acilio
Glabrione, proponeva una gran legge, la lex Acilia Repetundarum,
contro le concussioni dei governatori. La legge giudiziaria era un
bel dono per i ricchi finanzieri, che avrebbero potuto ora giudicare
anche i senatori; ma a questo un altro più splendido ne
aggiunse Caio, con la legge che riordinò definitivamente la
nuova provincia di Asia, il regno di Pergamo ereditato dieci anni
avanti, e che, domata una insurrezione nazionale, era ormai sicuro
possedimento di Roma. Caio, contrariamente a ciò che aveva
fatto suo padre in Spagna, propose che s’introducessero nella
provincia d’Asia le imposte romane della decima di tutti i prodotti;
della scriptura o appalto dei terreni pubblici; dei portoria o
dogane; e che la riscossione di queste imposte, per le differenti
città, fosse appaltata, non in paese come in Sicilia, ma dai
censori a Roma, riserbandone gli appalti ai capitalisti romani149.
Delle somme che lo Stato avrebbe cavate da questi appalti, di quelle
che avrebbe reso un aumento dei diritti doganali sugli oggetti di
lusso importati dall’Oriente150, Caio volle servirsi per guadagnare
il popolino, togliendo via per sempre la mezza carestia che
tormentava Roma, anche negli anni prosperi; e propose a questo fine,
con la lex frumentaria, che l’annona fosse convertita in servizio
pubblico e che lo Stato provvedesse Roma di grano, vendendolo al
prezzo di favore di 6 assi e un terzo il moggio151. Forse egli
pensava anche di giovare, con questi larghi acquisti pubblici di
grano in tutta Italia, ai possidenti; e ordinando la costruzione in
Roma di vasti granai, di dar lavoro agli appaltatori e ai
lavoranti152. Per giovar poi ai contadini e ai poveri propose di
richiamare in vigore le leggi di Tiberio, attribuendo di nuovo ai
triumviri, con una lex agraria, il potere di giudicare delle terre
pubbliche e delle private153; aggiunse a questa, riprendendo forse
un’idea del fratello, una lex militaris, con la quale si disponeva
che nessuno fosse arruolato prima dei 17 anni e che il vestiario
militare fosse pagato non dal soldato ma dall’erario154; propose
infine con la lex viaria un vasto disegno di nuove vie, da
costruirsi in diverse regioni dell’Italia e certo in special modo
nell’Italia meridionale, così per dar lavoro ad appaltatori e
braccianti come per aiutare gli agricoltori a vendere meglio le loro
derrate.
Proponendo, durante il primo suo tribunato, nei comizi tributi,
cioè senza dover richiedere prima l’approvazione al Senato,
tante cose insieme, di cui ciascuna piaceva o ai ricchi finanzieri,
agli appaltatori, o ai cittadini poveri, o ai possidenti; stringendo
intorno a sè una coalizione di interessi mercantili, di
appaltatori, banchieri, artigiani, proletari; Caio potè
facilmente far approvare ogni sua proposta e divenire l’uomo
più potente, popolare e affaccendato di Roma155. Non solo
infatti egli pensava larghi disegni, ma ne vigilava personalmente la
esecuzione con una alacrità infaticabile e una energia sempre
fresca, rare ormai nella snervata nobiltà romana; appaltando
e sorvegliando la costruzione dei granai in Roma e delle vie
dell’Italia; facendo costruire queste con una magnificenza nuova e
provvedendole per la prima volta di colonne miliari156; attendendo
tutto il dì a mille faccende senza stancarsi, nella casa sua,
divenuta il ritrovo degli appaltatori, degli artigiani poveri, dei
letterati e sapienti di Roma157. Egli aveva incominciata quella
politica di incoraggiamento degli interessi mercantili, che la
democrazia romana avrebbe dovuto poi continuare per un secolo con
crescente energia: ma, per una curiosa illusione, credeva di poter
far servire questa politica a un fine opposto: a restaurare in parte
almeno l’antica e più semplice società italica; onde
rieletto tribuno l’anno seguente, splendidamente, Caio procede a
proposte più ardite, nelle quali si mostrò tutta, alla
fine, la potenza creante della sua mente. Roma cresceva troppo;
troppi artigiani, mercanti, artisti, sapienti, avventurieri,
mendicanti concorrevano, da ogni parte, in quella nuova e mostruosa
metropoli del mondo; e ne nascevano infiniti guai, gravissimo tra
tutti la difficoltà degli approvvigionamenti e la miseria del
maggior numero, per il caro prezzo del pane e degli alloggi, mentre
nelle altre regioni dell’Italia tante città si spopolavano158
e le campagne impoverivano intorno. La lex frumentaria non era
rimedio senza pericolo, tanta spesa avrebbe dovuto sostenere
l’erario, già dissestato dalla guerra di Spagna; bisognava
sfollare Roma inducendo una parte dei numerosi finanzieri e mercanti
romani, che da Roma trafficavano in tutti i paesi del Mediterraneo,
a trasferirsi in altre città acconcie alla navigazione e al
commercio; perchè molta gente minuta li avrebbe allora
seguiti nelle nuove sedi. Caio gettò gli occhi su tre punti
della costa mediterranea: a Squillace era già una dogana per
le importazioni asiatiche; Taranto era stata lungamente famosa per
commerci e ricchezza: quella parte dei mercanti che da Roma
trafficavano specialmente con la Grecia, la Macedonia e l’Oriente
non avrebbe potuto risiedere a Taranto o a Squillace, rinominate
Nettunia e Minervia159, più comodamente che a Roma? Il
commercio dell’Africa era passato ai mercati romani, dopo la
distruzione di Cartagine; era perciò evidente che i mercanti
romani, i quali commerciavano principalmente in Africa, avrebbero
potuto risiedere con maggior comodo loro in Africa che in Roma.
Molti infatti già si erano stabiliti a Cirta160. Non si
poteva riedificare, dalle rovine della punica, una nuova Cartagine
romana, che si chiamasse Giunonia? Egli propose di fondare a
Squillace, a Taranto, a Cartagine tre colonie, non di poveri
però, come in antico, ma di persone benestanti161, mercanti e
capitalisti, a cui, per invogliarli a lasciar Roma, sarebbero state
date vaste terre.
Anche queste proposte furono approvate, sebbene, a quanto sembra,
con stento; perchè lo sfollamento di Roma nuoceva a molti. Ma
Caio, sempre più infervorato nei suoi disegni, ne fu incitato
a esprimere alla fine la idea suprema, lungamente meditata in
silenzio: concedere, come già aveva proposto il suo amico M.
Fulvio Flacco, la cittadinanza romana a tutti gli italiani162; far
partecipare in misura maggiore ai benefici e alle
responsabilità dell’impero la popolazione italica più
numerosa e meno guasta, nella quale sopravviveva ancora la forte
razza di contadini, contro cui si era infranto l’assalto di
Annibale; rinforzare così la piccola oligarchia mercantile di
Roma che, corrotta isterilita ammollita, rassomigliava a una esile
colonna consunta dalle intemperie e dagli anni, sulla quale
architetti improvvidi ingrandivano la mole già pesante di una
fabbrica immensa. Tale era il vasto disegno di Caio Gracco: far di
Roma il capo di una nazione italica vitale; posare l’impero non
sopra la cupidigia e l’orgoglio di una corrotta oligarchia
mercantile e municipale, ma sopra una larga e solida base di classi
rurali; restaurare le antiche sedi della civiltà e del
commercio distrutte o decadenti; ristabilire un più sano
equilibrio vitale in Italia e nell’impero, distribuire meglio per
varie terre la popolazione e la ricchezza che si raccoglievano in
Roma, minacciando quasi una congestione di sangue a questo cervello
dell’impero. Sei generazioni lavoreranno a compiere questo vasto
disegno che Gaio Gracco aveva intravisto esser l’opera storica di
Roma; ma che poi aveva creduto di poter compier da solo, nella breve
ora della sua vita, con mezzi contradittori, rimpicciolendo, per una
illusione frequente nella storia, l’opera di un popolo alla misura
dell’opera singola di un uomo solo.
E difatti il destino di tante magnifiche idee non era maturo. La
proposta della cittadinanza agli italici spiaceva a tutti, non meno
che ai grandi al popolino; per vanità e per egoismo;
perchè il popolino temeva scemerebbero i lucri delle elezioni
e delle guerre, i giuochi e i sollazzi pubblici, se aumentasse il
numero dei cittadini163; perchè è più facile
togliere agli uomini un guadagno che un privilegio, anche formale,
tanto essi adorano tutto ciò che li illuda di esser da
più che gli altri. La fazione dei latifondisti colse
l’occasione per volgere in odio, con abili intrighi, il favore di
cui Caio aveva goduto; cosicchè alle elezioni del 121 Caio
non fu più eletto, secondo alcuni; secondo altri ottenne una
maggioranza così piccola, che fu facile ai suoi nemici,
falsificando lo scrutinio, dichiararlo non eletto. Caio si
ritirò a vita privata; sinchè un giorno, avendo i suoi
nemici proposto di abolire la colonia di Cartagine, si indusse a
parlar nei comizi.... Anche questa volta gli animi erano concitati
dalle due parti; nacque un tumulto; i nemici di Caio corsero in
Senato a domandare che si indicesse lo stato d’assedio, e ne
spaventarono con false notizie anche la parte più onesta e
temperata; poi subito, decretato lo stato d’assedio, il console
Lucio Opimio, senza tener conto di alcuna legge, fece una strage dei
partigiani di Gracco, nella quale anche Caio, il politico più
profondo di Roma e il primo dei quattro grandi fondatori
dell’impero, fu ucciso.
Ma tutti i mali, su cui il riformatore aveva adoperata la sua
medicina, aggravarono rapidamente dopo la morte di lui, quasi che
anche i farmaci si voltassero in veleno, in quella società
travagliata. Avviene sempre così nella storia: il desiderio
di ingrandire il proprio vivere nasce da prima in pochi; ma, se
questi non sono sopraffatti dalle resistenze dell’antico ordine di
cose che essi debbono in parte guastare per soddisfarsi, il numero
di coloro che vogliono vivere al modo nuovo e la misura dei
godimenti desiderati da ognuno, aumentano di anno in anno, di
generazione in generazione sinchè è possibile
accrescere la ricchezza, per il contagio dell’esempio, per la
indefinita forza di espansione insita nelle passioni umane, per la
necessità quasi direi meccanica degli eventi; perchè,
a mano a mano che l’antica società perisce, un maggior numero
di persone, non potendo vivere più al modo antico, è
costretto a vivere al modo nuovo. Tutto allora si muta, secondo
è necessario, affinchè l’universale desiderio di un
vivere più pieno e più ricco sia soddisfatto. E
così avvenne allora. Era parso che Caio riuscisse, solo
perchè aveva lusingate le passioni e favoriti gli interessi
mercantili; onde non solo il disegno di restaurare in parte o almeno
di conservare gli ultimi avanzi dell’antica Italia rurale e
guerresca fallì interamente; ma dopo la morte di Caio la
decomposizione mercantile si allargò sempre più rapida
nella parte ancor sana della vecchia Italia. Lo sfarzo nelle alte
classi; l’odio al lavoro nelle basse; l’orgia, la dissolutezza, la
ubriachezza in tutte le classi, e quindi il costo della vita, che
già erano molto cresciuti dopo la distruzione di Cartagine e
di Corinto, crebbero ancora, dopochè Roma fu entrata in
possesso dell’eredità del re di Pergamo. L’anno stesso in cui
Caio Gracco moriva, le vigne piantate nel decennio precedente
maturarono una copiosa vendemmia, di cui molta parte fu portata a
Roma, dove si aprirono cantine in ogni via164; crebbe immensamente
la domanda di schiavi165, avendone bisogno i ricchi, il medio ceto
rustico, i capitalisti per ostentar ricchezza, per risparmiar
fatica, per tentar commerci; la immensa suppellettile del re di
Pergamo, portata a Roma e messa all’incanto, fu disputata da una
moltitudine di compratori accaniti, quale non si era ancor veduta in
Roma; e le spoglie dell’ultimo e pazzo Attalide, disperse per le
case di Roma e d’Italia, diffusero da per tutto il gusto della
mobilia sontuosa, dei quadri, delle statue, delle suppellettili
d’oro e d’argento166. Con i bisogni crebbero nell’aristocrazia
romana ed italica i debiti, come sempre avviene quando da un largo e
rapido accrescimento della ricchezza una plutocrazia sorge di fronte
a una aristocrazia storica; quando il lusso aumenta, la vita
rincara, il gusto dei piaceri si divulga; quando i parvenus
milionari contendono con fortuna il primato alle antiche famiglie
nobili; e il puntiglio, l’orgoglio gentilizio, la sensualità,
il lusso spingono queste famiglie a spendere più che non
possano. Tolte le poche famiglie, che arricchivano per l’abile
avarizia di qualche membro167, come i Licini Crassi, i Pompei, i
Metelli, nelle altre famiglie nobili i giovani crescevano crapuloni,
viziosi, superbi, talora anche cupidi di sapere e di arte; sempre
prodighi e dissipatori. Nel medio ceto invece con i bisogni non
crebbero soltanto i debiti; ma e le ambizioni, la audacia, la
tenacità degli sforzi. Caio aveva creato, con la legge
sull’Asia, un nuovo e lucrosissimo affare per i ricchi capitalisti
romani e i loro amici; molte compagnie si formarono a Roma per
appaltare queste imposte, nelle quali abili finanzieri investirono
capitali, incominciando dopo l’espansione militare e mercantile
l’espansione finanziaria dell’imperialismo. I giovani, agitati da un
precoce orgoglio ignoto alle età più antiche, non
davano più retta ai vecchi; in tutte le famiglie del medio
ceto (molte dovevano ancora esser grosse, sebbene sia probabile che
la fecondità diminuisse di generazione in generazione),
qualche figlio abbandonava presto la casa paterna, annoiato della
povertà rustica; traeva alla città vicina o a Roma per
vivere di mestieri o traffici; arruolatosi volontariamente o preso
dalla leva girava il mondo, sperando e spiando la buona fortuna, che
molti trovavano davvero in qualche lucro nuovo, stabilendosi come
mercanti in una o nell’altra parte dell’impero. Con i bisogni e il
lusso il consumo cresceva, e con il consumo, sebbene più
lentamente che nei primi trenta anni del secolo, il commercio.
L’espansione mercantile dell’imperialismo progredì; le
colonie dei mercanti italiani crebbero nel Mediterraneo e una se ne
formò intorno a questi tempi anche ad Alessandria168; in Asia
incominciò una immigrazione spicciola di mercanti italiani,
che accanto alle grandi compagnie dei pubblicani esercitarono
l’usura piccola, commerciarono gli schiavi o le merci asiatiche di
cui cresceva la richiesta in Italia; Delo fiorì, popolosa di
ricchi mercanti italiani, greci, siriaci, ebrei. Sovente i padri
stessi, scontenti della propria mediocrità per i loro figli,
li mandarono, anche a costo di indebitarsi, a studiare nella vicina
città, affinchè avendo imparato a ben parlare
potessero esercitare l’avvocatura, che allora era una professione
libera; segnalarsi, acquistar fama, procurarsi la protezione di
persone ricche e potenti, che li aiutassero ad essere eletti alle
magistrature169. Il medio ceto rustico, che aveva dissodato tanta
parte della penisola e vinto Annibale, si consumava; in tutta Italia
i piccoli poderi erano uniti in possedimenti più vasti da
cupidi accumulatori di terre che sostituivano su quelli gli schiavi
ai lavoranti liberi, ormai troppo infingardi, riottosi e avidi;
mentre la popolazione libera delle campagne traeva alle città
o usciva d’Italia. Certo, ai giovani senza capitali, senza parentele
e amicizie, la conquista della ricchezza e della potenza era
difficile, in una società in cui le tradizioni aristocratiche
erano ancora così tenaci, e pochi privilegiati nascevano
pretori, consoli, senatori di padre in figlio, per la forza di una
reverenza tradizionale, per le clientele e le parentele consolidate
da generazioni170; onde gli spostati e i malcontenti incominciarono
a esser numerosi. Pure, in mezzo a questa aristocrazia in
dissoluzione, che perdeva nei vizi i beni, la energia, le belle
virtù degli antenati, incominciarono, dopo la morte di Gaio
Gracco ad aver fortuna, come in ogni età di decomposizione
sociale, gli imbroglioni, i violenti e i delinquenti d’ingegno; a
farsi largo anche uomini oscuri, self-made-men, purchè
fossero intelligenti, senza scrupoli, astuti o violenti. Il piccolo
borghese intelligente, ambizioso, astuto, tenace, senza scrupoli,
che serve una classe dirigente in dissoluzione e sa farsi
ricompensare splendidamente i propri servigi, era già
apparso, nella persona di Marco Emilio Scauro, figlio di un modesto
mercante di carbone che, studiando, adulando, uccellando
eredità, servendo la corrotta oligarchia, affettando
abilmente austerità e virtù, aveva già saputo
arrivare alle alte cariche, quando morì il Gracco, di cui era
stato fierissimo avversario, e si preparava a concorrere al
consolato, che ebbe infatti nel 115171. Un uomo all’antica, di
intelligenza vivace, ignorante, di abitudini semplici ma violento,
ambiziosissimo e di grande energia, era invece Caio Mario; un povero
contadino d’Arpino, che aveva acquistata grande reputazione di
valore all’assedio di Numanzia, e incominciava a farsi largo nella
folla, buttandosi avanti con tanto impeto, orgoglio e sicurezza di
sè, che, eletto tribuno della plebe nel 119, per la sola sua
riputazione militare, senza aiuto di parentele, clientele e
ricchezze, non aveva dubitato di offendere nobiltà e plebe,
affrontando con indifferenza e quasi con disprezzo l’odio di tutti i
partiti172. Ambedue però, non ostante il diverso
temperamento, erano i campioni più fortunati di una borghesia
italica che, scuotendo la secolare e docile soggezione alla
nobiltà, incominciava a formarsi tra gli antichi medi ceti
locali delle varie regioni d’Italia, ambiziosa di conquistare
maggior dominio in Italia e nel mondo; una borghesia italica, che
doveva essere il corpo della prima nazione italiana esistita nella
storia; e che si faceva proprio come, dal 1848 ad oggi, si fece e si
forma la borghesia italiana che è il corpo della nuova
Italia: per la rovina delle antiche economie locali, per la
mescolanza delle popolazioni regionali nella creazione di una nuova
e più vasta economia nazionale, per la diffusione della
stessa cultura in una parte considerevole delle alte e medie classi.
I cittadini delle diverse città italiche si confondevano gli
uni nelle città degli altri e tutti insieme per il mondo; i
matrimoni, le amicizie, le società mercantili tra persone di
diverse città divenivan frequenti; l’uso del latino come
lingua comune si divulgava; uomini di tutte le parti d’Italia
contraevano abitudini e vizi simiglianti, studiavano la stessa
filosofia greca, la stessa retorica ed eloquenza latina....
Ma intanto così gli sforzi della nobiltà in
decomposizione per non decadere, come gli sforzi della nuova
borghesia che tentava salire, accelerarono la rovina dell’antica
società; e nel disordine di questa confusa decomposizione e
ricomposizione sociale tutti gli egoismi personali di famiglia di
clientela di partito e di classe proruppero sull’Italia con una
violenza terribile. La politica di conquista dovè esser
sospesa; perchè i soldati e i denari per combattere grosse
guerre mancarono il reclutamento divenne sempre più
difficile, le finanze dello Stato furono ben presto dissestate, non
ostante i nuovi redditi della provincia d’Asia, dalla spesa per le
frumentazioni173, e forse da quella per il vestiario militare,
decretata da Caio Gracco. Tra il 125 e il 121 a. C., per finir le
razzie dei barbari Galli nel territorio dell’alleata Marsiglia e per
rendere sicure le vie tra l’Italia e la Spagna, si era ancor
conquistata e ridotta a provincia la Gallia Narbonese, le regioni
cioè della Francia, poste tra le Alpi e il Rodano; nel 121 un
Metello aveva conquistate le Baleari: ma dopo non si guerreggiaron
più che guerricciole contro le tribù barbare dei
confini o dei paesi già conquistati. Venuti meno così
a tutta l’Italia, proprio quando i bisogni della nobiltà e
del medio ceto crescevano, i lucri delle guerre, l’Italia torse ben
presto in sè stessa le proprie brame. La morte di Caio aveva
tolto ogni credito alla dottrina del suo partito: che il demanio
pubblico dovesse essere usato dallo Stato a sollievo dei poveri e ad
aiuto del medio ceto; mentre il partito dei grandi latifondisti fu
pronto a valersi della potenza riacquistata alla morte di Caio per
far approvare dal Senato, l’anno stesso in cui Caio fu ucciso, che
le terre assegnate dai triumviri potessero vendersi174; e dai
comizi, due anni dopo, nel 119, che le leggi agrarie dei Gracchi
fossero abolite, aggiungendo però, a modo di compenso, che le
somme ricavate dall’affitto delle terre pubbliche fossero
distribuite al popolo175. Ma ben presto un’audacia maggiore fu
tentata. La revisione degli affitti, ordinata dai Gracchi, aveva
danneggiato e spaventato molti, che avevano incominciato a far
spese, sulle terre pubbliche, per coltivarle, e che desideravano
maggior sicurezza; molti proprietari, tormentati dai debiti e dal
crescente costo della vita avrebbero gradito assai qualche
improvviso guadagno insolito; molti dei coloni dedotti dai Gracchi,
annoiati della semplice vita rustica, desideravano di poter vender
bene le terre assegnate loro dai triumviri, che molti accumulatori e
speculatori di terre avrebbero volentieri comprate. Tanti desideri
diversi furono soddisfatti da una legge, abilmente compilata nel 111
da Spurio Torio, tribuno della plebe176. Con questa legge si
dichiaravano proprietà privata, tali cioè che dovevano
essere inscritte nel censo, e potevano essere vendute, donate,
ereditate, tutte le terre publiche di cui i triumviri avevano
giudicato il possesso legittimo, sino quindi alla misura di 500
iugeri per il capo della famiglia e di altri 500 per i figli177; le
terre pubbliche date in compenso di altre tolte durante la
revisione178, le terre distribuite in qualsiasi modo in seguito alle
leggi dei Gracchi179; le terre publiche che fossero state occupate
dopo le leggi dei Gracchi, sino a 30 iugeri, purchè fossero
state messe a coltivazione180. Si aboliva inoltre la giurisdizione
dei triumviri nelle quistioni di terre pubbliche, così
molesta alla nobiltà latifondista, per attribuirla a
magistrati, come i consoli, i pretori, i censori, che ancora, per
tradizione, erano scelti quasi sempre tra i nobili latifondisti; e
si estendeva il beneficio della legge così ai cittadini
romani, come ai latini e agli alleati181. La legge, sebbene intesa a
favorire i grandi proprietari, conteneva eque disposizioni gradite
anche al ceto medio, e perciò fu approvata: le terre
pubbliche convertite in proprietà privata dovettero aumentare
subito di valore; i proprietari indebitati poteron vendere i campi,
di cui prima non godevano che i frutti; coloro che avevano
incominciato a investire capitali sulla terra si sentirono
rassicurati; e il commercio delle terre fu stimolato. Ma intanto lo
Stato, già impoverito, perdeva gli affitti del suo vasto
demanio; e gli uomini illuminati ed onesti, nei quali vigilava la
inquieta saggezza del passato, non potevano non lamentare che la
brutale cupidigia di pochi avesse spogliato Roma di così gran
parte di quel patrimonio pubblico, che le era stato di tanto aiuto
nelle tempestose vicende dei secoli passati. Certo la legge doveva
sembrare ai contemporanei ed era, nelle intenzioni degli autori, un
assalto al patrimonio pubblico di bramosie private, cieche per la
fretta di soddisfarsi; ma le conseguenze dovevano esserne immense e
benefiche: perchè per essa furon distrutti in Italia gli
ultimi avanzi dell’antico comunismo agrario e quasi tutto il suolo
d’Italia divenne proprietà privata, per una rivoluzione
economica simigliante a quella avvenuta nel secolo scorso in Europa,
quando si vendettero ai privati le terre di mano morta. Altra prova
che le opere dei personaggi storici debbono esser giudicate
più secondo le intenzioni e i motivi, che non secondo gli
effetti, non previsti spesso nemmeno dai loro autori.
Ma se l’aristocrazia in dissoluzione e la borghesia in formazione
dilapidavano insieme, in Italia, il demanio secolare di Roma,
l’aristocrazia dilapidava fuori, per la medesima fretta di cupidigie
brutali, un patrimonio ancor più prezioso: il prestigio di
Roma nel mondo. Nessuna classe smarrisce più interamente il
senso del bene e del male che un’aristocrazia storica indebitata,
bisognosa, invidiosa di una plutocrazia di milionari recenti,
ansiosa di conservare il primato, il lusso, la facilità dei
godimenti che vengono meno con la povertà. Roma aveva veduti
molti scandali aristocratici: sapeva di giudici venderecci, di
governatori concussionari, di senatori ladri di terre pubbliche;
sapeva di Lucio Cornelio Silla, ultimo discendente di una
nobilissima famiglia decaduta che, intelligente e amante degli
studi, sciupava il tempo tra mimi, buffoni, cantanti, ballerini, e
che aveva rifatta la fortuna della famiglia, con l’eredità di
una meretrice greca, arricchita a Roma e innamoratasi già
vecchia di lui182. Ma poichè il rispetto verso una
aristocrazia lungamente celebre e dominatrice, come l’ammirazione di
uno Stato potente per secoli, durano ancor molto tempo tra gli
uomini ignari, dopochè la decadenza è cominciata; Roma
si illudeva ancora sulla sua nobiltà e ignorava, come forse
si illude e ignora adesso una nazione la cui aristocrazia volge a
una simigliante rovina, l’Inghilterra, quanto progresso avessero
fatto tra i nobili, negli ultimi venti anni e nella generazione
coetanea dei Gracchi, sotto il silenzio delle abili dissimulazioni
proprie e delle pietose indulgenze altrui, il morbo febrile delle
voluttà e delle cupidigie insaziabili, la venalità,
l’affarismo, il cinismo. Lo scandalo d’Africa, incominciato nel 112,
doveva rilevare a un tratto a Roma questo spaventevole orrore.
Micipsa, re di Numidia, morendo nel 118, aveva lasciato un astuto e
ambizioso figlio spurio, di nome Giugurta, reggente e tutore dei due
figli legittimi; ma ben presto Giugurta, per regnare solo, ne aveva
ucciso uno e si era messo in guerra con l’altro, suscitando torbidi,
nei quali il governo romano dovè intervenire. Ma allora si
vide lo Stato che sulla terra d’Africa aveva distrutto Annibale e
incenerito Cartagine, improvvisamente invecchiato a segno da non
potere aver ragione di un capo di barbare tribù nomadi;
perchè costui comprava i commissari mandati a inquisire nei
suoi maneggi, i senatori incaricati di giudicarlo, i generali
spediti a combatterlo; sinchè a gran fatica si trovò
un solo nobile, un Metello, che lo combattesse davvero, invece di
scroccargli denaro. Questo immane scandalo aristocratico fece
divampare ad un tratto le passioni democratiche che sordamente
covavano da trenta anni nel medio ceto, nel popolino, tra i ricchi
finanzieri, nei quali il rispetto alla nobiltà già
veniva meno per lo spirito inquieto dei tempi, per l’ingrandirsi
delle nuove ambizioni, per il diffondersi della filosofia greca e
specialmente dello stoicismo che insegnava tutti gli uomini essere
eguali; un prodigio accadde: per la prima volta un contadino, Caio
Mario, fu eletto console. Mario, che frattanto era stato pretore e
propretore in Spagna, e si era arricchito e imparentato con la
famiglia patrizia, ma un poco oscurata, dei Giulii, sposando la
sorella di un Caio Giulio Cesare, nobile ma poco illustre183,
serviva allora come legatus nell’esercito di Metello in Africa; e,
fatto ardito dallo stato dello spirito publico in Italia,
domandò al generalissimo licenza di andare a Roma a proporsi
come console, per l’anno 107. Metello, che era un bravo uomo, ma non
senza pregiudizi aristocratici, stupì di tanta ambizione in
un uomo nato contadino; cercò scoraggirlo e impedirgli di
partire; Mario si offese; protetto e protettore vennero in discordia
e la fortuna di Mario fu fatta. Quando a Roma si seppe che
l’aristocratico Metello non voleva che Mario fosse console
perchè era nato in un tugurio, Mario divenne l’idolo degli
artigiani, dei contadini, del medio ceto, dei finanzieri d’origine
plebea, il cui successo doveva significare scorno dei grandi184;
Mario fu eletto; e vendicativo come tutti gli ambiziosi volle il
comando di Metello. Ma prima di partire per l’Africa, fece come
console una grande innovazione nelle leve; reclutando anche i poveri
non iscritti in nessuna delle cinque classi possidenti, che secondo
la vecchia costituzione non avevano il diritto di militare185. Gli
iscritti nelle cinque classi, quasi tutti mercanti, appaltatori,
ricchi possidenti erano ormai così poco atti e vogliosi di
militare; l’urgenza di ricostituire un esercito valido, che
angustiava tutti gli spiriti superiori da trenta anni, e aveva mosso
i Gracchi alla riforma, era cresciuta siffattamente, che Mario non
potè più come gli altri rimandare le misure radicali
di riforma; ma provvide alla fine, usando un procedimento più
ardito, speditivo e rivoluzionario che i Gracchi; perchè
invece di affaticarsi con riforme stentate a rinvigorire il medio
ceto rustico che era l’antico seminario dei soldati, cercò
soldati in una classe nuova, nella infima e povera plebe delle
città e della campagna, senza probabilmente supporre quanti
altri mutamenti gli ordini militari di Roma avrebbero dovuto
ricevere in seguito a questo primo186.
Alla fine Giugurta fu vinto da Mario, con l’aiuto di Bocco re di
Mauritania e del suo questore Silla, il quale mostrò nella
guerra un vigore fisico, una energia di comando, una sicurezza di
giudizio e un’abilità diplomatica, che nessuno avrebbe
supposta in un giovane così dissoluto. Giugurta fu condotto
in catene a Roma; il suo regno in parte aggiunto alla provincia di
Africa, in parte dato a Bocco, in parte a un fratello di Giugurta.
Ma la vittoria aveva costato sette anni di maneggi e di guerra:
troppo, per così grande impero alle prese con così
piccolo re. Eppure l’Italia si consumava siffattamente nel travaglio
della interna decomposizione e ricomposizione sociale, che di
lì a poco parve essere addirittura sopraffatta da due nuovi e
imprevisti pericoli. Dagli antichi Stati del re di Pergamo Roma
signoreggiava anche nell’interno dell’Asia minore, con un vasto
sistema di clientela, avendo facilmente ridotte a clienti le
repubbliche di Rodi, Cizico ed Eraclea, la confederazione delle
repubbliche della Licia e degli Stati galati187. Ma al di là
di questi Stati si stendeva, bagnato dalle acque del mar Nero, il
vasto regno del Ponto, formatosi al principio del terzo secolo
avanti C. durante la decomposizione dell’Impero di Alessandro, e tra
popolazioni diverse per lingua, costumi e razza, sotto la dinastia
dei Mitridate: una nobile famiglia persiana ellenizzata. In questo
Stato, sino allora quasi ignoto ai Romani, era salito al trono, nel
111, un giovane sovrano, ambizioso e intelligente, il cui nome era
Mitridate Eupatore; e che, aiutato da un abile greco di Sinope,
Diofante, aveva saputo in pochi anni farsi ammirare in Oriente come
l’eroe dell’ellenismo alle prese con i barbari, dopochè aveva
salvate le colonie greche del mar Nero dalla dominazione degli
Sciti, e conquistata la Crimea: poi incoraggiato da questo primo
successo aveva cercato di ridurre in suo potere tutto il bacino
orientale del mar Nero; di allargare all’interno il vecchio regno
del Ponto sino all’Eufrate; di avviare relazioni con le barbare
popolazioni dei Sarmati e dei Bastarni, vaganti tra il Danubio e lo
Dnieper, con le tribù galliche restate nella valle del
Danubio, con i Traci e gli Illiri188. I re Sciti scacciati di Crimea
erano corsi a Roma a domandar aiuto; e a Roma già si
cominciava a volgere l’attenzione al giovane re189: ma in quella
ecco una nuova e terribile calamità opprimere l’Italia.
L’anno 105 il proconsole Quinto Servilio Cepione e il console Gneo
Manlio Massimo, ambedue aristocratici, erano mandati a ributtare una
invasione di Cimbri e di Teutoni, che minacciava l’Italia; ma nemici
tra loro e intesi solo a far bottino, non diedero tregua agli odi
privati nemmeno in presenza del nemico, e furono ambedue disfatti.
Ancora una volta la nobiltà storica di Roma dimostrava di non
essere più buona a nulla. Allora Mitridate, che da un pezzo
aveva preparata una alleanza con il re di Bitinia, e a cui i
successi accrescevan baldanza, invase e divise con l’alleato, a
quanto sembra nella primavera del 104, la Paflagonia, scacciandone i
dinasti che corsero a Roma a domandar aiuto, come clienti della
repubblica; seguiti da ambasciatori di Mitridate muniti di
fortissime somme, e mandati a rinnovare la strategia di Giugurta190.
Ma a Roma, quando gli ambasciatori di Mitridate vi giunsero, il
partito popolare, fatto potentissimo dal favore pubblico per il
disgusto degli scandali africani, per il successo dell’eroe popolare
nella guerra contro Giugurta, per la disfatta dei generali
aristocratici nella guerra cimbrica, incalzava con accuse, con
minaccie, con affronti la nobiltà storica di Roma; e
già l’aveva costretta a subire dopo tre anni la rielezione a
console di Mario, il solo che secondo la voce pubblica avrebbe
saputo vincere i Cimbri. Gli ambasciatori di Mitridate, venuti a
profonder l’oro tra i grandi di Roma, furono minacciati da
dimostrazioni popolari, eccitate da un focoso demagogo, Lucio
Appuleio Saturnino, allora tribuno della plebe191; e il Senato
dovè, per salvare le apparenze, mandare una missione in
Oriente, incaricare il pretore Antonio di ordinare la provincia di
Cilicia; ma corrotto dall’oro pontico, lasciò che Mitridate e
Nicomede non solo non sgombrassero la Paflagonia, ma occupassero
anche la Galazia192. Per fortuna gli eventi volgevano più
prosperi al nord, per merito dell’eroe popolano. I Cimbri e i
Teutoni, dopo la sconfitta dei due consoli, non invasero subito
l’Italia, ma si rovesciarono sulla Gallia non romana e sulla Spagna;
onde Mario ebbe tempo di perfezionare le sue riforme militari:
abolì l’ordine manipolare e con l’ordine manipolare la
distinzione tra legioni di cittadini romani e coorti di alleati;
ordinò le legioni allo stesso modo dei contingenti italici,
per coorti, che più compatte, pesanti e uniformi dei
manipoli, potevano comporsi di soldati meno eccellenti, come quelli
che si reclutavano nella feccia delle città;
perfezionò le armi, il pilum e il bagaglio; esercitò
energicamente la nuova milizia. Mentre egli preparava così la
rivincita, il partito popolare procedeva a Roma di trionfo in
trionfo; faceva eleggere in odio alla nobiltà di anno in anno
Mario a console, non ostante le leggi; in odio alla nobiltà
faceva approvare inasprimenti delle procedure contro i governatori
ladri; e la elezione popolare dei collegi sacerdotali che sino
allora si erano rinnovati per scelta tra poche famiglie nobili.
Tutti gli ambiziosi corteggiavano questo partito; i ricchi
finanzieri lo favorivano; perfino i conservatori illuminati
ritornavano a considerare con benevolenza il suo programma di
riforme sociali e politiche; anzi le leggi agrarie, sempre
riproposte e non mai portate a compimento, erano quasi di moda193; e
molti riprendevano a sperare salute per l’afflitta nazione da questo
partito, erede delle tradizioni dei Gracchi, mentre, quasi a
confermare la speranza, il suo eroe sgominava i barbari due volte; a
Aix (102) e ai Campi Raudi (presso Vercelli? 101) sgombrando alla
fine l’impero da queste orde e tornando a Roma, salutato come terzo
fondatore di Roma, dopo Romolo e Camillo: supremo orgoglio per il
contadino, nato in un tugurio dell’Arpinate.
IV.
MARIO
E LA GRANDE INSURREZIONE PROLETARIA DEL MONDO ANTICO.
Proprio allora, un secolo prima di Cristo, sebbene i tempi
migliorassero in qualche piccola cosa, l’Italia pareva precipitare,
con velocità accelerata, verso la catastrofe immane,
paventata da tanto tempo. La diffusione della filosofia greca, i
progressi dell’istruzione, della ricchezza, della civiltà
facevano sentire più vivamente la durezza di tanti rigori
formali dell’antico diritto e l’orrore di certe superstizioni
barbare che infliggevano sofferenze senza giovare a nessuno;
l’abolizione dei sacrifici umani, di cui qualche avanzo restava
ancora in Italia, stava per essere decretata194; il diritto
progrediva, per opera dei pretori che riconoscevano in misura sempre
maggiore le ragioni della equità nei loro editti, per effetto
di leggi riformatrici, quale la lex Aebutia, che intorno a questi
tempi aveva abolito la vecchia procedura, rigida e pedantesca, delle
legis actiones; e introdotta invece la procedura formulare,
più flessuosa, più razionale, più acconcia alla
nuova età mercantile, in cui i litigi erano tanto più
numerosi e arruffati195. Ma nella gara furibonda per la conquista
della ricchezza, della cultura, del piacere, del potere gli animi
inferocivano, le classi e lo Stato si dissolvevano. Nelle alte
classi la coltura letteraria e il lusso artistico, nel medio ceto la
pigrizia, i vizi, la cupidigia dei subiti guadagni, l’ambizione di
passare nelle classi superiori si diffondevano ormai sfrenatamente,
come una epidemia vittoriosa nei giorni del più largo e
veloce contagio. I nobili e i ricchi incominciarono a costruire in
Roma eleganti palazzi, usando invece del travertino paesano marmi
forestieri più fini, come l’imettio196; molti signori si
dilettarono di scriver libri, storie, trattati, poesie in greco o in
latino; nel fôro parlavano ormai oratori, come Antonio e
Licinio Crasso, che erano divenuti, studiando i modelli greci197,
maestri di una eloquenza artistica; la conoscenza e il gusto
dell’arte attica e asiatica si divulgavano; scultori e pittori
greci, tra i quali acquistò gran nome una donna, Iaia di
Cizico198, lavorarono numerosi per i grandi di Roma: ma questi
lussi, le etère orientali, lo sfoggio degli schiavi e dei
metalli preziosi, i bagordi rovinavano quasi tutta la nobiltà
storica di Roma, riducendola a vivere di ripieghi, di debiti, di
concussioni, di rapine199; a cercare le amicizie e i matrimoni con
gli oscuri ma ricchissimi appaltatori e finanzieri. Molti
agricoltori leggevano gli scritti degli agronomi greci o il
compendio della georgica greca fatto dal cartaginese Magone, che era
stato tradotto per ordine del Senato; si facevano prestare un
capitaletto, piantavano uliveti e vigneti, s’ingegnavano di coltivar
meglio; ma l’inesperienza, la mancanza di vie, l’imperfetto
ordinamento del commercio, le forti usure mandavano spesso a vuoto
queste prove e rovinavano chi le aveva tentate200. Ogni anno si
aprivano a Roma, nelle città latine, nelle città
alleate, nuove scuole di rettorica, a cui traevano torme di scolari
ogni anno più numerose e nelle quali si preparavano una
lingua, uno stile e una eloquenza nazionali201; il latino acquistava
terreno, come lingua parlata e scritta, sul sabellico e
sull’osco202; l’emigrazione italiana nelle provincie aumentava: ma
troppi giovani avvocati non trovavano poi nè protettori per
salire, nè clienti da difendere; troppi si davano al
commercio, e se alcuni arricchivano a Delo, in Asia, in Egitto,
molti fallivano. La legge di Spurio Torio, che convertendo tanta
parte del demanio pubblico in proprietà privata le aveva
incitate allo spendere, impoveriva definitivamente, dopo un sollievo
passeggero, le classi possedenti la terra, accelerando la
rivoluzione agraria e sociale, che travagliava e rinnovava l’Italia;
gli spostati, i disperati, i mercanti falliti, i possidenti
scacciati infestavano in numero sempre maggiore l’Italia; in ogni
regione la piccola proprietà spariva, la terra passava in
possesso di pochi, l’usura prosperava. Sola arricchiva, in mezzo
alla rovina universale, una piccola oligarchia di capitalisti grandi
e piccini; composta di qualche nobile romano, di molti liberti, di
possidenti arricchitisi con gli affari203, di avanzi delle antiche
nobiltà locali dell’Italia, tra i quali era perfino il
discendente di una famiglia reale dell’Etruria, Caio Cilnio
Mecenate, che, smessi gli orgogli della sua regale prosapia, s’era
dato a far l’appaltatore e il finanziere a Roma204. Questa
plutocrazia si arricchiva, depredando senza misericordia l’Italia e
l’Asia, dove l’aumento delle imposte decretato da Caio, e i soprusi
dei finanzieri appaltatori delle gabelle impoverivano e indebitavano
il medio ceto e il popolo; onde al lucro dell’appalto delle imposte
si aggiungeva per i capitalisti italiani il lucro delle usure sempre
più facili e del commercio degli uomini, che essi facevano
rubare nei paesi vicini e vendevano in Italia.
Intanto le finanze pubbliche erano rovinate e l’esercito disfatto;
la flotta che aveva vinto Cartagine marciva nei porti dell’Italia;
Roma non riusciva a domare le nuove e sanguinose rivolte di schiavi
scoppiate in Sicilia e in Campania; Mitridate, sempre vigile, aveva
approfittato della guerra cimbrica, per rompere l’alleanza con il re
di Bitinia, e impadronirsi da solo della Cappadocia, facendone re un
suo giovane figlio, sotto la tutela di un suo ministro; a Roma e in
Italia, non avevan tregua gli odi e le discordie tra le classi, tra
le famiglie, tra i singoli. La rivalità tra i ricchi
finanzieri e la nobiltà storica si inveleniva; perchè
quelli, pur lasciando alla nobiltà le magistrature per darsi
agli affari, divenivano sempre più prepotenti e superbi per
la forza del denaro, delle clientele, del diritto di giudicare i
senatori; si consideravano pari o superiori alla nobiltà
storica impoverita205; e avevano probabilmente contribuito non poco
ai successi del partito popolare negli ultimi anni e alle rielezioni
trionfali di Mario che salvava l’Italia; mentre una parte della
nobiltà storica, disgustata dalla corruzione e dal disordine
universale di cui il denaro era il fattore visibile e tangibile,
furiosa per la sua povertà e per l’insolenza dei parvenus,
sprezzava questi come predoni e furfanti, che mercanteggiavano ogni
cosa, anche la giustizia; rammaricava i tempi onesti in cui la
nobiltà sola era potente; chiedeva leggi severe contro gli
abusi del capitalismo; serbava rancore a quei nobili che, come Caio
Giulio Cesare, per speranza di lucro e di potenza, trattavano come
pari i villani rifatti della politica e della finanza, ne cercavano
le amicizie e le parentele206; o abbandonavano il rango, per darsi
agli appalti e agli affari207. Il partito popolare da dieci anni
incalzava con accuse e leggi di persecuzione la nobiltà,
trovando largo seguito nei malcontenti di tutte le classi; ma
degenerato anch’esso dalla grandezza ideale dei tempi dei Gracchi,
non possedeva il segreto di nessun farmaco che guarisse i mali
comuni; rinnovava sempre la proposta di leggi agrarie simiglianti a
quelle dei Gracchi, ma per consuetudine, senza tentarne mai con
vigore l’attuazione, che del resto sarebbe stato vano tentare,
perchè gli uomini non volevano terre da coltivare con le
proprie braccia ma rendite non laboriose; e condotto da Saturnino e
Glaucia, uomini eccitabili e imprudenti, come spesso sono i capi dei
partiti popolari di opposizione, si esaltava ripetendo le accuse e
le invettive, mentre il pubblico incominciava a stancarsi e a
disgustarsi di queste persecuzioni feroci, senza misericordia e
misura208. Gli avventurieri famelici, gli ambiziosi violenti o
pazzi, i furfanti astuti invadevano le magistrature e lo Stato,
scacciandone gli uomini onesti, dabbene, ragionevoli, che sapevano
vivere con quello che possedevano, senza rubare o far debiti; ai
quali non restava altro conforto se non lamentare che la giustizia
fosse ormai solo uno strumento di sopraffazioni e vendette,
maneggiato dalle clientele e dai partiti, la politica e la vita
sociale uno spaventoso aggrovigliamento di processi, intrighi,
calunnie; che la violenza, la frode, la corruzione elettorale
dilagassero; che ormai a Roma, come un tempo a Cartagine, il denaro
fosse il desiderio supremo della vita e la suprema misura del valore
personale209; che nel 105 i giuochi dei gladiatori, fino allora
ornamento privato dei funerali, fossero ammessi tra gli spettacoli
ufficiali, dati a spese dei magistrati; che tanti abbandonassero il
modesto ma sicuro stato di agricoltori, per tentar la incerta
fortuna degli affari; che tanti modesti possidenti si rovinassero,
per far studiare i loro figli, i quali poi, orgogliosi per il loro
sapere, volevano acquistare a Roma in pochi anni, chiacchierando nel
foro, potenza e ricchezza. Specialmente nelle alte classi era
opinione comune che la diffusione della coltura nel medio ceto fosse
un male, perchè faceva degli insubordinati, degli spostati210
e dei birbanti. “Chi studia il greco diventa un birbone”211:
così dicevano molti, spaventati dalla terribile depravazione
di cui è cagione la cultura, nei trapassi di civiltà,
quando essa fomenta i desideri e gli orgogli, e non dà poi a
molti che le tribolazioni e le umiliazioni della povertà. Tra
i pirati, infatti, che insidiavano ormai tutto il Mediterraneo dando
la caccia agli uomini per vendere i prigionieri sul mercato di Delo
o in Italia, dove al crescente consumo non bastavano più gli
scarsi prigionieri delle poche guerre e il commercio con i
barbari212, erano numerosi gli spostati dell’Italia; e più di
un antico studente, venduti i manoscritti di Omero e Platone, era
montato su una nave corsara. Peggio ancora secondo i conservatori,
l’idea della cittadinanza italica faceva rapidi progressi,
specialmente nel medio ceto impoverito dell’Italia che si illudeva
di potere, acquistando la cittadinanza, recar sollievo al proprio
disagio; tra i giovani che avevano studiato eloquenza e che eran
malcontenti di dover difender piccole cause e concorrere alle umili
magistrature municipali nella loro cittaduzza; tra tutti coloro (ed
eran molti), i quali desideravano godere i privilegi del cittadino
romano, da quello di non poter essere condannati a morte a quello di
partecipare ai lucri dell’elettorato e delle magistrature. Le
nobiltà locali, che avevano per tanti secoli mantenuto in
docile soggezione il medio ceto rustico dell’Italia, erano sparite;
i pochi usurai e appaltatori arricchiti che avevano preso il loro
posto erano troppo odiati, e non avevano autorità; onde il
medio ceto, abbandonato a sè stesso, e tormentato dai debiti,
era agitato da spiriti di rivolta ogni anno più intensi. La
babelica confusione delle idee, che prorompeva in tutta Italia dal
disordine di tanti interessi, ambizioni e propositi discordi, era
infine ancora accresciuta dalle innumeri e contradditorie dottrine
morali e politiche dei filosofi greci, ormai note e discusse;
cosicchè ogni persona colta la pensava a modo suo sui mali
del tempo; e le teorie annebbiavano quella poca chiarezza di idee e
di propositi che ancor restava; e le discussioni sui guai di Roma
erano infinite, ma le opere non seguivano; e dallo snervamento
agitato di questa inerzia molti cercavano di scuotersi con un
disperato rimpianto dei bei tempi passati, e con la consueta
invocazione fanciullesca al genio salvatore. Un uomo, Caio Gracco
(si dava la colpa di tutto proprio al più gran politico di
Roma!) era stato, secondo gli uomini savi, la cagione di tutti i
mali presenti: egli aveva rovinato l’erario con le frumentazioni;
fatta onnipotente la plutocrazia e il denaro con la legge
giudiziaria; scatenata la demagogia; disfatto definitivamente
l’esercito, e abbandonate con la legge asiatica, le provincie al
saccheggio dei finanzieri213. Un altro uomo salverebbe l’Italia.
Mario si illuse di poter essere egli il salvatore. Mario non aveva,
sino allora, parteggiato per nessun partito, perchè era
troppo orgoglioso, imperioso e solitario; perchè dopo la
prima elezione a console, aveva dovuto solo accettare,
anzichè ricercare i suffragi dei popolari214. Ma i grandi
guerrieri e i grandi letterati si persuadono facilmente di poter
governare gli uomini; perchè sapendo muovere gli spiriti di
altri uomini ad atti e a sentimenti semplici, si inorgogliscono a
segno da dimenticare che l’anima di un esercito in guerra e l’anima
di un pubblico avido di sapere e di godimenti estetici sono piccole
e semplici, in confronto all’anima immensa di una società in
cui cozzano, si torcono e tentano di esplodere i più violenti
antagonismi di classe. Mario infatti, esaltato dai trionfi cimbrici
a nuove ambizioni, volle un sesto consolato; ma per averlo, ora che
con la guerra era finita anche la sollecita spontaneità dei
suffragi di tanti cittadini paurosi dei Cimbri, dovè questa
volta, facendo violenza alla sua natura, legarsi con un partito; non
coll’aristocratico a oltranza, che non gli perdonava di essere stato
per quattro anni l’eroe popolare; non con il partito dei
conservatori illuminati, i quali nelle grandi crisi storiche non
contano mai nulla perchè hanno troppa paura; ma con il
partito democratico, il solo che lo accogliesse. Mario, Saturnino,
Glaucia fecero lega; Mario fu eletto console, Saturnino tribuno
della plebe, Glaucia pretore; e insieme inaugurarono il governo
popolare dell’anno 100: nel quale i due demagoghi ben presto
ridussero a loro strumento il vincitore dei Cimbri215. Saturnino
propose una legge agraria, che pare disponesse di assegnare ai
romani e agli italiani poveri le terre della Gallia Transpadana
devastate dai Cimbri; una legge frumentaria che riduceva il prezzo
del grano venduto dal governo in Roma; una legge coloniale che,
riprendendo un’idea di Caio Gracco, proponeva di fondare, con i
veterani di Mario, colonie in Grecia, in Macedonia, in Sicilia, in
Africa216. Proposte non prive di saggezza; ma che non poterono
essere discusse pacatamente per la lunga esasperazione degli animi:
i conservatori e i popolari trascesero ben presto a violenze;
esaltati dalle quali Saturnino e Glaucia fecero approvare le leggi
chiamando in Roma bande di contadini armati; non solo, ma alle
elezioni per il consolato del 99 Saturnino pare facesse uccidere
Caio Memmio, persona dabbene e stimata, che si proponeva contro
Glaucia, prorompendo ad aperta rivolta. Era troppo. Il pubblico,
specialmente i ricchi capitalisti217, che avevano aiutato sino
allora il partito popolare, si spaventarono; il Senato
decretò lo stato d’assedio e gli uomini più insigni
presero le armi: Mario che, tentennante in mezzo a questa bufera tra
gli istinti così poco faziosi del suo spirito e le senili
ambizioni politiche, si mostrava irrisoluto, malfermo, incoerente,
dovè mettersi alla testa dei senatori e dei cavalieri per
reprimere la rivolta; ma agì con tanta esitazione e debolezza
che il partito conservatore lo giudicò complice, in cuor suo,
dei ribelli, mentre i democratici ardenti lo giudicarono traditore,
perchè alla fine la rivolta fu pure domata da lui; Saturnino
e Glaucia uccisi da bande di nobili e di capitalisti al suo
comando218.
Lo spavento della rivoluzione, che è l’arma del partito
conservatore, come gli scandali sono quella del partito popolare,
fece cadere il partito popolare e le sue idee in disgrazia del
pubblico impaurito, disgustato e svogliato, specialmente dei ricchi
e potenti finanzieri; il partito conservatore ritornò al
potere, mentre i conservatori illuminati ed onesti continuavano,
come sempre, a dare timidamente a tutti buoni consigli non seguiti
da nessuno, e Mario, venuto in sospetto a tutti un anno dopo il
trionfo cimbrico, partiva per un lungo viaggio in Oriente. Il
partito conservatore tentò, per acquistare il favore
pubblico, di rinvigorire la politica estera; e se saggiamente fece
rifiutare dal Senato la Cirenaica, che Tolomeo Apione aveva legata
nel 96 morendo al popolo romano, non volendo assumere, tra tanti
guai, la pacificazione di un paese semibarbaro e pieno di disordine;
volle però definitivamente comporre le cose in Oriente,
ordinando nel 95, questa volta sul serio, a Mitridate e a Nicomede
di restituire il mal tolto. La Galazia fu ridata ai tetrarchi, la
Paflagonia dichiarata libera, la Cappadocia posta sotto il governo
di un nobile persiano, fatto re, Ariobarzane219; e quando Mitridate,
di lì a due anni, fatta una alleanza con Tigrane re di
Armenia, invase di nuovo la Cappadocia scacciando Ariobarzane, il
partito aristocratico di nuovo operò con energia, mandando il
propretore Lucio Cornelio Silla, con un piccolo esercito, a rimetter
sul trono Ariobarzane220. Ma questi successi non bastavano a
tranquillare l’Italia, ove la miseria cresceva e l’idea della
cittadinanza agitava sempre più gli Italiani; ove il partito
popolare si arrovellava per riacquistare il potere perduto, e Mario
era tornato dall’Oriente, non rassegnato a diventare vivo ancora un
personaggio storico; ove l’odio tra la nobiltà storica e i
finanzieri, conciliati per un momento dallo spavento della
rivoluzione di Saturnino, si addensava, sinchè la condanna di
Publio Rutilio Rufo, nel 93, lo fece prorompere. Era costui uno dei
pochissimi uomini politici del tempo assolutamente onesti; un nobile
e un conservatore senza macchia e senza paura, aperto nemico
così dei demagoghi come dei capitalisti, ammiratore
intransigente del buon tempo antico; il quale, governando come
legatus pro pretore l’Asia, aveva energicamente repressi gli abusi
dei finanzieri italiani. Ma costoro al suo ritorno a Roma lo fecero
accusare di malversazioni da un miserabile e condannare dai loro
amici sedenti nel tribunale. Rufo prese la via dell’esilio; ma a
Roma, esasperata da questa mostruosa ingiustizia, che sconvolgeva
gli ultimi avanzi dell’ordine morale, la parte migliore della
nobiltà sentì che bisognava scuotersi, agire,
combattere; e alla fine un nobile, di grande ambizione e ardimento,
Livio Druso, eletto tribuno per il 91, immaginò di ripetere
contro i finanzieri la politica di Caio Gracco contro i
latifondisti; stringere cioè in alleanza una parte della
nobiltà e il partito popolare, proponendo, con altre che
dovevano acquistargli il favore del popolo, due leggi capitali: una
che toglieva ai cavalieri la potestà giudiziaria, l’altra che
concedeva la cittadinanza agli Italici. Nella nobiltà una
parte considerevole era avversa al disegno di concedere la
cittadinanza agli Italici per spirito di tradizione e per il
ragionevole timore che il disordine demagogico sarebbe ancora
cresciuto in seguito a questo aumento dell’elettorato povero e
ignorante221; una parte era invece favorevole, considerando la
riforma come inevitabile e giusta, non ostante i suoi pericoli222.
Invece i finanzieri e gli Italiani molto ricchi erano ferocemente
avversi, certo perchè temevano che la riforma politica
sarebbe seguita da una rivoluzione sociale; e che gli Italici, dei
quali il maggior numero erano poveri e indebitati, avrebbero poi,
impadronitisi dello Stato, fatta votare qualcuna di quelle
rivoluzionarie leggi agrarie e abolizioni di debiti, così
frequenti nella storia antica223. Seguì una terribile
agitazione, nella quale la nobiltà si divise; e in parte
stette per Livio, in parte si unì ai finanzieri e li
aiutò nella violenta opposizione contro Livio; gli odi da
tanto tempo accumulati divamparono in altissime fiamme da tutte le
parti; sinchè una mattina Livio fu pugnalato da uno
sconosciuto nella sua casa; e i cavalieri, in mezzo allo scompiglio
gettato da questo assassinio nel partito di Livio, fecero in fretta
approvare una legge che istituiva un tribunale straordinario, per
procedere contro i sospetti di favorire gli Italici; incominciando a
far processare e condannare tutti i membri della nobiltà e
del partito popolare più avversi a loro, con l’intenzione di
ripulir Roma per molto tempo dai propri nemici224.
Ma a un tratto la terra, scossa da un terremoto, tremò sotto
i loro piedi. L’Italia meridionale, le regioni a sud del Liri,
quelle cioè di civiltà più antica, più
impoverite dai nuovi tempi, più spopolate e desolate dai
latifondi, dove i sostegni dell’antico ordine di cose erano
più consumati, avevano, stanche dal lungo aspettare, prese le
armi per la causa comune degli Italiani contro Roma, le città
alleate e le colonie latine dell’Italia centrale e settentrionale
che restarono tutte, tolte poche, fedeli225. Roma rabbrividì
di terrore; per un momento le discordie di parte posarono; furono
richiamate in Italia le legioni sparse per l’impero, richiesti i
contingenti marittimi a Eraclea, a Clazomene, a Mileto226; armati
liberti e schiavi; Mario stesso, per non screditarsi, dovè
domandare un comando: e incominciò una guerra terribile in
cui i generali romani devastarono l’Italia senza misericordia come
un paese di conquista, incendiando le fattorie, saccheggiando le
città, dando la caccia agli uomini, alle donne, ai fanciulli
per venderli schiavi o mandarli negli ergastoli dei propri
poderi227. In questa guerra fece le prime armi un giovane assai
colto, appartenente a una agiata famiglia di Arpino, che si chiamava
Marco Tullio Cicerone228. Tuttavia questa guerra di sterminio nel
cuore dell’Italia, ebbe un effetto buono; fece cioè prevalere
nella nobiltà il partito nemico dei finanzieri e favorevole
alla cittadinanza italica; cosicchè non solo il console Lucio
Giulio Cesare potè fare approvare, nel 90, che si desse la
cittadinanza alle città rimaste fedeli; ma poco dopo, sul
finire dell’anno stesso o sul principio del seguente, due tribuni
della plebe proposero, con la legge Plauzia-Papiria, che ogni
cittadino delle città alleate, domiciliato in Italia, potesse
acquistare la cittadinanza pur di farne dichiarazione entro sessanta
giorni al pretore in Roma; e nell’89 una lex Plautia tolse i
tribunali ai cavalieri, disponendo che i giudici sarebbero eletti
dalle tribù in ogni ceto229. Forse in questo stesso anno il
console Gneo Pompeo Strabone proponeva che si concedessero alle
città della Gallia Cisalpina i diritti delle colonie latine,
per sottoporle all’obbligo della leva e compensare le perdite del
reclutamento che venivano dalla ribellione degli alleati230. Tante
concessioni contribuirono più che gli eserciti a finir la
guerra; onde ben presto soltanto i Sanniti e i Lucani rimasero in
armi.
Ma l’Italia incominciava appena a riaversi da questo spavento,
quando ne sopravvenne un altro, ancor più terribile.
Mitridate era stato sorpreso dalla guerra sociale mentre preparava
alacremente gli apparecchi di una grande guerra per scacciare Roma
dall’Asia: l’audace disegno che egli aveva alla fine concepito,
incoraggiato dalla condizione sua e di Roma. L’ammirazione di cui
Roma aveva goduto nel mondo greco nei cinquant’anni dopo Zama, si
era voltata in odio dopo la distruzione di Cartagine e di Corinto,
molti lamentando che Roma non facesse più per il mondo la sua
bella politica liberatrice da repubblica, ma una odiosa e ambiziosa
politica da monarchia231; l’Asia era malcontenta per lo sfruttamento
dei capitalisti romani, per la caccia agli uomini fatta dai pirati
su tutte le coste del Mediterraneo per conto dei mercanti italiani;
la potenza di Roma decadeva. Egli invece poteva reclutare nei suoi
paesi e tra i barbari un grosso esercito; fabbricava sulle rive del
Mar Nero una flotta poderosa; aveva nella Crimea il granaio di
guerra, necessario a mantenere grossi eserciti in campagna senza
affamare il Ponto. Non pronto ancora però, egli aiutò
intanto un fratello minore del re di Bitinia a togliere il trono a
questo e d’accordo con Tigrane, re di Armenia, riconquistò la
Cappadocia, e vi rimise sul trono suo figlio; sperando che Roma non
interverrebbe. Ma da Roma invece il partito aristocratico, che
voleva mostrar vigore nella politica estera, mandò nel 90
un’ambasciata, con a capo Manio Aquilio, generale valoroso, ma
cupido e senza scrupoli, che doveva ricondurre i due re nei loro
Stati con l’aiuto del piccolo esercito del proconsole Lucio Cassio.
Cassio e Aquilio compirono facilmente la missione232; ma Aquilio,
che non era venuto sino in Oriente per così poco come le
somme promesse a lui da Nicomede e che perciò voleva una
grossa guerra con Mitridate, istigò Nicomede e Ariobarzane a
fare incursioni nel Ponto. I due re esitavano; ma Nicomede doveva
grosse somme ai banchieri romani di Efeso, prese a prestito durante
l’esilio, per preparare a Roma e in Asia il ritorno; e Aquilio
gliene fece domandare con insistenza il pagamento, sinchè
Nicomede si risolvè a pagare con i guadagni di una razzia nel
Ponto233. Mitridate tuttavia, e per guadagnar tempo e per mettere
l’avversario dalla parte del torto, mandò a domandare ad
Aquilio equi e modesti compensi; rifiutati i quali, quando sul
finire dell’anno 89 si credè pronto, Mitridate fece invadere
dal figlio la Cappadocia, e mandò a ridomandare energicamente
ad Aquilio soddisfazione. Manio rispose intimando a Mitridate la
sottomissione senza condizione; e la guerra fu dichiarata234. Ma
quando, nella primavera dell’88, la guerra incominciò,
Mitridate aveva pronta una flotta di 400 navi e uno di quegli
smisurati eserciti, che la strategia dell’Oriente credeva
formidabili per il loro numero, come la strategia moderna immagina,
per la stessa ragione, invincibili gli eserciti di cui l’Europa
è coperta: 300 000 tra mercenari greci, cavalieri
armeni, fantaccini cappadoci, paflagoni e galati, Sciti, Sarmati,
Traci, Bastarni e Celti235. Manio Aquilio invece, non aveva potuto
raccogliere nell’inverno che una debole flotta bitino-asiatica e un
esercito di nemmeno 200 000 uomini, nel quale, oltre l’esercito
del re di Bitinia, il resto si componeva di giovani reclute
asiatiche, inquadrate nei pochi contingenti romani. Difatti in poche
settimane i quattro corpi in cui era diviso l’esercito romano furon
disfatti o si disfecero; la flotta romana si arrese alla pontica; il
re di Bitinia fuggì in Italia; i generali romani caddero
prigioni; e Mitridate invase l’Asia236.
Terribile fu la ripercussione in Italia di questo rovescio. La
guerra sociale aveva già rovinati molti medi e piccoli
possidenti, distrutti gli armenti i casolari le ville e interrotte
le rendite a molti ricchi signori che possedevano nell’Italia
Meridionale; ed ora l’invasione dell’Asia sospendeva il reddito
degli ingenti capitali impiegati dai finanzieri nella provincia;
onde i publicani non potevano più pagare, le altre tasse
nella miseria crescente rendevano poco, le casse dello Stato erano
vuote; i capitalisti, impauriti, nascondevano il denaro, non
prestavano più, riscuotevano invece con energia i loro
crediti; la moneta scarseggiava a Roma e di quella poca che ancora
girava, la più era falsa. L’esasperazione dei beni perduti e
la paura di perderli inferocì gli animi; un pretore che
voleva frenare le crudeltà dei creditori fu assassinato, un
mattino, da un manipolo di capitalisti, mentre offriva un
sacrificio; Roma era piena di tumulti, di assassinî, di
ruberie, di risse tra i vecchi cittadini e i nuovi, questi
esasperati ancor più di quelli perchè il Senato,
invece di inscriverli subito nelle 35 tribù, indugiava
studiando varie proposte, che tutte avrebbero reso vano il loro
nuovo diritto: inscriverli in 10 tribù nuove, inscriverli in
8 delle antiche 35 tribù237. Ben presto giunsero notizie
anche più terribili dall’Oriente: non si trattava più
di una guerra con un altro Stato, ma di una rivolta proletaria
contro la plutocrazia romana. Agli artigiani, ai contadini, al medio
ceto dei mercanti e possidenti dell’Asia, oppressi dai banchieri
romani e dagli usurai indigeni, ebrei, egiziani, che si
raccoglievano intorno ai Romani, Mitridate aveva voluto apparire non
solo come l’eroe dell’ellenismo, ma anche come lo sterminatore della
plutocrazia cosmopolita; e perciò aveva mandato segreti
ordini a tutti i governatori delle provincie conquistate di
preparare, per il trentesimo giorno dalla data della lettera, lo
sterminio degli Italiani. Le plebi, già inasprite per la
condanna del loro buon protettore Rutilio Rufo, erano state
abilmente eccitate da agenti; agli schiavi e ai debitori, che
avessero uccisi i padroni o i creditori, era stata promessa la
libertà o la remissione di mezzo il debito; e al giorno
fissato centomila Italiani, uomini, donne, bambini, erano stati
inseguiti, assaltati, sgozzati, annegati, bruciati vivi a furore di
popolo in tutte le città grandi e piccole dell’Asia; i loro
schiavi liberati, i loro beni divisi tra le città e il fisco
reale, insieme con quelli di altri capitalisti non italiani, come i
depositi dei banchieri ebrei nell’isola di Coo238. Intanto lo
spirito di rivolta si comunicava per contagio alla Grecia, dove il
popolo di Atene, incitato dai professori dell’Università,
insorgeva, prontamente aiutato da Mitridate che mandò in
Grecia un suo generale, Archelao, con una flotta e un esercito, a
ridurre le città non ancora insorte, a conquistare e
devastare Delo239. Incominciava una gran guerra per la signoria del
mondo ellenico, tra il monarca asiatico aiutato dalla plebe
rivoluzionaria, e la plutocrazia italica aiutata da una aristocrazia
in dissoluzione e da una democrazia in formazione, mentre la classe
intellettuale, i letterati e filosofi di professione, così
numerosi nell’Oriente, si sarebbero, come in tutte le lotte sociali,
divisi per l’uno o per l’altro dei due nemici, secondo la simpatia,
gli interessi, le relazioni di ciascuno.
Il Senato si affrettò a provvedere: ordinò leve,
incaricò Silla, che nell’88 era console, di comandare la
guerra; e perchè il tesoro era vuoto, vendè tutta la
mano-morta romana, i beni che i templi possedevano in Roma240. Ma
erano tempi infuocati, il cui riverbero scompigliava in Italia tutti
gli spiriti, sino al furore dei più disperati propositi.
