Niccolò Machiavelli
ISTORIE FIORENTINE
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Introduzione alla lettura
da http://it.wikipedia.org/wiki/Istorie_fiorentine
Le Historiae Fiorentinae sono un'opera storiografica di
Niccolò Machiavelli pubblicata postuma nel 1532.
Il quadro storico
Dopo la crisi del 1513, con l'arresto per cospirazione, la tortura e
il soggiorno obbligato, il rapporto di Machiavelli con la famiglia
Medici cominciò faticosamente a ricucirsi. Se la dedica de Il
principe (1513) a Lorenzo de' Medici duca di Urbino non aveva
sortito alcun effetto, parte della fazione ormai dominante a Firenze
non gli è contraria e anzi c'era chi si adoperava per fargli
ottenere un incarico.
Egli stesso nelle sue lettere, deplorava la necessità di
starsene ozioso, mentre riteneva di avere una preziosa esperienza
politica da offrire ai nuovi padroni. A sostenere queste timide
richieste il Machiavelli, con spirito alquanto cortigiano, fece
mettere in scena la sua Mandragola per le nozze di Lorenzino de'
Medici (1518). Nel 1520 venne inviato a Lucca per una missione a
carattere semiprivato, ma che indicava che l'ostracismo sta per
terminare. Alla fine dell'anno il cardinale Giulio de' Medici, poi
papa Clemente VII, gli fece offrire l'incarico di stendere un'opera
sulla storia di Firenze (1520). Pur non essendo questo incarico
quello desiderato Nicolò intuì che accettare era
l'unico modo possibile per tornare nelle grazie dei Medici; inoltre
si trattò, sia pure in modo semiufficiale, di ricoprire la
carica di storico ufficiale della città. Lo stipendio non era
granché (57 fiorini annui, poi portato a 100) ma
comportò la possibilità di incontrare di persona i
Medici, che fino allora lo avevano tenuto a distanza.
Una volta completata, l'opera fu presentata ufficialmente a Giulio,
ora Papa, nel maggio 1526; quest'ultimo aveva rimandato più
volte la venuta di Machiavelli a Roma, probabilmente per pressioni
dei curiali contrari alla riabilitazione politica di Machiavelli; ma
la presentazione fu comunque un momento di solennità e il
papa, compiaciuto del risultato, lo ricompensò
(moderatamente) e ascoltò con interesse le proposte per la
formazione di una Ordinanza, cioè un esercito nazionale, da
lui teorizzato neL'arte della guerra. Poco dopo però, nel
quadro dei preparativi per la guerra della Lega di Cognac, col sacco
di Roma e la caduta del governo mediceo a Firenze si spegnevano le
speranze di Machiavelli, che comunque morì poco dopo.
L'opera
La composizione dell'opera poneva notevoli problemi; era chiaro che
la commissione non gli era stata affidata per dargli la
possibilità di fare un panegirico della Firenze repubblicana,
di cui Machiavelli era stato il segretario per antonomasia. Ci si
aspettava da lui, se non una glorificazione della famiglia Medici,
una trattazione senza polemiche e tesa a presentare il presente
stato di cose come una evoluzione naturale. Le perplessità
dello scrittore trapelano da alcune lettere del suo nutrito
epistolario. (cfr. lettera al Guicciardini del 30 agosto 1524)
«Ho atteso et attendo in villa a scrivere la historia, et
pagherei dieci soldi, non voglio dir più, che voi fosse in
lato che io vi potessi mostrare dove io sono, perché, havendo
a venire a certi particulari, harei bisogno di intendere da voi se
offendo troppo o con lo esaltare o con lo abbassare le cose; pure io
mi verrò consigliando, et ingegnerommi di fare in modo che,
dicendo il vero, nessuno si possa dolere»
La struttura dell'opera, piuttosto contorta, illustra le
difficoltà dell'Autore. Degli otto libri, il primo è
un quadro generale della storia d'Europa dalla caduta dell'impero
romano al 1215 qui, col secondo libro, Inizia la vera e propria
storia di Firenze, colla narrazione della faida fra
Buondelmonti/Donati e Uberti/Amidei, che secondo la tradizione
corroborata da Dante avrebbe scatenato il conflitto fra Guelfi e
Ghibellini. i libri II, III e IV narrando delle vicende prima
dell'arrivo sulla scena dei Medici, i successivi quattro parlano
della lotta per il potere che termina con la signoria Medicea.
L'VIII libro si chiude colla morte di Lorenzo il Magnifico, nel
1492, con la fine della fragile pace che la politica dell'equilibrio
di Lorenzo aveva portato. L'autore si sforzò di presentare
sotto una luce tutto sommato favorevole grandi personaggi come
Cosimo il Vecchio e Lorenzo il magnifico, senza sottolineare la loro
azione volta a creare una dinastia. D'altra parte non
rinunciò alla introduzione di passi quantomeno azzardati,
vista la committenza dell'opera; per esempio nel primo libro, a
proposito del potere papale leggiamo (istorie I,9)
« i papi, prima con le censure, di poi con quelle e con le
armi insieme, mescolate con le indulgenzie, erano terribili e
venerandi; e come, per avere usato male l'uno e l'altro, l'uno hanno
al tutto perduto, dell'altro stanno a discrezione d'altri »
Altrove, come nella celebre descrizione della Battaglia di Anghiari,
non esita a manipolare il dato storico per sostenere le sue teorie
politiche; infatti descrive quella battaglia, aspramente combattuta
fra cavallerie mercenarie, da lui aborrite e disprezzate, come poco
più di una messa in scena, dove
« ... in tanta rotta e in sì lunga zuffa che
durò dalle venti alle ventiquattro ore, non vi morì
che un uomo, il quale non di ferite né d'altro virtuoso
colpo, ma caduto da cavallo e calpesto spirò »
La prima edizione a stampa è del 1532.
ISTORIE FIORENTINE
AL SANTISSIMO E BEATISSIMO PADRE SIGNORE NOSTRO CLEMENTE SETTIMO LO
UMILE SERVO NICCOLÒ MACHIAVELLI.
Poi che da la Vostra Santità, Beatissimo e Santissimo Padre,
sendo ancora in minore fortuna constituta, mi fu commesso che io
scrivessi le cose fatte da il popolo fiorentino, io ho usata tutta
quella diligenzia e arte che mi è stata dalla natura e dalla
esperienzia prestata, per sodisfarLe. Ed essendo pervenuto,
scrivendo, a quelli tempi i quali, per la morte del Magnifico
Lorenzo de' Medici, feciono mutare forma alla Italia, e avendo le
cose che di poi sono seguite, sendo più alte e maggiori, con
più alto e maggiore spirito a descriversi, ho giudicato
essere bene tutto quello che insino a quelli tempi ho descritto
ridurlo in uno volume e alla Santissima V.B. presentarlo,
acciò che Quella, in qualche parte, i frutti de' semi Suoi e
delle fatiche mie cominci a gustare. Leggendo adunque quelli, la
V.S. Beatitudine vedrà in prima, poi che lo imperio romano
cominciò in occidente a mancare della potenzia sua, con
quante rovine e con quanti principi, per più seculi, la
Italia variò gli stati suoi; vedrà come il pontefice,
i Viniziani, il regno di Napoli e ducato di Milano presono i primi
gradi e imperii di quella provincia; vedrà come la Sua
patria, levatasi per divisione dalla ubidienzia degli imperadori,
infino che la si cominciò sotto l'ombra della Casa Sua a
governare, si mantenne divisa. E perché dalla V.S.
Beatitudine mi fu imposto particularmente e comandato che io
scrivessi in modo le cose fatte dai Suoi maggiori, che si vedesse
che io fusse da ogni adulazione discosto (perché quanto Vi
piace di udire degli uomini le vere lode, tanto le fitte e con
grazia descritte Le dispiacciono), dubito assai, nel descrivere la
bontà di Giovanni, la sapienzia di Cosimo la umanità
di Piero e la magnificenzia e prudenza di Lorenzo, che non paia alla
V.S. che abbia trapassati i comandamenti Suoi. Di che io mi scuso a
Quella e a qualunque simili descrizioni, come poco fedeli,
dispiacessero; perché, trovando io delle loro lode piene le
memorie di coloro che in varii tempi le hanno descritte, mi
conveniva, o quali io le trovavo descriverle, o, come invido,
tacerle. E se sotto a quelle loro egregie opere era nascosa una
ambizione alla utilità [comune], come alcuni dicono,
contraria, io che non ve la conosco non sono tenuto a scriverla;
perché in tutte le mie narrazioni io non ho mai voluto una
disonesta opera con una onesta cagione ricoprire, né una
lodevole opera, come fatta a uno contrario fine, oscurare. Ma quanto
io sia discosto dalle adulazioni si cognosce in tutte le parti della
mia istoria, e massimamente nelle concioni e ne' ragionamenti
privati, così retti come obliqui, i quali, con le sentenze e
con l'ordine, il decoro dello umore di quella persona che parla,
sanza alcuno riservo, mantengono. Fuggo bene, in tutti i luoghi, i
vocaboli odiosi come alla dignità e verità della
istoria poco necessari. Non puote adunque alcuno che rettamente
consideri gli scritti miei come adulatore riprendermi, massimamente
veggendo come della memoria del padre di V.S. io non ne ho parlato
molto; di che ne fu cagione la sua breve vita, nella quale egli non
si potette fare cognoscere, né io con lo scrivere l'ho potuto
illustrare. Nondimeno assai grandi e magnifiche furono l'opere sue,
avendo generato la S.V.; la quale opera a tutte quelle de' suoi
maggiori di gran lunga contrappesa e più seculi gli
aggiugnerà di fama, che la malvagia sua fortuna non gli tolse
anni di vita. Io mi sono pertanto ingegnato, Santissimo e Beatissimo
Padre in queste mie descrizione, non maculando la verità, di
satisfare a ciascuno; e forse non arò satisfatto a persona,
né quando questo fusse, me ne maraviglierei, perché io
giudico che sia impossibile, sanza offendere molti, descrivere le
cose de' tempi suoi. Nondimeno io vengo allegro in campo, sperando
che come io sono dalla umanità di V.B. onorato e nutrito,
così sarò dalle armate legioni del suo santissimo
iudizio aiutato e difeso, e con quello animo e confidenzia che io ho
scritto infino a ora sarò per seguitare l'impresa mia, quando
da me la vita non si scompagni e la V.S. non mi abbandoni.
PROEMIO.
Lo animo mio era, quando al principio deliberai scrivere le cose
fatte dentro e fuora dal popolo fiorentino, cominciare la narrazione
mia dagli anni della cristiana religione 1434, nel quale tempo la
famiglia de' Medici, per i meriti di Cosimo e di Giovanni suo padre,
prese più autorità che alcuna altra in Firenze;
perché io mi pensava che messer Lionardo d'Arezzo e messer
Poggio, duoi eccellentissimi istorici, avessero narrate
particularmente tutte le cose che da quel tempo indrieto erano
seguite. Ma avendo io di poi diligentemente letto gli scritti loro,
per vedere con quali ordini e modi nello scrivere procedevano,
acciò che, imitando quelli, la istoria nostra fusse meglio
dai leggenti approvata ho trovato come nella descrizione delle
guerre fatte dai Fiorentini con i principi e popoli forestieri sono
stati diligentissimi, ma delle civili discordie e delle intrinseche
inimicizie, e degli effetti che da quelle sono nati, averne una
parte al tutto taciuta e quell'altra in modo brevemente descritta,
che ai leggenti non puote arrecare utile o piacere alcuno. Il che
credo facessero, o perché parvono loro quelle azioni si
deboli che le giudicorono indegne di essere mandate alla memoria
delle lettere, o perché temessero di non offendere i discesi
di coloro i quali, per quelle narrazioni, si avessero a calunniare.
Le quali due cagioni (sia detto con loro pace) mi paiono al tutto
indegne di uomini grandi; perché, se niuna cosa diletta o
insegna, nella istoria, è quella che particularmente si
descrive; se niuna lezione è utile a cittadini che governono
le repubbliche, è quella che dimostra le cagioni degli odi e
delle divisioni delle città, acciò che possino con il
pericolo d'altri diventati savi mantenersi uniti. E se ogni esemplo
di repubblica muove, quegli che si leggono della propria muovono
molto più e molto più sono utili e se di niuna
repubblica furono mai le divisioni notabili di quella di Firenze
sono notabilissime, perché la maggior parte delle altre
repubbliche delle quali si ha qualche notizia sono state contente
d'una divisione, con la quale, secondo gli accidenti, hanno ora
accresciuta, ora rovinata la città loro; ma Firenze, non
contenta d'una ne ha fatte molte. In Roma, come ciascuno sa, poi che
i re ne furono cacciati, nacque la disunione intra i nobili e la
plebe, e con quella infino alla rovina sua si mantenne; così
fece Atene, così tutte le altre repubbliche che in quelli
tempi fiorirono. Ma di Firenze in prima si divisono infra loro i
nobili, dipoi i nobili e il popolo e in ultimo il popolo e la plebe;
e molte volte occorse che una di queste parti rimasa superiore, si
divise in due: dalle quali divisioni ne nacquero tante morti, tanti
esili, tante destruzioni di famiglie, quante mai ne nascessero in
alcuna città della quale si abbia memoria. E veramente,
secondo il giudicio mio, mi pare che niuno altro esemplo tanto la
potenza della nostra città dimostri, quanto quello che da
queste divisioni depende, le quali arieno avuto forza di annullare
ogni grande e potentissima città. Nondimeno la nostra pareva
che sempre ne diventasse maggiore: tanta era la virtù di
quelli cittadini e la potenza dello ingegno e animo loro a fare
sé e la loro patria grande, che quelli tanti che rimanevono
liberi da tanti mali potevano più con la virtù loro
esaltarla, che non aveva potuto la malignità di quelli
accidenti che gli avieno diminuiti opprimerla. E senza dubio, se
Firenze avesse avuto tanta felicità che, poi che la si
liberò dallo Imperio, ella avesse preso forma di governo che
l'avesse mantenuta unita, io non so quale republica, o moderna o
antica, le fusse stata superiore: di tanta virtù d'arme e di
industria sarebbe stata ripiena. Perché si vede, poi che la
ebbe cacciati da sé i Ghibellini in tanto numero che ne era
piena la Toscana e la Lombardia, i Guelfi, con quelli che drento
rimasero, nella guerra contro ad Arezzo, uno anno davanti alla
giornata di Campaldino, trassono della città, di propri loro
cittadini, milledugento uomini d'arme e dodicimila fanti; di poi,
nella guerra che si fece contro a Filippo Visconti duca di Milano,
avendo a fare esperienzia della industria e non delle armi proprie,
perché le avieno in quelli tempi spente, si vide come, in
cinque anni che durò quella guerra, spesono i Fiorentini tre
miloni e cinquecento mila fiorini; la quale finita, non contenti
alla pace, per mostrare più la potenzia della loro
città, andorono a campo a Lucca. Non so io pertanto
cognoscere quale cagione faccia che queste divisione non sieno degne
di essere particularmente descritte. E se quelli nobilissimi
scrittori furono ritenuti per non offendere la memoria di coloro di
chi eglino avevono a ragionare, se ne ingannorono, e mostrorono di
cognoscere poco l'ambizione degli uomini e il desiderio che gli
hanno di perpetuare il nome de' loro antichi e di loro; né si
ricordorono che molti, non avendo avuta occasione di acquistarsi
fama con qualche opera lodevole, con cose vituperose si sono
ingegnati acquistarla; né considerorono come le azioni che
hanno in sé grandezza, come hanno quelle de' governi e degli
stati, comunque le si trattino, qualunque fine abbino, pare sempre
portino agli uomini più onore che biasimo. Le quali cose
avendo io considerate, mi feciono mutare proposito, e deliberai
cominciare la mia istoria dal principio della nostra città. E
perché non è mia intenzione occupare i luoghi d'altri,
descriverrò particularmente, insino al 1434, solo le cose
seguite drento alla città, e di quelle di fuora non
dirò altro che quello sarà necessario per
intelligenzia di quelle di drento; di poi, passato il 1434,
scriverrò particularmente l'una e l'altra parte. Oltre a
questo, perché meglio e d'ogni tempo questa istoria sia
intesa, innanzi che io tratti di Firenze, descriverrò per
quali mezzi la Italia pervenne sotto quelli potentati che in quel
tempo la governavano. Le quali cose tutte, così italiche come
fiorentine, con quattro libri si termineranno: il primo
narrerà brevemente tutti gli accidenti di Italia seguiti
dalla declinazione dello imperio romano per infino al 1434; il
secondo verrà con la sua narrazione dal principio della
città di Firenze infino alla guerra che, dopo la cacciata del
duca di Atene, si fece contro al pontefice; il terzo finirà
nel 1414, con la morte del re Ladislao di Napoli; e con il quarto al
1434 perverremo; dal qual tempo di poi particularmente le cose
seguite dentro a Firenze e fuora, infino a questi nostri presenti
tempi, si descriverranno.
LIBRO PRIMO
1
I popoli i quali nelle parti settentrionali di là dal fiume
del Reno e del Danubio abitano, sendo nati in regione generativa e
sana, in tanta moltitudine molte volte crescono, che parte di loro
sono necessitati abbandonare i terreni patrii e cercare nuovi paesi
per abitare. L'ordine che tengono, quando una di quelle provincie si
vuole sgravare di abitatori, è dividersi in tre parti,
compartendo in modo ciascuno, che ogni parte sia di nobili e
ignobili, di ricchi e poveri ugualmente ripiena; di poi quella parte
alla quale la sorte comanda va a cercare suo fortuna, e le due parti
sgravate del terzo di loro si rimangono a godere i beni patrii.
Queste populazioni furono quelle che destrussono lo imperio romano;
alle quali ne fu data occasione dagli imperadori, i quali, avendo
abbandonata Roma, sedia antica dello Imperio, e riduttisi ad abitare
in Gonstantinopoli, avevano fatta la parte dello imperio occidentale
più debole, per essere meno osservata da loro e più
esposta alle rapine de' ministri e de' nimici di quelli. E veramente
a rovinare tanto Imperio, fondato sopra il sangue di tanti uomini
virtuosi, non conveniva che fusse meno ignavia ne' principi,
né meno infedelità ne' ministri, né meno forza
o minore ostinazione in quelli che lo assalirono; perché non
una populazione, ma molte furono quelle che nella sua rovina
congiurorono. I primi che di quelle parti settentrionali vennono
contro allo Imperio, dopo i Cimbri, i quali furono da Mario
cittadino romano vinti, furono i Visigoti; il quale nome non
altrimenti nella loro lingua suona, che nella nostra Goti
occidentali. Questi, dopo alcune zuffe fatte a' confini dello
Imperio, per concessione delli imperadori molto tempo tennono la
loro sedia sopra il fiume del Danubio; e avvenga che, per varie
cagioni e in varii tempi, molte volte le provincie romane
assalissero, sempre nondimento furono dalla potenza delli imperadori
raffrenati. E l'ultimo che gloriosamente gli vinse fu Teodosio;
talmente che, essendo ridutti alla ubbidienzia sua, non rifeciono
sopra di loro alcuno re; ma, contenti allo stipendio concesso loro,
sotto il governo e le insegne di quello vivevano e militavano. Ma
venuto a morte Teodosio e rimasi Arcadio e Onorio suoi figliuoli
eredi dello Imperio, ma non della virtù e fortuna sua, si
mutorono, con il principe, i tempi. Erano da Teodosio preposti alle
tre parti dello Imperio tre governatori: Ruffino alla orientale,
alla occidentale Stillicone, e Gildone alla affricana; i quali
tutti, dopo la morte del principe, pensorono, non di governare, ma
come principi possederle. Dei quali Gildone e Ruffino ne' primi loro
principii furono oppressi; ma Stillicone, sapendo meglio celare lo
animo suo, cercò di acquistarsi fede con i nuovi imperadori,
e dall'altra parte turbare loro in modo lo stato, che gli fusse
più facile di poi lo occuparlo. E per fare loro nimici i
Visigoti, gli consigliò non dessero più loro la
consueta provisione. Oltra di questo, non gli parendo che a turbare
lo Imperio questi nimici bastassero, ordinò che i Burgundi,
Franchi, Vandali e Alani, popoli medesimamente settentrionali, e
già mossi per cercare nuove terre, assalissero le provincie
romane. Privati adunque i Visigoti delle provisioni loro, per essere
meglio ordinati a vendicarsi della ingiuria, creorono Alarico loro
re, e assalito lo Imperio, dopo molti accidenti guastorono la
Italia, e presono e saccheggiorono Roma. Dopo la quale vittoria
morì Alarico, e successe a lui Ataulfo, il quale tolse per
moglie Placidia, sirocchia delli Imperadori e per quel parentado
convenne con loro di andare a soccorrere la Gallia e la Spagna, le
quali provincie erano da' Vandali, Burgundioni, Alani e Franchi,
mossi dalle sopra dette cagioni, assalite. Di che ne seguì
che i Vandali, i quali avevano occupata quella parte della Spagna
detta Betica, sendo combattuti forte da i Visigoti, e non avendo
rimedio, furono da Bonifazio, il quale per lo Imperio governava
Affrica, chiamati che venissero ad occupare quella provincia;
perché, sendosi ribellato, temeva che il suo errore non fusse
dallo Imperadore ricognosciuto. Presono i Vandali, per le cagioni
dette, volentieri quella impresa, e sotto Genserico loro re, si
insignorirono d'Affrica. Era, in questo mezzo, successo allo Imperio
Teodosio figliuolo di Arcadio, il quale, pensando poco alle cose di
occidente, fece che queste populazioni pensorono di potere possedere
le cose acquistate.
2
E così i Vandali in Affrica, gli Alani e Visigoti in Ispagna
signoreggiavano, e i Franchi e i Burgundi, non solamente presono la
Gallia, ma quelle parti che da loro furono occupate furono da il
nome loro nominate, donde l'una parte si chiamò Francia e
l'altra Borgogna. I felici successi di costoro destorono nuove
populazioni alla destruzione dello Imperio; ed altri populi, detti
Unni, occuporono Pannonia, provincia posta in sulla ripa di qua dal
Danubio, la quale oggi, avendo preso il nome da questi Unni, si
chiama Ungheria. A questi disordini si aggiunse che, vedendosi lo
imperadore assalire da tante parti, per avere meno nimici,
cominciò ora con i Vandali, ora con i Franchi a fare accordi,
le quali cose accrescevano la autorità e la potenzia dei
barbari e quella dello Imperio diminuivano. Né fu l'isola di
Brettagna, la quale oggi si chiama Inghilterra, sicura da tanta
rovina; perché, temendo i Brettoni di quelli popoli che
avevano occupata la Francia, e non vedendo come lo imperadore
potesse difenderli, chiamorono in loro aiuto gli Angli, popoli di
Germania. Presono gli Angli, sotto Vortigerio loro re, la impresa, e
prima gli difesono, di poi gli cacciorono della isola, e vi rimasono
loro ad abitare, e dal nome loro la chiamarono Anglia. Ma gli
abitatori di quella, sendo spogliati della patria loro, diventorono
per la necessità feroci, e pensorono, ancora che non avessero
potuto difendere il paese loro, di potere occupare quello d'altri.
Passorono pertanto, colle famiglie loro il mare, e occuporono quelli
luoghi che più propinqui alla marina trovarono, e dal nome
loro chiamorono quel paese Brettagna.
3
Gli Unni, i quali di sopra dicemmo avere occupata Pannonia,
accozzatisi con altri popoli, detti Zepidi, Eruli, Turingi e
Ostrogoti (ché così si chiamano in quella lingua i
Goti orientali), si mossono per cercare nuovi paesi; e non potendo
entrare in Francia, che era dalle forze barbare difesa, ne vennono
in Italia, sotto Attila loro re, il quale poco davanti, per essere
solo nel regno, aveva morto Bleda suo fratello; per la qual cosa
diventato potentissimo, Andarico re de' Zepidi e Velamir re degli
Ostrogoti rimasono come suoi subietti. Venuto adunque Attila in
Italia, assediò Aquileia, dove stette, senza altro ostaculo,
duoi anni; e nella obsidione di essa guastò tutto il paese
allo intorno e disperse tutti gli abitatori di quello; il che, come
nel suo luogo direno, dette principio alla città di Vinegia.
Dopo la presa e rovina di Aquileia e di molte altre città, si
volse verso Roma, dalla rovina della quale si astenne per i preghi
del pontefice, la cui reverenzia potette tanto in Attila, che si
uscì di Italia e ritirossi in Austria, dove si morì.
Dopo la morte del quale, Velamir re degli Ostrogoti e gli altri capi
delle altre nazioni presono le armi contro ad Errico e Uric suoi
figliuoli, e l'uno ammazzorono, e l'altro constrinsono, con gli
Unni, a ripassare il Danubio e ritornarsi nella patria loro; e gli
Ostrogoti e i Zepidi si posono in Pannonia, e gli Eruli e i Turingi
sopra la ripa di là dal Danubio si rimasono. Partito Attila
di Italia, Valentiniano, imperadore occidentale, pensò di
instaurare quella; e per essere più commodo a difenderla da'
barbari, abbandonò Roma e pose la sua sedia in Ravenna.
Queste avversità che aveva avute lo imperio occidentale erano
state cagione che lo imperadore, il quale in Gonstantinopoli
abitava, aveva concesso molte volte la possessione di quello ad
altri, come cosa piena di pericoli e di spesa; e molte volte ancora,
sanza sua permissione, i Romani, vedendosi abbandonati, per
difendersi, creavano per loro medesimi uno imperadore, o alcuno, per
sua autorità, si usurpava lo imperio: come avvenne in questi
tempi, che fu occupato da Massimo romano, dopo la morte di
Valentiniano; e costrinse Eudossa stata moglie di quello, a
prenderlo per marito. La quale, desiderosa di vendicare tale
ingiuria, non potendo, nata di sangue imperiale, sopportare le nozze
d'uno privato cittadino, confortò secretamente Genserico, re
dei Vandali e signore di Affrica, a venire in Italia, mostrandogli
la facilità e la utilità dello acquisto. Il quale,
allettato dalla preda, subito venne; e trovata abbandonata Roma,
saccheggiò quella, dove stette quattordici giorni; prese
ancora e saccheggiò più terre in Italia; e ripieno
sé e lo esercito suo di preda, se ne tornò in Affrica.
I Romani, ritornati in Roma, sendo morto Massimo, creorono
imperadore Avito romano. Di poi, dopo molte cose seguite in Italia e
fuori, e dopo la morte di più imperadori, pervenne lo imperio
di Gostantinopoli a Zenone e quello di Roma a Oreste e Augustulo suo
figliuolo, i quali per inganno occuporono lo imperio. E mentre che
disegnavano tenerlo per forza, gli Eruli e i Turingi, i quali io
dissi essersi posti, dopo la morte di Attila, sopra la ripa di
là dal Danubio, fatta lega insieme, sotto Odeacre loro
capitano, vennono in Italia, e ne' luoghi lasciati vacui da quelli
vi entrarono i Longobardi, popoli medesimamente settentrionali,
condotti da Godoogo loro re, i quali furono, come nel suo luogo
direno, l'ultima peste di Italia. Venuto adunque Odeacre in Italia,
vinse e ammazzò Oreste, propinquo a Pavia, e Augustulo si
fuggì. Dopo la quale vittoria, perché Roma variasse
con la potenza il titolo si fece Odeacre, lasciando il nome dello
imperio, chiamare re di Roma. E fu il primo che, de' capi de' popoli
che scorrevono allora il mondo, si posasse ad abitare in Italia;
perché gli altri, o per timore di non la potere tenere, per
essere potuta dallo imperadore orientale facilmente soccorrere, o
per altra occulta cagione, la avevano spogliata, e di poi cerco
altri paesi per fermare la sedia loro.
4
Era pertanto, in questi tempi, lo imperio antico romano ridutto
sotto questi principi: Zenone, regnando in Gonstantinopoli,
comandava a tutto lo imperio orientale; gli Ostrogoti Mesia e
Pannonia signoreggiavano; i Visigoti, Suevi e Alani la Guascogna
tenevano e la Spagna; i Vandali l'Affrica, i Franchi e Burgundi la
Francia, gli Eruli e i Turingi la Italia. Era il regno degli
Ostrogoti pervenuto a Teoderico nipote di Velamir, il quale, tenendo
amicizia con Zenone imperadore orientale, gli scrisse come a' suoi
Ostrogoti pareva cosa ingiusta, sendo superiori di virtù a
tutti gli altri popoli, essere inferiori di imperio, e come egli era
impossibile poterli tenere ristretti dentro a' termini di Pannonia,
tale che, veggendo come gli era necessario lasciare loro pigliare
l'armi e ire a cercare nuove terre, voleva prima farlo intendere a
lui, acciò che potesse provedervi, concedendo loro qualche
paese, dove con sua buona grazia potessero più onestamente e
con loro maggiore comodità vivere. Onde che Zenone, parte per
paura, parte per il desiderio aveva di cacciare di Italia Odeacre,
concesse a Teoderigo il venire contro a quello e pigliare la
possessione di Italia. Il quale subito partì di Pannonia,
dove lasciò i Zepidi, popoli suoi amici; e venuto in Italia,
ammazzò Odeacre e il figliuolo, e con l'esemplo di quello,
prese il titulo di re di Italia; e pose la sua sedia in Ravenna,
mosso da quelle cagioni che feciono già a Valentiniano
imperadore abitarvi. Fu Teoderigo uomo nella guerra e nella pace
eccellentissimo, donde nell'una fu sempre vincitore, nell'altra
benificò grandemente le città e i popoli suoi. Divise
costui gli Ostrogoti per le terre, con i capi loro, acciò che
nella guerra gli comandassero e nella pace gli correggessero;
accrebbe Ravenna, instaurò Roma, ed eccetto che la disciplina
militare, rendé a' Romani ogni altro onore; contenne dentro
ai termini loro, e sanza alcuno tumulto di guerra, ma solo con la
sua autorità, tutti i re barbari occupatori dello Imperio;
edificò terre e fortezze intra la punta del mare Adriatico e
le Alpi, per impedire più facilmente il passo ai nuovi
barbari che volessero assalire la Italia. E se tante virtù
non fussero state bruttate, nell'ultimo della sua vita, da alcune
crudeltà causate da varii sospetti del regno suo come la
morte di Simmaco e di Boezio, uomini santissimi, dimostrano, sarebbe
al tutto la sua memoria degna da ogni parte di qualunque onore,
perché, mediante la virtù e bontà sua, non
solamente Roma e Italia, ma tutte le altre parti dello occidentale
imperio, libere dalle continue battiture che per tanti anni, da
tante inundazione di barbari avevano sopportate, si sollevorono, e
in buono ordine e assai felice stato si ridussero.
5
E veramente, se alcuni tempi furono mai miserabili, in Italia e in
queste provincie corse dai barbari, furono quelli che da Arcadio e
Onorio infino a lui erano corsi. Perché, se si
considererà di quanto danno sia cagione, ad una repubblica o
ad uno regno, variare principe o governo, non per alcuna estrinseca
forza, ma solamente per civile discordia (dove si vede come le poche
variazioni ogni repubblica e ogni regno, ancora che potentissimo,
rovinano), si potrà di poi facilmente immaginare quanto in
quelli tempi patisse la Italia e le altre provincie romane; le
quali, non solamente variorono il governo e il principe, ma le
leggi, i costumi, il modo del vivere, la religione, la lingua,
l'abito, i nomi. Le quali cose ciascuna per sé, non che tutte
insieme, farieno, pensandole, non che vedendole e sopportandole,
ogni fermo e costante animo spaventare. Da questo nacque la rovina,
il nascimento e lo augumento di molte città. Intra quelle che
rovinorono fu Aquileia, Luni, Chiusi, Populonia, Fiesole e molte
altre; intra quelle che di nuovo si edificorono furono Vinegia,
Siena, Ferrara, l'Aquila e altre assai terre e castella che per
brevità si omettono; quelle che di piccole divennero grandi
furono Firenze, Genova, Pisa, Milano, Napoli e Bologna; alle quali
tutte si aggiugne la rovina e il rifacimento di Roma, e molte che
variamente furono disfatte e rifatte. Intra queste rovine e questi
nuovi popoli sursono nuove lingue, come apparisce nel parlare che in
Francia, in Ispagna e in Italia si costuma, il quale mescolato con
la lingua patria di quelli nuovi popoli e con la antica romana fanno
un nuovo ordine di parlare. Hanno, oltre di questo, variato il nome,
non solamente le provincie, ma i laghi, i fiumi, i mari e gli
uomini; perché la Francia, l'Italia e la Spagna sono ripiene
di nomi nuovi e al tutto dagli antichi alieni; come si vede,
lasciandone indrieto molti altri, che il Po, Garda, l'Arcipelago
sono per nomi disformi agli antichi nominati: gli uomini ancora, di
Cesari e Pompei, Pieri, Giovanni e Mattei diventorono. Ma, intra
tante variazioni, non fu di minore momento il variare della
religione, perché, combattendo la consuetudine della antica
fede con i miracoli della nuova, si generavono tumulti e discordie
gravissime intra gli uomini; e se pure la cristiana religione fusse
stata unita, ne sarebbe seguiti minori disordini; ma, combattendo la
chiesa greca, la romana e la ravennate insieme, e di più le
sette eretiche con le cattoliche, in molti modi contristavano il
mondo. Di che ne è testimone l'Affrica, la quale
sopportò molti più affanni mediante la setta arriana,
creduta dai Vandali, che per alcuna loro avarizia o naturale
crudeltà. Vivendo adunque gli uomini intra tante
persecuzioni, portavano descritto negli occhi lo spavento dello
animo loro, perché, oltre alli infiniti mali che
sopportavano, mancava buona parte di loro di potere rifuggire allo
aiuto di Dio, nel quale tutti i miseri sogliono sperare;
perché, sendo la maggiore parte di loro incerti a quale Iddio
dovessero ricorrere, mancando di ogni aiuto e d'ogni speranza,
miseramente morivano.
6
Meritò pertanto Teoderigo non mediocre lode, sendo stato il
primo che facesse quietare tanti mali; talché, per trentotto
anni che regnò in Italia, la ridusse in tanta grandezza, che
le antiche battiture più in lei non si ricognoscevano. Ma,
venuto quello a morte, e rimaso nel regno Atalarico, nato di
Amalasiunta sua figliuola, in poco tempo non sendo ancora la fortuna
sfogata negli antichi suoi affanni si ritornò, perché
Atalarico, poco di poi che l'avolo morì; e rimaso il regno
alla madre, fu tradita da Teodato, il quale era stato da lei
chiamato perché l'aiutasse governare il regno. Costui,
avendola morta e fatto sé re, e per questo sendo diventato
odioso agli Ostrogoti, dette animo a Iustiniano imperadore di
credere poterlo cacciare di Italia, e deputò Bellisario per
capitano di quella impresa; il quale aveva già vinta
l'Affrica, e cacciatine i Vandali, e riduttola sotto lo Imperio.
Occupò dunque Bellisario la Sicilia, e di quivi, passato in
Italia, occupò Napoli e Roma. I Goti, veduta questa rovina,
ammazzorono Teodato loro re, come cagione di quella, ed elessono in
suo luogo Vitigete, il quale, dopo alcune zuffe, fu da Bellisario
assediato e preso in Ravenna. E non avendo ancora al tutto
conseguito la vittoria, fu Bellisario da Iustiniano revocato, e in
suo luogo posto Giovanni e Vitale, disformi in tutto a quello di
virtù e di costumi; di modo che i Goti ripresono animo e
creorono loro re Ildovado, che era governatore in Verona. Dopo
costui, perché fu ammazzato, pervenne il regno a Totila, il
quale ruppe le genti dello Imperadore, e recuperò la Toscana
e Napoli e ridusse i suoi capitani quasi che allo ultimo di tutti
gli stati che Bellisario avea recuperati. Per la qual cosa parve a
Iustiniano di rimandarlo in Italia. Il quale, ritornato con poche
forze, perdé più tosto la reputazione delle cose prima
fatte da lui, che di nuovo ne riacquistasse; perché Totila
trovandosi Bellisario con le genti ad Ostia, sopra gli occhi suoi
espugnò Roma; e veggendo non potere né lasciare
né tenere quella, in maggiore parte la disfece, e caccionne
il popolo, e i senatori ne menò seco, e stimando poco
Bellisario, ne andò con lo esercito in Calavria, a
rincontrare gente che, di Grecia, in aiuto di Bellisario venivano.
Veggendo per tanto Bellisario abbandonata Roma, si volse ad una
impresa onorevole, perché, entrato nelle romane rovine, con
quanta più celerità potette, rifece a quella
città le mura, e vi richiamò dentro gli abitatori. Ma
a questa sua lodevole impresa si oppose la fortuna, perché
Iustiniano fu, in quel tempo, assalito da' Parti, e richiamò
Bellisario; e quello, per ubbidire al suo signore, abbandonò
la Italia; e rimase quella provincia a discrezione di Totila, il
quale di nuovo prese Roma. Ma non fu con quella crudeltà
trattata che prima, perché, pregato da san Benedetto, il
quale in quelli tempi aveva di santità grandissima opinione,
si volse più tosto a rifarla. Iustiniano intanto aveva fatto
accordo con i Parti, e pensando di mandare nuova gente al soccorso
di Italia, fu dagli Sclavi, nuovi popoli settentrionali, ritenuto, i
quali avieno passato il Danubio e assalito la Illiria e la Tracia;
in modo che Totila quasi tutta la occupò. Ma, vinti che ebbe
Iustiniano gli Sclavi, mandò in Italia con gli eserciti
Narsete, eunuco, uomo in guerra eccellentissimo; il quale, arrivato
in Italia ruppe e ammazzò Totila, e le reliquie che de' Goti
dopo quella rotta rimasero si ridussero in Pavia, dove creorono Teia
loro re. Narsete dall'altra parte dopo la vittoria, prese Roma, e in
ultimo si azzuffò con Teia, presso a Nocera, e quello
ammazzò e ruppe. Per la quale vittoria si spense al tutto il
nome de' Goti in Italia, dove settanta anni, da Teoderigo loro re a
Teia, avevono regnato.
7
Ma, come prima fu libera l'Italia dai Goti, Iustiniano morì,
e rimase suo successore Iustino suo figliuolo, il quale, per il
consiglio di Sofia sua moglie, rivocò Narsete di Italia e gli
mandò Longino suo successore. Seguitò Longino l'ordine
degli altri, di abitare in Ravenna; e oltre a questo dette alla
Italia nuova forma, perché non costituì governatori di
provincie, come avevano fatto i Goti, ma fece, in tutte le
città e terre di qualche momento, capi i quali chiamò
duchi. Né in tale distribuzione onorò più Roma
che le altre terre; perché, tolto via i consoli e il senato,
i quali nomi insino a quel tempo vi si erano mantenuti, la ridusse
sotto un duca, il quale ciascuno anno da Ravenna vi si mandava, e
chiamavasi il ducato romano; e a quello che per lo imperadore stava
a Ravenna e governava tutta Italia pose nome esarco. Questa
divisione fece più facile la rovina di Italia, e con
più celerità dette occasione a' Longobardi di
occuparla.
8
Era Narsete sdegnato forte contro allo Imperadore, per essergli
stato tolto il governo di quella provincia che con la sua
virtù e con il suo sangue aveva acquistata, perché a
Sofia non bastò ingiuriarlo rivocandolo, che la vi aggiunse
ancora parole piene di vituperio, dicendo che lo voleva far tornare
a filare con gli altri eunuchi, tanto che Narsete ripieno di sdegno,
persuase ad Alboino re de' Longobardi, che allora regnava in
Pannonia, di venire ad occupare la Italia. Erano, come di sopra si
mostrò entrati i Longobardi in quelli luoghi presso al
Danubio, che erano dagli Eruli e Turingi stati abbandonati, quando
da Odeacre loro re furono condotti in Italia; dove sendo stati
alcuno tempo, e pervenuto il regno loro ad Alboino, uomo efferato e
audace, passorono il Danubio e si azzufforono con Commundo re de'
Zepidi, che teneva la Pannonia, e lo vinsono. E trovandosi nella
preda Rosmunda, figliuola di Commundo, la prese Alboino per moglie,
e si insignorì di Pannonia; e mosso dalla sua efferata
natura, fece del teschio di Commundo una tazza, con la quale in
memoria di quella vittoria beeva. Ma, chiamato in Italia da Narsete,
con il quale nella guerra de' Goti aveva tenuto amicizia,
lasciò la Pannonia agli Unni, i quali dopo la morte di Attila
dicemmo essersi nella loro patria ritornati, e ne venne in Italia; e
trovando quella in tante parti divisa, occupò in un tratto
Pavia, Milano, Verona, Vicenza, tutta la Toscana, e la maggior parte
di Flamminia, chiamata oggi Romagna. Talché parendogli, per
tanti e sì subiti acquisti, avere già la vittoria di
Italia, celebrò in Verona uno convito; e per il molto bere
diventato allegro, sendo il teschio di Commundo pieno di vino, lo
fece presentare a Rosismunda regina, la quale allo incontro di lui
mangiava, dicendo con voce alta, in modo che quella potette udire,
che voleva che, in tanta allegrezza, la bevesse con suo padre. La
quale voce fu come una ferita nel petto di quella donna; e
deliberata di vendicarsi, sappiendo che Elmelchilde, nobile lombardo
giovine e feroce, amava una sua ancilla, trattò con quella
che celatamente desse opera che Elmelchilde, in suo scambio,
dormisse con lei. Ed essendo Elmelchilde, secondo l'ordine di
quella, venuto a trovarla in loco oscuro, credendosi essere con
l'ancilla, iacé con Rosismunda. La quale, dopo il fatto, se
gli scoperse, e, mòstrogli come in suo arbitrio era o
ammazzare Alboino e godersi sempre lei e il regno, o essere morto da
quello come stupratore della sua moglie, consentì Almelchilde
di ammazzare Alboino. Ma, di poi che eglino ebbono morto quello,
veggendo come non riusciva loro di occupare il regno, anzi dubitando
di non essere morti da' Longobardi per lo amore che ad Alboino
portavano, con tutto il tesoro regio se ne fuggirono a Ravenna, a
Longino, il quale onorevolmente gli ricevette. Era morto, in questi
travagli, Iustino imperadore, e in suo luogo rifatto Tiberio, il
quale, occupato nelle guerre de' Parti, non poteva alla Italia
suvvenire; onde che a Longino parve il tempo commodo a potere
diventare, mediante Rosismunda e il suo tesoro, re de' Longobardi e
di tutta Italia; e conferì con lei questo suo disegno e le
persuase ad ammazzare Elmelchilde e pigliare lui per marito. Il che
fu da quella accettato; e ordinò una coppa di vino
avvelenato, la quale di sua mano porse ad Elmelchilde, che assetato
usciva del bagno. Il quale, come la ebbe beuta mezza, sentendosi
commuovere le interiori, e accorgendosi di quello che era,
sforzò Rosismunda a bere il resto; e così, in poche
ore, l'uno e l'altro di loro morirono, e Longino si privò di
speranza di diventare re. I Longobardi intanto, ragunatisi in Pavia,
la quale avevano fatta principale sedia del loro regno, feciono
Clefi loro re; il quale riedificò Imola, stata rovinata da
Narsete, occupò Rimino e, infino a Roma, quasi ogni luogo; ma
nel corso delle sue vittorie morì. Questo Clefi fu in modo
crudele, non solo contro agli esterni, ma ancora contro ai suoi
Longobardi, che quegli, sbigottiti della potestà regia, non
vollono rifare più re; ma feciono intra loro trenta duchi,
che governassero gli altri. Il quale consiglio fu cagione che i
Longobardi non occupassero mai tutta Italia, e che il regno loro non
passasse Benevento, e che Roma, Ravenna, Cremona, Mantova, Padova,
Monselice, Parma, Bologna, Faenza, Furlì, Cesena, parte si
difendessero un tempo, parte non fussero mai da loro occupate.
Perché non avere re li fece meno pronti alla guerra; e poi
che rifeciono quello, diventorono, per essere stati liberi un tempo,
meno ubbidienti e più atti alle discordie infra loro, la qual
cosa, prima ritardò la loro vittoria, di poi, in ultimo, gli
cacciò di Italia. Stando adunque i Longobardi in questi
termini, i Romani e Longino ferno accordo con loro, che ciascuno
posasse l'armi e godesse quello che possedeva.
9
In questi tempi cominciorono pontefici a venire in maggiore
autorità che non erano stati per lo adietro; perché i
primi dopo san Piero, per la santità della vita e per i
miracoli, erano dagli uomini reveriti; gli esempli de' quali
ampliorono in modo la religione cristiana, che i principi furono
necessitati, per levare via tanta confusione che era nel mondo,
ubbidire a quella. Sendo adunque lo imperadore diventato cristiano,
e partitosi di Roma e gitone in Gonstantinopoli, ne seguì,
come nel principio dicemmo, che lo imperio romano rovinò
più presto e la chiesa romana più presto crebbe.
Nondimeno, infino alla venuta de' Longobardi, sendo la Italia
sottoposta tutta o agli imperatori o ai re, non presono mai i
pontefici, in quelli tempi, altra autorità che quella che
dava loro la reverenza de' loro costumi e della loro dottrina: nelle
altre cose o agli imperadori o ai re ubbidivano, e qualche volta da
quelli furono morti, e come loro ministri nelle azioni loro operati.
Ma quello che gli fece diventare di maggiore momento nelle cose di
Italia fu Teoderigo re de' Goti, quando pose la sua sedia in
Ravenna; perché, rimasa Roma sanza principe, i Romani avevono
cagione, per loro refugio, di prestare più ubbidienza al
papa: nondimeno per questo la loro autorità non crebbe molto;
solo ottenne di essere la chiesa di Roma preposta a quella di
Ravenna. Ma, venuti i Lombardi, e ridutta Italia in più
parti, dettono cagione al papa di farsi più vivo;
perché, sendo quasi che capo in Roma, lo imperadore di
Gonstantinopoli e i Lombardi gli avevono rispetto, talmente che i
Romani, mediante il papa, non come subietti, ma come compagni con i
Longobardi e con Longino si collegarono. E così, seguitando i
papi ora di essere amici de' Lombardi, ora de' Greci, la loro
dignità accrescevano. Ma, seguita di poi la rovina dello
imperio orientale (la quale seguì in questi tempi, sotto
Eracleo imperadore; perché i popoli Sclavi, de' quali facemmo
di sopra menzione, assaltorono di nuovo la Illiria, e quella,
occupata, chiamorono dal nome loro Schiavonia; e l'altre parti di
quello imperio furono prima assaltate da' Persi, di poi dai
Saracini, i quali sotto Maumetto uscirno d'Arabia, e in ultimo da'
Turchi, e toltogli la Soria, l'Affrica e lo Egitto), non restava al
papa, per la impotenza di quello imperio, più
commodità di potere rifuggire a quello nelle sue oppressioni;
e dall'altro canto, crescendo le forze de' Longobardi, pensò
che gli bisognava cercare nuovi favori, e ricorse in Francia a
quelli re. Di modo che tutte le guerre che, dopo a questi tempi,
furono da' barbari fatte in Italia furono in maggior parte dai
pontefici causate; e tutti i barbari che quella inundorono furono il
più delle volte da quegli chiamati. Il quale modo di
procedere dura ancora in questi nostri tempi; il che ha tenuto e
tiene la Italia disunita e inferma. Per tanto, nel descrivere le
cose seguite da questi tempi ai nostri, non si dimosterrà
più la rovina dello Imperio, che è tutto in terra, ma
lo augumento de' pontefici e di quegli altri principati che di poi
la Italia, infino alla venuta di Carlo VIII, governorono. E vedrassi
come i papi, prima con le censure, di poi con quelle e con le armi
insieme, mescolate con le indulgenzie, erano terribili e venerandi;
e come, per avere usato male l'uno e l'altro, l'uno hanno al tutto
perduto, dell'altro stanno a discrezione d'altri.
10
Ma, ritornando all'ordine nostro, dico come al papato era pervenuto
Gregorio III e al regno de' Longobardi Aistulfo, il quale, contro
agli accordi fatti, occupò Ravenna e mosse guerra al Papa.
Per la qual cosa Gregorio, per le cagioni sopra scritte, non
confidando più nello imperadore di Gonstantinopoli per essere
debole, né volendo credere alla fede de' Lombardi, che la
avieno molte volte rotta, ricorse in Francia, a Pipino II, il quale,
di signore di Austrasia e Brabante, era diventato re di Francia, non
tanto per la virtù sua, quanto per quella di Carlo Martello
suo padre e di Pipino suo avolo. Perché Carlo Martello, sendo
governatore di quello regno, dette quella memorabile rotta a'
Saraceni presso a Torsi, in sul fiume dell'Era, dove furono morti
più che dugento milia di loro; donde Pipino suo figliuolo,
per la reputazione del padre e virtù sua, diventò poi
re di quel regno. Al quale papa Gregorio, come è detto,
mandò per aiuti contro a' Longobardi: a cui Pipino promesse
mandargli; ma che desiderava prima vederlo e alla presenza onorarlo.
Per tanto Gregorio ne andò in Francia, e passò per le
terre de' Lombardi suoi nimici, sanza che lo impedissero: tanta era
la reverenzia che si aveva alla religione. Andato adunque Gregorio
in Francia, fu da quel Re onorato e rimandato con i suoi eserciti in
Italia; i quali assediarono i Longobardi in Pavia. Onde che
Aistulfo, constretto da necessità, si accordò con i
Franciosi, e quelli feciono lo accordo per i prieghi del Papa, il
quale non volse la morte del suo nimico, ma che si convertisse e
vivesse: nel quale accordo Aistulfo promisse rendere alla Chiesa
tutte le terre che le aveva occupate. Ma, ritornate le genti di
Pipino in Francia, Aistulfo non osservò lo accordo, e il Papa
di nuovo ricorse a Pipino; il quale di nuovo mandò in Italia,
vinse i Longobardi e prese Ravenna; e contro alla voglia dello
imperadore greco, la dette al Papa con tutte quelle altre terre che
erano sotto il suo esarcato, e vi aggiunse il paese di Urbino e la
Marca. Ma Aistulfo, nel consegnare queste terre, morì, e
Desiderio lombardo, che era duca di Toscana, prese le armi per
occupare il regno, e domandò aiuto al Papa, promettendogli la
amicizia sua; e quello gliene concesse, tanto che gli altri principi
cederono. E Desiderio osservò nel principio la fede, e
seguì di consegnare le terre al Pontefice, secondo le
convenzioni fatte con Pipino: né venne più esarco da
Gostantinopoli in Ravenna; ma si governava secondo la voglia del
pontefice.
11
Morì di poi Pipino, e successe nel regno Carlo suo figliuolo,
il quale fu quello che per la grandezza delle cose fatte da lui, fu
nominato Magno. Al papato intanto era successo Teodoro I. Costui
venne in discordia con Desiderio e fu assediato in Roma da lui;
talché il Papa ricorse per aiuti a Carlo, il quale, superate
le Alpi, assediò Desiderio in Pavia, e prese lui e i
figliuoli, e li mandò prigioni in Francia; e ne andò a
vicitare il Papa a Roma, dove giudicò che il papa, vicario di
Dio, non potesse essere dagli uomini giudicato; e il Papa e il
popolo romano lo feciono imperadore. E così Roma
ricominciò ad avere lo imperadore in occidente; e dove il
papa soleva essere raffermo dagli imperadori, cominciò lo
imperadore, nella elezione, ad avere bisogno del papa, e veniva lo
Imperio a perdere i gradi suoi, e la Chiesa ad acquistargli; e per
questi mezzi sempre sopra i principi temporali cresceva la sua
autorità. Erano stati i Longobardi dugentotrentadue anni in
Italia, e di già non ritenevano di forestieri altro che il
nome: e volendo Carlo riordinare la Italia, il che fu al tempo di
papa Leone III, fu contento abitassero in quegli luoghi dove si
erano nutriti, e si chiamasse quella provincia, dal nome loro,
Lombardia. E perché quelli avessero il nome romano in
reverenzia, volle che tutta quella parte di Italia a loro propinqua,
che era sottoposta allo esarcato di Ravenna si chiamasse Romagna. E
oltre a questo creò Pipino suo figliuolo re di Italia; la
iurisdizione del quale si estendeva infino a Benevento; e tutto il
resto possedeva lo imperadore greco, con il quale Carlo aveva fatto
accordo. Pervenne in questi tempi al pontificato Pascale I, e i
parrocchiani delle chiese di Roma, per essere più propinqui
al papa e trovarsi alla elezione di quello, per ornare la loro
potestà con uno splendido titolo, si cominciorono a chiamare
cardinali; e si arrogorono tanta reputazione, massime poi che gli
esclusono il popolo romano dallo eleggere il pontefice, che rade
volte la elezione di quello usciva del numero loro; onde, morto
Pascale, fu creato Eugenio II, del titulo di santa Sabina. E la
Italia, poi che la fu in mano de' Franciosi, mutò in parte
forma e ordine, per avere preso il papa nel temporale più
autorità, e avendo quegli condotto in essa il nome de' conti
e de' marchesi, come prima da Longino, esarco di Ravenna, vi erano
stati posti i nomi de' duchi. Pervenne dopo alcuno pontefice, al
papato Osporco romano, il quale, per la bruttura del nome, si fece
chiamare Sergio; il che dette principio alla mutazione de' nomi, che
fanno nelle loro elezioni i pontefici.
12
Era intanto morto Carlo imperadore, al quale successe Lodovico suo
figliuolo; dopo la morte del quale nacquero intra i suoi figliuoli
tante differenzie che, al tempo de' nipoti suoi, fu tolto alla casa
di Francia lo imperio, e ridutto nella Magna; e chiamossi il primo
imperadore tedesco Ainulfo. Né solamente la famiglia de'
Carli, per le sue discordie, perdé lo imperio, ma ancora il
regno di Italia; perché i Lombardi ripresono le forze, e
offendevono il papa e i Romani; tanto che il pontefice, non vedendo
a chi si rifuggire, creò, per necessità, re di Italia
Berengario, duca nel Friuoli. Questi accidenti dettono animo agli
Unni, che si trovavano in Pannonia, di assaltare la Italia; e venuti
alle mani con Berengario, furono forzati tornarsi in Pannonia, o
vero in Ungheria, ché così quella provincia, da loro,
si nominava. Romano era in questi tempi imperadore in Grecia, il
quale aveva tolto lo imperio a Gostantino, sendo prefetto della sua
armata. E perché se gli era in tale novitate, ribellata la
Puglia e la Calavria, che allo imperio suo, come di sopra dicemmo,
ubbidivano, sdegnato per tale rebellione, permesse a' Saraceni che
passassero in que' luoghi; i quali, venuti, e prese quelle
provincie, tentorono di espugnare Roma. Ma i Romani, perché
Berengario era occupato in defendersi dagli Unni, feciono loro
capitano Alberigo duca di Toscana, e mediante la virtù di
quello, salvorono Roma da' Saraceni. I quali, partiti da quello
assedio, feciono una rocca sopra il monte Galgano, e di quivi
signoreggiavano la Puglia e la Calavria, e il resto di Italia
battevono. E così veniva la Italia, in questi tempi, ad
essere maravigliosamente afflitta, sendo combattuta di verso l'Alpi
dagli Unni e di verso Napoli da' Saraceni. Stette la Italia in
questi travagli molti anni, e sotto tre Berengari, che successono
l'uno all'altro; nel qual tempo il papa e la Chiesa era ad ogni ora
perturbata, non avendo dove ricorrere, per la disunione de' principi
occidentali e per la impotenzia degli orientali. La città di
Genova e tutte le sue riviere furono, in questi tempi, da' Saraceni
disfatte, donde ne nacque la grandezza della città di Pisa,
nella quale assai popoli, cacciati della patria sua, ricorsono. Le
quali cose seguirono negli anni della cristiana religione 931. Ma,
fatto imperadore Ottone, figliuolo di Errico e di Mattelda, duca di
Sassonia, uomo prudente e di grande reputazione, Agabito papa si
volse a pregarlo venisse in Italia, a trarla di sotto alla tirannide
de' Berengari.
13
Erano gli stati di Italia, in questi tempi, così ordinati: la
Lombardia era sotto a Berengario III e Alberto suo figliuolo; la
Toscana e la Romagna per uno ministro dello imperadore occidentale
era governata; la Puglia e la Calavria parte allo imperadore greco
parte a' Saraceni ubbidiva; in Roma si creavano ciascuno anno duoi
consoli della nobilità, i quali secondo lo antico costume la
governavano; aggiugnevasi a questo uno prefetto, che rendeva ragione
al popolo; avevano un consiglio di dodici uomini, i quali
distribuivano i rettori, ciascuno anno, per le terre a loro
sottoposte. Il papa aveva, in Roma e in tutta Italia, più o
meno autorità, secondo che erano i favori delli imperadori, o
di quelli che erano più potenti in essa. Ottone imperadore,
adunque, venne in Italia e tolse il regno a' Berengari, che avevono
regnato in quella cinquantacinque anni, e restituì le sue
dignità al pontefice. Ebbe costui uno figliuolo e uno nipote,
chiamati ancora loro Ottone, i quali, l'uno apresso l'altro,
successono dopo di lui allo Imperio. E al tempo di Ottone III, papa
Gregorio V fu cacciato dai Romani; donde che Ottone venne in Italia
e rimisselo in Roma; e il Papa, per vendicarsi con i Romani, tolse a
quelli la autorità di creare lo imperadore, e la dette a sei
principi della Magna: tre vescovi, Magonza, Treveri e Colonia; e tre
principi, Brandiborgo, Palatino e Sassonia: il che seguì nel
1002. Dopo la morte di Ottone III, fu dagli Elettori creato
imperadore Errico, duca di Baviera, il quale, dopo dodici anni, fu
da Stefano VIII incoronato. Erano Errico e Simeonda sua moglie di
santissima vita; il che si vede per molti templi dotati e edificati
da loro, intra i quali fu il tempio di San Miniato, propinquo alla
città di Firenze. Morì Errico nel 1024; al quale
successe Currado di Svevia, a cui, di poi, Errico II. Costui venne a
Roma; e perché egli era scisma nella Chiesa, di tre papi, gli
disfece tutti, e fece eleggere Chimenti II, dal quale fu coronato
imperadore.
14
Era allora governata Italia parte dai popoli, parte dai principi,
parte dai mandati dallo imperadore, de' quali il maggiore, e a cui
gli altri riferivano si chiamava Cancellario. Intra i principi il
più potente era Gottifredi e la contessa Mattelda sua donna,
la quale era nata di Beatrice, sirocchia di Errico II. Costei e il
marito possedevano Lucca, Parma, Reggio e Mantova, con tutto quello
che oggi si chiama il Patrimonio. A' pontefici faceva allora assai
guerra l'ambizione del popolo romano, il quale, in prima, si era
servito della autorità di quelli per liberarsi dagli
imperadori; di poi che gli ebbe preso il dominio della città,
e riformata quella secondo che a lui parve, subito diventò
nimico a' pontefici; e molte più ingiurie riceverno quegli da
quel popolo, che da alcuno altro principe cristiano. E ne' tempi che
i papi facevono tremare con le censure tutto il Ponente, avevono il
popolo romano ribelle, né qualunque di essi aveva altro
intento che torre la reputazione e la autorità l'uno
all'altro. Venuto, adunque, al pontificato Niccolao II, come
Gregorio V tolse ai Romani il potere creare lo imperadore,
così Niccolao gli privò di concorrere alla creazione
del papa, e volle che, solo la elezione di quello appartenessi ai
cardinali. Né fu contento a questo, ché convenuto con
quelli principi che governavano la Calavria e la Puglia, per le
cagioni che poco di poi direno, costrinse tutti gli ufficiali
mandati dai Romani per la loro iurisdizione a rendere ubidienzia al
papa, e alcuni ne privò del loro ufizio.
15
Fu, dopo la morte di Niccolao, scisma nella Chiesa, perché il
clero di Lombardia non volle prestare ubbidienza ad Alessandro II,
eletto a Roma, e creò Cadolo da Parma antipapa. Errico che
aveva in odio la potenzia de' pontefici, fece intendere a papa
Alessandro che renunziasse al pontificato, e ai cardinali che
andassero nella Magna a creare uno nuovo pontefice. Onde che fu il
primo principe che cominciasse a sentire di quale importanza fussero
le spirituali ferite, perché il Papa fece uno concilio a
Roma, e privò Errico dello Imperio e del regno. E alcuni
popoli italiani seguirono il Papa, e alcuni Errico; il che fu seme
degli umori guelfi e ghibellini, acciò che la Italia, mancate
le inundazioni barbare, fusse dalle guerre intestine lacerata.
Errico adunque, sendo scomunicato, fu costretto da' suoi popoli a
venire in Italia e, scalzo, inginocchiarsi al Papa e domandargli
perdono: il che seguì l'anno 1080. Nacque nondimeno poco di
poi, nuova discordia intra il Papa ed Errico; onde che il Papa di
nuovo lo scomunicò, e lo Imperadore mandò il suo
figliuolo, chiamato ancora Errico, con esercito, a Roma, e con lo
aiuto de' Romani, che avevano in odio il Papa, lo assediò
nella fortezza; onde che Ruberto Guiscardo venne di Puglia a
soccorrerlo, ed Errico non lo aspettò, ma se ne tornò
nella Magna. Solo i Romani stettono nella loro ostinazione, tale che
Roma ne fu di nuovo da Ruberto saccheggiata e riposta nelle antiche
rovine, dove da più pontefici era innanzi stata instaurata. E
perché da questo Ruberto nacque l'ordine del regno di Napoli,
non mi pare superfluo narrare particularmente le azioni e nazione di
quello.