Mentre l’Asia e l’impero erano in pericolo, i Sanniti e i Lucani
ancora in armi mandavano ambasciatori a Mitridate per allearsi; un
gran numero di Italiani, rovinati dalla guerra sociale, per odio al
partito conservatore che cercava di eludere la concessione della
cittadinanza, per bisogno di campar la vita in qualche modo
fuggivano in Asia ad arruolarsi sotto le bandiere di Mitridate241; a
Roma i finanzieri erano furibondi per il potere giudiziario perduto;
e Mario, rabbioso contro tutti e contro sè stesso
perchè si sentiva dimenticato dalle moltitudini; indebolito
di mente dalla ubriachezza a cui si era dato; farneticante di
togliere a Silla il comando della guerra contro Mitridate, di
conquistare gli immensi tesori del re del Ponto e di rivivere le
grandi giornate del trionfo cimbrico, macchinava, d’accordo con
Publio Sulpicio Rufo, tribuno della plebe e grande oratore,
già aristocratico e convertitosi in ardente demagogo, a
quanto sembra, per debiti e rancori personali, una rivoluzione, che
doveva compiersi con l’aiuto degli Italiani e di una parte del ceto
finanziario, la quale sperava di riavere il potere giudiziario con
questa temeraria manovra242. Con il pretesto di soddisfare
definitivamente i nuovi cittadini, Rufo propose, e assoldando bande
di bravi che atterrirono gli elettori e usarono violenza ai consoli,
fece approvare una legge, per la quale gli Italiani sarebbero stati
distribuiti nelle 35 tribù. I consoli furono costretti ad
abbandonar Roma; Silla raggiunse l’esercito suo che si raccoglieva a
Nola; Mario, restato padrone con Rufo di Roma, faceva approvare una
legge che gli assegnava il comando della guerra d’Oriente, e subito
mandava a Silla l’ordine di consegnargli le legioni.
V.
SILLA E LA REAZIONE CONSERVATRICE A ROMA.
La principale cagione per cui i partiti dei ricchi sono spesso
così deboli contro i partiti dei poveri, è questa: che
non sanno riconoscere i propri campioni per quello spietato spirito
di gelosia e di disprezzo reciproco, che divide sempre gli uomini
ricchi e colti, il cui male incurabile è in ogni tempo il
sentir troppo fortemente di sè. Infatti allora, mentre a Roma
la rivoluzione signoreggiava con Mario, solo per caso i conservatori
trovarono un proprio campione. Silla, che aveva indugiato sino
allora, pur prendendo parte con onore alla guerra cimbrica e
sociale, lontano dalle contese politiche, e che solo in quell’anno,
già più che cinquantenne, era giunto al consolato, non
era nè un fazioso arrabbiato nè un grande ambizioso.
Superbo e sensuale, pur di godersi a Roma donne, banchetti,
commedianti e libri, avrebbe forse lasciato anche in avvenire i due
partiti trucidarsi a vicenda, spregiandoli ambedue; e certo non
avrebbe mai, come Mario, per ambizione, scatenata una guerra civile.
Ma il caso aveva fatto che il suo consolato cadesse nell’anno in cui
la rivoluzione scoppiò e che la rivoluzione si volgesse
contro di lui.... A ricevere il messaggio di Mario, Silla non si
spaventò; ma, uomo senza pregiudizi e risoluto, come si fu
assicurato della fedeltà dell’esercito, osò una
audacia inaudita: mosse su Roma, e smessa ogni pedanteria
costituzionale, primo di tutti i Romani entrò con i soldati
nella metropoli, donde Mario, sorpreso da un assalto così
audace, dovè fuggire243. Dodici capi della rivoluzione furono
proscritti, tra i quali Sulpicio Rufo fu ucciso e Mario si
rifugiò in Africa; mentre Silla, rimasto padrone di Roma, si
diportava con moderazione; non perseguitava nessuno; annullava,
perchè incostituzionali, le leggi di Sulpicio; lasciava che
la elezione dei consoli per l’anno seguente si facesse liberamente,
e che con Gneo Ottavio aristocratico fosse eletto console Lucio
Cornelio Cinna, in voce di popolare, facendogli soltanto giurare che
avrebbe rispettate le leggi244. Egli sapeva che se avesse fatto di
più gli stessi conservatori si sarebbero volti contro lui;
gli uni per rispetto della tradizione, gli altri per invidia o
paura.
Poi partì per la guerra. A conquistare il vasto impero
orientale, dove gran parte della popolazione era insorta e che un
esercito di 300 000 uomini occupava, Silla partiva da Brindisi
al principio dell’87, con sole cinque legioni, qualche coorte
spicciola e poca cavalleria, in tutto poco più di 30 000
uomini245, senza flotta bastevole ad assicurargli in ogni caso
contro la poderosa flotta nemica l’approvvigionamento dell’esercito
dall’Italia; e lasciandosi dietro il partito popolare, impaziente di
vendetta. La patria lo cacciava lontano al più disperato
cimento per lei, senza un aiuto, quasi nemica: si salvasse se
poteva; ma peggio per lui se periva. E difatti quando al suo sbarco
in Epiro le milizie politiche e greche, comandate da Archelao e da
Aristione, gli abbandonarono abilmente senza combattere, gran parte
della Grecia, chiudendosi in Atene e nel Pireo; con l’intenzione di
trattenere e logorare l’esercito romano intorno ad Atene,
sinchè sopraggiungesse il nuovo esercito che Mitridate
preparava in Asia; Silla, sceso dal nord ad assediare Atene, si
trovò ben presto in condizione quasi disperata: con a fronte
Archelao straordinariamente abile ed energico nel sostener
l’assedio; con dall’Asia la minaccia di un esercito di più
che 100 000 uomini già sulle mosse per assalirlo alle
spalle attraverso la Tracia e la Macedonia; con le comunicazioni tra
l’esercito e l’Italia rotte dall’armata pontica; e ben presto infine
con il partito popolare signore di nuovo del governo in Italia. Lui
partito, Cinna, indotto, a quanto si disse, da un dono di 300
talenti, fattogli dai nuovi cittadini, aveva proposto che gli
Italici fossero iscritti nelle 35 tribù; ne erano seguiti
combattimenti nelle vie di Roma, tra i due consoli, ciascuno alla
testa di partigiani propri; sinchè Cinna, vinto, deposto e
proscritto era fuggito per le città d’Italia, mostrandosi
come il fuggiasco difensore dei loro diritti, raccogliendo uomini e
denari, incitando i Sanniti, che ancora erano in armi, a non
deporle; mentre Mario, tornato dall’Africa con un piccolo manipolo
di Numidi, girava l’Etruria, ostentandosi vestito di miserabili
cenci, armando liberi e schiavi. Il Senato si preparò alla
difesa, e per prevenire una nuova rivolta italica concesse il
diritto di cittadinanza a tutti gli Italiani, che non lo avevano
ricevuto con le leggi Giulia e Plauzia Papiria, tolti i Sanniti e i
Lucani, ancora in armi246; ma con Silla in Grecia, il partito
conservatore non aveva più un capo energico247, e Mario
s’impadronì di nuovo di Roma. Il contadino, inferocito dalle
lunghe amarezze della oscura vecchiaia e dal furore della fuga
recente, sfogò allora il rancore di tutta la vita su quella
nobiltà che non aveva mai voluto ammirarlo; le teste recise
di molti grandi decorarono per vendetta sua i rostri del foro o
furono portati alle sue case; Silla fu dichiarato nemico della
patria e decaduto dal comando; la sua casa di Roma rasata, le sue
ville devastate, i suoi beni confiscati; perfino Metella sua moglie
dovè fuggire nel suo accampamento.
Intanto intorno ad Atene l’esercito di Silla soffriva la fame, ed
era decimato dalle fatiche, dalle malattie, dalle scaramuccie
combattute ogni giorno, lungo la immensa linea delle opere
d’assedio; se l’esercito di soccorso dall’Asia giungeva prima che
Atene capitolasse, Silla e le sue legioni erano perdute senza
speranza. Ma in un frangente così terribile248 questo nobile
spiantato che aveva cominciato la vita rifacendo la fortuna con
l’eredità di una ricca meretrice greca; questo egoista
insensibile, superbissimo e intelligentissimo, che, pur prendendo
parte a tutte le grandi guerre dell’età sua, pareva avesse
voluto faticare soltanto per compiacersi da sè dei propri
meriti e acquistare le ricchezze necessarie al piacere,
diventò a un tratto l’uomo figurativo, meraviglioso ed
orrendo, di uno dei fenomeni più terribili della storia:
l’egoismo che prorompe nei tempi di estrema dissoluzione sociale,
quando, rotti tutti i vincoli morali tra gli uomini, chi non voglia
immolarsi deve cercar di fare della propria personale salvezza la
legge suprema della vita. Più i nemici gli si addensarono
d’intorno, più l’orgoglioso volle vincer la prova, a
qualunque costo: scatenando contro i suoi nemici tutte le forze di
distruzione che prorompono da un dissolvimento sociale; tendendo sin
quasi a spezzarlo l’arco delle sue facoltà meravigliose: la
lucidezza delle idee, l’astuzia, la risolutezza, la resistenza del
corpo e della mente alla fatica. Per mantenere l’esercito egli
sottopose, senza misericordia, la Grecia a requisizioni tremende;
per far le macchine da guerra e le opere d’assedio, tagliò i
boschetti del Liceo e recise i platani secolari dell’Accademia, alla
cui ombra aveva filosofato Platone; per provvedersi il denaro
necessario alla guerra spogliò tutti i templi della Grecia,
anche i più venerati, degli immensi tesori, e impiantata nel
Peloponneso una zecca, sotto la direzione di un suo giovine
ufficiale, Lucio Licinio Lucullo, monetò i tripodi, i vasi, i
gioielli, gli oggetti d’arte offerti agli Dei da tante generazioni
pie; per disputare ai nemici il dominio del mare, persuase Lucullo a
tentar di sgusciare con sole sei navi tra la flotta pontica che
bloccava la Grecia, per andare a raccoglier navi nei porti del
Mediterraneo; per finir l’assedio, studiò tutte le malizie di
guerra; per mantenere animosi i soldati, partecipò a tutte le
loro fatiche, accorrendo in tutte le mischie, conducendo in persona
le colonne d’attacco: sopratutto profuse tra loro a piene mani il
denaro. Sotto le mura di Atene e in quel frangente terribile, egli
portò a compimento la riforma militare di Mario, creando
definitivamente le milizie mercenarie dell’êra mercantile, con
cui Roma doveva proseguire la conquista intrapresa con le milizie
nazionali dell’età agricola; e che, reclutate nella feccia
della popolazione italica, potevan esser tenute lunghi anni sotto le
armi, sottoposte a una disciplina severa, condotte alla fatica e al
periglio, purchè fossero ben comandate e lautamente pagate.
Eppure Atene resistè tutto l’estate, resistè tutto
l’autunno, ostinatamente, aspettando i soccorsi dal nord.... Per
fortuna l’esercito che Mitridate mandava in Grecia, impacciato dalla
sua stessa mole, impedito dalla difficoltà degli
approvvigionamenti, mal comandato, camminava lento; cosicchè
Caio Senzio Saturnino, governatore della Macedonia, potè con
poche forze trattenerlo e farlo cogliere dall’inverno in Macedonia,
dove fu costretto a svernare249. Silla guadagnò i mesi
dell’inverno; ma intanto, sospeso questo, un pericolo più
serio gli sorse alle spalle, dall’Italia. Mario era morto, al
principio dell’86, ucciso dalle orgie, dall’ubbriachezza,
dall’ultimo furore della sua mente scomposta; ma lui morto, il
governo rivoluzionario, aveva fatto votare, per guadagnare le
moltitudini, una legge, proposta dal console Lucio Valerio Flacco,
nominato in luogo di Mario, con cui tutti i debiti erano condonati
per tre parti su quattro; e aveva incaricato questo stesso console
di togliere il comando a Silla, alla testa di 12 000 uomini,
che egli infatti al principio dell’86 incominciò a
reclutare250. Silla sarebbe stato, alla primavera, preso tra
l’esercito romano e quello di Mitridate.... Per fortuna egli
riuscì a impadronirsi con un assalto disperato di Atene il
primo marzo dell’86 e poco dopo del Pireo; Archelao si ritirò
nella penisola di Munichia, e salpò poi, con l’esercito,
tranquillamente, per raggiungere alle Termopili l’esercito di
invasione; non inseguito da Silla, che mancava di navi, e che,
lasciate invece in Atene poche forze ad assediar l’Acropoli,
andò incontro con grande audacia all’esercito pontico molte
volte più numeroso del suo, sino in Beozia, e lo disfece a
Cheronea251. Padrone allora della Grecia, Silla castigò di
confische ed esecuzioni molte città ribellatesi, con durezza
maggiore Tebe ed Atene; dove prese la biblioteca di Apellicone di
Teo, nella quale era una copia delle opere di Aristotile, ancora
ignote ai Romani.
Intanto Valerio Flacco, sbarcato in Epiro, era indotto dalle molte
diserzioni dei suoi soldati, che, sapendo della generosità di
Silla, lo abbandonavano, e dai consigli del suo legato Caio Flavio
Fimbria, uomo scellerato, ma valente soldato, a volgersi verso
l’Asia a combattere Mitridate, lasciando Silla. Silla però
già si disponeva a inseguirlo, quando fu tratto indietro da
una nuova minaccia contro la Grecia. Le classi ricche dell’Asia, la
plutocrazia indigena e cosmopolita, sopraffatte al tempo dei
massacri degl’Italiani, si erano a poco a poco riavute, e avevano
cominciato a intrigare in favore di Roma, approfittando abilmente
della mobilità delle plebi povere e specialmente del
malcontento di cui eran cagione le continue leve fatte da Mitridate,
dolorose a popolazioni pacifiche e industriose come quelle
dell’Oriente civile252. Alla fine dell’87 Efeso, la opulenta
città mercantile, era già insorta contro Mitridate in
favore di Roma253. La battaglia di Cheronea aveva naturalmente
incoraggiato in tutta l’Asia il partito romanofilo; onde Mitridate
si era risoluto a una doppia audacia: mandar per mare, sotto il
comando di Dorilao, un esercito di 70 000 uomini a
riconquistare la Grecia; dichiararsi in Asia apertamente il re della
rivoluzione sociale, e fare la stessa politica che il partito
democratico faceva in Italia: accordando nell’86 la libertà a
tutte le città greche restate fedeli, abolendo i debiti,
decretando larghe liberazioni di schiavi254; facendo lega segreta
con i pirati, affinchè in compenso della libertà di
corseggiare, molestassero le città a lui nemiche255. Silla
dovè tornare indietro a combattere l’esercito di Dorilao, il
quale, dopo aver imbarcato in Eubea 10 000 uomini che Archelao
era riuscito a scampare dalla disfatta di Cheronea, aveva invasa la
Beozia; e distrutto questo esercito in una sanguinosissima battaglia
ad Orcomeno, costretto Archelao a fuggire di nuovo in Eubea,
conquistò la Grecia definitivamente256. Ma a questo punto
Silla che non aveva navi su cui passare il mare (di Lucullo non gli
era giunta ancora notizia) dovè fermarsi; onde, dopo aver
terribilmente castigate le città della Beozia e della
Locride, prese, alla fine dell’86, i quartieri d’inverno in
Tessaglia, mentre l’esercito di Valerio Flacco invadeva la
Macedonia, costringeva gli ultimi avanzi dell’esercito pontico a
ritornare in Asia e giungeva al Bosforo per imbarcarsi sulla flotta
dei Bizantini.
Vinto il primo e più urgente pericolo, altri pericoli
più lontani minacciavano ancora. Il partito popolare signore
dell’Italia, faceva eleggere ogni anno con la violenza, gli
intrighi, il denaro, uomini suoi alle magistrature; aveva molti
partigiani nel medio ceto delle città italiche, riconoscenti
per l’energia con cui aveva sostenuto i loro diritti; mentre i
ricchi finanzieri ondeggiavano tra la paura di una reazione
conservatrice e la paura di una rivoluzione proletaria, di cui la
riduzione dei debiti approvata nell’86 poteva essere il principio;
mentre nel Senato il coraggio di contrastare alla demagogia
vittoriosa veniva meno ogni giorno. Molti insigni conservatori erano
stati uccisi; altri impauriti si rifugiavano nel campo di Silla o in
lontane provincie dell’impero, dove potevano viver sicuri tra amici
e clienti: il giovane Gneo Pompeo nelle sue terre del Piceno,
Metello Pio in Africa, Marco Licinio Crasso in Spagna; la paura, le
gelosie, gli scrupoli costituzionali, la corruzione toglievano ai
pochi superstiti gli ultimi avanzi dell’energia. Peggio ancora per
Silla, Fimbria era riuscito in Asia a rivoltare i soldati contro
Flacco, a farlo uccidere, a farsi acclamare generale; poi con tutto
l’esercito era passato a svernare in Bitinia devastandola
orrendamente, per continuare nella primavera dell’85 la guerra
contro Mitridate e riconquistare egli l’Asia257. Silla, cui i grandi
successi della guerra di Grecia non avevano fatto smarrire la lucida
visione del reale, capì di non poter affrontare insieme
Mitridate, Fimbria, la demagogia italiana; e perduto ormai, nella
amara tensione della terribile lotta, ogni avanzo di scrupoli e
pregiudizi patriottici come di pietà religiosa o di
misericordia umana, concepì un disegno che sarebbe parso
abbominevole come un tradimento all’intransigente patriottismo delle
vecchie generazioni. Egli aprì trattative con Archelao, lo
corruppe con enormi somme di denaro, con il dono di un’immensa
tenuta, tagliata fuori dal demanio pubblico di Roma nell’Eubea, e
con la promessa del titolo di amico del popolo romano258; lo indusse
a consegnargli subito la flotta che aveva ancora al suo comando e a
impegnarsi di far conchiudere da Mitridate la pace a queste
condizioni: lo statu quo dell’89 sarebbe restaurato; Mitridate
conserverebbe integro l’antico regno del Ponto259, e sarebbe
chiamato amico e alleato del popolo romano260, pagherebbe a Silla
2000 talenti261, consegnerebbe 70 (o 80) navi da guerra262,
cambierebbe i prigionieri e i disertori; Roma amnistierebbe le
città ribellatesi263. Nessun generale romano del buon tempo
antico avrebbe acconsentito a lasciar tornare nei suoi Stati, senza
altro castigo che una contribuzione di guerra, un re che aveva
invasa e devastata la più ricca provincia dell’impero; ma
Silla non era tale uomo che rischiasse la testa per la vergogna di
stringere quasi un’alleanza, contro il partito popolare, con il re
che aveva massacrati 100 000 Italiani. Mitridate, che ormai
aveva, per la sua politica demagogica, perduto ogni favore nelle
alte classi dell’Asia, il cui esercito si disfaceva, ma che non si
scoraggiva mai, tentò di ottenere condizioni anche migliori
di queste, minacciando di allearsi con Fimbria contro Silla; ma per
fortuna di Silla, Fimbria alla primavera si era avventato sugli
stanchi eserciti di Mitridate, devastando tutto, impadronendosi di
Pergamo264; mentre Lucullo, che dopo varie e lunghe avventure aveva
raccolta una flotta, compariva sulle coste dell’Asia, facendo la
guerra di corsa, e incitando le città alla rivolta265.
Mitridate capì che era più facile intendersi,
anzichè con Fimbria, con Silla; il quale intanto veniva con
Archelao verso il Chersoneso Tracico, dove Lucullo gli andò
incontro con la flotta; Silla e Mitridate si videro a Bardano; e
Mitridate, accettate le proposte di Silla, tornò per mare,
con gli avanzi dell’esercito, nel suo antico regno266.
Restava Fimbria. Ma Silla con larghe promesse di denaro
riuscì a far passare i soldati suoi sotto le proprie
bandiere; Fimbria fuggì e si uccise; e Silla fu finalmente
padrone dell’Asia267. Gli bisognava ora rientrare in Italia; dove
signoreggiava un partito che egli odiava profondamente, non per
avversione di classe o discordia di idee, ma per la implacabile
ferocia con cui esso aveva cercato di rovinarlo, durante la campagna
di Grecia. Certo, la sua reputazione era ingrandita rapidamente per
la gloria delle vittorie, per la riconoscenza della borghesia
mercantile a cui aveva restituita l’Asia, e della nobiltà di
cui aveva salvati tanti profughi; ed era cresciuta anche la forza,
perchè egli possedeva ora una flotta e un esercito numeroso e
fedele, molto denaro oltre quello di Mitridate: i tributi arretrati
di cinque anni, e la enorme contribuzione di 20 000 talenti268
che andava estorcendo dalle città asiatiche. Pure, per la sua
indifferenza superba verso ogni cosa che non fosse il proprio
piacere. Silla, che frattanto era tornato in Grecia per riposarsi un
poco in Atene e curare la gotta ai bagni caldi di Edepso nella
Eubea, si sarebbe inteso volentieri per una pace con il partito
popolare, non ostante il suo odio, pur di presto tornare a godersi
le immense ricchezze guadagnate durante la guerra. Ma non si
illudeva che questo lieto ritorno pacifico fosse facile;
perchè troppo la parte più esaltata del partito
popolare lo odiava, troppo diffidava il medio ceto italico, che
temeva in lui un distruttore dei diritti di cittadinanza; mentre
molti conservatori lo consideravano con gelosia e sospetto; e non si
disponevano a far nulla per lui, tolti alcuni ardimentosi e ricchi
giovani della nobiltà, offesi o minacciati dalla rivoluzione
popolare, che, aspettando gli eventi, armavano rivoluzionariamente
milizie per proprio conto: Gneo Pompeo nel Piceno, sulle sue vaste
possessioni, Marco Crasso in Spagna, Metello Pio in Africa.
Perciò mentre avviava negoziati con Roma, si preparava
all’ultimo cimento, ricompensando splendidamente le milizie di
Fimbria e quelle che lo avevan seguito per tante fatiche e travagli
dalla Grecia. L’esercito fu distribuito per le città
dell’Asia, come nel paese di cuccagna; ogni soldato semplice
ricevette dal suo ospite 16 dramme al giorno, e potè invitare
da lui a pranzo quanti amici volesse; ogni centurione 50 dramme269;
tutti ebbero larghi regali di denaro, e vuotando le cantine dei loro
ospiti, pieni di prelibati vini dell’Oriente che in Italia erano
ancora un carissimo lusso dei ricchi, gozzovigliando, sfoggiando
metalli preziosi, vesti rare, profumi costosi, celebrarono il
festino delle loro prime lunghe fatiche finite; mentre intorno a
loro, per le contribuzioni e le spese di questa gozzoviglia di
40 000 soldati durata sei mesi, la miseria cresceva;
città e privati si indebitavano e i finanzieri italiani, di
cui si era creduto distrugger la razza con un massacro, ritornavano
più numerosi e più avidi sopra una preda più
facile270.
E difatti una nuova guerra aspettava Silla in Italia, quando egli al
principio dell’83, lasciate in Asia le due legioni di Fimbria, si
volse al ritorno, con 30 000 soldati271, portando seco un
tesoro più prezioso che le immense somme sepolte nei fianchi
delle sue navi: i manoscritti di Aristotele, rubati nella biblioteca
di Apellicone. Invano egli aveva tentato di rassicurare gli Italici
che intendeva rispettare il loro diritto di cittadinanza, e aveva
acconsentito a trattare con i capi della parte democratica; invano
il Senato aveva tentato di interporsi come paciere. I capi del
partito popolare, che non si fidavano di lui, che erano molti e
pieni di odio e poveri di saggezza, salvo uno, Sertorio; che
speravano forse di poter vincere, grazie agli aiuti della Italia,
questo piccolo esercito, resero con la loro politica subdola e
discorde impossibile ogni intesa. Silla venne; ricevè
lietamente i tre aristocratici, Gneo Pompeo, Marco Crasso, Metello
Pio che avevano armati soldati per proprio conto; riconobbe come
ufficiale il loro comando e affidò loro importanti missioni;
ma senza altro aiuto del partito conservatore aprì la guerra,
e operando risolutamente e metodicamente, riuscì con l’oro e
col ferro a padroneggiare l’immenso disordine di quella
società in cui la rivoluzione, sopravvenuta dopo una lunga
decomposizione sociale, aveva infranti gli ultimi vincoli morali tra
gli uomini. Profondendo tra i soldati e seguaci del partito
democratico l’oro di Mitridate, egli riuscì a farne passar
alla parte sua molti che erano poveri e ignari della grande contesa
per cui combattevano, e molti astuti o paurosi; quelli che restarono
fedeli vinse in sanguinose battaglie; e uno dopo l’altro, a mano a
mano che la forza del partito popolare venne meno con sconfitte, ne
uccise i capi, salvo Sertorio, che fuggì in Spagna;
rovesciò il governo rivoluzionario, e restò signore
dell’Italia alla testa del suo esercito, sulle rovine del partito
popolare e accanto al Senato impotente.
E allora questo orgoglioso, freddo, insensibile sibarita,
naturalmente brutale come tutti gli uomini troppo avidi di piaceri
sensuali, e che, esasperato dalla terribile lotta in cui per poco
non era perito, odiava ormai ferocemente i suoi nemici e disprezzava
tutto il genere umano, diventò, per calcolo e per vendetta,
un carnefice. Egli non si lasciò illudere dagli omaggi che lo
accolsero vincitore e alla testa di un esercito devoto personalmente
a lui; ma capì che gli era necessario conservare il potere, e
distruggere il partito democratico già tramortito,
perchè gli stessi conservatori, a cui le sue vittorie avevano
tanto giovato e che egli sprezzava del resto come i loro nemici,
invidiosi gli uni, paurosi altri, molti pieni di pregiudizi e
opportunisti, si sarebbero scaricati su lui dell’odio pubblico il
giorno in cui il partito democratico avesse levata ancora una volta
la testa. Egli inventò una amplificazione dell’antica
dittatura, per la quale avesse, a tempo indefinito, assoluta
potestà di vita e di morte sui cittadini e pieni poteri per
riformare la costituzione; e ottenuta facilmente dal Senato, ormai
spogliato di ogni autorità, l’approvazione della lex Valeria
che lo creava dittatore con simiglianti poteri, perseguitò
sin nella famiglia e nella discendenza coloro che avevano
partecipato in tutta Italia al moto rivoluzionario; facendoli
perire, rompendo i matrimoni dei loro parenti superstiti con persone
di famiglie ricche e influenti, decretando che i figli dei
proscritti non eserciterebbero mai nessuna magistratura,
impoverendone con le confische le famiglie; vendendo per quasi nulla
o regalando agli amici i campi, le case, il mobilio, gli schiavi dei
proscritti, castigando per l’Italia intere città, con multe,
con la demolizione delle fortificazioni, con la confisca di parti
del territorio pubblico e privato, che dopo la confisca fu
distribuito ai soldati suoi, dedotti in colonia, come su territorio
nemico. Nessuno scrupolo, nessuna esitazione o misericordia, in
questa persecuzione: i suoi nemici lo avevano troppo odiato e
perseguitato, ed egli, che aveva fretta di tornare dopo tante
fatiche all’ozio e ai piaceri, voleva finir presto. Sull’Italia,
già devastata dal disordine di una decomposizione sociale che
durava da 30 anni, infierì – supremo flagello – il
dispotismo, non di Silla, ma peggio ancora: di una banda eterogenea
di avventurieri che gli si raccolse rapidamente d’intorno, alla
strage e al saccheggio. Gli scrupoli, le vergogne, i sentimenti di
onore, gli orgogli di casta si confondevano in un furore contagioso
di saccheggio; e schiavi, liberti, plebei, nobili rubavano assieme;
nobili poveri, come Lucio Domizio Enobarbo, e nobili ricchi, come
Marco Crasso, che si fece ricompensare dell’aiuto dato a Silla nella
guerra civile, con enormi ricchezze di proscritti comprate per nulla
o per poco; mentre Silla, che nemmeno allora contrasse quel bisogno
di essere adorato così frequente negli uomini saliti in
soverchia grandezza, si godeva la gran vendetta di tante traversie:
spregiar tutti, conservatori e popolari, ricchi e poveri, romani e
italici, nobili, finanzieri e plebe, tutti egualmente avviliti
innanzi a lui dal terrore. Indifferente egli riceveva nella sua
splendida casa gli omaggi dei più insigni personaggi di Roma,
che, spesso con l’odio in cuore, venivano a riverire l’arbitro della
vita e della morte; indifferente vedeva tutta Roma nobile, illustre,
elegante, i giovani e i vecchi discendenti delle grandi famiglie, le
più belle signore dell’aristocrazia, disputarsi gli inviti
alle sue sontuose cene, nelle quali egli troneggiava come un re, in
mezzo ai cantanti favoriti, attento solo a bere e a mangiare, non
curandosi di conoscere nemmeno il nome dei suoi innumerevoli e
illustri invitati272; indifferente lasciava i parenti, i fedeli di
antica data, gli amici recenti che volevano farsi credere amici dei
dì del periglio, una turba di ambiziosi, di cupidi, di
scellerati disputarsi il passo nel suo atrio e ottenere facilmente,
dalla sua noncuranza per le piccole cose, tenute, case, schiavi di
condannati; perdoni di proscritti di poco conto; condanne di
innocenti odiati per ragioni private o per il desiderio di qualche
loro ricchezza. Le parentele, le amicizie, gli atti più
innocenti compiuti durante la rivoluzione poterono essere torti a
delitti capitali dalla viltà, dall’odio, dalla cupidigia dei
denunciatori; molti furono rovinati; molti fuggirono tra i barbari,
in Spagna, in Mauritania, presso Mitridate; coloro che non
riuscirono a procurarsi la protezione di qualche potente amico di
Silla, vissero nell’ansia continua di insidie invisibili; e pericolo
gravissimo corse il figlio di quel Gaio Giulio Cesare che aveva
sposata la sua sorella a Mario e che era morto qualche anno prima, a
Pisa, di apoplessia. Il giovane, che portava lo stesso nome del
padre, aveva sposata Cornelia, figlia di Cinna; onde Silla, che
aveva in sospetto la famiglia per queste sue parentele
rivoluzionarie e per le sue molte amicizie nel ceto dei finanzieri,
aveva mandato al giovine Caio ordine di far divorzio dalla bella
Cornelia. Ma Cesare che, appassionato e di poco giudizio, amava con
veemenza la sua giovine sposa e aveva rifiutata per sposarla una
ricca ereditiera propostagli dalla famiglia, Cossuzia,
rifiutò; e allora caduto in disgrazia ebbe confiscata la dote
della moglie e l’eredità del padre, e dovè lasciar
Roma; sinchè fu, dopo qualche tempo, perdonato per la
intercessione di alcuni parenti presso Silla273.
Ma distrutto il partito popolare, bisognava impedire che rinascesse;
e a questo fine Silla tentò di applicare, con una larga
riforma aristocratica della costituzione, le idee favorite di quella
parte dell’aristocrazia che, avversa egualmente al partito popolare
e alla classe capitalista, contemplava ostinatamente, con una
ammirazione anacronistica, le antiche istituzioni della êra
agricola, e sperava ritrovar in quelle ordine e pace. Silla
abolì il servizio pubblico dell’annona a Roma e la censura;
aumentò a 8 i pretori e a 20 i questori; tolse ai comizi il
diritto di discutere le leggi senza aver prima ottenuta
l’approvazione del Senato; attribuì il potere dei comizi
tributi ai comizi centuriati; vietò ai tribuni della plebe di
proporre leggi e di essere eletti ad altre cariche; dispose che le
magistrature non avrebbero potuto essere ottenute se non nell’ordine
legale e che le rielezioni non fossero ammesse se non dopo dieci
anni; inasprì le pene per molti reati di violenza e di frode;
liberò e fece cittadini 10 000 schiavi, i più
giovani e forti tra quelli che avevano appartenuto ai proscritti;
per accrescere la potenza politica del senato e indebolire quella
della borghesia finanziaria fece senatori circa 300 cavalieri e
ridiede ai soli senatori la potestà giudiziaria274. Egli
tentava di distruggere nel tempo stesso la potenza dei due ceti
nuovi, la classe media e i finanzieri, restaurando, con pochi
mutamenti, la costituzione puramente aristocratica che vigeva ai
tempi della prima guerra punica; quando la vecchia società
italica, rustica, aristocratica e guerresca era una stratificazione
perfetta di classi: in alto, una nobiltà ricca, disciplinata,
concorde e signora senza contrasti; sotto, un medio ceto rustico,
sottomesso, paziente, agiato per i suoi bisogni, contento della sua
condizione presente; sotto ancora, gli schiavi poco numerosi,
trattati con durezza, non però crudelmente, e docili. Ma la
restaurava proprio dopochè questi strati erano stati
sfondati, rotti, piegati l’uno contro l’altro, prima dal lento moto
di sprofondamento della nobiltà e di sollevamento della
borghesia, poi dal violento terremoto della rivoluzione; proprio
quando i servi erano incitati a tradire i padroni proscritti, e le
bande degli amici del dittatore, servi, liberti, medio ceto, nobili
devastavano insieme e insanguinavano l’Italia, confondendo ogni
legge. Non era quella una restaurazione aristocratica, perchè
l’aristocrazia romana non esisteva più; ma in Asia, come in
Italia, come in tutto l’impero, l’orgiastico e sanguinario trionfo
di una oligarchia di assassini, di ladri, di schiavisti, di nobili
bisognosi, di avventurieri senza scrupoli, di usurai rapaci, di
soldatesche mercenarie, sopra un vasto impero di milioni di
oppressi, che in un impeto di furore avevano tentato invano di
ribellarsi. L’impassibile Silla, dalla casa sua piena di mimi,
cantanti e ballerine, imbandita ogni sera a sontuosi conviti,
contemplava indifferente questo sanguinoso trionfo di cui egli era
stato, senza ambirlo, l’autore primo; sinchè ben presto,
appena si credè sicuro come uomo privato nell’impero che
aveva governato come dittatore, depose la dittatura, per darsi a
quei piaceri e stravizi, logorato dai quali, qualche tempo dopo
morì.
Silla – sarebbe ingiusto negarlo – fu un dittatore senza ambizioni,
uno schietto repubblicano, che si affrettò a lasciare il
potere appena potè, senza perder sè stesso e gli
amici. Ma non fu un precursore di Giorgio Washington. Spirito
superiore per lucidezza, versatilità ed energia, ma senza
grandi passioni, senza sublimi idee, senza quel grano di divina
follia e quel potere di esaltazione per cui negli spiriti magni si
rivela, sia pur torbido e incomposto, l’istinto della vita che si
sforza verso il futuro; cupido solo di godimenti, freddo,
indifferente a tutto fuori che al proprio piacere, egli vide nei
suoi tempi soltanto il disordine incitato dalla malvagità o
dalla pazzia umana, che bisognava domar con la forza; come
Napoleone, al quale del resto era infinitamente superiore per
larghezza, nitidezza, equilibrio di mente, e per vero vigore di
volontà, fu autore soltanto di una gigantesca operazione di
polizia, pensata con lucidezza, eseguita con energia275. Questa
operazione di polizia intesa a ristabilire l’ordine fu forse
necessaria a salvare, per il momento, l’impero e la civiltà
antica dalla distruzione che le minacciava la disperata rivolta dei
proletari: ma il suo valore storico è pur sempre quello delle
operazioni di polizia, caduco e passeggero cioè:
perchè l’ordine, anche nello stato meglio ordinato, è
solo una finzione di giustizia e di saggezza, simile alla terra del
campo, che deve essere periodicamente rotta e rivoltata dall’aratro
per rinnovare la forza generatrice. La crisi tremenda che
travagliava l’Italia era appunto simile alla lama di un aratro, che
penetrando nelle viscere della vecchia società voltava e
rivoltava le zolle, portando alla luce quelle sepolte, rompendo in
polvere quelle cotte e indurite per lunghi mesi dal sole, aprendo
nuovi canali nei meati della terra alle acque del cielo,
risvegliando le sopite energie generatrici della vita, per preparare
la nuova messe. Mario, non ostante le criminose ambizioni e le
ferocie della vecchiaia, contribuì a questo rinnovamento
vitale, disegnando nelle grandi linee i nuovi ordini militari di
Roma, contribuendo a risolvere la questione della cittadinanza agli
italici. Silla, no. L’opera sua fu ancor più contradditoria
di quella dei Gracchi, perchè dopo aver conquistato il potere
con la gran forza della nuova êra mercantile, con il denaro
profuso tra amici e nemici, volle servirsene a restaurare le
istituzioni politiche dell’era agricola; onde la sua legislazione
ben presto fu distrutta come una fragile struttura di canne,
investita sulla spiaggia del mare da un gagliardo maestrale; e di
lui rimase solo lo spavento di un personaggio nuovo nella storia di
Roma, che i contemporanei credettero creato da Silla ed era una
apparizione necessaria dell’êra mercantile e della democrazia
antica: il capo onnipotente per la forza dell’oro e del ferro di una
soldatesca addomesticata con il danaro.
Così finiva questa età tempestosa, cominciata con
l’assassinio dei Gracchi; nella quale tra tante rovine si era
compito un evento immenso: era sprofondata nel passato l’antica
Italia osca, sabellica, umbra, latina, etrusca, greca, gallica. La
nazione italiana esisteva, là dove prima era una moltitudine
di repubblichette federali; esisteva una agricoltura, un commercio,
un costume, una milizia, una cultura italiana, comune ormai a un
medio ceto formato da tutte le popolazioni dell’Italia, che
l’ambizione di ingrandire con gli studi i traffici e le armi la
propria potenza e ricchezza, aveva rimescolate e rifuse.
VI.
LE PRIME PROVE DI CAIO GIULIO CESARE.
Perdonato da Silla, Caio Giulio Cesare, quel giovane di cui abbiam
già raccontata la rischiosa avventura e lo scampo, come tutti
i giovani di ricca e nobile famiglia che hanno fatto una grossa
pazzia, cambiò aria; andò, al seguito del propretore
Marco Minucio Termo, all’assedio di Mitilene, l’ultima città
ribelle che ancora non si era arresa; e da Mitilene fece un viaggio
in Bitinia, mandato da Termo in missione diplomatica a domandar
navi, per finire l’assedio, al vecchio re di Bitinia. Sarà
vero, come affermarono più tardi i suoi nemici, che nel
palazzo di Nicomede, lontano da Roma e dai suoi, il giovane fu
traviato per i più riposti e infami cubicoli di quella corte
del vizio?276 È possibile, ma non certo; certo è
invece che egli fece più viaggi alla corte di Nicomede277,
sinchè nel 78, quando il proconsole della Cilicia, Publio
Servilio, incominciò una guerra contro i pirati della Licia e
della Panfilia, si recò da lui, per accompagnarlo in questa
guerra. Ma la lontananza dall’Italia gli era dolorosa; e poco dopo,
appena saputo che Silla era morto, tornò a Roma278.
Tornando, egli trovava diffusa nell’aria di Roma, come un veleno
volatile, quella diffidenza, mescolata di odio e paura, che le
oligarchie vittoriose di una rivoluzione popolare spandono intorno a
sè. Silla aveva ridotto tutto lo Stato, i comizi il Senato le
magistrature i comandi i tribunali, in potere di una consorteria
composta di amici, sgherri e carnefici suoi arricchitisi con le
confische; di transfughi del partito mariano; di quasi tutto
l’antico partito aristocratico, ormai devoto a lui per gratitudine,
per interesse o per paura; di antichi conservatori illuminati,
divenuti, dopo la rivoluzione, reazionari intransigenti; di
indifferenti sempre pronti a servire chi possiede il potere. Ma
appena morto Silla, gli avanzi del partito popolare avevano ripreso
coraggio279; e nientemeno che uno dei consoli dell’anno, Marco
Emilio Lepido, si era improvvisato capo dei popolari, proponendo il
ristabilimento delle frumentazioni280 il richiamo degli esuli281, la
restituzione dei diritti elettorali282 e delle terre alle
città a cui erano state tolte283. Lepido era di famiglia
nobile e ricca; possedeva la più elegante e sontuosa
palazzina che fosse a Roma284; era stato sin allora conservatore e
aveva accresciuto il suo patrimonio comprando beni di proscritti285;
ma irritato perchè Silla aveva cercato di impedirne
l’elezione a console, fantastico, di molta ambizione e di poco
giudizio, leggero e violento, era passato a un tratto al partito
popolare. Se la rivoluzione è come il terremoto, che chi l’ha
sentito una volta, sbigottisce, temendo che ritorni, a ogni tremito
insolito; lo spavento di una nuova agitazione popolare doveva essere
tanto più grande nella consorteria dominante perchè
molti dei suoi membri avevan commesse rapine e delitti abominevoli
durante la reazione; e perchè mancava in Roma un esercito a
sicura disposizione dell’autorità. Il Senato, infatti,
intimorito, aveva mostrato di accogliere la domanda delle
frumentazioni e del ritorno degli esuli, per contrastare invece con
energia maggiore alle altre proposte, sopratutto a quella di
restituire le terre286. Ma l’agitazione di Lepido aveva fatto
fermentare spiriti di rivolta in tutta Italia; in Etruria, intorno a
Fiesole, molti possidenti spogliati da Silla, che vivevano di
mendicità e di rapina, avevano scacciati con le armi i nuovi
padroni dai loro antichi beni287; gli animi si erano irritati, e in
Senato alcuni, con a capo l’altro console Quinto Lutazio Catulo, un
aristocratico di gran lignaggio e di grandissima autorità tra
i conservatori288, avevano proposto misure energiche considerando
questa sommossa come una sobillazione di Lepido. Ma il Senato non
aveva osato approvarle sopra semplici sospetti289; e aveva pensato
piuttosto di allontanare Lepido da Roma, affrettando, con vari
pretesti, ancor prima delle elezioni dei successori, la partenza dei
due consoli per le provincie che, a quanto sembra, erano già
state assegnate: la Gallia Narbonese a Lepido, l’Italia a Catulo290.
Si era dato loro anche molto denaro, per l’amministrazione delle
provincie; dopo averli fatti giurare di non combattere l’uno contro
l’altro.
Giulio Cesare, tornando a Roma in mezzo a questo fermento,
dovè trovare fronti arcigne, accoglienze fredde, diffidenza
astiosa nella consorteria dominante; non dimentica ancora delle sue
parentele e della sua rivolta contro Silla, e adombrata da questo
improvviso ritorno. Invece liete accoglienze gli furon fatte dai
superstiti del partito mariano, che già preparavano una
rivolta. Lepido aveva preso il denaro del Senato ed era partito; ma
giunto in Etruria si era fermato ad arruolare apertamente i
miserabili della Toscana e delle altre parti d’Italia, mentre al
nord un altro nobile, Marco Giunio Bruto291, che, compromesso nella
rivoluzione e risparmiato da Silla forse per riguardi di parentele,
si era tenuto nascosto durante la reazione, incominciava, certo
d’accordo con Lepido, a reclutare un esercito tra i disperati della
valle del Po292. A Roma, molti erano consapevoli del disegno e si
accingevano a raggiungere o ad aiutare in vari modi i due capi della
rivoluzione; tra questi Cinna, il cognato di Cesare, che
cercò di persuadere Cesare a seguirlo293. Ma Cesare
rifiutò. Con gli anni e con la esperienza, la avventurosa
impetuosità del giovane, che aveva rischiata la testa per
amore della sua donna, si temperava; e incominciava ad acquistar
vigore uno degli istinti essenziali del suo temperamento: la
prudenza.
Ma poichè la guerra era scoppiata, la diffidente consorteria,
che sospettava un ribelle in ogni generale, doveva mandare due
uomini sicuri contro Lepido e Bruto. Uno era Catulo; ma l’altro? Il
giovane più ambizioso, impaziente, inframmettente del partito
di Silla era allora Gneo Pompeo; che non esercitava nessuna
magistratura; ma che, nato nel 106 di una grande ricca famiglia, si
era segnalato giovanissimo al comando di un esercito nelle guerre
combattute da Silla al ritorno in Italia contro il partito popolare
e aveva sposata una nipote del dittatore294; onde credeva di poter
tutto chiedere ed ottenere. Nella perplessità in cui si
trovava il Senato, gli intrighi suoi per ottenere un comando nella
guerra riuscirono; il Senato si fidò di lui e violando la
costituzione gli diede un esercito, per combattere Bruto. Mentre
Lepido cercava di prendere Roma, difesa da Catulo e da Appio
Claudio, nominato interrege, ai quali il Senato alla fine aveva dati
pieni poteri295, al nord Bruto, vinto e chiuso in Modena da Pompeo,
si arrendeva a condizione di aver salva la vita, ma era poi dal
vincitore slealmente messo a morte296; e periva, lasciando in Roma
una bella vedovella di nome Servilia e un figlioletto di poco
più che un anno297, che portava il suo nome. In seguito alla
sconfitta di Bruto, e forse anche per le perdite sofferte nei
ripetuti e inutili assalti contro Roma, Lepido dovè ritrarsi
a nord; ma sconfitto a Cosa in Etruria, si imbarcò con gli
avanzi dell’esercito per la Sardegna, dove combattè con poca
fortuna contro il governatore Caio Valerio Triario298, sinchè
fu ucciso dal cruccio della propria rovina, dalla scoperta della
infedeltà della moglie, dai disagi. Gli avanzi del suo
esercito furono portati in Spagna, a Sertorio, da un ufficiale, di
nome Perpenna.
Cesare aveva avuto fortuna e giudizio a non cimentarsi nell’impresa.
Ma egli era ambizioso e impaziente di far del rumore intorno a
sè.... Egli era nato in una famiglia di nobiltà
antica, ma decaduta e imbastardita; nella quale nessuno, risalendo
sei generazioni, era stato più che pretore; che si era
imparentata con parvenus come Mario e aveva cercate amicizie e
parentele nella borghesia capitalista, riuscendo così a non
precipitare in rovina, ma non ad arricchire299. Cesare, infatti,
poteva vivere con decorosa larghezza grazie soltanto alla saggezza
di sua madre Aurelia, nobile modello dell’antica matrona romana300.
Bisognava adunque che egli si segnalasse; e sentendosi più
ardito ai cimenti di parola che nei moti rivoluzionari,
accusò nel 77 due personaggi potenti: prima Cornelio
Dolabella, amico di Silla ed ex governatore della Macedonia; poi un
altro generale di Silla, Caio Antonio Ibrida, per i guasti fatti in
Grecia durante la guerra. La reazione conservatrice, sopravvenuta
come ultima calamità dopo una lenta e lunga decomposizione
sociale e dopo una rivoluzione, aveva, non ostante le leggi penali e
le intenzioni riformatrici di Silla, accresciuta la
perversità degli uomini in tutte le classi, specialmente
nelle alte; e passato il primo furore delle vendette e dei
saccheggi, continuava nello sfrenato abuso del potere che facevano i
vincitori della rivoluzione popolare. Ridotti al silenzio i tribuni
della plebe, la cui piena potenza equivaleva nella democrazia romana
alla libertà di stampa nei regimi contemporanei; disperso il
partito popolare e impaurito il medio ceto, il popolo, i finanzieri
che ne erano stati la forza, vinto facilmente il tentativo di
Lepido, la consorteria sillana dominava senza quasi contrasto; e in
essa naturalmente, come sempre nelle consorterie tornate al potere
dopo aver vinto una rivoluzione popolare, gli uomini malvagi ed
energici prevalevano sui timidi onesti, perchè sapevano o
spaventarli o ingannarli, secondo il bisogno. Dappertutto la
prepotenza e la corruzione facevan violenza e insultavano
sfacciatamente la onestà impotente e la debolezza: a Roma i
questori, giovani leggeri i più, ambiziosi e scettici, per
non affaticarsi a capire i conti faragginosi dell’erario lasciavano
fare gli scribae o impiegati permanenti della finanza, pagavano
somme dovute su ordini falsi di pagamento, lasciavano rubare in
tutti i modi il denaro pubblico301; uomini violenti, cupidi, senza
scrupoli, spesso infamatisi nelle repressioni di Silla, come Caio
Verre, Gneo Dolabella, Publio Cetego, e tanti altri di simil conio,
erano facilmente eletti alle magistrature e disponevano di grande
autorità in Senato, tra i molti e indolenti nobili che ne
facevano parte; nella Gallia Narbonese, i finanzieri facevano dai
governatori corrotti usurpare con frodi e violenze le terre dei
popoli liberi confinanti per averle in affitto per quasi nulla302;
nelle provincie i governatori della consorteria commettevano spesso
orribili crudeltà e rapine, che non erano mai punite;
perchè i tribunali senatorî ricostituiti da Silla
funzionavano ancor peggio che quelli dei cavalieri, tanto era
facile, a ogni uomo ricco e potente, farsi assolvere, intrigando e
pagando303. La materia e le occasioni di accuse meritorie non
mancavano davvero.
Ma l’impazienza aveva spinto avanti Cesare in un momento poco
propizio, quando passato lo spavento di Lepido, ne incominciava un
altro e maggiore: che la rivoluzione proletaria ridivampasse in
tutto l’impero, dall’Asia alla Spagna. Sertorio, il piccolo
possidente di Norcia che la madre aveva mandato a studiare per farlo
avvocato, ed era diventato poi un guerriero, riprendeva ora, in
Spagna, in modo impensato da tutti, la difesa suprema di una causa
che tutti consideravan perduta: e conquistata quasi la intera
penisola, costruito un arsenale, organizzato un esercito, creata una
scuola per farvi educare latinamente i figli della nobiltà
spagnuola, accolti i profughi del partito mariano e scelto tra
costoro un Senato, infliggeva in guerra regolare disfatte su
disfatte a Metello Pio. All’altro angolo del mondo Mitridate, il
quale non aveva potuto far mettere per iscritto, dal Senato di Roma,
il trattato di Dardano, si preparava con straordinaria
alacrità a una nuova guerra; forniva denaro e si intendeva di
nascosto con i pirati, cresciuti di numero e di audacia nel
Mediterraneo durante il disordine della rivoluzione; accumulava
provvigioni, fabbricava armi; e, persuaso ormai dall’esperienza che
un piccolo ma valido esercito valesse più che gli sterminati
eserciti orientali, difficili a nutrirsi, lenti a muoversi, nei
quali il numero era più di ingombro che d’utile, tentava di
ordinare con l’aiuto di molti Italiani passati al suo servizio, un
esercito più piccolo alla romana304. Molti si inquietavano, a
Roma, vedendo il tempo segnar minaccia, proprio come nell’89: la
guerra civile in casa, Mitridate in armi, i pirati sempre più
numerosi e audaci; molti sospettavano che attraverso il mare, tra
Spagna e Ponto, corressero intese305. In mezzo a queste
ansietà le accuse contro personaggi potenti anche giuste,
ricordando gli scandali di cui i tribuni democratici avevano tanto
abusato, erano facilmente ritorte dai bricconi contro gli
accusatori, denunciando costoro come sovvertitori e rivoluzionari,
mentre gli onesti osavano ancora solo in segreto di compiacersi per
le persecuzioni dei ribaldi potenti. Difatti i due accusati, non
ostante la eloquenza dell’intraprendente giovinotto, furono assolti;
e Cesare dopo questi processi fu guardato ancor più di
mal’occhio dai grandi, come il petulante e pericoloso nipote di
Mario306. Cesare capì di aver commessa una imprudenza, si
scoraggì; e partì per ritornare in Oriente, a Rodi
questa volta, la città di moda tra i ricchi giovani di Roma
che volevano perfezionarsi nella eloquenza, sognando imprese e gesta
con cui farsi ammirare a Roma, come Pompeo. Costui era tornato dalla
guerra contro Bruto ancor più glorioso, ambizioso e sicuro di
sè, che non fosse partito; e non contento degli onori
già ricevuti aveva tenuto l’esercito sotto le armi nella
vicinanza di Roma, tanto intrigando, per esser mandato in Spagna al
soccorso di Metello contro Sertorio, finchè il debole Senato,
temendo una sedizione dell’esercito, aveva acconsentito, sebbene
Pompeo non fosse ancora stato eletto a nessuna magistratura307. A
Cesare invece capitò subito nel viaggio un’avventura
spiacevole: i pirati lo catturarono e lo tennero prigioniero a bordo
50 giorni, sinchè la parte del suo seguito, mandata a cercare
in Asia il denaro del riscatto, non fu ritornata. Era una fastidiosa
disdetta, che doveva far ridere molti a Roma; ma l’ambizioso
giovane, umiliato e stizzito, cercò di consolarsene,
scrivendo a Roma, quando fu libero, una storia probabilmente molto
esagerata di bravate che egli avrebbe compiuto in mezzo ai pirati:
che li aveva trattati come i suoi servitori, obbligati ad ascoltare
la lettura dei suoi scritti, sgridandoli se non stavano attenti, e
perfino minacciandoli di farli tutti impiccare se lo liberavano; che
poi liberato aveva armato qualche vascello, e data loro la caccia ne
aveva impiccati parecchi308. A ogni modo a Rodi si mise quetamente a
studiare e sul serio, per prepararsi, egli non sapeva bene, nella
vaghezza generica delle sue ambizioni, a quale destino; mentre
dintorno a lui, a insaputa di lui e di tutti, il mondo si rinnovava,
a mano a mano che la generazione di Mario e di Silla spariva, e si
faceva avanti la generazione nuova dei nati intorno al 100 a. C. La
pavida saggezza degli uomini si era, ancora una volta, ingannata! Le
calamità di quegli anni terribili, che parevano doverla
rovinare per sempre, si volsero invece alla fine in una fortuna
magnifica dell’Italia; che per il predominio politico, militare e
finanziario di cui già godeva nel Mediterraneo potè
rifarsi a usura sull’impero e specialmente sulla Grecia e sull’Asia
delle perdite subite nella rivoluzione. La espansione diplomatica,
militare, commerciale, finanziaria dell’Italia nel Mediterraneo era
stata seguita da un rapido accrescimento e da una larga diffusione
di desideri e ambizioni signorili in tutte le classi della
società italiana, che a sua volta aveva incitato a maggiori
espansioni; cosicchè in Italia ormai il maggior numero voleva
vivere, non più poveramente e umilmente, lavorando alla terra
o alle arti e contentandosi di una ricompensa meschina; ma
signorilmente, sul reddito di capitali collocati a frutto, sul
lavoro degli schiavi impiegati nell’agricoltura o nel commercio, su
traffici lucrosi, in mezzo alla abbondanza di subiti e grossi, se
pur rischiosi guadagni. Per questa cagione l’Italia cercava da un
secolo di impadronirsi in tutte le parti dell’impero, con la guerra
il commercio e l’usura, delle terre, dei capitali, degli uomini, di
tutti i beni insomma che potessero servire a soddisfare le sue
signorili ambizioni; ma negli ultimi trent’anni i desideri eran
cresciuti nelle moltitudini italiche più rapidamente che i
mezzi per soddisfarli; e ne era nata una crisi terribile; il
brigantaggio e la pirateria avevano devastato e devastavano
l’impero; tante fortune erano state distrutte, e tanti Italiani
periti nella guerra sociale, nella guerra civile, nelle guerre
mitridatiche. Certo, questa distruzione di uomini e di fortune
sarebbe stata una calamità mortale per un popolo soggetto e
tributario, povero di capitali e di schiavi, che avesse dovuto
coltivare la propria terra e fabbricare da sè gli altri
oggetti necessari alla vita, perchè esso avrebbe perduta
troppa parte del poco capitale e degli uomini necessari a
mantenerlo. Ma l’Italia, pur perdendo molto in quella crisi, aveva
salvato l’impero e ricomposta alla meglio la pace interna; si era
liberata, con le stragi e le guerre degli anni terribili, di molti
spostati e aveva diminuito il numero dei concorrenti a’ profitti di
questo sfruttamento, onde in molte famiglie decimate dalla
rivoluzione, i superstiti si trovarono più ricchi, al tornare
della pace; aveva per di più potuto, come nazione sovrana,
decretare e applicare nell’86 la riduzione di tre parti su quattro
dei propri debiti, e alleggerire molti patrimoni da gravi debiti,
compensando così a tanti, con danno di pochi, le perdite
delle guerre civili; aveva potuto, nel tempo stesso, far pagare in
parte le spese della propria rivoluzione all’Asia e alla Grecia.
Silla aveva confiscate in Grecia molte terre di città e di
templi, affittandole a capitalisti italiani; aveva portati
dall’Oriente molti schiavi; aveva versati all’erario gli avanzi
della preda asiatica, 15 000 libbre di oro e 115 000
libbre di argento309, che oggi varrebbero circa 20 milioni di lire,
e che allora valevano molto di più: ma se si potessero
conoscere e aggiungere a queste le somme date da lui ai soldati in
Asia e che questi portarono in Italia, le somme spese in Italia per
corrompere i soldati dell’esercito rivoluzionario, le somme che
tenne per sè o diede agli amici, si giungerebbe forse a una
somma totale quattro o cinque volte maggiore. Inoltre l’Italia aveva
ricostituito in luogo dell’antica e disfatta milizia nazionale un
discreto esercito di mercenari con cui ricominciare le fruttuose
conquiste.
Roma infatti già riprendeva, sia pur timidamente, il suo
fatal cammino verso il dominio mondiale, interrotto dalla
rivoluzione. Aveva – è vero – rifiutato nell’81 addirittura
l’Egitto, lasciato in eredità al Senato dal re Alessandro II,
accontentandosi di prendere i denari del re depositati in Tiro310;
ma si era volta invece verso le barbare nazioni traciche che
imbaldanzite dall’indebolimento di Roma molestavano la Macedonia, e
contro i pirati che erano stati di tanto aiuto a Mitridate
nell’ultima guerra. Mentre Publio Servilio incominciava la sua
campagna contro gli Isauri, nel 78, Appio Claudio, proconsole di
Macedonia, aveva fatto una spedizione in Tracia verso i monti di
Rodope; di lì a poco nel 75 Gaio Scribonio Curione,
governatore della Macedonia, in una spedizione contro i Dardani,
doveva giungere sino al Danubio; e una breve guerra in Dalmazia
finiva con la conquista di Salona. Erano guerricciuole; ma
fruttavano preda di metalli preziosi e di schiavi all’Italia; e,
insieme con la guerra di Spagna, con le guarnigioni che si tenevano
in Oriente, recavano molto sollievo alla popolazione più
misera dell’Italia, che si arrolava per vivere. Ma il più
inaspettato e meraviglioso scampo da quella tempesta fu per l’Italia
il predominio finanziario, definitivamente acquistato nel mondo
mediterraneo, per effetto della terribile crisi. L’Italia abbondava
di capitale, perchè, non ostante le profusioni e le
dispersioni degli ultimi decenni, una parte almeno dei metalli
preziosi scavati o rubati per il mondo era restata in paese, sia
pure in possesso di pochi; perchè molti capitali erano stati
portati da Silla e dai suoi soldati, molti rapiti, in Italia stessa,
dal sonno dei templi, in mezzo al pandemonio della rivoluzione.
Invece molti paesi si trovarono, finita la rivoluzione, in gran
penuria di denaro; specialmente la Grecia e l’Asia, dove le
devastazioni della lunga guerra, le requisizioni militari, le enormi
contribuzioni imposte da Silla costrinsero privati e città a
contrarre debiti a interessi onerosissimi311, dai quali non fu
più possibile di liberarsi per quanto l’Asia in special modo,
industriosa ed esportatrice, traesse a sè instancabile da
tutte le parti del mondo i metalli preziosi in cambio delle sue
merci, e li accumulasse in tesori nei templi, nelle case private,
nelle reggie dei sovrani. Gli Italiani, tra i quali le attitudini al
commercio usurario si erano tanto perfezionate e diffuse nella
ultima generazione, non furono tardi a cogliere le occasioni di
lucro che si offrivano; molti si recarono nella Gallia Narbonese,
dove le contribuzioni per l’esercito combattente in Spagna contro
Sertorio costringevano privati e città a indebitarsi312;
specialmente in Oriente la espansione finanziaria dell’imperialismo
crebbe rapidamente: Efeso divenne un gran mercato di capitali
italiani, dove i privati e le città dell’Asia cercavano
prestiti; le compagnie dei finanzieri italiani si moltiplicarono in
Grecia e in Asia; un gran numero di mercanti, messo insieme un
capitaletto, emigrarono alla spicciolata dall’Italia in Grecia e in
Asia, fecero rifiorire Delo, così maltrattata da
Mitridate313; si stabilirono in tutte le piccole città: a
Patrasso314, ad Argo315, in Elide316, in Laconia317, a Teno318, a
Mitilene319, ad Asso320, a Lampsaco321, in Bitinia322; e
probabilmente, oltre che esercitare l’usura, si impadronirono in
parte del commercio locale e di esportazione, in luogo dei molti
mercanti indigeni che la guerra e le esazioni avevano rovinati. Tra
gli altri un giovane, figlio di un ricchissimo appaltatore di Roma,
Tito Pomponio Attico, andato dopo la riconquista di Silla ad Atene
per studiare, aveva trovato nella Grecia devastata e impoverita un
campo fruttuoso all’impiego dei suoi capitali e il modo di
accrescere stando in Atene il suo sapere e la sua fortuna, facendo
nello stesso tempo lo scolaro e il banchiere323. A poco a poco, in
Asia e in Grecia, le città e i privati erano costretti a
cedere ai loro creditori gli edifici pubblici, le riserve
metalliche, le opere d’arte, gli schiavi, le suppellettili preziose,
le case, le terre migliori; gli avanzi dell’impero di Pericle, le
ultime spoglie delle conquiste di Alessandro, il patrimonio di
civiltà accumulato da tante generazioni sotto il regno degli
Attalidi, e fino gli uomini passavano in possesso dei finanzieri
italiani; ai quali i padri, quando non restava altra ricchezza,
vendevano i figli e le figlie, sinchè alla fine essi stessi,
spesso, erano fatti schiavi324.
Ma questo sfruttamento intensivo dell’Oriente, incominciato dopo la
riconquista, non trasportava soltanto la ricchezza dell’Oriente in
Italia, ma compieva definitivamente il rivolgimento di
civiltà incominciato in Italia da un secolo e mezzo.
Nell’Oriente erano i paesi di civiltà più antica, le
sedi delle arti delle industrie della agricoltura più
perfette, i professionisti gli artigiani e i contadini più
abili del mondo antico, che lavoravano per i ricchi di tutti i paesi
mediterranei; onde non solo tra i beni materiali acquistati con le
usure, ma anche tra i numerosi schiavi catturati da Silla durante la
guerra d’Oriente e venduti ai mercanti italiani325, tra quelli
comprati dopo in Asia dai finanzieri o rubati dai pirati e tutti
portati in Italia, abbondava la materia di pregio: abili
agricoltori, tintori, tessitori, profumieri, cuochi, scultori,
pittori, fabbri, cesellatori, musici, ingegneri, architetti,
letterati, grammatici; uomini e donne dallo spirito fine e duttile
che, se non sapevano, imparavano facilmente ogni arte lecita e
illecita. L’Italia era stata preparata, dalla lenta introduzione
della civiltà greco-orientale, a riceverne una subita rapida
universale invasione; onde appena gli schiavi e i lussi dell’Asia
divennero a buon mercato; quando le famiglie arricchite nella guerra
civile si disposero a godere nella pace della fortuna non importa
come acquistata; allorchè nelle famiglie impoverite e
decimate i superstiti ebbero, più rapidamente che non
credevano, per trovarsi in meno, ricostituita un poco la loro
fortuna e sentito il beneficio della riduzione dei debiti; il vivere
si perfezionò velocemente in tutte le classi, e le ricchezze
delle conquiste non furono più consumate solo nel lusso
barbarico e per la soddisfazione degli appetiti più
animaleschi; ma in misura sempre maggiore a raffinare i costumi, a
perfezionare la cultura, a migliorare la agricoltura, e soddisfare
una viziosità più elegante. Mentre Giulio Cesare
studiava a Rodi, si formava rapidamente a Roma una high-life
italica, un mondo mondano di cui facevano parte finanzieri
coltissimi e alieni dalla politica, come Tito Pomponio Attico;
milionari datisi, come Pompeo e Crasso, alla politica per ambizione;
giovani di antiche famiglie nobili riarricchite nella rivoluzione,
come Lucio Domizio Enobarbo326 e giovani di ricche o agiate famiglie
dei municipi, che splendidamente educati erano venuti a Roma per far
vita mondana o per acquistare gloria con l’eloquenza le magistrature
e la guerra, come Cicerone, come Varrone, come Caio Ottavio, figlio
di un ricco usuraio di Velletri327; avvocati come Ortensio, celebri
per la eloquenza e le lucrose difese degli illustri governatori
accusati di concussione; uomini di studio, come Valerio Catone, e
Cornelio Nepote; etère dei paesi di Oriente salite in grande
riputazione di bellezza e contese dai ricchi giovani alla moda;
sapienti di Grecia e di Asia, accolti nelle grandi case di Roma;
signore emancipate, politicanti, dotte di greco e di filosofia. In
questa high-life, composta di uomini così diversi per
attitudini, ognuno comunicava agli altri la propria passione
più forte: gli uomini di studio, il gusto della cultura ai
finanzieri e ai politici; i gaudenti, la cupidità dei piaceri
ai letterati e agli uomini d’affari; i finanzieri, lo spirito di
speculazione, se non sempre la abilità, ai gaudenti ai
guerrieri agli statisti; e a poco a poco tutte le passioni
rinfocolandosi per contagio e il commercio dell’Asia provvedendo la
materia e gli schiavi maestri di nuovi lussi, il tenor di vita
diveniva più dispendioso, raffinato e di impegno. Ognuno
doveva ormai possedere ville in campagna e nei luoghi di bagnature
che incominciavano a divenire di moda, come Baia328; possedere molti
schiavi, di cui ciascuno avesse un ufficio proprio329; non solo i
servi di casa, i portatori di lettiga330 e di lampada per la
notte331, ma musici332, segretari333, bibliotecari, copisti334,
medici335; usare oggetti fabbricatigli tutti in casa dagli
schiavi336, salve le cose rare di gran lusso portate da lontani
paesi; possedere opere di arte greca: mense delfiche, vasi corinzi,
tazze, candelabri, puteali scolpiti, statue, pitture, bronzi. Quasi
tutti i ricchi finanzieri e senatori abbandonavano uno dopo l’altro
le semplici e anguste case in cui erano nati, e si fabbricavano
palazzi ancor più vasti e sontuosi che quello di Lepido,
pieni di imitazioni greco-asiatiche, con sale di ricevimento e di
conversazione, con biblioteca, con palestra, con bagno, con
ornamenti di stucchi e pitture murali337. L’uso di corrisponder per
lettera, il bisogno di scrivere agli amici e l’impazienza di
riceverne risposta si divulgavano, costringendo ogni persona
elegante a mandare continuamente schiavi nelle parti più
lontane dell’impero; la curiosità di aver pronte notizie di
tutto ciò che succedeva nell’impero e a Roma diventava
comune; frequenti erano gli inviti a pranzo e in villa e
obbligatorî ormai gli splendori di una ospitalità
generosa sino alla profusione; si cominciava a viaggiare, per non
scomparire, non più con un piccolo seguito, ma con molti
schiavi338. Cresceva il lusso dei funerali e la profusione dei
profumi rari sui roghi; si spandeva la moda dei sepolcri gentilizi
monumentali, eretti all’ammirazione del pubblico sulle grandi vie
dell’Italia339; crescevano le foggie e gli adornamenti del vestito,
il lusso delle argenterie, la varietà e il caro delle
stoffe340; si formava tra i ricchi di Roma e d’Italia il codice
convenzionale dell’eleganza, quella tirannica fisima di perfezione
formale di cui le classi ricche divengono sempre più schiave
a mano a mano che la civiltà progredisce, sino a perdere in
essa il senso della serietà e della realtà della vita;
con grande scandalo dei pochi che ancora ammiravano la ruvida
schiettezza degli antichi costumi. Vecchi quasi tutti, costoro;
tolto un giovane di nobile e ricca famiglia, discendente di Catone
il Censore: Marco Porcio Catone, che protestava a modo suo contro
l’obbligo dell’eleganza a cui si volevano sottoporre i giovani del
suo ceto, uscendo di tempo in tempo senza sandali e senza tunica,
per avvezzarsi – egli diceva – a non arrossire che delle cose
vergognose davvero e non per convenzione341.