16
Poi che venne disunione intra li eredi di Carlo Magno, come di sopra
abbiamo dimostro, si dette occasione a nuovi popoli settentrionali,
detti Normandi, di venire ad assalire la Francia e occuporono quel
paese il quale oggi da loro, è detto Normandìa. Di
questi popoli una parte ne venne in Italia ne' tempi che quella
provincia da' Berengarii, da' Saraceni e dagli Unni era infestata, e
occuporono alcune terre in Romagna, dove, intra quelle guerre,
virtuosamente si mantennono. Di Tancredi, uno di questi principi
normandi, nacquono più figliuoli, intra i quali fu Guglielmo,
nominato Ferabac, e Ruberto, detto Guiscardo. Era pervenuto il
principato a Guglielmo, e i tumulti di Italia in qualche parte erano
cessati; nondimeno i Saraceni tenevono la Sicilia e ogni dì
scorrevono i liti di Italia; per la qual cosa Guglielmo convenne con
il principe di Capua e di Salerno e con Melorco greco, che per lo
imperadore di Grecia governava la Puglia e la Calavria, di assaltare
la Sicilia, e, seguendone la vittoria, si accordorono che qualunche
di loro della preda e dello stato dovesse per la quarta parte
participare. Fu la impresa felice; e cacciati i Saraceni, occuporono
la Sicilia. Dopo la quale vittoria, Melorco fece venire secretamente
gente di Grecia, e prese la possessione dell'isola per lo
imperadore, e solamente divise la preda. Di che Guglielmo fu male
contento; ma si riserbò a tempo più commodo a
dimostrarlo; e si partì di Sicilia insieme con i principi di
Salerno e di Capua. I quali come furono partiti da lui per
tornarsene a casa, Guglielmo non ritornò in Romagna, ma si
volse con le sue genti verso Puglia, e subito occupò Melfi, e
quindi, in breve tempo, contro alle forze dello imperadore greco, si
insignorì quasi che di tutta Puglia e di Calavria, nelle
quali provincie signoreggiava, al tempo di Niccolao II, Ruberto
Guiscardo suo fratello. E perché gli aveva avute assai
differenze con i suoi nipoti per la eredità di quelli stati,
usò l'autorità del Papa a comporle; il che fu da il
Papa esequito volentieri, desideroso di guadagnarsi Ruberto,
acciò che contro agli imperadori tedeschi e contro alla
insolenzia del popolo romano lo difendesse; come lo effetto ne
seguì, secondo che di sopra abbiamo dimostro, che ad
instanzia di Gregorio VII, cacciò Errico di Roma e quello
popolo domò. A Ruberto successono Ruggieri e Guglielmo, suoi
figliuoli; allo stato de' quali si aggiunse Napoli e tutte le terre
che sono da Napoli a Roma, e di poi la Sicilia; delle quali si fece
signore Ruggieri. Ma Guglielmo, di poi, andando in Gonstantinopoli
per prendere per moglie la figliuola dello Imperadore, fu da
Ruggieri assalito, e toltogli lo stato. E insuperbito per tale
acquisto, si fece prima chiamare re di Italia; di poi, contento del
titolo di re di Puglia e di Sicilia, fu il primo che desse nome e
ordine a quel regno; il quale ancora oggi intra gli antichi termini
si mantiene, ancora che più volte abbia variato, non
solamente sangue, ma nazione; perché, venuta meno la stirpe
de' Normandi, si trasmutò quel regno ne' Tedeschi, da quelli
ne' Franciosi, da costoro negli Aragonesi, e oggi è posseduto
dai Fiamminghi.
17
Era pervenuto al pontificato Urbano II, il quale era in Roma odiato;
e non gli parendo anche potere stare, per le disunioni, in Italia
securo, si volse ad una generosa impresa, e se ne andò in
Francia con tutto il clero, e ragunò in Auverna molti popoli,
a' quali fece una orazione contro agli infideli; per la quale
intanto accese gli animi loro, che deliberorono di fare la impresa
di Asia contro a' Saraceni; la quale impresa con tutte le altre
simili furono di poi chiamate Crociate, perché tutti quelli
che vi andorono erano segnati sopra le armi e sopra i vestimenti di
una croce rossa. I principi di questa impresa furono Gottifredi,
Eustachio e Balduino di Buglò, conti di Bologna, e uno Pietro
Eremita, per santità e prudenza celebrato; dove molti re e
molti popoli concorsono con danari, e molti privati senza alcuna
mercede militorono: tanto allora poteva negli animi degli uomini la
religione, mossi dallo esemplo di quelli che ne erano capi. Fu
questa impresa nel principio gloriosa, perché tutta l'Asia
Minore, la Soria e parte dello Egitto venne nella potestà de'
Cristiani; mediante la quale nacque l'ordine de' cavalieri di
Ierosolima, il quale oggi ancora regna, e tiene l'isola di Rodi,
rimasa unico ostaculo alla potenzia de' Maumettisti. Nacquene ancora
l'ordine de' Templari, il quale dopo poco tempo, per li loro cattivi
costumi venne meno. Seguirno in varii tempi varii accidenti, dove
molte nazioni e particulari uomini furono celebrati. Passò in
aiuto di quella impresa, il re di Francia, il re di Inghilterra, e i
popoli pisani, viniziani e genovesi vi acquistorono reputazione
grandissima; e con varia fortuna insino a' tempi del Saladino
saraceno combatterono, la virtù del quale e la discordia de'
Cristiani tolse alla fine loro tutta quella gloria che si avevono
nel principio acquistata, e furono dopo novanta anni cacciati di
quello luogo ch'eglino avevono con tanto onore felicemente
recuperato.
18
Dopo la morte di Urbano, fu creato pontefice Pascale II, e allo
Imperio era pervenuto Errico IV. Costui venne a Roma, fingendo di
tenere amicizia col Papa; di poi il Papa e tutto il clero misse in
prigione; né mai lo liberò, se prima non gli fu
concesso di potere disporre delle chiese della Magna come a lui
pareva. Morì, in questi tempi, la contessa Matelda, e
lasciò erede di tutto il suo stato la Chiesa. Dopo la morte
di Pascale e di Errico IV, seguirono più papi e più
imperadori, tanto che il papato pervenne ad Alessandro III, e lo
Imperio a Federigo Svevo, detto Barbarossa. Avevano avuto i
pontefici, in quelli tempi, con il popolo romano e con gli
imperadori molte difficultà, le quali al tempo del Barbarossa
assai crebbero. Era Federigo uomo eccellente nella guerra, ma pieno
di tanta superbia che non poteva sopportare di avere a cedere al
Pontefice; nondimeno nella sua elezione venne a Roma per la corona,
e pacificamente si tornò nella Magna. Ma poco stette in
questa opinione, perché tornò in Italia per domare
alcune terre in Lombardia che non lo ubbidivano; nel quale tempo
occorse che il cardinale di S. Clemente, di nazione romano, si
divise da papa Alessandro, e da alcuni cardinali fu fatto papa.
Trovavasi in quel tempo Federigo imperadore a campo a Crema; con il
quale dolendosi Alessandro dello Antipapa, gli rispose che l'uno e
l'altro andasse a trovarlo e allora giudicherebbe chi di loro fussi
papa. Dispiacque questa risposta ad Alessandro; e perché lo
vedeva inclinato a favorire l'Antipapa, lo scomunicò e se ne
fuggì a Filippo re di Francia. Federigo intanto, seguitando
la guerra in Lombardia, prese e disfece Milano, la qual cosa fu
cagione che Verona, Padova e Vicenza si unirono contro a di lui, a
difesa comune. In questo mezzo era morto lo Antipapa, donde che
Federigo creò in suo luogo Guido da Cremona. I Romani, in
questi tempi, per la assenza del Papa e per gl'impedimenti che lo
Imperadore aveva in Lombardia, avevono ripreso in Roma alquanto di
autorità, e andavano ricognoscendo la ubbidienza delle terre
che solevono essere loro subiette. E perché i Tusculani non
vollono cedere alla loro autorità, gli andorono popularmente
a trovare; i quali furono soccorsi da Federigo, e ruppono lo
esercito de' Romani con tanta strage che Roma non fu mai poi
né populata né ricca. Era intanto tornato papa
Alessandro in Roma, parendogli potervi stare sicuro per la
inimicizia avevono i Romani con Federigo, e per li nimici che quello
aveva in Lombardia. Ma Federigo, posposto ogni rispetto, andò
a campo a Roma; dove Alessandro non lo aspettò, ma se ne
fuggì a Guglielmo re di Puglia, rimaso erede di quel regno
dopo la morte di Ruggieri. Ma Federigo, cacciato dalla peste,
lasciò la obsidione, e se ne tornò nella Magna; e le
terre di Lombardia le quali erano congiurate contro a di lui per
potere battere Pavia e Tortona, che tenevono le parti imperiali,
edificorono una città che fusse sedia di quella guerra; la
quale nominarono Alessandria in onore di Alessandro papa e in
vergogna di Federigo. Morì ancora Guidone antipapa, e fu
fatto in suo luogo Giovanni da Fermo, il quale per i favori delle
parti dello Imperadore si stava in Montefiasconi.
19
Papa Alessandro, in quel mezzo, se ne era ito in Tusculo, chiamato
da quel popolo, acciò che con la sua autorità lo
difendesse dai Romani; dove vennono a lui oratori mandati da Errico
re di Inghilterra a significargli che della morte del beato Tommaso,
vescovo di Conturbia, il loro re non aveva alcuna colpa, sì
come publicamente ne era stato infamato. Per la qual cosa il Papa
mandò duoi cardinali in Inghilterra a ricercare la
verità della cosa; i quali, ancora che non trovassino il Re
in manifesta colpa, nondimeno, per la infamia del peccato e per non
lo avere onorato come egli meritava, gli dettono per penitenza che,
chiamati tutti i baroni del regno, con giuramento alla presenza loro
si scusasse e inoltre mandasse subito dugento soldati in Ierusalem,
pagati per uno anno, ed esso fussi obligato, con quello esercito che
potesse ragunare maggiore, personalmente, avanti che passassero tre
anni, andarvi, e che dovesse annullare tutte le cose fatte nel suo
regno in disfavore della libertà ecclesiastica, e dovesse
acconsentire che qualunche suo subietto potesse, volendo, appellare
a Roma. Le quali cose furono tutte da Elrico accettate; e
sottomessesi a quello iudizio un tanto re, che oggi uno uomo privato
si vergognerebbe a sottomettervisi. Nondimeno, mentre che il Papa
aveva tanta autorità ne' principi longinqui, non poteva farsi
ubbidire dai Romani; dai quali non potette impetrare di potere stare
in Roma, ancora che promettesse d'altro che dello ecclesiastico non
si travagliare: tanto le cose che paiono sono più di scosto
che da presso temute. Era tornato, in questo tempo Federigo in
Italia, e mentre che si preparava a fare nuova guerra al Papa, tutti
i suoi prelati e baroni gli feciono intendere che lo
abbandonerebbono, se non si riconciliava con la Chiesa, di modo che
fu constretto andare ad adorarlo a Vinegia, dove si pacificarono
insieme; e nello accordo il Papa privò lo Imperadore d'ogni
autorità che gli avesse sopra Roma, e nominò Guglielmo
re di Sicilia e di Puglia per suo confederato. E Federigo, non
potendo stare senza fare guerra, ne andò alla impresa di
Asia, per sfogare la sua ambizione contro a Maumetto, la quale
contro a' vicari di Cristo sfogare non aveva potuto. Ma arrivato
sopra il fiume..., allettato dalla chiarezza delle acque, vi si
lavò dentro, per il quale disordine morì. E
così l'acque fecero più favore a' Maumettisti, che le
scomuniche a' Cristiani, perché queste frenorono l'orgoglio
suo, e quelle lo spensono.
20
Morto Federigo, restava solo al Papa a domare la contumacia de'
Romani; e dopo molte dispute fatte sopra la creazione de' consoli,
convennono che i Romani secondo il costume loro gli eleggessero; ma
non potessero pigliare il magistrato, se prima non giuravano di
mantenere la fede alla Chiesa. Il quale accordo fece che Giovanni
antipapa se ne fuggì in Monte Albano, dove, poco di poi, si
morì. Era morto in questi tempi, Guglielmo re di Napoli, e il
Papa disegnava di occupare quel regno, per non avere lasciati quel
re altri figliuoli che Tancredi, suo figliuolo naturale; ma i baroni
non consentirono al Papa, ma vollono che Tancredi fusse re. Era
papa, allora, Celestino III, il quale, desideroso di trarre quel
regno dalle mani di Tancredi, operò che Elrico figliuolo di
Federigo fusse fatto imperadore, e gli promisse il regno di Napoli,
con questo, che restituisse alla Chiesa le terre che a quella
appartenevano. E per facilitare la cosa, trasse di munistero
Gostanza, già vecchia, figliuola di Guglielmo, e gliene dette
per moglie. E così passò il regno di Napoli da'
Normandi, che ne erano stati fondatori, ai Tedeschi. Elrico
imperadore, come prima ebbe composte le cose della Magna, venne in
Italia con Gostanza sua moglie e con uno suo figliuolo di quattro
anni chiamato Federigo, e sanza molta dificultà prese il
Regno, perché di già era morto Tancredi, e di lui era
rimaso un piccolo fanciullo detto Ruggieri. Morì, dopo alcun
tempo, Elrico, in Sicilia, e successe a lui nel Regno Federigo, e
allo Imperio Ottone duca di Sansogna, fatto per i favori che gli
fece papa Innocenzio III. Ma come prima ebbe presa la corona, contro
ad ogni opinione, diventò Ottone nimico del Pontefice;
occupò la Romagna, e ordinava di assalire il Regno, per la
qual cosa il Papa lo scomunicò, in modo che fu da ciascheduno
abbandonato, e gli Elettori elessono imperadore Federigo re di
Napoli. Venne Federigo a Roma per la corona, e il Papa non volle
incoronarlo, perché temeva la sua potenza e cercava di trarlo
di Italia, come ne aveva tratto Ottone; tanto che Federigo sdegnato,
ne andò nella Magna, e fatte più guerre con Ottone, lo
vinse. In quel mezzo si morì Innocenzio, il quale, oltre alle
sue egregie opere, edificò lo spedale di Santo Spirito in
Roma. Di costui fu successore Onorio III, al tempo del quale surse
l'ordine di San Domenico e di San Francesco, nel 1218. Coronò
questo pontefice Federigo, al quale Giovanni disceso di Balduino re
di Ierusalem, che era con le reliquie de' Cristiani in Asia e ancora
teneva quel titulo, dette una sua figliuola per moglie, e con la
dota gli concesse il titulo di quel regno: di qui nasce che
qualunche re di Napoli si intitula re di Ierusalem.
21
In Italia si viveva allora in questo modo: i Romani non facevano
più consoli, e in cambio di quelli, con la medesima
autorità, facevano quando uno quando più senatori;
durava ancora la lega che avevano fatta le città di Lombardia
contro a Federigo Barbarossa, le quali erano Milano, Brescia,
Mantova, con la maggiore parte delle città di Romagna, e di
più Verona, Vicenza, Padova e Trevigi; nelle parti dello
imperadore erano Cremona, Bergamo, Parma, Reggio, Modena e Trento;
le altre città e castella di Lombardia, di Romagna e della
Marca trivigiana favorivano, secondo la necessità, ora questa
ora quella parte. Era venuto in Italia, al tempo di Ottone III, uno
Ecelino, del quale, rimaso in Italia, nacque uno figliuolo, che
generò uno altro Ecelino. Costui, sendo ricco e potente, si
accostò a Federigo II il quale, come si è detto, era
diventato nimico del Papa; e venendo in Italia per opera e favore di
Ecelino, prese Verona e Mantova, e disfece Vicenza occupò
Padova, e ruppe lo esercito delle terre collegate, e di poi se ne
venne verso Toscana. Ecelino, intanto, aveva sottomesso tutta la
Marca trivigiana: non potette espugnare Ferrara, perché fu
difesa da Azzone da Esti e dalle genti che il Papa aveva in
Lombardia; donde che, partita la obsidione, il Papa dette quella
città in feudo ad Azzone Estense, dal quale sono discesi
quelli i quali ancora oggi la signoreggiano. Fermossi Federigo a
Pisa, desideroso di insignorirsi di Toscana; e nel ricognoscere gli
amici e nimici di quella provincia seminò tanta discordia che
fu cagione della rovina di tutta Italia; perché le parti
guelfe e ghibelline multiplicorono, chiamandosi Guelfi quelli che
seguivono la Chiesa, e Ghibellini quelli che seguivono gli
imperadori; e a Pistoia in prima fu udito questo nome. Partito
Federigo da Pisa, in molti modi assaltò e guastò le
terre della Chiesa, tanto che il Papa, non avendo altro rimedio, gli
bandì la crociata contro, come avevono fatto gli antecessori
suoi contro a' Saraceni. E Federigo, per non essere abandonato dalle
sue genti ad un tratto, come erano stati Federigo Barbarossa e altri
suoi maggiori, soldò assai Saraceni; e per obligarseli, e per
fare uno ostaculo in Italia fermo contro alla Chiesa, che non
temessi le papali maledizioni, donò loro Nocera nel Regno,
acciò che, avendo uno proprio refugio, potessero con maggiore
securità servirlo.
22
Era venuto al pontificato Innocenzio IV; il quale, temendo di
Federigo, se ne andò a Genova, e di quivi in Francia; dove
ordinò uno concilio, a Lione, al quale Federigo
deliberò di andare. Ma fu ritenuto dalla rebellione di Parma;
dalla impresa della quale sendo ributtato, se ne andò in
Toscana, e di quivi in Sicilia, dove si morì. E lasciò
in Svevia Currado suo figliuolo, e in Puglia Manfredi, nato di
concubina, il quale aveva fatto duca di Benevento. Venne Currado per
la possessione del Regno, e arrivato a Napoli si morì; e di
lui rimase Curradino piccolo, che si trovava nella Magna. Pertanto
Manfredi, prima, come tutore di Curradino, occupò quello
stato; di poi, dando nome che Curradino era morto, si fece re,
contro alla voglia del Papa e de' Napoletani, i quali fece
acconsentire per forza. Mentre che queste cose nel Regno si
travagliavano, seguirono in Lombardia assai movimenti intra la parte
guelfa e ghibellina. Per la guelfa era uno legato del Papa; per la
ghibellina Ecelino, il quale possedeva quasi tutta la Lombardia di
là dal Po. E perché, nel trattare la guerra, se gli
ribellò Padova, fece morire dodici mila Padovani; e lui,
avanti che la guerra terminasse, fu morto, che era di età di
ottanta anni; dopo la cui morte tutte le terre possedute da lui
diventorono libere. Seguitava Manfredi re di Napoli le inimicizie
contro alla Chiesa secondo i suoi antinati, e tenea il Papa, che si
chiamava Urbano IV, in continue angustie; tanto che il Pontefice,
per domarlo, gli convocò la crociata contro, e ne andò
ad aspettare le genti a Perugia. E parendogli che le genti venissero
poche, deboli e tarde, pensò che a vincere Manfredi
bisognassero più certi aiuti; e si volse per i favori in
Francia, e creò re di Sicilia e di Napoli Carlo
d'Angiò, fratello di Lodovico re di Francia, e lo citò
a venire in Italia a pigliare quel regno. Ma prima che Carlo venisse
a Roma, il Papa morì, e fu fatto in suo luogo Clemente IV; al
tempo del quale, Carlo, con trenta galee, venne ad Ostia, e
ordinò che l'altre sue genti venissero per terra. E nel
dimorare che fece in Roma, i Romani, per gratificarselo, lo feciono
senatore, e il Papa lo investì del Regno, con obligo che
dovesse pagare ciascuno anno alla Chiesa cinquanta milia fiorini; e
fece uno decreto che per lo avvenire né Carlo né altri
che tenessero quel regno non potessero essere imperadori. E andato
Carlo contro a Manfredi, lo ruppe e ammazzò, propinquo a
Benevento, e s'insignorì di Sicilia e del Regno. Ma
Curradino, a cui per testamento del padre si apparteneva quello
stato, ragunata assai gente nella Magna, venne in Italia contro a
Carlo, con il quale combatté a Tagliacozzo; e fu prima rotto,
e poi, fuggendosi sconosciuto, fu preso e morto.
23
Stette la Italia quieta, tanto che successe al pontificato Adriano
V. E stando Carlo a Roma, e quella governando per lo ufizio che gli
aveva del senatore, il Papa non poteva sopportare la sua potenza, e
se ne andò ad abitare a Viterbo, e sollecitava Ridolfo
imperadore a venire in Italia contro a Carlo. E così i
pontefici, ora per carità della religione, ora per loro
propria ambizione, non cessavano di chiamare in Italia umori nuovi e
suscitare nuove guerre; e poi ch'eglino avieno fatto potente uno
principe, se ne pentivano, e cercavano la sua rovina; né
permettevano che quella provincia la quale per loro debolezza non
potevano possedere, che altri la possedesse. E i principi ne
temevano, perché sempre, o combattendo o fuggendo, vincevono;
se con qualche inganno non erano oppressi, come fu Bonifazio VIII e
alcuni altri, i quali, sotto colore d'amicizia, furono dagli
imperadori presi. Non venne Ridolfo in Italia, sendo ritenuto dalla
guerra che aveva con il re di Buemia. In quel mezzo morì
Adriano, e fu creato pontefice Niccolao III di casa Orsina, uomo
audace e ambizioso; il quale pensò, ad ogni modo, di
diminuire la potenza di Carlo; e ordinò che Ridolfo
imperadore si dolesse che Carlo teneva uno governatore in Toscana
rispetto alla parte guelfa, che era stata da lui, dopo la morte di
Manfredi, in quella provincia rimessa. Cedette Carlo allo
Imperadore, e ne trasse i suoi governatori; e il Papa vi
mandò un suo nipote cardinale per governatore dello Imperio;
tale che lo Imperadore, per questo onore fattogli, restituì
alla Chiesa la Romagna, stata da' suoi antecessori tolta a quella, e
il Papa fece duca di Romagna Bertoldo Orsino. E parendogli essere
diventato potente da potere mostrare il viso a Carlo, lo
privò dello ufizio del senatore, e fece uno decreto che niuno
di stirpe regia potesse essere più senatore in Roma. Aveva in
animo ancora di torre la Sicilia a Carlo, e mosse, a questo fine,
secretamente pratica con Pietro re di Ragona, la quale poi, al tempo
del suo successore, ebbe effetto. Disegnava ancora fare di casa sua
duoi re, l'uno in Lombardia, l'altro in Toscana, la potenza de'
quali defendesse la Chiesa da' Tedeschi che volessero venire in
Italia, e da i Franzesi che erano nel Regno. Ma con questi pensieri
si morì; e fu il primo de' papi che apertamente mostrasse la
propria ambizione, e che disegnasse, sotto colore di fare grande la
Chiesa, onorare e benificare i suoi. E come da questi tempi indietro
non si è mai fatta menzione di nipoti o di parenti di alcuno
pontefice, così per lo avvenire ne fia piena la istoria,
tanto che noi ci condurreno a' figliuoli; né manca altro a
tentare a' pontefici se non che, come eglino hanno disegnato, infino
a' tempi nostri, di lasciargli principi, così, per lo
avvenire, pensino di lasciare loro il papato ereditario. Bene
è vero che, per infino a qui, i principati ordinati da loro
hanno avuta poca vita, perché il più delle volte i
pontefici, per vivere poco tempo, o ei non forniscono di piantare le
piante loro, o, se pure le piantano, le lasciano con sì poche
e deboli barbe, che al primo vento, quando è mancata quella
virtù che le sostiene, si fiaccano.
24
Successe a costui Martino IV, il quale, per essere di nazione
francioso, favorì le parti di Carlo; in favore del quale,
Carlo mandò in Romagna, che se gli era ribellata, sue genti;
ed essendo a campo a Furlì, Guido Bonatto astrologo
ordinò che, in un punto dato da lui, il popolo gli
assaltasse; in modo che tutti i Franciosi vi furono presi e morti.
In questo tempo si mandò ad effetto la pratica mossa da papa
Niccolao con Pietro re di Aragona; mediante la quale i Siciliani
ammazzorono tutti i Franciosi che si trovorono in quella isola;
della quale Pietro si fece signore, dicendo appartenersegli per
avere per moglie Gostanza figliuola di Manfredi. Ma Carlo, nel
riordinare la guerra per la recuperazione di quella, si morì;
e rimase di lui Carlo II, il quale in quella guerra era rimaso
prigione in Sicilia, e per essere libero promisse di ritornare
prigione, se infra tre anni non aveva impetrato dal Papa che i reali
di Aragona fussero investiti del regno di Sicilia.
25
Ridolfo imperadore, in cambio di venire in Italia per rendere allo
Imperio la riputazione in quella, vi mandò un suo oratore,
con autorità di potere fare libere tutte quelle città
che si ricomperassero, onde che molte città si ricomperorono,
e con la libertà mutorono modo di vivere. Adulfo di Sassonia
successe allo Imperio, e al pontificato Pietro del Murrone, che fu
nominato papa Celestino; il quale, sendo eremita e pieno di
santità, dopo sei mesi renunziò al pontificato; e fu
eletto Bonifazio VIII. I cieli (i quali sapevono come e' doveva
venire tempo che i Franciosi e i Tedeschi si allargherebbono da
Italia e che quella provincia resterebbe in mano, al tutto, degli
Italiani) acciò che il papa, quando mancasse degli ostacoli
oltramontani, non potesse né fermare né godere la
potenza sua, feciono crescere in Roma due potentissime famiglie,
Colonnesi e Orsini, acciò che, con la potenza e
propinquità loro, tenessero il pontificato infermo. Onde che
papa Bonifazio, il quale cognosceva questo, si volse a volere
spegnere i Colonnesi, e oltre allo avergli scomunicati, bandì
loro la crociata contro. Il che, se bene offese alquanto loro, li
offese più la Chiesa; perché quella arme la quale per
carità della fede aveva virtuosamente adoperato, come si
volse, per propria ambizione, ai cristiani, cominciò a non
tagliare; e così il troppo desiderio di sfogare il loro
appetito faceva che i pontefici, a poco a poco, si disarmavano.
Privò, oltra di questo, duoi che di quella famiglia erano
cardinali, del cardinalato. E fuggendo Sarra, capo di quella casa,
davanti a lui, scognosciuto, fu preso da corsali catelani, e messo
al remo; ma cognosciuto di poi, a Marsilia, fu mandato al re Filippo
di Francia, il quale era stato da Bonifazio scomunicato e privo del
regno. E considerando Filippo come nella guerra aperta contro a'
pontefici, o e' si rimaneva perdente, o e' vi si correva assai
pericoli, si volse agl'inganni; e simulato di voler fare accordo con
il Papa, mandò Sarra in Italia secretamente. Il quale,
arrivato in Alagna, dove era il Papa, convocati di notte suoi amici,
lo prese; e benché, poco di poi, da il popolo d'Alagna fusse
liberato, nondimeno, per il dolore di quella ingiuria, rabbioso
morì.
26
Fu Bonifazio ordinatore del giubileo, nel 1300, e provide che ogni
cento anni si celebrasse. In questi tempi seguirono molti travagli
tra le parti guelfe e ghibelline; e per essere stata abbandonata
Italia dagli imperadori, molte terre diventorono libere, e molte
furono dai tiranni occupate. Restituì papa Benedetto a'
cardinali Colonnesi il cappello, e Filippo re di Francia
ribenedisse. A costui successe Clemente V, il quale, per essere
francioso, ridusse la corte in Francia, ne l'anno 1305. In quel
mezzo Carlo II re di Napoli morì; al quale successe Ruberto
suo figliuolo; e allo Imperio era pervenuto Arrigo di Luzimborgo, il
quale venne a Roma per coronarsi, non ostante che il Papa non vi
fusse. Per la cui venuta seguirono assai movimenti in Lombardia;
perché rimesse nelle terre tutti i fuori usciti, o guelfi o
ghibellini che fussero; di che ne seguì che, cacciando l'uno
l'altro, si riempié quella provincia di guerra; a che lo
Imperadore non potette, con ogni suo sforzo, obviare. Partito costui
di Lombardia, per la via di Genova se ne venne a Pisa, dove
s'ingegnò di tòrre la Toscana al re Ruberto; e non
faccendo alcun profitto, se ne andò a Roma; dove stette pochi
giorni, perché dagli Orsini, con il favore del re Ruberto, ne
fu cacciato; e ritornossi a Pisa; e per fare più securamente
guerra alla Toscana, e trarla dal governo del re Ruberto, lo fece
assaltare da Federigo re di Sicilia. Ma quando egli sperava, in un
tempo, occupare la Toscana e torre al re Ruberto lo stato, si
morì. Al quale successe nello Imperio Lodovico di Baviera. In
quel mezzo pervenne al papato Giovanni XXII; al tempo del quale lo
Imperadore non cessava di perseguitare i Guelfi e la Chiesa, la
quale in maggior parte da il re Ruberto e dai Fiorentini era difesa.
Donde nacquero assai guerre, fatte in Lombardia dai Visconti contro
ai Guelfi, e in Toscana da Castruccio da Lucca contro ai Fiorentini.
Ma perché la famiglia de' Visconti fu quella che dette
principio alla ducea di Milano, uno de' cinque principati che di poi
governorono la Italia, mi pare da replicare da più alto luogo
la loro condizione.
27
Poi che seguì, in Lombardia, la lega di quelle città
delle quali di sopra facemmo menzione, per difendersi da Federigo
Barbarossa, Milano, ristorato che fu dalla rovina sua, per
vendicarsi delle ingiurie ricevute, si congiunse con quella lega, la
quale raffrenò il Barbarossa e tenne vive in Lombardia, un
tempo, le parti della Chiesa; e ne' travagli di quelle guerre che
allora seguirono, diventò in quella città potentissima
la famiglia di quelli della Torre; della quale sempre crebbe la
reputazione, mentre che gli imperadori ebbono in quella provincia
poca autorità. Ma venendo Federigo II in Italia, e diventata
la parte ghibellina, per la opera di Ecelino, potente, nacquono in
ogni città umori ghibellini; donde che, in Milano, di quelli
che tenevano la parte ghibellina fu la famiglia de' Visconti, la
quale cacciò quelli della Torre di Milano. Ma poco stettano
fuora, ché, per accordi fatti intra lo Imperadore e il Papa,
furono restituiti nella patria loro. Ma sendone andato il Papa con
la corte in Francia, e venendo Arrigo di Luzimborgo in Italia per
andare per la corona a Roma, fu ricevuto, in Milano, da Maffeo
Visconti e Guido della Torre, i quali allora erano i capi di quelle
famiglie. Ma disegnando Maffeo servirsi dello Imperadore per
cacciare Guido, giudicando la impresa facile per essere quello di
contraria fazione allo Imperio, prese occasione dai rammarichii che
il popolo faceva per i sinistri portamenti de' Tedeschi; e
cautamente andava dando animo a ciascuno, e gli persuadeva a
pigliare l'armi e levarsi da dosso la servitù di quegli
barbari. E quando gli parve avere disposta la materia a suo
proposito, fece, per alcuno suo fidato, nascere uno tumulto, sopra
il quale tutto il popolo prese l'armi contro al nome tedesco.
Né prima fu mosso lo scandolo che Maffeo con gli suoi
figliuoli e tutti li suoi partigiani si trovorono in arme; e corsono
ad Arrigo, significandogli come questo tumulto nasceva da quelli
della Torre, i quali, non contenti di stare in Milano privatamente,
avevono presa occasione di volerlo spogliare, per gratificarsi i
Guelfi di Italia e diventare principi di quella città ma che
stesse di buono animo, ché loro, con la loro parte quando si
volesse difendere, erano per salvarlo in ogni modo. Credette Arrigo
essere vere tutte le cose dette da Maffeo, e ristrinse le sue forze
con quelle de' Visconti, e assalì quelli della Torre, i quali
erano corsi in più parti della città per fermare i
tumulti; e quegli che poterono avere ammazzorono, e gli altri,
spogliati delle loro sustanze, mandorono in esilio. Restato adunque
Maffeo Visconti come principe in Milano, rimasono, dopo lui,
Galeazzo e Azzo; e dopo costoro, Luchino e Giovanni. Diventò
Giovanni arcivescovo in quella città; e di Luchino, il quale
morì avanti a lui, rimasero Bernabò e Galeazzo; ma
morendo ancora, poco di poi, Galeazzo, rimase di lui Giovan
Galeazzo, detto Conte di Virtù. Costui, dopo la morte dello
Arcivescovo, con inganno ammazzò Bernabò suo zio e
restò solo principe di Milano; il quale fu il primo che
avesse il titulo di duca. Di costui rimase Filippo e
Giovanmariagnolo; il quale sendo morto da il popolo di Milano,
rimase lo stato a Filippo, del quale non rimase figliuoli maschi;
donde che quello stato si transferì dalla casa de' Visconti a
quella degli Sforzeschi, nel modo e per le ragioni che nel suo luogo
si narreranno.
28
Ma tornando donde io mi parti', Lodovico imperadore, per dare
riputazione alla parte sua e per pigliare la corona, venne in
Italia; e trovandosi in Milano, per avere cagione di trarre danari
da' Milanesi, mostrò di lasciargli liberi, e misse i Visconti
in prigione; di poi, per mezzo di Castruccio da Lucca, gli
liberò; e andato a Roma, per potere più facilmente
perturbare la Italia, fece Piero della Corvara antipapa; con la
reputazione del quale, e con la forza de' Visconti, disegnava tenere
inferme le parti contrarie di Toscana e di Lombardia. Ma Castruccio
morì; la quale morte fu cagione del principio della sua
rovina; perché Pisa e Lucca se gli ribellorono, e i Pisani
mandorono l'Antipapa prigione al Papa in Francia; in modo che lo
Imperadore, disperato delle cose di Italia, se ne tornò nella
Magna. Né fu prima partito costui, che Giovanni re di Buemia
venne in Italia, chiamato da' Ghibellini di Brescia, e si
insignorì di quella e di Bergamo. E perché questa
venuta fu di consentimento del Papa, ancora che fingesse il
contrario, il legato di Bologna lo favoriva, giudicando che questo
fusse buono rimedio, a provedere che lo Imperadore non tornasse in
Italia. Per il quale partito la Italia mutò condizione,
perché i Fiorentini e il re Ruberto, vedendo che il Legato
favoriva le imprese de' Ghibellini, diventorono nimici di tutti
quelli di chi il Legato e il re di Buemia era amico; e sanza avere
riguardo a parti guelfe e ghibelline, si unirono molti principi con
loro, intra i quali furono i Visconti, quegli della Scala, Filippo
Gonzaga mantovano, quegli da Carrara, quegli da Esti. Donde che il
Papa gli scomunicò tutti e il Re per timore di questa lega,
se ne andò, per ragunare più forze, a casa; e tornato
di poi in Italia con più gente, gli riuscì nondimeno
la impresa difficile; tanto che, sbigottito, con dispiacere del
Legato, se ne tornò in Buemia; e lasciò solo guardato
Reggio e Modona, e a Marsilio e Piero de' Rossi raccomandò
Parma, i quali erano in quella città potentissimi. Partito
costui, Bologna si accostò con la lega, e i collegati si
divisono infra loro le quattro città che restavano nella
parte della Chiesa; e convennono che Parma pervenisse a quelli della
Scala, Reggio a' Gonzaga, Modona a quelli da Esti, e Lucca ai
Fiorentini. Ma nelle imprese di queste terre seguirono molte guerre,
le quali furono poi, in buona parte, dai Viniziani composte. E'
parrà forse ad alcuno cosa non conveniente che, infra tanti
accidenti seguiti in Italia, noi abbiamo differito tanto a ragionare
de' Viniziani, sendo la loro una repubblica che, per ordine e per
potenza, debbe essere sopra ogni altro principato di Italia
celebrata; ma perché tale ammirazione manchi, intendendosene
la cagione, io mi farò indietro assai tempo, acciò che
ciascuno intenda quali fussero i principii suoi, e perché
differirono tanto tempo nelle cose di Italia a travagliarsi.
29
Campeggiando Attila re degli Unni Aquileia, gli abitatori di quella,
poi che si furono difesi molto tempo, disperati della salute loro,
come meglio poterono, con le loro cose mobili, sopra molti scogli, i
quali erano, nella punta del mare Adriatico disabitati, si
rifuggirono. I Padovani ancora, veggendosi il fuoco propinquo, e
temendo che, vinta Aquileia, Attila non venisse a trovargli, tutte
le loro cose mobili di più valore portorono dentro al
medesimo mare, in uno luogo detto Rivo alto; dove mandorono ancora
le donne, i fanciugli e i vecchi loro e la gioventù
riserborono in Padova, per difenderla. Oltre a di questi, quegli di
Monselice, con gli abitatori de' colli allo intorno, spinti da il
medesimo terrore, sopra scogli del medesimo mare ne andorono. Ma
presa Aquileia, e avendo Attila guasta Padova, Monselice, Vicenza e
Verona, quelli di Padova, e i più potenti, si rimasero ad
abitare le paludi che erano intorno a Rivo alto. Medesimamente tutti
i popoli allo intorno, di quella provincia che anticamente si chiama
Vinezia, cacciati dai medesimi accidenti, in quelle paludi si
ridussero. Così, constretti da necessità lasciorono
luoghi amenissimi e fertili, e in sterili, deformi, e privi di ogni
commodità abitorono. E per essere assai popoli in un tratto
ridotti insieme, in brevissimo tempo feciono quelli luoghi, non solo
abitabili, ma dilettevoli; e constituite infra loro leggi e ordini,
intra tante rovine di Italia, sicuri si godevano. E in breve tempo
crebbero in riputazione e forze; perché, oltre ai predetti
abitatori, vi rifuggirono molti delle città di Lombardia,
cacciati massime dalle crudeltà di Clefi re de' Longobardi;
il che non fu di poco augumento a quella città, tanto che a'
tempi di Pipino re di Francia quando, per i prieghi del Papa, venne
a cacciare i Longobardi di Italia, nelle convenzioni che seguirono
intra lui e lo Imperadore de' Greci fu che il duca di Benevento e i
Viniziani non ubbidissino né all'uno né all'altro, ma,
di mezzo, la loro libertà si godessero. Oltre a di questo,
come la necessità gli aveva condotti ad abitare dentro alle
acque, così gli forzava a pensare, non si valendo della
terra, di potervi onestamente vivere, e andando con i loro navigi
per tutto il mondo, la città loro di varie mercanzie
riempievano; delle quali avendo bisogno gli altri uomini, conveniva
che in quel luogo frequentemente concorressero. Né pensorono
per molti anni ad altro dominio che a quello che facesse il
travagliare delle mercanzie loro più facile; e però
acquistorono assai porti in Grecia e in Sorìa, e ne' passaggi
che i Franciosi feciono in Asia, perché si servirono assai
de' loro navigi, fu consegnato loro in premio l'isola di Candia. E
mentre vissono in questa forma, il nome loro in mare era terribile,
e dentro, in Italia venerando di modo che di tutte le controversie
che nascevano il più delle volte erano arbitri; come
intervenne nelle differenze nate intra i collegati per conto di
quelle terre che tra loro si avevano divise, che, rimessa la causa
ne' Viniziani, rimase a' Visconti Bergamo e Brescia. Ma avendo loro,
con il tempo, occupata Padova, Vicenza, e Trevigi, e di poi Verona,
Bergamo e Brescia, e nel Reame e in Romagna molte città,
cacciati dalla cupidità del dominare, vennono in tanta
opinione di potenza, che, non solamente a' principi italiani, ma ai
re oltramontani erano in terrore; onde, congiurati quelli contro a
di loro, in uno giorno fu tolto loro quello stato che si avevano in
molti anni con infinito spendio guadagnato; e benché ne
abbiano, in questi nostri ultimi tempi; riacquistato parte, non
avendo riacquistata né la reputazione né le forze, a
discrezione d'altri, come tutti gli altri principi italiani, vivono.
30
Era pervenuto al pontificato Benedetto XII, e parendogli avere
perduto in tutto la possessione di Italia, e temendo che Lodovico
imperadore non se ne facesse signore, deliberò di farsi amici
in quella tutti coloro che avevano usurpato le terre che solevono
allo imperadore ubbidire, acciò che avessero cagione di
temere dello Imperio e di ristrignersi seco alla difesa di Italia; e
fece uno decreto che tutti i tiranni di Lombardia possedessero le
terre che si avevano usurpate, con giusto titulo. Ma sendo in questa
concessione morto il Papa e rifatto Clemente VI, e vedendo lo
Imperadore con quanta liberalità il Pontefice aveva donate le
terre dello Imperio, per non essere ancora egli meno liberale delle
cose d'altri che si fussi stato il Papa, donò a tutti quegli
che nelle terre della Chiesa erano tiranni le terre loro,
acciò che con la autorità imperiale le possedessero.
Per la qual cosa Galeotto Malatesti e i frategli diventorono signori
di Rimino, di Pesero e di Fano, Antonio da Montefeltro della Marca e
di Urbino, Gentile da Varano di Camerino, Guido di Polenta di
Ravenna, Sinibaldo Ordelaffi di Furlì e Cesena, Giovanni
Manfredi di Faenza, Lodovico Alidosi di Imola; e oltre a questi in
molte altre terre molti altri, in modo che di tutte le terre della
Chiesa poche ne rimasono senza principe. La qual cosa infino ad
Alessandro VI tenne la Chiesa debole; il quale, ne' nostri tempi,
con la rovina de' discendenti di costoro, le rendé
l'autorità sua. Trovavasi lo Imperadore, quando fece questa
concessione, a Trento; e dava nome di volere passare in Italia;
donde seguirono guerre assai in Lombardia, per le quali i Visconti
si insignorirono di Parma. Nel qual tempo Ruberto re di Napoli
morì, e rimasono di lui solo due nipote, nate di Carlo suo
figliuolo, il quale più tempo innanzi era morto; e
lasciò che la maggiore, chiamata Giovanna, fusse erede del
Regno, e che la prendesse per marito Andrea, figliuolo del re di
Ungheria, suo nipote. Non stette Andrea con quella molto, che fu
fatto da lei morire, e si maritò ad uno altro suo cugino,
principe di Taranto, chiamato Lodovico. Ma Lodovico re di Ungheria e
fratello di Andrea, per vendicare la morte di quello, venne con
gente in Italia, e cacciò la reina Giovanna e il marito del
Regno.
31
In questo tempo seguì a Roma una cosa memorabile, che uno
Niccolò di Lorenzo, cancelliere in Campidoglio, cacciò
i senatori di Roma, e si fece, sotto titulo di tribuno, capo della
republica romana; e quella nella antica forma ridusse, con tanta
reputazione di iustizia e di virtù, che non solamente le
terre propinque, ma tutta Italia gli mandò ambasciadori; di
modo che le antiche provincie, vedendo come Roma era rinata,
sollevorono il capo, e alcune mosse da la paura, alcune dalla
speranza, l'onoravano. Ma Niccolò, non ostante tanta
reputazione, se medesimo ne' suoi primi principii abbandonò;
perché, invilito sotto tanto peso, sanza essere da alcuno
cacciato, celatamente si fuggì, e ne andò a trovare
Carlo re di Buemia, il quale, per ordine del Papa, in dispregio di
Lodovico di Baviera, era stato eletto imperadore. Costui, per
gratificarsi il Pontefice, gli mandò Niccolò prigione.
Seguì di poi, dopo alcuno tempo, che, ad imitazione di
costui, uno Francesco Baroncegli occupò a Roma il tribunato,
e ne cacciò i senatori: tanto che il Papa, per il più
pronto remedio a reprimerlo, trasse di prigione Niccolò, e lo
mandò a Roma, e rendégli l'ufficio del tribuno; tanto
che Niccolò riprese lo stato e fece morire Francesco. Ma
sendogli diventati nimici i Colonnesi, fu ancora esso, non dopo
molto tempo, morto, e restituito l'ufficio ai senatori.
32
In questo mezzo il Re di Ungheria, cacciata che gli ebbe la regina
Giovanna, se ne tornò nel suo regno; ma il Papa, che
desiderava piuttosto la Reina propinqua a Roma che quel re,
operò in modo che fu contento restituirle il Regno, pure che
Lodovico suo marito, contento del titulo di Taranto, non fusse
chiamato re. Era venuto l'anno 1350, sì che al Papa parve che
il giubileo, ordinato da papa Bonifazio VIII per ogni cento anni, si
potesse a cinquanta anni ridurre, e fattolo per decreto, i Romani,
per questo benifizio, furono contenti che mandassi a Roma quattro
cardinali a riformare lo stato della città, e fare secondo la
sua volontà i senatori. Il Papa ancora pronunziò
Lodovico di Taranto re di Napoli; donde che la reina Giovanna, per
questo benifizio, dette alla Chiesa Avignone, che era di suo
patrimonio. Era, in questi tempi, morto Luchino Visconti, donde solo
Giovanni arcivescovo di Milano era restato signore; il quale fece
molta guerra alla Toscana e a' suoi vicini, tanto che diventò
potentissimo. Dopo la morte del quale rimasono Bernabò e
Galeazzo suoi nipoti; ma poco di poi morì Galeazzo, e di lui
rimase Giovangaleazzo, il quale si divise con Bernabò quello
stato. Era in questi tempi, imperadore Carlo re di Buemia, e
pontefice Innocenzio VI, il quale mandò in Italia Egidio
cardinale di nazione spagnuolo, il quale con la sua virtù,
non solamente in Romagna e in Roma, ma per tutta Italia aveva
renduta la reputazione alla Chiesa: recuperò Bologna, che
dallo arcivescovo di Milano era stata occupata; constrinse i Romani
ad accettare uno senatore forestiero, il quale ciascuno anno vi
dovesse dal papa essere mandato; fece onorevoli accordi con i
Visconti; roppe e prese Giovanni Auguto inghilese, il quale con
quattromila Inghilesi in aiuto de' Ghibellini militava in Toscana.
Onde che succedendo al pontificato Urbano V, poi che gl'intese tante
vittorie, deliberò vicitare Italia e Roma, dove ancora venne
Carlo imperadore; e dopo pochi mesi Carlo si tornò nel regno,
e il Papa in Avignone. Dopo la morte di Urbano, fu creato Gregorio
XI; e perché gli era ancora morto il cardinale Egidio, la
Italia era tornata nelle sue antiche discordie, causate dai popoli
collegati contro ai Visconti, tanto che il Papa mandò prima
uno legato in Italia con seimilia Brettoni, di poi venne egli in
persona, e ridusse la corte a Roma nel 1376, dopo settantuno anno
che la era stata in Francia. Ma seguendo la morte di quello, fu
rifatto Urbano VI, e poco di poi, a Fondi, da dieci cardinali che
dicevano Urbano non essere bene eletto, fu creato Clemente VII. I
Genovesi, in questi tempi, i quali più anni erano vivuti
sotto il governo de' Visconti, si ribellorono; e intra loro e i
Viniziani, per Tenedo insula, nacquero guerre importantissime, per
le quali si divise tutta Italia; nella quale guerra furono prima
vedute le artiglierie, strumento nuovo trovato dai Tedeschi. E
benché i Genovesi fussero un tempo superiori, e che
più mesi tenessero assediata Vinegia, nondimeno, nel fine
della guerra, i Viniziani rimasono superiori, e per mezzo del
Pontefice feciono la pace, negli anni 1381.
33
Era nata, come abbiamo detto, scisma nella Chiesa; onde che la reina
Giovanna favoriva il papa scismatico; per la qual cosa Urbano fece
fare contro a di lei la impresa del Regno a Carlo di Durazzo,
disceso de' reali di Napoli; il quale, venuto, le tolse lo stato e
si insignorì del Regno; ed ella se ne fuggì in
Francia. Il re di Francia, per questo sdegnato, mandò
Lodovico d'Angiò in Italia per recuperare il Regno alla
Reina, e cacciare Urbano di Roma e insignorirne l'Antipapa. Ma
Lodovico, nel mezzo di questa impresa, morì, e le sue genti,
rotte, se ne tornorono in Francia. Il Papa, in questo mezzo, se ne
andò a Napoli, dove pose in carcere nove cardinali per avere
seguitata la parte di Francia e dello Antipapa. Di poi si
sdegnò con il Re, perché non volle fare uno suo nipote
principe di Capua; e fingendo non se ne curare, lo richiese gli
concedesse Nocera per sua abitazione; dove poi si fece forte, e si
preparava di privare il Re del Regno. Per la qual cosa il Re vi
andò a campo, e il Papa se ne fuggì a Genova, dove
fece morire quelli cardinali che aveva prigioni. Di quivi se ne
andò a Roma, e per farsi reputazione creò ventinove
cardinali. In questo tempo Carlo re di Napoli ne andò in
Ungheria, dove fu fatto re, e poco di poi fu morto; e a Napoli
lasciò la moglie con Ladislao e Giovanna suoi figliuoli. In
questo tempo ancora Giovangaleazzo Visconti aveva morto
Bernabò suo zio e preso tutto lo stato di Milano, e non gli
bastando essere diventato duca di tutta la Lombardia, voleva ancora
occupare la Toscana; ma quando e' credeva prenderne il dominio, e di
poi coronarsi re di Italia, morì. Ad Urbano VI era succeduto
Bonifazio IX. Morì ancora in Avignone l'antipapa Clemente
VII, e fu rifatto Benedetto XIII.
34
Erano in Italia, in questi tempi, soldati assai, inghilesi, tedeschi
e brettoni, condotti parte da quelli principi i quali in varii tempi
erano venuti in Italia, parte stati mandati dai pontefici quando
erano in Avignone. Con questi tutti i principi italiani feciono
più tempo le loro guerre, infino che surse Lodovico da Conio
romagnolo, il quale fece una compagnia di soldati italiani,
intitolata in San Giorgio; la virtù e la disciplina del quale
in poco tempo tolse la reputazione alle armi forestiere, e ridussela
negli Italiani, de' quali poi i principi di Italia, nelle guerre che
facevano insieme, si valevano. Il Papa, per discordia avuta con i
Romani, se ne andò a Scesi; dove stette tanto che venne il
giubileo del 1400; nel quale tempo i Romani acciò che
tornasse in Roma per utilità di quella città, furono
contenti accettare di nuovo uno senatore forestiero mandato da lui,
e gli lasciorono fortificare Castel Santo Agnolo, e con queste
condizioni ritornato, per fare più ricca la Chiesa,
ordinò che ciascuno, nelle vacanze de' beneficii, pagasse una
annata alla Camera. Dopo la morte di Giovan Galeazzo duca di Milano,
ancora che lasciasse duoi figliuoli, Giovanmariagnolo e Filippo,
quello stato si divise in molte parti; e ne' travagli che vi
seguirono, Giovanmaria fu morto e Filippo stette un tempo rinchiuso
nella rocca di Pavia, dove, per fede e virtù di quello
castellano si salvò. E intra gli altri che occuporono delle
città possedute dal padre loro, fu Guglielmo della Scala, il
quale, fuoruscito, si trovava nelle mani di Francesco da Carrara
signore di Padova; per il mezzo del quale riprese lo stato di
Verona, dove stette poco tempo, perché, per ordine di
Francesco, fu avvelenato, e toltogli la città. Per la qual
cosa i Vicentini, che sotto le insegne de' Visconti erano vivuti
sicuri, temendo della grandezza del signore di Padova, si dierono a'
Viniziani; mediante i quali i Viniziani presono la guerra contro a
di lui, e prima gli tolsono Verona, e di poi Padova.
35
In questo mezzo Bonifazio papa morì, e fu eletto Innocenzio
VII; al quale il popolo di Roma supplicò che dovesse
rendergli le fortezze e restituirgli la sua libertà; a che il
Papa non volle acconsentire; donde che il popolo chiamò in
suo aiuto Ladislao re di Napoli. Di poi, nato intra loro accordo, il
Papa se ne tornò a Roma, che per paura del popolo se ne era
fuggito a Viterbo dove aveva fatto Lodovico suo nipote conte della
Marca. Morì di poi, e fu creato Gregorio XII, con obligo che
dovesse renunziare al papato, qualunche volta ancora l'Antipapa
renunziasse. E per conforto de' cardinali, per fare pruova se la
Chiesa si poteva riunire, Benedetto antipapa venne a Porto Venere, e
Gregorio a Lucca, dove praticorono cose assai e non ne conclusono
alcuna, di modo che i cardinali dell'uno e dell'altro papa gli
abbandonorono, e dei papi, Benedetto se ne andò in Ispagna e
Gregorio a Rimini. I cardinali dall'altra parte, con il favore di
Baldassare Cossa cardinale e legato di Bologna, ordinorono uno
concilio a Pisa dove creorono Alessandro V, il quale, subito,
scomunicò il re Ladislao e investì di quel regno Luigi
d'Angiò; e insieme con i Fiorentini, Genovesi e Viniziani, e
con Baldassare Cossa legato, assaltorono Ladislao, e gli tolsono
Roma. Ma nello ardore di questa guerra morì Alessandro, e fu
creato papa Baldassare Cossa, che si fece chiamare Giovanni XXIII.
Costui partì da Bologna, dove fu creato, e ne andò a
Roma, dove trovò Luigi d'Angiò, che era venuto con la
armata di Provenza; e venuti alla zuffa con Ladislao, lo ruppono. Ma
per difetto de' condottieri non poterono seguire la vittoria; in
modo che il Re, dopo poco tempo, riprese le forze, e riprese Roma; e
il Papa se ne fuggì a Bologna, e Luigi in Provenza. E
pensando il Papa in che modo potesse diminuire la potenza di
Ladislao, operò che Sigismondo re di Ungheria fusse eletto
imperadore e lo confortò a venire in Italia, e con quello si
abboccò a Mantova; e convennono di fare uno concilio
generale, nel quale si riunisse la Chiesa; la quale, unita,
facilmente potrebbe opporsi alle forze de' suoi nemici.
36
Erano, in quel tempo, tre papi, Gregorio, Benedetto e Giovanni; i
quali tenevano la Chiesa debile e sanza reputazione. Fu eletto il
luogo del concilio Gostanza, città della Magna, fuora della
intenzione di papa Giovanni; e benché fusse, per la morte del
re Ladislao, spenta la cagione che fece al Papa muovere la pratica
del concilio, nondimeno, per essersi obligato, non potette rifiutare
lo andarvi; e condotto a Gostanza, dopo non molti mesi, cognoscendo
tardi lo errore suo, tentò di fuggirsi; per la qual cosa fu
messo in carcere, e constretto rifiutare il papato. Gregorio, uno
degli antipapi ancora, per uno suo mandato, rinunziò; e
Benedetto, l'altro antipapa, non volendo rinunziare, fu condennato
per eretico. Alla fine, abbandonato dai suoi cardinali, fu
constretto ancora egli a rinunziare; e il Concilio creò
pontefice Otto, di casa Colonna, chiamato di poi papa Martino V. E
così la Chiesa si unì, dopo quaranta anni che l'era
stata in più pontefici divisa.
37
Trovavasi, in questi tempi, come abbiamo detto, Filippo Visconti
nella rocca di Pavia; ma venendo a morte Fazino Cane, il quale ne'
travagli di Lombardia si era insignorito di Vercelli, Alessandria,
Novara e Tortona, e aveva ragunate assai ricchezze, non avendo
figliuoli, lasciò erede degli stati suoi Beatrice sua moglie,
e ordinò con i suoi amici operassero in modo che la si
maritasse a Filippo. Per il quale matrimonio diventato Filippo
potente, riacquistò Milano e tutto lo stato di Lombardia. Di
poi, per essere grato de' benefizi grandi, come sono quasi sempre
tutti i principi, accusò Beatrice sua moglie di stupro, e la
fece morire. Diventato pertanto potentissimo, cominciò a
pensare alle guerre di Toscana, per seguire i disegni di Giovan
Galeazzo suo padre.
38
Aveva Ladislao re di Napoli, morendo, lasciato a Giovanna sua
sirocchia, oltre al Regno, uno grande esercito, capitanato dai
principali condottieri di Italia, intra i primi de' quali era Sforza
da Cotignuola reputato, secondo quelle armi, valoroso. La Reina, per
fuggire qualche infamia di tenersi uno Pandolfello, il quale aveva
allevato, tolse per marito Iacopo della Marcia, francioso, di stirpe
regale, con queste condizioni, che fussi contento di essere chiamato
principe di Taranto, e lasciasse a lei il titolo e il governo del
Regno. Ma i soldati, subito che gli arrivò in Napoli, lo
chiamorono re; in modo che intra il marito e la moglie nacquono
discordie grandi, e più volte superorono l'uno l'altro; pure,
in ultimo, rimase la Reina in istato; la quale diventò poi
nimica del Pontefice, onde che Sforza, per condurla in
necessità, e che l'avesse a gittarsegli in grembo,
rinunziò, fuora di sua opinione, al suo soldo. Per la qual
cosa quella si trovò in un tratto disarmata; e non avendo
altri rimedi, ricorse per gli aiuti ad Alfonso re di Ragona e di
Sicilia, e lo adottò in figliuolo, e soldò Braccio da
Montone, il quale era quanto Sforza nelle armi reputato, e inimico
del Papa per avergli occupata Perugia e alcune altre terre della
Chiesa. Seguì di poi la pace intra lei e il Papa, ma il re
Alfonso, perché dubitava che ella non trattasse lui come il
marito, cercava cautamente insignorirsi delle fortezze; ma quella,
che era astuta, lo prevenne, e si fece forte nella rocca di Napoli.
Crescendo adunque intra l'una e l'altro i sospetti, vennono alle
armi; e la Reina, con lo aiuto di Sforza, il quale ritornò a'
suoi soldi, superò Alfonso, e cacciollo di Napoli, e lo
privò della adozione, e adottò Lodovico
d'Angiò: donde nacque di nuovo guerra intra Braccio, che
aveva seguitate le parti di Alfonso, e Sforza, che favoriva la
Reina. Nel trattare della qual guerra, passando Sforza il fiume di
Pescara, affogò; in modo che la Reina di nuovo rimase
disarmata; e sarebbe stata cacciata del Regno, se da Filippo
Visconti duca di Milano non fusse stata aiutata; il quale constrinse
Alfonso a tornarsene in Aragona. Ma Braccio, non sbigottito per
essersi abbandonato Alfonso, seguitò di fare la impresa
contro alla Reina; e avendo assediata l'Aquila, il Papa, non
giudicando a proposito della Chiesa la grandezza di Braccio, prese
a' suoi soldi Francesco figliuolo di Sforza; il quale andò a
trovare Braccio a l'Aquila, dove lo ammazzò e ruppe. Rimase,
della parte di Braccio, Oddo suo figliuolo; al quale fu tolta da il
Papa Perugia, e lasciato nello stato di Montone. Ma fu, poco di poi,
morto, combattendo in Romagna per i Fiorentini; tale che, di quelli
che militavono con Braccio, Niccolò Piccino rimase di
più riputazione.
39
Ma perché noi siamo venuti, colla narrazione nostra,
propinqui a quelli tempi che io disegnai; perché quanto ne
è rimaso a trattare non importa, in maggiore parte, altro che
le guerre che ebbono i Fiorentini e i Viniziani con Filippo duca di
Milano, le quali si narreranno dove particularmente di Firenze
tratteremo; io non voglio procedere più avanti: solo
ridurrò brevemente a memoria in quali termini la Italia, e
con i principi e con le armi, in quelli tempi dove noi scrivendo
siamo arrivati, si trovava. Degli stati principali, la reina
Giovanna II teneva il regno di Napoli; la Marca, il Patrimonio e
Romagna, parte delle loro terre ubbidivano alla Chiesa, parte erano
dai loro vicari o tiranni occupate: come Ferrara, Modona e Reggio da
quelli da Esti; Faenza da e Manfredi; Imola dagli Alidosi;
Furlì dagli Ordelaffi; Rimino e Pesero dai Malatesti, e
Camerino da quelli da Varano. Della Lombardia parte ubbidiva al duca
Filippo, parte a' Viniziani; perché tutti quelli che tenevano
stati particulari in quella erano stati spenti, eccetto che la casa
di Gonzaga, la quale signoreggiava in Mantova. Della Toscana erano
la maggiore parte signori i Fiorentini: Lucca solo e Siena con le
loro leggi vivevano; Lucca sotto i Guinigi, Siena era libera. I
Genovesi, sendo ora liberi ora servi o de' Reali di Francia o de'
Visconti, inonorati vivevano, e intra gli minori potentati si
connumeravono. Tutti questi principali potentati erano di proprie
armi disarmati: il duca Filippo, stando rinchiuso per le camere e
non si lasciando vedere, per i suoi commissari le sue guerre
governava; i Viniziani, come ei si volsono alla terra, si trassono
di dosso quelle armi che in mare gli avevano fatti gloriosi, e
seguitando il costume degli altri Italiani, sotto l'altrui governo
amministravano gli eserciti loro; il Papa per non gli stare bene le
armi in dosso sendo religioso, e la reina Giovanna di Napoli per
essere femina, facevono per necessità quello che gli altri
per mala elezione fatto avevano; i Fiorentini ancora alle medesime
necessità ubbidivano, perché, avendo per le spesse
divisioni spenta la nobilità, e restando quella republica
nelle mani d'uomini nutricati nella mercanzia, seguitavano gli
ordini e la fortuna degli altri. Erano adunque le armi di Italia in
mano o de' minori principi o di uomini senza stato; perché i
minori principi, non mossi da alcuna gloria, ma per vivere o
più ricchi o più sicuri, se le vestivano; quegli
altri, per essere nutricati in quelle da piccoli, non sapendo fare
altra arte, cercavono in esse, con avere o con potenza, onorarsi.
Intra questi erano allora i più nominati: il Carmignuola,
Francesco Sforza, Niccolò Piccino allievo di Braccio, Agnolo
della Pergola, Lorenzo e Micheletto Attenduli, il Tartaglia,
Iacopaccio, Ceccolino da Perugia, Niccolò da Tolentino, Guido
Torello, Antonio dal Ponte ad Era e molti altri simili. Con questi
erano quelli signori de' quali ho di sopra parlato; ai quali si
aggiugnevano i baroni di Roma, Orsini e Colonnesi, con altri signori
e gentili uomini del Regno e di Lombardia; i quali, stando in su la
guerra, avevano fatto come una lega e intelligenza insieme, e
riduttala in arte; con la quale in modo si temporeggiavono, che il
più delle volte, di quelli che facevano guerra, l'una parte e
l'altra perdeva; e in fine la ridussono in tanta viltà che
ogni mediocre capitano, nel quale fusse alcuna ombra della antica
virtù rinata, gli arebbe, con ammirazione di tutta Italia, la
quale per sua poca prudenza gli onorava, vituperati. Di questi,
adunque, oziosi principi e di queste vilissime armi sarà
piena la mia istoria. Alla quale prima che io discenda, mi è
necessario, secondo che nel principio promissi, tornare a raccontare
della origine di Firenze, e fare a ciascuno largamente intendere
quale era lo stato di quella città in questi tempi, e per
quali mezzi, intra tanti travagli che per mille anni erano in Italia
accaduti, vi era pervenuta.