Anche i bisogni spirituali aumentavano; e nelle alte classi
dell’Italia si diffondeva quel magnifico fervore intellettuale, si
accendeva quella sete ardente di sapere che è il segno delle
grandi età della storia. Nessun giovane colto, la cui
famiglia fosse agiata, poteva dispensarsi dall’andare per qualche
anno in Grecia o in Oriente agli studi, a seguire i corsi di qualche
retore e filosofo celebre, come allora faceva Cesare; tutti
imparavano a recitare discorsi, a scrivere versi e prosa; tutti
volevano possedere una farraginosa cultura enciclopedica e leggere
libri di ogni argomento: retorica, estetica, storia, geografia,
agronomia, strategica, tattica, poliorcetica, filosofia, medicina.
Sopratutto ridivenne popolare la enciclopedia di Aristotile342,
portata in Italia da Silla, e che era stata così poco
ammirata dagli specialisti i quali, nei due secoli precedenti
avevano, per il puro diletto di investigare il vero, studiato nella
solitudine discreta dei vasti musei mantenuti dai re dell’Oriente,
chi l’astronomia, chi la matematica, chi la storia letteraria o le
scienze naturali; in parte per l’universale appetito di godimenti
che scaldava le alte classi dell’Italia; in parte perchè,
dovendo queste reggere un vasto impero ingranditosi a caso e oltre
ogni previsione per l’accozzamento successivo di parti diverse,
molti dovevano a volta a volta essere guerrieri, statisti, oratori,
giudici, finanzieri, ordinatori di feste e di lavori pubblici,
ammiragli, agricoltori, ambasciatori presso barbari o presso sovrani
dell’Oriente, e perciò aveano bisogno di possedere non questa
o quella scienza, ma una larga e solida cultura generale, che
servisse a far loro capir presto ogni cosa. Aristotile, il filosofo
degli imperi in fondazione, il maestro di Alessandro prima, e degli
Arabi poi, offriva ai fondatori dell’impero italico una enciclopedia
vasta, bene ordinata, semplicemente e lucidamente scritta, ricca di
fatti e di quelle idee generali che, anche imperfette, sono
così necessarie a chi deve avventurarsi nell’ignoto
dell’immenso avvenire, perchè gli segnano una direzione nella
confusione delle cose mutevoli e gli impediscono di mutar cammino a
ogni contradizione passeggera degli avvenimenti.
Questo aumento del lusso e dei bisogni in Italia non solo promuoveva
il commercio con l’Oriente e quindi accresceva i lucri delle usure
in Grecia e in Asia; ma incitava la voglia di spendere e il
desiderio di guadagnare in tutte le classi. Lo spirito di risparmio
veniva meno e lo spirito di speculazione si diffondeva rapidamente
nei ceti superiori, confondendo sino a un certo segno la classe dei
grandi finanzieri e dei grandi proprietari, le vecchie famiglie
aristocratiche e i parvenus milionari, la nobiltà di spada e
di toga e la nobiltà del denaro in una unica classe di
affaristi enciclopedici e di cercatori di profitti, nella quale il
vecchio antagonismo tra la borghesia finanziaria e la nobiltà
latifondista doveva affievolirsi.... Incominciava allora in Italia
quella febbre di rinnovamenti e progressi agricoli che doveva, nei
cinquanta anni seguenti, compiere la mirabile trasformazione delle
culture, intrapresa nei cinquanta anni precedenti343. La agricoltura
a schiavi prevalse definitivamente nella maggior parte della
penisola344; i piccoli proprietari che coltivavano con le braccia
loro e dei figli il podere si ridussero a un piccolo numero, nelle
alte vallate; i braccianti liberi furono usati pochissimo345,
perchè gli Italiani non volevano più esercitare
mestieri così faticosi e così poco lucrosi; tutti i
possidenti grandi e medi comprarono schiavi ma scegliendoli con una
cura ignota agli antichi mirando ad avere, tra i rozzi schiavi atti
alle fatiche più dure e chiusi nei tetri ergastula, fattori e
coltivatori più intelligenti, meglio trattati e capaci di
perfezionare le culture e di accrescere il guadagno346. Rodi era
allora il mercato mondiale del vino347; la Grecia, le isole
dell’Egeo, l’Asia minore, erano la Borgogna e la Sciampagna del
mondo antico, i paesi da cui la divina bevanda dionisiaca era
esportata nei paesi dove la vigna non maturava, o dove i ricchi
sdegnavano di bevere il rozzo vino paesano; tra le torme di schiavi
orientali che Silla aveva venduto all’Italia, che i pirati, i
pubblicani e i mercanti italiani rubavano o compravano in Asia e
spedivano in Italia, erano molti agricoltori che conoscevano i
più raffinati segreti dell’arte di coltivare la vigna e
l’uliveto, di fabbricare il vino e l’olio. Finanzieri arricchiti con
gli appalti delle gabelle, con le forniture militari, con le usure
asiatiche; possidenti provvisti di capitali; nobili di antico
lignaggio capirono che si poteva tentare di togliere all’Asia e alla
Grecia il ricco primato delle vendemmie, tanto più che il
consumo del vino e dell’olio cresceva in Italia; compravano schiavi
orientali; facevano piantare da questi larghe vigne e uliveti nelle
regioni acconcie348, vicine al mare o aperte da strade: come nella
pianura romagnola intorno a Faenza349, e in Sicilia350. Le fattorie
furono costruite con maggior cura, in modo che gli schiavi vi
potessero abitare e lavorare meglio351. Anche la pastorizia vagante,
la speculazione preferita dalla nobiltà romana nel secolo
antecedente, ed esercitata allora con aristocratica noncuranza,
quando l’ager publicus abbondava, si perfezionava in quegli anni,
per necessità, a mano a mano che il suolo rincarava e la vita
si faceva più dispendiosa in Italia; si sceglievano, per
farli capi dei pastori, schiavi di una certa intelligenza e
istruzione, si badava più alla razza, agli incroci, al
nutrimento, all’igiene degli armenti352; molti la esercitavano fuori
d’Italia in regioni più spopolate e più barbare, come
Attico, che aveva comprato vaste terre in Epiro e vi pasceva immense
mandre353; molti tentavano in Italia l’allevamento razionale dei
cavalli e degli asini. Pare anzi che certe razze asinine dell’Italia
incominciassero intorno a questo tempo ad essere molto migliorate
nel territorio di Rieti354. Governatori e ufficiali, nei paesi
dell’impero in cui viaggiavano per ragioni di guerra o di governo,
osservavano le coltivazioni, le piante, gli animali, gli armenti e
il modo di tenerli; interrogavano, acquistavano nozioni utili355.
Moltissimi, anche i nobili, si davano a speculazioni finanziarie:
cercavano per mezzo di sensali e agenti d’affari di prestar denaro,
ad alto interesse, specialmente in Asia; deponevano dei capitali
presso i banchieri di Roma o di Efeso, perchè li facessero
fruttare; acquistavano partes o particulae – carature e azioni,
diremmo noi – delle società di pubblicani che appaltavano i
demani, le gabelle, le forniture dell’impero356. Altri aprivano
fornaci in cui si scoprissero sedimenti di argilla da mattoni, o
costruivano in Roma case d’affittare per il medio ceto e il
popolino, che cresceva ogni anno. Molti anche speculavano sugli
schiavi orientali abili in quelle arti di lusso, i cui prodotti
erano consumati in misura sempre maggiore; compravano architetti,
grammatici, medici, capimastri, stuccatori per affittarli a chi ne
avesse bisogno; o li liberavano, a condizione che avrebbero pagata
una parte dei guadagni professionali all’antico padrone....
Le alte classi dell’Italia incominciavano insomma ad allargare da
Roma, sull’impero, come una tela, un vasto sistema di molteplici
profitti con cui provvedere ai bisogni di un vivere più
signorile e più ampio; naturalmente imitato dalla media
borghesia delle città minori dell’Italia, dal popolino dei
piccolissimi possidenti, degli artigiani emigrati dall’Oriente, dei
liberti di ogni nazione, dei miserabili rovinati dalla guerra
civile. A Roma le stesse alte classi fomentavano nel popolino la
passione dei divertimenti e la ghiottoneria, aumentando proprio in
quegli anni lo splendore delle feste che i candidati e i magistrati
davano al popolo e la sontuosità dei banchetti357, nei quali
il popolo incominciava a gustare il buon vino, i tordi, i polli, le
oche e perfino i pavoni358. Nelle piccole città e nelle
campagne d’Italia, i soldati di Silla, ritornati ricchi
dall’Oriente, erano diventati, tra il medio ceto rustico e
cittadino, maestri dei vizi e dei lussi imparati in Oriente, di
ubriachezza, di dissolutezza, di fastosa ostentazione dei metalli
preziosi359; e incitavano con il loro esempio le speranze, le
ambizioni, gli istinti avventurosi, lo spirito mercantile dei
giovani. Gli uni, i più poveri, si arruolavano per lontane
spedizioni; altri che avevano qualche capitaletto tentavano uno dei
molti traffici di cui con il crescere dei consumi nelle alte classi
si offriva la occasione, o cercavano di aver qualche appalto360;
altri infine, che avevano ereditato un campicello, si ingegnavano,
spiando l’esempio del vicino e ricco possidente, di comprar qualche
schiavo, di seminar solo il grano necessario al nutrimento proprio e
degli schiavi, e di piantar nella rimanente terra viti, ulivi,
alberi da frutta, fiori per le api, per ricavare dalla vendita di
queste derrate di lusso e di vasto commercio una rendita in
denaro361; i più non volevano aver molti figli, e qualcuno
anche si disponeva a sostenere gravi spese per farli studiare
compiacendosi nella speranza che sarebbero diventati, non contadini
come i loro padri, ma uomini insigni a Roma362. Alla sua volta
questo cresciuto consumo popolare aumentava le speculazioni lucrose
dei ricchi capitalisti e dei nobili, alcuni dei quali tentavano il
piccolo commercio per mezzo di schiavi o di liberti, aprendo, come
si faceva dai ricchi signori di Firenze sino a pochi decenni sono,
nei loro palazzi una bottega e facendo vendere in quella le derrate
dei propri fondi da un commesso, che era sempre uno schiavo o un
liberto. La prosperità così ritornava per i superstiti
decimati dalla terribile età delle civili guerre; lo spirito
mercantile si spandeva ancor più che nella generazione
precedente; i prezzi delle cose, il valore delle terre e del lavoro
aumentavano; ricominciava per l’Italia una di quelle età
felici di rapido accrescimento delle ricchezze in cui le occasioni
di lucro nascono le une dalle altre e si moltiplicano con
velocità progressiva. Alle catastrofi della rivoluzione
seguiva un rapido e meraviglioso rinascimento, e uno sforzo
più universale e intenso che quello della generazione
precedente per la conquista della ricchezza, della cultura, della
potenza, del piacere; speculando, trafficando, studiando si
consolidava quella borghesia italica, composta di ricchi e medi
possidenti, di ricchi e medi mercanti, di uomini colti e di
politicanti ambiziosi, nati da famiglie di ogni parte d’Italia, che
si veniva formando da mezzo secolo e che avrebbe ben presto
governato l’impero, in luogo della vecchia aristocrazia romana ormai
quasi interamente disfatta. Intanto Giulio Cesare indugiava a Rodi
tra gli studi di eloquenza e di filosofia363.
VII.
I FINANZIERI ITALIANI ALLA CONQUISTA
DELL’ORIENTE.
Riserbo che nasceva non, come suppongono gli ammiratori troppo
ardenti di Cesare, da una preveggenza del futuro quasi profetica, ma
da un istinto di moderazione e di prudenza insito nel suo carattere
appassionato e nervoso. Tra gli avanzi del partito di suo zio
esasperati e macchinanti rivoluzioni, e la consorteria dominante,
feroce nell’abusare del potere presente, egli non poteva che
astenersi, aspettando. E infatti lo spirito pubblico mutava. Con la
prosperità, la diffusione della cultura, il raffinamento del
vivere, la mescolanza delle razze, l’aumento dei bisogni e dei
godimenti; con i progressi insomma della civiltà si compieva
il definitivo rivolgimento, incominciato da un secolo, del carattere
romano, che, fermo, paziente, duro, quando l’Italia era ancora una
nazione di contadini con poche idee e pochi bisogni, diventava
eccitabile, nervoso, squilibrato, oscillante nella contradizione
perenne tra l’egoismo, inferocito dalla sete dei piaceri e la
sensitività morale, acuita dalla cultura e dal benessere; tra
la vigliaccheria, la suscettività morbosa dell’amor proprio,
l’orgoglio, i pochi scrupoli, i facili accessi di crudeltà
nervosa nella lotta per la ricchezza la potenza e il piacere, che
diventavan comuni in tutte le classi; e i sentimenti del
patriotismo, della giustizia, della pietà sentiti
intensamente, ogni qualvolta le ricchezze, le ambizioni, le
voluttà proprie non fossero minacciate. È questa del
resto l’incoerenza di tutte le società, come la nostra, molto
ricche, voluttuose, cólte e civili, nelle quali sono pochi i
freni allo sforzo dei singoli per la conquista della ricchezza, del
potere e del godimento; e quei pochi sono appena tollerati. Le
classi medie italiane che, nella generazione precedente, avevano
fatta la rivoluzione, si pacificavano, diventavano patriottiche,
legalitarie, amiche dell’ordine, a mano a mano che nella crescente
prosperità piantavano uliveti e vigne, si fabbricavano ville
e casette, compravano schiavi, mettevan da parte qualche gruzzolo, e
si servivano dei diritti acquistati con la rivoluzione. In parte per
il ravvedimento civico che segue sempre al miglioramento delle
condizioni economiche, in parte per paura della reazione, in parte
per l’intervento di una generazione più giovane e più
fiduciosa, in parte per l’influsso della cultura e della
civiltà crescenti, la classe media abbandonava gli ultimi
rivoluzionari: Lepido prima, Sertorio allora; i vecchi dimenticavano
e i giovani ignoravano i servigi resi alla loro classe dalla
rivoluzione; i molti profughi della generazione precedente, che per
la miseria o per le persecuzioni erano passati a servire Mitridate,
e l’ultimo eroe superstite del partito mariano, che ancor turbava
dalla Spagna la letizia della nuova prosperità, erano odiati
come traditori364. Ma nel tempo stesso tutta Italia detestava il
governo della consorteria sillana. Una aristocrazia non può
signoreggiare in una nazione solo con il potere politico, se non
è tanto più ricca e più colta che il ceto
medio, da mantener questo nella sua dipendenza, con la beneficenza,
la protezione, la spontanea ammirazione del povero verso chi
possiede immense ricchezze la cui origine impura si perde ormai nel
passato; sopratutto se non protegge la classe colta che sempre si
forma nel ceto medio. Ma l’aristocrazia romana d’allora, se aveva
riconquistato per un caso il potere, in parte era rovinata, in parte
si era rifatta, a vista di tutti, per mezzo di maritaggi con i
ricchi finanzieri, di eredità carpite e di rapine commesse
nella guerra civile; e non poteva conservare il potere se non con
l’aiuto di molti avventurieri spregevoli; mentre fuori, esclusa dal
potere, stava un’alta borghesia di finanzieri molto più ricca
e malcontenta per le persecuzioni e le umiliazioni sofferte da
Silla; un ceto medio di agiati possidenti, di mercanti, di
appaltatori, di giovani colti che, spregiati e non protetti dalle
poche famiglie nobili e ricche, costretti a farsi largo nel mondo da
sè, orgogliosi per la propria agiatezza o cultura, erano
agitati da spirito di opposizione contro il governo aristocratico.
Di più, in un tempo in cui le ambizioni e le cupidigie si
diffondevano, e la sensitività morale si acuiva, questo
governo di consorteria così chiuso, questo regime disordinato
e corrotto cui gli orribili ricordi della reazione accrescevan
l’infamia, repugnava a molti, anche nella nobiltà, anche
nella consorteria. In fine, quasi non bastassero a corrucciare tutta
Italia gli abusi dei governatori, la corruzione dei tribunali
senatori, le odiose camorre delle elezioni e delle legationes
liberae (così si chiamava il diritto di viaggiare gratis, di
ottenere dalle provincie alloggio e mezzi di trasporto per sè
e per il seguito, senza pagare, concesso dal Senato ai senatori che
per affari privati andassero nelle provincie), la consorteria
dominante trascurava i più vitali interessi pubblici in
maniera vergognosa; lasciava Mitridate preparar la rivincita, i
pirati catturare i cittadini romani, Sertorio stravincere in Spagna:
anzi molti senatori che non avevano potuto impedire l’invio di
Pompeo, ma che erano invidiosi di tanto onore concesso ad un
giovane, cercavano di rovinargli l’impresa, impedendo che il Senato
votasse i fondi necessari; cosicchè Pompeo aveva dovuto
metter mano alla borsa e anticipare del suo i denari per pagare i
soldati e le provviste365. Per tanti scandali e a mano a mano che la
paura della reazione svaniva, la memoria di Silla e le sue
repressioni venivano in odio; in tutte le classi, anche nella
nobiltà, si ritornava ad ammirar Mario, il riorganizzatore
dell’esercito, l’uomo figurativo della democrazia vittoriosa, il
vincitore dei Cimbri366; si diffondeva il disgusto per le
malversazioni, le iniquità, le corruzioni di tanti membri
della consorteria dominante, sopratutto per la partigianeria e la
corruttela dei tribunali dei senatori; rinasceva il desiderio della
antica libertà di parola e si dimenticavano i torti dei
tribuni della plebe per ricordar solo le loro accuse temute dai
ribaldi potenti367; tutti gli anni qualche tribuno più
audace, come Lucio Sicinio nel 76, Quinto Opimio nel 75, assalivano
la costituzione di Silla, eccitando il popolo sopratutto all’odio e
al disprezzo dei tribunali aristocratici368. Nel 75 riuscì
infatti al console Caio Aurelio Cotta, zio di Cesare, di far abolire
la disposizione di Silla, per cui un tribuno della plebe non poteva
essere più eletto a nessuna altra carica369. Tutte le classi
si accendevano di passione per tutte le cose belle; per la
giustizia, per la libertà, per la democrazia, per il lusso,
per l’arte, per la letteratura, per il piacere, per i subiti
guadagni della speculazione e per la gloria imperiale....
Ne seguì ben presto un mutamento della politica estera e
interna, mentre Cesare era ancora a Rodi. Verso la fine dell’anno 75
o al principio dell’anno 74370 il maligno despota della Bitinia
moriva, lasciando il regno e i sudditi in eredità ai Romani,
con il solo scopo di travagliare, anche morto, Mitridate e Roma,
facendoli azzuffare intorno alla sua tomba. Mitridate non poteva
infatti lasciar occupare la Bitinia dai romani senza perdere ogni
prestigio in Oriente; ma il Senato romano, che pavido e inerte,
aveva più volte, negli ultimi anni, rifiutato di accettare
eredità consimili, avrebbe accettata la pericolosa
eredità? Le incertezze però furono questa volta
sopraffatte dallo slancio della pubblica opinione. La Bitinia, dove
i finanzieri italiani già sotto il regno di Nicomede avevano
avviato affari371, in cui era un vasto demanio reale di campi, di
stagni pescosi, di miniere372 che dopo l’annessione sarebbe stato
affittato a capitalisti italiani, insieme con le gabelle delle
doviziose città greche e dei porti373, era una preda troppo
agognata dal capitalismo italiano, che con il diffondersi delle
abitudini di speculazione acquistava vigore; la fiducia rinasceva;
il patriotismo si esaltava; si disse comunemente che una guerra con
Mitridate era inevitabile374; onde, costretto dall’opinione
pubblica, il Senato annette la Bitinia, senz’altro, dichiarando
spurio il figlio di Nicomede; subito si formò a Roma una
compagnia per l’appalto dei beni della corona di Bitinia375; e
incominciarono gli intrighi per disputarsi il comando di questa
guerra che si prevedeva lucrosa e gloriosa.
Era console in quell’anno un uomo di una famiglia illustre e
malfamata: Lucio Licinio Lucullo. Suo padre era stato sospettato di
essersi lasciato corrompere dagli schiavi insorti in Sicilia, nel
102; sua madre, sorella di Metello il Numidico, era accusata di
menar vita dissolutissima; suo nonno, console, era stato sospettato
di un furto di statue; suo bisnonno, edile, era stato accusato di
prevaricazione376. Tuttavia è possibile che queste accuse
fossero in parte invenzioni o almeno esagerazioni della maldicenza
che aveva infuriato durante la rivoluzione; ed è certo che la
famiglia, non ostante la sua nobiltà, era povera; e che
Lucio, come il suo fratello minore Marco, se si toglie la splendida
cultura letteraria ricevuta, era cresciuto in una famiglia nobile
romana di antico stampo: in una casa disadorna, con abitudini
semplicissime, contraendo sin da fanciullo l’orgoglio di casta e i
principî conservatori, tradizionali nella nobiltà ed
esaltati in molti, durante la sua fanciullezza, dall’insolenza della
borghesia denarosa e dalla minaccia della rivoluzione popolare.
Seguace, come la parte migliore della nobiltà povera, del
partito di Rutilio Rufo; nemico della demagogia e del capitalismo;
eccellente scrittore di greco e di latino, bravo oratore e
appassionato ellenista, aristocratico nell’animo, retto però
e generoso, Lucullo era stato, come vedemmo, ufficiale di Silla
nella guerra d’Oriente, con grande onore; aveva combattuta con
energia e a viso aperto la rivoluzione proletaria, ma benchè
povero non aveva preso parte al saccheggio delle fortune dei vinti,
e aveva sposato una donna senza dote, ma di razza purissima, una
Clodia, figlia di Appio Claudio, console nel 79; aveva poi, dopo la
fine della guerra civile, ottenuto la pretura nel 77, il governo
dell’Africa nel 76 governando onestamente, il consolato nel 74377.
Aveva insomma primeggiato come uno dei personaggi più
cospicui della consorteria sillana, ma rappresentandoci almeno con
sincerità, in mezzo a tanti avventurieri e criminali, una
cosa degna di rispetto: la schietta tradizione aristocratica dei
tempi antichi; e ambizioso, intelligente, onesto, ma orgoglioso,
appassionato, di poco equilibrio, facile a esagerare nei giudizi e a
prorompere nelle azioni, aveva focosamente combattuto, per sincero
spirito aristocratico, i tentativi di rovesciare la costituzione di
Silla, ed era allora in gran zuffa con il tribuno popolare di
quell’anno, Lucio Quinzio; ma nel tempo stesso maltrattava senza
riguardi la parte più corrotta della consorteria dominante;
la nobiltà bisognosa e viziosa, gli avventurieri. Sopratutto
aveva avuto acerbe diatribe con uno degli uomini più infami e
potenti della consorteria: Publio Cetego, che, partigiano prima e
poi transfuga del partito mariano, si era arricchito con le
proscrizioni, ed era allora odiato da tutti in segreto ma riverito e
temuto, come sono sempre nei tempi di reazione conservatrice i
ribaldi potenti378. Appena si cominciò a parlare a Roma della
probabile guerra con Mitridate, le ambizioni del console, che
già aveva combattuto sotto Silla contro Mitridate nella prima
guerra e perciò pensava di aver maggior diritto di ogni altro
a comandar questa, presero fuoco; ma disgraziatamente nel sorteggio
delle provincie gli era già toccata la Gallia Cisalpina, e i
concorrenti al comando furono ben presto parecchi: il suo collega
Cotta; Marco Antonio, figlio del grande oratore e pretore dell’anno
innanzi; forse anche Pompeo, che dalla Spagna, adirato perchè
il Senato non gli assegnava i fondi necessari a proseguire la guerra
e stanco di pagar del suo (aveva speso quasi tutto il suo
patrimonio), minacciava di venire a Roma con le legioni379. La morte
sopravvenuta allora di Lucio Ottavio, che governava la Cilicia, gli
fece concepire il disegno di cambiare la Gallia con la Cilicia, il
cui governatore avrebbe certamente avuto la missione di invadere
attraverso la Cappadocia il Ponto380; perchè tutti pensavano
a Roma che si sarebbe comodamente portata la guerra nel territorio
nemico e distrutto alla fine il suo regno. Ma questo scambio di
governi non era facile, perchè Lucullo era nel tempo stesso
poco amato dalla parte popolare e in urto con la parte più
criminosa e potente della consorteria sillana; il tempo stringeva;
le ambizioni erano molte: con subitanea veemenza l’appassionato
console gettò via in un baleno l’orgoglio aristocratico e la
rigidezza; e con meraviglia di tutti si piegò carponi,
strisciò, si divincolò per sgusciare attraverso le
strette di un complicato intrigo. Come sempre, le donne avevano
conservato nella società italiana più a lungo i
costumi, le idee e i sentimenti del tempo antico; e molte vivevano
ancora, nelle famiglie nobili, come la madre di Cesare,
semplicemente e onestamente, conservando perfino la primitiva
pronuncia latina, che gli uomini guastavano fuori nelle taverne, nei
trivi, nel fôro, tra il cicaleccio della feccia cosmopolita
che pullulava a Roma. Ma già apparivano le quattro corruzioni
e perversioni di cui è cagione, nel mondo muliebre, il
mutamento di una rozza ma disciplinata società rustica e
aristocratica, in una civiltà mercantile, ricca, colta e
voluttuosa: la prostituzione aristocratica, ossia la venalità
delle nobildonne che si acconciano a diventare amanti di un ricco
che paga il lusso; la potenza delle donne intelligenti e corrotte,
sugli uomini indeboliti dai godimenti e disposti a pregiar
più nella donna la viziosità piacente che la
onestà noiosa; la caccia alla dote e la tirannia della moglie
ricca sul marito bisognoso; il femminismo, cioè lo sforzo
delle donne nelle alte classi di mascolinizzarsi, di studiare, di
speculare, di cavalcare, di giocare, di far politica come gli
uomini. Una delle signore che rappresentavano a Roma in quei tempi
la “donna nuova” era l’amante di Cetego, una certa Precia,
intelligente, corrotta, abile, che per mezzo dei suoi illustri
amanti, e specialmente di Cetego, disponeva di un gran potere.
Lucullo si piegò a farle la corte, insieme con Antonio e
probabilmente con gli altri concorrenti; le mandò doni,
complimenti, preghiere nel tempo stesso in cui si rappacificava con
Quinzio, pagandolo profumatamente381. Precia si lasciò
commuover dalle premure di questo fiero tra tutti gli aristocratici
di Roma; e tanto fece che rappacificò Cetego con lui.
Ciò che donna vuole....
Ma il caso aiutò la bella intrigante e i suoi adoratori e
protetti. Mitridate da un pezzo si apparecchiava a un nuovo scontro
con Roma. Aveva infatti preparato armi, accumulato grano e denaro;
aveva mantenuto buone relazioni con i barbari della Tracia e con le
città greche del Mar Nero occidentale, come Apollonia,
Odessa, Tomi; aveva conchiusa l’intesa con i pirati; e per mezzo di
due antichi ufficiali di Fimbria fuggiti a lui dopo l’uccisione del
loro generale, Lucio Fannio e Lucio Magio, una alleanza con Sertorio
accettandone le condizioni: l’Asia resterebbe romana, la Bitinia, la
Paflagonia, la Cappadocia sarebbero di Mitridate; che fornirebbe a
Sertorio 4000 talenti e 40 navi, e riceverebbe da lui un generale,
Marco Mario382. Ma la morte e il testamento di Nicomede indussere il
rischioso sovrano a romper gli indugi e ad affrettare l’inevitabile
in un momento propizio. Inopinatamente, nella primavera del 74383,
quando a Roma si discuteva ancora comodamente chi comanderebbe la
guerra di là da venire, Mitridate mosse il suo esercito di
120 000 uomini e 16 000 cavalli384; una parte ne
mandò, forse al comando di Tassilo ed Ermocrate, a invadere
la Bitinia, fugandosi innanzi i finanzieri e i mercanti italiani
stabiliti nelle città della Bitinia, che si rifugiarono a
Calcedonia; con l’altra, al comando di Marco Mario e suo, invase
l’Asia, non però come l’altra volta in proprio nome e quale
conquistatore, bensì come alleato di Sertorio e al seguito di
Marco Mario, che entrava nelle città con le insegne di
proconsole e in nome di Sertorio le liberava, e condonava parte dei
debiti385; lanciò infine piccole colonne volanti di
cavalleria, al comando di Eumaco386, di Fannio e di Metrofane387 in
varie direzioni, attraverso la grande Frigia, verso la Cilicia e gli
Isauri del Tauro, recentemente domati, a sollevare contro Roma le
popolazioni388. Egli ritentava la sua vecchia politica: scatenare in
Oriente contro Roma la rivoluzione democratica e proletaria. E il
successo, se non fu così grande come la prima volta, fu
però, almeno in principio, considerevole: in Asia diverse
città minori sul mar di Marmara, in cui il popolo non era
dominato da un potente ceto di denarosi mercanti, come Pario,
Lampsaco, Priapo, si arresero a Marco Mario389, non però la
ricca Cizico, dove le alte classi parteggiavano per Roma contro il
monarca rivoluzionario e l’alleato dei pirati: in Bitinia, tutte le
città, spaventate dalla invasione dei capitalisti romani, si
dichiararono per Mitridate, tolta Calcedonia, che probabilmente fu
mantenuta in rispetto dai residenti romani. Il timore di una nuova
rivoluzione proletaria si diffuse in tutta l’Asia, dove erano due
sole legioni, quelle antiche di Fimbria lasciate da Silla, al
comando di un semplice propretore, mentre le due di Cilicia, per la
morte del proconsole, erano senza generale; le città fedeli
provvidero alla meglio da loro alla propria difesa, e Cesare, in cui
la smania di far parlare di sè era stata acuita dallo scoppio
di questa grossa guerra, si esaltò, interruppe gli studi a
Rodi, e raccolse una piccola milizia per tenere a freno le
città della Caria390; rompendo interamente con gli avanzi del
partito di suo zio, dichiarandosi legalitario e partigiano del nuovo
imperialismo che voleva sopratutto restaurare e ingrandire il
prestigio di Roma.
Questa improvvisa invasione, spaventosa ai romani sopratutto per il
ricordo della precedente, fece sparire d’un tratto a Roma ogni
avversione a provvedimenti straordinari. Nessuno riflettè che
il pericolo era questa volta molto minore; tutti dissero che non si
poteva, in simile frangente, lasciar l’Asia a un propretore con due
legioni, e la Cilicia senza governatore fino all’anno prossimo;
Lucullo, per le prove già fatte nella guerra precedente, fu
universalmente riconosciuto come l’uomo necessario. La abile Precia
potè accomodar tutto e accontentar tutti; Pompeo ebbe i fondi
per continuare la guerra contro Sertorio; Antonio il comando della
flotta e di tutta la costa, con l’incarico di combattere i pirati e
di conquistar Creta loro principale fortezza; Cotta ebbe l’incarico
di difendere la Bitinia e il Mar di Marmara; Lucullo il proconsolato
della Cilicia, e la missione, con le due legioni di Cilicia, con le
due di Asia e con una di coscritti reclutati in Italia, di scacciar
Mitridate dall’Asia391: grazioso capolavoro di diplomazia da alcova,
ed enorme sproposito militare, perchè divideva fra tre
generali le operazioni della guerra, senza dare a nessuno il comando
supremo. A ogni modo i due consoli doverono affrettar la partenza; e
partirono probabilmente verso la fine della primavera o il principio
dell’estate: Cotta, raccolta tra gli alleati una flotta, andò
a Calcedonia, per vedere se da questa città ancora in
possesso dei romani potesse tentare di riconquistar la Bitinia;
mentre Lucullo sbarcato in Asia con la legione di coscritti,
ridisciplinava le due vecchie legioni di Fimbria, faceva venire le
due di Cilicia, cercava con qualche misura di alleviare il disagio
delle città asiatiche, e preparava sollecitamente l’avanzata
contro l’esercito di Mitridate, che gli scarsi progressi della
rivoluzione, fermatasi a un tratto dopo il pronto principio,
trattenevano al nord.
Sembra che Mitridate, saputo che Cotta andava a Calcedonia con una
flotta, abbandonasse l’esercito d’Asia e si recasse a quello di
Bitinia, per condurlo all’assedio di Calcedonia. Calcedonia era
posta proprio sul Bosforo, di faccia a Bisanzio; e una flotta romana
avrebbe da Calcedonia potuto molestare le navi pontiche che
portavano dal Mar Nero nel Mar di Marmara il grano per l’esercito.
Ma quando Mitridate fu giunto con l’esercito sin presso a
Calcedonia, è facile immaginare che cosa successe nella
città: intorno a Cotta, che sembra fosse uomo poco capace,
fecero ressa i ricchi finanzieri rifugiati, impazienti di ritornare
agli affari; e lo incitarono a far presto, a tentare un colpo ardito
distruggendo Mitridate e liberando la Bitinia; Cotta cedè; ma
tentata una battaglia, che finì con una grave disfatta per
terra, e con la perdita di tutta la flotta392, dovè chiudersi
in Calcedonia. Questo rovescio al principio della guerra era una
disgrazia; ma lo compensava in parte la ristabilita unità di
comando, poichè Lucullo che restava solo in campo, con i
30 000 uomini e i 2500 cavalli con cui si era avanzato allora
sino al Sangario393, era ormai il solo arbitro e signore della
guerra sul continente. Senza ascoltare coloro i quali consigliavano
la subita invasione del Ponto, Lucullo continuò ad avanzare
contro l’esercito pontico che operava in Asia, e al quale Mitridate,
dopo la vittoria di Calcedonia, pare avesse fatto ritorno; ma
profondamente impressionato dalla sorte di Cotta, incominciò
la guerra con grande prudenza e trepidazione; cercò prima,
quando fu in vicinanza di Mitridate, di aver sicure notizie sulle
forze nemiche; e saputo quanto erano superiori alle sue, non volle
rischiare una battaglia; raccolse da ogni parte e caricò
quanto più grano potè sui muli e sui cavalli che le
legioni si traevano dietro per il trasporto dei bagagli e delle
tende, sui servi che le seguivano per aiutare i soldati nelle
fatiche più grosse, restringendosi a seguire passo passo il
nemico, senza accettar mai battaglia, chiudendosi sempre ogni sera
nell’accampamento e cercando con subite irruzioni di cavalleria di
rendergli difficili gli approvvigionamenti394. Gli sforzi di
Mitridate per ordinare un esercito al modo romano erano riusciti
soltanto in parte, come sempre avviene di simiglianti tentativi,
perchè ogni esercito è parte organica della propria
nazione: onde non ostante i molti italiani presi al proprio servizio
e le riforme introdotte, Mitridate aveva dovuto, pur questa volta,
scendere in campo con un esercito numeroso, eterogeneo, lento, che
consumava molto e i cui approvvigionamenti divenivano più
precari, difficili e imperfetti, a mano a mano che, avanzandosi
nell’Asia, esso si allontanava dai porti del Ponto sul Mar Nero,
dove le navi portavano il grano della Crimea. Il porto di Lampsaco
pare non fosse di aiuto bastevole; e i convogli di grano per terra
camminavan così lenti e arrivavano così
irregolarmente, che spesse volte l’esercito non aveva grano che per
tre o quattro giorni395. Perciò Lucullo potè in poco
tempo, disturbando un servizio di approvvigionamento già
così manchevole per sè stesso, recar tanta molestia al
nemico, che Mitridate si vide costretto a ripiegare verso le sue
grandi basi di rifornimento, i porti del Ponto sul Mar Nero,
abbandonando la provincia d’Asia e la speranza di una vasta
insurrezione degli Asiatici, riducendosi a difendersi nel suo paese,
e confessandosi già vinto a metà. Ma l’orgoglioso
monarca non si acconciò a questa ritirata; volle tentare
ancora la fortuna e concepì il disegno di una ardita impresa:
impadronirsi del maggior porto sul Mar di Marmara, Cizico; rianimare
così il suo partito in Asia; scatenare dappertutto la
rivoluzione; riprendere con vigore nella stessa provincia le
operazioni contro Lucullo, possedendo un gran porto vicino, ove
sbarcare larghe provviste del suo grano. Infatti una sera, levato
chetamente il campo, mentre l’esercito di Lucullo dormiva vicino,
con una marcia forzata giunse all’alba in vista di Cizico, per
prenderla di sorpresa396. La sorpresa fallì, e Mitridate
cinse la città di assedio, per terra e per mare; ma quando
sopraggiunse Lucullo, egli non ebbe l’ardire di distaccargli contro
una parte dell’esercito con cui assediava Cizico, per dargli
battaglia; e si lasciò chiudere a sua volta con una vasta
linea di fosse e di trincee in un nuovo assedio; sperando di prender
Cizico con il tempo, e contando, se i Romani gli chiudevano le vie
della terra, di poter sempre approvvigionarsi per mare.
Incominciò allora un doppio assedio, nel quale le sorti della
guerra dipesero dalla resistenza dei Ciziceni: se Cizico cadeva,
Mitridate, padrone di una eccellente base di operazione, avrebbe
potuto più facilmente ricacciar via Lucullo dall’Asia; se
Cizico resisteva, Mitridate si sarebbe un giorno trovato in una
stretta terribile, tra la città e Lucullo. Ma Lucullo
riuscì a infonder coraggio ai Ciziceni avvertendoli della sua
presenza; l’assedio si prolungò; Mitridate volle ostinarsi e
si lasciò cogliere dall’inverno, le cui tempeste resero
difficili gli approvvigionamenti; sinchè il pane e i foraggi
mancarono, i cadaveri e le carogne insepolte appestarono l’aria; le
epidemie infierirono397. Solo tra tutti il superbo monarca pontico,
esasperato e così fuori di sè per il lungo e vano
assedio, che i suoi generali non osavano rivelargli le condizioni
dell’esercito, non vedeva e non sapeva nulla; e continuava a pensare
di prender Cizico, quando i suoi soldati erano ridotti a mangiare i
cadaveri398. Ma alla fine anche egli dovette sapere il vero; e
allora, rassegnato all’inevitabile, tentò una fuga; per
illudere il nemico avviò ad oriente, verso la Bitinia, la
cavalleria, i somieri, gli uomini inutili, mentre egli si imbarcava,
e avviava l’esercito ad occidente, verso Lampsaco, dove egli sarebbe
venuto a prenderlo con la flotta. Lucullo infatti si slanciò
con l’esercito, attraverso le pianure coperte di neve, dietro la
cavalleria, che lentamente si ritirava; raggiunse il convoglio al
passaggio del Rindaco, e lo distrusse, facendo una strage terribile,
catturando 15 000 prigionieri, prendendo 9000 cavalli
finissimi, un gran numero di bestie da soma e una preda immensa:
poi, capito che il grosso dell’esercito doveva esser fuggito per
altra parte, tornò rapidamente indietro. La fortuna lo
aiutò: l’esercito di Mitridate, nel ritrarsi, era stato
fermato da una piena sull’Edepo, dove egli lo raggiunse e lo
distrusse. Pochi avanzi ne giunsero a Lampsaco, dove Mitridate li
raccolse e imbarcò399. La Bitinia era conquistata, Calcedonia
libera nei primi mesi del 73. La prima campagna terminava con una
brillante vittoria del piccolo, buono ed agile esercito
sull’esercito numeroso ed ingombrante, cui Mitridate aveva invano
tentato di dare la snellezza e la forza romana. Era stato
però di grande aiuto a Lucullo il contegno delle popolazioni
asiatiche, tra le quali la rivoluzione questa volta si era propagata
meno, perchè troppo recente era ancora la memoria dell’altra
rivoluzione così miseramente terminata; troppo grande la
vigilanza delle classi ricche e lo sconforto dei poveri.
VIII.
MARCO LICINIO CRASSO.
Frattanto, nell’anno 73 a. C., Cesare tornava a Roma. Come finisse
la sua impresa contro Mitridate, noi non sappiamo; ma è
probabile che egli fosse corso all’armi per un timore di rivoluzione
immaginario, e che congedate ben presto, dopo l’arrivo di Lucullo in
Asia, le sue schiere, deliberasse il ritorno, quando ebbe saputo di
essere stato eletto pontefice in luogo dello zio Caio Aurelio Cotta,
morto in Gallia400. A Roma, come se gli altri guai non bastassero,
si aggiungevano allora a fomentare il malcontento pubblico anche le
carestie che ricorrevano frequenti (quella dell’anno 75 era stata
assai dura)401, perchè la popolazione cresceva, forse anche
perchè, progredendo la coltivazione delle vigne e degli
uliveti, la granicoltura in Italia si riduceva sempre più, in
tutte le fattorie, a soddisfare i bisogni dei soli coltivatori; e i
lamenti contro la trascuranza del governo erano tanti e così
vivi, che in quell’anno i due consoli Caio Cassio Longino e Marco
Terenzio Liciniano Varrone, il fratello minore di Lucullo adottato
da Marco Terenzio Varrone, proposero, sebbene conservatori, una
legge con la quale si aumentava il tributo di grano della Sicilia in
questo modo: le città che erano già sottoposte alla
decima avrebbero contribuita un’altra decima, che sarebbe stata loro
pagata al prezzo di tre sesterzi il moggio; le città esenti
da decima avrebbero dovuto mandare a Roma 800 000 moggia (circa
70 000 ettolitri) di grano, che sarebbero state pagate tre
sesterzi e mezzi il moggio402. Così tra grano ceduto
gratuitamente e grano dato a prezzo di favore la Sicilia avrebbe
dovuto mandare a Roma ogni anno quasi 600 000 ettolitri403. Si
sarebbero placati un poco gli incontentabili abitanti dell’Urbe? E
invece incominciava in quell’anno uno spavento anche maggiore: una
insurrezione di schiavi che, fuggiti sotto la guida di uno schiavo
trace di nome Spartaco da una caserma di gladiatori di Capua,
ingrossavano da piccola schiera quasi a vero esercito, e già
avevano sconfitto qualche legione, reclutata in fretta. Le vittorie
di Lucullo erano state cagione di gran gioia; ma Marco Antonio aveva
miseramente fallito nell’impresa contro Creta, e dopo aver depredato
un poco la Sicilia, si era fatto battere ignominiosamente dai
pirati404: onde la gioia si mutò in spavento quando di
lì a poco Mitridate, sconfitto in terra, ripigliò la
guerra furiosamente sul mare mettendo a profitto le amicizie e le
alleanze con le popolazioni e le città della Tracia405; e
mentre i luogotenenti di Lucullo Caio Valerio Triario e Barba si
avviavano a riconquistare le città della Bitinia ancora
fedeli al re del Ponto, saccheggiava le coste del mar di Marmara,
assediava Perinto, minacciava Bisanzio e inviava una parte della
flotta, sotto il comando di Mario, nell’Egeo, a cercar rinforzi tra
i pirati di Creta e della Spagna. Lo spavento in Italia fu grande:
certo la flotta pontica dell’Egeo intendeva minacciare l’Italia; una
flotta per difenderla mancava406; a questo bel modo il Senato e la
consorteria di Silla provvedevano alla cosa pubblica! Il Senato
deliberò che Marco Lucullo, console in quell’anno, facesse
come proconsole una grande spedizione in Tracia per distruggere gli
alleati di Mitridate407; votò precipitosamente 3000 talenti,
perchè Lucullo costruisse una flotta, come se una flotta
potesse farsi in un giorno; gli prolungò il comando di un
anno; forse anche gli diede il governo della Bitinia, mettendo Cotta
sotto i suoi ordini408, facendo così per forza ciò che
avrebbe dovuto fare per saggezza sin da principio: affidare a uno
solo il governo supremo della guerra, per terra e per mare.
Rinfocolata da questi eventi, la opposizione al governo della
consorteria diventava universale in tutte le classi e in essa
rinasceva il partito popolare, ma come un partito nuovo; non
più rivoluzionario e composto di disperati, ma legalitario e
composto della parte migliore delle medie e delle alte classi.
Dappertutto si voleva un governo più giusto, più
onesto e più energico, che non lasciasse lo Stato in
balìa dei ladri, l’Italia in balìa degli schiavi
ribellati, il mare in balìa dei corsari; e molte case
signorili diventavano clubs di opposizione, dove anche i giovani
delle famiglie nobili si infervoravano nell’entusiasmo delle nuove
idee e nella aspettazione del prossimo mutamento: frequentata tra
tutte la casa di Servilia, la giovane, spiritosa e intelligente
vedova di quel Marco Giunio Bruto che era perito per mano di Pompeo
nella rivoluzione del 78 e che, rimaritatasi con un nobile di
sentimenti democratici, Decimo Giunio Silano, aveva aperta la casa a
tutta la gioventù “moderna” delle alte classi409. Questa
volta Cesare fu ricevuto volentieri non solo in casa di Servilia, ma
anche in molte altre case, che gli erano state poco amiche al suo
primo ritorno d’Oriente410; perchè aveva solo 27 anni411;
perchè era bello, nobile, colto, eloquente; perchè
l’aver osato ribellarsi a Silla e l’esser nipote di Mario
diventavano meriti. Difatti ben presto fu eletto dal popolo tribunus
militum, colonnello diremmo noi, comandante cioè di 1000
uomini in guerra; e incoraggiato da queste accoglienze
incominciò ad aprirsi la via degli onori, cercando
popolarità. Ma l’impresa non era facile. Dopo la concessione
del suffragio agli Italiani, gli elettori erano cresciuti intorno a
quei tempi, a 910 000412; ma siccome solo una parte aveva
dimora permanente in Roma, e degli altri, che abitavano nelle
città dell’Italia, era difficile sapere quanti si
troverebbero a Roma ogni anno per le elezioni, già solo per
questa cagione ogni elezione era una vicenda assai incerta. Ma
più incerta ancora essa diventava per la composizione
dell’elettorato. Una parte era plebe minuta: piccoli mercanti,
artigiani, clienti e parassiti dei signori, funzionari dello Stato
occupanti gli umili impieghi serbati agli uomini liberi, mendicanti,
oziosi, spostati; e questa vendeva facilmente il voto; anzi il
commercio dei voti era a poco a poco organizzato da uomini abili i
quali reclutavano la marmaglia elettorale in clubs o collegia; ne
accaparravano i voti con pranzi, con favori, con piccoli sussidi e
vendevano poi a forfait i voti ai candidati con complicate cautele,
che garantissero la fedele esecuzione dei contratti413. Invece gli
agiati borghesi di Roma e di Italia, gli appaltatori, i mercanti, i
possidenti, i liberti denarosi, gli uomini colti, i grandi
capitalisti, che l’agiatezza, la potenza mondiale dell’Italia, la
cultura, lo spirito dei tempi facevano orgogliosi e capricciosi,
erano indotti a votare ora in un modo ora in un altro dai motivi
più diversi: simpatie personali, riguardi per personaggi
potenti, speranze o ambizioni proprie, contagio di entusiasmi o di
odi passeggeri, pregiudizi popolari, dicerie false.... Il volubile
vento del favore popolare si voltava, nei comizi, quasi di ora in
ora; spesso per incidenti minimi, dalla sera alla mattina, le
probabilità si invertivano; spesso le più lunghe
preparazioni erano scompigliate da una audacia improvvisa; spesso
all’ultimo momento le lunghe incertezze della lotta elettorale si
risolvevano, per un subito rivolgimento degli spiriti, nella
sorpresa di un resultato inaspettato da tutti414. Acquistar potere
sopra un elettorato così vasto, eterogeneo e mobile, senza
l’aiuto della consorteria dominante, non era facile; e Cesare ci si
provò cominciando quei lavori forzati di propiziazione e di
lusinga, a cui erano condannati gli uomini politici di Roma: alzarsi
all’alba, ammettere subito tutti i seccatori di Roma e delle altri
parti dell’Italia che venivano o soltanto a vedere l’uomo celebre di
Roma, o più praticamente a domandare l’assistenza in un
processo, un sussidio di denaro, un prestito, un appalto pubblico,
una esenzione dalla milizia, una lettera di raccomandazione per
qualche governatore di lontana provincia; scendere poi di buon
mattino al fôro a difender cause, andare dai magistrati o in
Senato o da qualche ricco banchiere a intercedere per questo o per
quello; lasciarsi fermare nella via da ogni importuno; riconoscerlo
con l’aiuto della propria memoria o con quella dello schiavo
nomenclatore il cui ufficio era di riconoscere per nome il maggior
numero di elettori e suggerire destramente il padrone,
affinchè l’elettore potesse illudersi di essere conosciuto
personalmente; avere per tutti una parola gentile, un complimento,
una promessa sempre pronta; invitar tutte le sere gente a pranzo,
assistere ai matrimoni, ai funerali, a tutte le feste di famiglia
del maggior numero possibile di cittadini; brigare in tutte le
elezioni per questo o per quel candidato; raccogliere e sussidiar
regolarmente, tra il popolino di Roma, un certo numero di clienti,
pronti a far da spie in mezzo al popolo, da galoppini nelle
elezioni, da claque nei discorsi del fôro, da bravi in qualche
baruffa.
Ma l’ora di Cesare era ancora lontana. Per il momento altri uomini
grandeggiavano nella ammirazione del pubblico: Pompeo che in Spagna,
sebbene lentamente e faticosamente, guadagnava terreno su Sertorio;
Lucullo che, incoraggiato ed esaltato dal successo di Cizico, aveva
in fretta raccolta una flotta tra gli alleati, e con quella si era
messo alla caccia della flotta pontica nell’Egeo, assalendo e
distruggendo una dopo l’altra le varie squadre, perseguitando con
speciale accanimento i transfughi italiani e Marco Mario, che egli
uccise in uno di questi scontri; mentre i suoi luogotenenti
procedevano a ridurre le città bitiniche ancora in armi,
facendo un gran bottino di schiavi e di oggetti415. Così
verso la metà del 73 Lucullo aveva ridotto in suo potere,
tranne Eraclea, tutte le città bitiniche; e costretto
Mitridate a tornar nel suo regno per mare con gli avanzi
dell’esercito condotto l’anno innanzi alla conquista della Bitinia:
dopo di che, nel consiglio di guerra che Lucullo tenne nell’estate
del 73 a Nicomedia, parecchi generali giudicarono si potesse
riposare sino alla prossima primavera i soldati416. Ma Lucullo non
volle riposo. Avveniva in lui un mutamento singolare. Questo uomo
che già toccava quasi la cinquantina e che sino allora aveva
mostrato tanta fierezza aristocratica, tanta semplicità di
vita, tanto orgoglioso disdegno delle arti volgari dell’ambizione,
facilmente si contradiceva e mutava, come tutti gli uomini
intelligenti di temperamento appassionato, veemente, poco
equilibrato, sotto impressioni dalle cose diverse, esagerando
però a volta a volta in ogni mutamento e illudendo con queste
appassionate esagerazioni coloro che lo credevano un magnifico
esempio di carattere. Cresciuto nella nobiltà conservatrice,
povera, nemica dei capitalisti e della demagogia, fedele al vecchio
costume, egli era stato lunghi anni austerissimo, semplicissimo,
nemicissimo del lusso, del denaro, di tutti gli usi nuovi,
orgoglioso della sua povertà e del suo merito, spregiatore
della vana arte di diventar celebre in mezzo al volgo abietto. A
poco a poco però, a mano a mano che gli avanzi di questo
vecchio mondo aristocratico sparivano; a mano a mano che la
ricchezza, il lusso, la avidità dei piaceri, il desiderio
delle ammirazioni popolari si divulgavano intorno a lui;
dopochè ebbe visto Pompeo salir tanto alto per forza di
popolarità e molti amici suoi diventati ricchi nella guerra
civile sfoggiare, godersi tutti i piaceri del senso e
dell’intelletto, egli aveva incominciato a mutarsi. Gli intrighi
orditi per ottenere il comando della guerra erano stati il primo
segno di questo mutamento, sino allora invisibile a tutti, e forse
anche alla vista interiore dell’uomo che, senza saperlo, si
rinnovava.... L’esaltazione del successo, l’immenso potere, la
ricchezza e la grandezza di quel mondo orientale, di cui stava per
diventare il signore, per conto di Roma, precipitarono il mutamento,
alla fine; e dopo le vittorie di Cizico e dell’Egeo, Lucullo fu un
altro uomo: ambiziosissimo, intrigante, cupido, che voleva farsi
prolungare il comando per tanti anni quanti potesse, avere anche il
governo dell’Asia e unire tutto l’Oriente sotto il suo impero; che
pagava a Roma i capi del partito popolare affinchè non
impedissero questi ingrandimenti di potere417; che dopo ogni
battaglia, dopo ogni resa di città, dopo ogni saccheggio
mandava a Roma, ai suoi amministratori, carichi immensi di monete,
di metalli preziosi, di opere d’arte. Conveniva perciò a lui
incominciare subito una nuova grande spedizione, a mezzo la quale
fosse imprudente di richiamarlo; ed egoista, come tutti gli uomini
geniali che invasati dal furore di fare misurano le forze altrui
dalle proprie, non considerò nemmeno se le stanche milizie
potessero tener dietro al nuovo slancio dell’immaginazione sua; ma
deliberò di invadere subito il regno di Mitridate. Egli
avrebbe puntato con tutto l’esercito su due porti, Amiso e
Temiscira, con lo scopo di procurarsi una base di rifornimento per
una lunga campagna nell’interno montuoso del Ponto, dove Mitridate
si ritirava per preparare un nuovo esercito nel triangolo formato da
Cabira, Amasia, Eupatoria, mentre aspettava l’esito delle richieste
di aiuto fatte a suo genero Tigrane re di Armenia, a suo figlio
Macare vicerè della Crimea, e agli Sciti418: intanto Cotta
andrebbe ad assediare Eraclea; Triario aspetterebbe con 70 navi,
nell’Ellesponto, le squadre pontiche di ritorno dalla Spagna e da
Creta, ed egli stesso, sapendo come i regni si conquistano non solo
con il ferro ma anche con l’oro, tenterebbe generali e alti
funzionari di Mitridate con grandi promesse419. Difatti, dopo una
marcia lunga e difficile attraverso la Bitinia e la Galazia, Lucullo
si gettò con l’esercito nel Ponto indifeso, abbandonando il
paese ricco, popoloso, pacifico da lungo tempo, ai soldati, i quali
predarono bestiame, vettovaglie, oggetti, e fecero un’immensa razzia
di schiavi, catturando ogni sorta di persone che capitasse in loro
potere: uomini, donne; contadini, cittadini; ricchi, poveri. Coloro
che potevano pagare un riscatto erano, come al solito, lasciati
liberi; gli altri venduti ai mercanti italiani che seguivano
l’esercito. Ben presto, nel campo romano uno schiavo non
costò che quattro dramme, meno cioè di quattro
franchi420; ma l’esercito, non ancora contento, si lagnava che il
frettoloso generale desse appena il tempo, nella rapida marcia, di
prendere qualche cosa, e che accettasse così spesso rese di
città e di villaggi alla condizione di rispettare la
proprietà421. Inutilmente però: Lucullo, troppo
infervorato nel suo piano, appena badava a questi lamenti; e
conduceva rapido le legioni sin sotto Amiso e Temiscira, che con una
resistenza vigorosa obbligarono l’esercito romano a passar l’inverno
del 73-72 nelle trincee.
Nella primavera del 72, la guerra ricominciò vigorosa nel
Ponto, in Tracia, in Spagna, contro Mitridate e i suoi alleati.
Lucullo, avendo saputo che il nuovo esercito di Mitridate era quasi
pronto, e non volendo essere assalito sotto le mura delle due
città, risolvè con savia arditezza di muovergli contro
con una parte dell’esercito, mentre l’altra, sotto il comando del
suo generale Lucio Licinio Murena, continuerebbe l’assedio; e con
una marcia e una campagna che la difficoltà degli
approvigionamenti resero difficile e pericolosa, con l’aiuto del
tradimento di diversi generali pontici da lui corrotti,
riuscì a infliggere una disfatta decisiva a Mitridate, che
aveva perduto il suo migliore esercito l’anno prima nella invasione
dell’Asia e della Bitinia, e non aveva ricevuto nessuno degli aiuti
richiesti; a impadronirsi del suo campo e dei tesori che il re e i
suoi generali avevano portati con loro; ma per arraffar i quali
Mitridate fu lasciato, in mezzo al disordine della rotta, fuggire in
Armenia, dopo aver dato ordine di uccidere tutte le donne del suo
harem422. Nel tempo stesso il fratello di Lucullo, Marco, mandato
proconsole in Macedonia, conquistava definitivamente la Tracia,
oltre i Balcani, sino al Danubio423; faceva tagliare le mani a
intere tribù per spaventare le altre424 e saccheggiava non
solo i villaggi dei barbari, ma anche le belle e celebri
città greche della costa425 amiche di Mitridate; mentre
Pompeo in Spagna riusciva alla fine ad avviare la guerra al suo
termine, non tanto per merito suo, quanto per opera di Perpenna che
aveva ucciso Sertorio; e incominciava una guerra di devastazione e
sterminio contro le città che avevano parteggiato per
Sertorio o che avevano accolto i senatori suoi partigiani426. Invece
in Italia Spartaco, sconfitti i due consoli dell’anno, scorrazzava
vittorioso da un capo all’altro della penisola invano rincorso dalle
legioni, e seguito da un nugolo di mercanti che poco patrioticamente
gli vendevano il ferro e le altre materie necessarie a far le spade
e gli strumenti da guerra427. Le alte classi e la borghesia
benestante tremavano per le vigne e per gli uliveti piantati da poco
che queste bande potevano saccheggiare; per le fattorie, le cui
cantine ben provviste erano votate dagli insorti; per la
fedeltà dei molti schiavi importati in Italia da poco tempo e
da ogni dove, ancor memori della loro patria, non ancora
acconciatisi alla nuova condizione e nei quali questa rivolta,
effetto delle affrettate e soverchie importazioni di schiavi, aveva
trovato certo il maggior numero di soldati. Che cosa faceva intanto
questo Senato di concussionari e di ladri, capaci solo di derubare
le provincie inermi? In quella generazione eccitabile e nervosa,
tutto era contagioso, il coraggio come la vigliaccheria; e i soldati
mandati a combattere Spartaco, gli ufficiali, tutto il mondo
politico erano disanimati a tal segno, che nelle elezioni per il 71
i candidati scarseggiarono, tanto spaventava l’idea di avere un
comando contro l’invincibile schiavo428. Il Senato capì che
bisognava a qualunque costo trovare un uomo volenteroso e capace,
che finisse la guerra; e lo trovò in un pretore di
quell’anno, nel discendente di una grande famiglia, che noi abbiamo
visto durante la reazione primeggiare tra i partigiani di Silla e
partecipare al bottino della guerra civile: Marco Licinio Crasso.
Crasso era un prediletto della fortuna, che della fortuna aveva
ricevuti tutti i doni: discendenza illustre, ricca sostanza, pronte
e facili occasioni di segnalarsi, splendida educazione, intelligenza
versatile e avida di cultura, alacrità, perseveranza. Egli
aveva già una bella riputazione militare, perchè
durante la guerra civile aveva vinto, intervenendo a tempo, la
battaglia della Porta Collina, una delle più importanti
combattute da Silla e che Silla stava per perdere: era poi divenuto,
per la parte presa nella repressione di Silla e per le ricchezze, un
personaggio autorevole, così da essere, senza fatica, eletto
nell’ordine legale a tutte le cariche fino a quella di pretore; si
era dato con fortuna agli affari ed era ormai uno dei più
potenti capitalisti di Roma; aveva aperta la sua casa ai sapienti
orientali, studiato filosofia, esercitate felicemente le sue
facoltà letterarie ed oratorie. Ricco, intelligente, celebre,
potentissimo, Crasso avrebbe dovuto esser felice.... Eppure egli
aveva un tormento: la gloria di Pompeo, quasi coetaneo suo e
compagno d’armi nella guerra contro la rivoluzione. In mezzo a tante
fortunate vicende Crasso si era persuaso di valere come generale
quanto Pompeo e Lucullo, di essere pari a Cesare per eloquenza, di
non dovere restar secondo a nessuno per onori, potenza e
considerazione pubblica: ma la sua natura non era quella di un
grande ambizioso, audace, esaltato, fantastico, prodigo;
bensì quella di un banchiere sagace e tenace, come ce ne sono
stati tanti nella generazione degli Ebrei che ora scompare: con
pochi bisogni e senza vizi, di costumi rispettabili429, che amava la
sua famiglia, che nella vita e negli affari spiegava uno
straordinario spirito di ordine, uno zelo minuzioso e tenace in ogni
impresa, tentata per poco o per molto; una sollecitudine a
sfruttare, con prudenza e perseveranza, tutte le occasioni di
vantaggio piccole e grandi. Così mentre Pompeo pareva
ricevere gli onori e gli omaggi con una superba indolenza, senza,
almeno in apparenza, degnarsi di sollecitarli, stando lontano, come
gli fossero dovuti; egli, per accrescere il suo potere veniva
prestando largamente denaro, senza interesse; difendeva tutte le
cause che gli erano proposte, anche quelle di gente così
abietta e vile che Cesare rifiutava; prodigava gentilezze e saluti e
complimenti a ogni sorta di persone. Spirito non penetrante e
geniale come Cesare, non veemente e passionato come Lucullo, non
aristocratico e altero come Pompeo, ma ingegnoso, minuzioso e
tenace, egli sapeva raggiungere i fini che si proponeva; non odiava
a morte nè amava svisceratamente nessuno; non era crudele per
diletto ma non aveva scrupoli di onestà, di casta o di
alterigia; senza accorgersene, anzi illudendosi di essere generoso,
cercava un vantaggio immediato con ogni suo atto; non era grandioso
mai per istinto ma sempre per calcolo, e alternava atti
splendidamente munifici con pitoccherie vergognose, secondo gli
conveniva. Molti che avevano approfittato dei suoi larghi prestiti
graziosi, credendoli prova di una sincera amicizia, si erano veduti
poi domandare inesorabilmente la restituzione del capitale, se alla
scadenza Crasso pensasse di non aver più bisogno del suo
beneficato430. Eppure non ostante i molti prestiti, le moltissime
cause difese, i saluti prodigati a ogni sorta di persone, la tenace
continuazione di tanti piccoli sforzi per piacere, egli era meno
ammirato di Pompeo, che con minor fatica aveva ricevuto onori ben
maggiori dei suoi – sino un trionfo e un comando proconsolare prima
di avere esercitato una magistratura: e questa fortuna del suo
rivale bastava ad amareggiargli il godimento di tutti gli altri beni
che possedeva.
A ogni modo, considerando il credito di questo largo dispensatore di
prestiti graziosi e la sua reputazione militare, è facile
capire come egli fosse scelto a comandante per la guerra contro
Spartaco. Crasso, stimolato dalla gloria di Pompeo per le vittorie
di Spagna, e sapendo che il vincitore degli schiavi sarebbe divenuto
popolarissimo, accettò volentieri; e si mise all’opera subito
con energia, cominciando, per vincere la vigliaccheria contagiosa
dei soldati, con rinnovare un esempio di severità ormai da
moltissimo tempo non più usato, facendo decimare le prime
coorti che fuggirono davanti al nemico431; ma pur infliggendo al
nemico alcune disfatte, non riuscì nemmeno egli a
distruggerlo e a catturarne il capo; tanto che un momento si era
quasi scoraggiato egli pure....432 L’esasperazione delle classi
agiate dell’Italia cresceva; e il Senato alla fine si risolvè
a chiamar Pompeo in Italia, incaricandolo di finire Spartaco433.
Crasso, per non lasciarsi togliere l’onore di terminare la guerra,
raddoppiò di celerità, di energia, di audacia;
respinse le proposte di pace che Spartaco gli aveva fatte; si
accanì a perseguitarlo.... Spartaco era un uomo di genio e
aveva fatto miracoli; ma il suo esercito raccogliticcio ed
eterogeneo non poteva resistere indefinitamente; le discordie,
l’insubordinazione, le diserzioni aiutarono Crasso, che potè
alla fine vincere una battaglia nella quale Spartaco morì434;
mentre a Pompeo che ritornava dalla Spagna, restò ancora di
disperdere una banda di 5000 fuggiaschi incontrata nelle Alpi435. La
vendetta seguita alla vittoria fu terribile: 6000 schiavi presi vivi
furono crocifissi lungo la via Appia436, a terrore dei loro compagni
in cattività, a soddisfazione non solo della nobiltà
sempre spietata contro i ribelli, ma del medio ceto, che
incominciava a posseder schiavi; e che, disposto a sentimenti umani
in ogni altra occasione, diventava feroce, quando era minacciato
negli averi.
Intanto Lucullo che aveva passato l’inverno del 72-71 a Cabira, nel
palazzo del profugo re437, adoperava il suo piccolo esercito alla
conquista definitiva del Ponto, come fosse uno strumento inanimato,
non un corpo vivo e senziente. Lucullo non era crudele, ma come
tutti gli uomini appassionati e orgogliosi, tollerava con poca
pazienza le opposizioni; e cadeva in uno stato di cecità e di
estremo egoismo, quando era invasato da una idea o da un desiderio.