LIBRO SECONDO
1
Intra gli altri grandi e maravigliosi ordini delle republiche e
principati antichi che in questi nostri tempi sono spenti era quello
mediante il quale, di nuovo e d'ogni tempo, assai terre e
città si edificavano; perché niuna cosa è tanto
degna di uno ottimo principe e di una bene ordinata republica,
né più utile ad una provincia, che lo edificare di
nuovo terre dove gli uomini si possino, per commodità della
difesa o della cultura, ridurre; il che quelli potevono facilmente
fare, avendo in uso di mandare ne' paesi o vinti o voti nuovi
abitatori, i quali chiamavono colonie. Perché, oltre allo
essere cagione questo ordine che nuove terre si edificassero,
rendeva il paese vinto al vincitore più securo, e riempieva
di abitatori i luoghi voti, e nelle provincie gli uomini bene
distribuiti manteneva. Di che ne nasceva che, abitandosi in una
provincia più commodamente, gli uomini più vi
multiplicavano, ed erano nelle offese più pronti e nelle
difese più sicuri. La quale consuetudine sendosi oggi per il
malo uso delle republiche e de' principi spenta, ne nasce la rovina
e la debolezza delle provincie; perché questo ordine solo
è quello che fa gli imperii più securi, e i paesi,
come è detto, mantiene copiosamente abitati: la
securtà nasce perché quella colonia la quale è
posta da un principe in uno paese nuovamente occupato da lui
è come una rocca e una guardia a tenere gli altri in fede;
non si può, oltra di questo, una provincia mantenere abitata
tutta, né perservare in quella gli abitatori bene
distribuiti, senza questo ordine. Perché tutti i luoghi in
essa non sono o generativi o sani; onde nasce che in questi
abbondono gli uomini, negli altri mancano; e se non vi è modo
a trargli donde gli abbondono, e porgli dove e' mancano, quella
provincia in poco tempo si guasta; perché una parte di quella
diventa, per i pochi abitatori, diserta, un'altra, per i troppi,
povera. E perché la natura non può a questo disordine
supplire, è necessario supplisca la industria: perché
i paesi male sani diventano sani per una moltitudine di uomini che
ad un tratto gli occupi; i quali con la cultura sanifichino la terra
e con i fuochi purghino l'aria, a che la natura non potrebbe mai
provedere. Il che dimostra la città di Vinegia, posta in
luogo paludoso e infermo: nondimeno i molti abitatori che ad un
tratto vi concorsono lo renderono sano. Pisa ancora, per la
malignità dell'aria, non fu mai di abitatori ripiena, se non
quando Genova e le sue riviere furono dai Saraceni disfatte; il che
fece che quelli uomini, cacciati da' terreni patrii, ad un tratto in
tanto numero vi concorsono, che feciono quella popolata e potente.
Sendo mancato per tanto quello ordine del mandare le colonie, i
paesi vinti si tengono con maggiore difficultà, e i paesi
voti mai non si riempiano, e quelli troppo pieni non si
alleggeriscono. Donde molte parti nel mondo, e massime in Italia,
sono diventate, rispetto agli antichi tempi, diserte: e tutto
è seguito e segue per non essere ne' principi alcuno appetito
di vera gloria, e nelle republiche alcuno ordine che meriti di
essere lodato. Nelli antichi tempi, addunque, per virtù di
queste colonie, o e' nascevano spesso città di nuovo, o le
già cominciate crescevano; delle quali fu la città di
Firenze, la quale ebbe da Fiesole il principio e da le colonie lo
augumento.
2
Egli è cosa verissima secondo che Dante e Giovanni Villani
dimostrano che la città di Fiesole, sendo posta sopra la
sommità del monte, per fare che i mercati suoi fussero
più frequentati e dare più commodità a quegli
che vi volessero con le loro mercanzie venire, aveva ordinato il
luogo di quelli, non sopra il poggio, ma nel piano, intra le radice
del monte e del fiume d'Arno. Questi mercati giudico io che fussero
cagione delle prime edificazioni che in quelli luoghi si facessero,
mossi i mercatanti da il volere avere ricetti commodi a ridurvi le
mercanzie loro i quali con il tempo ferme edificazioni diventorono;
e di poi, quando i Romani avendo vinti i Cartaginesi, renderono
dalle guerre forestiere la Italia secura, in gran numero
multiplicorono. Perché gli uomini non si mantengono mai nelle
difficultà, se da una necessità non vi sono mantenuti;
tale che, dove la paura delle guerre costrigne quelli ad abitare
volentieri ne' luoghi forti e aspri, cessata quella, chiamati dalla
commodità, più volentieri ne' luoghi domestici e
facili abitano. La securtà adunque, la quale per la
reputazione della romana republica nacque in Italia, potette fare
crescere le abitazioni già nel modo detto incominciate, in
tanto numero che in forma d'una terra si ridussero, la quale Villa
Arnina fu da principio nominata. Sursono di poi in Roma le guerre
civili, prima intra Mario e Silla, di poi intra Cesare e Pompeo, e
apresso intra gli ammazzatori di Cesare e quelli che volevano la sua
morte vendicare. Da Silla adunque in prima e di poi da quelli tre
cittadini romani i quali dopo la vendetta fatta di Cesare si
divisono l'imperio, furono mandate a Fiesole colonie; delle quali o
tutte o parte posono le abitazioni loro nel piano, presso alla
già cominciata terra; tale che, per questo augumento, si
ridusse quello luogo tanto pieno di edifici e di uomini e di ogni
altro ordine civile che si poteva numerare intra le città di
Italia. Ma donde si derivasse il nome di Florenzia, ci sono varie
opinioni: alcuni vogliono si chiamasse da Florino, uno de' capi
della colonia; alcuni non Florenzia, ma Fluenzia vogliono che la
fusse nel principio detta, per essere posta propinqua al fluente
d'Arno; e ne adducono testimone Plinio, che dice: - i Fluentini sono
propinqui ad Arno fluente -. La qual cosa potrebbe essere falsa,
perché Plinio nel testo suo dimostra dove i Fiorentini erano
posti, non come si chiamavano; e quello vocabolo “Fluentini”
conviene che sia corrotto, perché Frontino e Cornelio Tacito,
che scrissono quasi che ne' tempi di Plinio, gli chiamono Florenzia
e Florentini; perché di già ne' tempi di Tiberio
secondo il costume delle altre città di Italia si
governavano, e Cornelio referisce essere venuti oratori Florentini
allo Imperadore, a pregare che l'acque delle Chiane non fussero
sopra il paese loro sboccate; né è ragionevole che
quella città, in un medesimo tempo, avesse duoi nomi. Credo
per tanto che sempre fusse chiamata Florenzia, per qualunque cagione
così si nominasse; e così, da qualunque cagione si
avesse la origine, la nacque sotto lo Imperio romano, e ne' tempi
de' primi imperadori cominciò dagli scrittori ad essere
ricordata. E quando quello Imperio fu da' barbari afflitto fu ancora
Florenzia da Totila re degli Ostrogoti disfatta, e dopo 250 anni, di
poi, da Carlo Magno riedificata. Dal qual tempo infino agli anni di
Cristo 1215 visse sotto quella fortuna che vivevano quelli che
comandavano ad Italia. Ne' quali tempi prima signoreggiorono in
quella i discesi di Carlo, di poi i Berengari, e in ultimo gli
imperadori tedeschi, come nel nostro trattato universale
dimostrammo. Né poterono in questi tempi i Florentini
crescere, né operare alcuna cosa degna di memoria, per la
potenza di quelli allo imperio de' quali ubbidivano, nondimeno, nel
1010, il dì di santo Romolo giorno solenne a' Fiesolani,
presono e disfeciono Fiesole; il che feciono, o con il consenso
degli imperadori, o in quel tempo che dalla morte dell'uno alla
creazione dell'altro ciascuno più libero rimaneva. Ma poi che
i pontefici presono più autorità in Italia, e gli
imperadori tedeschi indebolirono, tutte le terre di quella provincia
con minore reverenzia del principe si governarono; tanto che nel
1080, al tempo di Arrigo III, si ridusse la Italia intra quello e la
Chiesa in manifesta divisione; la quale non ostante, i Fiorentini si
mantennono infino al 1215 uniti, ubbidendo a' vincitori, né
cercando altro imperio che salvarsi. Ma come ne' corpi nostri quanto
più sono tarde le infirmità tanto più sono
pericolose e mortali, così Florenzia, quanto la fu più
tarda a seguitare le sette di Italia, tanto di poi fu più
afflitta da quelle. La cagione della prima divisione è
notissima, perché è da Dante e da molti altri
scrittori celebrata; pure mi pare brevemente da raccontarla.
3
Erano in Florenzia, intra le altre famiglie, potentissime
Buondelmonti e Uberti; apresso a queste erano gli Amidei e i Donati.
Era nella famiglia de' Donati una donna vedova e ricca, la quale
aveva una figliuola di bellissimo aspetto. Aveva costei infra
sé disegnato a messer Buondelmonte, cavaliere giovane e della
famiglia de' Buondelmonti capo, maritarla. Questo suo disegno, o per
negligenzia, o per credere potere essere sempre a tempo, non aveva
ancora scoperto a persona; quando il caso fece che a messer
Buondelmonte si maritò una fanciulla degli Amidei; di che
quella donna fu malissimo contenta. E sperando di potere, con la
bellezza della figliuola, prima che quelle nozze si celebrassero,
perturbarle, vedendo messer Buondelmonte, che solo veniva verso la
sua casa, scese da basso, e dietro si condusse la figliuola, e nel
passare quello, se gli fece incontra, dicendo: - Io mi rallegro
veramente assai dello avere voi preso moglie, ancora che io vi
avesse serbata questa mia figliuola, - e sospinta la porta, gliene
fece vedere. Il cavaliere, veduta la bellezza della fanciulla, la
quale era rara, e considerato il sangue e la dote non essere
inferiore a quella di colei ch'egli aveva tolta, si accese in tanto
ardore di averla, che, non pensando alla fede data, né alla
ingiuria che faceva a romperla, né ai mali che dalla rotta
fede gliene potevano incontrare, disse: - Poi che voi me la avete
serbata, io sarei uno ingrato, sendo ancora a tempo, a rifiutarla; -
e senza mettere tempo in mezzo celebrò le nozze. Questa cosa,
come fu intesa, riempié di sdegno la famiglia degli Amidei e
quella degli Uberti, i quali erano loro per parentado congiunti; e
convenuti insieme con molti altri loro parenti, conclusono che
questa ingiuria non si poteva sanza vergogna tollerare, né
con altra vendetta che con la morte di messer Buondelmonte
vendicare. E benché alcuni discorressero i mali che da quella
potessero seguire, il Mosca Lamberti disse che chi pensava assai
cose non ne concludeva mai alcuna, dicendo quella trita e nota
sentenza: “Cosa fatta capo ha”. Dettono pertanto il carico di questo
omicidio al Mosca, a Stiatta Uberti, a Lambertuccio Amidei e a
Oderigo Fifanti. Costoro, la mattina della Pasqua di Resurressione,
si rinchiusono nelle case degli Amidei, poste intra il Ponte Vecchio
e Santo Stefano; e passando messer Buondelmonte il fiume sopra uno
caval bianco, pensando che fusse così facil cosa sdimenticare
una ingiuria come rinunziare ad uno parentado, fu da loro a
piè del ponte, sotto una statua di Marte, assaltato e morto.
Questo omicidio divise tutta la città, e una parte si
accostò a' Buondelmonti, l'altra agli Uberti; e perché
queste famiglie erano forti di case e di torri e di uomini,
combatterono molti anni insieme sanza cacciare l'una l'altra; e le
inimicizie loro, ancora che le non finissero per pace, si
componevano per triegue; e per questa via, secondo i nuovi
accidenti, ora si quietavano e ora si accendevano.
4
E stette Florenzia in questi travagli infino al tempo di Federigo
II; il quale, per essere re di Napoli, potere contro alla Chiesa le
forze sue accrescere si persuase; e per ridurre più ferma la
potenza sua in Toscana, favorì gli Uberti e i loro seguaci; i
quali, con il suo favore, cacciorono i Buondelmonti, e così
la nostra città ancora, come tutta Italia più tempo
era divisa, in Guelfi e Ghibellini si divise. Né mi pare
superfluo fare memoria delle famiglie che l'una e l'altra setta
seguirono. Quelli adunque che seguirono le parti guelfe furono:
Buondelmonti, Nerli, Rossi, Frescobaldi, Mozzi, Bardi, Pulci,
Gherardini, Foraboschi, Bagnesi, Guidalotti, Sacchetti, Manieri,
Lucardesi, Chiaramontesi, Compiobbesi, Cavalcanti, Giandonati,
Gianfigliazzi, Scali, Gualterotti, Importuni, Bostichi, Tornaquinci,
Vecchietti, Tosinghi, Arrigucci, Agli, Sizi, Adimari, Visdomini,
Donati, Pazzi, Della Bella, Ardinghi, Tedaldi, Cerchi. Per la parte
ghibellina furono: Uberti, Mannegli, Ubriachi, Fifanti, Amidei,
Infangati, Malespini, Scolari, Guidi, Galli, Cappiardi, Lamberti,
Soldanieri, Cipriani, Toschi, Amieri, Palermini, Migliorelli, Pigli,
Barucci, Cattani, Agolanti, Brunelleschi, Caponsacchi, Elisei,
Abati, Tedaldini, Giuochi, Galigai. Oltra di questo all'una e
all'altra parte di queste famiglie nobili si aggiunsono molte delle
popolari; in modo che quasi tutta la città fu da questa
divisione corrotta. I Guelfi adunque, cacciati, per le terre del
Valdarno di sopra, dove avevano gran parte delle fortezze loro, si
ridussero; e in quel modo potevano migliore contro alle forze delli
nimici loro si difendevano. Ma venuto Federigo a morte, quegli che
in Florenzia erano uomini di mezzo e avieno più credito con
il popolo, pensorono che fusse più tosto da riunire la
città, che, mantenendola divisa, rovinarla. Operorono adunque
in modo che i Guelfi, deposte le ingiurie, tornorono, e i
Ghibellini, deposto il sospetto, gli riceverono; ed essendo uniti,
parve loro tempo da potere pigliare forma di vivere libero e ordine
da potere difendersi, prima che il nuovo imperadore acquistasse le
forze.
5
Divisono pertanto la città in sei parti, ed elessono dodici
cittadini, duoi per sesto, che la governassero; i quali si
chiamassero Anziani e ciascuno anno si variassero. E per levare via
le cagioni delle inimicizie che dai giudicii nascano, providdono a
duoi giudici forestieri, chiamato l'uno Capitano di popolo e l'altro
Podestà, che le cause così civili come criminali intra
i cittadini occorrenti giudicassero. E perché niuno ordine
è stabile senza provedergli il difensore, constituirono nella
città venti bandiere, e settantasei nel contado, sotto le
quali scrissono tutta la gioventù e ordinorono che ciascuno
fusse presto e armato sotto la sua bandiera, qualunque volta fusse o
dal Capitano o dagli Anziani chiamato; e variorono in quelle i
segni, secondo che variavano le armi, perché altra insegna
portavano i balestrieri e altra i palvesari; e ciascuno anno, il
giorno della Pentecoste, con grande pompa davano a nuovi uomini le
insegne, e nuovi capi a tutto questo ordine assegnavano. E per dare
maestà ai loro eserciti, e capo dove ciascuno, sendo nella
zuffa spinto, avesse a rifuggire, e rifuggito potesse di nuovo
contro al nimico far testa, uno carro grande, tirato da duoi buoi
coperti di rosso sopra il quale era una insegna bianca e rossa,
ordinorono. E quando e' volevono trarre fuora lo esercito, in
Mercato nuovo questo carro conducevono, e con solenne pompa ai capi
del popolo lo consegnavano. Avevano ancora, per magnificenza delle
loro imprese, una campana detta Martinella, la quale uno mese
continuamente, prima che traessero fuora della città gli
eserciti, sonava, acciò che il nimico avesse tempo alle
difese: tanta virtù era allora in quegli uomini, e con tanta
generosità di animo si governavano che dove oggi lo assaltare
il nimico improvisto si reputa generoso atto e prudente, allora
vituperoso e fallace si reputava. Questa campana ancora conducevono
ne' loro eserciti, mediante la quale le guardie e l'altre fazioni
della guerra comandavano.
6
Con questi ordini militari e civili fondorono i Fiorentini la loro
libertà. Né si potrebbe pensare quanto di
autorità e forze in poco tempo Firenze si acquistasse; e non
solamente capo di Toscana divenne, ma intra le prime città di
Italia era numerata; e sarebbe a qualunque grandezza salita, se le
spesse e nuove divisioni non la avessero afflitta. Vissono i
Fiorentini sotto questo governo dieci anni, nel qual tempo
sforzorono i Pistolesi, Aretini e Sanesi a fare lega con loro; e
tornando con il campo da Siena, presono Volterra, disfeciono ancora
alcune castella, e gli abitanti condussono in Firenze. Le quali
imprese tutte si feciono per il consiglio de' Guelfi, i quali molto
più che i Ghibellini potevano, sì per essere questi
odiati da il popolo per li loro superbi portamenti quando al tempo
di Federigo governorono, si per essere la parte della Chiesa
più che quella dello Imperadore amata; perché con lo
aiuto della Chiesa speravono perservare la loro libertà, e
sotto lo Imperadore temevano perderla. I Ghibellini per tanto
veggendosi mancare della loro autorità, non potevono
quietarsi, e solo aspettavano la occasione di ripigliare lo stato.
La quale parve loro fusse venuta, quando viddono che Manfredi
figliuolo di Federigo si era del regno di Napoli insignorito e aveva
assai sbattuta la potenza della Chiesa. Secretamente adunque
praticavano con quello di ripigliare la loro autorità;
né posserono in modo governarsi, che le pratiche tenute da
loro non fussero agli Anziani scoperte. Onde che quelli citorono gli
Uberti, i quali, non solamente non ubbidirono, ma prese le armi, si
fortificorono nelle case loro; di che il popolo sdegnato, si
armò, e con lo aiuto de' Guelfi gli sforzò ad
abbandonare Firenze e andarne con tutta la parte ghibellina a Siena.
Di quivi domandorono aiuto a Manfredi re di Napoli, e per industria
di messer Farinata degli Uberti furono i Guelfi dalle genti di quel
re, sopra il fiume della Arbia, con tanta strage rotti, che quegli i
quali di quella rotta camparono, non a Firenze, giudicando la loro
città perduta, ma a Lucca si rifuggirono.
7
Aveva Manfredi mandato a' Ghibellini, per capo delle sue genti, il
conte Giordano, uomo in quelli tempi nelle armi assai reputato.
Costui, dopo la vittoria, se ne andò con i Ghibellini a
Firenze, e quella città ridusse tutta alla ubbidienza di
Manfredi, annullando i magistrati e ogni altro ordine per il quale
apparisse alcuna forma della sua libertà. La quale ingiuria,
con poca prudenza fatta, fu dallo universale con grande odio
ricevuta; e di nimico ai Ghibellini diventò loro
inimicissimo; donde al tutto ne nacque, con il tempo, la rovina
loro. E avendo, per le necessità del Regno il conte Giordano
a tornare a Napoli, lasciò in Firenze per regale vicario il
conte Guido Novello, signore di Casentino. Fece costui uno concilio
di Ghibellini ad Empoli, dove per ciascuno si concluse che, a volere
mantenere potente la parte ghibellina in Toscana, era necessario
disfare Firenze, sola atta per avere il popolo guelfo, a fare
ripigliare le forze alle parti della Chiesa. A questa sì
crudel sentenzia, data contra ad una sì nobile città,
non fu cittadino né amico, eccetto che messer Farinata degli
Uberti, che si opponesse, il quale apertamente e senza alcuno
rispetto la difese, dicendo non avere con tanta fatica corsi tanti
pericoli, se non per potere nella sua patria abitare; e che non era
allora per non volere quello che già aveva cerco, né
per rifiutare quello che dalla fortuna gli era stato dato; anzi per
essere non minore nimico di coloro che disegnassero altrimenti, che
si fusse stato ai Guelfi; e se di loro alcuno temeva della sua
patria, la rovinasse, perché sperava, con quella virtù
che ne aveva cacciati i Guelfi, difenderla. Era messer Farinata uomo
di grande animo, eccellente nella guerra, capo de' Ghibellini, e
apresso a Manfredi assai stimato: la cui autorità pose fine a
quello ragionamento; e pensorono altri modi a volersi lo stato
perservare.
8
I Guelfi, i quali si erano fuggiti a Lucca, licenziati dai Lucchesi
per le minacce del Conte, se ne andorono a Bologna. Di quivi furono
dai Guelfi di Parma chiamati contro ai Ghibellini; dove, per la loro
virtù superati gli avversarii, furno loro date tutte le loro
possessioni; tanto che, cresciuti in ricchezze e in onore, sapiendo
che papa Clemente aveva chiamato Carlo d'Angiò per torre il
Regno a Manfredi, mandorono al Pontefice oratori ad offerirgli le
loro forze. Di modo che il Papa, non solamente gli ricevé per
amici, ma dette loro la sua insegna; la quale sempre di poi fu
portata da' Guelfi in guerra, ed è quella che ancora in
Firenze si usa. Fu di poi Manfredi da Carlo spogliato del Regno, e
morto; dove sendo intervenuti i Guelfi di Firenze, ne diventò
la parte loro più gagliarda, e quella de' Ghibellini
più debole, donde che quelli che insieme col conte Guido
Novello governavono Firenze giudicorono che fussi bene guadagnarsi
con qualche benefizio quel popolo che prima avevano con ogni
ingiuria aggravato; e quelli rimedi che, avendogli fatti prima che
la necessità venisse, sarebbono giovati, facendogli di poi,
sanza grado, non solamente non giovorono, ma affrettorono la rovina
loro. Giudicorono per tanto farsi amico il popolo e loro partigiano,
se gli rendevono parte di quelli onori e di quella autorità
gli avevono tolta; ed elessono trentasei cittadini popolani, i
quali, insieme con duoi cavalieri fatti venire da Bologna,
riformassero lo stato della città. Costoro, come prima
convennono, distinsono tutta la città in Arti, e sopra
ciascuna Arte ordinorono uno magistrato il quale rendesse ragione a'
sottoposti a quelle; consegnorono, oltre di questo, a ciascuna una
bandiera, acciò che sotto quella ogni uomo convenisse armato,
quando la città ne avesse di bisogno. Furono nel principio
queste Arti dodici, sette maggiori e cinque minori; di poi crebbono
le minori infino in quattordici, tanto che tutte furono, come al
presente sono, ventuna; praticando ancora i trentasei riformatori
delle altre cose a benefizio comune.
9
Il conte Guido, per nutrire i soldati, ordinò di porre una
taglia a' cittadini; dove trovò tanta difficultà che
non ardì di fare forza di ottenerla; e parendogli avere
perduto lo stato, si ristrinse con i capi de' Ghibellini; e
deliberorono torre per forza al popolo quello che per poca prudenza
gli avevono conceduto. E quando parve loro essere ad ordine con le
armi, sendo insieme i trentasei, feciono levare il romore; onde che
quelli, spaventati, si ritirorono alle loro case, e subito le
bandiere delle Arti furono fuora con assai armati dietro; e
intendendo come il conte Guido con la sua parte era a San Giovanni,
feciono testa a Santa Trinita, e dierono la ubbidienza a messer
Giovanni Soldanieri. Il Conte dall'altra parte, sentendo dove il
popolo era, si mosse per ire a trovarlo; né il popolo ancora
fuggì la zuffa; e fattosi incontro al nimico, dove è
oggi la loggia de' Tornaquinci si riscontrorono. Dove fu ributtato
il Conte, con perdita e morte di più suoi, donde che,
sbigottito temeva che la notte i nimici lo assalissero, e trovandosi
i suoi battuti e inviliti, lo ammazzassero. E tanta fu in lui
potente questa immaginazione, che, senza pensare ad altro rimedio,
deliberò, più tosto fuggendo che combattendo,
salvarsi; e contro al consiglio de' Rettori e della Parte, con tutte
le genti sue ne andò a Prato. Ma come prima per trovarsi in
luogo sicuro, gli fuggì la paura, ricognobbe lo errore suo; e
volendolo correggere, la mattina, venuto il giorno, tornò con
le sue genti a Firenze, per rientrare in quella città per
forza, che egli aveva per viltà abbandonata; ma non gli
successe il disegno, perché quel popolo che con
difficultà lo arebbe potuto cacciare, facilmente lo potette
tenere fuora; tanto che, dolente e svergognato, se ne andò in
Casentino; e i Ghibellini si ritirorono alle loro ville. Restato
adunque il popolo vincitore, per conforto di coloro che amavano il
bene della republica, si deliberò di riunire la città
e richiamare tutti i cittadini, così ghibellini come guelfi,
i quali si trovassero fuora. Tornorono adunque i Guelfi, sei anni
dopo che gli erano stati cacciati, e a' Ghibellini ancora fu
perdonata la fresca ingiuria, e riposti nella patria loro. Non di
meno da il popolo e dai Guelfi erano forte odiati, perché
questi non potevono cancellare della memoria lo esilio, e quello si
ricordava troppo della tirannide loro mentre che visse sotto il
governo di quelli; il che faceva che né l'una né
l'altra parte posava l'animo. Mentre che in questa forma in Firenze
si viveva, si sparse fama che Curradino nipote di Manfredi, con
gente, veniva della Magna allo acquisto di Napoli; donde che i
Ghibellini si riempierono di speranza di potere ripigliare la loro
autorità, e i Guelfi pensavano come si avessero ad assicurare
delli loro nimici e chiesono al re Carlo aiuti per potere, passando
Curradino, difendersi. Venendo per tanto le genti di Carlo, feciono
diventare i Guelfi insolenti, e in modo sbigottirono i Ghibellini,
che duoi giorni avanti allo arrivare loro, senza essere cacciati, si
fuggirono.
10
Partiti i Ghibellini, riordinorono i Fiorentini lo stato della
città; ed elessono dodici capi, i quali sedessero in
magistrato duoi mesi, i quali non chiamorono Anziani, ma Buoni
uomini; apresso a questi uno consiglio di ottanta cittadini, il
quale chiamavano la Credenza; dopo questo erano cento ottanta
popolani, trenta per sesto, i quali, con la Credenza e dodici Buoni
uomini, si chiamavano il Consiglio generale. Ordinorono ancora un
altro consiglio di cento venti cittadini, popolani e nobili, per il
quale si dava perfezione a tutte le cose negli altri consigli
deliberate; e con quello distribuivono gli uffici della repubblica.
Fermato questo governo, fortificorono ancora la parte guelfa con
magistrati e altri ordini, acciò che con maggiori forze si
potessero dai Ghibellini difendere, i beni de' quali in tre parti
divisono, delle quali l'una publicorono, l'altra al magistrato della
Parte, chiamato i Capitani, la terza a' Guelfi, per ricompenso de'
danni ricevuti, assegnorono. Il Papa ancora, per mantenere la
Toscana guelfa, fece il re Carlo vicario imperiale di Toscana.
Mantenendo adunque i Fiorentini, per virtù di questo nuovo
governo, dentro con le leggi e fuora con le armi, la reputazione
loro, morì il Pontefice; e dopo una lunga disputa, passati
duoi anni, fu eletto papa Gregorio X. Il quale, per essere stato
lungo tempo in Sorìa, ed esservi ancora nel tempo della sua
elezione, e discosto da gli umori delle parti, non stimava quelle
nel modo che dagli suoi antecessori erano state stimate. E per
ciò, sendo venuto in Firenze per andare in Francia,
stimò che fusse ufficio di uno ottimo pastore riunire la
città; e operò tanto che i Fiorentini furono contenti
ricevere i sindachi de' Ghibellini in Firenze per praticare il modo
del ritorno loro; e benché lo accordo si concludesse, furono
in modo i Ghibellini spaventati, che non vollono tornare. Di che il
Papa dette la colpa alla città, e, sdegnato, scomunicò
quella; nella quale contumacia stette quanto visse il Pontefice; ma
dopo la sua morte fu da papa Innocenzio V ribenedetta. Era venuto il
pontificato in Niccolò III, nato di casa Orsina; e
perché i pontefici temevano sempre colui la cui potenzia era
diventata grande in Italia, ancora che la fussi con i favori della
Chiesa cresciuta, e perché ei cercavano di abbassarla, ne
nascevano gli spessi tumulti e le spesse variazioni che in quella
seguivono; perché la paura di uno potente faceva crescere uno
debile; e cresciuto ch'egli era, temere, e temuto, cercare di
abbassarlo: questo fece trarre il Regno di mano a Manfredi e
concederlo a Carlo; questo fece di poi avere paura di lui, e cercare
la rovina sua. Niccolao III per tanto, mosso da queste cagioni,
operò tanto che a Carlo, per mezzo dello Imperadore, fu tolto
il governo di Toscana, e in quella provincia mandò, sotto
nome dello Imperio, messer Latino suo legato.
11
Era Firenze allora in assai mala condizione, perché la
nobilità guelfa era diventata insolente e non temeva i
magistrati; in modo che ciascuno dì si facevano assai
omicidii e altre violenze, sanza essere puniti quegli che le
commettevano, sendo da questo e quell'altro nobile favoriti.
Pensorono per tanto i capi del popolo, per frenare questa
insolenzia, che fusse bene rimettere i fuori usciti; il che dette
occasione al Legato di riunire la città; e i Ghibellini
tornorono. E in luogo de' dodici governatori ne feciono quattordici,
d'ogni parte sette, che governassero uno anno e avessero ad essere
eletti dal papa. Stette Firenze in questo governo duoi anni, infino
che venne al pontificato papa Martino, di nazione franzese, il quale
restituì al re Carlo tutta quella autorità che da
Niccola gli era stata tolta; talché subito risuscitorono in
Toscana le parti, perché i Fiorentini presono l'armi contro
al governatore dello Imperadore, e per privare del governo i
Ghibellini e tenere i potenti in freno, ordinorono nuova forma di
reggimento. Era l'anno 1282, e i corpi delle Arti, poi che fu dato
loro i magistrati e le insegne, erano assai reputati; donde che
quelli per la loro autorità ordinorono che, in luogo de'
quattordici, si creassero tre cittadini, che si chiamassero Priori,
e stessero duoi mesi al governo della republica, e potessero essere
popolani e grandi, purché fussero mercatanti o facessero
arti. Ridussongli, dopo il primo magistrato, a sei, acciò che
di qualunque sesto ne fusse uno, il quale numero si mantenne insino
al 1342, che ridussono la città a quartieri e i Priori ad
otto; non ostante che in quel mezzo di tempo alcuna volta, per
qualche accidente, ne facessero dodici. Questo magistrato fu
cagione, come con il tempo si vide, della rovina ne' nobili,
perché ne furono da il popolo per varii accidenti esclusi, e
di poi sanza alcuno rispetto battuti; a che i nobili, nel principio,
acconsentirono per non essere uniti, perché, desiderando
troppo torre lo stato l'uno a l'altro, tutti lo perderono.
Consegnorono a questo magistrato uno palagio, dove continuamente
dimorasse, sendo prima consuetudine che i magistrati e i consigli
per le chiese convenissero; e quello ancora con sergenti e altri
ministri necessari onororono; e benché nel principio gli
chiamassero solamente Priori, nondimeno di poi, per maggiore
magnificenza, il nome de' Signori gli aggiunsero. Stierono i
Fiorentini dentro quieti alcun tempo; nel quale feciono la guerra
con gli Aretini, per avere quegli cacciati i Guelfi, e in Campaldino
felicemente gli vinsono. E crescendo la città di uomini e di
ricchezze, parve ancora di accrescerla di mura, e le allargorono il
suo cerchio in quel modo che al presente si vede, con ciò sia
che prima il suo diametro fusse solamente quello spazio che contiene
dal Ponte Vecchio infino a San Lorenzo.