Il potere assoluto di generale, la gloria dei successi, l’immensa
vastità dei piani, che agitava nel suo spirito esaltato, le
infinite cure del suo ufficio, l’ambizione e la cupidigia, tanto
più intense perchè recenti, ne avevano allora
accresciuto a dismisura la impazienza, l’orgoglio, la franchezza
brutale, l’egoismo e la cecità. I soldati lamentavano che non
venisse tra loro mai come un compagno a passar di tenda in tenda, a
parlar loro amichevolmente, a lodarli, a incoraggiarli; che passasse
sempre in fretta a cavallo con il seguito e solo per ragioni di
servizio, accigliato, tacito, non avendo occhi e voce se non per
scoprire mancanze, per punirle, per domandare un servizio più
pericoloso e più duro, dopo l’altro; che donasse si qualche
ricompensa sulle prede, ma con avarizia, come se temesse di
guastarli: gli ufficiali, appartenenti i più a famiglie
cospicue, si dolevano che egli li maltrattasse continuamente per la
loro mollezza, lentezza, incapacità, senza riguardi nè
di nomi nè di famiglie; che mandasse impazientemente ordini
su ordini, aggiungesse incarico a incarico, come se fossero di ferro
e non di carne, e non si stancassero anche essi; poi, per quanto
facessero, non riescissero mai a contentarlo438. Eppure egli amava i
suoi soldati e stimava molti dei suoi ufficiali; ma non si
rappresentava più, nella fretta di pensare e di fare, il
beneficio immenso che a certi momenti avrebbe recato una lode e una
gentilezza; non si accorgeva con quanta incoerenza egli, che, preso
ormai dal demone della ricchezza, mandava in Italia, ai suoi
intendenti, carichi immensi di monete, di opere d’arte, di oggetti
preziosi, volesse poi frenare la feroce avidità delle sue
milizie, come se tutti i soldati non dovessero faticare che per la
gloria sua. Così i soldati aspettavano allora che Lucullo
espugnasse le piccole fortezze poste su alte rôcche munite,
dove erano deposti i tesori della corte, i metalli preziosi, gli
arredi, i gioielli439, abbandonando loro a compenso delle fatiche
gli scrigni e le suppellettili del nemico di Roma: ma Lucullo,
argomentando giustamente esser più savio impadronirsi prima
davvero di tutto il Ponto e conquistarne le grandi città
greche, Amasia, Amiso, Sinope, non badò, come al solito, al
desiderio dei soldati; e ricevuta per denaro la dedizione di alcune
fortezze, si trasse dietro le legioni scontente alla conquista delle
belle e prosperose città, ultimi monumenti, sulle rive del
Mar Nero, della potenza civilitrice della Grecia. La resistenza di
queste fu lunga, perchè la dominazione romana, dopo il
malgoverno del regno di Pergamo, era odiata e temuta da tutti i
Greci di Asia; e prima della fine dei 71 solo Amiso cadde440. Ma fu
una sera terribile, per Lucullo, quella in cui i suoi soldati,
impadronitisi con un assalto improvviso della città, si
sparsero muniti di fiaccole per le vie a massacrare e a rubare, e
per la fretta appiccarono il fuoco a molte case. Lucullo, spirito
generoso e raffinato dalla cultura, guerriero ammiratore
dell’ellenismo, quando vide Amiso, la bella creatura di Atene,
l’Atene del Ponto, prender fuoco, si gettò come un forsennato
tra i soldati; tentò di fermarli, ricondurli alla ragione,
riordinarli, far loro spegnere il fuoco, e impedire tanta violenza
barbarica contro una opera così insigne di quella
civiltà che egli adorava. Ma era troppo: il soldato, da lungo
tempo malcontento del suo generale, perdè la pazienza: anche
quando esso stava per ricompensarsi alla fine delle lunghe fatiche,
a modo suo, bestialmente, sopra una città ricca, questo
fastidioso generale trovava modo di molestarlo con assurde preghiere
! Lucullo, per poco non fu fatto a pezzi dalla soldatesca
imbestialita; e dovè ritrarsi, lasciar piangendo la ferocia
soldatesca prorompere sulla bella figlia di Atene: terribile simbolo
di quella età in cui, mentre le più alte
facoltà dello spirito si raffinavano nel desiderio e nel
godimento dei beni più eletti della vita, gli istinti animali
si esaltavano nella lotta dell’uomo contro l’uomo, per la conquista
della ricchezza e del potere. Il generale filelleno non potè
che liberare in seguito i sopravvissuti alla strage e darsi cura di
far risorgere la città dalle ceneri441.
IX.
IL NUOVO PARTITO POPOLARE.
Non meno di Crasso, Pompeo, il quale nella seconda metà del
71 ritornava con l’esercito dalla Spagna, era un favorito della
fortuna: a 36 anni, senza esser nemmeno senatore e senza aver
esercitata nessuna carica, aveva, per un seguito di eventi felici,
già ricevuto il titolo di imperatore, comandato e vinto
guerre con autorità di proconsole, trionfato e acquistata con
le vittorie di Spagna una grande popolarità nel medio ceto,
che aveva dimenticato per quelle la sua partecipazione alle
carneficine di Silla442. Nessuna delle leggi che obbligavano tutti i
cittadini nella repubblica, pareva valere per lui. Ma una fortuna
straordinaria, toccata in principio a un uomo non interamente
indegno di averla, costituisce spesso un impegno d’orgoglio che
può diventar mortale, per tutta la vita; onde non è a
meravigliarsi se Pompeo tornasse a Roma deliberato a concorrere di
primo acchito alla massima tra tutte le magistrature, il consolato,
sebbene non fosse stato nemmeno questore, sebbene non avesse
nè conoscenza nè pratica della costituzione e del
cerimoniale politico, e già fosse segno di tante invidie per
la sua fortuna senza pari. Dopo aver comandato eserciti come
proconsole, Pompeo non poteva acconciarsi a ricominciare, come
questore edile, il curricolo delle magistrature. D’altra parte egli
tornava a Roma, sdegnato contro il suo partito per la voglia
mostrata, rifiutandogli i mezzi e i denari, che egli fallisse nella
impresa di Spagna, e per l’invidia di cui tanti lo perseguitavano;
esaltato dal crescente favore popolare a speranze di grandezze
ancora maggiori; consapevole del mutamento avvenuto nello spirito
pubblico; e già quasi risoluto per questi motivi,
poichè il suo partito gli diventava nemico, a voltarsi alle
idee e ai sentimenti democratici che si divulgavano nel medio ceto,
nelle classi colte, nella parte più spregiudicata e libera
della nobiltà. Tuttavia egli potè essere eletto
console facilmente, non ostante l’odio dei grandi, per una singolare
e strana fortuna: e cioè perchè Crasso, il cui vecchio
rancore era stato esasperato dall’intervento di Pompeo nella guerra
contro gli schiavi443, volle essere console anche lui, quando seppe
della candidatura di Pompeo. Queste candidature erano così
irregolari, che i due generali capirono esser necessario di unirsi,
sebbene si detestassero a vicenda: Pompeo per vincere, con l’aiuto
di Crasso così potente in Senato, la opposizione dei
senatori; Crasso, molto meno popolare di Pompeo, per esser
raccomandato da lui al popolo444. Ambedue, con il pretesto di
aspettare il trionfo, tennero in armi l’esercito proprio sotto Roma;
il Senato intimorito da questi eserciti cedè, ammettendo le
due candidature; Pompeo promise ai tribuni della plebe di restaurare
la potestà tribunizia; Crasso lavorò per suo conto; ed
ambedue furono eletti. Pompeo pregò allora il suo amico Marco
Terenzio Varrone di comporgli un memoriale sui doveri del console,
di cui egli non sapeva nulla445.
Le promesse di Pompeo e la popolarità di cui già
godeva nel medio ceto incoraggiavano il partito democratico a
sperare qualche mutamento considerevole da questo consolato, ed,
erano invece cagione di molta inquietudine alla consorteria. Ma nei
mesi che corsero tra l’elezione (che si faceva in luglio) e la fine
dell’anno (i consoli entravano in carica al 1° gennaio), le
speranze dei popolari furono continuamente turbate dal malanimo che
durava tra i due consoli designati, non ostante la loro coalizione
elettorale. Pompeo diffidava di Crasso e in lui, così ricco e
potente, temeva il più forte campione della consorteria
sillana, onde rimandava con tutti i pretesti il trionfo, per non
congedare l’esercito; Crasso a sua volta, che diffidava di Pompeo e
avrebbe voluto nuocergli, ma che temeva di rischiar troppo, non
sapeva se dovesse seguir Pompeo nei suoi democratici mutamenti o
opporglisi e dichiarava, anche dopo essere entrato in Roma
celebrando una ovatio, che non avrebbe sciolto l’esercito se non
dopo Pompeo, Pompeo per risposta si dichiarava sempre più
apertamente per la democrazia; e quando il tribuno della plebe Marco
Lollio Palicano, tra la fine di novembre e il principio di dicembre,
gli condusse fuori delle mura, in mezzo all’esercito con cui egli
aspettava il trionfo, una gran moltitudine a udire il suo programma
consolare446, Pompeo pronunciò un ardito discorso di
intonazione popolare: disse che bisognava por fine agli
intollerabili abusi della giustizia e dei governi provinciali; fece
capire di voler restaurata nella sua pienezza antica la
potestà tribunizia. Il successo fu immenso; ma Crasso, che
non aveva idee politiche e badava solo al suo vantaggio, esitava
ancora; e questa infausta discordia dei due consoli poteva render
vani così eccellenti propositi: amici comuni si interposero,
promossero dimostrazioni popolari chiedenti a Crasso e a Pompeo di
conciliarsi; sinchè, quando Pompeo l’ultimo giorno di
Dicembre ebbe celebrato il trionfo e preso possesso il primo Gennaio
della carica, Crasso fu vinto dal gran movimento popolare in favore
delle idee di Pompeo, e primo si dichiarò pronto alla
conciliazione. La conciliazione fu suggellata, pubblicamente, a
quanto pare nei primi giorni del consolato; gli eserciti riceverono
subito congedo447; e ben presto, fra la letizia del grano che Crasso
profondeva al popolo e delle feste sontuose che Pompeo preparava, la
costituzione di Silla, questa gran macchina di guerra della
reazione, fu rovesciata a terra e disfatta, tra il giubilo di tutta
l’Italia. Pompeo propose che fossero restituiti ai tribuni i poteri
tolti da Silla, e specialmente quello di proporre leggi senza la
approvazione precedente del Senato: siccome però abbisognava
che il Senato approvasse questa ultima proposta, Cesare fu lieto di
mettersi all’opera come il campione più alacre della nuova
democrazia legalitaria e il più efficace strumento di
Pompeo448; molte concioni popolari furono tenute; Crasso mosse
abilmente tutte le influenze di cui disponeva in Senato; una grande
agitazione incominciò, intesa a smuovere la maggioranza del
Senato, in mezzo alla quale tutti coloro che da un pezzo erano
scontenti della consorteria dominante presero coraggio a
combatterla, e l’odio contro i governatori ladri e i senatori
venderecci divampò nella moltitudine media in cui tanti,
potendo, avrebbero rubato egualmente, ma che appunto per questo
odiavano tanto più ferocemente coloro i quali potevano
malfare. Poco prima, a quanto pare, che l’agitazione incominciasse
erano venuti a Roma gli ambasciatori di molte città della
Sicilia, per intentare un processo contro Caio Verre, un transfuga
del partito popolare che, come Cetego, aveva saputo saltare a tempo
dalla nave in procinto di affondare; e diventato uno dei peggiori
manigoldi del partito reazionario, era stato eletto pretore per
l’anno 74 e mandato poi come propretore a governare la Sicilia,
dove, per la compiacenza dei suoi amici di Roma, era purtroppo
riuscito a restare tre anni invece di uno: tre lunghissimi anni di
passione per la sventurata isola di Proserpina e di Polifemo.
Attorniato da una corte di avventurieri, di etère, di
liberti, egli aveva sfogato sull’isola la crudeltà
capricciosa e la cupidigia sfrenata di un despota orientale; rubando
e saccheggiando senza misericordia, prendendo nei templi e nelle
case private le più belle opere d’arte di cui era fanatico
collezionista, commettendo innumerevoli abusi non solo contro i
Siciliani, ma anche contro i cittadini romani449. Queste
malversazioni erano note da un pezzo a Roma dove si diceva perfino
che Verre avesse rovinata con le sue rapine la agricoltura del
maggior granaio di Roma; e la mormorazione era divenuta così
grande negli ultimi tempi, che il suo successore Lucio Metello,
sebbene arciconservatore, era andato in Sicilia con l’onesto
proposito di riparare ai mali del suo predecessore450. Incoraggiate
da queste disposizioni, le città siciliane avevano mandata
una deputazione a Roma per tentare una accusa e si erano rivolte a
un giovane avvocato, nato da un’agiata e colta famiglia
dell’Arpinate, che era stato nel 75 questore in Sicilia e che veniva
procurandosi fama nelle cause più diverse con una eloquenza
di un artificio e di una veemenza ignota prima di lui: Marco Tullio
Cicerone. Pompeo e i capi del nuovo movimento democratico capirono
subito che un gran processo di concussione avrebbe fomentata
magnificamente la agitazione contro la consorteria dominante;
Cicerone che aveva allora come Pompeo 36 anni, che da un pezzo
spiava l’occasione di conquistare, in un gran processo il primato
dell’eloquenza, e che intendeva proporsi edile per l’anno seguente,
accettò con entusiasmo; nel mese di gennaio stesso, a quanto
pare, riuscì a far escludere dal pretore Manio Acilio
Glabrione una accusa analoga alla sua portata contro Verre da un suo
antico questore, Quinto Cecilio, non si sa se sul serio o d’accordo
con Verre; e fattosi assegnare un termine di 110 giorni per
raccogliere le prove, parti subito per la Sicilia451.
Intanto la consorteria sillana, indebolita da tanti scandali, non
aveva potuto resistere all’assalto di Pompeo. Quando la proposta
sulla potestà tribunizia venne in discussione in Senato, solo
pochi osarono di opporsi: Catulo, il quale riconobbe però che
la proposta di Pompeo poteva sembrar giustificata dalla ignominiosa
corruttela dei tribunali senatorii452; Marco Lepido, Marco
Lucullo453; ma la maggioranza approvò454: prova capitale che
le idee e i sentimenti di opposizione contro il governo
aristocratico erano ormai diffusi, dopo dieci anni di scandali e di
lotte politiche, in tutte le classi e anche in una parte della
nobiltà: la migliore e la peggiore; la più giovine,
energica e intelligente; la più spregiudicata, ambiziosa e
corrotta. Allora, come sempre quando una società
aristocratica e agricola si è quasi interamente convertita in
una società mercantile e plutocratica, non restava
dell’aristocrazia di Roma che un certo numero di famiglie illustri e
antiche, quasi tutte povere455, le quali, per mantenersi nelle
classi alte, ormai formate dagli uomini più abili, arditi e
fortunati nella gara universale per la ricchezza, la cultura e il
potere, facevano il grosso commercio, speculavano, studiavano,
cercavano di arricchire con le magistrature, come gli uomini nuovi
della borghesia. Alcuni – è vero – specialmente i ricchi,
conservavano ancora le idee e i sentimenti che sopravvivono in tutte
le aristocrazie alla propria rovina politica, e che la reazione di
Silla aveva ravvivate: l’odio contro le classi nuove, il disprezzo
del presente come volgare e corrotto, la superstizione del principio
di autorità e quindi l’orrore di ogni disordine politico, non
importa se pazzesco, criminoso, o se necessario al progresso.
Costoro non potevano tollerare che il figlio del villano di Velletri
arricchito con le usure a milioni gareggiasse con loro di ricchezza,
che il figlio del borghese di Arpino ambisse spartirsi con loro le
magistrature, che una turba di oscuri avvocati e di tribuni ignobili
assalisse di accuse, che i calzolai, gli artigiani, i piccoli
venditori al minuto, i liberti cosmopoliti fischiassero nel
fôro o non eleggessero quei patrizi che il popolo del buon
tempo antico venerava come semidei; che insomma non si rispettasse
più nulla, nè la saggezza, nè il casato,
nè il censo. Ma molti altri nobili invece, per ambizione, per
interesse, per convinzione filosofica, per necessità,
intendendo cioè che era inutile opporsi, riconoscevano e
talora anche si compiacevano che fosse ormai instaurata la
democrazia: un regime sociale in cui la intelligenza e la ricchezza
contavano più che la discendenza; e si disponevano a agire, a
sentire, a pensare come era necessario, per vivere meglio che
potessero nel tempo proprio, senza rammaricare un passato ormai
passato.
Dopo il primo successo, gli assalti contro la consorteria già
potentissima furono tentati da tutte le parti. Il tribuno Plozio,
aiutato da Cesare, fece approvare una amnistia per tutti i
superstiti delle guerre civili, compresa quelle di Lepido e di
Sertorio456; la censura, sospesa da 17 anni, fu ristabilita, i
censori Lucio Gellio e Gneo Lentulo, indetto il censo in aprile o in
maggio, ripulirono con soddisfazione universale il Senato di molti
amici di Silla, scacciando tra gli altri quel Caio Antonio Ibrida
che Cesare aveva accusato con così poca fortuna nel 77; il
pretore Lucio Aurelio Cotta, uno dei tanti nobili di sentimenti
liberali, propose di ridare il potere giudiziario ai cavalieri, che
essendo quasi tutti ricchi non si sarebbero più fatti
corrompere457. Ma questa proposta non potè essere approvata
così facilmente come le altre, non ostante la energica
propaganda di Cotta; e intorno allo stesso tempo Cicerone, sbarcando
in Sicilia, trovava il governatore Lucio Metello cambiato come dal
giorno alla notte; diventato amico zelante di Verre; e infaticabile,
invece che nel riparare i guasti lasciati da costui,
nell’intralciare e sviare con tutti i mezzi la inchiesta458. Che
cosa era avvenuto? Nella consorteria dominante quelli che, per il
loro passato o per il loro temperamento, non volevano o non potevano
riconciliarsi con il partito popolare, e che dalla vittoria di
questo sarebbero stati privati di ogni potere, avevano, passato lo
sbalordimento delle prime disfatte, incominciato a resistere. I
buoni propositi e la bella morale di tutti i partiti e di tutte le
classi valgono solo sinchè con quelli si può
conservare il potere; onde il partito conservatore, in cui pure
molti riconoscevano da un pezzo esser necessario ravvedersi, far
giustizia e reprimere gli abusi, non esitò, nello spavento di
perdere il potere, a buttar via tutti i propositi di emenda; e non
solo a cercare di far cadere la legge giudiziaria; ma a tentare il
“salvataggio” di Verre, il cui processo e la cui condanna dovevano
svergognare e screditare tutto il partito. Per l’anno prossimo
intendevano proporsi candidati parecchi conservatori cospicui, a
consoli Quinto Ortensio, il celebre avvocato, e Quinto Metello; a
pretore, Marco Metello, fratello di Quinto e di Lucio, governatore
della Sicilia. Ben presto questi candidati e altri uomini
considerevoli dell’aristocrazia come Caio Scribonio Curione si
intesero con Verre; costui accettò di lavorare per loro con
tutte le forze nelle elezioni; Ortensio ne assunse la difesa; Quinto
e Marco Metello scrissero al fratello Lucio affinchè
disperdesse quante più prove poteva dei misfatti di Verre: se
essi riuscivano eletti, se la legge di Cotta non passava, si sarebbe
cercato di rinviare il processo sino all’anno prossimo, quando
sarebbe stato discusso davanti a un tribunale di senatori,
presieduto forse da Marco Metello, e con la difesa di un console459.
Tuttavia Cicerone potè fare, non ostante gli imbrogli di
Metello, la sua inchiesta e tornare per il tempo fissato, con un
carico di documenti e un lungo seguito di testimoni, verso la fine
di Aprile460: ma non potè subito discutere il suo processo,
dovendo aspettare che prima finisse un’altra causa contro un
governatore della Macedonia, forse intentata e certo tirata in lungo
ad arte, solo per giovare a Verre. Tuttavia questo ritardo sarebbe
stato più di vantaggio che nocivo a Cicerone, il quale doveva
prepararsi per luglio alle elezioni di edile, se il nuovo partito
popolare non fosse stato minacciato da una crisi precoce, pochi mesi
dopo la sua prima vittoria. Crasso e Pompeo, dopo una breve pace,
avevano ricominciato a litigare. Pur troppo gli storici antichi non
ci dicon quasi nulla sui motivi e le occasioni di questa discordia,
che fu poi cagione di tanti eventi; ma è probabile che essa
nascesse dalle ambizioni di Pompeo e dal temperamento dei due
consoli; dei quali Pompeo era orgoglioso, petulante, sicuro di
sè e forse già allora pensava di esser mandato a
sostituir Lucullo nella grande guerra d’Oriente461; invece Crasso
era diffidente come un vero banchiere, ostinato e geloso; temeva
continuamente di essere “giuocato” dal fortunato collega, servendo
troppo ai suoi piani; e sapendo di non potere ottenere un onore
equivalente a quello ambito da Pompeo, si compiaceva malignamente di
rovinargli, con una guerra ostinata, il desiderio di essere mandato
in Oriente; onde ben presto, irritati come donnicciuole da una
stizza puntigliosa, i due consoli non poterono a meno di contradirsi
e litigare in ogni questione462. Comunque sia, questa discordia era
funestissima al partito popolare, che dopo così lunga
persecuzione non aveva più organizzazione nè di uomini
nè di interessi da opporre alla consorteria sillana
così potente ancora, non ostante le disfatte recenti, per
clientele, per uomini, e per denaro; onde, se i due nuovi capi non
provvedevano d’accordo a continuare la conquista del potere
già incominciata, esso avrebbe perduto presto il poco
acquistato. Infatti Cotta era lasciato solo a perorare per la sua
legge; e nelle elezioni del 69 il partito popolare pare non
proponesse uomini propri: cosicchè tutti i candidati della
consorteria, Ortensio, Quinto e Marco Metello furono eletti. Verre
esultò; anzi d’accordo con i suoi protettori concepì,
nell’allegrezza di quella vittoria, un disegno ardito; fare
intimidire, da Ortensio e da Metello, gli ambasciatori siciliani,
per indurli a desistere dall’accusa; e far cadere a furia di denaro
e di intrighi Cicerone nella elezione degli edili: la sconfitta di
Cicerone avrebbe scoraggiati definitivamente i Siciliani, già
turbati dall’esito delle elezioni consolari; e tutto sarebbe finito
in pochi giorni463. Ma Cicerone, che frattanto aveva studiata
profondamente la causa, vagliando ordinando e classificando le
prove, fu eletto; e i Siciliani non si lasciarono spaventare.
A ogni modo la condizione di Verre, dopo le elezioni, era
così buona, che Pompeo, i principali uomini del partito
popolare e l’opinione pubblica furono scossi un poco dal loro
torpore. La legge di Cotta fu abilmente attenuata, disponendo che i
giudici sarebbero scelti non tra i soli cavalieri, ma tra i
senatori, i cavalieri e la parte più agiata del ceto plebeo;
e fu facilmente fatta approvare464; gli animi si accesero di sdegno
anticipato per la assoluzione di Verre, se fosse avvenuta; non si
parlò più in Roma e in Italia che dell’imminente
processo, ma come di uno spettacolo di gladiatori, nel quale, sotto
gli occhi di un pubblico avido di commozioni e appassionato, i due
partiti si sarebbero contesa la condanna di Verre, un giovane e
promettente avvocato avrebbe affrontato il principe degli oratori
romani, e tutte le difese e offese forensi sarebbero state adoperate
maestrevolmente ed implacabilmente dalle due parti. Le dicerie e le
previsioni si incrociavano; chi sapeva che si tentasse di corrompere
i giudici sorteggiati; chi parlava di prove schiaccianti trovate in
Sicilia e tenute in serbo per dare il colpo di grazia; chi
scetticamente affermava che questo, come tanti altri sorci,
fuggirebbe dalla trappola senza lasciarci nemmeno la coda; il duello
oratorio tra Cicerone e Ortensio era speciale oggetto di grande
aspettazione, tra i molti dilettanti di eloquenza. Cicerone,
dicevano gravemente coloro che presumevano intendersi di queste
materie, era una speranza del fôro, un giovane studiosissimo e
abile; ma gli mancava l’esperienza del suo formidabile
avversario.... Intanto le parti si preparavano. Cicerone, la cui
immaginazione, eccitata dalla aspettazione universale e dalla
grandezza decisiva del cimento, era entrata in uno stato di
straordinaria lucidezza, capì che era inutile giocar di
astuzia con avversari così abili e potenti; che bisognava far
colpo sul pubblico, sorprendendolo con un seguito di rivelazioni
straordinarie; e perciò si studiava di raggruppare le
testimonianze nel modo più acconcio per stampare una
impressione profondissima nello spirito della folla, e di preparare
per ogni gruppo un breve ma efficace discorso suo di introduzione e
delucidazione465. Verre, invece, e i suoi amici, incoraggiati dal
successo delle elezioni, cercavano di circuire e placare i
testimoni, si facevano mandare dalle città di Sicilia decreti
onorifici per Verre, studiavano un piano di difesa tutto irto di
finissime astuzie, per impedire all’accusa gli assalti: intanto
tirare in lungo sino al 16 agosto, giorno in cui si sospenderebbero
per 15 giorni le udienze per celebrare i giuochi promessi da Pompeo
sin dai tempi della guerra contro Sertorio; poi continuare la stessa
manovra sino a rimandare all’anno nuovo il processo. Si sperava di
riuscire, perchè frequenti sospensioni di tribunale
avvenivano nei rimanenti mesi: tra il 4 e il 19 settembre per i Ludi
Romani; tra il 26 ottobre e il 4 novembre per i giuochi della
Vittoria; tra il 4 e il 17 novembre per i Ludi plebei466.
La mattina del 5 agosto467, quando il processo incominciò,
una folla immensa si pigiava nel fôro, intorno ai banchi
disposti per i giudici, i testimoni, le parti. Verre arrivò
con Ortensio, accompagnato da molti grandi personaggi, con
portamento sicuro e piglio audace; pieno di fiducia nelle astuzie
lungamente pensate con il suo avvocato468. Ma Cicerone aveva intuito
assai meglio che Ortensio la condizione dello spirito pubblico.... A
mano a mano che i documenti e le testimonianze abilmente disposte da
Cicerone furono conosciuti dal pubblico; a mano a mano che la
passione della Sicilia era raccontata nel fôro con
l’esagerazione naturale in testimoni esacerbati per averla sofferta,
tutte le collere accumulate da dieci anni nel pubblico contro la
consorteria sillana proruppero irrefrenate: a certe testimonianze
patetiche il pubblico quasi pianse, ad altre mormorò
indignato, ad altre schiamazzò di rabbia; alla fine di ogni
udienza le rivelazioni del processo si spandevano in un baleno per
tutta Roma, raccontate, deformate, esagerate di bocca in bocca,
muovendo tutte le anime, in tutte le classi, a sdegno; e il giorno
dopo una folla maggiore gremiva il fôro, tentando di udire i
terribili racconti, gridando e sdegnandosi anche quando senza udire
vedeva i più vicini al tribunale gridare e sdegnarsi. Un
giorno anzi, quando un testimonio narrò come Verre avesse
crocifìsso un cittadino romano che aveva gridato invano civis
romanus sum, la folla si era mossa, furibonda; e se il pretore non
avesse subito sospesa l’udienza, Verre sarebbe stato fatto a pezzi,
quel giorno, sul fôro. Non un partito, ma l’Italia, che pure
mandava per tante regioni eserciti a devastare e a catturare uomini,
che spogliava con le usure tanta parte dell’universo, si indignava
ora sul fôro di Roma per le piccole crudeltà di un
omiciattolo, impazzito per soverchia potenza; e con un furore
così violento, che Verre e i suoi amici, sorpresi e
sopraffatti, furono ben presto disanimati, perderono la sicurezza,
l’alterigia, la fiducia nei loro intrighi; sentirono a un certo
momento che irritare ancor più questa forza cieca, sarebbe
terribile469. Sospeso il giorno 14 il processo, Verre, per salvare
una parte della fortuna, se ne andò spontaneamente in esilio;
e sparve per sempre, per la via solitaria ed oscura dell’oblio
universale, mentre Cicerone, diventato ormai un personaggio primario
di Roma, si slanciava nella lunga e soleggiata via della gloria.
Nè l’uno nè l’altro pensavano, nel volgersi le spalle
verso destini così diversi, che l’una e l’altra via li
avrebbero portati a incontrarsi ancora un istante, dopo ventisette
anni, sull’orlo del medesimo abisso.
Mentre queste cose avvenivano in Italia, Lucullo era andato a passar
l’inverno del 71-70 nella provincia di Asia di cui era stato
nominato governatore, e vi era stato indignato e spaventato dalle
angherie con cui i finanzieri italiani tribolavano le popolazioni,
dalla brutalità cieca con cui rompevano i rami per cogliere
più presto i frutti. Lucullo, che era cresciuto in una
famiglia aristocratica e povera, in un tempo in cui l’odio contro i
villani rifatti e la borghesia capitalista era intenso e diffuso in
tutta la nobiltà romana, non amava molto, nemmeno allora, gli
uomini di finanza; e spirito retto e pronto, aveva cercato con
l’impeto e l’energia consuete di frenare in vari modi e con diversi
provvedimenti la cupidigia dei pubblicani, senza considerare quali
potenti nemici irritava con questa politica umana470. Egli si
sentiva così forte, così grande, così sicuro di
sè; e volgeva nella mente esaltata un disegno così
vasto: invadere e conquistare addirittura tutto il regno di Tigrane,
re d’Armenia e genero di Mitridate, presso il quale Mitridate aveva
cercato rifugio! Grazie prima alla indifferenza della politica
romana durante la crisi italica, poi alla fretta di conquistar la
Bitinia e alla lunga guerra con Mitridate, Tigrane aveva potuto, nei
quindici anni precedenti, con le conquiste, con le alleanze, con le
dedizioni in vassallaggio, dilatare l’impero suo verso tutti i punti
dell’orizzonte: a nord, sino al Caucaso, riducendo a vassalle le
semibarbare popolazioni degli Albani e degli Iberi; a sud, ad est,
ad ovest, conquistando quasi tutto l’impero dei Seleucidi, la
Cilicia pianigiana, la Siria, la Fenicia; togliendo ai Parti molte
provincie e molti vassalli, come i satrapi della Grande Media, della
Media Atropatene, del Gordiene471. Già la piccola e feroce
aquila romana sbatteva furiosamente le ali, dal Ponto, per piombare
sull’immenso e sonnolento pachiderma.... Ma Lucullo, prima di
invader l’Armenia, e per non lasciarsi nemici alle spalle, aveva
voluto conquistar definitivamente il Ponto; e mentre mandava suo
cognato Appio Claudio a Tigrane a domandargli la consegna di
Mitridate472, per avere nel sicuro rifiuto il pretesto della guerra,
egli si era volto nella primavera del 70 a finire l’assedio di
Sinope e di Amasia, che nell’autunno si arresero e alle quali questa
volta Lucullo potè risparmiare parte almeno delle
brutalità soldatesche, sebbene anche in queste città
molti degli abitanti fossero presi e catturati473. Più
sfortunata era stata, nella primavera, Eraclea, intorno alla quale
si era affaticato per terra lo stupido e feroce Cotta, per mare il
valente e ferocissimo Triario; i quali, dopo averla presa e dopo
aver rubato senza misericordia nelle case e nei templi la
suppellettile preziosa, i depositi di denaro, l’oro e l’argento,
avevan massacrata o ridotta schiava tutta la popolazione, e levata
dalla piazza anche la stupenda statua di Heracles, celebre su tutte
le coste del Mar Nero, per la clava meravigliosamente lavorata a
martello, per la pelle di leone, il turcasso, gli strali che erano
tutti di oro massiccio. Poi avevan dato fuoco alle città; e
mentre il fumo saliva al cielo, le navi romane avevano abbandonato
il porto, così colme e gravi di preda, che parecchie
affondarono nel viaggio474.
Intanto era giunta la risposta di Tigrane. Egli rifiutava di
consegnar Mitridate, per orgoglio, non per affetto, giacchè,
indotto a quanto pare da consiglieri che temevano in Mitridate un
rivale, egli non aveva voluto riceverlo e lo aveva quasi relegato
nella lontana residenza di un suo castello. Non mancava più
il pretesto alla invasione, che sarebbe cominciata nella primavera
del 69.
X.
LA CONQUISTA DELL’ARMENIA
E I DEBITI DELL’ITALIA.
A Roma intanto l’anno 70 era finito malamente, per il partito
popolare. Pompeo, che forse, avvezzo ai facili successi, aveva
creduto di poter ottenere senza fatica l’ambito comando in Oriente,
era stato talmente sorpreso, sconcertato ed esasperato degli
intrighi di Crasso, che per la prima volta aveva rinunciato al suo
disegno, e in un impeto di impazienza, per celare con un atto di
indifferenza altera la rabbia di non esser riuscito, aveva
dichiarato di ritornare, dopo il consolato, a vita privata475, e
mantenne la promessa, restando a Roma, ma sdegnatissimo. Crasso era
tornato ai suoi affari, rinunciando ad avere una delle solite
provincie che gli avrebbe reso assai meno che le sue speculazioni,
ma contento di aver costretto Pompeo a restare in Roma. I
conservatori, lietissimi dell’insuccesso di Pompeo, avevano di nuovo
occupate quasi tutte le magistrature. Del resto l’impero, dopo la
sconfitta di Mitridate, era tranquillo; nè per il momento era
in vista altra impresa che la guerra contro i pirati di Creta, i
quali, dopo la sconfitta di M. Antonio, avevano mandato inutilmente
ambasciatori a Roma a cercar pace476.
Solo Lucullo non riposava; anzi incominciava nella primavera del 69
una delle più temerarie campagne, invadendo, senza
autorizzazione del Senato, con due legioni e qualche corpo di
ausiliari asiatici, galati e traci, in tutto nemmeno 20 000
uomini477, l’Armenia: vasto paese su cui non possedeva che vaghe
notizie, e dove Mitridate e Tigrane, ora tornati in amicizia in
seguito alle intimazioni di Lucullo, gli preparavano contro un
grosso esercito. Rapidamente, senza fermarsi mai se non la notte,
senza concedere a sè o all’esercito nessun riposo, per la
grande via delle carovane che tagliava la Melitene, egli scese sino
all’Eufrate; lo varcò, marciò su Tigranocerta, e
ributtò con tanto impeto l’esercito del generale
Mitrobarzane, che Tigrane spaventato si ritrasse precipitosamente al
nord dell’Armenia, abbandonando in Tigranocerta i suoi tesori e il
suo harem a un generale478. Lucullo pose l’assedio a Tigranocerta;
ma ben presto Tigrane, che aveva un esercito di 80 000
uomini479, si riebbe dallo spavento, come Lucullo aveva
preveduto480, e preso da un accesso di impazienza violenta, mosse al
soccorso della città, senza aspettare Mitridate che era in
viaggio con forti corpi di cavalleria. Lucullo ripetè allora
la manovra di tutti gli abili generali che assediano una
città contro gli eserciti di liberazione che si avvicinano:
lasciati 6000 soldati sotto il comando di Murena nelle trincee481,
andò incontro all’esercito liberatore con circa 14 000
tra fanti e cavalli. Quando i due eserciti giunsero l’uno a vista
dell’altro sulle due sponde del Tigri, Tigrane e lo stato maggiore
dell’esercito armeno, tolto qualche generale che conosceva meglio i
romani, pensavano, per la fatua confidenza in tutte le apparenze
della forza così frequente nei soldati di professione, che i
romani si sarebbero ritirati davanti a un esercito cinque volte
più numeroso. Ma Lucullo, il cui impeto audace e veloce,
esaltato dalle vittorie, nulla poteva più trattenere, non
esitò; e una mattina guadato il Tigri lanciò il suo
piccolo esercito contro gli Armeni come una muta di mastini in una
immensa torma di pecore; ne fece un massacro, li disperse, volse in
fuga il re, che si salvò, seguito solo da 150 cavalieri; poi
tornò all’assedio di Tigranocerta, che prese dopo poco. E
allora nella gioia di tanto successo, gli istinti generosi del suo
carattere, di solito repressi dalla fretta di fare, dalla
irritabilità nervosa, dall’impazienza, dalla estrema tensione
dello spirito verso i fini della sua immensa ambizione, proruppero:
egli ordinò che le donne e le proprietà dei Greci
fossero rispettate; rimandò gli abitanti di città
greche e i barbari, che Tigrane aveva deportato a forza per popolare
la città, alla patria loro; abbandonò il resto della
città al saccheggio; e con gli 8000 talenti (circa 48
milioni) trovati nel tesoro reale; con gli altri 16 milioni,
ricavati dalla vendita degli oggetti confiscati, provvide questa
volta non soltanto a sè e all’erario di Roma, ma anche ai
soldati, ognuno dei quali ricevè la lieta sorpresa di un dono
di 800 dramme482. Gli antichi vassalli di Tigrane, trattati
gentilmente da Lucullo, si arresero; Antioco l’asiatico, fu
riconosciuto re di Siria; l’esercito fu condotto a svernare nella
ricca regione della Gordiene; mentre Lucullo che ormai era signore
delle provincie di Tigrane a sud del Tigri si sentiva tentato
dall’idea di una impresa ancora più meravigliosa per l’anno
prossimo: ripetere l’avventura di Alessandro Magno, invadere la
Persia, conquistare l’impero dei Parti al cui re aveva mandato un
ambasciatore per distoglierlo dall’alleanza con Tigrane.
Lo stizzoso senatore, che a Roma, tra le meschine querele di una
aristocrazia in dissoluzione, aveva ottenuto a fatica il comando di
una piccola provincia montuosa per gli intrighi di una bella
cortigiana, e che era apparso in Asia alla testa di un minuscolo
esercito (supremo sforzo, molti pensarono in Asia, di uno Stato
morente), era ormai in Asia, dopo sei anni, con le sue poche
legioni, l’emulo di Alessandro il Grande: sempre in cammino, dopo un
successo, per una nuova impresa più lontana; e così
veloce, così audace, così intrepido attraverso piani e
montagne, contro eserciti sterminati e fortezze inespugnabili, come
se non avesse bisogno di riposo e mai non potesse veder l’ultimo
termine delle proprie ambizioni; sicuro di sè, indipendente
ormai dalla autorità del Senato, senza esitazione nelle
risoluzioni e nelle opere; non soltanto cupido di ricchezze e di
gloria, ma avido di soddisfar la sua ardente ammirazione per la
civiltà ellenica con la generosità verso i vinti....
Quando le superstiziose popolazioni dell’Oriente lo adoravano quasi
come una apparizione divina, non avrebbe l’Italia dovuto ammirarlo
come il primo eroe del nuovo imperialismo? Ma se Lucullo era il
primo di un certo numero di uomini superiori della sua generazione,
i quali sforzando le proprie energie ed abusandone sino alla estrema
misura dovevano restare nella storia tra i più splendidi
campioni della grandezza umana, lo stesso demone che agitava lui,
agitava in misura minore tutta Italia e la tribolava con i dolori
acutissimi di una crisi di sviluppo. L’oro e l’argento affluivano
con abbondanza in Italia, dove agli immensi tesori già
accumulati dalle generazioni precedenti si aggiungevano tesori
nuovi, acquistati per la forza delle armi o del denaro già
posseduto: i capitali che Marco Lucullo aveva portati dal saccheggio
dei villaggi traci e delle città greche del Mar Nero; quelli
che mandava dall’Asia suo fratello Lucio; gli interessi dei capitali
prestati a usura o impiegati nelle varie parti dell’impero in campi,
tenute, case; il bottino personale portato dai soldati o dagli
ufficiali ritornanti dalle guerre; i tributi pagati allo Stato. Lo
Stato romano aveva allora un bilancio annuo di 50 milioni di
dramme483, che, supponendo tra il valore dell’oro e dell’argento il
rapporto di 1 a 15 e mezzo che esisteva in Europa prima degli ultimi
rinvili del metallo bianco, corrisponderebbero a una somma tra 38 e
39 milioni di franchi, dei quali la maggior parte proveniva dalle
provincie484. Ma assai più rapidamente cresceva il bisogno di
denaro: denaro, e in quantità sempre maggiori, occorreva per
comprare in ogni parte dell’impero il grano necessario a nutrire
Roma; denaro, per preparare le guerre, per pagare e mantenere tanti
eserciti in Spagna, in Macedonia, nella Gallia narbonese; denaro per
prestare ai privati, alle città, ai sovrani stranieri
bisognosi di capitali; denaro per soddisfare i bisogni del consumo
rapidamente e universalmente crescente; denaro occorreva sopratutto
per soddisfare il furore contagioso di speculazioni, in cui
divampava ormai in Italia lo spirito mercantile e il desiderio di
accrescere i propri guadagni, naturale in tanto crescer del lusso.
In pochi anni quel movimento di affari incominciato dopo la
restaurazione dell’ordine era divenuto vertiginosamente rapido; e
ormai tutti, uomini e donne, nobili e plebei, ricchi capitalisti e
possidenti delle città minori, modesti mercanti, artigiani,
liberti, allucinati da quella febbre di speranze ardenti e fallaci,
senza la quale l’uomo non farebbe mai nulla, speculavano
sfrenatamente. La terra dell’Italia sopratutto era disputata,
venduta, ricomprata, tormentata senza tregua da una smania di rapide
speculazioni agrarie che, dopo mezzo secolo di lenti rimutamenti
nella proprietà, prorompeva e ferveva allora dalla
combinazione di tre grandi fatti: la legge di Spurio Torio che
convertendo in proprietà privata tanta parte del suolo aveva
accresciuta la materia del commercio delle terre; lo spirito
mercantile che si spandeva da un secolo e mezzo; la concessione
della cittadinanza che aveva comunicato a tutti gli Italiani il
vecchio diritto romano. Ormai tutti gli Italiani, con la sola
formalità della presenza di 7 cittadini romani, potevano, per
mezzo della mancipatio, comprare e vendere le terre dell’Italia
anche più lontane dal luogo del contratto, comprarle a
misura, come del grano, non cioè quel tal fondo, con quei
tali confini, ma genericamente tanti jugeri485 di terra in quella
regione; e molti compravano e vendevano rapidamente, come si fa ora
in Australia, speculando sulla differenza dei prezzi; molti
acquistavano schiavi che fossero abili agricoltori, piantavano
vigne, uliveti, alberi da frutta, per far concorrenza all’Oriente.
Ma siccome i più non possedevano capitali sufficienti e
l’introduzione recente della istituzione greca486 dell’ipoteca
agevolava il credito, l’abuso del credito diventò generale:
chi aveva già comprato un campo lo ipotecava per comprar gli
schiavi e piantar le vigne; chi possedeva un terreno in città
vi costruiva sopra la casa con denari presi a prestito ipotecando il
terreno; altri ipotecavano le loro terre in Italia, per riprestare
nelle provincie, in Asia o in Africa, a privati, a città, a
sovrani, il denaro preso a prestito, sperando maggiori guadagni487.
Pochi si spaventavano se il denaro, in tanta ricerca, era caro;
l’Italia era piena di possidenti che, contratto temerariamente un
primo debito per migliorare le coltivazioni, ne venivano facendo poi
altri per pagare gli interessi troppo alti, impigliandosi sempre
più invece di liquidare, per la speranza di rifarsi un
giorno488; Roma era piena di gente rovinata dal mal della pietra,
che aveva preso a prestito a troppo alti interessi per costruire, e
poi di debito in debito rischiava di perdere anche il capitale
proprio investito nel terreno o nella casa489; l’Italia era piena di
uomini politici, di possidenti, di giovani figli di famiglia che si
indebitavano perchè spendevano troppo, e che tiravano innanzi
aggiungendo debiti a debiti490.
Incominciava una crisi, in mezzo alla quale il movimento popolare di
politico si mutava in sociale, come avviene nelle democrazie, in cui
pochi sono ricchi e molti in debito e in disagio. Crasso attendeva,
tranquillo e soddisfatto, ai propri affari; Pompeo, invece di
continuare le riforme incominciate nel consolato, non pensava che
alla rivincita contro Crasso e i conservatori; e orgoglioso, poco
alacre, intollerante dei piccoli fastidi e dei piccoli obblighi
della vita, come sono spesso gli uomini guasti da soverchia fortuna,
si mostrava poco in pubblico, non scendeva quasi mai nel fôro
a difender cause, non ammetteva alla sua amicizia che pochi491;
Cesare si era dato alla vita elegante e galante, si sciupava nelle
dissolutezze e faceva molti debiti, mettendo forse a profitto le
amicizie della sua famiglia con l’alta borghesia capitalista; ma era
ancora troppo poco ricco, poco celebre e poco influente, sebbene le
sue prodigalità, la sua abilità di cavallerizzo,
l’eloquenza delle sue difese, la cordialità dei suoi modi,
gli avessero procurata grande popolarità nel popolino492.
Mancando capi energici al partito popolare, pullulavano dal medio
ceto italico e dalle famiglie oscure tribuni della plebe violenti, i
quali ben presto eccitarono con crescente acrimonia il rancore
latente nella moltitudine malcontenta per i debiti contro tutti
coloro che arricchivano, e specialmente contro i generali che nelle
guerre si facevano dei patrimoni; ripetendo che mentre in Italia
tanti versavano in angustie, pochi privilegiati si appropriavano
immense parti di quel bottino, che era beneficio comune e
proprietà dello Stato493; assalendo più fieramente
Lucullo che la plebe ammirava ma non amava, e che allora combatteva
la guerra più lucrosa di tutte. Se molti cittadini ricchi e
insigni, per testimoniargli la propria ammirazione – era questo un
costume che si andava diffondendo e che la frequenza del celibato
favoriva – gli lasciavano frequentemente morendo dei legati e delle
eredità494, la moltitudine si lasciava disporre a malevolenza
da voci fantastiche sui tesori che egli mandava in Italia;
commiserava persino i re di Armenia e dell’Oriente, che egli – si
diceva – derubava per conto suo invece di far la guerra, secondo gli
ordini del Senato; trovava che il suo comando in Oriente durava
ormai da troppo tempo495. Anzi dopo la battaglia di Tigranocerta,
egli fu accusato dalla voce pubblica di non aver inseguito Tigrane,
solo per trarre in lungo la guerra e rubare ancora496.
Lucullo, dal fondo dell’Asia, appena badava a queste mormorazioni
della moltitudine contro di lui; e forse poco danno ne avrebbe
ricevuto, senza altri nemici più potenti che la moltitudine
genericamente scontenta: i finanzieri, rabbiosi per le sue riforme
nell’amministrazione dell’Asia; Pompeo, impuntigliatosi a prender la
sua rivincita, andando in luogo di Lucullo in Oriente. La condizione
dello spirito pubblico e gli intrighi dei finanzieri costrinsero il
Senato, nel quale pure gli amici di Lucullo erano tanti, a far
qualche cosa; e il Senato forse per salvare il resto e deluder
Pompeo, contentando sul punto essenziale i finanzieri che erano gli
alleati più potenti di Pompeo, deliberò di togliere a
Lucullo per l’anno 68, il governo dell’Asia, ridandolo a un
propretore497. Era questa la ricompensa delle sue straordinarie
vittorie dell’anno precedente! Ma più grave segno fu di
lì a poco la rivolta delle legioni lasciate nel Ponto, le
quali, quando giunse al loro legato, Sornazio, l’ordine di
raggiungere Lucullo per invadere con lui nella primavera del 68 la
Persia e marciare su Ctesifonte, si rifiutarono di partire498. Era
questa una rivolta spontanea delle milizie stanche di tante
avventure? O l’effetto di qualche abile sobillazione mormorata da
Roma? Certo è che anche le milizie che Lucullo aveva sotto i
suoi ordini nella Gordiene mostrarono di non voler avventurarsi
nella Persia; e Lucullo, costretto a rinunciare al suo piano,
pensò di invadere nella primavera del 68 l’Armenia, senza
accorgersi che una rete invisibile di intrighi, la cui officina era
a Roma, nella casa di Pompeo, veniva ravvolgendo lui e l’esercito
suo.
XI.
LA DISGRAZIA DI LUCULLO.
In quell’anno stesso Quinto Metello andava come proconsole
all’impresa di Greta, e Cesare, eletto questore499, incominciava il
corso ufficiale degli onori, come un campione del nuovo partito
popolare; ma avendo intorno a sè, per l’ingegno, la
eloquenza, la gentilezza, il temperato ardire delle idee, un largo
consenso di simpatie in tutte le classi, anche nei conservatori non
fanatici. Del resto sebbene noi non sappiamo quali fossero allora le
sue idee politiche, possiamo, considerando nel tempo stesso la sua
condizione, la natura della sua mente e l’influsso del pensiero
greco sulle classi colte del tempo suo, supporre con verisimiglianza
che esse non fossero tali da alienargli molti degli spiriti
equanimi, in tutti i partiti. Quando gli Italiani cominciarono a
essere i discepoli dei Greci, due Elladi avevano già vissuto
una dopo l’altra: la classica Grecia di Sofocle, di Demostene, di
Fidia, di Platone, di Pericle e di Aristotele, con le molte
città indipendenti, con le piccole splendide e turbolente
democrazie, con le arti locali e popolari, le letterature
dialettali, le scuole private di filosofia enciclopedica; e la vasta
Ellade cosmopolita delle grandi monarchie burocratiche fondate da
Alessandro in Asia e in Africa; con le splendide e dotte
città capitali, la lingua comune, le letterature auliche, i
regi istituti di cultura, le nuove filosofie, stoica ed epicurea.
Nella Roma di Cesare, sintesi vivente di tutta la civiltà
antica, le diverse correnti del pensiero e del sentimento delle due
Elladi si precipitavano urtandosi, roteando e ribollendo come un
vortice: chi professava il platonismo, chi lo stoicismo, chi
l’epicureismo; chi imitava i decadenti e romantici poeti
alessandrini e chi lo schietto classicismo dei poeti eolici o dei
tragici; chi nella eloquenza studiava l’enfasi dello stile asiatico
e chi imitava invece la purezza leggera e trasparente
dell’atticismo; chi gustava la complicata e raffinata arte
greco-asiatica o greco-egiziana, e chi ammirava solo la
sobrietà arcaica del periodo di Fidia; chi si chiudeva nelle
ricerche minute di qualche scienza speciale creata nella solitudine
di un regio Museo e chi spaziava nelle vaste enciclopedie pensate
dai privati maestri della Grecia classica. Roma riviveva, in un
istante solo, con straordinaria intensità, tutta la
successione di culture create in cinque secoli; ma in mezzo a tanti
contrasti e a tante contraddizioni la Grecia classica rinasceva con
maggiore freschezza. Demostene diventava il modello di perfezione
imitato da tutti gli oratori; Cicerone avvicinava l’eloquenza dalla
profusione asiatica alla sobrietà classica; la classica arte
attica di Fidia, di Policleto, di Scopa, di Prassitele, di Lisippo
godeva di un favore crescente e maggiore che la scuola di Rodi e
tutte le scuole asiatiche500; incominciava ad acquistar fama tra i
ricchi di Roma il grande scultore di questa età, Pasitele, un
greco dell’Italia meridionale e perciò cittadino romano, capo
di una scuola di scultura neo-attica, dove si facevan copie di
antiche opere classiche, ed autore di opere originali, il cui pregio
era una eleganza splendida e sobria ottenuta con lo studio della
natura e dei grandi modelli classici501. Sopratutto rinovellò
frondi e fruttificò di nuovo la teoria della libertà,
formulata da Aristotele. Nelle repubbliche greche si era già
pensata ed espressa la teoria democratica, secondo la quale non
è libertà se non dove il popolo comanda; la teoria
aristocratica, che il popolo deve stare sotto ai ricchi e ai nobili;
la teoria monarchica, l’ottimo governo essere quello di un solo. Ma
dalla discussione di queste teorie e dalla osservazione dei travagli
in cui si consumavano i governi repubblicani, la Grecia classica
aveva tratta la dottrina del governo composito di monarchia, di
aristocrazia e di democrazia; che affermava (è noto a tutti
esser questa una delle idee cardinali della politica di Aristotele):
il popolo dover possedere tanta autorità sulla cosa pubblica
quanta era necessaria affinchè i grandi non l’opprimessero;
le famiglie insigni per ricchezza e nobiltà godessero di
molto potere, ma per il bene comune, e fossero esempio di
virtù civiche un magistrato sovrastasse pure, se era
necessario, a tutti, come un presidente di repubblica investito di
larghi poteri, ma fosse l’ottimo nella città, governasse
secondo la legge e desse esempio per il primo di osservarla,
perchè la legge doveva essere il vero sovrano impersonale
della città. Senza questa contemperanza salutare degli
opposti principî, la democrazia degenerava in demagogia, la
aristocrazia in oligarchia, la monarchia in dispotismo: pessimo di
tutti i governi quest’ultimo, che poteva convenire alle snervate e
servili popolazioni d’Oriente, non alla nobile stirpe degli Elleni.
Queste teorie di Aristotele, che Polibio aveva rinnovate, studiando
la società romana dei tempi di Scipione Emiliano, si
diffondevano, come quelle che parevano conciliare le tradizioni
antimonarchiche e aristocratiche della storia di Roma, le nuove
correnti democratiche, la speranza di un componimento del presente
disordine di cui tutti credevan cagione, per una illusione
così comune, i difetti dello Stato.
È probabile che Cesare vagheggiasse allora una conciliazione
dell’aristocrazia con la democrazia nell’imperialismo; una
repubblica libera e conquistatrice, artistica e colta, simile a
quella che aveva illuminato il mondo dalle colline di Atene, ma
più colossale e poderosa, il cui corpo fosse l’Italia e il
cui capo fosse Roma; che, governata, con l’aiuto di un medio ceto
agiato e colto, da una aristocrazia energica, sapiente, aperta agli
uomini e alle idee nuove, riprendesse e compiesse l’ambizione del
dominio universale fallita ad Alessandro e facesse dell’Italia la
colonna maestra della civiltà, la metropoli della forza, del
capitale, dell’arte, della scienza, della eloquenza, della
libertà. Cesare non possedeva il temperamento impulsivo, la
immaginazione stravagante, l’orgoglio violento e spesso crudele
degli uomini d’azione, che non studiano e non osservano, ma si
precipitano in mezzo ai pericoli, per audacia d’impulso, senza
vederli, e son giudicati grandi se riescono, matti se falliscono; ma
era un giovane zerbinotto alla moda, benevolente di disposizioni e
gentile di maniere, come delicato di salute e di forme; vivace,
nervoso, ambizioso, avido di godimenti, dotato di intelligenza
plastica e di temperamento fervido in ogni cosa, nelle amicizie,
negli studi, nei piaceri; che tra le dissipazioni della vita
elegante e galante, sforzava la intelligenza all’acquisto di una
cultura enciclopedica. Non solo era già diventato uno dei
primissimi oratori di Roma502, ma si era dato con passione agli
studi di astronomia, divulgando tra i primi a Roma la conoscenza
della astronomia scientifica, creata circa un secolo prima da
Ipparco, e che in Asia e in Egitto aveva fatto poi tanti
progressi503; studiava con gran passione la storia, e nei migliori
testi la tattica; educava il gusto della bellezza, e il senso della
magnificenza, per diventare uno splendido preparatore di feste e un
costruttore di monumenti magnifici. Un ingegno plastico e fervido
insomma, un carattere piuttosto equilibrato, non ostante una certa
delicata nervosità di temperamento, quasi da artista,
accresciuta dalla stanchezza di una vita dissipata. È
perciò verisimile che egli inclinasse, in politica, a
dottrine di conciliazione, che non spiacessero nelle alte classi a
coloro che non erano faziosi arrabbiati; tanto più che
spendendo troppo egli aveva bisogno di denaro e questo non poteva
essergli prestato che dai ricchi capitalisti, i quali inclinavano a
sentimenti democratici, ma avevano orrore della demagogia. Infatti,
quando il partito popolare già si volgeva in demagogico,
Cesare continuava a insistere sui motivi patriottici; e quell’anno
stesso, essendogli morta la moglie che egli aveva così
fervidamente amato, e la zia che era vedova di Mario, fece, nella
processione funebre, portare le immagini di Mario504. Poi
partì per la Spagna, come questore del pretore Antistio
Vetere505.
Pompeo invece restava a Roma a consumare la rovina di Lucullo, che,
ignaro di tutto e intrepido come al solito, si era avventurato
nell’Armenia e aveva raggiunto, sui pianori del lago Van, gli
eserciti uniti di Mitridate e di Tigrane. Ma dietro le trincee di un
campo, fortemente munito secondo il modello romano sulla cima di una
collina, i due re eran deliberati di aspettare che gli inverni
precoci dell’Armenia costringessero l’esercito romano a una ritirata
rovinosa; onde Lucullo alla fine, dopo molti vani tentativi di dar
battaglia, cercò di smuovere il nemico, marciando contro la
capitale Artassata. Difatti Tigrane, non potendo tollerare il
pensiero che il suo harem e i suoi tesori cadessero in potere di
Lucullo, levò il campo, lo seguì, tentò di
impedirgli il passaggio dell’Arsaniade e ricevè ancora una
sconfitta506. Lucullo allora domandò ai suoi soldati lo
sforzo supremo di una marcia sopra Artassata, senza sospettare che
non solo i suoi nemici intrigavano a Roma per togliergli il
proconsolato della Cilicia; ma che nel suo campo stesso diversi
ufficiali erano intesi con Pompeo per sobillare i soldati:
più pericoloso di tutti il cognato di Lucullo, Publio Clodio,
uno dei più turbolenti tra i giovani nobili spiantati che per
far carriera si erano voltati al partito popolare507. I soldati per
un poco obbedirono; ma quando incominciarono i terribili freddi del
precoce inverno armeno, si rifiutarono così risolutamente di
continuare, che Lucullo fu costretto a cedere.
Quest’urto improvviso contro la realtà interruppe alla fine
la grandiosa farneticazione di Lucullo; ma troppo tardi. Egli era
avviluppato da intrighi, da ogni parte. A Roma il partito
aristocratico si sforzava di salvarlo ed era riuscito a far comporre
la commissione, che doveva riordinare la nuova provincia del Ponto,
di persone tutte amiche e devote a Lucullo, mettendo in essa persino
il suo fratello Marco; ma gli aveva dovuto togliere il governo della
Cilicia, e l’aveva dato, sperando il colpo gli sarebbe stato meno
doloroso e pericoloso, al console di quell’anno, Quinto Marcio Re,
che era cognato di Lucullo. I nemici suoi però non
riposavano; e Clodio, approfittando di una assenza di Lucullo,
incominciò a sobillare apertamente le legioni ritornate dalla
Armenia in Mesopotamia, descrivendo loro gli agiati riposi dei
soldati di Pompeo508: il ritorno di Lucullo lo costrinse a fuggire;
ma disgraziatamente nel tempo stesso Mitridate entrava con 8000
soldati nel Ponto, sollevava i contadini, riusciva a chiudere il
legato, lasciato da Lucullo nel Ponto con poche forze, in Cabira; e
quando Lucullo si levò per accorrere in suo aiuto, le legioni
rifiutarono di muoversi, avanti la primavera del 67. Le sobillazioni
di Clodio non erano state invano. Per fortuna l’ammiraglio di
Lucullo, Triario, potè sbarcare rinforzi nel Ponto e
sbloccare il legato da Cabira; ma non scacciare Mitridate dal Ponto
e dovè svernare in faccia all’esercito nemico a Gaziura, nel
cuore del Ponto, mandando corrieri su corrieri a domandar rinforzi a
Lucullo, il quale, esautorato e impotente, era costretto a guardare
i soldati, che attendevano tranquillamente alla mercatura e a
godersela, come se i loro compagni non versassero in grave pericolo
e tutto fosse pace509.
A Roma, quando sul finire del 68 giunsero le notizie di questi
eventi, il partito popolare e la cricca di Pompeo tripudiarono; e
Quinto Marcio fu circuito, minacciato, accarezzato affinchè
non prestasse aiuto a suo cognato: così l’anno dopo sarebbe
successa in Asia una catastrofe, e Pompeo riceverebbe sicuramente
per acclamazione popolare il comando della guerra. Crasso vedea,
rodendosi, gli intrighi del suo rivale riuscire mirabilmente; ma che
cosa poteva egli fare, contro un uomo di cui la fortuna pareva
innamorata pazzamente? Infatti, proprio allora, come per favorire
Pompeo, l’agitazione popolare, languente dopo l’anno 70, si
riaccendeva; a Roma, come in tutte le democrazie che il disagio fa
fermentare in demagogia, si cominciavano a formolar proposte, alcune
tiranniche altre ragionevoli, tutte però intese a far danno o
dispetto ai grandi; come ad esempio che si proibisse (l’aveva
proposto in quell’anno un bravo uomo, ma di mente corta. Caio
Cornelio, tribuno della plebe) di prestare denaro nelle provincie,
per impedire ai ricchi di mandar fuori d’Italia il denaro di cui
tanto era il bisogno in Italia; che si riconfermasse nel popolo la
facoltà, usurpata dal Senato, di dispensare dall’osservanza
delle leggi510. Fortuna ancor maggiore per Pompeo: nell’inverno dal
68 al 67 capitò la carestia. Siccome gli uomini attribuiscono
sempre i propri guai, anche quelli la cui cagione è nelle
cose, alla malignità degli altri uomini; questa volta la
colpa della carestia fu data ai pirati, che intercettavano sul mare
i convogli del grano; al Senato e ai magistrati che in tanti anni
non erano stati capaci di ripulire i mari; a Lucullo il cui generale
Triario, mandato nell’Egéo con una flotta, non aveva saputo
far nulla e aveva lasciato il pirata Atenodoro saccheggiargli,
proprio sotto il naso, Delo. Pompeo capì che poteva
approfittare di questa condizione dello spirito pubblico per
ottenere una missione straordinaria, con cui preparare la sua
elezione, ancor contrastata in Senato, in luogo di Lucullo; un
tribuno della plebe, Aulo Gabinio, uomo di origine oscura e di media
fortuna511, propose che si nominasse un dittatore del mare per far
la guerra ai pirati; il quale fosse un uomo di rango consolare (egli
non nominava nessuno), avesse una flotta di 200 navi, un grosso
esercito, 6000 talenti e autorità proconsolare assoluta per
tre anni su tutto il Mediterraneo e sulle coste sino alla
profondità di 50 miglia512; potesse scegliersi 15 legati,
reclutare soldati e rematori e raccoglier denari in tutte le
provincie513. Il partito conservatore avversò questa
dittatura del mare, che sarebbe stata senza dubbio assegnata a
Pompeo e che avrebbe minacciato i comandi di Lucullo e di Metello,
il quale dopo il suo consolato era andato a conquistar Creta; ma
Cesare, che era tornato dalla Spagna, e i tribuni, agitarono il
popolo; Pompeo e la sua cricca lavorarono con molta energia, e dopo
lunghe e tempestose discussioni la legge fu approvata, Pompeo
investito di poteri anche più larghi di quelli proposti in
principio, perchè gli si concesse di arruolare un esercito di
120 000 uomini e 5000 cavalieri, di raccogliere una flotta di
500 navi e di nominare 24 legati514.
Cesare aveva sostenuta la proposta di Gabinio, perchè Pompeo
era potente e perchè la legge era popolare; ma egli si
studiava in pari tempo di procurarsi quanti più amici potesse
nelle classi alte e ricche, tanto che in quell’anno sposò la
bella e ricca Pompeia, figlia di Quinto Pompeo Rufo morto nell’88
combattendo contro il partito mariano, e di Cornelia, figlia di
Silla; nipote quindi di Silla e di Quinto Pompeo Rufo, ardente
aristocratico e console nell’anno stesso in cui suo figlio era
ucciso dai mariani515. Che il nipote di Mario potesse sposare la
nipote di Silla e la figlia di una vittima della rivoluzione
popolare, prova non solo quanto i rancori di famiglia e di partito
si perdessero nelle nuove correnti dello spirito pubblico; ma prova
anche quanto poco Cesare ambisse allora d’essere il capo d’un
partito popolare in guerra aperta e inconciliabile con la
nobiltà516. Intanto Lucullo si era sul principio della
primavera del 67 incamminato con le legioni al soccorso di Triario;
e Pompeo era partito a raccoglier non 120 000 soldati ma un
piccolo esercito, non 500 navi, come era stato il suo primo disegno,
ma solo 270, tutte quelle che potè trovare, in tanta
trascuranza delle cose navali, nei vari porti degli alleati517; e le
aveva divise tra i suoi numerosi legati, scelti tra gli uomini
più cospicui delle alte classi e anche del partito
conservatore518, incaricando ognuno di ripulire una parte del
Mediterraneo. Uno di questi legati era Marco Terenzio Varrone.
Lucullo però seppe per via che Triario, o per ambizione di
vincer da solo o per errore, aveva data battaglia a Mitridate, ed
era stato disfatto con grandi perdite a Gaziura519; onde domandati
soccorsi a suo cognato Marcio, governatore della Cilicia, corse
veloce in aiuto raggiungendo presto Mitridate; ma cercò
invano di indurlo a battaglia, per annullare con una vittoria la
impressione della sconfitta del suo generale. Pompeo invece riusciva
in poco più di un mese a compiere, con breve fatica,
l’impresa che tutti avevano creduta ciclopica. Solo in un momento di
irritazione i pirati avevano potuto apparire come nemici formidabili
per velocità per astuzia e per audacia alla nervosa metropoli
mondiale; ma essi solo a Creta avevano una specie di governo
militare, il quale del resto Quinto Metello veniva combattendo da un
anno; mentre le altre numerose e piccole bande non avevano intesa
tra loro, e infestavano i mari con tanta audacia solo per il
disordine in cui la conquista romana aveva gettato il Mediterraneo.
La notizia che a Roma si era creato un dittatore del mare, fatta una
leva di illustri generali, apprestato tanto apparecchio di armi, si
divulgò rapidamente per tutte le coste e spaventò
molti di questi nemici creduti formidabili; le notizie delle prime
catture di navi e dei primi supplizi accrebbero lo spavento; qualche
banda di pirati si arrese; l’astuto Pompeo, il quale sapeva che
nelle età civili, eccitabili, facili alle esagerazioni,
l’uomo abile può illudere e stupir facilmente la folla con un
successo apparente ma subitaneo, non li mandò sul patibolo ma
a ripopolare questa o quella città devastata; e ben presto i
pirati, rassicurati da questa specie di amnistia, vennero da tutte
le parti a consegnare spontaneamente flottiglie ed armi ai generali
di Pompeo520. Per qualche tempo il mare divenne più sicuro; e
Pompeo fu salutato a Roma come l’eroe meraviglioso, che aveva
annientato in un baleno un nemico tanto formidabile; e invece non
aveva fatto niente, perchè di lì a poco, quando lo
spavento del dittatore del mare fu passato, le navi da corsa furono
prestamente armate e calate in mare su tutte le coste, e la
pirateria riprese, audace come prima, a correre i mari521.