12
Le guerre di fuora e la pace di dentro avevano come spente in
Firenze le parti ghibelline e guelfe; restavano solamente accesi
quelli umori i quali naturalmente sogliono essere in tutte le
città intra i potenti e il popolo; perché, volendo il
popolo vivere secondo le leggi, e i potenti comandare a quelle, non
è possibile cappino insieme. Questo umore, mentre che i
Ghibellini feciono loro paura, non si scoperse; ma come prima quelli
furono domi, dimostrò la potenza sua; e ciascuno giorno
qualche popolare era ingiuriato; e le leggi e i magistrati non
bastavano a vendicarlo, perché ogni nobile, con i parenti e
con gli amici, dalle forze de' Priori e del Capitano si difendeva. I
principi per tanto delle Arti, desiderosi di rimediare a questo
inconveniente, provviddono che qualunche Signoria, nel principio
dello uficio suo, dovesse creare uno Gonfaloniere di giustizia, uomo
popolano, al quale dettono, scritti sotto venti bandiere, mille
uomini; il quale, con il suo gonfalone e con gli armati suoi, fusse
presto a favorire la giustizia, qualunque volta da loro o da il
Capitano fusse chiamato. Il primo eletto fu Ubaldo Ruffoli. Costui
trasse fuora il gonfalone, e disfece le case de' Galletti, per avere
uno di quella famiglia morto, in Francia, un popolano. Fu facile
alle Arti fare questo ordine, per le gravi inimicizie che intra i
nobili vegghiavano; i quali non prima pensorono al provedimento
fatto contro di loro, che viddono la acerbità di quella
esecuzione; il che dette loro da prima assai terrore: non di meno
poco di poi si tornorono nella loro insolenzia; perché,
sendone sempre alcuni di loro de' Signori, avevano commodità
di impedire il Gonfaloniere, che non potesse fare l'uficio suo.
Oltra di questo, avendo bisogno lo accusatore di testimone quando
riceveva alcuna offesa, non si trovava alcuno che contro a' nobili
volesse testimoniare; talché in breve tempo si tornò
Firenze ne' medesimi disordini, e il popolo riceveva dai Grandi le
medesime ingiurie, perché i giudicii erano lenti e le
sentenzie mancavano delle esecuzioni loro.
13
E non sapiendo i popolani che partiti si prendere, Giano della Bella
di stirpe nobilissimo, ma della libertà della città
amatore, dette animo ai capi delle Arti a riformare la città;
e per suo consiglio si ordinò che il Gonfaloniere residesse
con i Priori, e avesse quattromila uomini a sua ubbidienza;
privoronsi ancora tutti i nobili di potere sedere de' Signori;
obligoronsi consorti del reo alla medesima pena che quello; fecesi
che la publica fama bastasse a giudicare. Per queste leggi, le quali
si chiamorono gli Ordinamenti della iustizia, acquistò il
popolo assai reputazione, e Giano della Bella assai odio;
perché era in malissimo concetto de' potenti, come di loro
potenza distruttore, e i popolani ricchi gli avevano invidia,
perché pareva loro che la sua autorità fusse troppa;
il che, come prima lo permisse la occasione, si dimostrò.
Fece adunque la sorte che fu morto uno popolano in una zuffa dove
più nobili intervennono, intra i quali fu messer Corso
Donati; al quale, come più audace che gli altri, fu
attribuita la colpa; e per ciò fu da il Capitano del popolo
preso; e comunque la cosa si andasse, o che messer Corso non avesse
errato, o che il Capitano temesse di condannarlo, e' fu assoluto. La
quale assoluzione tanto al popolo dispiacque, che prese le armi e
corse a casa Giano della Bella a pregarlo dovesse essere operatore
che si osservassero quelle leggi delle quali egli era stato
inventore. Giano, che desiderava che messer Corso fusse punito, non
fece posare l'armi, come molti giudicavano che dovesse fare, ma gli
confortò ad ire a' Signori a dolersi del caso e pregarli che
dovessero provedervi. Il popolo per tanto, pieno di sdegno,
parendogli essere offeso dal Capitano e da Giano abandonato, non a'
Signori, ma al palagio del Capitano itosene, quello prese e
saccheggiò. Il quale atto dispiacque a tutti i cittadini; e
quelli che amavano la rovina di Giano lo accusavano, attribuendo a
lui tutta la colpa, di modo che, trovandosi intra gli Signori che di
poi seguirono alcuno suo nimico, fu accusato al Capitano come
sollevatore del popolo. E mentre che si praticava la causa sua, il
popolo si armò, e corse alle sue case, offerendogli contro ai
Signori e suoi nimici la difesa. Non volle Giano fare esperienza di
questi populari favori, né commettere la vita sua a'
magistrati, perché temeva la malignità di questi e la
instabilità di quelli; tale che, per torre occasione a'
nimici di ingiuriare lui, e agli amici di offendere la patria,
deliberò di partirsi, e dare luogo alla invidia, e liberare i
cittadini dal timore ch'eglino avevano di lui, e lasciare quella
città la quale con suo carico e pericolo aveva libera dalla
servitù de' potenti, e si elesse voluntario esilio.
14
Dopo la costui partita, la nobilità salse in speranza di
ricuperare la sua dignità; e giudicando il male suo essere
dalle sue divisioni nato, si unirono i nobili insieme, e mandorono
duoi di loro alla Signoria, la quale giudicavano in loro favore, a
pregarla fusse contenta temperare in qualche parte la
acerbità delle leggi contro a di loro fatte. La quale
domanda, come fu scoperta, commosse gli animi de' popolani,
perché dubitavano che i Signori la concedessero loro; e
così, tra il desiderio de' nobili e il sospetto del popolo,
si venne alle armi. I nobili feciono testa in tre luoghi: a San
Giovanni, in Mercato Nuovo e alla piazza de' Mozzi; e sotto tre
capi: messer Forese Adimari, messer Vanni de' Mozzi e messer Geri
Spini; i popolani in grandissimo numero sotto le loro insegne al
palagio de' Signori convennono, i quali allora propinqui a San
Brocolo abitavano. E perché il popolo aveva quella Signoria
sospetta, deputò sei cittadini che con loro governassero.
Mentre che l'una e l'altra parte alla zuffa si preparava, alcuni,
così popolari come nobili, e con quelli certi religiosi di
buona fama, si messono di mezzo per pacificarli, ricordando ai
nobili che degli onori tolti e delle leggi contro a di loro fatte ne
era stata cagione la loro superbia e il loro cattivo governo; e che
lo avere prese ora l'armi, e rivolere con la forza quello che per la
loro disunione e loro non buoni modi si erano lasciati torre, non
era altro che volere rovinare la patria loro e le loro condizioni
raggravare; e si ricordassero che il popolo, di numero, di ricchezze
e di odio era molto a loro superiore, e che quella nobilità
mediante la quale e' pareva loro avanzare gli altri non combatteva,
e riusciva, come e' si veniva al ferro, uno nome vano, che contro a
tanti a difenderli non bastava. Al popolo dall'altra parte
ricordavano come e' non era prudenzia volere sempre l'ultima
vittoria, e come e' non fu mai savio partito fare disperare gli
uomini, perché chi non spera il bene non teme il male; e che
dovevano pensare che la nobilità era quella la quale aveva
nelle guerre quella città onorata, e però non era bene
né giusta cosa con tanto odio perseguitarla; e come i nobili
il non godere il loro supremo magistrato facilmente sopportavano, ma
non potevano già sopportare che fusse in potere di ciascuno,
mediante gli ordini fatti, cacciargli della patria loro; e
però era bene mitigare quelli, e per questo benefizio fare
posare le armi, né volessero tentare la fortuna della zuffa
confidandosi nel numero, perché molte volte si era veduto gli
assai dai pochi essere stati superati. Erano nel popolo i pareri
diversi: molti volevono che si venissi alla zuffa, come a cosa che
un giorno di necessità a venire vi si avesse; e però
era meglio farlo allora, che aspettare che i nimici fussero
più potenti; e se si credesse che rimanessero contenti
mitigando le leggi, che sarebbe bene mitigarle; ma che la superbia
loro era tanta che non poserieno mai, se non forzati. A molti altri,
più savi e di più quieto animo, pareva che il
temperare le leggi non importasse molto, e il venire alla zuffa
importasse assai; di modo che la opinione loro prevalse; e providono
che alle accuse de' nobili fussero necessari i testimoni.
15
Posate le armi, rimase l'una e l'altra parte piena di sospetto, e
ciascuna con torri e con armi si fortificava; e il popolo
riordinò il governo, ristringendo quello in minore numero,
mosso dallo essere stati quelli Signori favorevoli a' nobili: del
quale rimaseno principi Mancini, Magalotti, Altoviti, Peruzzi e
Cerretani. Fermato lo stato, per maggiore magnificenzia e più
sicurtà de' Signori, l'anno 1298, fondorono il palagio loro;
e feciongli piazza delle case che furono già degli Uberti.
Comincioronsi ancora in quel medesimo tempo le publiche prigioni; i
quali edifici in termine di pochi anni si fornirono. Né mai
fu la città nostra in maggiore e più felice stato che
in questi tempi, sendo di uomini, di ricchezze e di riputazione
ripiena: i cittadini atti alle armi a trentamila, e quelli del suo
contado a settantamila aggiugnevano; tutta la Toscana, parte come
subietta, parte come amica, le ubbidiva; e benché intra i
nobili e il popolo fusse alcuna indignazione e sospetto, non di meno
non facevano alcuno maligno effetto, ma unitamente e in pace
ciascuno si viveva. La quale pace, se dalle nuove inimicizie dentro
non fusse stata turbata, di quelle di fuora non poteva dubitare;
perché era la città in termine che la non temeva
più lo Imperio né i suoi fuori usciti, e a tutti gli
stati di Italia arebbe potuto con le sue forze rispondere. Quello
male per tanto che dalle forze di fuora non gli poteva essere fatto,
quelle di dentro gli feciono.
16
Erano in Firenze due famiglie, i Cerchi e i Donati, per ricchezza,
nobilità e uomini potentissime. Intra loro, per essere in
Firenze e nel contado vicine, era stato qualche disparere, non
però si grave che si fusse venuto alle armi; e forse non
arebbono fatti grandi effetti, se i maligni umori non fussero stati
da nuove cagioni accresciuti. Era intra le prime famiglie di Pistoia
quella de' Cancellieri. Occorse che, giucando Lore di messer
Guglielmo e Geri di messer Bertacca, tutti di quella famiglia, e
venendo a parole, fu Geri da Lore leggermente ferito. Il caso
dispiacque a messer Guglielmo; e pensando con la umanità di
torre via lo scandolo, lo accrebbe; perché comandò al
figliuolo che andasse a casa il padre del ferito e gli domandasse
perdono. Ubbidì Lore al padre: nondimeno questo umano atto
non addolcì in alcuna parte lo acerbo animo di messer
Bertacca; e fatto prendere Lore dai suoi servidori, per maggiore
dispregio sopra una mangiatoia gli fece tagliare la mano,
dicendogli: - Torna a tuo padre, e digli che le ferite con il ferro
e non con le parole si medicano -. La crudeltà di questo
fatto dispiacque tanto a messer Guglielmo, che fece pigliare le armi
ai suoi per vendicarlo; e messer Bertacca ancora si armò per
difendersi; e non solamente quella famiglia, ma tutta la
città di Pistoia si divise. E perché i Cancellieri
erano discesi da messer Cancelliere, che aveva aute due mogli, delle
quali l'una si chiamò Bianca, si nominò ancora l'una
delle parti, per quelli che da lei erano discesi, “Bianca”; e
l'altra, per torre nome contrario a quella, fu nominata “Nera”.
Seguirono infra costoro, in più tempo, di molte zuffe, con
assai morte di uomini e rovina di case; e non potendo infra loro
unirsi, stracchi nel male, e desiderosi o di porre fine alle
discordie loro, o con la divisione d'altri accrescerle, ne vennono a
Firenze, e i Neri, per avere famigliarità con i Donati,
furono da messer Corso, capo di quella famiglia, favoriti; donde
nacque che i Bianchi, per avere appoggio potente che contro ai
Donati gli sostenesse, ricorsono a messer Veri de' Cerchi, uomo per
ciascuna qualità non punto a messer Corso inferiore.
17
Questo umore, da Pistoia venuto, lo antico odio intra i Cerchi e i
Donati accrebbe, ed era già tanto manifesto che i Priori e
gli altri buoni cittadini dubitavano ad ogni ora che non si venisse
infra loro alle armi, e che da quelli, di poi, tutta la città
si dividesse. E per ciò ricorsono al Pontefice, pregandolo
che a questi umori mossi quello rimedio che per loro non vi potevono
porre con la sua autorità vi ponesse. Mandò il Papa
per messer Veri, e lo gravò a fare pace con i Donati; di che
messer Veri mostrò maravigliarsi, dicendo non avere alcuna
inimicizia con quelli; e perché la pace presuppone la guerra,
non sapeva, non essendo intra loro guerra, perché fusse la
pace necessaria. Tornato adunque messer Veri da Roma senza altra
conclusione, crebbono in modo gli umori che ogni piccolo accidente,
sì come avvenne, gli poteva fare traboccare. Era del mese di
maggio; nel qual tempo, e ne' giorni festivi, publicamente per
Firenze si festeggia. Alcuni giovani, per tanto, de' Donati, insieme
con loro amici, a cavallo, a vedere ballare donne presso a Santa
Trinita si fermorono; dove sopraggiunsono alcuni de' Cerchi, ancora
loro da molti nobili accompagnati; e non cognoscendo i Donati, che
erano davanti, desiderosi ancora loro di vedere, spinsono i cavagli
fra loro, e gli urtorono; donde i Donati, tenendosi offesi,
strinsono le armi; a' quali i Cerchi gagliardamente risposono; e
dopo molte ferite date e ricevute da ciascuno, si spartirono. Questo
disordine fu di molto male principio; perché tutta la
città si divise, così quelli di popolo come i Grandi;
e le parti presono il nome dai Bianchi e Neri. Erano capi della
parte bianca i Cerchi, e a loro si accostorono gli Adimari, gli
Abati, parte de' Tosinghi, de' Bardi, de' Rossi, de' Frescobaldi,
de' Nerli e de' Mannelli, tutti i Mozzi, gli Scali, i Gherardini, i
Cavalcanti, Malespini, Bostechi, Giandonati, Vecchietti e Arrigucci;
a questi si aggiunsono molte famiglie populane, insieme con tutti i
Ghibellini che erano in Firenze; tale che, per lo gran numero che
gli seguivano, avevono quasi che tutto il governo della
città. I Donati da l'altro canto, erano capi della parte
nera, e con loro erano quella parte che delle sopranomate famiglie
a' Bianchi non si accostavano, e di più tutti i Pazzi, i
Bisdomini, i Manieri, Bagnesi, Tornaquinci, Spini, Buondelmonti,
Gianfigliazzi, Brunelleschi. Né solamente questo umore
contaminò la città, ma ancora tutto il contado divise;
donde che i Capitani di parte e qualunque era de' Guelfi e della
republica amatore temeva forte che questa nuova divisione non
facesse, con rovina della città, risuscitare le parti
ghibelline. E mandorono di nuovo a papa Bonifazio perché
pensasse al rimedio, se non voleva che quella città, che era
stata sempre scudo della Chiesa, o rovinasse o diventasse
ghibellina. Mandò pertanto il Papa in Firenze Matteo
d'Acquasparta, cardinale Portuese, legato; e perché
trovò difficultà nella parte bianca, la quale per
parergli essere più potente temeva meno, si partì di
Firenze sdegnato, e la interdisse; di modo che la rimase in maggiore
confusione che la non era avanti la venuta sua.
18
Essendo per tanto tutti gli animi degli uomini sollevati, occorse
che ad uno mortoro trovandosi assai de' Cerchi e de' Donati vennono
insieme a parole, e da quelle alle armi; dalle quali, per allora,
non nacque altro che tumulti. E tornato ciascuno alle sue case,
deliberorono i Cerchi di assaltare i Donati, e con gran numero di
gente gli andorono a trovare; ma per la virtù di messer Corso
furono ributtati e gran parte di loro feriti. Era la città
tutta in arme; i Signori e le leggi erano dalla furia de' potenti
vinte; i più savi e migliori cittadini pieni di sospetto
vivevano. I Donati e la parte loro temevono più,
perché potevono meno; donde che, per provedere alle cose
loro, si ragunò messer Corso con gli altri capi neri e i
Capitani di parte; e convennono che si domandasse al Papa uno di
sangue reale, che venisse a riformare Firenze, pensando che per
questo mezzo si potesse superare i Bianchi. Questa ragunata e
deliberazione fu a' Priori notificata, e dalla parte avversa come
una congiura contro al viver libero aggravata. E trovandosi in arme
ambedue le parti, i Signori, de' quali era in quel tempo Dante, per
il consiglio e prudenza sua presono animo e feciono armare il
popolo, al quale molti del contado aggiunsono; e di poi forzorono i
capi delle parti a posare le armi, e confinorono messer Corso Donati
con molti di parte nera; e per mostrare di essere in questo giudizio
neutrali, confinorono ancora alcuni di parte bianca, i quali poco di
poi, sotto colore di oneste cagioni, tornorono.
19
Messer Corso e i suoi, perché giudicavano il Papa alla loro
parte favorevole, ne andorono a Roma; e quello che già
avevono scritto al Papa alla presenza gli persuasono. Trovavasi in
corte del Pontefice Carlo di Valois, fratello del re di Francia, il
quale era stato chiamato in Italia dal re di Napoli per passare in
Sicilia. Parve per tanto al Papa, sendone massimamente pregato dai
Fiorentini fuori usciti, infino che il tempo venisse commodo a
navigare, di mandarlo a Firenze. Venne adunque Carlo; e
benché i Bianchi, i quali reggevano, lo avessero a sospetto,
nondimeno, per essere capo de' Guelfi e mandato da il Papa, non
ardirono di impedirgli la venuta; ma, per farselo amico, gli dettono
autorità che potesse secondo lo arbitrio suo disporre della
città. Carlo, avuta questa autorità, fece armare tutti
i suoi amici e partigiani; il che dette tanto sospetto al popolo che
non volesse torgli la sua libertà, che ciascuno prese le armi
e si stava alle case sue, per essere presto se Carlo facesse alcuno
moto. Erano i Cerchi e i capi di parte bianca, per essere stati
qualche tempo capi della republica e portatisi superbamente, venuti
allo universale in odio; la qual cosa dette animo a messer Corso e
agli altri fuori usciti neri di venire a Firenze, sapiendo massime
che Carlo e i Capitani di parte erano per favorirgli. E quando la
città, per dubitare di Carlo, era in arme, messer Corso con
tutti i fuori usciti e molti altri che lo seguitavano, senza essere
da alcuno impediti, entrorono in Firenze; e benché messer
Veri de' Cerchi fusse ad andargli incontra confortato, non lo volse
fare, dicendo che voleva che il popolo di Firenze, contro al quale
veniva, lo gastigasse. Ma ne avvenne il contrario, perché fu
ricevuto, non gastigato da quello; e a messer Veri convenne, volendo
salvarsi, fuggire; perché messer Corso, sforzata che gli ebbe
la porta a Pinti, fece testa a San Piero Maggiore, luogo propinquo
alle sue case; e ragunato assai amici e popolo, che desideroso di
cose nuove vi concorse, trasse, la prima cosa, delle carcere
qualunque o per publica o per privata cagione vi era ritenuto;
sforzò i Signori a tornarsi privati alle case loro, ed elesse
i nuovi, popolani e di parte nera; e per cinque giorni si attese a
saccheggiare quelli che erano i primi di parte bianca. I Cerchi e
gli altri principi della setta loro erano usciti della città
e ritirati ai loro luoghi forti, vedendosi Carlo contrario e la
maggiore parte del popolo nimico; e dove prima ei non avevano mai
voluto seguitare i consigli del Papa, furono forzati a ricorrere a
quello per aiuto, mostrandogli come Carlo era venuto per disunire,
non per unire Firenze. Onde che il Papa di nuovo vi mandò suo
legato messer Matteo d'Acquasparta; il quale fece fare la pace intra
i Cerchi e i Donati, e con matrimoni e nuove nozze la
fortificò, e volendo che i Bianchi ancora degli uffizi
participassino, i Neri, che tenevano lo stato, non vi consentirono;
in modo che il Legato non si partì con più sua
sodisfazione né meno irato che l'altra volta; e lasciò
la città, come disubidiente, interdetta.
20
Rimase per tanto in Firenze l'una e l'altra parte, e ciascuna
malcontenta: i Neri, per vedersi la parte nimica appresso, temevano
che la non ripigliasse, con la loro rovina, la perduta
autorità e i Bianchi si vedevano mancare della
autorità e onori loro. A' quali sdegni e naturali sospetti
s'aggiunsono nuove ingiurie. Andava messer Niccola de' Cerchi con
più suoi amici alle sue possessioni, e arrivato al Ponte ad
Affrico, fu da Simone di messer Corso Donati assaltato. La zuffa fu
grande, e da ogni parte ebbe lacrimoso fine, perché messer
Niccola fu morto e Simone in modo ferito che la seguente notte
morì. Questo caso perturbò di nuovo tutta la
città; e benché la parte nera vi avesse più
colpa, nondimeno era da chi governava difesa. E non essendo ancora
datone giudizio, si scoperse una congiura tenuta dai Bianchi con
messer Piero Ferrante barone di Carlo, con il quale praticavano di
essere rimessi al governo; la qual cosa venne a luce per lettere
scritte dai Cerchi a quello, non ostante che fusse opinione le
lettere essere false e dai Donati trovate per nascondere la infamia
la quale per la morte di messer Niccola si avevono acquistata.
Furono per tanto confinati tutti i Cerchi e i loro seguaci di parte
bianca, intra i quali fu Dante poeta, e i loro beni publicati e le
loro case disfatte. Sparsonsi costoro, con molti Ghibellini che si
erano con loro accostati, per molti luoghi, cercando con nuovi
travagli nuova fortuna; e Carlo, avendo fatto quello per che venne a
Firenze, si parti, e ritornò al Papa per seguire la impresa
sua di Sicilia: nella quale non fu più savio né
migliore che si fusse stato in Firenze; tanto che vituperato, con
perdita di molti suoi, tornò in Francia.
21
Vivevasi in Firenze, dopo la partita di Carlo, assai quietamente:
solo messer Corso era inquieto, perché non gli pareva tenere
nella città quel grado quale credeva convenirsegli; anzi,
sendo il governo popolare, vedeva la repubblica essere amministrata
da molti inferiori a lui. Mosso per tanto da queste passioni,
pensò di adonestare con una onesta cagione la
disonestà dello animo suo; e calunniava molti cittadini i
quali avevano amministrati danari publici, come se gli avessero
usati ne' privati commodi; e che gli era bene ritrovargli e
punirgli. Questa sua opinione da molti, che avevano il medesimo
desiderio che quello, era seguita; a che si aggiugneva la ignoranzia
di molti altri, i quali credevano messer Corso per amore della
patria muoversi. Dall'altra parte i cittadini calunniati, avendo
favore nel popolo, si difendevano; e tanto transcorse questo
disparere, che, dopo ai modi civili, si venne alle armi. Dall'una
parte era messer Corso e messer Lottieri vescovo di Firenze, con
molti Grandi e alcuni popolani; dall'altra erano i Signori, con la
maggiore parte del popolo: tanto che in più parti della
città si combatteva. I Signori, veduto il pericolo grande nel
quale erano, mandorono per aiuto ai Lucchesi; e subito fu in Firenze
tutto il popolo di Lucca; per l'autorità del quale si
composono per allora le cose e si fermorono i tumulti; e rimase il
popolo nello stato e libertà sua, sanza altrimenti punire i
motori dello scandolo. Aveva il Papa inteso i tumulti di Firenze, e
per fermargli vi mandò messer Niccolao da Prato suo legato.
Costui, sendo uomo, per grado, dottrina e costumi, di grande
riputazione, acquistò subito tanta fede che si fece dare
autorità di potere uno stato a suo modo fermare; e
perché era di nazione ghibellino, aveva in animo ripatriare
gli usciti; ma volse prima guadagnarsi il popolo; e per questo
rinnovò le antiche Compagnie del popolo; il quale ordine
accrebbe assai la potenza di quello, e quella de' Grandi
abbassò. Parendo per tanto al Legato aversi obligata la
moltitudine, disegnò di fare tornare i fuori usciti, e nel
tentare varie vie, non solamente non gliene successe alcuna, ma
venne in modo a sospetto a quelli che reggevano, che fu costretto a
partirsi; e pieno di sdegno se ne tornò al Pontefice, e
lasciò Firenze piena di confusione e interdetta. E non solo
quella città da uno umore ma da molti era perturbata, sendo
in essa le inimicizie del popolo e de' Grandi, de' Ghibellini e
Guelfi, de' Bianchi e Neri. Era adunque tutta la città in
arme e piena di zuffe; perché molti erano per la partita del
Legato mal contenti, sendo desiderosi che i fuori usciti tornassero.
E i primi di quelli che movieno lo scandolo erano i Medici e i
Giugni, i quali in favore de' ribelli si erano con il Legato
scoperti: combattevasi per tanto in più parti in Firenze. Ai
quali mali si aggiunse un fuoco, il quale si appiccò prima da
Orto San Michele, nelle case degli Abati; di quivi saltò in
quelle de' Capo in sacchi, e arse quelle con le case de' Macci,
degli Amieri, Toschi, Cipriani, Lamberti, Cavalcanti e tutto Mercato
nuovo; passò di quivi in Porta Santa Maria, e quella arse
tutta, e girando dal Ponte Vecchio, arse le case de' Gherardini,
Pulci, Amidei e Lucardesi, e con queste tante altre che il numero di
quelle a mille settecento o più aggiunse.Questo fuoco fu
opinione di molti che a caso, nello ardore della zuffa, si
appiccasse: alcuni altri affermano che da Neri Abati priore di San
Piero Scheraggio, uomo dissoluto e vago di male, fusse acceso; il
quale, veggendo il popolo occupato a combattere, pensò di
poter fare una sceleratezza alla quale gli uomini, per essere
occupati, non potessero rimediare; e perché gli riuscisse
meglio, misse fuoco in casa i suoi consorti, dove aveva più
commodità di farlo. Era lo anno 1304 e del mese di luglio,
quando Firenze dal fuoco e da il ferro era perturbata. Messer Corso
Donati solo, intra tanti tumulti, non si armò; perché
giudicava più facilmente diventare arbitro di ambedue le
parti, quando, stracche nella zuffa, agli accordi si volgessero.
Posoronsi non di meno le armi, più per sazietà del
male che per unione che infra loro nascesse: solo ne seguì
che i rebelli non tornorono, e la parte che gli favoriva rimase
inferiore.
22
Il Legato, tornato a Roma e uditi i nuovi scandoli seguiti in
Firenze, persuase al Papa che, se voleva unire Firenze, gli era
necessario fare a sé venire dodici cittadini de' primi di
quella città; donde poi, levato che fusse il nutrimento al
male, si poteva facilmente pensare di spegnerlo. Questo consiglio fu
da il Pontefice accettato; e i cittadini chiamati ubbidirono; intra
i quali fu messer Corso Donati. Dopo la partita de' quali, fece il
Legato a' fuori usciti intendere come allora era il tempo, che
Firenze era privo de' suoi capi, di ritornarvi: in modo che gli
usciti, fatto loro sforzo vennono a Firenze, e nella città
per le mura ancora non fornite entrarono, e infino alla piazza di
San Giovanni transcorsono. Fu cosa notabile che coloro i quali poco
davanti avevano per il ritorno loro combattuto, quando disarmati
pregavano di essere alla patria restituiti, poi che gli viddono
armati, e volere per forza occupare la città, presono l'armi
contro a di loro (tanto fu più da quelli cittadini stimata la
comune utilità che la privata amicizia) e unitisi con tutto
il popolo, a tornarsi donde erano venuti gli forzorono. Perderono
costoro la impresa per avere lasciate parte delle genti loro alla
Lastra, e per non avere aspettato messer Tolosetto Uberti, il quale
doveva venire da Pistoia con trecento cavagli; perché
stimavano che la celerità più che le forze avesse a
dare loro la vittoria: e così spesso in simili imprese
interviene che la tardità ti toglie la occasione, e la
celerità le forze. Partiti i ribelli, si tornò Firenze
nelle antiche sue divisioni; e per torre autorità alla
famiglia de' Cavalcanti, gli tolse il popolo per forza le Stinche,
castello posto in Val di Grieve e anticamente stato di quella; e
perché quelli che dentro vi furono presi furono i primi che
fussero posti nelle carcere di nuovo edificate, si chiamò di
poi quel luogo, dal castello donde venivano, e ancora si chiama, le
Stinche. Rinnovorono ancora, quelli che erano i primi nella
republica, le Compagnie del popolo, e dettono loro le insegne,
ché prima sotto quelle delle Arti si ragunavano; e i capi
Gonfalonieri delle compagnie e Collegi de' Signori si chiamorono, e
vollono che, negli scandoli con le armi e nella pace con il
consiglio, la Signoria aiutassero; aggiunsono ai duoi rettori
antichi uno esecutore, il quale, insieme con i gonfalonieri, doveva
contro alla insolenzia de' Grandi procedere. In questo mezzo era
morto il Papa, e messer Corso e gli altri cittadini erano tornati da
Roma; e sarebbesi vivuto quietamente, se la città dallo animo
inquieto di messer Corso non fusse stata di nuovo perturbata. Aveva
costui, per darsi reputazione, sempre opinione contraria ai
più potenti tenuta; e dove ei vedeva inclinare il popolo,
quivi, per farselo più benivolo, la sua autorità
voltava, in modo che di tutti i dispareri e novità era capo,
e a lui rifuggivono tutti quelli che alcuna cosa estraordinaria di
ottenere desideravano: tale che molti reputati cittadini lo
odiavano; e vedevasi crescere in modo questo odio, che la parte de'
Neri veniva in aperta divisione, perché messer Corso delle
forze e autorità private si valeva, e gli avversarii dello
stato; ma tanta era l'autorità che la persona sua seco
portava, che ciascuno lo temeva. Pure nondimeno per torgli il favore
popolare, il quale per questa via si può facilmente spegnere,
disseminorono che voleva occupare la tirannide: il che era a
persuadere facile, perché il suo modo di vivere ogni civile
misura trapassava. La quale opinione assai crebbe poi che gli ebbe
tolta per moglie una figliuola di Uguccione della Faggiuola, capo di
parte ghibellina e bianca e in Toscana potentissimo.
23
Questo parentado, come venne a notizia, dette animo ai suoi
avversarii; e presono contro a di lui le armi; e il popolo, per le
medesime cagioni, non lo difese; anzi la maggior parte di quello con
gli nimici suoi convenne. Erano capi de suoi avversarii messer Rosso
della Tosa, messer Pazzino de' Pazzi messer Geri Spini e messer
Berto Brunelleschi. Costoro, con i loro seguaci e la maggior parte
del popolo, si raccozzorono armati a piè del palagio de'
Signori, per l'ordine de' quali si dette una accusa a messer Piero
Branca capitano del popolo contro a messer Corso, come uomo che si
volesse con lo aiuto di Uguccione fare tiranno: dopo la quale fu
citato, e di poi, per contumace, giudicato ribello: né fu
più dalla accusa alla sentenzia che uno spazio di due ore.