Invece al povero Lucullo, che aveva davvero distrutta per sempre una
grande monarchia, toccò di esser privato, a questo punto, di
tutto il frutto della sua fatica. Quando si seppe a Roma della
disfatta di Triario, i tribuni della plebe si avventarono su lui; e
Gabinio, certo d’accordo con Pompeo, tornò all’assalto,
proponendo una nuova legge con cui si toglieva a Lucullo il comando
della guerra contro Mitridate e le provincie del Ponto e della
Cilicia che erano attribuite al console Manio Acilio Glabrione; si
congedavano le legioni di Fimbria e si minacciava la confisca a
quelli che disobbedirebbero522. Ben presto le disgrazie grandinarono
su Lucullo: il Senato dovè questa volta abbandonarlo e
lasciar approvare la legge; Marcio, non volendo porsi a rischio per
il cognato in disgrazia, gli rifiutò i soccorsi, pretestando
che i soldati non volevano muoversi523; Tigrane, almeno così
correva voce, si avvicinava con un grosso esercito per unirsi con
Mitridate524; il proconsole d’Asia rese pubblico l’editto del
richiamo di Lucullo525. Lucullo però non cedè ancora
alla fortuna e, senza badare ai decreti, marciò contro
Tìgrane, per sorprenderlo in cammino, impedirgli di unirsi a
Mitridate e infliggergli una disfatta che rivolgesse ancora una
volta la fortuna. Ma fu l’ultimo disperatissimo sforzo; per via le
milizie, stanche e sobillate, sfogarono alla fine i lunghi rancori e
si ribellarono, rifiutando di seguire colui che non era più
loro generale. Lucullo capì allora in un baleno, per una
rivelazione improvvisa, tutti i torti, le durezze, le trascuranze
con cui aveva disgustato i soldati; fu preso da un’impazienza
puerile di ripararle; e con l’impeto consueto proruppe dall’orgoglio
in una profusione di umili tenerezze nelle quali si risvegliava a un
tratto, e troppo tardi, l’affetto che egli veramente sentiva per i
suoi soldati, ma che di solito, quando il suo spirito era occupato
dalle cure e dai piani della sua vasta ambizione, restava come
chiuso; si gettò in mezzo ai soldati, pianse,
supplicò, prese per le mani i capi della rivolta. Invano: i
soldati dichiararono che aspetterebbero sino alla fine dell’estate,
e, se allora il nemico non si fosse presentato, se ne sarebbero
andati, i congedati a casa, gli altri dal console Glabrione. Lucullo
dovè cedere alla fortuna; e a poco a poco, mentre Mitridate
riconquistava il suo regno e Tigrane saccheggiava la Cappadocia,
colui che due anni prima era stato in Asia quasi un secondo
Alessandro, diventò nel campo lo zimbello e la derisione dei
soldati526.
XII.
MARCO TULLIO CICERONE.
Se Pompeo si era compiaciuto di farsi ammirare come il benevolo
signore del mare, Quinto Metello, che combatteva dal 68 contro i
corsari di Creta, metteva l’isola a ferro e a fuoco, trucidava i
prigionieri, si arricchiva smisuratamente con le spoglie dei pirati.
Metello apparteneva a quella cricca aristocratica di conservatori
intransigenti, che avrebbero voluto governar l’impero come ai tempi
di Scipione Africano, e che si compiacevano di ostentare, nella
politica interna ed estera, una durezza irragionevole e pericolosa,
per tradizione, per affettazione, per orgoglio, per odio della nuova
sentimentalità democratica. Alla fine però i pirati,
ridotti alla disperazione, offrirono a Pompeo di arrendersi a lui; e
Pompeo, il quale avrebbe volentieri umiliato un conservatore
così autorevole come Metello, accettò, affermando che
la legge Gabinia subordinava a lui anche il proconsole Metello; e
mandò Lucio Ottavio a Creta con l’ordine a Metello di
sospendere la la guerra e alle città di non obbedirgli
più. Ma il risoluto e superbo patrizio accolse Ottavio con
villanie; disse che a Creta egli e nessun altri comandava;
punì crudelmente le città che gli rifiutavano
l’ubbidienza in forza dei decreti di Pompeo; onde Lucio Ottavio, per
sostenere il diritto del suo generale, stava quasi per impegnarsi –
scandalo singolare ! – in una guerra a difesa dei pirati contro il
proconsole romano. Fortunatamente eventi più gravi
distrassero Pompeo dal pericoloso puntiglio527.
Sulla fine del 67 giunsero a Roma pessime notizie dall’Oriente.
Lettere su lettere dei loro corrispondenti di Asia descrivevano ai
ricchi finanzieri il disordine della provincia in modo pauroso:
Lucullo senza comando; Glabrione e Marcio incapaci; Mitridate di
nuovo signore del Ponto; la Cappadocia devastata da Tigrane; colonne
volanti già apparse in Bitinia ad abbruciare i villaggi di
frontiera....528 L’eccitabile mondo della alta finanza, il Senato,
il popolo si spaventarono, rividero un’altra volta Mitridate a
Pergamo, gli Italiani massacrati, i capitali confiscati, la
provincia perduta; l’idea che non si potesse provvedere a tanto
pericolo con le magistrature ordinarie, già popolare nel
partito democratico per odio alla nobiltà, diventò
persuasione di tutti, anche dei finanzieri; e al principio del 66 il
tribuno Manilio propose che ai poteri già concessigli con la
legge Gabinia Pompeo aggiungesse il governo dell’Asia, della Bitinia
e della Cilicia; il comando della guerra contro Mitridate e contro
Tigrane; la facoltà di dichiarar guerra e stringere alleanze
in nome del popolo romano con chi volesse529. Crasso, già
crucciato per il successo di Pompeo nella guerra dei pirati, fremeva
vedendo il rivale in procinto di vincere definitivamente, in vista
di tutta Italia, il duello di intrighi, incominciato con lui quattro
anni prima, e di ottenere tutti gli onori a cui per tre anni egli lo
aveva costretto a rinunciare; il partito conservatore, che
già aveva severamente biasimata la sua democratica clemenza
verso i pirati530, avversava naturalmente questa dittatura militare
del suo nemico su metà dell’impero; alcuni dei suoi membri
più insigni, come Catulo e Ortensio, tentarono di combattere
la legge, eccitando i sentimenti repubblicani e dimostrando che
quella dittatura era simile a monarchia531. Questa volta
però, dopo il successo nella guerra contro i pirati, Pompeo,
benchè lontano, benchè solo, era più potente di
Crasso a Roma, del partito conservatore, delle tradizioni, di tutto
e di tutti. Appariva ormai chiaro un fenomeno nuovo, nella
società italiana: la potenza intermittente ma invincibile
dell’opinione pubblica. Come sempre nelle democrazie, quando con la
civiltà e con la ricchezza cresce la varietà dei
piaceri e delle opere, e aumenta l’impressionabilità del
temperamento, avveniva allora che le classi alte e istruite, i
possidenti ricchi e agiati, i capitalisti, i mercanti, gli artisti,
i professionisti e gli uomini colti, intenti di solito a molteplici
affari e piaceri, chi a scrivere, chi a speculare, chi a studiare,
chi a godersi, chi a coltivar le sue terre, si interessavano della
pubblica cosa solo di tempo in tempo, allorchè un avvenimento
straordinario commoveva tutti gli spiriti, abbandonando negli
intervalli, per egoismo, per mancanza di tempo, per soverchia
delicatezza di sentimento, lo Stato in potere di un piccolo numero
di politicians di professione: ma quando poi una di queste
commozioni dello spirito pubblico si diffondeva per l’Italia, nessun
partito, nessuna cricca di politicanti, nessun corpo politico osava
più di resistere, tanta paura tutti avevan di essere
impopolari. Così nel 70 un furore contagioso di odio contro
la consorteria conservatrice aveva indotto anche i conservatori ad
approvare le leggi democratiche; poi il fervore pubblico era venuto
meno, e invano Cesare, Pompeo, i tribuni della plebe avevano cercato
di eccitarlo con stimoli artificiali. Ma adesso il pubblico si era
di nuovo commosso; tutta Italia, lieta per il successo della guerra
contro i pirati, ammirava Pompeo come un generale meraviglioso, non
aveva fiducia che in lui, voleva lui solo per finir Mitridate; non
solo gli arruffapopoli chiedevano la dittatura dell’Oriente, ma
l’alta finanza, la gente denarosa, i numerosi senatori e cavalieri
che avevano collocati capitali in Asia; non Cesare solo si adoperava
a fare approvare la legge, ma anche colui che primo avrebbe
rappresentata a Roma questa figura nuova di tutte le democrazie che
inciviliscono: il letterato, fatto potente tra gli uomini dalla
forza della letteratura. Dopo la clamorosa accusa di Verre, Cicerone
aveva continuato ad accrescere la propria cultura, leggendo uno
sterminato numero di libri, ad esercitare la velocità dello
scrivere così da divenire uno dei più intensi e rapidi
lavoratori del tempo suo, a perfezionare la eloquenza; e primo aveva
acquistato, in quella società avida di godimenti
intellettuali, tanta ammirazione e tanto credito, da essere eletto,
non ostante la modestia delle origini e della fortuna, edile e
pretore, e da contare ormai come uno dei personaggi più
cospicui di Roma. Certo, come tutti i letterati, egli sapeva
signoreggiare l’immaginazione e il sentimento delle folle assai
più che le volontà dei singoli uomini; e se ritto
innanzi a una moltitudine di ascoltatori egli era un dominatore
potente; se questo successo straordinario e questa meravigliosa
dominazione spirituale, in una età agitata da così
intenso fervore di desideri e di speranze, avevano eccitata in lui
la vaga ambizione di divenire il Demostene della colossale
democrazia italica; se come tanti altri guerrieri e letterati egli
incominciava a illudersi di poter essere un gran reggitore di Stati;
tra gli uomini invece, in cui si scomponevano le immense folle che
egli affascinava parlando, Cicerone diventava un omiciattolo incerto
e debole, che, non ostante molte belle qualità morali, si
lasciava facilmente ingannare e spaventare. Immune, per nascita,
dalla orribile depravazione morale della decaduta nobiltà
romana; borghese d’origine e dotato delle antiche e solide
qualità morali del medio ceto italico; onesto, non cupido,
non crudele, non dissoluto, affettuoso con i suoi, sensitivo e
nervoso, egli era nel tempo stesso tormentato dai piccoli mali di
una vanità quasi feminea e da un delirio di persecuzione
leggero; cosicchè da esaltazioni in cui si sentiva dominatore
e sfogava la propria baldanza nella libertà di una critica
mordace contro tutti, nelle ambizioni più audaci, nelle lodi
altere di sè, egli cadeva periodicamente, come se due persone
vivessero in lui, in avvilimenti, prostrato dai quali temeva le
inimicizie di ognuno, mendicava la lode di tutti e si inteneriva di
gratitudine per il primo cialtrone che gli dicesse qualche lode
banale. Sopratutto non aveva mai potuto liberarsi da una certa
soggezione verso le altissime classi; e se, avidissimo di
celebrità, si compiaceva di esser noto a tutti e di vedere il
popolino voltarsi nelle vie a guardarlo, temeva assai più che
si parlasse male di lui nelle grandi case di Roma; ambiva
ardentemente le difficili relazioni con i nobili non degenerati ed
autentici; spasimava di compiacenza per le molte amicizie
procuratesi con la fama oratoria tra i ricchi capitalisti di Roma, i
quali, più democratici e spregiudicati dei nobili, trattavano
più facilmente come un eguale, quando erano colti come
Attico, un self made man della letteratura. Insomma anche quando fu
divenuto un gran personaggio della storia universale, egli
restò in molte cose quel che era nato: un piccolo borghese,
cui la ricchezza e la nobiltà abbagliava e beava. Si
comprende perciò che egli cercasse, allora, come Cesare, di
farsi ammirare nel tempo stesso dai democratici e dai conservatori,
ma inclinando, diversamente da Cesare e appunto perchè
borghese, verso la nobiltà; che avesse accusato Verre
nell’anno della rinascenza popolare e combattuta la corrotta
consorteria conservatrice; ma che poi avesse rifiutato la
candidatura a tribuno della plebe, per non parere di incanagliarsi
agli occhi dei grandi532.
La legge Manilla offriva una occasione così bella per piacere
a una parte considerevole delle alte classi ai ricchi capitalisti e
a tutto il popolo; che Cicerone, il quale in quell’anno era pretore,
pronunciò, a favore della legge, un grande e bellissimo
discorso; dicendo al suo pubblico di ricchi mercanti, di senatori
usurai, di agiati appaltatori, di artigiani e tavernieri, che l’Asia
era la provincia più ricca dell’impero, che dall’Asia
fluivano i più lauti redditi dell’erario; che in Asia erano
impiegati i maggiori capitali dei pubblicani, dei mercanti, dei
privati; che per ciò conveniva a tutte le classi difendere
questa provincia sino all’ultimo sangue533. La legge, sostenuta
anche da Cesare, che intendeva proporsi edile per l’anno 65 e
raddoppiava di zelo per aver popolarità, fu approvata, non
ostante il furore di Crasso; e Pompeo, ricevutane la notizia in
Cilicia dove aveva svernato, nella primavera del 66 diè
subito opera alla guerra. Sempre fortunato, egli era mandato a
uccidere un uomo morto. Ormai Mitridate era venuto in discordia con
Tigrane, che lo sospettava di fomentargli le frequenti rivolte dei
figli per avere sul trono di Armenia un alleato più ligio;
non aveva più flotta e possedeva ancora solo un avanzo di
esercito: 30 000 uomini e qualche migliaio di cavalieri, tra i
quali un certo numero di fuggiaschi italiani534. Forse egli avrebbe
potuto sperare aiuto dal nuovo re dei Parti, Fraate, successo ad
Arsace; ma Pompeo prestamente mandò un’ambasceria a
persuaderlo di muover piuttosto guerra a Tigrane, per ricuperare le
provincie perdute;535 e lasciando le tre legioni di Marcio in
Cilicia536, forse per il timore di non poter nutrire nel Ponto
devastato tutto l’esercito, andò con un forte corpo di
milizie a rilevare dal comando Lucullo, che si ostinava a restare in
mezzo alle sue legioni disobbedienti. Pompeo non poteva non fargli
una visita; ma come sarebbe finito il colloquio tra l’esasperato
generale in disgrazia e il petulante favorito della fortuna? Amici
comuni si misero di mezzo, affinchè questa suprema cerimonia,
così difficile per Pompeo, così dolorosa per Lucullo,
si compisse con dignità e senza scandalo; l’incontro fu
stabilito a Danala, in Galazia537; e il colloquio cominciò
bene, con complimenti reciproci. Ma ben presto Lucullo, che era
sempre stato poco abile diplomatico ed allora era fuori di sè
per il cruccio, si mise a sostenere una tesi impossibile: che Pompeo
non aveva più nulla da fare, perchè la guerra era
stata finita da lui: tornasse quindi a casa! La discussione si
incalorì; e il colloquio terminò con grida e male
parole538. L’ostinato Lucullo volle ancora emanar dei decreti e
distribuire le terre della Galazia da lui conquistata, per mostrare
agli altri e illuder sè stesso che non cedeva; ma Pompeo gli
tolse facilmente tutti i soldati, lasciandogliene soli 1600 per
accompagnarlo in Italia; e con un esercito, che doveva superare di
poco i 30 000 uomini539 invase il Ponto. Mitridate
tentò, con il suo esercito piccolo e perciò
relativamente agile, una strategia di temporeggiamenti e guerriglie
sulle comunicazioni del nemico, simile a quella che Lucullo aveva
fatto contro di lui nella campagna del 74540. Ma alla fine, dopo
aver perduta in una imboscata una parte della cavalleria,
dopochè Pompeo ebbe aperta una via di rifornimento breve e
sicura con la Acelisene, provincia dell’Armenia al di là
dell’Eufrate, ed ebbe ordinato alle legioni di Cilicia di
raggiungerlo, Mitridate, che si era trincerato in una forte
posizione a Dasteira, capì che sarebbe stato presto circuito
da forze soverchianti541; e una notte, passando inosservato tra i
campi romani, tentò di raggiungere l’Eufrate, varcarlo,
ritrarsi in Armenia, per cercare di continuare la guerra. Pompeo
però lo raggiunse al terzo giorno e manovrando con
abilità gl’inflisse una grave disfatta542. Pure Mitridate
riuscì ancora a salvarsi e con gli avanzi dell’esercito
andò a Sinoria, il più forte dei suoi castelli posti
sui confini dell’Armenia; prese una forte somma di denaro,
pagò ai soldati un anno di paga, distribuì loro gran
parte delle altre sue ricchezze e mandò a domandare
ospitalità a Tigrane re di Armenia; poi senza aspettar la
risposta a Sinoria, così vicino al nemico, risalì
velocemente la riva destra dell’Eufrate sino alle sorgenti con il
suo piccolo esercito, reclutando per via soldati; ridiscese nella
Colchide, che in mezzo al disordine degli ultimi anni era divenuta
quasi indipendente; la traversò e si fermò a
Dioscuriade, l’estrema grande città greca della costa,
fondata ai piedi del Caucaso543.
Pompeo, che nella campagna contro Mitridate aveva compiuto il suo
capolavoro di stratega, non poteva inseguire con un grosso esercito
un manipolo fuggente veloce attraverso le montagne; onde si volse a
conquistare l’Armenia, pensando che avrebbe facilmente preso alla
primavera Mitridate nella Colchide: donde non poteva tornare
indietro in Armenia, non fuggire sul mare dominato dalla squadra
romana, non rifugiarsi nella Crimea, dove regnava il suo figlio
Machares, diventato, nella disgrazia del padre, amico dei romani e
da cui lo separavan le popolazioni barbare del Caucaso, che egli non
aveva potuto domare nemmeno nei tempi della sua maggiore potenza. Ma
la fatica di conquistare l’Armenia gli fu risparmiata dalla
dedizione di Tigrane. Tigrane era stato assalito da Fraate e dal
figlio ribelle; ma quando Fraate, stanco di assediare Artassata, si
era ritirato, e il figlio ribelle, spaurito di dover continuar da
solo la guerra contro il padre, ebbe ricorso per aiuto a Pompeo,
anche il padre, fatti incatenare i messi di Mitridate, posta a
prezzo la sua testa, venne solo, a piedi, in atto e vestimento
umile, nel campo romano. Pompeo lo ricevè gentilmente, lo
confortò, gli restituì tutti i dominî ereditari
della famiglia, lo conciliò con il figlio, a cui diede la
Sofene, lo chiamò amico e alleato del popolo romano a
condizione che pagasse 6000 talenti, circa ventotto milioni a lui,
cinquanta dramme a ogni soldato, mille a ogni centurione, diecimila
a ogni colonnello544. Poi portò le milizie a svernare sulle
rive del Ciro, all’estrema frontiera settentrionale dell’Armenia; e
per preparare, per l’anno dopo, l’invasione della Colchide,
avviò trattative con gli Albani che abitavano il Cirvan e il
Daghestan, e con gli Iberi della Georgia. Ma Pompeo si ingannava
credendo che Mitridate fosse ormai vinto; l’indomabile vecchio aveva
anche egli avviate trattative con gli Iberi e gli Albani, con i
quali aveva conchiusi nei tempi della potenza trattati di amicizia e
di commercio; e li aveva persuasi ad aiutarli in un ultimo sforzo
disperato contro Roma. Nel mese di dicembre, all’improvviso, le
legioni svernanti sul Ciro furono assalite da un esercito di Albani;
ma la sorpresa fallì; l’assalto fu respinto e Pompeo, sempre
fortunato, ricevè con poco danno l’avviso di esser più
cauto con questi barbari545.
XIII.
LE SPECULAZIONI E LE AMBIZIONI DI CRASSO.
Ma fu l’ultimo pericolo. Nella primavera del 65 Pompeo incominciava
una lunga, piacevole, lucrosa e non pericolosa avventura, tra le
vaste monarchie, le città libere, le repubbliche marinare, le
piccole teocrazie, gli stati di briganti e pirati, formatisi in
Asia, in mezzo alle macerie dell’impero di Alessandro. Egli si
avviava a vedere i luoghi favolosi della leggenda e della poesia
greca, le regioni, le città, i campi di battaglia più
celebri dell’Oriente; a osservare la infinita varietà di
nazioni barbare che dal Caucaso all’Arabia vivevano sparse per
l’Asia con lingue, con costumi, con culti diversi; a conoscere le
meraviglie e le corruzioni di quel vecchio Oriente industriale e
ellenizzato, così diverso dalla civiltà nuova
dell’Italia: i mostruosi culti compositi di superstizioni
molteplici; le magnifiche e laboriose coltivazioni delle sue parti
più fertili; i monumenti, le arti e le industrie delle famose
città che fabbricavano i lussi per tutte le regioni
mediterranee; le popolazioni di queste metropoli industriali,
ingegnose, laboriose, sobrie, risparmiatrici, devote,
eccitabilissime, e così diverse dagli Italiani, aggressivi,
spregiudicati, prodighi, cupidi di subiti guadagni, rischiosi e
infingardi; la classe dei filosofi, degli scienziati e dei letterati
di professione, così rari ancora in Italia; il lusso, i vizi,
i delitti, i tesori, i cerimoniali delle corti, che tanto eccitavano
la curiosità della ancor semplice democrazia italica. Al
principio della primavera Pompeo invase il paese degli Iberi e li
sottomise; vide da lungi le vette nevose del Caucaso, su cui era
stato inchiodato Prometeo; passò nella valle del Rioni
(l’antico Fasi) e scese nella Colchide, tutta piena dei ricordi di
Medea, di Giasone, degli Argonauti, per catturar Mitridate....546 Ma
troppo tardi: l’indomabile vecchio aveva sforzato, con il suo
piccolo esercito, il passaggio fino in Crimea lungo 700 chilometri
di pendici del Caucaso dirupanti nel mare e infestate da barbari;
aveva sorpreso e costretto a fuggire il figlio ribelle,
riconquistando un altro Stato547. Il prudente Pompeo non volle
invadere dal mare la Crimea; ma ordinatone il blocco, tornò
nella valle del Kur, l’antico Ciro, e fece una spedizione nel paese
degli Albani, che pare sorprendesse a tradimento; poi si ricondusse
nella piccola Armenia548, riportando agli avventurosi mercanti
italiani sicure notizie sulla grande via commerciale delle Indie,
sino allora ignota agli Italiani, che dal porto di Fasi risaliva la
valle del Rioni, sboccava nella valle del Kur e quindi attraverso il
paese degli Iberi e degli Albani, arrivava al Caspio; raggiungeva
attraverso il Caspio la foce e risaliva il corso dell’Amudaria, che
in antico si chiamava Oxus, e sboccava non nel Lago d’Aral, come
ora, ma nel Caspio549. Naturalmente, molti metalli preziosi erano
stati rubati e moltissimi schiavi catturati, in queste spedizioni.
Dalla piccola Armenia Pompeo attese per quell’anno a conquistare gli
ultimi castelli e a confiscare gli immensi tesori di Mitridate; a
Talaura trovò le sue collezioni meravigliose di cui fu
necessario un mese a far l’inventario: 2000 tazze di onice
incrostate d’oro, un immenso numero di fiale, di vasi, di letti, di
sedie, di briglie, di corazze, gemmate e dorate550; in un altro
castello trovò la corrispondenza, le memorie segrete di
Mitridate, le ricette dei veleni e le lettere d’amore, a quanto
sembra assai licenziose, che il re del Ponto aveva scambiate colla
sua favorita Monima551. Tutti i tesori dell’ultimo grande monarca
ellenizzante dell’Asia appartenevano ormai all’audace democrazia
italica.
Ma questa democrazia vittoriosa non poteva gioire delle sue
vittorie. Avveniva allora in Italia ciò che avviene in tutte
le società, in cui fervono tra i ricchi e i poveri, tra la
nobiltà e il medio ceto, odi ereditati dal passato e
inaspriti nel presente, non dalla vera miseria, ma, ed è
peggio, dal disagio dei molti che spendono e desiderano più
di quanto possiedono, mentre i progressi della civiltà e
della ricchezza diffondono lo scetticismo politico: due piccole
minoranze politicanti, conservatrice e democratica, si combattevano
con crescente furore, in cospetto del pubblico, ricaduto,
dopochè la commozione popolare per la dittatura di Pompeo fu
spenta, in un torpido malumore; e le piccole combriccole
intrigavano, in ciascun partito, con straordinaria impudenza:
potentissima tra tutte quella formatasi nel partito popolare dopo la
partenza di Pompeo, con Crasso e con Cesare a capi. La legge Manilia
era stata una ferita crudelissima per l’orgoglio di Crasso. Esaltato
dalla vittoria riportata nel 70 sopra Pompeo, dalla gloria della
guerra contro Spartaco, dalle immense ricchezze, e divenuto
insaziabile, Crasso si era sforzato in quei quattro anni, con una
tenacia instancabile, di ingrandire, di ingrandire, di ingrandire
ancora la propria potenza e ricchezza. Egli non comprava, come tanti
incauti, terreni a prezzi altissimi sperando favolosi rialzi; ma
speculava invece, forte dei suoi grandi capitali, sugli speculatori
manchevoli di capitale. Gran mercante e allevatore di schiavi,
acquistava molti schiavi orientali scegliendo con cura quelli che
conoscevano qualche parte dell’arte di costruire: ingegneri,
architetti, capimastri; aveva istituita nella sua casa una specie di
scuola di queste arti per l’educazione di giovani schiavi; e li
affittava poi ai piccoli e medi costruttori di case, troppo poveri
per comprarsi essi stessi schiavi così cari, guadagnando
enormemente. Inoltre, siccome gl’incendi erano frequentissimi a
Roma, dove tante case erano di legno e gli edili trascuravano il
servizio dell’estinzione, Crasso aveva costituito tra i suoi schiavi
una squadra di pompieri, e disposto per tutti i quartieri di Roma
vedette: appena un incendio scoppiava, la vedetta volava ad
avvertire la squadra; questa accorreva, con un incaricato di Crasso,
il quale, giunto sul luogo, comprava dal padrone, per una miseria,
la casa incendiata e spesso anche le case vicine, minacciate dal
fuoco; poi, conchiuso il contratto, faceva spegnere il fuoco e rifar
la casa. In questo modo egli acquistava in gran numero con poca
spesa le case dei piccoli costruttori, che non avrebbero potuto
più rifarsi la casa bruciata; diventava uno dei più
grandi proprietari di case e terreni in Roma; barattava, vendeva,
ricomprava poi queste case in varie maniere552. Ormai era forse
l’uomo più ricco, il banchiere meglio fornito, il maggior
creditore di Roma; un rimestatore di milioni la cui potenza cresceva
a mano a mano che la penuria del denaro gli rendeva più
servili i molti suoi debitori e in generale tutti i bisognosi di
denaro, cioè i più; il capo di una grande coorte di
computisti, di amministratori, di segretarii, nei cui libri era
inscritto per nome un infinito numero di persone: gli appaltatori, i
mercanti, i costruttori che avevano affittato da lui schiavi; gli
innumerevoli inquilini delle sue case; i numerosissimi senatori che
si erano fatti prestar denaro. Egli aveva potuto, per un momento,
illudersi di esser l’uomo più potente dell’impero. Ma a un
tratto Pompeo aveva rotta questa esaltazione felice della
soddisfatta ambizione, per la forza di una ammirazione popolare
quasi fanatica, che a lui non era mai riuscito di godere; onde il
milionario, disilluso sulla potenza del suo oro ed esasperato,
voleva ora a sua volta la sua rivincita, onori equivalenti a quelli
della legge Manilia, sopratutto una popolarità eguale alla
popolarità di Pompeo, a qualunque costo. Pompeo era divenuto
così popolare e potente, perchè, vincendo i pirati,
aveva rifatta l’abbondanza a Roma? Egli farebbe di più:
farebbe decretare dal popolo la conquista dell’Egitto e ne
otterrebbe il comando. La proposta non poteva non esser
popolarissima; perchè l’Egitto era un paese fertile, dove
ogni anno il grano avanzava al bisogno e dove tutti i paesi in
carestia mandavano a comprare, con il permesso del re;
perchè, quando il paese fosse di Roma, tutta quell’annuale
abbondanza sarebbe riserbata alla metropoli e la fame non
minaccerebbe più. La conquista dell’Egitto significava allora
ai Romani ciò che adesso l’abolizione del dazio sul grano:
pane a buon mercato. Ma siccome bisognava agitar questa idea in
mezzo al popolo, Crasso, che non si sentiva atto da solo a questa
impresa, cercò un aiuto; e si intese facilmente con Cesare.
Per sua fortuna Cesare, in quel momento, era in gran bisogno di
denari. Cesare non si compiaceva, come gli uomini perversi, di fare
il male; ma viveva in un tempo e in una società in cui
l’ardore delle passioni, la fretta di riuscire, l’orgoglio
disponevano molti al cinismo; ma faceva parte di un mondo politico
in cui gli onesti lasciavano una parte sempre maggiore del campo, in
tutti i partiti, ai violenti e ai farabutti; ma era ambizioso, aveva
molti debiti, e dall’ambizione e dai debiti già contratti era
spinto, per potere un giorno pagarli, a perfezionarsi nell’arte
difficile e faticosa di richiamare continuamente l’attenzione
pubblica sopra la propria persona: sola maniera di riuscire, in
quella democrazia eccitabile ed obliviosa, che oggi delirava per un
uomo e domani l’aveva già dimenticato. Per accrescere il
proprio prestigio davanti alla moltitudine democratica sì, ma
pur sempre ammiratrice delle discendenze illustri, egli aveva
perfino inventato di discendere per linea materna da Anco Marzio e
per linea paterna addirittura da Venere: ma un discendente di Anco
Marzio e di Venere sarebbe stato, se pitocco, ridicolo; onde egli,
che era stato eletto edile per l’anno 65 e che già aveva
debiti con tutti i banchieri di Roma, doveva continuare le
prodigalità, i regali, gli inviti, i prestiti e i doni con
cui aveva cominciato a farsi largo, sino al giorno in cui, fatto
pretore, avrebbe potuto predare una provincia. Anzi voleva dare,
come edile, giuochi e feste di una magnificenza non ancora veduta,
perchè lo sfarzo affascinava quella cupida democrazia
mercantile più di ogni altra cosa. Proprio allora però
la crisi gli rendeva più difficile il credito presso i
banchieri, i quali naturalmente, scarseggiando il denaro,
largheggiavano meno con gli uomini politici, a cui, sotto colore di
prestare, in verità donavano, per corromperli pulitamente. In
simile frangente, le ambizioni e le gelosie di Crasso erano per
Cesare una miniera di oro: ed egli non esitò a mettersi, per
potergli spremer denaro, ai servigi del milionario, con il proposito
però di non inimicarsi Pompeo, il quale non avrebbe potuto
lagnarsi se Cesare, dopo averlo aiutato a ottenere il comando in
Oriente, aiutava Crasso, che pure era un cittadino insigne, ad aver
l’Egitto. Questa venalità era poco onorevole; e questa
politica di doppia amicizia molto difficile: ma Cesare, che era
giovane e ambizioso, che era riuscito in tutte le agitazioni tentate
per Pompeo, non dubitava di riuscire. Tutti, del resto, nel corrotto
mondo di politicians in cui viveva, affettavano con tanta petulanza
il cinismo e l’audacia! Egli non sapeva che per il poco oro di
Crasso stava per affrontare una bufera, nella quale la sua fortuna e
il suo nome quasi perirono553.
L’anno 65 infatti era incominciato male, con un grosso scandalo.
Nelle elezioni dei consoli, per favorire Lucio Aurelio Cotta e Lucio
Manlio Torquato, il Senato aveva radiato dalla lista dei candidati
Lucio Sergio Catilina, un antico partigiano di Silla che tornava
dall’Africa dove era stato propretore, con la scusa che non aveva
presentata la domanda a tempo e che era minacciato di un processo
per concussione dagli africani. Ma poichè non ostante questo
intrigo erano stati eletti invece Publio Antronio e Publio Silla,
nipote del dittatore, il figlio del candidato Lucio Manlio
Torquato554 aveva querelato per corruzione elettorale i due eletti;
ed era riuscito, certo per intrighi e camorre, a farli condannare e
decadere dalla carica; poi le elezioni erano state rifatte ed eletti
i due candidati prima respinti. Gli animi si erano riscaldati per
questo spudorato intrigo; già durante il processo erano
successi tumulti555; il partito popolare aveva preso la difesa dei
due consoli condannati per poter denunziare le camorre dei grandi; i
due condannati, incoraggiati dal favore popolare, si erano intesi
per tentare una congiura, ammazzare i consoli al primo giorno
dell’anno e far rifare le elezioni. Catilina per vendetta e alcuni
giovani nobili pieni di debiti come Gneo Pisone per ambizione, si
erano uniti alla congiura; Crasso e Cesare, che volevano
incominciare la agitazione per la conquista dell’Egitto, avevano
incoraggiati i congiurati, sperando, se essi fossero stati eletti
consoli, di averne l’aiuto a far decretare la conquista dell’Egitto.
La congiura però era stata scoperta; il Senato si era
radunato per deliberare; la città commossa aspettava una
punizione esemplare.... Ma Crasso, così per smentire d’un
colpo le innumerevoli chiacchiere della città sulla congiura
e sulla sua partecipazione, come per mostrare a tutti la propria
potenza, era intervenuto energicamente, aveva voluto non solo
salvare, ma far ricompensare i rei della fallita congiura; e il
Senato, in cui tanti erano debitori di Crasso, si era piegato, dando
a Gneo Pisone un comando straordinario in Spagna, mentre il console
Torquato si impegnava a difendere Catilina dall’accusa di
concussione556. Se la congiura non era riuscita, Crasso aveva
però potuto fare un dispetto a Pompeo, di cui Gneo Pisone era
nemicissimo, e ottenere una straordinaria soddisfazione di amor
proprio.
Il seguito dell’annata corrispose a questo principio. Lucullo aveva
fatto ritorno in Italia, triste e rabbioso, con il miserabile corteo
di 1600 soldati, portando dal Ponto conquistato all’Italia, insieme
con molto denaro coniato, con molto oro e argento in verghe557, un
dono più umile e più prezioso: un albero ancora
ignoto, il ciliegio, che dopo lui si cominciò a coltivare in
Italia558. Quando vediamo a primavera, solitario in mezzo a un
campo, un ciliegio, ridente e splendente nella violacea pruina dei
suoi fiori, pensiamo che quello è l’ultimo avanzo delle
gigantesche conquiste del generale romano, salvatosi solo dai
naufragi storici di venti secoli! Ma se i posteri dimenticano i
benefici, i contemporanei spesso li ignorano; e Lucullo, non ostante
le vittorie, i tesori e i trofei georgici, trovò le porte di
Roma chiuse alla sua modesta processione trionfale, dai tribuni
della plebe i quali, per far dispetto ai grandi, incominciarono a
interporre il veto, ogni volta che il Senato voleva deliberare il
suo trionfo. Nel tempo stesso, i suoi ufficiali e generali erano
presi di mira: Cotta in special modo, il vinto di Calcedonia e il
distruttore di Eraclea, che era stato ricevuto a Roma con grandi
onori dal Senato e chiamato Pontico. Ma quando Cotta
incominciò ad ostentare, con un lusso insolente, le ricchezze
guadagnate nella guerra, i tribuni lo assalirono, minacciandolo di
processi, proponendo la liberazione dei captivi di Eraclea....
Cotta, sentendo crescere intorno la tempesta, pensò gittare a
mare una parte della preda e versò una grossa somma
all’erario. Ma i popolari incalzarono: era una commedia; Cotta si
era tenuta la parte maggiore; e la proposta di liberare i
prigionieri fu portata nei comizi. I capi del partito popolare
prepararono, per quella radunanza, una rappresentazione patetica:
cercarono, per le case, per i trivi, per i capannoni dei mercanti di
schiavi quanti prigionieri di Eraclea poterono, li vestirono a
lutto, diedero loro dei rami d’ulivo e li fecero venire
all’assemblea; e quando un certo Trasimede di Eraclea sorse a
parlare, e ricordata l’antica amicizia di Eraclea per Roma,
descrisse l’assedio, il saccheggio, la strage, l’incendio della
città, gli schiavi incominciarono a singhiozzare, a
lamentarsi, a tendere le braccia, in atto supplichevole.... Cotta
potè appena parlare, tanto il pubblico era inferocito; e fu
contento di scampar l’esilio559.
A queste provocazioni il partito conservatore rispondeva, come fanno
sempre i conservatori in condizioni simiglianti, accusando a ogni
momento i propri nemici di voler sovvertire lo Stato. Non era
dubbio: Pompeo, quando fosse tornato dall’Oriente, con l’esercito
vittorioso, si sarebbe proclamato monarca e avrebbe distrutta la
repubblica! Eppure, nonostante questa paura, essi trovavan modo di
alienarsi anche Crasso e di inimicarsi mortalmente Cesare. Crasso,
che era in quell’anno censore con Catulo, smanioso, dopo
l’insuccesso della congiura, di fare qualche cosa che accrescesse la
sua popolarità, la sua fama, il suo potere, per preparare
l’approvazione della legge sull’Egitto, volle inscrivere, nei
registri dei cittadini, gli abitanti della Gallia transpadana. Ma
Catulo glielo impedì, sostenuto da tutto il partito
conservatore560; ne seguiron litigi tra i due censori che non fecero
più nulla. Intanto Cesare, per servire l’ambizione di Crasso
e la sua, adornava come edile di quadri e di statue il Campidoglio,
il Comizio, il Fôro, le Basiliche; celebrava con straordinario
lusso i giuochi Megalesi e i Romani (certamente Crasso pagò
le spese); dava in memoria di suo padre splendidi giochi di
gladiatori, nei quali per la prima volta splenderono nelle mani dei
gladiatori freccie e lancie di argento e ogni cosa fu di argento;
dispose, in portici costruiti provvisoriamente, sul Foro e nelle
Basiliche, una esposizione di tutti gli oggetti di cui si serviva
per i giuochi e per gli adornamenti monumentali561; fece di sorpresa
trovare una mattina, sul Campidoglio, ritti i trofei di Mario, che
Silla aveva rovesciati562. I vecchi soldati di Mario, gli avanzi
delle campagne cimbriche e teutoniche trassero in folla a rimirarli;
molti piansero di commozione; per qualche giorno tutta Roma fu in
moto verso il Campidoglio e parlò di questa audacia di
Cesare; ma i conservatori si arrabbiarono; discussioni violente
ebbero luogo in Senato, e Catulo gridò che Cesare procedeva
oramai apertamente a sovvertire le istituzioni dello Stato563. Un
momento i conservatori cercarono anche, per vendicarsi di Gabinio,
di impedirgli, con cavilli legali, di andare come legato di Pompeo
in Oriente; ma non riuscirono564. Ebbero invece una gran
soddisfazione quando Cesare, credendo di aver preparato il popolo
con queste magnificenze tentò per mezzo dei tribuni
un’agitazione popolare, per far deliberare la conquista dell’Egitto,
prendendo a pretesto il testamento del re Alessandro, e per farne
dare il comando a Crasso565. Siccome le discussioni dei partiti
politici procedono sempre per tesi e antitesi, e ognuno a sua volta
nega e afferma ciò che l’altro afferma e nega, il partito
conservatore diventò in quell’occasione partigiano della
politica casalinga; mise in dubbio l’autenticità del
testamento; disse che Roma non doveva desiderare e assaltar tutto
nel mondo566. Ma Cesare, il quale possedeva una sensibilità
squisita dello spirito pubblico, si accorse subito che l’agitazione
non riusciva; che nemmeno il pane a buon mercato e la conquista del
più fertile granaio del mondo commuovevano il pubblico567. Le
classi ricche, specialmente i finanzieri, che avevano sino allora
favorito e incoraggiato il partito popolare, incominciavano a
inquietarsi per la violenza demagogica, per le proposte di leggi
avverse ai capitalisti in cui il movimento democratico pareva
finire, come un fiume in una vorticosa cascata; e inclinavano
perciò verso i conservatori, i cui capi li allettavano con
abili manovre, facendo, ad esempio, ridare allora ai cavalieri il
privilegio, abolito da Silla, di sedere in teatro sui banchi dei
senatori. Il medio ceto, disilluso dalle vittorie democratiche
precedenti che gli avevano fruttato solo il cruccio degli
insopportabili debiti, era snervato, svogliato, distratto. Ben
presto bisognò lasciar cadere la cosa.
Il fervore di queste contese cresceva così con gli urti e i
riurti; eppure si combatteva per ombre e fantasmi, tra un numero di
combattenti minore, a mano a mano che gli animi si accendevano. Le
alte classi non possedevano più, come al tempo dei Gracchi,
privilegi politici ed economici che impedissero il progresso delle
classi medie; e se le tradizioni dell’êra aristocratica
conservavano pure in questa democrazia qualche vantaggio agli ultimi
avanzi di una nobiltà gloriosa; se certe alte cariche, come
la censura e il consolato, erano ancora riserbate a queste grandi
famiglie superstiti, tutta l’Italia formava ormai una classe sola di
dominatori, unita nel prendere dall’impero le migliori ricchezze,
con uno sfruttamento così vasto e molteplice che tutti, anche
la classe media e il popolino dell’Italia, potevano in misura
maggiore o minore parteciparvi con lucro. Il figlio di un piccolo
possidente povero con molta famiglia poteva procurarsi, facendo il
soldato, il capitaletto necessario a comprare un bel podere e
qualche schiavo o a cominciare un traffico; nelle legioni i gradi di
centurione (capitano, diremmo noi), talora anche quello di
præfectus fabrum, o capo del genio, erano serbati a Toscani, a
Emiliani, a Romagnoli, a Abruzzesi, a Pugliesi di umile o di media
origine, che arruolatisi si segnalavano per intelligenza e valore;
quelli che avessero qualche capitale e una certa fortuna potevano
farsi appaltatori di lavori pubblici o fornitori militari, emigrare
in Grecia e in Asia, diventare a Roma tribuni, edili plebei,
questori, qualche volta anche pretori, partecipare ad affari e a
guerre lucrose, andare nelle provincie al seguito di qualche uomo
politico potente; un giovane di ingegno, anche se di modesta
fortuna, poteva, studiando, servendo i capi dei partiti, facendo
l’avvocato, esercitando la giurisprudenza, arricchirsi, ricevere
molte eredità, acquistar fama; i figli dei ricchi finanzieri,
facevano, volendo, rapidamente carriera politica; e perfino i
vagabondi e gli oziosi incorreggibili trovavano da vivere a Roma nei
clubs elettorali, vendendo il voto, come clienti e bravi dei
capopartiti. C’era posto per tutti nell’impero; sotto generali
aristocratici o popolari servivano ufficiali di tutti i partiti, e i
capi dei due partiti erano amici degli stessi finanzieri, favorivano
con eguali procedimenti il medio ceto mercantile ed agrario,
cercavano la popolarità con le stesse corruzioni e con gli
stessi doni alla folla. Si declamava molto, dai popolari, contro gli
abusi dei magistrati, ma solo per vezzo e per calcolo; perchè
con questi abusi specialmente si compiva il frettoloso sfruttamento
del mondo necessario a soddisfare l’intensa avidità di tutta
Italia; tanto è vero che i magistrati popolari non
commettevano meno abusi dei magistrati conservatori. Molto si
discuteva e si intrigava; ma oltre le rivalità degli uomini e
delle consorterie, un solo guaio serio davvero esisteva allora: i
debiti. Per la soverchia fretta di godere e di arricchire,
moltissimi, in tutte le classi, erano impigliati in debiti che non
potevano pagare; e la democrazia signora del mondo, dai senatori di
gran nome agli umili coltivatori, da Giulio Cesare ai tavernieri,
era in potere di un piccolo numero di grandi, medi, piccoli usurai,
di cui molti eran sordidi e oscuri liberti, figli di liberti, plebei
ignoranti568: gente rozza e avara, che viveva poveramente, senza
lusso e senza ambizioni costose; e che perciò poteva
accumulare, accendendosi a cupidità più insaziabili, a
mano a mano che il denaro accumulato diveniva strumento più
potente di nuove usure. Quante volte un celebre senatore, quante
volte Giulio Cesare stesso, aveva dovuto far entrare nella sua casa
e contrattare con un sordido vecchio, con qualche orientale portato
schiavo a Roma e poi liberato, che viveva al fondo dell’immensa
metropoli indifferente a tutto fuori che all’oro suo! Una tempesta
politica sarebbe scoppiata, quando un audace fosse apparso ad
agitare, tra creditori e debitori, questa ardente questione.
XIV
IL PUNTO CRITICO DELLA VITA DI CESARE.
Intanto, la congiura del 66, la faccenda dell’Egitto, i molti
debiti, quella vendita aperta dei suoi servigi a Crasso screditavano
Cesare; e gli facevano perdere, nella crescente irrequietezza ed
esasperazione degli animi, la benevolenza dei conservatori equanimi
e della gente imparziale. Costoro lo vedevano con disgusto
sprofondare ormai nella melma dei debiti e dell’affarismo politico,
come Publio Clodio, il sobillatore delle legioni di Lucullo, e tanti
altri avanzi di una nobiltà gloriosa, ma disfatta e
incanaglita dai vizi. Purtroppo la conciliazione da lui sognata dei
grandi e del popolo, l’alchimia aristotelica dell’aristocrazia e
della democrazia diventava un sogno; e mentre gli uomini ragionevoli
si traevano fuori dalla politica, mentre il partito conservatore
degenerava in una combriccola testarda e violenta, mentre le classi
agiate cominciavano a impaurirsi, nel partito democratico, in via di
diventare partito dei disperati, il fastidio dei debiti, la rabbia
dei desideri insoddisfatti, l’invidia contro i ricchi facevano
fermentare propositi comunisti. Già si parlava di leggi
agrarie, di condono dei debiti, di confisca delle prede ai generali,
e di altri procedimenti rivoluzionari, che piacevano al popolino
miserabile, ma avrebbero rivoltati contro i capi del movimento
popolare i ricchi, ormai già pentiti delle antiche
inclinazioni democratiche.
In quel tempo Cesare dovè pensare più volte a Pompeo,
con invidia. Pompeo fortunato, ricco, glorioso poteva tenersi
lontano da queste agitazioni, senza perdere il favore del popolo; e
in quella primavera del 64 riaccogliere intorno a sè ad Amiso
una corte di re orientali, distribuire, ingrandire, permutar regni,
creare due nuovi re della Paflagonia della Colchide, accrescere i
domini dei tetrarchi galati, nominar Archelao, figlio del difensore
di Atene contro Silla, gran sacerdote di Comana, dividere il
territorio del Ponto tra undici città e ricostituire in
queste, sotto la sorveglianza del governatore romano, le istituzioni
repubblicane della polis greca569. Pompeo, come tutti gli uomini
colti dell’Italia, considerava, in quella rinascenza del pensiero
politico classico, le repubbliche locali di tipo elleno-italico,
come il miglior governo; ed era lieto di ricostituirle tra genti
greche sulle rovine di una monarchia orientale distrutta dalla
democrazia italica. Nè acquistava solo gloria e potenza, ma
una immensa ricchezza; non solo aveva guadagnato molto sopra le
prede, ma faceva dappertutto grandi razzie di uomini, e mentre
vendeva ai mercanti italiani i poveri, si prendeva il riscatto dei
ricchi570; impiegava in Oriente stesso parte dei capitali guadagnati
in guerra prestandoli a interessi usurari a sovrani, come ad
Ariobarzane, re di Cappadocia571. Cesare invece, a Roma, doveva, con
estremi sforzi di destrezza, condurre la navicella della sua fortuna
nelle correnti del movimento popolare che precipitavano, attraverso
una stretta, sempre più rapide e vorticose verso il vicino
fragore di una cascata.... Crasso, più ostinato che mai a
vincere il suo puntiglio di ambizione facendosi mandare in Egitto,
era ritornato nei primi mesi del 64 al suo primo disegno: fare
eleggere per il 63 due consoli disposti a secondarlo. Cesare
perciò doveva assumersi un’altra volta la parte più
faticosa e più pericolosa dell’opera necessaria a far
riuscire questo piano. I candidati al consolato per l’anno 63 erano
sette: Publio Sulpicio Galba e Caio Licinio Sacerdote, aristocratici
dabbene, ma poco autorevoli; Caio Antonio Ibrida, il generale di
Silla che Cesare aveva accusato nel 77 e che, prodigato il mal
tolto, si presentava agli elettori con tutti i beni ipotecati;
Quinto Cornificio, Lucio Cassio Longino, uomini di poco conto; e
infine Cicerone e Catilina572: uomo, quest’ultimo, di intelligenza
considerevole, ma senza scrupoli, cupido, ambizioso, vendicativo e
violento, a cui la repulsa ricevuta nel 65 aveva rinfocolata la
già ardente ambizione del consolato. Chi conveniva aiutare
tra tanti? Cicerone temeva di essere combattuto dalla nobiltà
conservatrice, che gli serbava rancore per il discorso a favore
della legge Manilia e, ostinata a volere il consolato per le
famiglie di gran lignaggio, trovava troppo oscura l’origine sua; e
perciò chiedeva a se stesso se non gli convenisse unirsi con
Catilina573. Ma Crasso e Cesare lo prevennero. Catilina per
l’energia, per la mancanza di scrupoli, per l’odio dei conservatori;
Antonio per il cinismo, per la fiacchezza, per la corruttela
bisognosa convenivano troppo ai loro disegni. Essi si intesero con
Catilina e con Antonio; e si disposero ad aiutarli con estrema
energia: Crasso con il denaro, Cesare con l’opera personale574.
Cicerone però trasse un vantaggio immenso e impensato da
questa lega. I conservatori paventarono talmente i due consoli
strumenti di Crasso e di Cesare, che dimenticarono i piccoli
puntigli di classe: a Catilina occorreva opporre un candidato
autorevole; e poichè Cicerone era uno degli uomini più
celebri e più popolari, risolvettero di opporlo, come
campione loro, alla demagogia. Il lavorio fu intenso dalle due
parti: Catilina spese immense somme sue e di Crasso; Cesare si
adoperò con tutte le forze a favore di Catilina, e – ironie
della politica! – del generale che 13 anni prima egli aveva
accusato; Crasso mobilitò i suoi clienti, i liberti e gli
inquilini morosi; le elezioni si fecero in mezzo a una agitazione
straordinaria. Il risultato mostra la perplessità degli
elettori: nessuno dei due partiti vinse o fu disfatto interamente;
Catilina, il candidato popolare che incuteva più timore, non
fu eletto, e fu eletto invece Cicerone; ma insieme con Antonio. A
ogni modo Crasso aveva fallito ancora una volta, perchè non
avrebbe potuto far nulla, avendo amico uno solo dei consoli, e il
meno capace.
Sopravvenne, dopo la lunga tensione, la pausa di un breve riposo,
durante il quale giunsero frammentarie notizie di Mitridate che
ormai, perduto nelle lontananze mitologiche della Tauride, pareva ai
Romani già uscito dal mondo. Egli aveva tentato, a quanto
sembra nell’estate del 64, di aprire trattative di pace con Pompeo.
Ma Pompeo le aveva respinte domandando un’arresa a discrezione575; e
si era poi volto a una vasta spedizione in Siria e in Arabia, mentre
forse andava pensando a una guerra con i Parti. Mandò infatti
Lucio Afranio, che già aveva occupata la Gordiene, in Siria,
attraverso la Mesopotamia, non ostante la amicizia con Fraate576; e
mentre Afranio, avventurandosi per regioni mal note, rischiava di
perdersi con l’esercito577, egli entrava senza trarre la spada in
Siria. Mandati innanzi, nella Fenicia e nella Celesiria, a occupar
Damasco, due suoi generali, Aulo Gabinio e Marco Emilio Scauro,
figlio di quel Marco Emilio Scauro che nato da un negoziante di
carbone era diventato presidente del Senato578. Pompeo
ricominciò a distribuire regni e territorii; diede a
quell’Antioco che Lucullo aveva fatto re di Siria, la Commagene579;
dichiarò libera Seleucia e favorì in compenso di una
grossa somma Antiochia580; fu generoso con il re degli Osroeni, e
duro con il capo degli Arabi Iturei581; dichiarò infine la
Siria provincia romana, con l’obbligo per ciascun abitante di pagare
il ventesimo dei propri redditi, pretestando che ormai la dinastia
nazionale era perita582, ma in verità per fare anche egli una
grande conquista, per poter gloriarsi che, come Lucullo aveva
conquistato il Ponto, egli aveva conquistata la Siria. Una grave e
pericolosa questione parve essere portata al suo giudizio, quando
Tigrane ricorse a lui per aiuto contro Fraate, che, irritato per
l’atto di Afranio e non osando affrontare Pompeo stesso, aveva mossa
guerra per vendicarsi al re d’Armenia. Molti dei suoi ufficiali lo
incitavano a invadere e a conquistar la Persia, come aveva voluto
far Lucullo, e forse in principio egli stesso: ma Pompeo, che non
aveva come Lucullo un temperamento ardente e impetuoso, era ormai
divenuto troppo celelebre, troppo potente e troppo ricco. Egli
sarebbe tornato in Italia più glorioso di Lucullo, più
dovizioso di Crasso; ma la gloria e la ricchezza acquistate ne
accrescevano non l’audacia, bensì la prudenza, il timore di
guastare con una temerità il successo; onde, mutato il
contegno provocatore tenuto fino allora con il re dei Parti, disse
che bisognava essere saggi, non ambire troppo; e mandò tre
commissari a decidere le questioni tra i due re583. Intanto Scauro e
Gabinio avevano trovato una miniera d’oro, nella vicina Giudea, dove
fervea guerra civile tra due membri della famiglia reale e
sacerdotale degli Asmonei, Aristobulo e Ircanio. Ambedue si erano
rivolti ai generali romani per aiuto; e Aristobulo l’ottenne, dando
poco meno di due milioni a Scauro, di un milione e mezzo a
Gabinio584.
Le facili conquiste di paesi ricchissimi si seguivano; e nessuno
sospettava che in Crimea l’indomabile vecchio pensasse a rinnovare,
a 70 anni, dalla Crimea, l’impresa di Annibale. Mitridate reclutava
alacremente un piccolo esercito, con il quale intendeva mettersi in
cammino lungo le sponde settentrionali del Mar Nero, ingrossandolo
per via di Sarmati e di Barstarni; risalire la valle del Danubio,
raccogliendo sotto le sue bandiere le tribù celtiche;
traversare la Pannonia e piombare in Italia, alla testa di un
poderoso esercito. Egli aveva veduta, giovane, la grande rivolta
degli Italiani; e si illudeva potesse ripetersi, all’apparire di un
nuovo Annibale, come se le condizioni dell’Italia non fossero in
nulla mutate585. Ma gli Italiani ignoravano, non meno di Pompeo
andato in Siria, questo stravagante disegno; e raccoglievan sicuri
tutta la forza di attenzione e passione di cui erano capaci sopra la
lotta sociale, sempre più aspra e veemente, che si combatteva
all’ombra del colle capitolino. Crasso e Cesare, non scoraggiti
dalla caduta di Catilina, si studiavano, poichè il medio ceto
agiato non voleva muoversi, di rinfocolare il fermento demagogico
nel popolino di Roma, povero, riottoso, sempre malcontento,
potentissimo nei comizi, per la sua dimora nell’Urbe; e prima della
fine dell’anno, quando Cicerone, ancora console designato,
pregustava in immaginazione le vanitose delizie di un consolato
ammirato dai ricchi e dai nobili, corse voce che i tribuni della
plebe designati preparassero un nuovo spavento per i ricchi: una
legge agraria. Cicerone, che la timidezza, la bontà e la
vanità rendevan smanioso di piacere a tutti, anche quando un
uomo di molto minore ingegno avrebbe capito essere necessario
offender qualcuno, si presentò ai tribuni della plebe, con
l’idea di corteggiar la democrazia; disse che anch’egli desiderava
di giovare al popolo; che potevano intendersi con lui per qualche
grande legge di beneficio universale. Ma fu respinto ironicamente
dai tribuni, i quali risposero che non gli avrebbero detto nulla;
che simili leggi non erano pane per i suoi denti; che a far
approvare la loro legge, avrebbero pensato essi, senza bisogno
dell’aiuto suo586. Alla fine, sul cader di dicembre, si seppe che
cosa questa legge agraria era: era una di quelle mostruose
concezioni tiranniche e comunistiche che piacciono tanto alle
moltitudini irritate dal proprio disagio e dalla invidia delle
ricchezze altrui. La legge costituiva una specie di dittatura
economica di dieci commissari eletti dal popolo per 5 anni,
dichiarati irrevocabili, irresponsabili e superiori alla
intercessione tribunizia; i quali avrebbero potuto vendere, in
Italia e fuori, tutte le proprietà che fossero diventate
pubbliche nell’anno 88 e quelle la cui vendita era stata deliberata
dal Senato dopo l’anno 81; inquisire sulle prede fatte dai generali,
tolto Pompeo, e obbligarli a rendere quella parte che si fossero
tenuta; comprare, con il danaro ricavato a questo modo, terre in
Italia, da distribuire ai poveri587. La proposta era certamente
stata sobillata ai tribuni da Cesare e da Crasso, i quali speravano
così di suscitare una grande agitazione popolare, in mezzo
alla quale ottenere l’Egitto588. Ma anche questa volta Crasso non
ebbe fortuna. L’Italia stanca, snervata, intontita si commosse
così poco, che Cicerone potè facilmente persuadere il
popolo a respinger la legge, con tre abilissimi discorsi, in cui
ripetè più volte di parlare per il vantaggio non dei
grandi, ma del popolo, al quale, pur senza professare il suo
sviscerato amore a ogni istante, portava più amore che tanti
demagoghi.
Anche questo pericolo era passato; ma Cesare e Crasso non si diedero
ancora per vinti. I tribuni della plebe si fecero avanti quasi
tutti, uno dopo l’altro, con proposte sfacciate, che miravano ad
aizzare i rancori e le male voglie della infima plebe, a mettere
Cicerone nell’impaccio e a costringerlo a guastarsi o con i
conservatori o con il popolo. Un tribuno proponeva nientemeno che
l’abolizione dei debiti, l’altro che fosse tolta a Publio Autronio e
Publio Silla, i congiurati del 66, la pena dell’interdizione dai
pubblici uffici; un altro, che si restituisse ai figli dei
proscritti da Silla il diritto di essere eletti alle
magistrature589. Chi infondeva in questi oscuri tribuni tanta
petulanza? Ma se queste proposte erano maneggi e finte, accrescevano
però non solo la irritazione dei conservatori, ma anche il
disagio di tutte le classi590; perchè i capitalisti
spaventati si inducevano più difficilmente a prestare; il
denaro già scarso in tempi ordinari scarseggiava maggiormente
con terribile pericolo di molti debitori. Secondo il rozzo diritto
ipotecario allora vigente, se alla scadenza il debitore non pagava,
il creditore si pigliava il bene ipotecato, anche se valeva due o
tre volte la somma prestata; onde molti, che non trovavano ora nuovo
denaro a prestito per pagare gli interessi o rimborsare il capitale,
dovevano vendere, a prezzi di ribasso, terre, case, gioie, opere
d’arte; il valore delle cose rinviliva rapidamente; e ne soffrivano
tutti in misura maggiore o minore, anche i ricchi senatori, cui
veniva a mancare la facile abbondanza del credito, necessaria alla
faragginosa amministrazione dei vasti patrimoni591. Gli animi si
esasperavano; sul capo di tutti pendeva un’aria fosca da stato
d’assedio; la gente per bene e denarosa, i conservatori amanti
dell’ordine, inferociti, borbottavano a denti stretti vaghe
minaccie: succedesse qualche tumulto e si potesse pronunciare il
classico videant consules,... indire lo stato d’assedio: poi, come
ai tempi di Caio Gracco e di Saturnino, si penserebbe a dare un
esempio a tutti i sobillatori del popolo. Intanto, per sfogarsi,
avevano trovata la vittima su cui accanirsi, a cui far scontare le
colpe di tutti: Cesare! Crasso non solo poteva nascondere i maneggi
più pericolosi, ma era troppo ricco, troppo potente, troppo
temuto: i senatori e i finanzieri, non osavano neanche mormorare i
pensieri d’odio che covavano contro di lui: ma Cesare era povero,
pieno di debiti, operava alacremente in vista di tutti e non aveva
parentele potenti! È probabile che la aristocratica parentela
della moglie lo avesse già abbandonato; e quanto alla
famiglia sua, essa continuava a imbastardirsi con parvenus, per
restaurare alla meglio la cadente fortuna, rovinata interamente
dalle matte prodigalità di Caio. Così poco prima una
sua nipote aveva sposato un certo Caio Ottavio, il ricchissimo
figlio di un usuraio di Velletri, che con i denari del padre cercava
di acquistar amicizie nell’high-life romana e far carriera politica.
Cesare poteva dunque scontare il fio di ogni cosa, in luogo di
Crasso. Costui del resto non lo aveva pagato per questo? Era egli,
dicevano i conservatori, il peggior sobillatore delle plebi ignare,
che per salire e per pagare i debiti voleva sovvertire lo Stato! E
tutti ad avventarglisi contro: i senatori lo detestavano, le grandi
famiglie rompevano le relazioni con lui, molti capitalisti, per
vendetta e diffidando ormai di lui, del suo credito, del suo
avvenire, gli chiudevano le casse. Cesare, esposto all’odio dei
grandi in un momento in cui il partito conservatore riacquistava
credito nel ceto medio e nelle classi ricche spaurite, si
trovò per la prima volta in grave pericolo, costretto a
combattere la prima grande lotta della sua vita. E allora, per la
prima volta, Cesare si mostrò il singolare combattente che
egli era: nervoso, ma nè pavido nè temerario, che
vedeva i pericoli maggiori del vero e li temeva troppo, ma non si
smarriva, anzi ne era concitato a preparare, con alacrità e
rapidità meravigliose, difese molteplici, più grandi
ancora del bisogno. Investito da tanti odi, egli cercò di
rinsaldare le amicizie già strette con i capi della
democrazia, valendosi, per riescire, anche delle donne, il cui
potere cresceva nella società romana592, corteggiando,
facendo doni a Servilia, alla moglie di Crasso, alla moglie di
Pompeo, alla moglie di Gabinio, a tal segno che il pubblico
malignò fosse l’amante di tutte593: storielle probabilmente
inventate o esagerate in questi anni, salvo per la moglie di Pompeo,
dai conservatori, per nuocere a Cesare e rendere vano lo sforzo di
conservare l’amicizia dei mariti, anche per mezzo delle signore. Nel
tempo stesso tentò di spaventare i nemici, assalendoli a sua
volta, movendo contro di loro, poichè il ceto agiato era
impaurito, il popolino riottoso di Roma, ammiratore degli eroi della
rivoluzione: e scovato un vecchio senatore, Caio Rabirio, che si
diceva avesse ai tempi della sedizione di Saturnino, cioè 37
anni prima, ucciso con le sue mani il tribuno; lo fece accusare di
perduellione, per questa azione, da un certo Tito Azio Labieno,
giovane oscuro che era suo amico e tribuno della plebe; lo fece
rinviare dal pretore, che era d’accordo con lui, davanti a due
giudici, di cui uno era egli; e che lo giudicarono reo594. Ora la
pena della perduellione era la morte. L’audacia della mossa e la
sorte del disgraziato vecchio commossero il partito conservatore;
Rabirio si appellò al popolo; Cicerone ne assunse la difesa e
lo difese davvero con grande eloquenza, dicendo apertamente che si
voleva non la testa di Rabirio ma l’indebolimento delle difese
dell’ordine, per poter rovesciare più facilmente lo Stato595.
Rabirio però sarebbe stato condannato, se un senatore non
avesse mandato a vuoto l’adunanza con uno stratagemma. Cesare, che
non voleva la testa di Rabirio, lasciò in pace il vecchio,
contento di aver temperata la ammirazione dei conservatori per le
rapide procedure dello stato d’assedio, mostrando loro quanto fosse
facile eccitare contro quelle il popolino, anche dopo 37 anni.
Intanto era rimasto vacante, per la morte di Metello Pio, il
pontificato massimo; carica vitalizia, che attribuiva la direzione
suprema del culto ufficiale, una grande dignità e il
privilegio di abitare in un edificio pubblico. Silla aveva tolto al
popolo e dato al collegio dei pontefici il diritto di eleggere il
pontefice massimo; ma Cesare, che il pericolo incitava all’audacia,
concepì un ardito disegno; far ristabilire con una legge, che
Labieno proporrebbe, l’elezione popolare del pontefice massimo e
presentarsi candidato. Se egli riusciva a divenire il capo del
culto, difficilmente un console avrebbe osato travolgerlo in qualche
massacro tumultuario ordinato in seguito al videant consules. Molti
personaggi illustri, come Catulo e Publio Servilio Isaurico,
concorrevano al pontificato; e questi in principio risero quando
seppero che un uomo non ancora quarantenne, ateo, pieno di debiti,
compromesso con la più triviale demagogia, appassionato
cultore dell’astronomia di Ipparco, concorreva con loro a una carica
così solennemente conservatrice. Catulo non esitò
nemmeno a fare a Cesare una proposta insolente, che suonava come
l’oltraggio di venduto e di venale: offrirgli, denaro, perchè
abbandonasse la candidatura596. Ma Cesare si slanciò nella
mischia con impeto straordinario, sentendo di trovarsi a quel punto
critico della sua vita, in cui un rovescio anche piccolo può
essere difficilmente riparato; e avuti da Crasso denari e aiuti,
tanto disse, fece e pagò, che, mutato il modo della elezione,
fu eletto, il 6 marzo, Pontefice Massimo597. Egli aveva vinto, per
lo aiuto di Crasso e di pochi amici, restatigli fedeli nella
avversità, tra i quali era, diletta tra tutti, Servilia.
Sarà vero, come dice qualche antico scrittore, che Cesare ne
fosse l’amante?598 Ad ogni modo a Servilia lo avvincevano certamente
l’ammirazione per la intelligenza e lo spirito largo di lei, la
storia della sua famiglia, piena di guerre contro quella oligarchia
che ora lo odiava tanto, il piacere di ripigliar lena, per la lotta,
nella sua casa, tra la gioventù liberale, che la frequentava.
Ci veniva il giovane Marco Emilio Lepido, figlio del console del 78,
che era morto nella rivoluzione insieme con il primo marito di
Servilia; ci venivano tre fratelli ugualmente inclini al partito
popolare, Caio, Quinto e Lucio Cassio Longino; e in mezzo a questi
crescevano le figlie di Servilia e il figlio Bruto, che allora aveva
circa 15 anni e mostrava un carattere riservato e uno straordinario
amore degli studi. Il patrigno Decio Giunio Silano, una brava
persona, moderatamente favorevole al partito popolare, lasciava la
moglie sua far della casa, nonostante le parentele con famiglie
conservatrici, un club dell’opposizione democratica599.
XV.
CATILINA E LA GRAN LOTTA CONTRO I CAPI.
I conservatori si consolarono un poco di queste sconfitte con un
piccolo successo: facendo decretare il trionfo a Lucullo, che
finalmente potè entrare in Roma con i suoi pochi soldati. Ma
non ostante i centomila barili di vino che Lucullo distribuì
al popolo nell’occasione600, la cerimonia fu fredda; come se
tornasse un oscuro generale da qualche piccola spedizione contro i
barbari, e non colui che aveva creato il nuovo e popolarissimo
imperialismo delle immense conquiste successive, che Pompeo intanto
imitava in Oriente, acquistando grandissima gloria. La nazione
dimenticava presto chi non sapeva alimentare continuamente
l’ammirazione di sè601. Del resto poco importava ciò a
Lucullo; che disgustato e stanco ritornava, dopo tanti anni di
assenza, nella casa paterna, rassegnato a contentarsi per ricompensa
dell’ammirazione delle alte classi e delle immense ricchezze
guadagnate. Ma lo aspettava al ritorno un’altra ignominia: scoprire
che Clodia, la donna che egli aveva sposata senza dote, aveva
contratta una relazione incestuosa con suo fratello Publio Clodio,
il sobillatore delle sue legioni602. Egli dovè ripudiarla,
con orrore. Invece al fortunato Pompeo, una rivolta militare
toglieva di mezzo, in quell’anno, Mitridate. Il figlio Farnace, i
soldati, il popolo della Crimea, spaventati dal suo proposito di
invasione dell’Italia, temendo di esser tratti a perdizione dal
vecchio folle, si erano rivoltati nella primavera del 63; e
Mitridate, disperando di poter domare la rivolta, si era ucciso.
Così era finito questo re, che all’intelligenza, all’energia,
all’audacia, propria di un self made man, univa lo sconfinato
orgoglio, e l’assoluto egoismo di un monarca orientale, cui il
proprio successo è la legge suprema del mondo; e che come
Annibale si era impegnato in un duello personale contro Roma e
l’Italia. Anche questa volta però l’uomo possente ma
solitario si era, dopo i primi successi, stancato ed esausto contro
il sistema. Come Annibale non aveva potuto vincere l’aristocrazia
romana, consolidata da secoli, Mitridate non aveva potuto vincere la
democrazia italica in formazione; e invano aveva concepito l’audace
disegno di far perire Roma, attizzando intorno a tutto il
Mediterraneo e in Italia stessa il più terribile e vasto
incendio di rivoluzione, che il mondo antico avesse veduto. Il
figlio di colui che aveva sognato di dominare l’Oriente dovè
contentarsi di riconoscere, come dono romano, il piccolo regno della
Crimea. Non se ne compianga la sorte; perchè sebbene la
democrazia italiana fosse piena di vizi, lo sfrenato assolutismo e
la burocrazia mercenaria che governavano il Ponto erano ancora
peggiori. È probabile che questo vasto impero greco-asiatico
rovinasse così facilmente, perchè già disfatto
dalla corruzione burocratica, dalla abiezione dinastica, dalla
voluttuosa civiltà dell’Oriente ellenizzato, i cui vizi
incominciavano soltanto a diffondersi nella democrazia italiana: la
venalità, l’incertezza della morale sociale, l’egoismo
politico.
La notizia di questa morte fu cagione di molta letizia a Roma; e
Pompeo, cui il partito popolare attribuiva il merito di tutti gli
eventi felici, acquistò nuova gloria. Cesare gli fece
decretare a Roma solennissimi onori603. Poi le notizie dell’Oriente
ridiventarono monotone: Pompeo percorreva la Fenicia e la Celesiria,
taglieggiando i principotti604; sola gli aveva chiuse le porte la
piccola città capitale di un piccolo popolo, con cui i Romani
erano entrati in relazioni amichevoli, quasi di protettori a
distanza, fin dal 139605, che si chiamava Gerusalemme; ma si
trattava di un caso senza importanza. Era avvenuto che i due sovrani
discordi degli Ebrei, cui Scauro e Gabinio avevano già
estorto tanto denaro, erano ricorsi a Pompeo; che Pompeo, dopo aver
molto esitato, si era risoluto ad aiutare Aristobulo, per la
promessa di una forte somma; ma quando Gabinio era entrato in
Gerusalemme per riscuotere il denaro, il popolo insorto lo aveva
scacciato, e Pompeo aveva dovuto porre l’assedio606. L’attenzione
pubblica non poteva seguire con viva attenzione questa piccola
guerra, quando la lotta politica inferociva in Italia; e l’anno 63
aveva incominciato a essere per i conservatori l’anno degli
spaventi. È vero che il prudente Crasso, scoraggito e
irritato da tanti insuccessi, non intendeva quell’anno intervenire
nelle elezioni e aveva ormai rotto ogni relazione con Catilina,
senza abili indugi e trapassi, con la fretta brutale di un banchiere
che tronchi d’un colpo un affare rovinoso con un cliente povero607.
Ma all’improvviso, nella primavera, si vide arrivare a Roma, a
proporsi candidato al tribunato per l’anno 62, con un gran seguito
di schiavi liberti ed amici, con un grosso bagaglio e una lunga
carovana di muli e cavalli, che erano prova delle molte ricchezze
accumulate in Oriente, un cognato e generale di Pompeo, Quinto
Metello Nepote608. Metello apparteneva ad una delle famiglie
più nobili di Roma, era figlio del Console del 98, nipote del
conquistatore delle Baleari, bisnipote del Macedonico609; ma come
tanti altri del suo ceto si era messo al seguito di Pompeo fra i
popolari per ambizione, per cupidigia, per fretta di riuscire e
spirito di rivolta. Era evidente: Metello non avrebbe lasciato il
proficuo comando nell’esercito di Pompeo, se non d’accordo con
Pompeo, per qualche segreto scopo di costui. Questa candidatura
inquietò tanto i conservatori, che si indusse Catone a porre
la candidatura sua per il tribunato accanto a quella di Metello.
Catone era quello stravagante che abbiamo visto protestare contro la
eleganza dei suoi coetanei; uomo di pochi bisogni, casto, sobrio,
angusto di idee, il cui orgoglio, unica ma tenace passione della sua
anima semplice, si compiaceva soltanto nella ostinazione di vivere
come un romano antico, in quella età piena di vizi e
disordine. Solo uno stravagante intrepido come costui avrebbe osato
di porre, essendo uno dei conservatori più intransigenti, la
candidatura a una carica così popolare. Ma sarebbe egli
riesci to? Frattanto ecco Cesare annunzia la sua candidatura alla
pretura, per l’anno 62. Due spaventi: ai quali si aggiunse un terzo
di lì a poco, e maggiore di tutti.
Ben presto si seppe infatti che l’orgoglioso e violento Catilina
ritenterebbe la prova del consolato, con estrema energia, a costo di
consumare tutta la fortuna fatta rubando in Africa. Abbandonato da
Crasso, Catilina, che la vita avventurosa e disordinata di nobile
decaduto, le dicerie e gli scandali seguiti alla prima e alla
seconda candidatura avevano messo in sospetto presso i conservatori
e avvicinato al partito popolare, capì che doveva aiutarsi da
sè, se voleva riuscire; e non solo cercò amici e
fautori nelle signore indebitate e corrotte, nei giovani nobili
dissipatori; ma volle procurarsi una grande popolarità nel
medio ceto e nella plebe di tutta Italia, agitando con veemenza, per
programma elettorale, in quella Italia indebitata, la questione
dell’abolizione dei debiti610. Il programma era arditamente
rivoluzionario; ma non bisogna per questo credere che Catilina
tramasse nemmeno allora una insurrezione armata, quando egli mirava
solo a muovere le moltitudini con una proposta, che pareva
scellerata ai capitalisti e ai creditori, ma alla quale invece gli
spiriti del maggior numero non erano impreparati; e salva la forma
più brutale, non si diportava in modo diverso da un deputato
socialista il quale promettesse oggi ai suoi elettori la riduzione
al 2% della rendita o come il candidato democratico nelle penultime
elezioni presidenziali degli Stati Uniti, il Bryan, il quale voleva
si permettesse che i debiti contratti in oro fossero pagati in
argento. Le riduzioni, i condoni, le abolizioni dei debiti erano
frequenti nella storia greca, allora tanto studiata, e nella romana,
dai tempi più antichi sino all’ultima, deliberata nell’86: e
sono del resto un espediente a cui si tenta di ricorrere
periodicamente, da tutti i popoli, allorchè la civiltà
progredisce rapidamente e molti si indebitano per la fretta di
godere e di arricchire.
Un’annata con Metello Nepote tribuno della plebe, Cesare pretore e
Catilina console: che cosa sarebbe restato della repubblica dopo, –
domandavano i conservatori sgomenti – se non un mucchio di rovine e
di macerie? Ma lo spavento fu ancora accresciuto dal rapido successo
del programma di Catilina. Questa audace proposta rivoluzionaria
esprimeva così bene il segreto desiderio di tanti, che
Catilina divenne in un baleno popolarissimo, tra la gioventù
dissipatrice e la nobiltà decaduta di Roma; nel popolino di
tutta Italia; anche in quel medio ceto di agiati possidenti che per
la smania di speculare si era troppo aggravato di debiti611;
cosicchè ben presto a Roma e in molte città d’Italia
egli ebbe fautori zelanti: antichi soldati e coloni di Silla, come
Caio Manlio di Fiesole, oscuri borghesi, agiati possidenti delle
città secondarie612; nobili bisognosi a Roma, come Publio
Lentulo Sura, Caio Cetego, Publio Silla, Marco Porcio Leca; e
Sempronia, elegante dama indebitatissima e moglie di Decimo Bruto,
che era stato console nel 77613.
Così la gioventù frivola e spensierata, gli avanzi
dell’antica nobiltà decaduta, la media borghesia preparavano
l’espropriazione dei ricchi capitalisti, illudendosi di poter
ciò fare comodamente con leggi, pacificamente approvate da
maggioranze numeriche nei comizi. Ma l’illusione fu breve. I ricchi
capitalisti, che in principio avevano considerato la agitazione con
il consueto disprezzo per tutti i maneggi dei partiti politici,
furon presi da viva inquietudine, quando videro Catilina così
popolare; e in pochi giorni l’inquietudine diventò ansia,
spavento, panico folle, per una di quelle violente e subitanee
concitazioni di spiriti, che, in quella età nervosa,
scoppiavano di tempo in tempo come tempeste improvvise, e,
raddoppiando di furore di minuto in minuto, travolgevano tutto.
Nessun banchiere volle prestare più; il denaro rincarì
spaventosamente; i fallimenti dei debitori si moltiplicarono614;
tutta l’alta finanza, di solito così scettica politicamente,
si convertì in un baleno, sgomenta, alle idee più
ciecamente conservatrici. Per loro fortuna non tutta la
nobiltà si era voltata contro i re del denaro e i rimestatori
di milioni, che le avevano tolta tanta parte dell’antico potere; ma
la sua parte migliore, le famiglie che godevano ancora di larga
considerazione e fortuna, erano pronte ad aiutare l’alta finanza che
pure spregiavano; più che per interesse, per odio alla
democrazia e per la speranza di confondere il partito popolare.
Catilina voleva sovvertire – così dicevano e pensavano
costoro, – non solo le leggi dei debiti e dei crediti, ma tutto lo
Stato, tanto era cresciuta l’audacia dei demagoghi, nella noncuranza
universale per il disordine che essi, i rampognatori inascoltati,
venivan denunciando da anni.... Alleatisi così, per paura,
gli avanzi migliori dell’aristocrazia storica e la plutocrazia, il
partito conservatore si atteggiò d’improvviso alla minaccia e
alla lotta, risoluto, iroso, violento come da un pezzo non si
mostrava; sconcertando a un tratto la facile e prospera propaganda
del programma catilinario, sconvolgendo le disposizioni, le
intenzioni, il contegno degli altri partiti, delle classi, dei
politicians. La pacifica borghesia italiana, che in principio aveva
accolto con tanto favore il programma, fu intimidita; Crasso si
spaventò; Cesare si trasse in disparte, come chi vuole
osservare, imparziale. La nervosa indole di Cesare era una strana
oscillazione ritmica di temerità e di prudenza, per la quale
poco dopo aver compiuta, stimolato dalla passione o dal pericolo,
una audacia, egli ridiventava prudente, anche se l’audacia riusciva,
per prorompere poi, al primo stimolo, in una nuova audacia.
Così egli aveva provocato giovanissimo Silla e poi era
restato queto e lontano sino alla sua morte; aveva rifiutato di
partecipare alla insurrezione di Lepido e poi aveva audacemente
accusato Dolabella e Antonio; aveva di nuovo abbandonato Roma, ma a
Rodi aveva reclutato per suo conto una milizia, nella guerra
mitridatica. Dopo aver tanto combattuto, nei due anni precedenti, i
conservatori, dopo essersi proposto a pontefice massimo, contro
Catulo e Servilio, egli sentiva allora, in uno dei suoi periodici
ritorni di prudenza, di aver già troppo osato; e non volle
arrischiarsi in questa nuova avventura, badando solo a riuscir
pretore615. Invece Cicerone che, già amico di molti
capitalisti, ambiva di entrare nelle grazie della nobiltà
storica, incoraggiato dal sentimento predominante nelle alte classi,
diventò ardito ed energico, e si oppose alla democrazia,
risolutamente questa volta e a viso aperto: incominciò a
comprare la neutralità del collega nelle elezioni future,
cedendogli la provincia di Macedonia toccata a lui; formò il
disegno di una legge che inasprisse la pena della corruzione per i
senatori e commutasse il modo di votazione in maniera nociva a
Catilina; incaricò di studiarla nei particolari un illustre
giureconsulto, Servio Sulpicio616. Intanto, avvicinandosi il mese di
luglio, il lavorio elettorale incominciava, ma in mezzo a una grande
incertezza di tutti; adiratissimi i conservatori, esitante il medio
ceto, discordi i popolari. Per il consolato si presentavano, oltre
Catilina, tre candidati: Servio Sulpicio, il giureconsulto che aveva
preparata la legge elettorale; Lucio Licinio Murena, l’ex-generale
di Lucullo, e Decimo Giunio Silano, il marito di Servilia: e tra
questi Crasso pare lavorasse per Murena, Cesare certo dava aiuto a
Silano, come Catone a Sulpicio; mentre Catilina si aiutava da solo.
Ben presto girarono voci inquietanti: che Catilina avrebbe fatto
venire per le elezioni i veterani di Silla dalla Toscana, che questi
erano risoluti a tutto, che Cicerone sarebbe stato ammazzato617.
Catilina si era risoluto davvero a far venire bande di contadini da
Arezzo e da Fiesole, per aumentare il numero dei votanti per lui, e
quindi le dicerie contenevano una parte di vero; ma poi ingrossavano
per via, come avviene quando gli spiriti sono commossi,
perchè ognuno che racconta ha bisogno di fare impressione
sulla persona a cui parla, esagera quello che ha saputo, afferma per
cosa veduta quella che gli fu raccontata, aggiunge del proprio,
inventando, sinchè passando la voce tra mille e mille
persone, una piccola supposizione diventa in poche ore una storia
lunga e piena di particolari. Roma era piena di persone che avevano
udito, che avevano visto, che avevano saputo e che avevano bisogno
di raccontare a tutti le cose udite o sapute; molti correvano a
riferirle ai magistrati, per un improvviso furore epidemico di zelo
civico, per darsi importanza, per partecipare alla commozione
pubblica, non come spettatori ma come attori618. Nel mondo politico
queste dicerie erano molto discusse e giudicate diversamente; i
conservatori arrabbiati non solo le affermavano con piena sicurezza,
ma volevano costringer tutti a crederci, denunziando come
complicità ogni dubbio, un poco per malafede ed odio di
parte, ma un poco credendoci davvero; i popolari invece, anche in
Senato, dicevano che erano tutte frottole ed invenzioni619. Intanto
le elezioni si avvicinavano, l’agitazione elettorale cresceva; l’oro
cominciava ad essere profuso, da Cesare, da Metello, da Catilina e
da Murena, che ne aveva guadagnato molto in Oriente; torme di
contadini e possidenti, chiamati da Catilina, entravano ogni giorno
nell’Urbe; i conservatori e i capitalisti si adoperavano con tutte
le forze contro Catilina; le dicerie incalzavano, sempre più
minacciose: in Etruria si faceva, per conto di Catilina, una leva di
soldati e si minacciava un’insurrezione come quella di Lepido;
Catilina voleva trucidare il Senato620.
Le previsioni diventavano sempre più incerte ed ansiose:
queste dicerie paurose, la violenta opposizione dei conservatori, la
acutissima crisi finanziaria avevano spaventato la classe media
possidente; ma Catilina agitava con straordinaria energia il
popolino riottoso e disperato di Roma, chiamava a Roma il
proletariato d’Italia. I capitalisti e i conservatori, sempre
più esasperati e tetri, ripetevano da mattina a sera che la
Repubblica era minacciata da un vasto complotto, ordito non solo da
Catilina, ma da Cesare e da tutto il partito popolare; gli
arrabbiati incominciavano a domandare provvedimenti energici.
Cicerone, pieno di alacrità e di zelo, riscaldandosi sempre
più nell’azione, aveva messo una spia ai fianchi di Catilina,
Quinto Curio, un giovinastro ciarliero, che raccontava ogni detto e
ogni fatto di Catilina alla sua amante Fulvia, donna di nascita non
oscura ma corrottissima, la quale gli riferiva poi tutto; ascoltava
pareri, inquisiva, riceveva a ogni ora le spie di mestiere e le spie
per diletto; ma non era acciecato a segno da non vedere come a
queste dicerie corrispondessero soltanto sospetti e presunzioni, non
fatti, che bastassero a far prendere gravi misure621. A un tratto
però un incidente impensato complicò ancora le cose
già tanto arruffate. Servio Sulpicio, il giureconsulto, si
era messo a sollecitare il consolato, rispettando la legge contro la
corruzione fatta da lui, senza spendere un soldo; ma ben presto si
accorse che nessuno lo prendeva sul serio, mentre gli altri
candidati e specialmente Murena profondevano l’oro, quasichè
la legge sua fosse stata scritta per burla. Sdegnato, Servio, nel
bel mezzo dell’agitazione elettorale, dichiarò a un tratto di
ritrarsi e di querelare Murena per corruzione; e si mise infatti a
raccogliere le prove, aiutato da Catone, anch’egli sdegnato si
abbandonasse così il migliore dei candidati conservatori622.
Questo scandalo, alla vigilia delle elezioni, scompigliò i
conservatori e accrebbe l’audacia di Catilina, il quale in quei
giorni, sempre più sperando la vittoria dall’infima plebe,
tenne un gran discorso ai suoi elettori, dicendo loro che i miseri
non dovevano sperare che i ricchi e i felici pensassero alla sorte
loro623. Per fortuna dei conservatori, Cicerone che corteggiato,
lusingato, adulato dai grandi, era ormai tutto dedito a loro, non si
smarrì; non solo accettò il patrocinio di Murena e si
diede a preparargli, in mezzo a tante brighe, una abilissima difesa;
ma, aiutato da Catone, che quasi a ogni seduta del Senato assaliva
Catilina con accuse di corruzioni e con minaccie di processi624,
incominciò una abile strategia per chiudere lui e le sue
bande in un cerchio di diffidenze e di sospetti, per alienare da lui
il medio ceto, accreditando le dicerie che Catilina volesse
ammazzare il console e conquistare il consolato come una fortezza,
con le armi. Non è improbabile che questi campagnuoli fatti
venire da Catilina, molti dei quali erano condotti da antichi
soldati di Silla, gozzovigliando nelle taverne di Roma con i denari
di Catilina, tenessero discorsi imprudenti; non è improbabile
che Manlio, il vecchio soldato di Silla, deridesse già allora
gli scrupoli legalitari con cui l’agitazione per l’abolizione dei
debiti era incominciata, tra i giovani di questa generazione
leggiera e pavida: egli, l’avanzo di una generazione rivoluzionaria,
sapeva che la liberazione dei debiti non si poteva conseguire che
con la spada. Ma il pubblico frivolo, scettico, leggero, sempre
disposto a sospettare il governo e a dar ragione ai suoi nemici,
avrebbe credute queste dicerie, e se ne sarebbe sdegnato, quanto
bastava a rovinare la candidatura di Catilina? Bisognava far qualche
cosa, per impressionare il pubblico e spaventarlo, nell’imminenza
della elezione. Cicerone si assunse di tentare una abile astuzia: il
giorno prima convocò d’improvviso il Senato e con una certa
solennità propose che si rimandasse l’elezione di alcuni
giorni, per trattare nel dì seguente della pericolosa
condizione in cui versava lo Stato; e il giorno dopo raccontò
con grande enfasi tutte le dicerie che correvano sui propositi di
Catilina, e quasi intimò a costui di scolparsi, sperando ne
nascesse qualche scandalo. Ma Catilina rispose con insolenza, che
egli intendeva di essere il capo del solo corpo vigoroso che fosse
ancora nello Stato: il popolo625. Era stato conseguito l’intento, a
cui era ordinata questa scena? Ma sarebbe stato pericoloso differire
ancora le elezioni; e queste ebbero luogo negli ultimi giorni di
luglio o nei primi di agosto626. Cicerone andò a presiedere i
comizi accompagnato da una guardia di amici, con la corazza che egli
lasciava luccicare di tempo in tempo, aprendo la toga, per
spaventare gli incerti e i timidi dal votar Catilina; tutti i
conservatori e i capitalisti vennero a votare, con atteggiamento di
ansia e di risolutezza, come se in quella elezione si decidesse la
guerra. Il pubblico, già avvilito dalla crisi finanziaria, e
nel quale del resto la agitazione catilinaria, non ostante
l’entusiasmo del principio, non aveva vinto lo snervamento contro
cui si erano affaticati invano Cesare e Crasso, fu impressionato da
queste ostentazioni; onde Catilina, nemmeno questa volta, non
ostante i voti del popolino, fu eletto. Cesare invece fu eletto
pretore, Metello tribuno, ma insieme con Catone.
Restava a Catilina ancora una speranza: che Murena fosse condannato
nel processo intentato da Sulpicio. Allora sarebbe stato necessario
rifar l’elezione. Ma Murena, difeso eloquentemente da Cicerone, con
un discorso che noi possediamo, fu assolto. Ormai, dopo tre
insuccessi, non gli restava altro consiglio che deporre il pensiero
del consolato e sparire a vita privata. Ma il violento ed orgoglioso
Catilina non era uomo di rassegnazione; ma i conservatori e i
capitalisti eran nemici da rappresaglie, che non avrebbero
tralasciato di trarre vendetta dell’immenso spavento avuto.
Esasperato dalla caduta ed inquieto per l’avvenire, Catilina perde
la calma, e prese, nel furore, una risoluzione temeraria: diede a
Manlio, che ritornava in Toscana, denaro e l’incarico di reclutare
tra i miserabili un piccolo esercito; e persuase i più
disperati dei suoi partigiani a tentare una audace sorpresa,
uccidendo Cicerone e occupando con la forza il consolato, quando
l’esercito di Manlio fosse pronto627. A preparare questo tentativo
furono consumati l’agosto e il settembre; ma non fu possibile tenere
per tanto tempo ogni preparativo così nascosto, che dicerie
paurose di prossima rivoluzione non tornassero a girare. Ben presto
la breve pace succeduta alle elezioni fu nuovamente turbata da
spaventi subitanei di vaghe voci; e Cicerone incominciò ad
essere tempestato di denuncie dai conservatori, di avvisi, di
esortazioni sempre più vive a vegliare.... Cicerone
ricominciò la sua vigile alacrità, pur proponendosi di
non precipitare a deliberazioni affrettate: ma i conservatori
più violenti volevano ormai lo stato d’assedio, per paura e
per vendetta; e incalzavano, a mano a mano che le dicerie
ingrossavano, sinchè Cicerone, che sino allora aveva esitato,
impressionato alla fine da tanta agitazione delle alte classi e
anche dal pericolo che egli stesso pareva correre, incitato da tutti
a far presto, si risolvè alla fine a convocare il Senato per
il 21 ottobre, e ad affermare, come fatti veri, i quali risultassero
a lui Console da informazioni sicure, le più gravi delle
dicerie che correvano, per indurre il Senato a dichiarar lo stato
d’assedio. Infatti nella seduta del 21, a cui anche Catilina venne
spavaldamente, egli affermò di “sapere tutto” cioè di
possedere le prove sicure delle più gravi dicerie che
correvano e la cui verità non gli risultava affatto628; tra
le altre, che il 27 ottobre Caio Manlio avrebbe prese le armi in
Etruria alla testa di un esercito, e che per il 28 Catilina aveva
ordito una strage di senatori629. Catilina, invitato dal Console a
scolparsi, rispose con molta insolenza; ma il Senato, convinto dalle
esplicite dichiarazioni di Cicerone (nessuno pensò che egli
avrebbe affermato cose sì gravi, senza prove sicure) non
osò più indugiare ancora a dichiarar lo stato
d’assedio630.
Grande fu la commozione di Roma per questa notizia. I ricordi del
passato, dai quali gli uomini si ostinano sempre, per lunghi anni, a
giudicare il presente, si levarono ad un tratto nella memoria di
tutti; tutti pensarono di rivedere, come ai tempi dei Gracchi e di
Saturnino, una adunata di senatori e di cavalieri in armi, una
strage di popolari. Cesare dovè passare qualche ora
terribilmente ansiosa! Invece non successe nulla; dei presidî
furono messi in varii quartieri della città; ma i senatori se
ne tornarono a casa tranquillamente, molto commossi per le notizie,
per la seduta e per la deliberazione. I tempi erano mutati; perduta
l’audacia impulsiva e la irruenza collerica delle età
più barbare, gli uomini erano diventati, come in tutte le
civiltà troppo ricche e voluttuose, meno arditi ad affrontare
i rischi e più lenti all’azione, per paura, per dolcezza, per
scrupolo. Alcuni più arditi affermarono ancora che Cicerone
aveva mentito631; molti pensarono che il partito popolare, passata
la paura, avrebbe vendicato i suoi capi uccisi; molti avevano
consentito lo stato d’assedio per debolezza, ma non erano persuasi
che il pericolo fosse poi così grande; molti anche erano
trattenuti da scrupoli morali, legali e costituzionali. Del resto
sulla nazione più nervosa e sensitiva la minaccia era
efficace, come nei tempi più barbari la stessa violenza;
cosicchè per il momento, oltre la vaga minaccia della legge
marziale, il partito conservatore si restrinse a far intentare un
processo per violenze, contro Catilina da un giovane, Lucio Emilio
Lepido, un altro figlio del capo della rivoluzione del 78, ma che
seguiva la parte aristocratica. L’agitazione però cresceva in
Roma, le dicerie paurose si incalzavano sempre più grosse
come le onde sul mare; e tutti i personaggi potenti ricevevano
avvisi, denuncie, lettere anonime, contenenti rivelazioni. Cicerone,
che certo era molto inquieto in quei giorni, sapendo che, se una
parte almeno delle affermazioni fatte in Senato non fosse vera, egli
avrebbe pagato più caro degli altri il fio di quella
menzogna, incominciò a rassicurarsi il giorno in cui Crasso
stesso venne a portargli un fascio di lettere anonime e di denuncie
ricevute632. Anche il potente banchiere, che le minaccie di
rivoluzione proletaria inquietavano, credeva dunque vero il pericolo
di una rivoluzione! Ma Catilina, un poco disanimato dalle minaccie
che si appuntavano contro di lui, da ogni parte, tentò di
eludere gli odî dei suoi nemici, e in ogni caso di guadagnar
tempo, mostrandosi alieno da propositi di violenza; e si
presentò alla casa di M. Lepido domandando di esservi
accolto, per dimostrare che egli non temeva di vivere sotto la
vigilanza quotidiana di un uomo autorevole, tanto si sentiva
innocente: non avendo Lepido acconsentito a far il suo carceriere
fiduciario, con un’audacia maggiore, andò da Cicerone a
offrirgli di abitare in casa sua; respinto anche da Cicerone,
trovò un Marco Marcello, che lo accolse633.
Il pubblico imparziale esitava, disorientato da queste manovre. A
chi credere? A Cicerone o a Catilina? Cicerone era un uomo illustre
e dabbene: ma era pur singolare che, dopo aver annunciata una
rivoluzione, non facesse nulla contro colui che egli stesso aveva
indicato come capo. Catilina era un uomo audace; ma poteva egli
essere sfrontato a segno, da domandar alloggio in casa del Console
accusatore, mentre preparava la rivoluzione! Di tempo in tempo la
mareggiata delle dicerie era rotta da pause, in cui il sospetto che
Cicerone avesse inventato ogni cosa si allargava, per poi sparire
sotto un’onda di nuove notizie paurose. Fortunatamente per Cicerone,
dopo qualche giorno venne la notizia ufficiale che Manlio era
apparso in Etruria apertamente, alla testa di un piccolo
esercito634; e di lì a poco giunsero lettere di Manlio stesso
a Quinto Marcio, nelle quali dichiarava che egli e i suoi
insorgevano non potendo più tollerare i debiti da cui erano
oppressi635. Catilina era uno scellerato: e Cicerone un cittadino
esemplare! Il pubblico si commosse; i conservatori proruppero: non
c’era tempo da perdere, bisognava agire con vigore! In Senato tutti
furono travolti, e, dopo tanto esitare, precipitarono a
deliberazioni severissime, come se tutta Italia insorgesse: si
promisero premi a chi darebbe notizie sul complotto; si mandò
Quinto Metello che aspettava ancora il trionfo per la conquista di
Creta, in Puglia, Quinto Marcio in Toscana, Quinto Pompeo Rufo in
Campania, Quinto Metello Celere nel Piceno636. Cicerone, con sua
meraviglia e letizia, si vide da un giorno all’altro ammirato da
tutti come un portento di energia e di doppia vista nel vigilare lo
Stato: ma non per questo osò ancora procedere contro
Catilina. Catilina invece, fallita la sua audace manovra elusoria, e
sentendo le simpatie degli ultimi amici venirgli meno dintorno, gli
odî dei nemici tenderglisi contro più feroci, pare per
un momento pensasse di impadronirsi, al 1.° novembre, della
fortezza di Preneste637; ma fallitogli anche questo disegno per la
vigilanza di Cicerone, ruppe gli indugi: deluse la sorveglianza del
suo ospite, raccolse nella notte dal 6 al 7 novembre638 in casa di
Leca i suoi fedeli più compromessi, dimostrò loro la
necessità di promuovere una vasta insurrezione in tutta
Italia che aiutasse la offensiva di Manlio; ne abbozzò un
piano, che incominciava con l’assassinio di Cicerone, il quale,
ammirato dagli altri come un meraviglioso difensore dell’ordine, era
temuto dagli amici di Catilina come il più terribile loro
nemico, vivo il quale, essi non potrebbero fare nulla639. Due
cavalieri presenti acconsentirono ad andar la mattina dopo a salutar
Cicerone, e ad ucciderlo; ma la solita spia subito avvertì il
Console, che diede ordine ai servi di non lasciar passare i sicari,
e convocò d’urgenza, per il giorno dopo, il 7 novembre, il
Senato. Catilina, audace sino all’ultimo, intervenne; ma si vide, al
suo entrar nella sala, sfuggito da tutti, lasciato solo sul suo
banco; e quando Cicerone, incoraggiato da questo contegno, ebbe
inveito contro di lui, con un discorso violentissimo,
entusiasticamente applaudito, Catilina si levò,
pronunciò poche parole di minaccia ed uscì. La sera
egli partiva per la Toscana, ma liberamente e con numeroso seguito.
Cicerone non aveva osato di trattenerlo.
Cicerone si persuase facilmente che questa fuga era una grande
vittoria sua. Alcuni conservatori arrabbiati protestarono – è
vero – che il console avrebbe dovuto far prendere e uccidere
Catilina, non lasciarlo tranquillamente uscire dalla città
per recarsi alla guerra; mentre pochi affermavano ancora che si era
calunniato Catilina640. Ma Cicerone non si affliggeva molto di
queste critiche, ora che era divenuto, in poche settimane, l’uomo
più popolare di Roma dopo Pompeo, oscurando Cesare e Crasso,
i quali parevano caduti a un tratto nella più grande
indifferenza pubblica; e raddoppiando di zelo ben presto potè
illudersi di dover affrontare da solo un cimento ancor più
terribile per la patria. I più compromessi dei partigiani di
Catilina, Lentulo, Cetego, Statilio, Cepario, quando Catilina, che
era il solo uomo intelligente tra loro, fu partito, perdettero la
testa; e sentendosi in pericolo, vedendo disperdersi, fingere di non
riconoscerli, tutti coloro che li avevano incoraggiati nei bei tempi
in cui si sperava una facile abolizione dei debiti, si diedero a
ordire una sciocca cospirazione in fretta e furia, sul disegno
abbozzato da Catilina, per sollevare il popolino e gli schiavi e
accrescere la confusione di Roma, appiccando qua e là qualche
incendio, quando Catilina si sarebbe avvicinato a Roma, con
l’esercito. Erano vane farneticazioni di gente che aveva perduto
siffattamente il senno per la paura, da aprir perfino trattative con
certi ambasciatori Allobrogi, venuti a Roma a portar lagni al
Senato, affinchè procurassero loro aiuti di soldati e
cavalleria per l’insurrezione. Ma gli Allobrogi li venderono; le
prove scritte dell’alto tradimento vennero facilmente nelle mani di
Cicerone, il quale abilmente, con gran prestezza, fece la mattina
del 3 dicembre imprigionare e condurre i principali congiurati
davanti al Senato, dove mostrò loro le lettere date agli
ambasciatori per i capi Allobrogi e li pose a confronto con questi.
Sorpresi e confusi, confessarono tutti. In un baleno, la voce di
questa scoperta si divulgò, si ingrandì,
spaventò tutta Roma: era stata fatta una immensa congiura per
bruciare la città e lanciare i Galli sull’Italia! La nervosa
metropoli allibì; non solo i ricchi capitalisti e i nobili,
ma tutti coloro che avevano qualche cosa, la media borghesia degli
appaltatori, dei mercanti, dei bottegai, si spaventarono e si
sdegnarono, come nella imminenza di un pericolo supremo; il pubblico
che Cesare e Crasso avevano tentato invano di muovere, si commosse,
ma ben diversamente che nel 70, in favore questa volta del partito
conservatore e così violentemente, che anche i capi del
partito popolare e il turbolento popolino, sempre fautore dei
demagoghi, ne furono sgomenti. Da tutte le parti una gran folla
ansiosa trasse verso il Senato, per aver notizie; e quando, finito
l’interrogatorio, Cicerone comparve, dovè raccontar tutto e
fu fatto segno a una grande ovazione. Scese su Roma una notte
insonne, in cui tutti si cercavano, si consultavano, si preparavano,
come a un cimento supremo per il giorno dopo: i conservatori,
esasperati e gioiosi nel tempo stesso, protestavano che bisognava
smettere alla fine le compiacenti debolezze verso il partito
popolare, colpire non solo i complici di Catilina, ma tutti i capi
del partito popolare e specialmente Cesare; i capitalisti, il medio
ceto, invasati da uno zelo civico contagioso, si disponevano a
uscire il giorno dopo armati, per mantenere nell’ordine i
facinorosi; da ogni parte si domandava un esempio con tanto furore,
che diversi padri, i cui figli si erano compromessi nell’agitazione
catilinaria, si ricordarono che, secondo l’antico diritto, essi
erano i giudici dei figli e li fecero uccidere dagli schiavi. Il
giorno dopo il Senato si radunò per udire altri testimoni e
continuar l’inchiesta; ma gli spiriti erano profondamente turbati; i
capi del partito conservatore, e specialmente Catulo, cominciarono a
tentar malignamente i congiurati con domande capziose, per far loro
confessare che anche Cesare era consapevole del complotto; un
delatore, certo per giovare ai congiurati, affermò che Crasso
era complice, ma il Senato troncò con violenti romori questa
accusa; voci minacciose arrivavano, che il popolino insorgerebbe per
liberare i prigionieri. Tutti avevano perduta la testa, fuori che
due uomini: Cicerone e Cesare. Cicerone davanti alla straordinaria
esaltazione del popolo, si spaventò, sentì svanire per
incanto quella ebbrezza in cui viveva da un mese; e ritornando per
un momento nella timidezza e quindi nella saggezza a lui naturale,
intravide i pericoli di una difesa troppo rivoluzionaria
dell’ordine641; ma non seppe o non potè prendere una
deliberazione così prudente quanto erano savi questi timori;
e spaventato da tante dicerie deliberò di troncar subito
tutto, facendo decidere il giorno dopo, il 5 dicembre, la sorte dei
congiurati. Cesare invece capì che se il giorno dopo avesse
taciuto, sarebbe stato in seguito accusato di viltà; ma che a
difendere gli imputati poteva, in tanto eccitamento, incoraggiare i
suoi nemici a tentare qualche violenza contro di lui. Quando il 5
dicembre il Senato si radunò, tra l’agitazione della immensa
folla che gremiva il fôro, i templi e tutte le vie adiacenti,
Silano interrogato per primo propose la morte, e molti altri
assentirono; ma allorchè venne la sua volta di parlare,
Cesare, dopo aver giudicato severissimamente il delitto degli
accusati, dimostrò che la pena di morte sarebbe stata
illegale e pericolosa, proponendo invece il confino a vita e la
confisca. Il discorso abilissimo ed efficacissimo piegò molte
menti; l’assemblea parve esitare; Cicerone parlò
ambiguamente, lasciando intendere che inclinava al parere di
Cesare642; ma Catone si levò a contradire Cesare con tanta
veemenza e così ostinatamente e fieramente sostenne doversi
restaurare la reverenza della autorità con una condanna a
morte, tutti erano così intimiditi dalla esaltazione delle
alte classi, che di nuovo il partito del patibolo prevalse e la
morte fu decretata. Cicerone dovea subito mettersi in giro per Roma
e andare a prendere nelle case private, in cui erano stati posti a
custodia, gli imputati per condurli al carcere Mamertino, dove gli
schiavi che facevano i carnefici li avrebbe strozzati: ma i
conservatori intransigenti proposero allora al Senato di
accompagnare Cicerone solennemente in questo giro funereo nella
città e sino al carcere, per fare una solenne dimostrazione
autoritaria in mezzo al popolino riottoso della metropoli, che era
tutto moralmente complice della rivolta.
Quasi tutti andarono, tolti pochi, come Cesare, il quale però
all’uscir dal Senato fu minacciato con le spade da un gruppo di
capitalisti. Roma vide passare questo strano e solenne corteo del
carnefice, composto di tutta la nobiltà senatoria, dei ricchi
finanzieri, degli agiati mercanti rappacificati per un momento e
condotti dal console, il quale, compiuta la esecuzione,
tornò, a casa accompagnato da un gran seguito, tra applausi
ed ovazioni entusiastiche. Giustizia era fatta; e Catilina, con le
poche migliaia di uomini che aveva potuto armare fu facilmente vinto
e ucciso, dopo qualche settimana, presso Pistoia. Cicerone si
illudeva di aver egli con le energiche misure compresso il vasto
impeto rivoluzionario che agitava l’Italia, e veramente aveva
mostrato molta capacità e molta energia, in queste torbide
giornate; perchè la approvazione e l’ammirazione concordi
della alta borghesia denarosa e dell’aristocrazia, l’esaltazione del
pericolo, il successo avevano infuso nelle sue vene un coraggio e
una energia insolita, così da farlo apparire quasi un altro
uomo da quello che egli era. Ma in verità questo grande
pericolo pubblico era venuto meno rapidamente, perchè
l’Italia non era stata mai disposta ad insorgere. L’Italia aveva
favorito il movimento politico per l’abolizione dei debiti con cui
Catilina aveva cominciato, credendolo facile e non violento; ma
quando, a poco a poco, una piccola congiura rivoluzionaria si era
formata entro a questa agitazione politica, per un seguito quasi
fatale di eventi più che per un perseverante e chiaro
proposito di pochi capi, essa aveva abbandonata e detestata
l’impresa. La generazione rivoluzionaria della guerra sociale e
civile, di Saturnino, di Mario, di Silla, di Carbone, di Sertorio
era sparita; e nella nuova generazione era avvenuto in misura
più piccola lo stesso mutamento dell’Europa rivoluzionaria
del secolo XIX dopo il 1870: l’accrescimento della ricchezza, del
benessere, dei godimenti, della cultura nelle moltitudini; il
raffinamento della vita cittadina; la formazione di una numerosa
borghesia agiata; la diffusione di un tenor di vita comodo e largo
facevano la popolazione più pavida, più timida,
più irresoluta, più desiderosa di ordine e pace. La
media borghesia delle diverse città d’Italia, mercantile,
speculatrice, avida di civiltà, di godimenti, di ricchezze,
che possedeva campi, case, schiavi, che trafficava, appaltava, si
ingegnava in tutte le maniere per arricchire, avrebbe sì
volentieri tralasciato di pagare i suoi numerosi debiti, se una
comoda legge l’avesse dispensata da questo fastidioso dovere; ma non
arrischiati i beni, la speranza dei godimenti futuri, la vita in una
rivoluzione. I possidenti diventavano in special modo nemici delle
guerre civili, perchè essi coltivavano dovunque vigne,
oliveti, alberi, che non portano frutto se non dopo anni di
crescita, e la cui distruzione nelle guerre è un danno
infinitamente maggiore che la distruzione delle messi, seminate,
raccolte, consumate da un anno all’altro.
XVI.
LA PRESA DI GERUSALEMME.
Intanto Pompeo e i suoi ufficiali avevano potuto osservare, durante
l’assedio della piccola capitale del piccolo popolo ebreo, un
seguito di fatti strani ed insoliti. La città, di cui Ircano
aveva aperte le porte, era stata presa facilmente; ma una parte del
popolo si era rifugiata e si difendeva disperatamente nel tempio,
edificato sopra una collina dominante la città e munito come
una fortezza da alte mura. Pompeo aveva dovuto far venire un parco
d’assedio da Tiro; far montare e mettere a posto le macchine, sotto
i colpi degli Ebrei che saettavano e lapidavano con accanimento i
soldati; disporsi a un lungo e faticoso assedio. Ben presto
però i Romani osservarono un fatto singolare: periodicamente,
un giorno ogni sette, gli assediati, come colpiti da stupore, li
lasciavano lavorare intorno alle macchine senza più lanciar
pietre e dardi. Pompeo interrogò Ircano; e seppe che ogni
sette giorni ricorreva il sabato, in cui la legge faceva obbligo ai
fedeli di non lavorare e i bigotti avevano scrupolo perfin di
difendersi643. Allora Pompeo ordinò ai soldati di lavorare
soltanto in questi giorni; e potè, in tre mesi, alzare
comodamente le torri sino all’altezza del muro e dar l’assalto. Pare
che Fausto, figlio di Silla, fosse il primo a saltare sugli spalti;
ma la difesa fu accanita e la strage terribile. Conquistato il
tempio con tanta fatica, Pompeo volle visitarlo tutto anche nei
più segreti recessi, dove solo il sommo sacerdote era
ammesso; ma cercò invano una statua un quadro che
rappresentasse la divinità; ammirò la strana lampada a
sette bracci, che gli Ebrei parevano tenere in grande venerazione,
la tavola d’oro, la immensa provvista d’aromi per le cerimonie, i
tesori sepolti nei sotterranei, che avrebbero dovuto ricompensare le
fatiche dell’esercito romano. Ma il Dio della Bibbia fece la maggior
prova di quella potenza, il cui timore doveva diffondersi poi in
tanta parte del mondo, facendo rispettare questa volta, unico degli
Dei dell’Oriente, il suo oro da un condottiero romano. Pompeo fu
così stupito da quel fanatismo intenso e strano, che non
osò portar via questi tesori644. Dalla Palestina Pompeo
avrebbe potuto andar in Egitto dove il re Tolomeo, impegnato in
guerre civili e forse inquieto per i disegni di Crasso e di Cesare,
lo invitava con grandi doni e con offerte di denaro affinchè
ristabilisse l’ordine645; ma Pompeo, che non era come Lucullo un
ambizioso insaziabile, e che, dopo aver acquistata tanta gloria e
ricchezza, e tanto curiosato in Oriente, desiderava il ritorno,
dichiarò la Palestina, insieme con la Celisiria, provincia
romana, sottopose Gerusalemme a tributo, diede il sommo sacerdozio
ad Ircano, e conducendo seco Aristobulo prigioniero, fece ritorno
nel Ponto646.
L’Italia intanto si riaveva dallo spavento della rivolta di
Catilina; ma quanto diversa, da quella che essa era pochi mesi
prima! Nelle età che vivono fervidamente e si rinnovan
veloci, piccoli eventi sembrano generare a volte grandi e
inaspettati rivolgimenti, perchè soverchiano definitivamente
con una ultima spinta la resistenza passiva di uno stato di cose
più antico, il cui disfacimento è incominciato, a
insaputa di tutti, da un pezzo. La congiura di Catilina non era
stata un cimento terribile; ma quello spavento aveva scompigliato
gli animi, come una bufera scompiglia, torcendolo e ritorcendolo a
fasci, il grano di un campo; aveva mutate le disposizioni delle
classi, dei partiti, dei singoli; aveva affrettata la fine di quel
nuovo partito popolare, signorile, temperato, dilettante di riforme,
che aveva goduto tanto favore intorno all’anno 70 e il cui campione
era stato Pompeo. Le simpatie delle classi medie e di parte delle
classi alte, dei possidenti, dei mercanti, dei capitalisti, degli
uomini colti, dei nobili senza pregiudizi erano state come un vento
vigoroso nelle vele di questo partito: ma questo vento si era
affievolito a poco a poco, negli anni seguenti, perchè
l’indifferenza politica era cresciuta; perchè le soverchie
speranze poste in quel partito erano state in parte deluse;
perchè il fastidio dei debiti aveva distratti e il principio
della demagogia disgustato molti; perchè, nelle democrazie
civili, eccitabili, avide di vita, la moltitudine non dura in un
odio o in un amore, oltre un certo tempo, senza stancarsene. Dopo la
congiura di Catilina, quel vento cessò interamente. Le classi
benestanti e colte, che avevano sempre presa poca parte alle
pubbliche faccende, si chiusero, spaventate, nella egoistica
sollecitudine delle private faccende, che molti avevano piene di
guai e di crucci; concepirono una diffidenza incurabile per i
politicians del partito popolare e per i loro programmi, senza
però riacquistar fiducia nei politicians del partito
conservatore; lasciarono gli uni alle prese con gli altri,
spregiando in fondo ambedue. Ma le conseguenze di questa improvvisa
paralisi dello spirito pubblico furono immense. Il partito
conservatore si mutò in una combriccola di reazionari feroci,
perchè gli arrabbiati e gli intransigenti, imbaldanziti dal
gran successo della repressione, dallo spavento delle classi agiate,
si illusero che il mutamento durerebbe eterno; soverchiarono
facilmente in Senato, con a capo Catulo e Catone, gli uomini
temperati, che son sempre molto timidi; vollero stravincere, e
impegnarono una guerra a morte contro il partito popolare, tentando
di allargare i processi ordinati contro i complici di Catilina a una
vasta persecuzione sistematica dei propri nemici. Il momento pareva
propizio. Pompeo era lontano; Metello Nepote che egli aveva mandato
a Roma era poco autorevole; Crasso, spaventato dalla congiura, si
era tratto fuori in fretta e furia dagli intrighi e dai pericoli del
partito popolare, alla cui testa restava solo lo screditato,
l’indebitato, il detestato Cesare. La tempesta, quetata un istante,
stava per scoppiare sul capo di Cesare di nuovo, più
violenta. Guai a lui se egli fosse stato un temperamento troppo
sensibile, delicato per pregiudizi aristocratici o per scrupoli
morali! Ma allora apparve che Cesare era meravigliosamente temprato
per le lotte di questa età turbolenta, perchè, nel
fondo dell’indole sua era non la violenza e la crudeltà di
tanti uomini di azione, ma una indifferenza profonda per il male e
per il bene; uno scetticismo non perverso, ma senza esitazione e
senza vergogne, in parte innato, in parte contratto vivendo tra
avventurieri, nobili rovinati, donne corrotte, affaristi furfanti;
una indifferenza, che unita a una vivace nervosità, ne
facevano il carattere straordinariamente plastico, atto a fare il
bene o il male, secondo il bisogno. Quando egli vide che il vento
del favore pubblico era cessato, non esitò a spingere avanti
la nave del partito popolare a forza di remi, reclutando la ciurma
nei quartieri miserabili dell’Urbe, e affrettando il rivolgimento
della democrazia incominciato già da quattro o cinque anni,
mutandola nel manesco, turbolento, triviale partito della
“piazza”647. Abitava a Roma, nelle immense case costruite dagli
avidi speculatori, uno sterminato popolino di liberti, di artigiani,
di mercanti girovaghi, di bottegai umilissimi, di avventurieri,
mendicanti, manigoldi, convenuti da ogni parte dell’Italia e
dell’impero; i quali vivevano di tutti i mestieri, leciti e
ignominiosi, che gli schiavi lasciavano loro, lavorando nelle opere
pubbliche, facendo i muratori, i tessitori, i fiorai, i carrettieri,
i vasai, gli scalpellini, i cuochi, i flautisti, servendo le cricche
politiche e gli ambiziosi come bravi, come spie, come faccendieri,
usurpando la cittadinanza e vendendo il voto, rubando, truffando,
partecipando alle distribuzioni pubbliche di grano e ai banchetti
politici; ma svogliati i più e senza famiglia, crapuloni,
pigri, avidi di denaro e di gozzoviglie, sempre in bisogno, sempre
malcontenti, pieni di un odio violento contro i ricchi, che
l’anarchia politica, il disordine delle classi, l’universale egoismo
acuivano. Molti di questi artigiani erano anche costituiti in
società o collegia, che da qualche tempo il Senato aveva
preso a perseguitare, tentando di sciogliere quelle già
formate e di impedire che nuove se ne formassero648. Questo popolino
aveva ammirato Catilina, aveva cercato di farlo riuscire, era
pronto, purchè trovasse capi che ne incitassero l’odio contro
i ricchi, a empir di tumulto lo Stato; e a capo di questo popolino
si posero, scandalo quasi incredibile, il bisnipote di Metello il
Macedonico e il Pontefice Massimo, incominciando a impugnare la
legalità della condanna dei congiurati, ad assalire i
conservatori, a corteggiare in tutti i modi Pompeo, affinchè
non mancasse anch’egli ai popolari, come Crasso. Di nuovo Cesare
oscillò dalla prudenza dimostrata negli ultimi tempi della
agitazione catilinaria a un accesso di violenza; e appena ebbe preso
possesso della pretura, assalì addirittura Catulo,
accusandolo di malversare i fondi con cui era stato incaricato di
restaurare il Campidoglio dai guasti subiti nella guerra civile e
proponendo di affidare invece questo lavoro a Pompeo649.
L’opposizione energica dei conservatori fece cadere la proposta; ma
intorno allo stesso tempo, Metello Nepote, aiutato da Cesare, ne
mise innanzi una più audace: che si richiamasse Pompeo in
Italia con l’esercito, affinchè impedisse che altri cittadini
fossero in avvenire condannati a morte illegalmente. Con questa
proposta si poneva apertamente la questione se le condanne
pronunziate dal Senato contro i complici di Catilina fossero legali:
questione che, passato lo spavento della congiura, era diventata un
magnifico pretesto di agitazione contro i conservatori e una
eccellente difesa contro l’abuso delle denunzie e dei processi, che
ancora continuavano per la rivolta di Catilina. I conservatori
fremettero: ecco, quasi per incoraggiare i facinorosi, il partito
popolare accusava coloro che recentemente avevano difeso l’ordine
con tanto pericolo proprio, e voleva incaricare ufficialmente Pompeo
di fare il colpo di Stato! Catone, allora tribuno della plebe,
andò solo ad interporre il veto la mattina in cui la legge fu
portata in discussione nei comizi; Cesare e Metello lo fecero
scacciare a sassate da bande di malviventi; i conservatori,
incoraggiati dal loro esempio, corsero pur essi a reclutare bande e
tornarono in tempo per scacciare Cesare e Metello prima che la legge
fosse votata. La questione fu così, per il momento, risolta a
colpi di bastone: ma lo scandalo era stato troppo grande, e fu
accresciuto dalle proteste di Metello che, minacciando vendetta,
uscì di Roma, per ritornare da Pompeo. Il Senato, nel quale
pure molti erano persone sensate, non faziose, ma deboli, non seppe
resistere alle imprecazioni della combriccola reazionaria, e
destituì Metello e Cesare dalla carica; ma Cesare seppe
così bene atteggiarsi a vittima di un sopruso dei grandi, che
il turbolento popolino tumultuò, sinchè il Senato
pauroso più della piazza che dei reazionari fu costretto a
reintegrarlo nella carica650. I capi del partito reazionario,
esasperati, tentarono allora di implicarlo nei processi contro i
complici di Catilina; ma il fermento della infima plebe crebbe
tanto651, che Catone stesso propose di aumentare, per tranquillarlo
e conciliarlo al partito conservatore, le distribuzioni di grano al
popolo per una somma di circa sette milioni, accrescendo il numero
di coloro che vi avevano diritto652.
Ma più di tutti si sentiva a disagio, in questi torbidi, il
vincitore di Catilina. Se l’energia che aveva dimostrata nelle
ansiose giornate della congiura, fosse stata, non una fugace
esaltazione di un temperamento sensitivo e nervoso, ma una
virtù profonda della sua indole. Cicerone si sarebbe
avventato in quella mischia, audacemente, insieme con Catone, a capo
dei conservatori. Ma Cicerone era un temperamento delicato di
artista.... Dopo essersi illuso per un istante di aver acquistato
per sempre il primato fra gli uomini politici di Roma, Cicerone
vedeva ora il partito popolare rimestare sempre più
sfacciatamente tutta la faccenda di Catilina, metter in dubbio la
sua buona fede, affermare che il 6 dicembre si era compiuto, non un
giudizio, ma un assassinio. Almeno l’ammirazione degli altri lo
avesse compensato! Ma molti che l’avevano tanto ammirato e plaudito
nei giorni della paura, turbati dalla violenta agitazione popolare,
incominciavano a dubitare che Cicerone avesse almeno esagerato il
pericolo; e quanto alle classi alte, egli si accorgeva, pur troppo,
che la gratitudine non è virtù dei ricchi e dei
nobili; che per essere ammirati da costoro non basta difenderne gli
interessi, ma bisogna maltrattarli con arroganza brutale. Essi
avevano rispettato Silla il terribile; ma questo letterato,
così ossequioso, così mite, così debole, che
gongolava quando uno di essi lo invitava a casa sua, li seccava.
Sprovvisto dell’indifferenza di Cesare, troppo onesto e orgoglioso
da rinnegare l’opera sua, ma non abbastanza insensibile e duro da
disprezzar popolari e conservatori, Cicerone soffriva dell’odio
degli uni e dell’indifferenza degli altri; si avviliva; e come tutti
gli spiriti delicati, che hanno compiuto, in un momento di
concitazione, un grande sforzo di vigore, era presto ricaduto in uno
snervamento inquieto, che gli faceva commettere gli errori
più gravi. Così non aveva voluto andare nella
provincia, essendosi troppo affaticato con le brighe consolari; ma
pur restando a Roma, invece di prender parte energicamente a quelle
lotte, lasciava agli altri difendere l’opera sua, non osava
schierarsi risolutamente con i conservatori, importunava tutti
ripetendo ad ogni occasione, per consolarsi, i meriti e la gloria
del suo consolato; si disponeva a scrivere una storia del suo
consolato in greco, quando sul fôro i partiti si percuotevano
a colpi di bastone. Ben presto altri crucci si aggiunsero. Cicerone
non era nè avido nè prodigo, ma possedeva una fortuna
modesta, la amministrava disordinatamente, era costretto, come uomo
politico in vista, a spese considerevoli, e, vivendo con persone
invasate dalla mania di speculare, aveva contratto una superficiale
passione da dilettante per le speculazioni edilizie. D’altra parte
se era retto, non era un eroe, la cui rettitudine, in mezzo a tanti
esempi di sfrontata disonestà, non addivenisse qualche volta,
in segreto, a sofistici componimenti con il bisogno. Così,
quando aveva ceduto ad Antonio la sua provincia, aveva pattuito che
Antonio gli darebbe una parte dei guadagni: ma la notizia di questo
contratto era trapelata, con tanta maggior noia e vergogna di
Cicerone, perchè Antonio non manteneva i patti e non gli
mandava nulla. Peggio ancora, siccome Antonio era stato vinto in una
spedizione contro i Dardani653 intrapresa per far bottino e a Roma
volevano richiamarlo, Cicerone aveva dovuto mettersi di mezzo per
fargli continuare il comando654; anzi, a questa diceria poco
onorevole, avevan tenuto dietro altre calunnie: che i capitalisti lo
avevano pagato per far condannare i complici di Catilina. Questo si
diceva, proprio quando egli era in grande angustia per pagare certe
case comprate a credito da Crasso, il gran mercante di terreni e di
fabbriche655.
In quel tempo stesso Pompeo indugiava nel viaggio di ritorno,
così paventoso ai conservatori. Eppure, se non fosse
difficilissimo, anche agli uomini più intelligenti, di
capire, in mezzo alle contese politiche i personaggi odiati come
nemici o ammirati come campioni del proprio partito, nessuno avrebbe
temuto che Pompeo potesse essere un nuovo Silla, al suo ritorno
d’Oriente. Proprio allora, invece, egli formava il disegno di
riconciliarsi con i conservatori. In Oriente era apparso finalmente
il suo vero carattere maturato dagli anni: egli era un autentico
gran signore di antica stirpe; uno squisito e intelligente
dilettante di ogni cosa, di arte, di letteratura, di scienza, di
politica, di guerra, di affari, come se ne trovano tra i nobili nei
tempi civili, a cui mancava la tenacia di Crasso, la impetuosa
immaginazione ed energia di Lucullo, la intelligenza profonda di
Cesare; versatile d’ingegno, ma superficiale, poco alacre, senza
passioni intense; ambizioso ed orgoglioso ma non violento nè
insaziabile; abile e astuto ma facilmente ingannato dagli intriganti
energici e impressionato dalle cose insolite; gentile ma, come
spesso i nobili, freddo ed egoista. Giovane, egli era stato un
partigiano feroce e violento delle guerre civili; poi,
nell’esaltazione delle prime fortune, un intrigante incontentabile;
ma alla fine tante soddisfazioni avevano saziato il suo desiderio di
gloria, di potenza, di ricchezza656; e in Oriente non aveva, come
Lucullo, traversato a corsa immensi imperi, rovesciato eserciti,
prese città, in un trasporto di audacia e di ambizione
crescente con il successo; ma vagabondato e curiosato con lenta
compiacenza fra piccoli stati cadenti. Ora che tornava a Roma,
più celebre di tutti per tante imprese, più ricco di
tutti per gli immensi capitali raccolti e collocati a frutto in
Asia, più potente di tutti per gli obblighi personali che
tanti re dell’Oriente avevan contratto con lui, non solo non ambiva
altra grandezza; ma aristocratico e conservatore per temperamento
concepiva una intensa avversione per la turbolenta e triviale
demagogia, accresciuta dai maneggi di Crasso, dalle dicerie
sull’adulterio di sua moglie Muzia con Cesare, dall’incanaglimento
di Cesare a capo della feccia di Roma. Mentre molti temevano che
egli volgesse nella mente i più ambiziosi disegni, egli
pensava solo a non guastarsi il trionfo e a non disgustar nessuno,
tacendo nelle lettere che mandava al Senato sulla faccenda di
Catilina657; a divorziare da Muzia; a prepararsi la riconciliazione
con i conservatori, per mezzo di donne, con qualche maritaggio658; a
falciare, con un bel viaggio regale attraverso il mondo ellenico,
l’ultima e più copiosa messe di diletti spirituali e di
soddisfacimenti d’amor proprio. Andò a Lesbo dove
liberò Mitilene, per compiacere il suo favorito Teofane, nato
nella città; ammirò il bel teatro e formò il
disegno di costruirne un altro simigliante e più vasto a
Roma659; fu poi a Rodi dove visitò Posidonio, il filosofo e
lo storico tanto ammirato dai ricchi romani, e distribuì
denari ai professori660; poi tornò ad Efeso ove si era
raccolto l’esercito e la flotta. Prima di imbarcarsi
ricompensò i commilitoni: diede ad ogni soldato 6000
sesterzi, circa 1500 franchi, somme maggiori ai centurioni e ai
tribuni, per una somma totale che varrebbe ora circa settantacinque
milioni di franchi; ai suoi generali cento milioni di sesterzi
così che, anche contando che fossero 25, ognuno ebbe una
somma corrispondente circa a un milione di franchi: ricompensa assai
lauta per quattro anni di guerra non pericolosa.661 Poi mise la vela
verso la Grecia con la parte dell’esercito che tornava in Italia;
andò ad Atene, dove si trattenne ad ascoltare i filosofi e
regalò alla città 50 talenti per il restauro dei suoi
più gloriosi edifici662; mandò una lettera di divorzio
a sua moglie Muzia663, la sorella di Metello; e imbarcatosi per
l’Italia sbarcò verso la fine dell’anno a Brindisi. Il Silla
democratico arrivava! I conservatori tremavano e Crasso si disponeva
ad abbandonar Roma, con la famiglia664.
A Roma però, mentre si aspettava con una certa ansia il suo
ritorno, era scoppiato, nei primi giorni di dicembre665, uno
scandalo clamorosissimo. La moglie di Cesare, Pompeia, che era una
donnetta lasciva e leggera, amoreggiava con Clodio, il sobillatore
delle legioni di Lucullo; ma la severa suocera vigilava
spietatamente.... Clodio era uno di quei degenerati e pazzi morali
che infestano spesso le famiglie nobili decadute: imberbe come un
ermafrodito666, sebbene fosse nella piena virilità667;
femmineo nelle movenze e nei gusti (vestirsi da donna era uno dei
suoi maggiori piaceri668); così profondamente perverso, che
cercava e godeva solo i piaceri scandalosi e nefandi; ostentatore
spudorato della sua perversità, violentissimo e ferocissimo
negli odii; astuto nelle piccole, più che intelligente di
cose grandi, e troppo pazzo da agire con coerenza per un fine
ragionevole, oltre quello di soddisfare, di giorno in giorno, le sue
scomposte passioni669. Si diceva a Roma che egli avesse stuprate,
una dopo l’altra, le tre sorelle670; ed ora, poichè Pompeia
doveva quell’anno presiedere, come moglie del pretore, la cerimonia
della Dea Bona, alla quale solo le signore potevano partecipare,
egli pensò, per un capriccio empio più che per
amore671, di vestirsi da donna, e dare un appuntamento a Pompeia
durante la cerimonia. Ma fu scoperto. Una società così
scettica e incredula avrebbe dovuto ridere di questo scandalo, tanto
più che non mancavano gravi argomenti, a cui lo spirito
pubblico potesse volgersi. È vero che lo spavento di Pompeo
svanì in quei giorni lietamente; perchè Pompeo,
sbarcato a Brindisi, con gioia e stupore dei conservatori,
congedò l’esercito, e si avviò con un piccolo seguito
verso Roma a domandare il trionfo. Proprio allora però
giungevano notizie inquietanti dalla Gallia: che gli Allobrogi,
sollevatisi, avevano devastata parte della Gallia Narbonese672, che
gli Elvezi, i quali avevano preso parte all’invasione dei Cimbri e
dei Teutoni e poi si erano stabiliti intorno al lago di Ginevra,
volevano emigrare, perchè molestati dagli Svevi, verso le
coste dell’Oceano attraversando la provincia romana673. Invece il
partito conservatore prese la cosa tragicamente: bisognava non solo
punire un sacrilegio orribile, ma reprimere con un nuovo esempio,
poichè quello di Catilina non era bastato, la insolenza della
gioventù che cresceva ancor più riottosa, dissoluta,
sfrontata che la generazione matura. Il Senato interrogò il
collegio dei Pontefici per sapere se l’atto di Clodio costituiva
sacrilegio; e avendo il collegio risposto che sì674,
incaricò i Consoli dell’anno 61, M. Pupio Pisone e M. Valerio
Messala, di proporre una legge che stabilisse una procedura e un
tribunale speciale, per giudicare un processo così grave675.
La proposta di un tribunale straordinario, fatta quando il partito
popolare protestava ogni giorno contro la condanna illegale dei
complici di Catilina, parve una provocazione al partito popolare,
che subito prese Clodio sotto la sua protezione; una vivace
agitazione contro la legge fu incominciata, per opera specialmente
di un tribuno della plebe di nascita oscura, uscito dalla classe
media e ambizioso di segnalarsi, Quinto Fufio Caleno; i
conservatori, per rappresaglia, si ostinarono a voler la condanna
del sacrilego; onde l’avventura galante di Clodio scatenò una
baruffa politica, alla quale gli uomini più noti dovettero
prendere parte.
Cesare infatti, che doveva partire per la sua provincia, la Spagna,
fu costretto a sospendere la partenza; ma in compenso
approfittò dello scandalo per far divorzio da Pompeia, le cui
parentele, ora che aveva rotto in guerra aperta col partito
conservatore, non gli giovavano più. Pompeo fu subito
sollecitato dai due partiti; e sebbene si schermisse più che
potè, fece alla fine dichiarazioni ambigue molto, ma che
parvero ed erano più favorevoli ai conservatori che ai
popolari676. Anche Cicerone non potè restare in disparte,
anzi fu tratto oltre il segno da lui voluto, da un singolare intrigo
di Clodio, che, per averne l’aiuto, aveva tentato di farlo sedurre
da una delle sorelle, la seconda, moglie di Quinto Metello
Celere677. Questa Clodia era una donna sfrenatamente lasciva che
aveva comprato un giardino sulle rive del Tevere nel luogo dove i
giovani andavano a bagnarsi nudi, e nella sua casa vendeva e
comprava la voluttà, facendosi pagare da una parte dei suoi
amanti e pagando essa l’altra. Ma Terenzia, la moglie di Cicerone,
donna energica e maligna, vigilava; e caricando il marito di
rimproveri e di accuse lo indusse, per aver la pace in casa, a darle
la prova maggiore di fedeltà, adoperandosi per far approvar
la legge giudiziaria contro Clodio678; Clodio furioso proruppe in
ingiurie e minaccie contro Cicerone; chiamandolo tra l’altro il
signor “So tutto”679: allusione velenosa alle affermazioni fatte da
Cicerone in Senato nella faccenda di Catilina; Cicerone, fatto
irascibile dai crucci ed esasperato da questa ingiuria atroce, si
precipitò per vendicarsi nel folto della mischia....
Approvata la legge, ma con modificazioni favorevoli a Clodio,
proposte da Caleno, Cesare persuase Crasso, che, un poco
rassicurato, inclinava di nuovo agli intrighi politici, a sborsar
denaro per corromper i giudici; i conservatori prepararono le
testimonianze più infamanti per Clodio; e quando il processo
si fece, Clodio negò sfrontatamente di essere stato alla
festa della Dea Bona: l’uomo sorpreso era altri, quel giorno egli
non era nemmeno in Roma. Cesare interrogato come testimonio
dichiarò di non saper nulla680; Lucullo venne a rivelare
l’incesto di Clodia con il fratello681; ma Cicerone, volle portar
egli il colpo di grazia all’accusato deponendo che Clodio, quel
giorno, era a Roma e tre ore prima del delitto gli aveva fatta una
visita in casa682. Tutti credevano sicura la condanna; ma l’oro di
Crasso fu più forte della verità. Clodio fu assolto,
con gran giubilo del partito popolare e grande scorno dei
conservatori.
I conservatori, tentarono di vendicarsi su Cesare, che si disponeva
a partire per la provincia. Molti creditori, sobillati dai suoi
nemici politici, trassero fuori un fascio di vecchie syngraphae non
pagate – cambiali in sofferenza, diremmo noi – e lo minacciarono di
sequestrargli, se non pagava, il grosso bagaglio con cui tutti i
governatori viaggiavano. Queste intimazioni erano certo un intrigo
politico: se no, sarebbero stati ben stolti quei creditori che
trattenevano Cesare in Roma, proprio quando stava per recarsi nella
provincia, a cercar il denaro necessario per pagarli. Cesare si
rivolse ancora una volta a Crasso; Crasso offrì la sua
garanzia, che i creditori non osarono di rifiutare; e Cesare,
liberato così, partì subito683, lasciando a Roma
Pompeo intento a preparare il trionfo; Lucullo ritirato a riposo; la
aristocrazia signora del mondo tutta intesa a piccoli odii, a
piccoli intrighi, a piccole cose.