Dato questo giudizio, i Signori, con le Compagnie del popolo sotto
le loro insegne, andorono a trovarlo. Messer Corso dall'altra parte,
non per vedersi da molti de' suoi abbandonato, non per la sentenzia
data, non per la autorità de' Signori né per la
moltitudine de' nimici sbigottito, si fece forte nelle sue case,
sperando potere difendersi in quelle tanto che Uguccione, per il
quale aveva mandato, a soccorrerlo venisse. Erano le sue case e le
vie intorno a quelle state sbarrate da lui, e di poi di uomini suoi
partigiani affortificate; i quali in modo le difendevano, che il
popolo, ancora che fusse gran numero, non poteva vincerle. La zuffa
per tanto fu grande, con morte e ferite d'ogni parte; e vedendo il
popolo di non potere dai luoghi aperti superarlo, occupò le
case che erano alle sue propinque; e quelle rotte, per luoghi
inaspettati gli entrò in casa. Messer Corso per tanto
veggendosi circundato da' nimici, né confidando più
negli aiuti di Uguccione, deliberò, poi che gli era disperato
della vittoria, vedere se poteva trovare rimedio alla salute; e
fatta testa egli e Gherardo Bordoni, con molti altri de' suoi
più forti e fidati amici, feciono impeto contro a' nimici; e
quelli apersono in maniera che poterono, combattendo, passargli; e
della città per la Porta alla Croce si uscirono. Furono non
di meno da molti perseguitati; e Gherardo in su l'Affrico da
Boccaccio Cavicciuli fu morto; messer Corso ancora fu a Rovezzano da
alcuni cavagli catelani soldati della Signoria sopraggiunto e preso;
ma nel venire verso Firenze, per non vedere in viso i suoi nimici
vittoriosi ed essere straziato da quelli, si lasciò da
cavallo cadere; ed essendo in terra, fu da uno di quelli che lo
menavano scannato, il corpo del quale fu dai monaci di San Salvi
ricolto, e senza alcuno onore sepulto. Questo fine ebbe messer Corso
dal quale la patria e la parte de' Neri molti beni e molti mali
ricognobbe; e se gli avessi avuto lo animo più quieto,
sarebbe più felice la memoria sua; non di meno merita di
essere numerato intra i rari cittadini che abbi avuti la nostra
città. Vero è che la sua inquietudine fece alla patria
e alla parte non si ricordare degli oblighi avieno con quello e
nella fine a sé partorì la morte, e all'una e
all'altra di quelle di molti mali. Uguccione, venendo al soccorso
del genero, quando fu a Remoli intese come messer Corso era da il
popolo combattuto; e pensando non potere fargli alcuno favore, per
non fare male a sé sanza giovare a lui, se ne tornò
adietro.
24
Morto messer Corso, il che seguì l'anno 1308, si fermorono i
tumulti; e vissesi quietamente infino a tanto che si intese come
Arrigo imperadore con tutti i rebelli fiorentini passava in Italia,
a' quali aveva promesso di restituirgli alla patria loro. Donde a'
capi del governo parve che fusse bene, per avere meno nimici,
diminuire il numero di quelli; e per ciò deliberorono che
tutti i rebelli fussero restituiti, eccetto quelli a chi
nominatamente nella legge fusse il ritorno vietato. Donde che
restorono fuora la maggior parte de' Ghibellini e alcuni di quelli
di parte bianca, intra i quali furono Dante Aldighieri, i figliuoli
di messer Veri de' Cerchi e di Giano della Bella. Mandorono oltra di
questo, per aiuto, a Ruberto re di Napoli; e non lo potendo ottenere
come amici, gli dierono la città per cinque anni,
acciò che come suoi uomini gli difendesse. Lo Imperadore, nel
venire, fece la via da Pisa, e per le maremme ne andò a Roma,
dove prese la corona l'anno 1312; e di poi, deliberato di domare i
Fiorentini, ne venne, per la via di Perugia e di Arezzo, a Firenze;
e si pose con lo esercito suo al munistero di San Salvi, propinquo
alla città ad un miglio, dove cinquanta giorni stette senza
alcun frutto; tanto che, disperato di potere perturbare lo stato di
quella città ne andò a Pisa, dove convenne con
Federigo re di Sicilia di fare la impresa del Regno; e mosso con le
sue genti, quando egli sperava la vittoria, e il re Ruberto temeva
la sua rovina, trovandosi a Buonconvento, morì.
25
Occorse, poco tempo di poi, che Uguccione della Faggiuola
diventò signore di Pisa, e poi apresso di Lucca, dove dalla
parte ghibellina fu messo; e con il favore di queste città
gravissimi danni a' vicini faceva, dai quali i Fiorentini per
liberarsi domandorono ad il re Ruberto Piero suo fratello, che i
loro eserciti governasse. Uguccione da l'altra parte di accrescere
la sua potenzia non cessava, e per forza e per inganno aveva in Val
d'Arno e in Val di Nievole molte castella occupate, ed essendo ito
allo assedio di Montecatini, giudicorono i Fiorentini che fusse
necessario soccorrerlo, non volendo che quello incendio ardesse
tutto il paese loro. E ragunato un grande esercito, passorono in Val
di Nievole, dove vennono con Uguccione alla giornata; e dopo una
gran zuffa furono rotti, dove morì Piero fratello del Re, il
corpo del quale non si ritrovò mai, e con quello più
che dumila uomini furono ammazzati. Né dalla parte di
Uguccione fu la vittoria allegra, perché vi morì un
suo figliuolo, con molti altri capi dello esercito. I Fiorentini,
dopo questa rotta, afforzorono le loro terre allo intorno; e il re
Ruberto mandò per loro capitano il conte d'Andria, detto il
Conte Novello, per i portamenti del quale, o vero perché sia
naturale a' Fiorentini che ogni stato rincresca e ogni accidente gli
divida, la città, non ostante la guerra aveva con Uguccione,
in amici e nimici del Re si divise. Capi degli nimici erano messer
Simone della Tosa, i Magalotti, con certi altri, popolani, i quali
erano agli altri nel governo superiori. Costoro operorono che si
mandasse in Francia, e di poi nella Magna, per trarne capi e genti,
per potere poi, allo arrivare loro, cacciarne il Conte governatore
per il Re, ma la fortuna fece che non poterono averne alcuno. Non di
meno non abbandonorono la impresa loro; e cercando di uno per
adorarlo, non potendo di Francia né della Magna trarlo, lo
trassono di Agobio: e avendone prima cacciato il Conte, feciono
venire Lando d'Agobio per esecutore, o vero per bargello; al quale
pienissima potestà sopra i cittadini dettono. Costui era uomo
rapace e crudele, e andando con molti armati per la terra, la vita a
questo e a quell'altro, secondo la volontà di coloro che lo
avevano eletto, toglieva; e in tanta insolenzia venne, che
batté una moneta falsa del conio fiorentino, sanza che alcuno
opporsegli ardisse: a tanta grandezza lo avieno condotto le
discordie di Firenze! Grande veramente e misera città; la
quale né la memoria delle passate divisioni, né la
paura di Uguccione, né l'autorità di uno Re avevano
potuto tenere ferma, tanto che in malissimo stato si trovava, sendo
fuora da Uguccione corsa, e dentro da Lando d'Agobio saccheggiata.
Erano gli amici del Re, e contrari a Lando e suoi seguaci, famiglie
nobili e popolani grandi, e tutti Guelfi; non di meno, per avere gli
avversarii lo stato in mano, non potevono, se non con loro grave
pericolo, scoprirsi; pure, deliberati di liberarsi da sì
disonesta tirannide, scrissono secretamente al re Ruberto che
facesse suo vicario in Firenze il conte Guido da Battifolle. Il che
subito fu da il Re ordinato; e la parte nimica, ancora che i Signori
fussero contrari ad il Re, non ardì, per le buone
qualità del Conte opporsegli; non di meno non aveva molta
autorità, perché i Signori e gonfalonieri delle
Compagnie Lando e la sua parte favorivano. E mentre che in Firenze
in questi travagli si viveva, passò la figliuola del re
Alberto della Magna, la quale andava a trovare Carlo, figliuolo del
re Ruberto, suo marito. Costei fu onorata assai dagli amici del Re,
e con lei delle condizioni della città e della tirannide di
Lando e suoi partigiani si dolfono; tanto che prima che la partisse,
mediante i favori suoi e quelli che da il Re ne furono porti, i
cittadini si unirono, e a Lando fu tolta l'autorità, e pieno
di preda e di sangue rimandato ad Agobio. Fu, nel riformare il
governo la signoria ad il Re per tre anni prorogata; e perché
di già erano eletti sette Signori di quelli della parte di
Lando, se ne elessono sei di quelli del Re; e seguirono alcuni
magistrati con tredici Signori; di poi, pure secondo lo antico uso,
a sette si ridussono.
26
Fu tolta, in questi tempi, a Uguccione la signoria di Lucca e di
Pisa, e Castruccio Castracani, di cittadino di Lucca, ne divenne
signore, e perché era giovane, ardito e feroce, e nelle sue
imprese fortunato, in brevissimo tempo principe de' Ghibellini di
Toscana divenne. Per la qual cosa i Fiorentini, posate le civili
discordie, per più anni pensorono, prima, che le forze di
Castruccio non crescessero, e di poi, contro alla voglia loro
cresciute, come si avessero a difendere da quelle. E perché i
Signori con migliore consiglio deliberassero, e con maggiore
autorità esequissero, creorono dodici cittadini, i quali
Buoni uomini nominorono, senza il consiglio e consenso de' quali i
Signori alcuna cosa importante operare non potessero. Era, in questo
mezzo, il fine della signoria del re Ruberto venuto; e la
città, diventata principe di se stessa, con i consueti
rettori e magistrati si riordinò; e il timore grande che la
aveva di Castruccio la teneva unita. Il quale dopo molte cose fatte
da lui contro ai signori di Lunigiana, assaltò Prato donde i
Fiorentini, deliberati a soccorrerlo serrorono le botteghe e
popolarmente vi andorono; dove ventimila a piè e
millecinquecento a cavallo convennono. E per torre a Castruccio
forze e aggiugnerle a loro, i Signori per loro bando significorono
che qualunque rebelle guelfo venisse al soccorso di Prato sarebbe
dopo la impresa, alla patria restituito: donde più che
quattromila ribelli vi concorsono. Questo tanto esercito, con tanta
prestezza a Prato condotto, sbigottì in modo Castruccio che,
sanza volere tentare la fortuna della zuffa, verso Lucca si ridusse.
Donde nacque nel campo de' Fiorentini, intra i nobili e il popolo,
disparere: questo voleva seguitarlo e combatterlo, per spegnerlo;
quelli volevano ritornarsene, dicendo che bastava avere messo a
pericolo Firenze per liberare Prato: il che era stato bene sendo
costretti dalla necessità; ma ora che quella era mancata, non
era, potendosi acquistare poco e perdere assai, da tentare la
fortuna. Rimessesi il giudicio, non si potendo accordare, a'
Signori, quali trovorono ne' Consigli, intra il popolo e i Grandi, i
medesimi dispareri; la qual cosa, sentita per la città, fece
ragunare in Piazza assai gente, la quale contro ai Grandi parole
piene di minacce usava: tanto che i Grandi, per timore, cederono. Il
quale partito, per essere preso tardi, e da molti mal volentieri,
dette tempo al nimico di ritirarsi salvo a Lucca.
27
Questo disordine in modo fece contro ai Grandi il popolo indegnare,
che i Signori la fede data agli usciti per ordine e conforti loro
osservare non vollono. Il che presentendo gli usciti, deliberorono
di anticipare, e innanzi al campo, per entrare i primi in Firenze,
alle porte della città si presentorono; la qual cosa,
perché fu preveduta, non successe loro, ma furono da quelli
che in Firenze erano rimasi ributtati. Ma per vedere se potevono
avere d'accordo quello che per forza non avevono potuto ottenere,
mandorono otto uomini, ambasciadori, a ricordare a' Signori la fede
data e i pericoli sotto quella da loro corsi, sperandone quel premio
che era stato loro promesso. E benché i nobili, a' quali
pareva essere di questo obligo debitori, per avere particularmente
promesso quello a che i Signori si erano obligati, si affaticassero
assai in benefizio degli usciti, non di meno, per lo sdegno aveva
preso la universalità, che non si era in quel modo che si
poteva contro a Castruccio vinta la impresa, non lo ottennero: il
che seguì in carico e disonore della città. Per la
qual cosa sendo molti de' nobili sdegnati, tentorono di ottenere per
forza quello che pregando era loro negato; e convennono con i fuori
usciti venissero armati alla città, e loro, drento,
piglierebbono l'armi in loro aiuto. Fu la cosa avanti al giorno
deputato scoperta, tale che i fuori usciti trovorono la città
in arme, e ordinata a frenare quelli di fuora e in modo quelli di
drento sbigottire, che niuno ardisse di prendere l'armi: e
così, senza fare alcuno frutto, si spiccorono dalla impresa.
Dopo la costoro partita, si desiderava punire quelli che dello
avergli fatti venire avessero colpa; e benché ciascuno
sapessi quali erano i delinquenti, niuno di nominargli, non che di
accusargli, ardiva. Per tanto, per intenderne il vero sanza
rispetto, si provide che ne' Consigli ciascuno scrivesse i
delinquenti, e gli scritti al capitano secretamente si
presentassero: donde rimasono accusati messer Amerigo Donati, messer
Teghiaio Frescobaldi e messer Lotteringo Gherardini; i quali, avendo
il giudice più favorevole che forse i delitti loro non
meritavano, furono in danari condennati.
28
I tumulti che in Firenze nacquono per la venuta de' ribelli alle
porte mostrorono come alle Compagnie del popolo uno capo solo non
bastava; e però vollono che per lo avvenire ciascuna tre o
quattro capi avesse; e ad ogni gonfaloniere duoi o tre, i quali
chiamorono pennonieri, aggiunsono, acciò che, nelle
necessità dove tutta la compagnia non avesse a concorrere,
potesse parte di quella sotto uno capo adoperarsi. E come avviene in
tutte le republiche, che sempre dopo uno accidente alcune leggi
vecchie si annullano e alcune altre se ne rinnuovano, dove prima la
Signoria si faceva di tempo in tempo, i Signori e i Collegi che
allora erano, perché avevano assai potenzia, si feciono dare
autorità di fare i Signori che dovevano per i futuri quaranta
mesi sedere; i nomi de' quali missono in una borsa, e ogni duoi mesi
gli traevano. Ma prima che de' mesi quaranta il termine venisse,
perché molti cittadini di non essere stati imborsati
dubitavano, si feciono nuove imborsazioni. Da questo principio
nacque lo ordine dello imborsare per più tempo tutti i
magistrati, così d'entro come di fuora; dove prima nel fine
de' magistrati, per i Consigli i successori si eleggevano; le quali
imborsazioni si chiamorono di poi squittini. E perché ogni
tre, o al più lungo ogni cinque anni si facevano, pareva che
togliessino alla città noia, e la cagione de' tumulti
levassino i quali alla creazione di ogni magistrato, per gli assai
competitori, nascevano; e non sapiendo altrimenti correggergli,
presono questa via, e non intesono i difetti che sotto questa poca
commodità si nascondevano.
29
Era lo anno 1325, e Castruccio, avendo occupata Pistoia, era
divenuto in modo potente che i Fiorentini, temendo la sua grandezza,
deliberorono, avanti che gli avessi preso bene il dominio di quella,
di assaltarlo, e trarla di sotto la sua ubbidienza. E fra di loro
cittadini e di amici ragunorono ventimila pedoni e tremila
cavalieri, e con questo esercito si accamporono ad Altopascio, per
occupare quello e per quella via impedirgli il potere soccorrere
Pistoia. Successe a' Fiorentini prendere quello luogo; di poi ne
andorono verso Lucca guastando il paese; ma per la poca prudenza e
meno fede del capitano, non si fece molti progressi. Era loro
capitano messer Ramondo di Cardona: costui, veduto i Fiorentini
essere stati per lo adietro della loro libertà liberali, e
avere quella ora al Re, ora ai Legati, ora ad altri di minore
qualità uomini concessa, pensava, se conducessi quelli in
qualche necessità, che facilmente potrebbe accadere che lo
facessino principe. Né mancava di ricordarlo spesso; e
chiedeva di avere quella autorità nella città, che gli
avevano negli eserciti data, altrimenti mostrava di non potere avere
quella ubbidienza che ad uno capitano era necessaria; e
perché i Fiorentini non gliene consentivono, egli andava
perdendo tempo, e Castruccio lo acquistava. Perché gli
vennono quelli aiuti che da' Visconti e dagli altri tiranni di
Lombardia gli erano stati promessi, ed essendo fatto forte di genti,
messer Ramondo, come prima per la poca fede non seppe vincere,
così di poi per la poca prudenza non si seppe salvare; ma
procedendo con il suo esercito lentamente, fu da Castruccio,
propinquo ad Altopascio, assaltato, e dopo una gran zuffa rotto:
dove restarono presi e morti molti cittadini, e con loro insieme
messer Ramondo, il quale della sua poca fede e de' suoi cattivi
consigli dalla fortuna quella punizione ebbe, che gli aveva dai
Fiorentini meritato. I danni che Castruccio fece, dopo la vittoria,
a' Fiorentini, di prede, prigioni, rovine e arsioni, non si
potrebbono narrare; perché, senza avere alcuna gente allo
incontro, più mesi dove e' volle cavalcò e corse; e a'
Fiorentini, dopo tanta rotta, fu assai il salvare la città.
30
Né però si invilirono in tanto che non facessero
grandi provedimenti a danari, soldassero gente e mandassero ai loro
amici per aiuto. Non di meno a frenare tanto nimico niuno
provedimento bastava; di modo che furono forzati eleggere per loro
signore Carlo duca di Calavria e figliuolo del re Ruberto, se
vollono che venisse alla difesa loro; perché quelli, sendo
consueti a signoreggiare Firenze, volevono più tosto la
ubbidienza che l'amicizia sua. Ma per essere Carlo implicato nelle
guerre di Sicilia, e per ciò non potendo venire a prendere la
signoria, vi mandò Gualtieri di nazione franzese e duca di
Atene. Costui, come vicario del signore, prese la possessione della
città, e ordinava i magistrati secondo lo arbitrio suo.
Furono non di meno i portamenti suoi modesti, e in modo contrari
alla natura sua, che ciascuno lo amava. Carlo composte che furono le
guerre di Sicilia, con mille cavalieri ne venne a Firenze, dove fece
la sua entrata di luglio l'anno 1326; la cui venuta fece che
Castruccio non poteva liberamente il paese fiorentino saccheggiare.
Non di meno quella reputazione che si acquistò di fuora si
perdé dentro, e quelli danni che dai nimici non furono fatti,
dagli amici si sopportorono: perché i Signori senza il
consenso del Duca alcuna cosa non operavano, e in termine di uno
anno trasse della città quattrocentomila fiorini, non ostante
che, per le convenzioni fatte seco, non si avesse a passare
dugentomila: tanti furono i carichi con i quali ogni giorno o egli o
il padre la città aggravavano. A questi danni si aggiunsono
ancora nuovi sospetti e nuovi nimici; perché i Ghibellini di
Lombardia in modo per la venuta di Carlo in Toscana insospettirono,
che Galeazzo Visconti e gli altri tiranni lombardi, con danari e
promesse, feciono passare in Italia Lodovico di Baviera, stato
contro alla voglia del Papa eletto imperadore. Venne costui in
Lombardia, e di quivi in Toscana; e con lo aiuto di Castruccio si
insignorì di Pisa; dove, rinfrescato di danari, se ne
andò verso Roma; il che fece che Carlo si partì di
Firenze, temendo del Regno, e per suo vicario lasciò messer
Filippo da Saggineto. Castruccio, dopo la partita dello Imperadore,
si insignorì di Pisa; e i Fiorentini per trattato gli tolsono
Pistoia; alla quale Castruccio andò a campo; dove con tanta
virtù e ostinazione stette, che, ancora che i Fiorentini
facessero più volte prova di soccorrerla, e ora il suo
esercito ora il suo paese assalissero, mai non posserono, né
con forza né con industria, dalla impresa rimuoverlo: tanta
sete aveva di gastigare i Pistolesi e i Fiorentini sgarare! di modo
che i Pistolesi furono a riceverlo per signore constretti. La qual
cosa, ancora che seguisse con tanta sua gloria, seguì anche
con tanto suo disagio che, tornato in Lucca, si morì. E
perché gli è rade volte che la fortuna un bene o un
male con un altro bene o con un altro male non accompagni,
morì ancora, a Napoli, Carlo duca di Calavria e signore di
Firenze, acciò che i Fiorentini in poco di tempo, fuori
d'ogni loro opinione, dalla signoria dell'uno e timore dell'altro si
liberassino. I quali, rimasi liberi, riformorono la città, e
annullorono tutto l'ordine de' Consigli vecchi, e ne creorono duoi,
l'uno di trecento cittadini popolani, l'altro di ducento cinquanta
grandi e popolani; il primo dei quali Consiglio di Popolo, l'altro
di Comune chiamorono.
31
Lo Imperadore, arrivato a Roma, creò uno antipapa, e
ordinò molte cose contro alla Chiesa, molte altre senza
effetto ne tentò; in modo che alla fine se ne partì
con vergogna, e ne venne a Pisa; dove, o per sdegno, o per non
essere pagati, circa ottocento cavagli tedeschi da lui si
ribellorono, e a Montechiaro, sopra il Ceruglio, si afforzorono.
Costoro, come lo Imperadore fu partito da Pisa per andare in
Lombardia, occuporono Lucca, e ne cacciorono Francesco Castracani,
lasciatovi dallo Imperadore, e pensando di trarre di quella preda
qualche utilità, quella città ai Fiorentini per
ottanta mila fiorini offersono; il che fu, per consiglio di messer
Simone della Tosa, rifiutato. Il quale partito sarebbe stato alla
città nostra utilissimo, se i Fiorentini sempre in quella
volontà si mantenevano; ma perché poco di poi mutorono
animo fu dannosissimo; perché, se allora per sì poco
prezzo avere pacificamente la potevono e non la vollono, di poi,
quando la vollono, non la ebbono, ancora che molto maggiore prezzo
la comperassero; il che fu cagione che più volte Firenze il
suo governo, con suo grandissimo danno, variasse. Lucca adunque,
rifiutata dai Fiorentini, fu da messer Gherardino Spinoli genovese
per fiorini trenta mila comperata. E perché gli uomini sono
più lenti a pigliare quello che possono avere, che non sono a
desiderare quello a che non possono aggiugnere, come prima si
scoperse la compera da messer Gherardino fatta, e per quanto poco
pregio la aveva avuta, si accese il popolo di Firenze di un estremo
desiderio di averla, riprendendo se medesimo e chi ne lo aveva
sconfortato; e per averla per forza, poi che comperare non l'avevano
voluta, mandò le genti sue a predare e scorrere sopra i
Lucchesi. Erasi partito, in questo mezzo, lo imperadore di Italia; e
lo Antipapa, per ordine de' Pisani, ne era andato prigione in
Francia; e i Fiorentini, dalla morte di Castruccio, che seguì
nel 1328, infino al 1340, stettono dentro quieti, e solo alle cose
dello stato loro di fuora attesono, e in Lombardia, per la venuta
del re Giovanni di Buemia, e in Toscana, per conto di Lucca, di
molte guerre feciono. Ornorono ancora la città di nuovi
edifici; perché la torre di Santa Reparata, secondo il
consiglio di Giotto dipintore in quelli tempi famosissimo,
edificorono; e perché, nel 1333, alzorono, per uno diluvio,
le acque d'Arno in alcuno luogo in Firenze più che dodici
braccia, donde parte de' ponti e molti edifici rovinorono, con
grande sollecitudine e spendio le cose rovinate instaurorono.
32
Ma venuto l'anno 1340, nuove cagioni di alterazioni nacquono.
Avevano i cittadini potenti due vie ad accrescere o mantenere la
potenza loro: l'una era ristringere in modo le imborsazioni de'
magistrati, che sempre o in loro o in amici loro pervenissero,
l'altra lo essere capi della elezione de' rettori, per averli di poi
ne' loro giudicii favorevoli. E tanto questa seconda parte
stimavano, che, non bastando loro i rettori ordinari, uno terzo
alcuna volta ne conducevano: donde che, in questi tempi, avevono
condotto estraordinariamente, sotto titolo di Capitano di guardia,
messer Iacopo Gabrielli d'Agobio, e datogli sopra i cittadini ogni
autorità. Costui, ogni giorno, a contemplazione di chi
governava, assai ingiurie faceva; e intra gli ingiuriati messer
Piero de' Bardi e messer Bardo Frescobaldi furono. Costoro, sendo
nobili e naturalmente superbi, non potevono sopportare che uno
forestiere, a torto e a contemplazione di pochi potenti, gli avesse
offesi; e per vendicarsi, contro a lui e chi governava congiurorono:
nella quale congiura molte famiglie nobili con alcune di popolo
furono, ai quali la tirannide di chi governava dispiaceva. L'ordine
dato infra loro era che ciascuno ragunasse assai gente armata in
casa, e la mattina dopo il giorno solenne di Tutti i Santi, quando
ciascuno si truova per i templi a pregare per i suoi morti, pigliare
le armi, ammazzare il Capitano e i primi di quelli che reggevano, e
di poi, con nuovi Signori e con nuovo ordine, lo stato riformare. Ma
perché i partiti pericolosi quanto più si considerano
tanto peggio volentieri si pigliano, interviene sempre che le
congiure che danno spazio di tempo alla esecuzione si scuoprono.
Sendo intra i congiurati messer Andrea de' Bardi, poté
più in lui, nel ripensare la cosa, la paura della pena che la
speranza della vendetta, e scoperse il tutto a Iacopo Alberti suo
cognato; il che Iacopo ai Priori, e i Priori a quelli del reggimento
significorono. E perché la cosa era presso al pericolo, sendo
il giorno di Tutti i Santi propinquo, molti cittadini in Palagio
convennono, e giudicando che fusse pericolo nel differire, volevono
che i Signori sonassero la campana, e il popolo alle armi
convocassero. Era gonfalonieri Taldo Valori, e Francesco Salviati
uno de' Signori: a costoro, per essere parenti de' Bardi, non
piaceva il sonare, allegando non essere bene per ogni leggier cosa
fare armare il popolo, perché la autorità data alla
moltitudine non temperata da alcuno freno non fece mai bene; e che
gli scandoli è muovergli facile, ma frenargli difficile; e
però essere migliore partito intendere prima la verità
della cosa, e civilmente punirla, che volere, con la rovina di
Firenze, tumultuariamente, sopra una semplice relazione,
correggerla. Le quali parole non furono in alcuna parte udite; ma
con modi ingiuriosi e parole villane furono i Signori a sonare
necessitati: al quale suono tutto il popolo alla Piazza armato
corse. Dall'altra parte, i Bardi e Frescobaldi, veggendosi scoperti,
per vincere con gloria o morire sanza vergogna, presono le armi,
sperando potere la parte della città di là dal fiume,
dove avevano le case loro, difendere; e si feciono forti ai ponti,
sperando nel soccorso che dai nobili del contado e altri loro amici
aspettavano. Il quale disegno fu loro guasto dai popolani i quali
quella parte della città con loro abitavano, i quali presono
le armi in favore de' Signori: di modo che, trovandosi tramezzati,
abbandonorono i ponti e si ridussono nella via dove i Bardi
abitavano, come più forte che alcuna altra, e quella
virtuosamente difendevano. Messer Iacopo d'Agobio, sappiendo come
contro a lui era tutta questa congiura, pauroso della morte, tutto
stupido e spaventato, propinquo al palagio de' Signori, in mezzo di
sue genti armate si posava; ma negli altri rettori, dove era meno
colpa, era più animo; e massime nel podestà, che
messer Maffeo da Carradi si chiamava. Costui si presentò dove
si combatteva; e senza avere paura di alcuna cosa, passato il ponte
Rubaconte, intra le spade de' Bardi si misse, e fece segno di volere
parlare loro: donde che la reverenzia dell'uomo, i suoi costumi e le
altre sue grandi qualità feciono ad un tratto fermare le
armi, e quietamente ascoltarlo. Costui, con parole modeste e gravi,
biasimò la congiura loro; mostrò il pericolo nel quale
si trovavano, se non cedevono a questo popolare impeto; dette loro
speranza che sarebbono di poi uditi e con misericordia giudicati;
promisse di essere operatore che alli ragionevoli sdegni loro si
arebbe compassione. Tornato di poi a' Signori, persuase loro che non
volessero vincere con il sangue de' suoi cittadini, e che non gli
volessero, non uditi, giudicare; e tanto operò, che, di
consenso de' Signori, i Bardi e i Frescobaldi, con i loro amici,
abbandonarono la città, e senza essere impediti alle castella
loro si ritornarono. Partitisi costoro e disarmatosi il popolo, i
Signori solo contro a quelli che avevano della famiglia de' Bardi e
Frescobaldi prese le armi procederono; e per spogliarli di potenza,
comperorono dai Bardi il castello di Mangona e di Vernia, e per
legge providono che alcuno cittadino non potesse possedere castella
propinque a Firenze a venti miglia. Pochi mesi di poi fu decapitato
Stiatta Frescobaldi, e molti altri di quella famiglia fatti ribelli.
Non bastò a quelli che governavano avere i Frescobaldi e i
Bardi superati e domi; ma come fanno quasi sempre gli uomini, che
quanto più autorità hanno peggio la usano e più
insolenti diventano, dove prima era uno capitano di guardia che
affliggeva Firenze, ne elessono uno ancora in contado, e con
grandissima autorità, acciò che gli uomini a loro
sospetti non potessero né in Firenze né di fuora
abitare; e in modo si concitorono contro tutti i nobili, ch'eglino
erano apparecchiati a vendere la città e loro, per
vendicarsi, e aspettando la occasione, la venne bene, e loro la
usorono meglio.
33
Era, per i molti travagli i quali erano stati in Toscana e in
Lombardia, pervenuta la città di Lucca sotto la signoria di
Mastino della Scala, signore di Verona; il quale, ancora che per
obligo la avesse a consegnare ai Fiorentini, non la aveva
consegnata, perché, essendo signore di Parma, giudicava
poterla tenere, e della fede data non si curava. Di che i Fiorentini
per vendicarsi, si congiunsono con i Viniziani, e gli feciono tanta
guerra che fu per perderne tutto lo stato suo. Non di meno non ne
risultò loro altra commodità che un poco di
sodisfazione d'animo d'avere battuto Mastino, perché i
Viniziani, come fanno tutti quelli che con i meno potenti si
collegono, poi che ebbono guadagnato Trevigi e Vicenza, senza avere
a' Fiorentini rispetto, si accordorono. Ma avendo poco di poi i
Visconti, signori di Milano, tolto Parma a Mastino, e giudicando
egli per questo non potere più tenere Lucca, deliberò
di venderla. I competitori erano i Fiorentini e i Pisani; e nello
strignere le pratiche, i Pisani vedevano che i Fiorentini, come
più ricchi, erano per ottenerla, e per ciò si volsono
alla forza, e con lo aiuto de' Visconti vi andorono a campo. I
Fiorentini per questo non si ritirorono indietro dalla compera, ma
fermorono con Mastino i patti, pagorono parte de' denari e
d'un'altra parte dierono statichi, e a prendere la possessione Naddo
Rucellai, Giovanni di Bernardino de' Medici e Rosso di Ricciardo de'
Ricci vi mandorono, i quali passorono in Lucca per forza, e dalle
genti di Mastino fu quella città consegnata loro. I Pisani
non di meno seguitorono la loro impresa, e con ogni industria di
averla per forza cercavano, e i Fiorentini dallo assedio liberare la
volevono; e dopo una lunga guerra ne furono i Fiorentini, con
perdita di denari e acquisto di vergogna, cacciati, e i Pisani ne
diventorono signori. La perdita di questa città, come in
simili casi avviene sempre, fece il popolo di Firenze contro a
quelli che governavano sdegnare; e in tutti i luoghi e per tutte le
piazze publicamente gli infamavano accusando la avarizia e i cattivi
consigli loro. Erasi, nel principio di questa guerra, data
autorità a venti cittadini di amministrarla, i quali messer
Malatesta da Rimini per capitano della impresa eletto avevano.