Ma tutta la vita di quella generazione doveva essere uno sforzo
ininterrotto per creare cose grandiose; e, anche allora, durante
quella pausa, un solitario amico di Cicerone lavorava, in un angolo
recondito di Roma, a compire l’opera della letteratura latina
veramente imperiale, per la grandezza e l’audacia. Era costui un
certo Tito Lucrezio Caro; probabilmente un modesto rentier che
viveva sul reddito di qualche terra, in Roma, in piccola casa; e un
povero infermo tormentato da una malattia terribile: che gli
psichiatri chiamano follia alternante o circolare, e che consiste in
una vicenda di tetre melanconie e di frenetici gaudii, di torbidi
istupidimenti e di sfolgoranti esaltazioni684. Questo infermo di
genio aveva dovuto ritrarsi dalla politica negli studi; e viveva tra
i libri, con poche amicizie nelle alte classi, senza ambizioni,
senza cupidità di ricchezze, godendosi nel contemplare
l’infinito come lo aveva descritto Epicuro: inondato dalla pioggia
eterna degli atomi, scintillante di astri, popolato di mondi,
vibrante per l’immenso sforzo vitale, nel quale Roma e il suo impero
erano come un piccolo scoglio perduto nell’immenso oceano agitato
della eternità. Ma non era un dilettante, trattosi fuori da
una età di violente passioni, per trastullare con egoistici
diletti intellettuali i nervi ammalati: era nei periodi di
esaltazione un creatore ardente, un lavoratore infaticabile, un
ambizioso insaziabile, a modo suo, nella solitudine degli studi,
come Lucullo in mezzo al tumulto dei campi; che sfogava i fervori e
le tetraggini della malattia, scrivendo un poema immenso sulla
natura, incitando i contemporanei a rovesciare dai loro troni eterei
gli Dei bugiardi venerati sino allora, tentando da solo conquistare,
non una provincia nuova con le armi, ma con uno sforzo titanico di
pensiero, la signoria spirituale della natura. La lingua dei
contadini del Lazio era ancora torbida, povera, concreta, la metrica
rozza e imperfetta? Come Lucullo aveva osato avventurarsi alla
conquista di tanti imperi con 30 000 uomini, Lucrezio
osò fare violenza alla greve sua lingua materna che tanti
dichiaravano ancora inetta a esprimere altro che comandi di leggi,
dispute di politica e conti di affari: la ammollì e
purificò nel fuoco di una commozione ardentissima, la
martellò ostinatamente sull’incudine del pensiero sino a
farle perdere la durezza e l’opacità antiche; piegò e
ripiegò con le braccia poderose il rigido arco della metrica,
sino a poter lanciare con vigore gli esametri leggeri nell’infinito;
poi con questa lingua e con questo metro scrisse non un arido
riassunto verseggiato di una dottrina astratta, ma una filosofia
pittoresca ed entusiastica dell’universo; espresse la più
intensa esaltazione e il più voluttuoso sbigottimento che
anima umana abbia sentito, davanti alla rivelazione della eterna
agitazione della vita universale; proiettò sull’infinita
natura le vicende di ombre e di luci, di melanconie e di gaudi che
passavano nel suo spirito infermo; descrisse con meravigliosa
vivacità gli episodi dolci e i terribili dell’esistenza: il
riso primaverile dei prati verdeggianti dopo la pioggia, il lascivo
tripudio degli animali in mezzo ai pascoli, il fragoroso prorompere
dall’atmosfera sonante degli uragani nelle selve e nei campi, le
violente piene dei fiumi, le paci e le collere del mare, gli sforzi
della umanità ferina per vivere e incivilirsi, gli orrori
delle epidemie e delle guerre, i folli terrori della morte, la
ardentissima sete d’amore di tutti i viventi, la eternità e
la identità della vita, che circola nel tutto, attraverso le
forme periture degli esseri. Frammenti grandiosi, scritti negli
impeti dell’estro, che egli cercava di comporre con estremi sforzi,
quanto la malattia e la mole immensa dell’opera gli consentivano,
nella unità viva di una immensa lirica di ottomila versi
solenne e quasi religiosa: la più sublime lirica filosofica
che l’uomo abbia scritto; non la più perfetta, ma la
più grandiosa opera della letteratura latina; non il
capriccio di un solitario perduto nella metropoli dell’impero, ma
uno dei tanti sforzi verso la grandezza, la potenza e la scienza,
che quella età tentava in ogni parte del mondo reale e
ideale. Lucrezio fu un uomo figurativo del tempo suo, come Lucullo,
come Cesare, come Cicerone; tra i quali rappresentò lo sforzo
eroico della ragione, che per sapere distrugge le superstizioni, le
tradizioni, le religioni; il suo poema, la Natura, fu una delle
creazioni maggiori di Roma, che, poco ammirata in principio,
sopravvisse nei secoli, quando i trofei, i monumenti e la fama di
tanti generali erano stati travolti dalla corrente del tempo.
XVII.
IL MOSTRO DALLE TRE TESTE.
Giunto nella Spagna ulteriore, Cesare, cui l’ultima malignità
dei suoi nemici aveva ridimostrata l’urgenza di assestare il
patrimonio, si diè subito a far quattrini in tutti i modi.
Con dieci coorti nuove, aggiunte alle venti che già erano
nella provincia, intraprese spedizioni contro i Calleci e i
Lusitani, saccheggiando senza misericordia i loro villaggi, anche
quelli che si arrendevano685; e siccome la provincia era molto
aggravata di debiti, contratti per la guerra di Sertorio con
capitalisti italiani, applicò alla Spagna la politica di
Catilina: decretò una diminuzione legale degli interessi, e
si fece dare in compenso una grossa somma dalle città686. In
quello stesso tempo, Pompeo aveva fatto eleggere fra i consoli per
l’anno 60 il suo generale Lucio Afranio, a collega di Quinto Metello
Celere, il cognato di Clodio; ma differiva ancora il trionfo, per
aspettare che giungessero dall’Asia tutti i tesori conquistati. Alla
fine di settembre ogni cosa fu pronta; e il giorno 29 il corteo
mosse a suo agio per l’ampia via Appia affollatissima ed
entrò in Roma: precedevano due grandi tavole in cui si
recapitolavan le imprese di Pompeo e si affermava aver egli
aumentate le entrate pubbliche con i tributi delle nuove provincie
da 50 a 85 milioni di dramme687; seguiva una interminabile
processione di carri, colmi di spade, di corazze, di elmi, di rostri
di navi corsare; poi una lunghissima processione di muletti, carichi
di denaro e portanti circa 60 milioni che il conquistatore versava
nel tesoro; poi la meravigliosa collezione di gemme di Mitridate,
artisticamente disposta; poi, ciascuna sopra un carro, le prede di
gran valore: un meraviglioso tavolo da giuoco, formato di due sole e
smisurate pietre preziose; tre letti fastosissimi, un letto d’oro
massiccio donato dal re degli Iberi; 35 corone di perle; 9
grossissimi vasi da mensa d’oro e gemmati; 3 colossali statue d’oro
di Minerva, di Marte e di Apollo, un tempietto delle Muse gemmato e
sormontato da un orologio; un letto su cui aveva dormito Dario
figlio di Istaspe; il trono e lo scettro di Mitridate; la sua statua
d’argento; il suo busto d’oro colossale; la statua d’argento di
Farnace; un busto di Pompeo fatto di perle da un abilissimo artefice
orientale; molte strane piante tropicali, come l’albero dell’ebano.
Per ore e per ore la processione dei meravigliosi tesori dell’ultimo
monarca ellenizzante si divincolò a stento, attraverso le
anguste vie delle metropoli della vittoriosa democrazia italica,
sotto gli occhi di una folla immensa, in cui si mescolavano e si
pigiavano le grandi dame e le liberte orientali, i senatori, i
cavalieri, il popolino minuto degli artigiani, gli schiavi; una
folla chiassosa, paziente del sole, della polvere, della ressa,
delle lunghe soste del lento corteo, che pareva non stancarsi e non
saziarsi mai di veder cose nuove e ne aspettava sempre di più
mirabili; in cui le classi si confondevano e tutti si domandavano a
vicenda spiegazioni sugli oggetti portati; commentavano, salutavano
di esclamazioni, di grida, di applausi le cose più strane e
ammirande. Gli occhi delle donne in special modo sfavillavano,
vedendo tante e così grosse e così splendide gemme. Il
giorno dopo – era il dì natalizio di Pompeo – sfilò la
preda vivente: prima grosse torme di prigionieri di tutti i paesi,
dai pirati agli Arabi e agli Ebrei, non però in catena ma
liberi e vestiti con i costumi nazionali, pittoresco corteo
etnografico che rappresentava la immensa varietà di genti su
cui Roma aveva esteso il suo impero; poi una frotta di principi e di
ostaggi: due celebri capi di pirati, il figlio di Tigrane, che
venuto in discordia con Pompeo si era ribellato ed era stato privato
della Sofene; sette figli di Mitridate, Aristobulo, con un figlio e
due figlie, molti notabili degli Iberi e degli Albani; poi grandi
quadri figuranti gli episodi maggiori della spedizione, come la fuga
di Tigrane e la morte di Mitridate; poi strani idoli barbarici.
Veniva finalmente il trionfatore, sopra un carro gemmato, indossando
una magnifica veste che si diceva fosse stata portata da Alessandro
Magno, seguito da uno splendido corteo di legati e di tribuni a
piedi e a cavallo688.
La democrazia italiana non aveva mai goduto così intensamente
con gli occhi l’immenso impero suo; mai si era così
intensamente esaltata nel tripudio dell’essere che sente la propria
forza aumentare vittoriosa nel contrasto con le cose e con gli
uomini; ma la meraviglia somma che confermava la nazione italica
nell’orgoglio di essere la prima tra tutte era questa: che finita la
processione il trionfatore, il quale affermava di aver ingrandito
l’impero fino ai confini del mondo, svestiva l’abito di Alessandro e
rientrava modestamente, cittadino privato, nella casa paterna.
Ma passata la festa, tra la fine del 61 e i primi mesi del 60 le
discordie infuriarono di nuovo. Pompeo era fermo nel pensiero di
riconciliarsi con i conservatori; e a questo fine aveva domandato a
Catone in moglie, una per sè e una per il suo figlio
maggiore, chi dice due nipoti e chi due figlie689. La fortuna di
Cesare non corse mai tanto rischio.... Ma l’intransigente Catone
rifiutò, non volendo mescolare le faccende private alle
pubbliche e diffidando della riconversione di questo antico
transfuga del partito conservatore; la combriccola reazionaria,
accanita negli odii e che ora, dopochè Pompeo aveva congedato
l’esercito, non lo temeva più, badò solo a sfogare il
rancore contro l’antico suo favorito, che l’aveva tradita. Quando
Pompeo domandò che il Senato convalidasse le disposizioni da
lui prese in Oriente, molti si opposero subito; Crasso e Lucullo per
vendicarsi, Catone e il partito conservatore per fargli perdere il
credito di cui godeva presso i sovrani d’Oriente e forse anche per
mettere in pericolo le somme ingenti che egli aveva prestate
loro690. Un’altra cagione, non meno grave, di discordie furono gli
aumenti delle pubbliche entrate e l’uso che se ne farebbe. Pompeo
voleva ragionevolmente spenderle in parte a pro’ dei suoi soldati,
comprando, come egli aveva fatto proporre dal tribuno Lucio Flavio,
terre in Italia e dandole loro; in parte a vantaggio di tutta
Italia, abolendo le dogane di importazione, come egli faceva
proporre da Metello Nepote. Era questo, insieme con quello di Silla,
il congedamento più numeroso di soldati, fatto dopochè
la milizia era diventata mestiere delle infime classi; e bisognava
provvedere a pensionare questi veterani; che non avevano tutti,
restando 20 o 25 anni in Oriente, risparmiato abbastanza da poter
campare nei vecchi anni; e perciò desideravano una pensione:
una terra, sulla quale con i risparmi portati dall’Oriente farsi una
casetta, comprar qualche schiavo, tentare una lucrosa coltivazione.
L’abolizione delle dogane invece era desiderata da tutta Italia,
perchè il consumo dei vini, dei profumi, dei mobili, dei
colori, delle stoffe, degli oggetti d’arte orientali cresceva anche
nelle città minori che si adornavano, e dove i ricchi e il
medio ceto volevano pur vivere, seguendo l’esempio di Roma, sempre
meglio e consumando di più. Aperte le frontiere dell’Italia,
le mercanzie orientali avrebbero rinvilito, il consumo sarebbe
cresciuto, sarebbero finite le liti così frequenti con i
pubblicani appaltatori delle imposte, i quali avrebbero appaltato
con maggior profitto le imposte delle nuove provincie orientali, di
cui si indiceva allora l’incanto691. Disgraziatamente questo aumento
delle entrate aveva svegliato troppi appetiti; e non solo i
conservatori desideravano che i nuovi fondi restassero a
disposizione del Senato, per poter aumentare le somme assegnate alle
provincie e ai diversi servizi pubblici, su cui tanti senatori
lucravano, ma la potente compagnia appaltatrice dei tributi
dell’Asia approfittava di quella abbondanza, per domandare al
Senato, aiutata da Crasso, che probabilmente era azionista, una
diminuzione del canone, lamentandosi di aver offerto troppo
nell’appalto e quindi di perderci692. La domanda era tanto
indiscreta, che tutti i senatori di buon senso l’avversavano; onde
ne nacquero discussioni, intrighi, querele che disorientarono Pompeo
e rovinarono del tutto i nervi già malati di Cicerone.
Pompeo, sazio di successi, era tornato a Roma con l’intenzione di
godersi i più vari e grandi diletti della gloria e della
ricchezza: l’ammirazione incontrastata dei suoi concittadini, la
celebrità in tutto l’impero, la ostentazione della
munificenza, il grande teatro simile a quello di Mitilene, la
splendida casa e le diverse ville che aveva incominciato a far
costruire. Invece si trovava impegnato in una lotta di intrighi
spietata, che lo sdegnava tanto più vivamente, perchè
egli, per quanto affettasse di spregiare i suoi nemici, non riusciva
a vincerli. Cicerone disgustato dei conservatori, impensierito
dall’odio crescente dei demagoghi, afflitto per la rapida decadenza
del credito suo, difendeva la domanda degli appaltatori in Senato,
per non inimicarsi anche i banchieri, ma scriveva ad Attico che
tanta cupidigia era vergognosa; tentava di avvicinarsi a Pompeo,
vergognandosene però e scusandosi con Attico, con dire che
faceva ciò per convertire il capo del partito popolare693;
aveva finalmente pubblicata la storia greca del suo consolato694. Ma
troppo sollecito di giustificarsi, aveva raccontato come Crasso gli
avesse portate, quella sera, lettere e denunzie contro Catilina; e
Crasso che, passata la paura, di nuovo desiderava popolarità,
si era corrucciato per questa rivelazione, che lo annoverava tra i
persecutori di Catilina. Cosicchè anche Crasso gli era adesso
nemico695. Ma intanto, sebbene le discussioni si seguissero in
piazza e nel Senato, nulla era approvato, fuori che l’abolizione
delle dogane696: nè l’amministrazione di Pompeo in Oriente,
nè la legge agraria, nè la remissione degli appalti; e
per maggior disgrazia presto vennero nuove notizie inquietanti dalle
Gallie. Gli Edui, antichi amici e alleati di Roma, erano stati
sconfitti dagli Svevi, chiamati dai Sequani; un Druido eduo,
Diviziaco, era venuto a Roma a domandare aiuto al Senato ed era
ospite di Cicerone; gli Elvezi parevano proprio sulle mosse, per la
loro migrazione, e già facevano scorrerie nella provincia697.
Per un momento le altre questioni furono messe in disparte;
l’occasione di un intervento in Gallia pareva offrirsi; ma il
Senato, che pure l’anno prima aveva decretato che il governatore
della Gallia Narbonese aiutasse gli Edui contro ogni loro nemico,
non osò, irresoluto come al solito, intervenire apertamente
in Gallia; ordinò che i due consoli traessero a sorte tra
loro le due Gallie, la Cisalpina e la Narbonese; che si facessero
leve; che si sospendessero tutte le esenzioni dalla milizia; che si
mandassero nella Gallia tre ambasciatori a studiare lo stato delle
cose698.
Cesare affrettava, intanto, verso la metà dell’anno 60, il
ritorno dalla Spagna per concorrere al consolato dell’anno 59. I
candidati al consolato erano quell’anno tre: egli, un milionario di
nome L. Lucceio, che aveva abitato a lungo in Egitto e si dilettava
di scriver storie; e un conservatore intransigente, Marco Bibulo,
che già era stato collega di Cesare nell’edilità e
nella pretura, e che i conservatori, disperando di far cadere
Cesare, gli volevano mettere a fianco. Lucceio, che non aveva
partito e solo desiderava di essere eletto, fu sollecitato da
ambedue i candidati i quali speravano di fargli pagare le proprie
spese; ma essendosi egli risoluto a pagare per Cesare, Bibulo
dovè mettere mano alla propria borsa e pregare di aiutarlo
gli amici, i quali si quotarono, Catone compreso699. Cesare e Bibulo
furono eletti, e il povero milionario che aveva pagato restò
a terra. Ma alla elezione il partito conservatore rispose
prontamente facendo votare dal Senato che ai due consoli per l’anno
59 si assegnerebbe, come incarico proconsolare, la sorveglianza dei
boschi e delle vie dell’impero: una meschina missione
amministrativa, di importanza secondaria, per deludere così,
anticipatamente e in modo quasi ridicolo, le vaste ambizioni, che
tutti facilmente supponevano Cesare volgesse nell’animo per il
proconsolato700.
Quali fossero allora queste ambizioni noi non sappiamo. Certo
è che tre grandi imprese restavano ancora da compiersi: la
conquista dell’Egitto, l’invasione della Persia, l’ingrandimento
della dominazione romana sul continente europeo, verso il Danubio ed
il Reno. Da questa parte dell’impero una guerra pareva imminente; ma
Metello Celere, cui era toccata la Gallia Cisalpina, si disponeva a
comandarla701: inoltre di tempo in tempo le notizie suonavano
più pacifiche702. A ogni modo questo primo maneggio del
Senato ammoniva a non illudersi sulle disposizioni del partito
conservatore: e Cesare, che inclinava sempre a creder maggiori del
vero le difficoltà e perciò si preparava spesso con
uno sforzo molto più grande del necessario, incominciò
subito gli apparecchi per il cimento, ma in modo assai diverso da
quello che i nemici pensavano. Dopo il governo in Spagna e la
elezione a console, Cesare si sentiva ancora una volta disposto a
moderazione: nuova oscillazione verso la prudenza, dalla
temerità demagogica delle violenze commesse durante la
pretura; onde immaginò, per combattere questa lotta difficile
contro il partito conservatore, un disegno molto savio: restaurare
la democrazia dell’anno 70, signorile, temperata, riformatrice,
favorita dalle classi alte e medie, decaduta poi per colpa di uomini
e di eventi, disfatta dalla congiura di Catilina; conciliare e unire
a questo fine gli uomini più autorevoli, Crasso, Pompeo e
Cicerone. L’impresa era difficile; ma Pompeo aveva bisogno che la
sua amministrazione in Oriente fosse approvata; Crasso, screditato
presso i conservatori dalle ambizioni egiziane, presso i popolari
dal contegno subdolo tenuto durante la congiura, doveva desiderare
di riacquistare il favore pubblico; quanto a Cicerone, non sarebbe
stato lieto di terminare le fastidiose discussioni sulla sua
politica nel 63? Cesare tanto disse e tanto fece, nei mesi che
passò a Roma come console designato, che riusci a
riconciliare Crasso e Pompeo, segretamente però,
affinchè i potenti nemici avvertiti non muovessero contro
questa alleanza i formidabili strumenti di guerra703; mentre P.
Cornelio Balbo, uno spagnuolo di Cadice, fatto cittadino romano da
Pompeo e amico di molti grandi personaggi a Roma, parlava per conto
suo a Cicerone, facendogli intravvedere la possibile alleanza con
Crasso e Pompeo. Cesare sperava, con un contegno conciliante, con
l’aiuto di Cicerone, di Crasso e di Pompeo, di trarre a sè i
senatori equi e ragionevoli, che erano i più e che per
timidezza votavano sempre, dopo la congiura di Catilina, per la
piccola cricca dei conservatori intransigenti; rinnovando
così i bei giorni del 70. Anche allora, in fatti, la gran
battaglia politica contro la combriccola conservatrice non era stata
vinta, in Senato, nei comizi, sul Fôro, da lui, da Pompeo, da
Crasso e da Cicerone uniti? Ma Cicerone, che ormai era ammalato di
una specie di svogliatezza dubitosa, sebbene molto lusingato, non si
indusse a rispondere nè si nè no704. A ogni modo la
tranquillità sopravvenuta nel suo spirito per le ricchezze
acquistate, per il buon esito delle spedizioni in Spagna, per la
potenza accresciuta; la stanchezza dei due partiti dopo tante lotte
furibonde, avevano fatto rinascere in Cesare la naturale temperanza
e prudenza; se Cicerone non voleva, l’unione di Crasso e di Pompeo
basterebbe a ricostituire il partito; ed egli ne ricaverebbe, questa
volta, il maggior vantaggio, come Pompeo nel 70, non solo
procurandosi un importante comando proconsolare, ma continuando
l’arricchimento cominciato in Spagna. Per le amicizie e le parentele
della sua famiglia, per il contagio dei tempi, per soddisfare
l’indole sua di largo spenditore e l’inclinazione del suo
temperamento vivace e nervoso ad adoperare gli strumenti più
nuovi, più rapidi e più pronti del godimento e della
dominazione, Cesare, sebbene fosse il capo del partito dei
miserabili, non partecipava in nessun modo all’odio del popolino
contro il ceto dell’Oro; anzi voleva imitare i capitalisti e
diventare anche egli un potentissimo capitalista, come Crasso e
Pompeo. Ambizioso e generoso, egli desiderava il denaro per
spenderlo, non per accumularlo; ordinato e preciso nelle faccende
sue, sapeva tenere i conti delle prodigalità con esattezza;
scettico e indifferente al bene ed al male, non aveva scrupoli;
cosicchè allora, pur essendo tornato dalla Spagna con molto
denaro, non pagò i suoi creditori, quelli almeno che non lo
importunarono come Attico, cui doveva più di 200 mila lire, e
Pompeo705; e allora ordiva uno scandaloso imbroglio con i direttori
della Compagnia appaltatrice delle imposte d’Asia che continuavano a
domandare la diminuzione del canone. Egli si impegnava, come
console, di farla loro ottenere; essi in compenso gli avrebbero date
molte azioni della Compagnia706.
Così, appena entrato in carica, egli espresse in un discorso
al Senato la speranza di agire in ogni cosa d’accordo con Bibulo; e
mostrò in molti atti, sia pure formali, molto riguardo al
collega707. Fece pure una riforma amministrativa, che non solo
doveva piacere al medio ceto, ma che merita a Cesare un posticino
anche nella storia del giornale: istituì cioè a Roma
il giornale popolare. Crescendo con la cultura e con la ricchezza la
curiosità delle notizie, a Roma molti si ingegnavano di
campar la vita, facendo i giornalisti: raccoglievano cioè le
notizie pubbliche e private che credevano più importanti e
curiose; ne compilavano ogni tanti giorni un quinternetto, ne
facevano scrivere diverse copie da uno schiavo e le portavano, agli
abbonati diremmo noi: ai signori che pagavano per aver questi
fascicoli708. Ma naturalmente solo i ricchi potevano associarsi.
Cesare pare facesse deliberare che un magistrato compilerebbe un
riassunto delle notizie più importanti e le farebbe scrivere
in vari luoghi della città su muraglie imbiancate, facendo
poi dare una mano di bianco sulle notizie invecchiate, per scriverne
altre709; in modo che anche il popolino potesse saper tutto, presto.
Cesare dispose anche, affinchè i resoconti del Senato fossero
più regolarmente fatti e resi pubblici710. Preparati in
questa maniera, secondo egli credeva, gli animi, Cesare propose una
legge agraria per la quale venti commissari sarebbero incaricati di
distribuire ai veterani e ai poveri gli ultimi avanzi del demanio
pubblico, tranne la Campania, e terre comprate ad eque condizioni
con il denaro delle prede di Pompeo711; proposte moderate e
savie712, che Cesare sottopose al Senato dichiarando di voler
ascoltare le obbiezioni di tutti. Ma le sue speranze di rinnovare la
democrazia signorile e le vittorie del 70 furono presto deluse. I
tempi e gli animi erano troppo mutati. I conservatori intransigenti
inferocivano solo a udire i nomi di Cesare e di legge agraria; e i
possidenti, che in Senato erano molti, si inquietavano per una legge
che attribuiva a venti commissari la facoltà, così
facile ad essere male usata, di espropriare le loro terre sia pur
pagandole; onde non fu difficile ai conservatori di far rinviare la
discussione da questo Senato di scettici e di deboli, ora con un
pretesto ora con un altro713. Cesare pazientò per molti
giorni, mentre Caleno che era pretore, e Publio Vatinio, un oscuro
avventuriere politico, che era tribuno della plebe, proponevano
riforme della legge giudiziaria714; ma alla fine, visto che
nè egli nè Crasso riuscivano a far discutere dal
Senato la legge, dichiarò che l’avrebbe proposta senz’altro
ai Comizi715. Gli animi si accesero: Bibulo, aiutato da Catone e dai
conservatori, incominciò un accanito ostruzionismo liturgico
per impedire le radunanze del popolo716; Cesare si ostinò,
agitò il popolo, sinchè, dopo aver cercato in tutti i
modi di smuover Bibulo, tentò un espediente supremo:
chiamò apertamente in aiuto Crasso e Pompeo, i quali vennero
nel fôro e dichiararono che l’ostruzionismo fazioso dei
conservatori doveva esser vinto anche colla forza, se la persuasione
non bastava717. La legge fu approvata tra grandi tumulti, nei quali
Vatinio operò come uomo d’armi e capo dei bravi di Cesare,
aggiuntaci una clausola che obbligava i senatori a giurare, entro un
certo tempo, fedele osservanza della legge; ma questo successo fu
piccola cosa in confronto al subitaneo rivolgimento, inaspettato da
tutti e anche da Cesare, che seguì all’improvvisa rivelazione
dell’alleanza tra questi tre potentissimi personaggi, creduti da
tutti nemici. La discordia di Crasso e di Pompeo era stata la
principale cagione per cui la combriccola reazionaria aveva
conservato tanto potere, non ostante le sconfitte e gli scandali; ed
era così antica, così acerba, così velenosa che
tutti la consideravano come eterna. Ecco a un tratto, da un giorno,
come per un incantesimo, si vedevano i due nemici d’accordo, ed
uniti al popolarissimo capo del popolino di Roma. Tutti furono
sbalorditi. Era evidente che Pompeo Crasso e Cesare sarebbero stati,
se concordi, signori dei comizi, delle magistrature, della banca; i
bosses, direbbero in America, i capi di un caucus, di una
combriccola politica potentissima; che difficilmente si sarebbe
potuto avere una magistratura, un comando, una legazione libera, un
prestito di favore senza la volontà loro. La maggioranza dei
senatori senza partito, desiderosi solo di onori lucrosi e di
potere, che parteggiavano sempre per i più forti, disertarono
tumultuariamente la piccola fazione dei conservatori intransigenti,
a capo della quale, dopo la morte di Catulo, stava Catone; e se non
passarono subito a riverire e a servire i tre potenti, non vollero
più impegnarsi in lotta aperta con loro.
Avviene degli spiriti come dei corpi, che quando fanno uno sforzo
troppo grande contro un ostacolo e questo cede all’improvviso,
perdono l’equilibrio. Così avvenne allora a Cesare; che si
appassionava facilmente sebbene facilmente sapesse ricomporsi, e non
poteva non sentire il contagio di quel mondo politico che, mentre
gli uomini ragionevoli se ne ritraevano, si riduceva sempre
più, da Catone a Clodio, da Bibulo a Gabinio, a una babele di
violenti e di maniaci. La subita rivelazione di potenza avvenuta
dopo l’annunzio dell’unione sua con Pompeo e Crasso, l’ira per la
ostinazione dei nemici e la paralisi improvvisa in cui vide caduto
il Senato, gli fecero mutar politica in un baleno, con una
velocità e una agilità quasi incredibile. Alla
prudenza del principio seguì una nuova oscillazione di
audacia. Imbaldanzito dal successo per la legge agraria, e adirato
dalla opposizione faziosa dei conservatori, egli abbandonò
all’improvviso la politica di conciliazione; immaginò
l’attuazione in Roma della pura dottrina democratica, la
costituzione di una democrazia alla greca che governasse sola, nelle
radunanze del popolo, senza il Senato, l’impero; che, capeggiata da
tre Pericli, potenti per eloquenza, per gloria e ricchezza,
decidesse anche le questioni diplomatiche e finanziarie, di cui il
Senato era stato il solo arbitro fino ad allora; e che intanto fosse
agile strumento a conseguire gli intenti immediati del suo
consolato. Senza indugio od esitazione, così prontamente come
aveva mutato pensiero, Cesare precipitò all’azione; e per
trarsi dietro, nella audace e lucrosa avventura politica,
l’aristocratico Pompeo, il prudente Crasso, i diffidenti
capitalisti, fece riconoscere dal popolo come amico di Roma Tolomeo
Aulete re d’Egitto, in compenso di 6000 talenti che divise con
Pompeo; fece conceder dal popolo la remissione degli appalti
domandata dai pubblicani al Senato; fece approvare dal popolo gli
atti di Pompeo718. Le azioni della Compagnia per le imposte d’Asia
rincarirono assai, in pochi giorni719. Roma, i conservatori
intransigenti, i senatori furono sbalorditi da questa audacissima
usurpazione dei poteri del Senato, che era una rivoluzione; ma
avevano appena cominciato a riaversi che Cesare li sopraffece con
un’altra audacia. Verso la fine di febbraio, Quinto Metello Celere,
che si disponeva a partire come proconsole per la Gallia Cisalpina,
moriva ancor giovane e così all’improvviso che la voce
pubblica accusò sua moglie Clodia di averlo avvelenato720; il
governo della Gallia Cisalpina, al quale era per necessità
unito il comando della probabile guerra contro i Galli, restava
vacante721. Ma Cesare colse prontamente l’occasione per impedire al
Senato di assegnar la provincia a qualche favorito; cercando di far
credere che una grossa guerra in Gallia fosse imminente722, fece
subito proporre al popolo da Vatinio una legge, con la quale, si
concedeva a lui il governo della Gallia Cisalpina e dell’Illirico
con tre legioni per cinque anni, dal giorno in cui la legge sarebbe
promulgata, affinchè se la guerra scoppiasse prima della fine
dell’anno egli potesse, come aveva fatto Lucullo, accorrere a
prenderne il comando. Per la velocità con cui Cesare fece
proporre la legge, e per lo stupore in cui Roma giaceva, dopo la
subita rivelazione dell’alleanza dei tre potenti, la legge fu
approvata senza contrasto e promulgata il primo marzo: ma Cesare
ancor più imbaldanzito dal nuovo successo, preparò a
Roma due nuove sorprese: per consolidare maggiormente, per un tempo
indefinito, l’alleanza provatasi così potente, sposò
in aprile a Pompeo la sua figlia Giulia723, che era fidanzata a
Servilio Cepione, facendo dare da Pompeo a costui in compenso la sua
figlia; e verso la fine di aprile724 ripropose una seconda legge
agraria, con la quale si divideva tra i poveri con famiglia anche il
territorio della Campania, dal cui affitto lo Stato ricavava un
reddito considerevole. Questa legge mirava forse anche a impoverire
l’erario e quindi il partito conservatore, che, potente in Senato,
aveva così spesso usato i fondi pubblici ai suoi fini di
partito; ed ebbe certo per effetto di compire la rivoluzione agraria
incominciata da Spurio Torio nel 111, distruggendo gli ultimi avanzi
del comunismo in Italia.
Insomma il Senato non era stato assalito mai con tanta audacia nelle
prerogative più antiche e più sacre: per assalti che
in confronto erano omaggi, Cajo Gracco era stato ucciso con molti
partigiani. Ma Cesare invece trascurava omai di convocare il Senato
e appariva dovunque, faceva e disfaceva come se fosse il signore di
Roma725. Catone tentava di riordinare una opposizione conservatrice;
Bibulo aveva dichiarate nulle in precedenza tutte queste
deliberazioni con cavilli liturgici e pubblicava editti su editti
violentissimi, contro Cesare, contro Pompeo, contro Crasso; Varrone
aveva chiamata l’alleanza di Cesare, di Pompeo e di Crasso la brutta
bestia con tre teste, e il motto aveva fatto furore negli
aristocratici salotti di Roma dove si laceravano da mattina a sera i
tre capi della democrazia vittoriosa: Crasso l’usuraio spilorcio,
che vendeva il voto in Senato e ricettava in casa sua per danaro i
criminali; Pompeo, il ridicolo vincitore di guerre senza battaglie,
il babbeo cui Cesare aveva messe le corna con la prima moglie e che
si era lasciata dare in isposa la sua figlia; Cesare il complice di
Catilina e il drudo di Nicomede. Il caucus dei tre potenti aveva
soggiogata la turba dei politicanti, ma non era punto ammirato dal
ceto medio ed alto, tra le persone ricche e colte, che, pur non
partecipando alle contese politiche, le osservavano, giudici
imparziali e supremi. L’invidia è il cancro delle democrazie
civili; e l’immenso potere della triarchia aveva trasportato su
Cesare, su Crasso e Pompeo molta parte di quella avversione che in
Roma e in Italia perseguitava sempre il partito o gli uomini al
potere, qualunque fossero. La gente faceva calca, così che
non si poteva più passare, agli angoli delle vie, dove erano
esposti i furibondi editti di Bibulo, che quasi diveniva
popolare726; Cesare, Pompeo e Crasso avevano ricevuto più
volte a feste e cerimonie pubbliche, accoglienze fredde727; la
generazione nuova dei giovani delle alte classi, fra i 20 e i 30
anni, ancor più eccitabile, orgogliosa, mutevole, precoce e
squilibrata nel bene e nel male che quella matura, affettava un gran
disprezzo per la triviale demagogia definitivamente stabilita da
Cesare in Roma728. Cicerone in ispecial modo era afflitto e irritato
contro i “dinasti”; scriveva ad Attico che Pompeo ambiva senza
dubbio la tirannide, e che la repubblica era ormai mutata in
monarchia, per la viltà dei grandi e l’audacia di pochi
ambiziosi; tetraggine di visioni a cui lo disponevano insieme motivi
personali e ideali: il malumore per essere decaduto ormai tra i
personaggi di secondaria importanza729; la ripugnanza sincera per la
tirannide demagogica; lo spavento per la crescente audacia di Clodio
che Crasso, Pompeo e Cesare proteggevano apertamente. Clodio che,
per un altro dei suoi stravaganti capricci, voleva allora degradarsi
da patrizio tra i plebei, per diventare tribuno della plebe, non
aveva ancora potuto buttar via il patriziato per difficoltà
legali; ma Cesare era venuto in suo aiuto e con una lex curiata de
arrogatione lo aveva finalmente implebeiato, onde sarebbe
sicuramente stato eletto tribuno l’anno prossimo730.
Rabbie e afflizioni vane del resto. Pompeo – è vero – era
stato un poco sorpreso e sconcertato da quell’improvviso
rivolgimento di cose, per cui, quando credeva di ridiventare, come
nel 70, il capo del nuovo partito popolare, signorile e legalitario,
si era trovato capo, con Cesare e con Crasso, di un caucus
demagogico, che repugnava al suo temperamento aristocratico. Egli
soffriva di queste contumelie, in segreto, acerbamente; non sapeva
bevere alle pozze melmose della ingiuria democratica; non poteva
tollerare il pensiero che tutta Roma ripetesse le violenti invettive
di Bibulo, per quella delicata suscettività così
frequente nei grandi signori, che li rende anche oggi, di istinto,
così nemici della libertà di stampa731; era anche un
poco spaventato dalle audacie demagogiche di Cesare e cercava con
abili sofismi di sceverare la responsabilità sua da quella di
lui732. Ma Crasso, più scettico ed egoista, si godeva la
nuova potenza dimenticando l’odio contro Pompeo; e Cesare sempre
più audace e impetuoso signoreggiava Roma, indifferente alla
malevolenza delle alte classi. Nessuno gli si opponeva più,
nessuno osava ripetere in pubblico le cose che tutti dicevano in
privato; pochi comparivano alle rare tornate del Senato, e
pochissimi alle radunanze del partito conservatore, che potevano
tenersi nella casa di Bibulo733, tanto era scarso il concorso;
Cicerone scriveva ad Attico cose di fuoco contro la viltà dei
senatori, ma anche egli faceva come gli altri734. Eppure se il
partito democratico non era, come pretendeva Catone, una banda di
ubbriaconi735, Cesare, Pompeo e Crasso eran soltanto i capi di una
clientela politica, detestata dai ceti superiori che possedevano la
ricchezza e la cultura. Come poteva questa clientela dominare uno
stato libero, retto con istituzioni elettive? Quale misteriosa malia
distruggeva a un tratto la forza dei ceti superiori e di
quell’assemblea, che aveva governata, per tanti secoli, prima il
piccolo Lazio, poi l’Italia, poi un immenso impero mondiale? Il
Senato aveva avuto energia, ed autorità propria, nell’antica
società rustica, aristocratica e guerresca, sinchè era
stato l’organo di una unica classe signoreggiante sicuramente su
tutte le altre: di quella aristocrazia di grandi proprietari,
educata solo a guerra e a politica, sottoposta a una forte
disciplina familiare e sociale, concorde nelle poche questioni
essenziali e nei pochi fini supremi di una politica semplice in una
civiltà semplice, discorde solo nei particolari e nei mezzi.
Ma con l’imperialismo e i progressi dello spirito mercantile, del
lusso, dei godimenti, della cultura, di quella insomma che suol
chiamarsi la civiltà, le tradizioni dell’antico vivere eran
venute meno; le passioni personali, la cupidigia, l’ambizione, la
voluttà si erano esaltate, distogliendo un gran numero di
persone delle classi alte dalle faccende pubbliche; i cittadini del
vecchio tempo, disciplinati, pronti ai carichi pubblici, tutti
plasmati nello stesso stampo della educazione tradizionale,
sparivano; cresceva invece una molteplice varietà di uomini,
avidi ognuno di certi piaceri, alacre ognuno in certe opere, infermo
ognuno per certi vizi, che non volevano accrescere le proprie
fatiche o disturbare i propri piaceri per le cose pubbliche; troppo
affaccendati privatamente, troppo egoisti e troppo diversi da poter
lavorare insieme per un fine comune a tutti.
Proprio allora infatti appariva in Roma il primo e grandissimo poeta
lirico, il cui canto sfrenatamente appassionato e personale segnava
appunto questo tempestoso mutar della stagione del tempo su Roma.
Nato nell’84 da una ricca famiglia di Verona736, Caio Valerio
Catullo, dopo aver ricevuta una splendida educazione letteraria, era
venuto a 20 anni a Roma, dove, presentato da Cornelio Nipote
all’alta società, aveva in breve conosciuto tutti gli uomini
insigni, i ricchi mercanti, le grandi dame, e appassionato e
impetuoso come un selvaggio, pur continuando a comprar libri e a
studiare737, si era dato a una sfrenata vita galante spendendo senza
contare, sfoggiando, facendo debiti, venendo in discordia con
l’avaro genitore738, corteggiando le donne; sinchè si era
innamorato perdutamente della bellissima e lascivissima Clodia, la
moglie di Metello Celere. Non aveva faticato molto a conquistare
questa donna così facile, a cui i trasporti frenetici
dell’ingenuo giovinetto dovettero piacere un momento, come un
sollazzo nuovo a distrazione di tanti amori brutali; ma al capriccio
fugace di Clodia egli corrispose con una passione tormentosa gelosa
e terribile per la sua “Lesbia” che egli avrebbe voluta interamente
sua; e per la quale si logorava in quegli anni in una vicenda di
liti e di paci, di ingiurie e di suppliche, di disperazioni e di
rassegnazioni739, che non disturbavano per nulla Clodia dalla
sfrenata dissipazione galante, ma nemmeno la crucciavano con il
tormentoso adoratore, al quale essa tornava di tempo in tempo, per
lasciarlo poi ancor più innamorato, più desideroso di
lei e insoddisfatto. Tuttavia in mezzo a questi crucci, per conforto
e per inclinazione, Catullo esercitò il suo straordinario
ingegno poetico e letterario, poetando con una sincerità
quasi brutale, con una potenza e una varietà di metrica, di
motivi, di espressioni meravigliosa, tutti i momenti, i più
frivoli e i più dolenti, della sua vita: gli improvvisi e
violenti appetiti del senso; i capricci fugaci della lascivia; le
affettuose confidenze dell’amicizia; la comica desolazione dei
debiti; la melanconia delle partenze per viaggi lontani; il
rimpianto del fratello, morto giovane in Asia; lo sfrenato
turpiloquio dell’ira triviale, prontissima e fugacissima;
l’intenerimento passeggero delle rimembranze, quando in mezzo alla
torbida Roma ripensava al suo bel Garda azzurro, solitario e
tranquillo, sulle cui rive la casetta placida di Sirmione, amica e
ridente, che l’aveva visto bambino, l’aspettava come una vecchia
nutrice aspetta il figlio oblivioso e vagabondo e triste nella
lontananza; il cruccio degli amori gelosi, e il rodimento di quella
contradizione insolubile, che egli espresse in due versi mirabili:
– L’odio e l’amo. Forse mi domandi: perchè?
– Non lo so. Ma
lo sento e mi arrovello740. –
La lirica di Catullo basterebbe a spiegare il successo della
rivoluzione politica fatta da Cesare, durante il consolato. Questa
poesia così personale e appassionata poteva prorompere solo
da una età, in cui le classi alte e colte si erano disperse
nella ricerca dei godimenti più vari, dalla ricchezza
all’amore, dal giuoco alla filosofia, abbandonando lo Stato a una
classe di politicians di professione, nella quale la maggioranza
serviva sempre la cricca o il partito che per il momento pareva
più forte. Dopo l’improvvisa usurpazione dei poteri del
Senato fatta da Cesare, il maggior numero dei senatori aveva temuto,
cadendo in disgrazia dei tre capi della democrazia, fatti
così potenti dalla unione, di riceverne danno nelle ambizioni
e nelle cupidigie personali; e Cesare dominava; Catone e Bibulo
tentavano invano di riordinare un’opposizione; le classi alte
subivano, scontente ma inerti, la nuova tirannide demagogica; e
Lucullo che, un momento aveva voluto contrastare alla triarchia,
minacciato da Cesare di un processo per le prede da lui fatte nelle
guerre in Oriente, subito tacque.
Tuttavia Cesare, che inclinava sempre anche nella fortuna a
considerare maggiori del vero i pericoli, non si illuse; e vide
chiaramente già allora che il potere acquistato in un baleno
poteva venir meno in breve tempo. Egli aveva fatto approvare un
seguito di leggi rivoluzionarie; ma sapeva bene che i conservatori
avrebbero, quando egli non fosse più in Roma, cercato di
annullarle. Perciò con una alacrità veramente
ammirabile,Cesare attese, nella rimanente parte dell’anno, a
consolidare il potere della triarchia. Bisognava anzi tutto fare
eleggere consoli per l’anno seguente uomini devoti a Cesare e ai
suoi amici; e furono scelti difatti a candidati Aulo Gabinio,
devotissimo a Pompeo, e Lucio Calpurnio Pisone, di una antica
famiglia nobile che aveva perso lo stampo della stirpe
dopochè il padre suo, impoverito, si era dato agli affari,
aveva fatto denari come fornitore militare al tempo della guerra
sociale e aveva sposata la ignobile ma ricca figlia di un mercante
di Piacenza741. Pisone, uomo, a quanto pare, triviale e ambizioso,
era pronto a servire qualunque partito pur di avere ricchezze ed
onori; ma Cesare, per esser più sicuro di lui, si
fidanzò con la sua figlia Calpurnia. Era inoltre necessario
allontanare da Roma il maggior numero di conservatori autorevoli; e
signoreggiare con una maggioranza sicura i comizi, a cui Cesare
aveva ormai trasportato il governo dello Stato; affinchè,
anche quando egli fosse lontano, il partito conservatore non potesse
far abolire dal popolo ciò che egli aveva fatto approvare.
Fatalmente il partito democratico era di nuovo tratto a cercar le
fonti del potere, oltre l’egoismo civico delle classi alte e medie,
nella infima plebe urbana; perchè torme di elettori sicuri e
pronti a votare ai cenni di un capo si potevano reclutare solo nel
popolino povero e rozzo, fra i mendicanti, gli artigiani, i liberti.
Ma Cesare non volle questa volta essere il capo di una plebe
disgregata e mobile come le arene del mare; pensò di
organizzarne almeno una parte in un vero corpo di elettori; e scelse
abilmente a questo ufficio Clodio, nel quale l’orgoglio
aristocratico degli avi si era pervertito in una passione di tutte
le cose brutali e volgari; che si godeva tra i ladri, i beceri, i
lenoni, i furfanti e la feccia delle taverne, come altri nelle
più elette compagnie. Cesare gli propose di aiutarlo a essere
eletto tribuno della plebe, a condizione che Clodio divenisse il suo
massimo agente elettorale; e Clodio accettò per ambizione,
per il desiderio di spaventare e scandalizzare Roma per un anno,
come tribuno; e per la smania di vendicarsi di Cicerone, contro cui,
per la deposizione da lui fatta nel processo di sacrilegio, aveva
concepito un odio ferocissimo.
Ma Bibulo rimandò le elezioni dal luglio all’ottobre. Intanto
Cicerone, che verso il principio di giugno era tornato dalla
Campania a Roma742, vedeva il suo credito rinascere rapidamente in
mezzo a quella agitazione. Pompeo non tralasciava occasione di
usargli cortesia743; Cesare gli proponeva di nominarlo suo generale
in Gallia744, ambedue desiderando che egli non si mettesse contro di
loro; l’opposizione, i malcontenti, i conservatori, i giovani
affollavano di nuovo la sua casa come ai tempi di Catilina, quasi
egli solo fosse capace di restaurare la costituzione745. Solo Clodio
empiva Roma di invettive e minaccie contro di lui746. Cicerone,
ormai snervato e tormentato da dubbi continui, si commosse poco per
le lusinghe di Cesare e di Pompeo, perchè la sua avversione
alla tirannide demagogica era troppo profonda e sincera; ma non si
risolvè nemmeno a intraprendere una opposizione energica,
ondeggiando sempre, a volte agitato da una viva impazienza di grandi
battaglie, a volte avvilito dalla ignavia dei conservatori747. Tutti
parlavano male, in privato, di Cesare, ma che cosa erano poi pronti
a dire pubblicamente e a fare? Uno solo dei candidati per l’anno 58
aveva avuto la fermezza di non giurare l’osservanza delle sue leggi.
Inoltre le minaccie di Clodio incominciavano a inquietarlo a tal
segno, da fargli dimenticare i guai pubblici. Ne aveva parlato con
Pompeo, il quale lo rassicurava: Clodio essersi impegnato con loro a
non far nulla contro di lui748; e per un momento si era
tranquillato; ma tornava ad inquietarsi di nuovo di lì a
poco, vedendo Clodio continuare nelle invettive; e scriveva ad
Attico di venire presto a Roma, dove l’avrebbe aiutato a conoscere
le intenzioni di Clodio, per mezzo di Clodia di cui pare Attico
fosse molto amico749. Clodio infatti ingannava Pompeo, perchè
egli voleva far condannare all’esilio Cicerone, accusandolo di aver
fatto giustiziare illegalmente i complici di Catilina: ma
astutamente nascondeva a tutti la propria intenzione, sapendo quanto
fosse difficile scacciar da Roma un oratore così celebre, per
sorprenderlo all’improvviso750. Intanto Cesare proponeva una legge
contro gli abusi dei governatori, assai minuta e ben fatta, sebbene
di difficile applicazione; e faceva proporre da Vatinio una legge
che lo autorizzava a dedurre a Como 5000 coloni di diritto
latino751. Ma Pompeo, sempre esitante, incerto e pentito di essersi
impegnato in questa mischia di partito, era cagione di inquietudine
a Cesare, il quale pare ricorresse, per vincerne le esitanze, a una
insidia tenebrosa: fargli credere che la nobiltà romana
tramava un complotto contro di lui. Vatinio indusse un agente
provocatore di nome Vezio a incitare alcuni giovani più
leggeri dell’aristocrazia a ordire una congiura contro Pompeo, per
poi svelarla; e, Vezio ne parlò al figlio di Scribonio
Curione; ma questi più astuto lo disse subito al padre, che
svelò tutto a Pompeo. Vezio imprigionato denunziò
parecchi giovani, fra i quali Bruto, il figlio di Servilia. Non
è improbabile che Vezio avesse parlato della cosa anche a
Bruto (ciò dimostrerebbe che l’agente provocatore conosceva
gli uomini); e che Bruto avesse commesso una imprudenza; ad ogni
modo Servilia corse da Cesare; Cesare visitò Vezio in
prigione; e poi, radunato il popolo, lo fece comparire e raccontare
la lunga storia di un complotto, in cui non si parlava più di
Bruto, ma si accusavano vagamente uomini potenti del partito
conservatore, Lucullo, Domizio Enobarbo, anche Cicerone. Ma poi
della cosa non si parlò più; si disse anzi che Vezio
fosse stato fatto uccidere, da Cesare, in prigione752.
In ottobre Pisone e Gabinio furono eletti consoli; Clodio tribuno
della plebe; diversi conservatori, tra gli altri Lucio Domizio
Enobarbo, pretori. Di lì a poco il Senato, nel quale il
partito conservatore aveva perduto gran parte del suo potere, diede,
su proposta di Crasso e di Pompeo, anche il governo della Narbonese
con una legione a Cesare753; il quale, sicuro oramai del comando
proconsolare, si volse a consolidare definitivamente il suo potere
nel fôro, organizzando la “Tammany Hall” di Roma antica. Non
appena entrato in carica il 10 dicembre, Clodio annunziò un
seguito di leggi, una più popolare dell’altra, certo
preparate d’accordo con Cesare: una legge frumentaria per la quale i
cittadini poveri riceverebbero il grano dello Stato, non più
a prezzo di favore, ma gratuitamente; una legge che disponeva il
popolo potesse radunarsi ed approvare leggi in tutti i giorni fasti;
una legge che accordava piena libertà di associazione alle
classi operaie di Roma, le cui società erano state negli
ultimi anni tanto perseguitate dai conservatori754. Qualche
conservatore, anche Cicerone, voleva opporsi energicamente a queste
proposte, ma Clodio li ingannò astutamente, dando ad
intendere che, se gli approvavano queste leggi, egli avrebbe
lasciato tranquillo Cicerone755; e Cicerone illuso, come avviene
spesso ai timidi, dal proprio desiderio di pace, cede, si mantenne
quieto, consigliò gli altri ad astenersi, cosicchè nei
primi giorni dell’anno 58 tutto fu approvato senza opposizione.
Subito Clodio, con una nuova legge, fece incaricare dal popolo un
suo cliente, Sesto Clodio, di oscura e povera famiglia, di compilare
le liste degli ammessi alla distribuzione gratuita del grano756.
Avvenne allora un fatto imprevisto e curioso: molti bottegai,
rivenditori ambulanti, artigiani, che possedevano qualche schiavo,
il cui mantenimento era caro a Roma per la scarsezza del grano, li
liberarono per farli cittadini e metterne il mantenimento a carico
dello Stato757: largo compenso alla diminuzione di diritti che
seguiva la liberazione. Il numero dei partecipi alle distribuzioni
aumentò rapidamente; Sesto non fu severo nel compilare le
liste; il beneficio di questa legge, largamente diffuso nel
popolino, accrebbe la popolarità della triarchia e di Clodio,
il quale facilmente potè con un rapido lavoro, aiutato da
Sesto e complici i consoli, organizzare, nell’infima plebe artigiana
di Roma e per ogni quartiere, un gran numero di società
operaie ed elettorali nel tempo stesso; dividere in decurie, ed
ordinare in squadre un gran numero di liberti e anche di schiavi
sotto caporali, che, a un ordine di Clodio, li avrebbero portati a
votare758. Di questo esercito elettorale, reclutato nel popolino
cosmopolita di Roma, simile a quello che la “Tammany Hall” recluta
nella plebe cosmopolita di New York, e posto ai servizi della
clientela di Cesare, di Crasso e Pompeo, lo Stato pagava il
mantenimento, con la legge frumentaria; per provvedere alla quale
Clodio fece approvare con una legge del popolo la conquista di Cipro
e la confisca dei tesori del suo re, con il pretesto che si ostinava
maliziosamente a aiutare i pirati759. Clodio, avendo servito con
zelo e abilità la triarchia, voleva ora la sua ricompensa: la
condanna di Cicerone, che Cesare, Crasso e Pompeo, non avendo potuto
trarlo dalla loro parte, avrebbero invece voluto allontanare da
Roma, ma in modo onorevole; e a cui Cesare, uscito di Roma, in
attesa di partire per la Gallia, offrì di nuovo la nomina a
suo legato in Gallia. L’astuto Clodio, che aveva sempre dato a
intendere ai tre capi della democrazia di non volere nuocere a
Cicerone ma solo spaventarlo, aspettò di avere organizzate le
associazioni elettorali; e poi all’improvviso, come un animale in
agguato che piomba sulla preda, propose una legge che minacciava la
interdizione a chi avrebbe o avesse già condannato a morte,
senza appello al popolo, un cittadino romano760; e una lex de
provinciis, nella quale, contro le disposizioni della recente legge
di Cesare si attribuivano a Pisone la Macedonia e a Gabinio la
Siria, con il diritto di far guerra fuori della provincia e di
giudicare anche presso i popoli liberi, e con l’assegnazione di
grosse somme di denaro, per indurre con questo compenso i consoli a
lasciarlo liberamente perseguitar Cicerone761. Cicerone e i suoi
amici tentarono di resistere; una deputazione di senatori e di
capitalisti si recò dai consoli; Cicerone sollecitò
l’intervento di Pisone, di Pompeo e di Crasso; i suoi amici
tentarono di convocare meetings popolari per protestare contro la
legge di Clodio. Inutilmente. Pompeo, Crasso e Cesare, pur dolendosi
che Clodio li avesse astutamente ingannati, e li facesse in parte
responsabili dello scandalo di questo esilio di un cittadino
così illustre, non vollero impegnarsi in un conflitto con il
potentissimo demagogo; solo Crasso lasciò lavorar per lui il
figlio suo Publio, giovane di grande ingegno e di nobili passioni,
che doveva partire con Cesare per la Gallia, e che ammirava con
trasporto il grande oratore; il pubblico, intimorito da Clodio,
scoraggiato dall’astensione dei tre capi della democrazia, non si
commosse; e gli amici sorpresi all’improvviso furono costretti a
consigliar Cicerone di cedere per il momento alla sventura e andare
spontaneamente in esilio, sperando in un prossimo e onorifico
ritorno. Cicerone in principio si disperò, protestò,
rifiutò; ma poi, vinto dalla necessità, si
appigliò al solo partito savio che gli restasse; e ai primi
di marzo abbandonò Roma. Lui partito, Clodio fece confermare
l’esilio con una legge; e gli distrusse le case e le ville762. Poco
dopo partivano anche Cesare, che aveva ricevute notizie inquietanti
dalla Gallia; e Catone, che Clodio aveva incaricato per legge della
impresa di Cipro. Cesare andava in Gallia, seguito da molti amici,
che avrebbero servito sotto gli ordini suoi nell’esercito: Labieno,
il tribuno dell’anno 63; Mamurra, un cavaliere di Formia,
probabilmente sino allora appaltatore, che sarebbe stato capo del
genio; Publio, figlio di Crasso. Catone invece non voleva accettare
la missione straordinaria di Cipro, comprendendo che Clodio
intendeva non fargli onore, bensì allontanare da Roma il capo
del partito conservatore per render più sicuro il potere dei
triarchi, per conto dei quali agiva; ma poi considerando che Clodio
lo avrebbe processato per disobbedienza a un ordine del popolo, e
che, poichè a Roma non si poteva più far nulla, egli a
Cipro salverebbe almeno i tesori del re per l’erario,
partì763, conducendo seco il nipote Marco Bruto, cui, dopo la
faccenda di Vezio, conveniva fare un viaggio. Ma Bruto lo
seguì a malincuore, dolendogli di lasciare Roma e i suoi
studi, ai quali attendeva con gran trasporto, e per i quali era
già noto, non meno che per una purezza dei costumi, rara
nella gioventù così dissoluta del tempo suo764.
XVIII.
LA CONQUISTA DELL’IMPERO.
Intanto incominciava in Italia un nuovo e maggior progresso del
lusso. Lucullo, che dopo il ritorno aveva, se non abbandonata del
tutto, trascurata la politica, come la sua missione storica sulla
terra fosse finita, ne cominciava un’altra: dopo aver suscitato nel
popolo italiano la passione e il coraggio delle conquiste
indefinite, creando l’ultima e più ardita politica
dell’imperialismo romano, mostrare alla nazione, inconsapevole
maestro di lusso e di magnificenza, come si dovevano usare le
ricchezze acquistate. Senza misura ormai e senza freno in tutte le
cose, trasportato da una esaltazione quasi maniaca che cresceva con
la vecchiaia, questo uomo, restato povero e semplice sino a
cinquanta anni, sinchè aveva conquistato gli immensi regni e
i tesori di due sovrani di Oriente, sfogava allora il suo tardo
delirio di grandezza in un fasto asiatico, non ancor visto a Roma, e
stupiva con quello l’Italia, come prima l’aveva stupita con la sua
audacia guerresca. Con i denari di Mitridate e di Tigrane egli si
era fatto costruire in quella parte del Pincio che si chiama la
Trinità dei Monti, nell’area compresa tra la via Sistina, la
via Due Macelli e la via Capo le Case, una magnifica villa, con
palazzi, con portici, con sale, con giardini, con biblioteche, tutta
adorna di meravigliose opere d’arte765; aveva comprato Nisida e
l’aveva convertita, con immense spese, in un delizioso soggiorno766;
aveva costruita una villa a Baia, e comprate vaste terre nel
Tusculano, costruendo però in ciascuna non una rozza
fattoria, ma splendidi palazzi, con opere d’arte e sale da pranzo
magnifiche767; faceva lavorare una coorte di architetti greci,
dicendo loro che lo rovinassero768; convitava torme di amici, di
dotti, di artisti greci, a cene sontuosissime, preparate dai
migliori cuochi di Roma, nelle quali soddisfaceva la senile
ghiottoneria, unica passione del senso che si era ancor risvegliata
in un uomo datosi a godere così tardi. Afrodite non aveva
voluto entrar nella casa, aperta da questo vecchio frettoloso alle
Voluttà. Certo, in mezzo a questi sontuosi conviti, il
vecchio non sospettava che, dopo aver creato quella politica la cui
gloria doveva toccare poi quasi tutta a Cesare, il suo nome sarebbe
diventato celebre per queste profusioni; che la posterità
avrebbe dimenticato il dono da lui fatto all’Italia del ciliegio,
misconosciuta l’importanza storica delle sue conquiste in Oriente,
ma si sarebbe ricordata dei pranzi che egli imbandiva. Eppure con
questi pranzi, con queste costruzioni, con queste sontuosità
Lucullo continuava la missione storica incominciata con la conquista
del Ponto, con le rapine di metalli preziosi e le catture degli
uomini: essere con l’esempio della vita privata un potente veicolo
della civiltà greco-orientale, industriosa, colta, sibaritica
nella rude e semplice Italia rustica.
E di fatti intorno a lui si accelerava il mutamento, ferveva
intensamente il processo vitale della grande êra imperialista:
l’assimilazione degli schiavi orientali. Giammai l’Italia era stata
così piena di schiavi come in quei tempi: le conquiste dei
due Luculli e di Pompeo, le piccole guerre di frontiera, il
commercio consueto dei debitori ridotti in schiavitù o degli
uomini rapiti dai pirati, avevano trasportata e trasportavano in
Italia una moltitudine varia di uomini e donne, di architetti, di
ingegneri, di medici, di pittori, di orefici, di tessitori, di
fabbri asiatici, di cantatrici e ballerine siriache, di piccoli
mercanti e fattucchieri ebrei, di stregoni e venditori di semplici e
di veleni; di pastori galli, germani, scitici, spagnoli. Dispersi
nelle case dei ricchi e del medio ceto di Roma e dell’Italia, questi
infelici cui la lotta dell’uomo contro l’uomo aveva tolto il
focolare, dispersa la famiglia, rapita la fortuna, avevano dovuto
ricominciare, a qualunque età fossero giunti, la vita; e a
poco a poco nella moltitudine si era fatta una cernita: alcuni
troppo ribelli erano stati condannati a morte dai padroni; altri
fuggiti si erano buttati al brigantaggio o alla pirateria; altri si
erano perduti nella grande metropoli o sulle vie dell’Italia, erano
periti in qualche rissa, in qualche insidia, per qualche accidente
naturale; molti erano stati uccisi dalle malattie, dal disagio, dal
dolore della patria perduta, della fortuna e dei cari dispersi. In
tutte le grandi emigrazioni della famiglia umana, volontarie o
forzate, attraverso la terra, molti spariscono nell’ignoto,
così. Ma molti, specialmente quelli dei paesi civili
dell’Oriente, che erano abili artefici di mestieri fini, avevano
incominciato a poco a poco a conoscere gli uomini e le cose; a
orientarsi, a dimenticare un poco la patria lontana, a imparare alla
meglio la lingua dei vincitori, a far conoscere ai loro padroni le
proprie attitudini; avevano ottenuto il permesso di esercitare in
parte a beneficio proprio, in parte a beneficio del padrone la
professione, in una bottega che il padrone apriva; talora anche
avuta la libertà, a condizione di dare al padrone una parte
del guadagno. La legislazione sui doveri economici e morali dei
liberti si perfezionò, determinando e risolvendo con
precisione i singoli casi769; i liberti formarono una classe di
artigiani, che manteneva nell’agiatezza o nel lusso, cedendo parte
del suo lavoro, la classe media ed alta dell’Italia; i rapporti tra
padroni e servi si fecero più umani; cominciò a esser
costume di dare la libertà a uno di questi schiavi abili e
fedeli, dopo sei anni di servitù770. Lo spirito di
speculazione, universale negli Italiani, favorì mirabilmente
gli sforzi degli schiavi; molti signori facevano qualche schiavo
più abile maestro dell’arte sua ad altri schiavi giovinetti;
le case dei ricchi e del medio ceto in Roma e in Italia si mutavano
in scuole di arti e mestieri. Così un profumiere di
Mitridate, che era stato schiavo e poi liberto di un Lutazio, aveva
aperta a Roma una bottega e preparava le sue ricette odorose, non
più per le concubine del re, ma per le signore di Roma771;
così in tutta Italia le case dei ricchi e degli agiati
avevano schiavi e liberti fabbri, falegnami, tessitori di stoffe e
di tappeti, capomastri, pittori, tappezzieri, i quali lavoravano per
il signore e per il pubblico sempre più avido di lusso;
così, nella campagna, antichi agricoltori delle isole
dell’Egeo e della Siria perfezionavano la coltura della vite e
dell’ulivo, insegnavano a fabbricare oli e vini migliori, ad
allevare gli animali con maggior cura; così nella
società italiana cresceva la molteplicità dei gusti e
delle attitudini, la varietà delle opere, delle arti e dei
mestieri. Di liberti si componeva in gran parte anche il ceto umile
e meritorio dei maestri – grammatici e retori – notevolmente
cresciuto per soddisfare il desiderio di istruirsi, diffusosi nella
classe media772. Altri schiavi capivano le debolezze e i bisogni dei
loro padroni, nei quali sopravviveva ancora, così spesso,
tanta parte della antica rozzezza italica; ne diventavano, se
uomini, i contabili, gli amministratori, i fattori, i consiglieri, i
bibliotecari, i copisti, i traduttori, i segretari, i mezzani, i
corruttori; le concubine padrone, se donne; li servivano insomma e
li dominavano. Specialmente le case dei grandi, come quella di
Pompeo, di Crasso, di Cesare erano simili a ministeri, ove numerosi
liberti e schiavi orientali aiutavano i padroni; ordinavano le feste
sontuose per il popolo, tenevano la corrispondenza, i conti, i
registri dei clienti, gli archivi della famiglia.
Nel tempo stesso in cui tanti stranieri venivano dalle provincie in
Italia, un gran numero di Italiani emigrava nei paesi conquistati.
Come ora piccole colonie di Inglesi e di Tedeschi si stabiliscono in
ogni parte del mondo, così allora, in ogni paese del
Mediterraneo, vivevano numerosi residenti Italiani: non solo in
Grecia e nella provincia d’Asia, antica meta dei primi cercatori di
fortuna che l’Italia mandò per il mondo; ma sulle coste
dell’Adriatico da poco conquistate, a Salona773 e a Liesc774; nella
Gallia Narbonese; nelle città della Spagna come Cordova e
Siviglia775; in Africa, ad Utica, ad Adrumeto, a Tapso776; ad
Antiochia e in tutta la Siria, dove dopo le legioni di Pompeo erano
accorsi dall’Italia777 numerosi avventurieri e mercanti778. Questi
Italiani si davano dappertutto ad opere varie: erano fornitori degli
eserciti, appaltatori delle imposte, mercanti di schiavi e di
prodotti indigeni, direttori, vice-direttori, impiegati delle grandi
compagnie di publicani, agenti di signori italiani che avessero beni
o crediti nella provincia, proprietari essi stessi, fittavoli dei
demani pubblici, usurai il più spesso; e si raccoglievano in
specie di clubs, o associazioni rette con statuti e chiamate
conventus civium romanorum; erano il corteggio e i consiglieri dei
frettolosi governatori, sbalzati nella provincia a un tratto e
ignari del paese, che sempre ne diventavano o gli strumenti
inconsapevoli o i complici. Questi residenti, partiti spesso
dall’Italia poveri, diventavano presto nelle isolette, nei villaggi,
nelle cittaduzze, dove i casi della fortuna li avevano condotti,
particelle vive di quella unica anima immensa, che, imperiosa e
cupida, dominava ed atterriva dall’Italia tutte le coste
mediterranee; formavano tra gli indigeni una minuscola aristocrazia,
orgogliosa, prepotente per la ricchezza, per la cittadinanza romana,
per la protezione dei governatori; e come piccoli monarchi,
maltrattavano e spogliavano gli indigeni, si dispensavano
dall’osservanza di ogni legge, si atteggiavano qualche volta anche a
benefattori generosi779. Così le torme dei vinti ed i pochi
vincitori si incontravano sulle grandi strade dell’Impero, in
viaggio verso i proprii opposti destini; avviati gli uni a servire
con le braccia, con le attitudini tecniche, con l’astuzia, con i
vizi, con la coltura; gli altri ad usare e ad abusar del dominio,
con il denaro, con le leggi, con le armi, con l’orgoglio cieco del
signore, che non vede quale terribile insidia si appiatti nella
docilità di ogni servo.
La vecchia Roma schiettamente latina, povera, modesta, piccola,
piena di boschetti e di prati tra i quartieri ancor radi, con le
case dei suoi patrizi basse e solitarie, ognuna separata da un
giardinetto come i cottages inglesi, con il suo piccolo quartiere
degli scarsi artigiani780, prorompeva ormai da ogni parte oltre il
cerchio antico delle mura, con il tumultuoso disordine delle immense
case di speculazioni per la plebe innumere, pigiate l’una contro
l’altra, alte come torri, aggrappate ai pendii più ripidi e
alle vette più aguzze dei sette colli781; con i vasti
giardini e gli ampi palazzi, solitari come le anime dei loro
orgogliosi signori, della nuova e discorde oligarchia di
capitalisti, di mercanti, di generali, arricchitisi predando, con la
guerra e l’usura, l’Africa, l’Asia e l’Europa; con i molti avanzi
della vecchia città latina: orribili e veneratissimi templi
di legno imputriditi, vecchie case patrizie di stile latino,
basiliche e monumenti pubblici fregiati dalle rozze ceramiche
etrusche. Quella disciplina del piacere, quella combinazione
ingegnosa e quasi monastica di insegnamenti, esempi, sorveglianze e
minaccie reciproche, con cui la vecchia nobiltà romana si era
assicurata il dominio del mondo, trattenendo in sè e nella
plebe la fretta di consumar subito i frutti delle prime vittorie,
era ormai distrutta; la cupidigia, l’ambizione, tutte le
Voluttà, Afrodite, il Dio Dionisos, le Nove Muse, la
Filosofia, avevano invaso Roma, come la torma delle Baccanti, in un
tumulto orgiastico; e da Roma si erano sparse per l’Italia ad
accendere dovunque un’ardente cupidigia di ricchezza, di potenza, di
piaceri e di sapere. Il grande Impero ricordava appena i suoi
piccoli principi; come Lucullo, tra gli splendori opulenti, che
nella villa sul Pincio allietavano gli ultimi anni al vecchio
conquistatore del Ponto, si ricordava appena, come di un altro uomo
vissuto in età lontana, di un giovinetto austero, semplice,
povero, orgoglioso della sua povertà, che il terribile Silla
aveva prediletto. Che valeva ricordare e confrontare! Osservatori e
partecipi, i contemporanei giudicavano questo grande rivolgimento
come una “corruzione” degli antichi costumi; come un male quindi
nato dalla incurabile infermità della umana natura, di cui
nessuna forza umana poteva impedire il meraviglioso e spaventoso
progresso. Ma noi possiamo oggi giudicar meglio, con più
matura esperienza storica, questa “corruzione” romana, divenuta
celebre nei secoli per i lamenti e per le invettive degli scrittori
antichi, come l’orgia più sfrenata che il tempo abbia visto,
di una stirpe troppo favorita dalla fortuna; e giudicando meglio
questa corruzione, capire, nella essenza sua, la conquista romana.
Gli antichi chiamavano “corruzione” tutti i mutamenti di cui furono
cagione nella antica società italiana, aristocratica,
agricola e guerresca, i progressi della conquista; e che erano
simili a quelli di cui i progressi dell’industria sono stati
cagione, in misura diversa, nella Inghilterra e nella Francia,
durante il secolo XIX, nell’Italia del Nord e nella Germania dopo il
1848, nell’America di Washington e di Franklin dopo la guerra di
secessione. Come ora avviene in questi paesi, a mano a mano che
progredisce l’industria e la ricchezza cresce, così allora, a
mano a mano che la conquista romana si allargò vittoriosa per
il Mediterraneo, un numero maggiore di persone, abbandonate le opere
rustiche, si era data in Italia alla mercatura, all’usura, alle
speculazioni; anche l’agricoltura era diventata industriosa,
bisognosa di capitali, studiosa di migliorie, pronta alle
innovazioni; il costo della vita, il desiderio del benessere, il
lusso erano cresciuti in tutte le classi, aumentando in ciascuna di
decennio in decennio, di generazione in generazione, con
velocità progressiva; i mestieri e quindi il ceto artigiano
eran cresciuti di numero e di varietà in ogni città;
la vecchia nobiltà terriera era decaduta; i ricchi mercanti e
i rimestatori di milioni avevan formata una classe numerosa,
orgogliosa, potentissima; il ceto medio aveva acquistato maggiore
agiatezza e indipendenza; la cultura, diletto di una piccola
aristocrazia in antico, era stata cercata avidamente, in special
modo dalle classi medie, convertita da queste in strumento di
potenza e di arricchimento, diffusa come forza animatrice e
rinnovatrice delle antiche tradizioni in tutta la vita pubblica e
privata, dalla educazione alla medicina, dal diritto alla guerra,
dalla agricoltura alla politica; il denaro e la intelligenza erano
divenuti i due più potenti strumenti di dominazione; Roma era
cresciuta così rapidamente come nel secolo XIX Parigi, New-
York, Berlino e Milano; anche le città minori incominciavano
ad ingrandire e ad abbellirsi perchè il gusto del vivere
cittadino si diffondeva.
L’Italia non era più una nazione di contadini laboriosi e
parchi, ma la conquistatrice e l’usuraia del mondo mediterraneo,
un’avida nazione “borghese” nella quale, tolti pochi miserabili,
tutte le classi, la nobiltà, i finanzieri, i mercanti, il
medio ceto si mutavano in una borghesia, che voleva vivere
largamente sul reddito di capitali posti a frutto, sui lucri
violenti della conquista, sul lavoro di una moltitudine di schiavi,
i quali coltivavano sotto la sua vigilanza la terra, esercitavano le
industrie e le professioni, facevano il servizio domestico, li
aiutavano come impiegati nel commercio, nella amministrazione, nella
politica; e tra cui gli schiavi orientali, docili, pieghevoli,
astuti erano il veicolo di una immensa trasformazione di idee, di
costumi, di sentimenti.... Il disagio, che aveva tormentata l’Italia
e generato il disordine catilinario era stato alleviato dai grandi
capitali portati in Italia da Pompeo, dai suoi ufficiali e soldati;
dai redditi delle nuove provincie conquistate e dai nuovi appalti di
imposte; la scarsezza dei metalli preziosi era diminuita, la
facilità del credito era ritornata, e con essa l’arditezza
della speculazione, e l’aumento del consumo. In tutta l’Italia i
boschi secolari erano tagliati; le rozze case coloniche dei medi e
dei grandi proprietari abbattute; i tetri “ergastula”, le torme
degli schiavi incatenati, i desolati latifondi sparivano;
dappertutto la coltivazione della vite e dell’ulivo si diffondeva;
intorno alle città sorgevano eleganti cascine e ville in
mezzo a vaste tenute, dove, sotto la direzione di un intelligente
fattore greco o orientale, schiavi meglio trattati coltivavano la
vite e l’ulivo, allevavano animali da stalla e da cortile; la
campagna era sparsa di belle casette di medi proprietari che
coltivavano il fondo con l’aiuto di qualche schiavo. Le città
ancor chiuse nelle mura ciclopiche delle antiche età, in cui
dal monte al piano, dal fiume al mare, tra città e
città la guerra ricominciava eterna, si abbellivano dentro,
nella vasta pace che si diffondeva per la penisola, di templi, di
fôri, di basiliche più ornate, di palazzine più
sontuose, opera di architetti orientali. In faccia al suo bel mare e
al suo bel cielo l’Italia spogliava la antica e rozza veste
barbarica di boschi e di cereali; vestiva una bella veste fronzuta
di alberi dell’Oriente, di vigne e di uliveti; ricopriva tutto il
suo corpo, come di gemme, di belle città, di ville, di
cascine.
L’Italia si rinnovava, in quella età, come l’Europa e gli
Stati Uniti si rinnovano ora; si mutava da nazione aristocratica,
agricola, guerresca in una democrazia borghese e mercantile; e
cadeva nelle stesse contradizioni che perturbano la civiltà
nostra: la contradizione tra il sentimento democratico e la
disuguaglianza delle fortune; tra le istituzioni democratiche e lo
scetticismo politico delle alte e medie classi; tra la decadenza
delle virtù guerresche e l’orgoglio nazionale, l’amore
platonico per la guerra, le ambizioni conquistatrici delle classi
pacifiche. Decaduta la vecchia nobiltà, rotti i vincoli di
protezione tra questa e il medio ceto, cresciuti l’indipendenza,
l’orgoglio e il potere del ceto medio, diffusa con la cultura e la
filosofia l’ideologia politica, formatosi a Roma un proletariato
artigiano numeroso, indocile, abbandonato a sè stesso, era
caduto l’angusto, ma vigoroso governo aristocratico dei tempi in cui
la nobiltà sola esercitava la magistratura, sedeva in Senato
e imponeva a tutta Italia la propria volontà concorde; l’idea
che lo Stato fosse la “cosa di tutti”, la politica materia
sottoposta al giudizio di ognuno, i magistrati, non padroni, ma
servi e ministri della nazione, si era divulgata, come ora in
Europa. Nel tempo stesso però, come avviene negli Stati Uniti
e in Europa, sia pur in misura diversa, la maggior parte delle
classi alte e medie, per darsi ai traffici, alla agricoltura, agli
studi e ai piaceri, negligeva le pubbliche faccende, non voleva
esercitare le magistrature, partecipare alle contese politiche,
prestare lungo servizio militare, nemmeno andare a votare. Non che
queste classi vivessero neghittose ed inutili. Esse piantavano sui
nostri colli gli alberi ignoti dell’Oriente, miglioravano le vigne,
gli uliveti, gli armenti, studiavano la filosofia greca,
introducevano in Italia le arti e le industrie dell’Asia,
abbellivano i templi, le case, le piazze di opere d’arte,
incominciavano insomma ad ornare l’aspra Italia agreste per
l’ammirazione e il godimento di tutte le generazioni future. Anche
oggi, dopo sedici secoli che l’Impero è caduto, sopravvive
l’opera di queste classi ignote, che nelle storie scritte dagli
antichi sono quasi nascoste dietro la persona di pochi politicanti e
generali e delle quali troppi storici moderni non hanno avvertita la
presenza invisibile in tutti gli eventi dei tempi e non hanno
perciò potuto comprendere questi; anche oggi sui nostri colli
e nelle belle pianure le vigne, gli uliveti, i frutteti agitano al
vento gli ultimi trofei della conquista mondiale. Ma intanto,
allora, lo spirito civico si spegneva in queste classi e le
istituzioni elettive dello Stato cadevano in potere dei dilettanti
di politica e dei politicanti di professione, che, per soddisfare
l’ambizione e la cupidigia, si disputavano le magistrature; tra i
quali vincevano più facilmente la gara coloro che sapevano
muovere e organizzare gli operai di Roma: la sola parte della
popolazione che ancora si appassionava per la politica,
perchè trovava nella politica un divertimento gratuito in
luogo degli svaghi più costosi delle alte classi, e
perchè aveva maggior bisogno dell’aiuto dei partiti politici
e dello Stato. Senza questo aiuto il popolino di Roma sarebbe
restato senza pane; non avrebbe potuto di tempo in tempo ubriacarsi
con vini generosi e rimpinzarsi di tordi e di porco, in qualche
banchetto pubblico; non avrebbe avuto mai nè il facile lavoro
delle opere pubbliche, nè lo svago degli spettacoli,
nè qualche sesterzio spicciolo per giocare ai dadi o per
pagare le etère dei trivii. In forma più grossolana
questo fatto non corrisponde forse alla potenza crescente che
acquista oggi, negli stati con istituzioni elettive, il partito
socialista, formato dagli operai delle città, più
bisognosi della protezione dello Stato; e alla decadenza politica
della borghesia, che meno bisognosa d’aiuti diretti dello Stato,
distratta dalle faccende private, snervata dai piaceri troppo
abbondanti e molteplici, orgogliosa per la cultura, per la potenza,
per la ricchezza e perciò troppo incline alla critica, al
disprezzo, alla maldicenza, alle discordie, si apparta dalle lotte
politiche ? Cesare aveva solo compiuto, con la rivoluzione politica
del consolato, una trasformazione incominciata da lungo tempo; e in
questa parte dell’opera sua può, sino ad una certa misura,
esser comparato con un moderno leader dei socialisti, o piuttosto
con un boss della “Tammany Hall” di New York. Così la
politica romana era diventata una fiera mondiale di cariche, di
leggi, di privilegi, di provincie, di regni, di lucri immondi; piena
di intrighi, di frodi, di tradimenti, di violenze; frequentata non
solo dagli uomini più perversi e violenti, ma dalle donne
più corrotte del tempo; dalla quale un onest’uomo che vi
capitasse a caso era presto scacciato, se non si incanagliava con
gli altri. Al modo stesso del sentimento civico, anche l’attitudine
alla guerra veniva meno in quella nazione borghese. Le conquiste di
Lucullo e di Pompeo avevano accresciuto a dismisura l’orgoglio
imperiale nella classe media italiana, diffusa l’ammirazione e il
culto di Alessandro il Grande, divulgate le fantasticherie del
dominio mondiale. Ma il maggior numero di coloro che, ogni tanto, a
pranzo e nei crocchi degli amici, proponevano di conquistare il
mondo sulle orme del Macedone, non avrebbero acconsentito a vivere
un giorno nei campi militari. La legge per cui tutti i maschi dai 17
ai 46 anni erano obbligati al servizio militare, vigeva ancora; ma i
mercanti, i capitalisti, i possidenti, i professionisti non volevano
più essere impacciati nei proprii affari, nei proprii
piaceri, nei proprii comodi dagli obblighi militari, cosicchè
i magistrati che facevan le leve non arruolavano che volontari, come
ora in Inghilterra782; mercenari, cioè, disperati di
città e di campagna, che si davano al mestiere delle armi per
il soldo di 225 denari all’anno (circa altrettanti franchi)783, per
il vitto, il vestiario, la speranza dei doni dei generali e della
promozione sino al grado di centurione o capitano. Solo qualche
volta, se i volontari scarseggiavano, lo Stato faceva uso del
diritto di obbligare al servizio; ma sempre scegliendo nel volgo,
tra i mendicanti delle città, tra i contadini liberi, tra i
piccolissimi proprietari delle montagne, dove era rimasto qualche
avanzo dell’antica stirpe agreste, che aveva vinto Annibale. Anzi i
progressi dell’agiatezza erano così grandi e tutta l’Italia
si convertiva così rapidamente in una nazione borghese,
gaudente, lucrante, studiosa ed imbelle, che, sebbene gli eserciti
fossero poco numerosi, diventava sempre più difficile
mantener pieni i ruoli reclutando i novizi in Italia; e non solo
bisognava tener gli arruolati sotto le armi per lunghissimi anni, ma
cercare soldati oltre il Po, tra i latini della Gallia cisalpina;
ove la vita era rimasta più semplice, e la antica stirpe
celtica e gli immigranti italiani si eran mescolati in un ceto di
medi possidenti, nei quali sopravviveva in parte l’Italia di un
secolo e mezzo prima: con famiglie numerose, con abitudini povere,
con disposizioni al faticoso mestiere delle armi784. Noi vedremo
infatti, nei decenni seguenti, gli arruolatori della Repubblica
abbandonar quasi l’esausta Italia e percorrere la valle del Po, in
cerca di giovani.
Solo di tempo in tempo, proprio come avviene adesso in Europa, il
mare stagnante di questo scetticismo civico era agitato da una
violenta marea; da una di quelle concitazioni della opinione
pubblica, di solito apatica, che sorprendevano le cricche politiche
e i loro capi, i caucuses e i loro bosses. Questa anarchia di
avventurieri, che non temeva più nè gli Dei del cielo
nè alcuna autorità della terra, tremava solo davanti a
questa potenza impalpabile ed invisibile: l’opinione del ceto medio
e delle classi alte, imparziali nel giudicare, perchè
estranee alle contese politiche. Nessuna di queste clientele
discordi e rivali era così forte da osar di far violenza
sistematicamente al sentimento dei ceti potenti per ricchezza, per
numero, per coltura; e tutte, sebbene commettessero innumerevoli
infamie, le negavano e cercavano nasconderle.... Il ricchissimo e
potentissimo Pompeo si era fatto scrupolo di non offendere il
sentimento repubblicano del ceto medio; il ricchissimo e
potentissimo Crasso cercava di disperdere il ricordo degli intrighi
suoi negli ultimi anni; Cesare andava in Gallia con l’intento di
acquistar con splendide vittorie l’ammirazione di questo ceto,
presso il quale l’avevan troppo screditato la vita disordinata, i
debiti, la venalità, le violenze demagogiche degli ultimi
anni, la rivoluzione radicale del consolato. Tante contraddizioni
laceravano quella età!
Senonchè, se la civiltà moderna soffre e si strugge
per queste contraddizioni, l’antica Italia rischiava perirne. Lo
scetticismo politico e la crescente inettitudine delle nazioni
civili alla guerra, non sembrano – almeno per ora – minacciare
rovina alla civiltà bianca, perchè il rapido aumento
delle ricchezze, che è la condizione vitale delle democrazie
mercantili nella civiltà nostra, nasce da uno sforzo nel
quale la lotta dell’uomo contro la natura prevale sulla lotta
dell’uomo contro l’uomo; dall’industria, cioè, che si studia
di impiegare nel modo più fruttuoso le forze naturali. La
lotta dell’uomo contro l’uomo prevalse invece sulla lotta contro la
natura, nello sforzo per fondare la democrazia mercantile
dell’antica Italia. Dopo le simiglianze che abbiamo notate, è
necessario studiare anche questa differenza essenziale; della quale
era cagione la maggior povertà, la minor coltura, la minor
produzione e la minor popolazione del mondo antico. Una borghesia
mercantile simile a quella che allora si formava in Italia,
può oggi costituirsi così in un piccolo paese quasi
inerme come il Belgio, come in una gran nazione marinara e
conquistatrice come l’Inghilterra; in una immensa democrazia
formatasi come gli Stati Uniti dell’America del Nord sopra un
continente quasi deserto, e in una monarchia guerresca,
consolidatasi sulle terre più sterili dell’Europa, come la
Germania. Basta infatti che un piccolo numero di uomini alacri e
ingegnosi si costituisca in aristocrazia industriale, accumuli un
certo capitale, e lo impieghi sapientemente a crescere nuova
ricchezza. Nel mondo antico invece era necessario un vasto impero e
una larga supremazia militare. Oggi dovunque una potente
aristocrazia industriale offra lavoro, gli operai concorrono
volontariamente, se nel paese le braccia scarseggiano, anche
attraverso agli Oceani, anche in cerca dei lavori più duri;
scendono volontariamente nelle viscere della terra; consentono a
passar tutta la vita sopra un fragile schifo natante nel mare;
restano ogni dì dal mattino al tramonto nell’antro dei
Ciclopi, davanti alle fornaci ove il ferro si liquefa; obbediscono
il codice autoritario della subordinazione e della disciplina
industriale. Così nelle officine degli Stati Uniti si
affatica una moltitudine di operai cosmopoliti, emigrata
volontariamente da ogni parte del mondo; alla quale si potrebbe
paragonare la moltitudine degli schiavi e dei liberti orientali,
galli, germani, spagnuoli, sciti, che in Roma e in tutte le altre
città lavoravano per i ricchi e agiati borghesi dell’Italia,
se questi, invece di essere usciti di patria per proprio volere, non
fossero stati portati a forza in Italia, quasi tutti se non tutti,
nei convogli di schiavi. Eppure noi vedremo in seguito che non si
potrebbe spiegare come le razzie di uomini fatte dai Romani non
abbiano rovinato per sempre i paesi dell’Oriente, se non supponendo
che la popolazione sovrabbondasse allora in quei paesi almeno un
poco, come ora nei paesi d’Europa, da cui salpano tanti emigranti.
Perchè dunque gli artigiani e i professionisti non emigravano
allora dall’Oriente, in numero sufficiente a soddisfare i bisogni
della borghesia italica? Perchè la terra era troppo poco
popolosa e la vita troppo semplice in quella età. Nella
civiltà moderna il vivere delle classi sociali sale dalla
miseria alla ricchezza per una gradazione lentissima di bisogni, di
piaceri, di lussi innumerevoli, cosicchè in ogni classe,
anche nel ceto operaio, intercedono da uomo a uomo, da mestiere a
mestiere, differenze di bisogni e di lussi non minori che tra le
diverse classi confrontate fra loro. Questa gradazione molteplice di
bisogni è lo strumento incorporeo, delicatissimo,
potentissimo con cui una borghesia capitalista può nei tempi
moderni indurre, anche a distanza, gli uomini dei più lontani
paesi a servirla. Non è oggi infatti possibile che manchino
mai in un mondo così popoloso e così avido di godere,
purchè se ne stimoli la volontà graduando la
ricompensa, uomini i quali, per ornare il proprio vivere di qualche
bisogno, piacere e lusso maggiore, si acconcino a imparare e a
compire anche i lavori più faticosi e difficili che
richiedano maggiore virtù di disciplina e governo di
sè. Nel mondo antico invece la gradazione dei bisogni era
più rozza e più povera, e dai pochi lussi, carissimi e
possibili solo ai ricchi, precipitava quasi a picco nella
semplicità obbligatoria del popolo, che oltre al parco
alimento, non poteva godersi che un poco di amore, qualche bevanda
inebriante, qualche festa data gratuitamente dai sacerdoti, dai
ricchi, dallo Stato. Avendo minori bisogni, l’artigiano libero
dell’Oriente era meno alacre e intraprendente che l’operaio moderno;
anche se, crescendo troppo la popolazione, stentava la vita, pure
restava nel suo paese; e non avendo nè modo nè
desiderio di migliorar il proprio vivere, non era spinto ad
affrontare i pericoli e i dolori di una emigrazione lontana e a
lavorare per un signore straniero. Gli avventurieri e i vagabondi
venivano in gran numero, spontaneamente, a Roma da ogni parte del
mondo; non i lavoratori, se non erano presi e portati a forza.
Questa fu la cagione della schiavitù nel mondo antico; e non
come vuole il Loria, la terra libera, perchè non un palmo di
terra, in tutto l’Impero, era libero allora. Ma la schiavitù
incoraggiava e rendeva necessarie le conquiste, perchè con i
prigionieri, che oggi sono un impiccio, si pagavano in parte le
spese della guerra; cosicchè l’audacia e la grandezza delle
conquiste romane crebbe con il bisogno di schiavi; e le conquiste di
Lucullo e di Pompeo furono popolari, anche perchè accrebbero
l’abbondanza degli schiavi, sui mercati dell’Italia bisognosa di
braccia.
Quando una borghesia capitalista e industriosa prospera in una
regione, la popolazione vi cresce in modo che il territorio vicino
non basta più a nutrirla. Così avviene ora in molti
paesi europei; così avvenne allora in Roma. Ma oggi il
commercio privato provvede facilmente a questo bisogno;
perchè i trasporti costano poco e perchè in paesi
nuovi, poco popolosi, fertilissimi, vivono uomini della stessa
nostra civiltà, con i nostri stessi bisogni, i quali mietono
ogni anno più grano che non occorra loro; e, desiderando
consumare i prodotti delle nostre fabbriche, offrono spontaneamente,
in cambio di questi prodotti, il grano loro, in tanta abbondanza che
molti paesi industriali ne rifiutano parte, imponendo i dazi di
importazione sui cereali. Un antico che rivivesse oggi non
troverebbe invece istituto per lui più incomprensibile e
stravagante, che il dazio sul grano. Allora quasi tutti i paesi
producevano appena il grano necessario ai proprii bisogni; e anche
quei pochi che, come la Sicilia, l’Egitto, la Crimea, godevano di
solito una certa abbondanza, cercavano di conservare le proprie
provviste; onde i paesi capitalisti dovevano, non impedire ma
stimolare con le leggi l’importazione, conquistare o acquistare un
predominio politico nei paesi prediletti di Cerere, per render
sicuro il proprio diritto di esportare da quelli il grano785.
L’approvigionamento di Roma fu infatti una delle questioni
predominanti di tutta la politica romana, appena Roma
incominciò ad essere una metropoli mondiale. Ma anche per
queste ragioni, la democrazia mercantile in antico era incitata alla
politica di conquista.
Infine i progressi di una democrazia mercantile, erano allora
determinati, come sono ora, dall’aumento progressivo dei bisogni di
generazione in generazione; dall’aumento del numero di coloro che
vogliono partecipare a un vivere più ricco e dei desideri di
ognuno. Noi abbiamo seguito, di generazione in generazione, questo
progresso, dalla generazione cresciuta sul finire della guerra
annibalica, a quella di Cesare, per 150 anni. Tutti possono
osservare, guardando attorno, lo stesso fenomeno nella
civiltà moderna. Ma gli strumenti di produzione, di cui noi
disponiamo, sono così potenti, tanta è la ricchezza
già accumulata dagli uomini che, sinchè l’energia di
coloro i quali governano l’industria di una democrazia mercantile
non si infiacchisce, è facile soddisfare questi bisogni
crescenti delle nuove generazioni, consumando una parte della
ricchezza prodotta, non per soddisfare i bisogni presenti, ma per
produrre altra ricchezza. Tutte le cose necessarie ad aumentare la
produzione saranno facilmente trovate, sulla terra piena di beni, da
queste industri aristocrazie: così i metalli preziosi
necessari agli scambi cresciuti, come le maggiori provviste di
cereali e di materie prime, come le più rapide macchine di
trasporto. I metalli preziosi sopra tutto abbondano tanto, sono
così facilmente prestati, che non mancano mai a chi rassicuri
di pagare un tenue interesse e di renderli. Nel mondo antico invece,
siccome la produzione era più lenta e più scarsa, i
desideri delle generazioni crescevano più veloci che i mezzi
per soddisfarli; e le democrazie mercantili si trovavano
periodicamente in penuria dei mezzi necessari ad accrescere la
produzione e il consumo; bisognose specialmente di metalli preziosi.
Noi abbiamo veduto infatti che, dal 70 al 60 avanti Cristo, quando
pure l’Italia era l’usuraia del Mediterraneo, e Roma era la Londra
del mondo antico, la metropoli del capitale dove i sovrani e le
città di ogni regione del Mediterraneo venivano a trattar i
prestiti, per una contradizione singolare l’Italia era tormentata da
una carestia continua di metalli preziosi; si lagnava dell’alto
interesse del denaro; voleva impedirne l’esportazione: farneticava
abolizioni di debiti. Il bisogno del denaro cresceva insomma
più rapidamente che il denaro; così rapidamente che
guai se a soddisfarlo non si fosse aggiunta, all’usura, la guerra,
il saccheggio di tutti i tesori dei templi, delle reggie, dei
ricchi, presso i popoli civili e presso i barbari. La guerra
stimolava la circolazione dei capitali, troppo pigra e lenta per i
frettolosi desideri di una democrazia mercantile in formazione, come
l’Italia; e compieva perciò una funzione vitale, che ora non
compie più.
Certo se per la povertà, per la scarsa popolazione, per la
poca potenza produttiva del mondo antico, una borghesia capitalista
non poteva formarsi senza la guerra e la lotta dell’uomo contro
l’uomo, la guerra impediva a sua volta che la popolazione crescesse,
che l’industria progredisse, che la ricchezza aumentasse in tutti i
paesi, con le distruzioni e gli sperperi terribili di cui era
cagione; sebbene questi fossero allora minori che adesso,
perchè la guerra antica costava meno. Un popolo allora
arricchiva e si inciviliva quasi sempre a scapito di altri. Ma i
contemporanei di Cesare non potevano uscire da questo ferreo cerchio
fatale; e avrebbero quindi avuto bisogno di un esercito e di uno
Stato potente, per ingrandire l’impero, come gli Stati Uniti o la
Germania hanno oggi bisogno di una industria potente e molteplice.
Invece l’esercito e lo Stato, tutti i servizi pubblici, i più
umili come i più vitali, eran disfatti da un disordine, tanto
più spaventoso ed immenso perchè a Roma tutte le
magistrature erano elettive e mancava una burocrazia stabile, simile
a quella degli Stati moderni, che continuasse, almeno
meccanicamente, pure in mezzo allo scompiglio dei partiti, le
più necessarie funzioni pubbliche. In Roma stessa le case
bruciavano e rovinavano, mentre gli edili attendevano a preparare i
giuochi; l’acqua scarseggiava perchè, dopo aver costruito un
primo acquedotto nell’anno 312 a. C, un secondo nel 272, un terzo
nel 144, un quarto nel 125, il governo non aveva, più pensato
a provvedere ai bisogni della popolazione tanto cresciuta786; le
navi che provvedevano Roma dovevano ancorare nella rada naturale di
Ostia, malsicura, piccola, senza opere d’arte787, o risalire il
Tevere e scaricar la merce ancora sull’Emporium, i docks diremmo
noi, che erano stati costruiti nel 192 e nel 174 sotto l’Aventino,
dove ora sono il Lungo Tevere dei Pierleoni e il Lungo Tevere
Testaccio788; le vie di Roma erano più malsicure che i boschi
pieni di banditi, che una città battuta ogni giorno dal
terremoto, tanti assassini789 e ladri l’infestavano, tanto i carri,
le macerie, gli incendi, le subitanee rovine minacciavano gli
incauti passanti. Al disordine della metropoli corrispondeva
l’anarchia dello Stato. Dopochè era nata nella società
italiana una varietà di attitudini, di desideri, di opere,
simile a quella che ammiriamo nella società contemporanea, il
Senato si era a poco a poco mutato come i parlamenti moderni in un
club di nobili, di dilettanti di politica, di affaristi, di avvocati
ambiziosi, di letterati, di politicanti, che si detestavano a
vicenda e avevano origini, appartenevano a classi, seguivano
tradizioni, professavano idee, esercitavano professioni, miravano a
fini, oltre quello comune a quasi tutti di arricchire con la
politica, tanto diversi quanto era vario il nuovo consorzio sociale.
Grandi proprietari come Domizio Enobarbo, grandi finanzieri come
Crasso; generali, come i due Luculli e Pompeo; letterati come
Cicerone; avvocati come Ortensio; eruditi come Varrone; astronomi e
agronomi come Nigidio Fibulo o Tramellio Scrofa; giureconsulti, come
Sulpicio Rufo790, ne facevano parte; e ognuno si sforzava prima
verso i fini suoi, di arricchimento o di ambizione personale, poi
verso quelli della sua classe, del suo partito, della sua clientela;
onde il Senato era diventato, come sono quasi tutti i parlamenti
moderni, uno strumento di cui tentavano servirsi, a volta a volta,
le molteplici forze sociali che fuori di lui si disputavano la
signoria dell’Impero e che, tolta la burocrazia e la grande
industria, erano allora le medesime che nel presente: l’alta
finanza, la grossa e media possidenza, le sopravvissute tradizioni
aristocratiche, le ambizioni e le cupidigie del medio ceto, il
militarismo, la demagogia. Queste forze sociali cercavano con tutti
i mezzi di poter usare, ciascuna a proprio servizio, i poteri che il
Senato conservava ancora dal tempo in cui era l’organo della unica
classe signoreggiante; ma il Senato, tranne allorchè si
aspettava uno scandalo in tempi di commozione universale, era poco
frequentato; non governava più; abbandonava tutta
l’amministrazione pubblica alla routine della tradizione o alla
violenza rivoluzionaria delle clientele e delle fazioni. Quando
l’Italia era diventata, nel Mediterraneo, la metropoli del capitale,
il Senato continuava a coniar soltanto argento, come ai tempi della
prima guerra punica; cosicchè gli innumerevoli prestiti che
si trattavano a Roma, eran fatti con monete straniere o con verghe
brute; e soltanto i generali che avevan facoltà di batter
moneta per pagare i soldati, avevan cominciato a coniar l’oro, ma
ciascuno con conio, con lega, con tipo suo791. Le finanze dello
Stato erano in continuo dissesto come oggi quelle della Turchia;
contro la pirateria, un poco infiacchita dalla rovina di Mitridate,
dalla conquista di Creta e della Siria, non si faceva nulla; il
brigantaggio infestava ogni parte dell’impero. Ora che l’antica
milizia nazionale si era mutata in un esercito mercenario, sarebbe
stato necessario immaginare e attuare una regola di istruzione per
le reclute; ma nessuno ci pensava; le legioni abbandonate alle
lontane frontiere si riducevano sovente alla metà e anche
meno del numero vero792; i generali mutavano ogni anno, arrivavano
in gran fretta dalle baruffe del fôro, con gran codazzo di
amici che dovevano essere gli ufficiali superiori, tutti con grosso
bagaglio e numeroso seguito di schiavi, ma tutti quasi sempre
digiuni affatto dell’arte di cui avrebbero dovuto esser maestri ai
soldati, o sapendone quel poco che avevan letto in qualche manuale
greco; solleciti più di trovare nella provincia qualche buon
impiego di capitale, che di esercitarsi in tattica e strategia. E
tutti di lì a poco ripartivano in fretta. Anche Cesare andava
ad assumere il comando di quattro legioni senza avere altra pratica
della guerra, che quella dell’assedio di Mitilene e delle piccole
razzie comandate in Ispagna nel 61. Solo i centurioni scelti nella
milizia comune conoscevano un poco il mestiere delle armi. Cosa
ancor più curiosa, l’esercito non si componeva più che
di fanteria. In antico i giovani delle famiglie ricche componevano i
corpi di cavalleria; ma nessuno aveva pensato a riformare questo
ordinamento antiquato; e siccome i giovani delle famiglie ricche
preferivano prestare il denaro al 40% nelle provincie, o consumare a
Roma il frutto di simili usure fatte dai padri; siccome del resto,
anche avessero tutti militato, non avrebbero potuto provvedere tanti
cavalieri che bastassero ai molti eserciti, Roma era costretta ad
arruolare cavalleria barbara di Traci, di Galli, di Germani, di
Spagnuoli, di Numidi, formando squadroni a cui i generali romani
dovevano comandare per mezzo di interpreti. Roma – singolare
incoerenza delle cose umane! – compì le sue maggiori
conquiste con un esercito disordinato, che essa lanciava
temerariamente dappertutto; le conquiste facevano una nazione
imbelle; il militarismo antico corrispondeva così pienamente
all’industrialismo moderno che, come questo, faceva decadere le
virtù militari.
Infine il governo della politica estera era stato tolto al Senato.
Lucullo e Pompeo avevano guerreggiato in Oriente, conchiuse paci,
conquistati imperi, mutata e rimutata la carta politica dell’Asia,
di propria iniziativa, senza autorizzazione del Senato. L’ultimo
tentativo fatto dal partito conservatore, dopo la congiura di
Catilina, per ristaurare la cadente autorità della antica
assemblea, era stato vinto dal caucus di Pompeo, di Crasso e di
Cesare; vinto facilmente, non ostante lo stupore quasi incredulo dei
più. Cesare aveva dovuto soltanto uccidere un morto. Ormai il
governo era passato dalla Curia negli atrii e nei cubiculi dei
palazzi di Pompeo e di Crasso, nella tenda e nella lettiga di Cesare
vagabondo per la Gallia. Pompeo sarebbe stato il ministro degli
esteri, a cui avrebbero scritto, con cui avrebbero trattato, nella
cui casa sarebbero scesi gli ambasciatori dei re dell’Oriente e i re
stessi; il ministro dei lavori e dei divertimenti pubblici, che
primo avrebbe intrapreso con denaro suo un sistematico abbellimento
monumentale di Roma e un più costante e copioso ordinamento
delle feste popolari. Cesare stava per diventare il ministro della
guerra, se così si può dire; il solo che avrebbe
provveduto a preparare ed esercitare un valido esercito nell’immenso
impero, che pur si reggeva solo per la forza delle armi. Cesare,
Pompeo e Crasso avrebbero d’accordo maneggiata la politica interna
ed esterna dell’impero, distribuite le cariche, preparate le leggi
da sottoporsi all’approvazione del popolo, provveduto all’annona,
deliberate le spese del pubblico bilancio, facendo tutto approvare
dalle bande elettorali di Clodio e da pochi senatori compiacenti,
che si acconcierebbero a continuare in sedute deserte la finzione
dell’antico governo parlamentare; facendosi aiutare, per la
corrispondenza, per i conti, per gli studi, per gli intrighi dai
più intelligenti ed abili tra i numerosi schiavi e liberti, i
quali divenivano così gli impiegati irresponsabili di questo
irresponsabile e confuso governo di tre privati. Le classi alte e
medie, tutte intente ai lucri e ai piaceri, accettavano, pur
detestandolo e parlandone male, questo governo. Ma poteva l’immensa
macchina dell’impero volgersi sui fragili assi delle fratellanze
artigiane di Roma e del servidorame di tre personaggi così
diversi tra loro? Erano costoro uomini tanto migliori dei loro
concittadini da poter spartirsi l’immenso impero, il retaggio di
tante generazioni? Pompeo era un gran signore intelligente, ma
rammollito dalla sazietà degli onori, dall’immensa ricchezza,
dalla fortuna, dall’improvviso amore di cui, in età
già matura, era stato preso per la giovane e vezzosa Giulia;
non vecchio, ma giunto già a quella stagione della vita in
cui gli uomini troppo fortunati cercano anche nel lavoro soltanto
una varietà di facili distrazioni; un uomo, persuaso ormai di
essere un grande guerriero, un grande diplomatico, un grande
amministratore, che era disposto a governare il mondo, ma voleva un
governo del mondo comodo, che disturbasse poco le sue cene, le sue
costruzioni, i suoi diporti con la vezzosa consorte. Crasso era un
uomo più saldo e tenace, un ambizioso insaziabile di potere e
di ricchezza, che non contento di posseder tanti schiavi, tante
case, tanti crediti, tanto oro, tante terre, tante miniere,
ricominciava a considerare l’antico disegno di una grande impresa di
guerra, che lo mettesse a pari di Lucullo e di Pompeo, e compensasse
gli insuccessi degli ultimi anni; ma era anche, tranne che nella
famiglia, uno spaventoso egoista, cui l’ordine e il disordine
dell’impero importavano meno che la salute dei figli o un piccolo
errore nei conti della sua amministrazione privata; ma la sua
ragione acuta e tenace cominciava, sulle vette altissime di tanta
ricchezza e potenza, a esser tentata dalle vertigini della
grandezza. Cesare.... Nessuno avrebbe potuto allora giudicar Cesare,
imparzialmente. Questo patrizio che possedeva tanto ingegno
letterario, che parlava e scriveva così meravigliosamente,
che aveva studiate e imparate rapidamente tante cose,
dall’astronomia alla strategia, che aveva incominciato con
moderazione e con senno, aveva poi deluse tutte le aspettazioni
delle persone serie: con tanto cinismo aveva fatto immensi debiti,
venduta l’opera sua, mutato e rimutato da un giorno all’altro
programmi e idee, mescolati nella politica gli intrighi femminili;
con tanta violenza aveva incitata l’infima plebe contro i ricchi ed
i nobili; con tanta audacia egli, capo del partito dei poveri che
voleva frenare gli abusi dei grandi capitalisti, avea osato vendersi
a questi in uno dei più loschi imbrogli del tempo, la
riduzione dell’appalto asiatico. Era egli forse uno di quegli
scellerati leggeri e violenti, astuti e senza scrupoli, cupidi e
bisognosi di vivere tra le vane ostentazioni del lusso e i vani
clamori della fama triviale, provvisti di intelligenza superficiale
ma espressiva, che sanno scrivere e parlare magnificamente, e che
prosperano nel disordine di una democrazia mercantile in formazione,
quando si diffonde la cupidigia senza scrupoli, il gusto della
letteratura, lo scetticismo morale e politico, quando la letteratura
diventa potente tra gli uomini? che possono allora servirsi della
penna e della parola per taglieggiare volta a volta, come briganti,
i partiti, le clientele, i capitalisti, gli ambiziosi e perfino le
classi povere? Molti, certo, inclinavano a pensare così. Ed
ora quest’uomo così poco serio andava in Gallia: a che fare?
Guerre e conquiste? Ma se non aveva pratica di guerra; ma se tutta
Roma sapeva che non aveva nemmeno salute, che era di complessione
delicata e infermiccia, che soffriva di epilessia! I contemporanei,
attribuendo tutti gli eventi all’opera di pochi uomini, non potevano
capire come gli eventi avessero invece quasi fatalmente fatto
violenza alle intenzioni più savie di Cesare, ai suoi disegni
più belli, alle sue inclinazioni più profonde.
Quest’uomo che quasi tutti gli storici moderni immaginano, con
infantile ingenuità, risoluto fin da giovane a conquistare
solo l’impero del mondo, di cui descrivono la vita come uno sforzo
consapevole, deliberato, diritto come il pensiero, verso il fine
supremo di così immensa ambizione, era stato invece sino
allora, più che ogni altro uomo illustre del tempo suo, in
balia degli eventi, costretto e ricostretto dagli eventi ad agire in
modo diverso dai suoi propositi. Dotato di una splendida
intelligenza scientifica ed artistica, immaginoso, nervoso, alacre,
ambizioso, egli vagheggiava in ogni cosa, anche nello Stato, la
forza e la bellezza dell’armonia e dell’equilibrio; e difatti aveva
cominciato come campione di una democrazia signorile, artistica e
colta; con le ambizioni di un Pericle romano, che si addestra al
governo di un vasto impero nelle scuole della eloquenza, dell’arte e
dell’eleganza. Ma la povertà della sua famiglia e il
progressivo scetticismo politico delle alte classi gli avevano
rovinato il bel disegno; egli aveva dovuto indebitarsi per farsi
conoscere, poi vendere a Crasso l’opera sua, mentre la democrazia si
mutava in demagogia; era incorso così nell’odio dei grandi e,
perseguitato senza misericordia, aveva dovuto difendersi, cercando
il favore delle classi povere e procurandosi denaro con ogni
espediente; cosicchè a poco a poco era diventato il capo
della canaglia, un demagogo rivoluzionario, un affarista senza
scrupoli. Indifferente al bene e al male, versatile e plastico,
questo patrizio era diventato un demagogo, un intrigante, un
affarista senza vergogna, senza rimorso, con audace sicurezza;
nervoso ed eccitabile aveva anche perduto a certi momenti, nel
furore della lotta, la moderazione, incalzando con violenza i
nemici, tentando audacie scandalose; eppure non si era mai lasciato
trarre a perdizione dalla propria esaltazione; si era sempre
trattenuto e ricomposto al momento di trascendere a una follia
irreparabile. Troppo erano profondi in lui gli istinti della
prudenza e della moderazione, pur in mezzo alle concitazioni di quei
tempi agitati.
Anche allora infatti il destino lo sospingeva ignaro, lui, il quarto
Caio della democrazia romana, verso l’avvenire, per quella via
Flaminia che il primo Caio della democrazia romana aveva aperta
sull’avvenire, a compiere senza saperlo l’opera cominciata da Caio
Flaminio, continuata da Caio Gracco e da Caio Mario. Eppure egli
voleva solo, andando in Gallia, riacquistare con splendide vittorie
l’ammirazione delle alte classi, perduta per un seguito fatale di
eventi793. Tale era la legge della vita, in quella, come in tutte le
età. Gli uomini grandi del tempo, ignoravano tutti di quale
immensa opera storica dovevano essere nel tempo stesso gli strumenti
inconsapevoli e le vittime; erano in balìa di quello che noi
possiamo chiamare il Destino nella storia e che è solo la
coincidenza e la precipitazione imprevista degli eventi, lo scoppio
delle forze nascoste nei fatti, che nessuno, in una civiltà
complicata e disordinata, può discernere, quando esse sono
ancora latenti. Quegli uomini erano saliti in tanta grandezza, non
per una sovrumana energia di volontà e di intelletto che
fosse in loro, ma per la singolare condizione dei tempi;
perchè i natali, la gloria, la ricchezza, l’ambizione,
l’intelligenza, la fortuna avevano fatto loro acquistare una potenza
progressivamente maggiore, a mano a mano che le istituzioni dello
Stato antico si dissolvevano, nel crescente scetticismo politico
delle alte classi. Ma presto verrebbe il giorno in cui la grandezza
presente sarebbe per tutti un impegno mortale, e li costringerebbe
ad assumersi responsabilità e carichi superiori alle forze,
come allora godevano onori più grandi del merito. Tragiche
cose preparava per tutti l’oscuro Destino! Solo in mezzo a tanto
disordine, Lucullo, l’uomo più singolare e bizzarro della
storia di Roma, nei vasti e sontuosi giardini del Pincio, dall’alto
luogo dove ora è il Belvedere della villa Medici, poteva
ormai, filosofando con i dotti greci sulla corruzione romana,
contemplare in pace l’Urbe: immenso e basso mare mosso di continuo
da maree e da tempeste, fuori delle quali egli si era tratto in un
aere lucido e pacato, in un alto e delizioso isolotto di godimento e
riposo. Lui solo, l’Eutanasia, la dea greca della morte tranquilla,
aspettava. Tra poco, questo stravagante geniale, questo solitario
fortunato, sarebbe giunto alla sera della sua giornata terrestre,
dopo aver compiuto, inconsapevole anch’egli, una gran missione nella
storia; e mentre si preparava la tragica catastrofe del nuovo
imperialismo creato da lui, avrebbe, solo tra i grandi del suo
tempo, reclinato placidamente il capo in seno alla Dea silenziosa.
FINE DEL PRIMO VOLUME.
INDICE.
I.
I piccoli principii di un grande impero.
(Pag. 1 a 30)794.
L’Italia nella seconda metà del secolo quinto a. C, – Le
guerre tra le piccole repubbliche e loro cagioni. – Roma, piccola
repubblica aristocratica e agricola: sua condizione in mezzo a
queste guerre. – Ordinamento della famiglia; spirito conservatore
della nobiltà; istituzioni rigidamente aristocratiche e
repubblicane dello Stato. – Le prime guerre di Roma alla testa della
confederazione latina nel V e nella prima metà del IV secolo
a. C. – Loro effetti: ingrandimento del territorio, invio di
colonie, conclusione di alleanze, aumento dei redditi dello Stato e
della ricchezza privata, abbondanza di schiavi, diffusione della
grande pastorizia vagante, aumento dei metalli preziosi. – Lento
progresso del lusso, tenace conservazione degli antichi costumi,
consolidamento del potere in una aristocrazia di grandi proprietari.
– Le guerre vittoriose del IV e III secolo a. C. e la conquista
della egemonia politica in Italia. – Il massimo fiore della
società rustica e aristocratica; sue virtù e suoi
difetti. – La conquista della Magna Grecia, la prima guerra con
Cartagine e la conquista della Sicilia. – Origine dello spirito
mercantile. – I primi appaltatori. – La nobiltà incomincia a
darsi alle speculazioni. – Principi della letteratura. – Prima
apparizione di un partito democratico. – Caio Flaminio e la
conquista della valle del Po. – L’invasione di Annibale: forza e
debolezza, perdite e guadagni di Roma in questa guerra.
II.
La prima espansione militare e mercantile
di Roma nel
Mediterraneo.
(Pag. 31 a 74).
Le guerre in Macedonia, in Spagna, in Liguria, nella valle del Po,
nei dieci anni successivi alla pace con Cartagine, – Loro carattere
politico e finanziario. – Avversione alle conquiste. – Scipione e la
nuova politica. – La guerra contro Antioco re di Siria. – Rapido
arricchimento pubblico e privato; abbondanza di lavori pubblici e di
forniture militari. – Gli appaltatori. – Speculazioni sull’ager
publicus; progressi della pastorizia; aumento del lusso e dei
bisogni; progressi del commercio tra l’Italia e l’Oriente. – Molti
Romani e Italiani si danno alla mercatura. – Prosperità di
Delo. – Aumento della popolazione a Roma, emigrazione dalle
campagne, speculazioni edilizie. – Aumento del bisogno degli schiavi
e rapidi progressi della tratta. – I capitalisti e loro rapidi
progressi. – Mutamento dello spirito pubblico a Roma: oscuramento
della vecchia nobiltà conservatrice e principio della
nobiltà demagoga e affaristica; dissoluzione progressiva
della famiglia; rilassamento dei costumi e dell’opinione pubblica. –
La lotta fra la tradizione e la nuova politica. – Progressi della
letteratura e della coltura; Ennio, Plauto Pacuvio; diffusione della
filosofia greca. – La guerra contro Perseo e i suoi effetti. –
Principî di crisi nella agricoltura italiana. – Impoverimento
e corruzione dell’aristocrazia; crescente potere dei finanzieri;
progressi dello spirito democratico e dissoluzione dell’esercito. –
La guerra di Spagna; suoi scandali militari e loro effetto
sull’opinione pubblica; inferocimento, prepotenza e propositi di
riforma. – La distruzione di Cartagine e di Corinto; la conquista
della Grecia e della Macedonia; la conquista dei campi d’oro nel
Vercellese. – Pessimismo dominante nelle alte classi sulla
condizione di Roma verso il 150 a. C. – Metello il Macedonico e i
primi artisti greci in Roma. – Publio Scipione Emiliano. – Movimento
riformista nelle alte classi.
III.
La formazione della società italiana.
(Pag. 75 a 119).
Tiberio Gracco e la crisi dell’agricoltura italiana. – Idea
essenziale, carattere conservatore della sua riforma agraria. –
L’opposizione: carattere politico e rivoluzionario che l’agitazione
prende in seguito all’opposizione. – La morte di Tiberio. –
L’agricoltura italiana dopo la morte di Tiberio: progressi della
cultura dell’ulivo e della vite. – Caio Gracco, suo carattere, sua
vita, suoi studi. – Piano delle sue riforme. – La legge giudiziaria,
la legge asiatica, la legge frumentaria, la legge militare, la legge
agraria, la legge viaria. – Seconda elezione a tribuno e disegno di
sfollare Roma. – Proposta di concedere la cittadinanza a tutti gli
Italiani. – Impopolarità di queste proposte. – La morte di
Caio Gracco. – L’eredità del Re di Pergamo e la vendita a
Roma del suo mobilio. – Aumento del lusso e dei bisogni; diffusione
dello spirito mercantile; aumento del commercio italo-orientale;
sforzi del medio ceto per far studiare i figli e per accrescere la
propria ricchezza. – Decomposizione dell’aristocrazia romana e
italica; formazione di una borghesia italiana. – Indebolimento
militare di Roma e sospensione delle conquiste. – La legge agraria
di Spurio Torio e la sua importanza. – La sparizione del comunismo
agrario e la conversione in proprietà privata delle terre
pubbliche dell’Italia. – La guerra contro Giugurta e la rivelazione
della corruzione nella nobiltà. – Prima esplosione dello
spirito democratico: la elezione di Caio Mario a console. – I nuovi
nemici dell’impero: Mitridate, i Cimbri e i Teutoni. – Sconfitta dei
due generali aristocratici mandati contro i Cimbri e i Teutoni;
rielezione di Mario a console; sue grandi riforme militari e sue
vittorie. – Potenza del partito democratico e umiliazione della
nobiltà.
IV.
Mario la grande insurrezione proletaria
del mondo antico.
(Pag.
120 a 146).
Impoverimento, scontento, disordine morale dell’Italia al ritorno di
Mario dalla guerra; disagio di tutte le classi; accentramento delle
fortune; prepotenza dei capitalisti; dissoluzione dello Stato;
principio di rivalità tra la nobiltà storica e l’alta
borghesia dei finanzieri. – Il proletariato intellettuale. –
Diffusione del desiderio della cittadinanza nelle popolazioni
italiche e sue cagioni. – Crescente violenza demagogica del partito
democratico a Roma. – Morbose ambizioni di Mario e sua lega con i
demagoghi. – Il sesto consolato di Mario e la rivoluzione di
Saturnino. – La rovina politica di Mario e il ritorno al potere del
partito aristocratico. – Sua energica politica estera. – Crescente
avversione della nobiltà contro i capitalisti. – Il
più grande scandalo giudiziario della storia di Roma: il
processo di Rutilio Rufo. – Livio Druso, le sue leggi e la sua
proposta di cittadinanza agli Italiani. – Opposizione dei
capitalisti, assassinio di Livio Druso. – Insurrezione degli
Italiani. – Prime e parziali concessioni del Senato agli insorti. –
Scoppio della guerra con Mitridate. – Crisi economica in Italia e
torbidi per la distribuzione degli Italiani nelle 35 tribù. –
L’Asia invasa da Mitridate; la rivolta proletaria contro la
plutocrazia italiana; lo sterminio dei residenti italiani. – Il
Senato incarica Silla della guerra contro Mitridate. – Rivoluzione
di Mario e di Sulpicio Rufo.
V.
Silla e la reazione conservatrice a Roma.
(Pag. 147 a 174).
Silla e il suo carattere. – Silla marcia con l’esercito su Roma. –
Fuga di Mario. – Restaurazione del governo aristocratico. – Partenza
di Silla per la Grecia: assedio di Atene. – Nuova rivoluzione a Roma
e ritorno al potere di Mario. – Situazione critica di Silla
all’assedio di Atene e sua meravigliosa energia. – Violenze del
governo democratico a Roma e morte di Mario. – Caduta di Atene e
battaglia di Cheronea. – Il console Valerio Flacco propone la
riduzione dei debiti e parte per la Grecia contro Silla. – Battaglia
di Orcomeno. – Silla fa la pace con Mitridate per combattere la
rivoluzione in Italia. – Valerio Flacco ucciso dal suo generale
Fimbria. – Guerra tra Silla e Fimbria. – Silla signore dell’Asia. –
Imposte, contribuzioni, castighi. – Trattative tra Silla e i capi
del partito democratico. – Ritorno di Silla in Italia e guerra
civile. – Vittoria di Silla; sua dittatura militare; reazione
conservatrice; confische, persecuzioni, proscrizioni. – Le riforme
di Silla. – La consorteria conservatrice da lui fondata. – Mario e
Silla.
VI.
Le prime prove di Caio Giulio Cesare.
(Pag. 175 a 209).
Il primo viaggio di Cesare in Oriente. – Cesare all’assedio di
Mitilene e alla Corte di Nicomede. – Scandalose dicerie su questo
soggiorno. – Ritorno di Cesare a Roma. – La rivoluzione di Lepido e
di Bruto. – Pompeo. – Il patrimonio e la nobiltà della
famiglia di Cesare. – Cesare accusa Dolabella e Antonio. –
Corruzione della consorteria conservatrice. – Insuccesso di Cesare e
suo ritorno in Oriente. – La cattura dei pirati. – La guerra contro
Sertorio. – Rapido ritorno della prosperità in Italia dopo la
rivoluzione e sue cagioni. – Ripresa delle conquiste. – Espansione
finanziaria dell’Italia. – Gli usurai e i capitali italiani in
Gallia, in Spagna, in Grecia, in Asia. – Commercio degli schiavi. –
Gli schiavi asiatici in Italia e loro influsso incivilitore. –
L’high-life di Roma. – Raffinamento del costume e del lusso. – La
toilette femminile. – Il codice dell’eleganza e Catone. – Diffusione
della cultura; sete di sapere enciclopedico; la filosofia di
Aristotile. – Aumento degli schiavi nell’agricoltura e progressi
agricoli. – Progressi della enologia e della ulivicoltura. –
Perfezionamento della pastorizia. – Diffusione delle società
per azioni. – Aumento dei bisogni, diffusione dello spirito
mercantile nel medio ceto. – Smania di far studiare i figliuoli. –
La borghesia italica.
VII.
I finanzieri Italiani alla conquista dell’Oriente.
(Pag. 210 a
233).
Mutamento dello spirito pubblico. – Affievolimento dello spirito
rivoluzionario nel medio ceto e rinvigorimento del sentimento
nazionale e democratico. – Opposizione alla consorteria
conservatrice. – I primi assalti dei tribuni contro la costituzione
di Silla. – Morte, testamento del re di Bitinia. – L’annessione
della Bitinia all’Impero; suoi motivi finanziari. –
Probabilità di una guerra con Mitridate e intrighi a Roma per
averne il comando. – Lucullo. – Precia, l’amante di Cetego e la
donna nuova. – Improvvisa invasione di Mitridate in Asia e in
Bitinia. – La divisione dei comandi. – Frettolosa partenza di
Lucullo e di Cotta per l’Oriente. – La battaglia di Calcedonia
perduta da Cotta. – Prudente strategia di Lucullo. – Mossa di
Mitridate su Cizico. – Il doppio assedio di Cizico. – La distruzione
dell’esercito di Mitridate.
VIII.
Marco Licinio Crasso.
(Pag. 234 a 267).
Ritorno di Cesare a Roma. – Condizioni dello spirito pubblico. – La
rivolta di Spartaco. – La guerra marittima di Mitridate,. –
Malcontento crescente contro il governo. – Cesare intraprende la
vita politica. – La giornata di un uomo politico a Roma. – Lucullo
conquista tutta la Bitinia e delibera la invasione del Ponto. – Il
carattere di Lucullo. – Grande razzia di schiavi nelle pianure del
Ponto. – Fine della guerra contro Sertorio. – Vittorie di Spartaco.
– Lo scandalo delle elezioni per l’anno 71. – Marco Licinio Crasso;
sua storia e suo carattere. – Sua guerra e vittoria su Spartaco. –
Lucullo, i suoi ufficiali e i suoi soldati. – La presa e l’incendio
di Amiso.
IX.
Il nuovo partito popolare.
(Pag. 258 a 280).
La candidatura al consolato di Crasso e di Pompeo. – La
riconciliazione di Crasso e di Pompeo. – Le leggi democratiche di
Pompeo. – Accusa dei Siciliani contro Verre. – Discussione e
approvazione delle proposte di Pompeo. – Il partito conservatore e
il “salvataggio” di Verre. – Nuove discordie tra Crasso e Pompeo. –
Le elezioni per il 69 e la legge giudiziaria di Cotta. – Gli
intrighi di Verre. – Il processo di Verre e il primo grande successo
di Cicerone. – Lucullo conquista Sinope, Amasia, Eraclea.
X.
La conquista dell’Armenia e i debiti dell’Italia.
(Pag. 281 a
294).
Crisi nel partito popolare alla fine del 70. – Odii tra Crasso e
Pompeo. – Lucullo invade il regno d’Armenia, – La battaglia del
Tigri. – Lucullo e Alessandro il Grande. – Il bilancio della
repubblica romana. – La mania delle speculazioni in Italia. –
L’abuso sfrenato del credito. – Indebitamento universale. – I
principî della demagogia a Roma. – Pompeo, i finanzieri e i
demagoghi contro Lucullo. – Lucullo intende invadere la Persia. –
Prima rivolta dei suoi soldati.
XI.
La disgrazia di Lucullo.
(Pag. 295 a 313).
Il rinascimento classico a Roma, ai tempi di Cesare. – Prassitele. –
La politica di Aristotele. – Le prime idee politiche di Cesare. –
Cesare questore. – Nuova campagna di Lucullo contro Mitridate e
Tigrane. – La battaglia dell’Arsaniade. – Publio Clodio nel campo di
Lucullo. – L’inverno armeno e la seconda rivolta delle legioni. –
Intrighi a Roma contro Lucullo. – Mitridate riinvade il Ponto. –
Terza rivolta delle legioni di Lucullo. – La carestia del 67 e i
pirati. – Pompeo dittatore del mare. – La guerra contro i pirati. –
Il richiamo di Lucullo.
XII.
Marco Tullio Cicerone.
(Pag. 314 a 327).
Pompeo, Metello e i pirati di Creta. – L’alta finanza e la guerra di
Oriente. – La legge Manilia. – Marco Tullio Cicerone e il suo
carattere. – Il discorso di Cicerone per la legge Manilia. – Pompeo,
generalissimo in Oriente. – Pompeo e Lucullo a Danala. – L’ultima
battaglia di Mitridate. – Pompeo e il re d’Armenia.
XIII.
Le speculazioni e le ambizioni di Crasso.
(Pag. 328 a 347).
La fuga di Mitridate in Crimea. – La via continentale delle Indie e
la spedizione di Pompeo nel Cirvan e nel Daghestan. – Gli archivi e
i tesori di Mitridate. – Le speculazioni e le ambizioni di Crasso. –
Cesare e i suo debiti – Cesare al soldo di Crasso. – La congiura del
66. _ Il ritorno di Lucullo in Italia. – Lucullo e il ciliegio. –
Cotta il Pontico e il processo per la distruzione di Eraclea –
Cesare edile. – Il pane a buon mercato: l’agitazione per la
conquista dell’Egitto. – Suo insuccesso. – L’Italia e l’Impero. – I
debiti.
XIV.
Il punto critico della vita di Cesare.
(Pag. 348 a 366).
Scredito di Cesare. – Pompeo ad Amiso. – Il riordinamento del Ponto.
– Arricchimento di Pompeo. – La candidatura di Cicerone e di
Catilina al consolato per l’anno 63. – Le vicende della lotta:
trionfo di Cicerone e insuccesso di Catilina. – Pompeo invade e
annette la Siria. – Pompeo e i Parti – Scauro e Gabinio in Giudea. –
L’ultima farneticazione di Mitridate. – La legge agraria. – Le
agitazioni politiche e la crisi finanziaria 64-63. – L’odio dei
conservatori contro Cesare. – Cesare e le mogli dei capi del partito
popolare. – Cesare e la moglie di Pompeo. – Il processo contro Caio
Rabirio. – Cesare, Pontefice Massimo. – La casa di Servilia.
XV.
Catilina e la gran lotta contro i capitalisti.
(Pag. 367 a 400).
La morte di Mitridate. – Le elezioni per il 62. – La nuova
candidatura di Catilina. – Il suo programma dell’abolizione dei
debiti. – Successo del programma e spavento delle alte classi. – Il
panico finanziano e lo scompiglio politico a Roma. – L’alleanza dei
conservatori con i capitalisti. – Cicerone, leader dei conservatori.
– Gli intrighi e gli scandali della lotta elettorale. – L’ultimo
espediente dei conservatori. – L’insuccesso di Catilina. –
Principî della congiura. – Intrighi per ottenere la
dichiarazione dello stato d’assedio. – La denuncia di Crasso. – Gli
ultimi tentativi di Catilina a Roma. – Partenza di Catilina. – La
congiura a Roma. – Trattative con gli Allobroghi. – La cattura dei
congiurati. – Il 3, il 4, il 5 dicembre dell’anno 63. – Il processo
e il supplizio dei congiurati. – La congiura di Catilina e l’Italia.
– Il tramonto dell’età rivoluzionaria.
XVI.
La presa di Gerusalemme.
(Pag. 401 a 427).
L’assedio di Gerusalemme e il sabato. – La presa di Gerusalemme. –
Pompeo nel tempio. – La reazione in Italia dopo la congiura di
Catilina. – Lo scetticismo politico delle alte classi. – Il
proletariato di Roma e le fratellanze artigiane. – Il partito
popolare diventa il partito dei proletari. – Cesare in lotta con la
reazione. – Le delusioni, i crucci e i debiti di Cicerone. – Il
carattere di Pompeo. – Suo viaggio di ritorno. – Clodio e il
sacrilegio della Dea Bona. – Il ritorno di Pompeo. – Il processo di
Clodio. – Cicerone, Clodia e Terenzia. – L’assoluzione di Clodio. –
Le “cambiali in sofferenza” di Cesare. – Sua partenza per la Spagna.
– Tito Lucrezio Caro e il suo poema “La Natura”.
XVII.
Il mostro dalle tre teste.
(Pag. 423 a 471).
Il governo di Cesare in Spagna. – Il trionfo di Pompeo. – Nuove
discordie civili a Roma. – La pensione dei veterani. – L’abolizione
delle dogane. – I direttori della Compagnia per le imposte dell’Asia
domandano la riduzione del canone. – Le delusioni di Pompeo. –
Cicerone e i banchieri. – Cicerone pubblica la storia del suo
consolato. – Rivelazioni scandalose per Crasso. – I torbidi in
Gallia. – La candidatura e la elezione di Cesare al consolato. –
Preparativi di Cesare per il consolato. – Cesare riconcilia Pompeo e
Crasso, tenta di guadagnare Cicerone. – Suo disegno di restaurare la
democrazia dell’anno 70. – Alleanza segreta con Crasso e Pompeo. –
Primi atti del Consolato. – Cesare fonda a Roma il giornale del
popolo. – La legge agraria. – Ostruzionismo dei conservatori. –
Rivelazione dell’alleanza. – Il mostro dalle tre teste. – Improvvisa
rivoluzione politica di Cesare. – Cesare, per un compenso di azioni,
fa diminuire dal popolo il canone della Compagnia appaltatrice delle
imposte dell’Asia. – Rincaro delle azioni della Compagnia. – Il
governo quinquennale della Gallia Cisalpina. – Onnipotenza della
clientela di Crasso, di Cesare e di Pompeo. – Vano furore dei
conservatori. – Le afflizioni di Cicerone. – Impotenza politica
delle alte classi. – Sue cagioni. – Catullo, i suoi amori, la sua
poesia. – La poesia di Catullo, come segno dei tempi; e la
rivoluzione democratica di Cesare. – Misure di Cesare per
consolidare la sua potenza. – Alleanza con Clodio. – Clodio,
Cicerone, Pompeo. – Il complotto di Vezio. – Le elezioni per il 58.
– Il governo della Narbonese. – Le leggi di Clodio. – La “Tammany
Hall” di Roma antica. – L’esilio di Cicerone. – Partenza di Cesare e
di Catone dall’Italia.
XVIII.
La conquista dell’impero.
(Pag. 472 a 514).
Il lusso di Lucullo. – La sua villa sul Pincio. – L’ultima missione
del conquistatore del Ponto. – Gli schiavi orientali in Italia. –
L’emigrazione degli Italiani nelle provincie. – I conventus civium
romanorum. – L’antica e la nuova Roma. – Roma nel 58 a. C. – La
“corruzione romana”. – La conquista di Roma antica e i progressi
dell’industria nella civiltà moderna: loro effetti
simiglianti. – L’Italia, conquistando l’impero, diventa una nazione
“borghese” e una democrazia mercantile. – I progressi della
civiltà e la nuova borghesia dell’Italia. – Le contraddizioni
della democrazia mercantile nel mondo antico e nel moderno. –
Scetticismo politico e inettitudine alle armi delle alte classi, nei
tempi di Cesare. – Crescente potere politico degli operai della
città. – L’opinione pubblica. – Pericoli di queste
contraddizioni. – Perchè nel mondo antico una democrazia
mercantile era per necessità conquistatrice e bellicosa. – La
schiavitù e le sue cagioni. – Il commercio dei cereali. –
Come un antico giudicherebbe il dazio sul grano. – Il bisogno dei
metalli preziosi. – Perchè Roma conquistò l’impero. –
Perchè la guerra ha oggi perduta la antica importanza
economica. – Disordine politico e amministrativo ai tempi di Cesare.
– Il Senato: ragioni della sua decadenza. – La dissoluzione
dell’esercito. – Il potere di Crasso, Pompeo e Cesare: sue cagioni,
– Pompeo. – Crasso. – Cesare. – Che cosa Cesare intendeva di fare in
Gallia. – I grandi della terra e il Destino. – Gli ultimi anni di
Lucullo.
__________________
Alla fine del secondo volume il lettore troverà un indice
spiegativo delle abbreviazioni usate nelle citazioni; e tre
appendici critiche: a) Sul commercio dei cereali nel mondo antico;
b) La cronologia delle guerre di Lucullo; c) Pompeo, Crasso e Cesare
dal 70 al 60.