Costui con poco animo e meno prudenza la aveva governata; e
perché eglino avevano mandato a Ruberto re di Napoli per
aiuti, quel re aveva mandato loro Gualtieri duca di Atene, il quale,
come vollono i cieli che al male futuro le cose preparavano,
arrivò in Firenze in quel tempo appunto che la impresa di
Lucca era al tutto perduta. Onde che quelli venti, veggendo sdegnato
il popolo, pensorono, con eleggere nuovo capitano, quello di nuova
speranza riempiere, e con tale elezione, o frenare, o torre le
cagioni del calunniargli; e perché ancora avesse cagione di
temere e il duca di Atene gli potesse con più autorità
difendere, prima per conservadore, di poi per capitano delle loro
genti d'arme lo elessono. I Grandi, i quali, per le cagioni dette di
sopra, vivevono mal contenti, e avendo molti di loro conoscenza con
Gualtieri, quando altre volte in nome di Carlo duca di Calavria
aveva governato Firenze, pensorono che fusse venuto tempo da potere,
con la rovina della città, spegnere lo incendio loro;
giudicando non avere altro modo a domare quel popolo che gli aveva
afflitti, che ridursi sotto un principe, il quale, conosciuta la
virtù dell'una parte e la insolenzia dell'altra, frenasse
l'una, e l'altra remunerasse: a che aggiugnevono la speranza del
bene che ne porgevono i meriti loro, quando per loro opera egli
acquistasse il principato. Furono per tanto in secreto più
volte seco, e lo persuasono a pigliare la signoria del tutto,
offerendogli quelli aiuti potevono maggiori. Alla autorità e
conforti di costoro si aggiunse quella di alcune famiglie popolane;
le quali furono Peruzzi, Acciaiuoli, Antellesi e Buonaccorsi; i
quali, gravati di debiti, non potendo del loro, desideravano di
quello d'altri ai loro debiti sodisfare, e con la servitù
della patria dalla servitù de' loro creditori liberarsi.
Queste persuasioni accesono lo ambizioso animo del Duca di maggiore
desiderio del dominare; e per darsi riputazione di severo e di
giusto, e per questa via accrescersi grazia nella plebe, quelli che
avevano amministrata la guerra di Lucca perseguitava, e a messer
Giovanni de' Medici, Naddo Rucellai e Guglielmo Altoviti tolse la
vita, e molti in esilio, e molti in denari ne condannò.
34
Queste esecuzioni assai i mediocri cittadini sbigottirono, solo ai
Grandi e alla plebe sodisfacevano: questa perché sua natura
è rallegrarsi del male, quelli altri per vedersi vendicare di
tante ingiurie dai popolani ricevute. E quando e' passava per le
strade, con voce alta la franchezza del suo animo era lodata, e
ciascuno publicamente a trovare le fraude de' cittadini e gastigarle
lo confortava. Era l'uffizio de' venti venuto meno, e la reputazione
del Duca grande, e il timore grandissimo; tale che ciascuno, per
mostrarsegli amico, la sua insegna sopra la sua casa faceva
dipignere: né gli mancava ad essere principe altro che il
titolo. E parendogli potere tentare ogni cosa securamente, fece
intendere a' Signori come e' giudicava, per il bene della
città, necessario gli fusse concessa la signoria libera; e
perciò desiderava, poi che tutta la città vi
consentiva, che loro ancora vi consentissero. I Signori, avvenga che
molto innanzi avessero la rovina della patria loro preveduto, tutti
a questa domanda si perturborono, e con tutto che ei conoscessero il
loro pericolo, non di meno per non mancare alla patria, animosamente
gliene negorono. Aveva il Duca, per dare di sé maggior segno
di religione e di umanità, eletto per sua abitazione il
convento de' Fra' Minori di Santa Croce; e desideroso di dare
effetto al maligno suo pensiero, fece per bando publicare che tutto
il popolo, la mattina seguente, fusse alla piazza di Santa Croce,
davanti a lui. Questo bando sbigottì molto più i
Signori, che prima non avevono fatto le parole; e con quelli
cittadini i quali della patria e della libertà giudicavano
amatori si ristrinsono; né pensorono, cognosciute le forze
del Duca, di potervi fare altro rimedio che pregarlo, e vedere, dove
le forze non erano suffizienti, se i preghi o a rimuoverlo dalla
impresa o a fare la sua signoria meno acerba bastavano. Andorono per
tanto parte de' Signori a trovarlo, e uno di loro gli parlò
in questa sentenza: - Noi vegniamo, o Signore, a voi, mossi prima da
le vostre domande, di poi dai comandamenti che voi avete fatti per
ragunare il popolo; perché ci pare essere certi che voi
vogliate estraordinariamente ottenere quello che per lo ordinario
noi non vi abbiamo acconsentito. Né la nostra intenzione
è con alcuna forza opporci ai disegni vostri; ma solo per
dimostrarvi quanto sia per esservi grave il peso che voi vi arrecate
adosso e pericoloso il partito che voi pigliate; acciò che
sempre vi possiate ricordare de' consigli nostri, e di quelli di
coloro i quali altrimenti, non per vostra utilità, ma per
sfogare la rabbia loro, vi consigliono. Voi cercate fare serva una
città la quale è sempre vivuta libera; perché
la signoria che noi concedemmo già ai reali di Napoli fu
compagnia e non servitù: avete voi considerato quanto, in una
città simile a questa, importi e quanto sia gagliardo il nome
della libertà, il quale forza alcuna non doma, tempo alcuno
non consuma e merito alcuno non contrappesa? Pensate, Signore,
quante forze sieno necessarie a tenere serva una tanta città:
quelle che, forestiere, voi potete sempre tenere, non bastano; di
quelle di dentro voi non vi potete fidare, perché quelli che
vi sono ora amici e che a pigliare questo partito vi confortano,
come eglino aranno battuti, con la autorità vostra, i nimici
loro, cercheranno come e' possino spegnere voi e fare principi loro;
la plebe, in la quale voi confidate, per ogni accidente
benché minimo si rivolge: in modo che, in poco tempo, voi
potete temere di avere tutta questa città nimica; il che fia
cagione della rovina sua e vostra. Né potrete a questo male
trovare rimedio; perché quelli signori possono fare la loro
signoria sicura che hanno pochi nimici, i quali o con la morte o con
lo esilio e facile spegnere; ma negli universali odi non si trova
mai sicurtà alcuna, perché tu non sai donde ha a
nascere il male, e chi teme di ogni uomo non si può
assicurare di persona, e se pure tenti di farlo, ti aggravi ne'
pericoli, perché quelli che rimangono si accendono più
nello odio e sono più parati alla vendetta. Che il tempo a
consumare i desideri della libertà non basti è
certissimo: perché s'intende spesso quella essere in una
città da coloro riassunta che mai la gustorono, ma solo per
la memoria che ne avevano lasciata i padri loro la amavano, e
perciò, quella ricuperata, con ogni ostinazione e pericolo
conservano; e quando mai i padri non la avessero ricordata, i palagi
publici, i luoghi de' magistrati, le insegne de' liberi ordini la
ricordano: le quali cose conviene che sieno con massimo desiderio
dai cittadini cognosciute. Quali opere volete voi che sieno le
vostre che contrappesino alla dolcezza del vivere libero, o che
facciano mancare gli uomini del desiderio delle presenti condizioni?
Non se voi aggiugnessi a questo imperio tutta la Toscana, e se ogni
giorno tornassi in questa città trionfante de' nimici nostri:
perché tutta quella gloria non sarebbe sua, ma vostra, e i
cittadini non acquisterebbono sudditi, ma conservi, per i quali si
vederebbono nella servitù raggravare. E quando i costumi
vostri fussero santi, i modi benigni, i giudizi retti, a farvi amare
non basterebbono; e se voi credessi che bastassero v'inganneresti,
perché ad uno consueto a vivere sciolto ogni catena pesa e
ogni legame lo strigne: ancora che trovare uno stato violento con un
principe buono sia impossibile, perché di necessità
conviene o che diventino simili, o che presto l'uno per l'altro
rovini. Voi avete adunque a credere o di avere a tenere con massima
violenza questa città (alla qual cosa le cittadelle, le
guardie, gli amici di fuora molte volte non bastano), o di essere
contento a quella autorità che noi vi abbiamo data. A che noi
vi confortiamo, ricordandovi che quello dominio è solo
durabile che è voluntario: né vogliate, accecato da un
poco di ambizione, condurvi in luogo dove non potendo stare,
né più alto salire, siate, con massimo danno vostro e
nostro, di cadere necessitato.
35
Non mossono in alcuna parte queste parole lo indurato animo del
Duca; e disse non essere sua intenzione di torre la libertà a
quella città, ma rendergliene: perché solo le
città disunite erano serve, e le unite libere; e se Firenze,
per suo ordine, di sette, ambizione e nimicizie si privasse, se le
renderebbe, non torrebbe la libertà; e come a prendere questo
carico non la ambizione sua, ma i prieghi di molti cittadini lo
conducevano; per ciò farebbono eglino bene a contentarsi di
quello che gli altri si contentavano; e quanto a quelli pericoli in
ne' quali per questo poteva incorrere, non gli stimava,
perché gli era ufizio di uomo non buono per timore del male
lasciare il bene, e di pusillanime per un fine dubio non seguire una
gloriosa impresa; e che credeva portarsi in modo che in breve tempo
avere di lui confidato poco e temuto troppo cognoscerebbono.
Convennono adunque i Signori, vedendo di non potere fare altro bene,
che la mattina seguente il popolo si ragunasse sopra la piazza loro;
con la autorità del quale si desse per uno anno al Duca la
signoria, con quelle condizioni che già a Carlo duca di
Calavria si era data. Era l'ottavo giorno di settembre e lo anno
1342, quando il Duca, accompagnato da messer Giovanni della Tosa e
tutti i suoi consorti e da molti altri cittadini, venne in Piazza; e
insieme con la Signoria salì sopra la ringhiera, che
così chiamano i Fiorentini quelli gradi che sono a piè
del palagio de' Signori; dove si lessono al popolo le convenzioni
fatte intra la Signoria e lui. E quando si venne, leggendo, a quella
parte dove per uno anno se gli dava la signoria, si gridò per
il popolo: A VITA. E levandosi messer Francesco Rustichelli, uno de'
Signori, per parlare e mitigare il tumulto, furono con le grida le
parole sue interrotte; in modo che, con il consenso del popolo, non
per uno anno, ma in perpetuo fu eletto signore, e preso e portato
intra la moltitudine, gridando per la Piazza il nome suo. È
consuetudine che quello che è preposto alla guardia del
Palagio stia, in assenzia de' Signori, serrato dentro; al quale
uffizio era allora deputato Rinieri di Giotto: costui, corrotto
dagli amici del Duca, sanza aspettare alcuna forza, lo messe dentro,
e i Signori, sbigottiti e disonorati, se ne tornorono alle case
loro, e il Palagio fu dalla famiglia del Duca saccheggiato, il
gonfalone del popolo stracciato, e le sue insegne sopra il Palagio
poste. Il che seguiva con dolore e noia inestimabile degli uomini
buoni, e con piacere grande di quelli che, o per ignoranza o per
malignità, vi consentivano.
36
Il Duca, acquistato che ebbe la signoria, per torre la
autorità a quelli che solevono della libertà essere
defensori, proibì ai Signori ragunarsi in Palagio, e
consegnò loro una casa privata; tolse le insegne ai
gonfalonieri delle Compagnie del popolo; levò gli ordini
della giustizia contro ai Grandi; liberò i prigioni delle
carcere; fece i Bardi e i Frescobaldi dallo esilio ritornare;
vietò il portare arme a ciascuno, e per potere meglio
difendersi da quelli di dentro, si fece amico a quelli di fuora.
Benificò per tanto assai gli Aretini e tutti gli altri
sottoposti ai Fiorentini; fece pace con i Pisani, ancora che fusse
fatto principe perché facesse loro guerra; tolse gli
assegnamenti a quegli mercatanti che nella guerra di Lucca avevano
prestato alla republica denari. Accrebbe le gabelle vecchie e
creò delle nuove; tolse a' Signori ogni autorità; e i
suoi rettori erano messer Baglione da Perugia e messer Guglielmo da
Scesi, con i quali, e con messer Cerrettieri Bisdomini, si
consigliava. Le taglie che poneva a' cittadini erano gravi, e i
giudicii suoi ingiusti; e quella severità e umanità
che gli aveva finta, in superbia e crudeltà si era
convertita: donde molti cittadini grandi e popolani nobili, o con
danari o morti, o con nuovi modi tormentati erano. E per non si
governare meglio fuora che dentro, ordinò sei rettori per il
contado, i quali battevano e spogliavano i contadini. Aveva i Grandi
a sospetto, ancora che da loro fusse stato benificato e che a molti
di quelli avesse la patria renduta: perché non poteva credere
che i generosi animi, quali sogliono essere nella nobilità,
potessero sotto la sua ubbidienza contentarsi; e per ciò si
volse a benificare la plebe, pensando, con i favori di quella e con
le armi forestiere, potere la tirannide conservare. Venuto per tanto
il mese di maggio, nel qual tempo i popoli sogliono festeggiare,
fece fare alla plebe e popolo minuto più compagnie, alle
quali, onorate di splendidi tituli, dette insegne e danari; donde
una parte di loro andava per la città festeggiando, e l'altra
con grandissima pompa i festeggianti riceveva. Come la fama si
sparse della nuova signoria di costui, molti vennono del sangue
franzese a trovarlo; ed egli a tutti, come a uomini più
fidati, dava condizione; in modo che Firenze in poco tempo divenne,
non solamente suddita ai Franzesi, ma a' costumi e agli abiti loro;
perché gli uomini e le donne, sanza avere riguardo al vivere
civile, o alcuna vergogna, gli imitavano. Ma sopra ogni cosa quello
che dispiaceva era la violenza che egli e i suoi, sanza alcuno
rispetto, alle donne facevano. Vivevano adunque i cittadini pieni di
indegnazione, veggendo la maiestà dello stato loro rovinata,
gli ordini guasti, le leggi annullate, ogni onesto vivere corrotto,
ogni civile modestia spenta: perché coloro che erano consueti
a non vedere alcuna regale pompa non potevono sanza dolore quello di
armati satelliti a piè e a cavallo circundato riscontrare.
Per che, veggendo più da presso la loro vergogna, erano colui
che massimamente odiavano di onorare necessitati: a che si
aggiugneva il timore, veggendo le spesse morti e le continue taglie
con le quali impoveriva e consumava la città. I quali sdegni
e paure erano dal Duca cognosciute e temute; non di meno voleva
mostrare a ciascuno di credere di essere amato: onde occorse che,
avendogli rivelato Matteo di Morozzo, o per gratificarsi quello o
per liberare sé dal pericolo, come la famiglia de' Medici con
alcuni altri aveva contro di lui congiurato, il Duca, non solamente
non ricercò la cosa, ma fece il rivelatore miseramente
morire: per il quale partito tolse animo a quelli che volessero
della sua salute avvertirlo, e lo dette a quelli che cercassero la
sua rovina. Fece ancora tagliare la lingua con tanta crudeltà
a Bettone Cini che se ne morì, per aver biasimate le taglie
che a' cittadini si ponevano: la qual cosa accrebbe a' cittadini lo
sdegno e al Duca l'odio; perché quella città che a
fare e parlare d'ogni cosa e con ogni licenza era consueta, che gli
fussono legate le mani e serrata la bocca sopportare non poteva.
Crebbono adunque questi sdegni in tanto e questi odi, che, non che i
Fiorentini, i quali la libertà mantenere non sanno e la
servitù patire non possono, ma qualunque servile popolo
arebbono alla recuperazione della libertà infiammato. Onde
che molti cittadini, e di ogni qualità, di perdere la vita o
di riavere la loro libertà deliberorono; e in tre parti, di
tre sorte di cittadini, tre congiure si feciono: Grandi, popolani e
artefici; mossi, oltre alle cause universali, da parere ai Grandi
non avere riavuto lo stato, a' popolani averlo perduto, e agli
artefici de' loro guadagni mancare. Era arcivescovo di Firenze
messer Agnolo Acciaiuoli, il quale con le prediche sue aveva
già le opere del Duca magnificato e fattogli appresso al
popolo grandi favori: ma poi che lo vide signore, e i suoi tirannici
modi cognobbe, gli parve avere ingannato la patria sua; e per
emendare il fallo commesso, pensò non avere altro rimedio se
non che quella mano che aveva fatta la ferita la sanasse; e della
prima e più forte congiura si fece capo; nella quale erano i
Bardi, Rossi, Frescobaldi, Scali, Altoviti, Magalotti, Strozzi e
Mancini. Dell'una delle due altre erano principi messer Manno e
Corso Donati; e con questi i Pazzi, Cavicciuli, Cerchi e Albizzi.
Della terza era il primo Antonio Adimari; e con lui Medici, Bordoni,
Rucellai e Aldobrandini. Pensorono costoro di ammazzarlo in casa gli
Albizzi, dove andasse il giorno di Santo Giovanni a vedere correre i
cavagli credevano; ma non vi essendo andato, non riuscì loro.
Pensorono di assaltarlo andando per la città a spasso; ma
vedevono il modo difficile, perché bene accompagnato e armato
andava, e sempre variava le andate, in modo che non si poteva in
alcuno luogo certo aspettarlo. Ragionorono di ucciderlo ne'
Consigli: dove pareva loro rimanere, ancora che fusse morto, a
discrezione delle forze sue. Mentre che intra i congiurati queste
cose si praticavano, Antonio Adimari con alcuni suoi amici sanesi,
per avere da loro gente, si scoperse, manifestando a quelli parte
de' congiurati, affermando tutta la città essere a liberarsi
disposta: onde uno di quelli comunicò la cosa a messer
Francesco Brunelleschi, non per scoprirla, ma per credere che ancora
egli fussi de' congiurati. Messer Francesco, o per paura di
sé, o per odio aveva contro ad altri, rivelò il tutto
al Duca; onde che Pagolo del Mazzeca e Simone da Monterappoli furono
presi; i quali, rivelando la qualità e quantità de'
congiurati, sbigottirono il Duca; e fu consigliato più tosto
gli richiedesse che pigliasse, perché, se se ne fuggivono, se
ne poteva sanza scandolo, con lo esilio, assicurare. Fece per tanto
il Duca richiedere Antonio Adimari; il quale, confidandosi ne'
compagni, subito comparse. Fu sostenuto costui: ed era da messer
Francesco Brunelleschi e messer Uguccione Buondelmonti consigliato
corresse armato la terra, e i presi facesse morire; ma a lui non
parve, parendogli avere a tanti nimici poche forze; e però
prese un altro partito, per il quale, quando gli fusse successo, si
assicurava de' nimici e alle forze provedeva. Era il Duca consueto
richiedere i cittadini, che ne' casi occorrenti lo consigliassero:
avendo per tanto mandato fuora a provedere di gente, fece una listra
di trecento cittadini, e gli fece da' suoi sergenti, sotto colore di
volere consigliarsi con loro, richiedere: e poi che fussero adunati,
o con la morte o con le carcere spegnerli disegnava. La cattura di
Antonio Adimari e il mandare per le genti, il che non si potette
fare secreto, aveva i cittadini, e massime i colpevoli, sbigottito;
onde che da' più arditi fu negato il volere ubbidire. E
perché ciascuno aveva letta la listra, trovavano l'uno
l'altro, e s'inanimivano a prendere le armi, e volere più
tosto morire come uomini, con le armi in mano, che come vitelli
essere alla beccheria condotti: in modo che in poco di ora tutte a
tre le congiure l'una all'altra si scoperse, e deliberorono il
dì seguente, che era il 26 di luglio 1343, fare nascere un
tumulto in Mercato Vecchio, e dopo quello armarsi e chiamare il
popolo alla libertà.
37
Venuto adunque l'altro giorno, al suono di nona, secondo l'ordine
dato, si prese le armi; e il popolo tutto, alla boce della
libertà, si armò; e ciascuno si fece forte nelle sue
contrade, sotto insegne con le armi del popolo, le quali dai
congiurati secretamente erano state fatte. Tutti i capi delle
famiglie, così nobili come popolane, convennono, e la difesa
loro e la morte del Duca giurorono, eccetto che alcuni de'
Buondelmonti e de' Cavalcanti e quelle quattro famiglie di popolo
che a farlo signore erano concorse, i quali, insieme con i beccai e
altri della infima plebe, armati, in Piazza, in favore del Duca
concorsono. A questo romore armò il Duca il Palagio, e i
suoi, che erano in diverse parti alloggiati, salirono a cavallo per
ire in Piazza, e per la via furono in molti luoghi combattuti e
morti; pure circa trecento cavagli vi si condussono. Stava il Duca
dubio s'egli usciva fuori a combattere i nimici, o se, dentro, il
Palagio difendeva. Dall'altra parte i Medici, Cavicciuli, Rucellai e
altre famiglie state più offese da quello, dubitavano che,
s'egli uscisse fuora, molti che gli avieno preso l'armi contro non
se gli scoprissero amici, e desiderosi di torgli la occasione dello
uscire fuora e dello accrescere le forze, fatto testa, assalirono la
Piazza. Alla giunta di costoro, quelle famiglie popolane che si
erano per il Duca scoperte, veggendosi francamente assalire,
mutorono sentenza, poi che al Duca era mutata fortuna, e tutte si
accostorono a' loro cittadini, salvo che messer Uguccione
Buondelmonti, che se ne andò in Palagio, e messer Giannozzo
Cavalcanti il quale, ritiratosi con parte de' suoi consorti in
Mercato Nuovo, salì alto sopra un banco, e pregava il popolo
che armato andava in Piazza, che in favore del Duca vi andasse; e
per sbigottirgli accresceva le sue forze, e gli minacciava che
sarebbono tutti morti, se, ostinati, contro al Signore seguissero la
impresa: né trovando uomo che lo seguitasse, né che
della sua insolenza lo gastigasse veggendo di affaticarsi invano,
per non tentare più la fortuna, dentro alle sue case si
ridusse. La zuffa intanto, in Piazza, intra il popolo e le genti del
Duca, era grande; e benché questa il Palagio aiutasse, furono
vinte; e parte di loro si missono nella podestà de' nimici,
parte, lasciati i cavagli, in Palagio si fuggirono. Mentre che la
Piazza si combatteva, Corso e messer Amerigo Donati, con parte del
popolo, ruppono le Stinche, le scritture del podestà e della
publica camera arsono, saccheggiorono le case de' rettori, e tutti
quelli ministri del Duca che poterono avere ammazzorono. Il Duca da
l'altro canto, vedendosi avere perduta la Piazza, e tutta la
città nimica, e sanza speranza di alcuno aiuto, tentò
se poteva con qualche umano atto guadagnarsi il popolo; e fatto
venire a sé i prigioni, con parole amorevoli e grate gli
liberò; e Antonio Adimari, ancora che con suo dispiacere,
fece cavaliere; fece levare le insegne sue sopra il Palagio e porvi
quelle del popolo: le quali cose, fatte tardi e fuora di tempo,
perché erano forzate e senza grado, gli giovorono poco. Stava
per tanto mal contento, assediato in Palagio, e vedeva come, per
avere voluto troppo, perdeva ogni cosa; e di avere a morire fra
pochi giorni o di fame o di ferro temeva. I cittadini, per dare
forma allo stato, in Santa Reparata si ridussono, e creorono
quattordici cittadini, per metà grandi e popolani, i quali,
con il Vescovo, avessero qualunque autorità di potere lo
stato di Firenze riformare. Elessono ancora sei, i quali
l'autorità dei podestà, tanto che quello che era
eletto venisse, avessero. Erano in Firenze, al soccorso del popolo,
molte genti venute, intra i quali erano Sanesi con sei ambasciadori,
uomini assai nella loro patria onorati. Costoro intra il popolo e il
Duca alcuna convenzione praticorono; ma il popolo recusò ogni
ragionamento d'accordo, se prima non gli era nella sua
potestà dato messer Guglielmo d'Ascesi, e il figliuolo
insieme con messer Cerrettieri Bisdomini, consegnato. Non voleva il
Duca acconsentirlo; pure, minacciato dalle genti che erano rinchiuse
con lui, si lasciò sforzare. Appariscono senza dubbio gli
sdegni maggiori, e sono le ferite più gravi, quando si
recupera una libertà che quando si difende: furono messer
Guglielmo e il figliuolo posti intra le migliaia de' nimici loro; e
il figliuolo non aveva ancora diciotto anni, non di meno la
età, la forma, la innocenza sua non lo poté dalla
furia della moltitudine salvare; e quelli che non poterono ferirgli
vivi, gli ferirono morti; né saziati di straziargli con il
ferro, con le mani e con i denti gli laceravano. E perché
tutti i sensi si sodisfacessero nella vendetta avendo udito prima le
loro querele, veduto le loro ferite, tocco le loro carni lacere,
volevono ancora che il gusto le assaporasse, acciò che, come
tutte le parti di fuora ne erano sazie, quelle di dentro ancora se
ne saziassero. Questo rabbioso furore quanto egli offese costoro,
tanto a messer Cerrettieri fu utile; perché, stracca la
moltitudine nelle crudeltà di questi duoi, di quello non si
ricordò: il quale, non essendo altrimenti domandato, rimase
in Palagio, donde fu la notte poi, da certi suoi parenti e amici, a
salvamento tratto. Sfogata la moltitudine sopra il sangue di costoro
si concluse lo accordo: che il Duca se ne andasse, con i suoi e sue
cose, salvo; e a tutte le ragioni aveva sopra Firenze renunziasse; e
di poi, fuora del dominio, nel Casentino, alla renunzia ratificasse.
Dopo questo accordo, a dì 6 di agosto, partì di
Firenze da molti cittadini accompagnato; e arrivato in Casentino,
alla renunzia, ancora che mal volentieri, ratificò; e non
arebbe osservata la fede, se dal conte Simone non fusse stato di
ricondurlo in Firenze minacciato. Fu questo Duca, come i governi
suoi dimostrorono, avaro e crudele, nelle audienze difficile, nel
rispondere superbo: voleva la servitù, non la benivolenza
degli uomini; e per questo più di essere temuto che amato
desiderava. Né era da essere meno odiosa la sua presenza, che
si fussero i costumi; perché era piccolo, nero, aveva la
barba lunga e rada: tanto che da ogni parte di essere odiato
meritava: onde che, in termine di dieci mesi, i suoi cattivi costumi
gli tolsono quella signoria che i cattivi consigli d'altri gli
avevono data.
38
Questi accidenti seguiti nella città dettono animo a tutte le
terre sottoposte ai Fiorentini di tornare nella loro libertà;
in modo che Arezzo, Castiglione, Pistoia, Volterra, Colle, San
Gimignano si ribellorono: talché Firenze, in un tratto, del
tiranno e del suo dominio priva rimase, e nel recuperare la sua
libertà insegnò a' subietti suoi come potessero
recuperare la loro. Seguita adunque la cacciata del Duca e la
perdita del dominio loro, i quattordici cittadini e il Vescovo
pensorono che fusse più tosto da placare i sudditi loro con
la pace che farsegli inimici con la guerra, e mostrare di essere
contenti della libertà di quelli come della propria.
Mandorono per tanto oratori ad Arezzo, a renunziare allo imperio che
sopra quella città avessero e a fermare con quelli accordo,
acciò che, poi che come sudditi non potevano, come amici
della loro città si valessero. Con l'altre terre ancora in
quel modo che meglio poterono convennono, pure che se le
mantenessero amiche, acciò che loro liberi potessero aiutare
la loro libertà mantenere. Questo partito, prudentemente
preso, ebbe felicissimo fine; perché Arezzo, non dopo molti
anni, tornò sotto lo imperio de' Fiorentini, e l'altre terre,
in pochi mesi, alla pristina ubbidienza si ridussono. E così
si ottiene molte volte più presto e con minori pericoli e
spesa le cose a fuggirle, che con ogni forza e ostinazione
perseguitandole.
39
Posate le cose di fuora, si volsono a quelle di dentro, e dopo
alcuna disputa fatta intra i Grandi e i popolani, conclusono che i
Grandi nella Signoria la terza parte e negli altri ufici la
metà avessero. Era la città, come di sopra
dimostrammo, divisa a sesti, donde che sempre sei Signori, d'ogni
sesto uno, si erano fatti; eccetto che, per alcuni accidenti, alcuna
volta dodici o tredici se ne erano creati, ma poco di poi erano
tornati a sei. Parve per tanto da riformarla in questa parte,
sì per essere i sesti male distribuiti, sì
perché, volendo dare la parte ai Grandi, il numero de'
Signori accrescere conveniva. Divisono per tanto la città a
quartieri, e di ciascuno creorono tre Signori; lasciorono indietro
il gonfalonieri della giustizia e quelli delle Compagnie del popolo,
e in cambio de' dodici buoni uomini, otto consiglieri, quattro di
ciascuna sorte, creorono. Fermato, con questo ordine, questo
governo, si sarebbe la città posata, se i Grandi fussero
stati contenti a vivere con quella modestia che nella vita civile si
richiede; ma eglino il contrario operavano; perché, privati,
non volevono compagni, e ne' magistrati volevono essere signori; e
ogni giorno nasceva qualche esemplo della loro insolenzia e
superbia: la qual cosa al popolo dispiaceva; e si doleva che, per
uno tiranno che era spento, n'erano nati mille. Crebbono adunque
tanto da l'una parte le insolenzie e da l'altra gli sdegni, che i
capi de' popolani mostrorono al Vescovo la disonestà de'
Grandi e la non buona compagnia che al popolo facevano, e lo
persuasono volesse operare che i Grandi di avere la parte negli
altri ufici si contentassero, e al popolo il magistrato de' Signori
solamente lasciassero. Era il Vescovo naturalmente buono, ma facile
ora in questa ora in quell'altra parte a rivoltarlo: di qui era nato
che, ad instanzia de' suoi consorti, aveva prima il Duca di Atene
favorito, di poi, per consiglio d'altri cittadini, gli aveva
congiurato contro; aveva, nella riforma dello stato, favorito i
Grandi, e così ora gli pareva di favorire il popolo, mosso da
quelle ragioni gli furono da quelli cittadini popolani riferite. E
credendo trovare in altri quella poca stabilità che era in
lui, di condurre la cosa d'accordo si persuase, e convocò i
quattordici, i quali ancora non avevono perduta l'autorità, e
con quelle parole seppe migliori gli confortò a volere cedere
il grado della Signoria al popolo, promettendone la quiete della
città, altrimenti la rovina e il disfacimento loro. Queste
parole alterorono forte l'animo de' Grandi; e messer Ridolfo de'
Bardi con parole aspre lo riprese, chiamandolo uomo di poca fede, e
rimproverandogli l'amicizia del Duca come leggieri e la cacciata di
quello come traditore; e gli concluse che quelli onori ch'eglino
avevono con loro pericolo acquistati volevono con loro pericolo
difendere. E partitosi alterato, con gli altri, dal Vescovo, ai suoi
consorti e a tutte le famiglie nobili lo fece intendere. I popolani
ancora agli altri la mente loro significorono, e mentre i Grandi si
ordinavano, con gli aiuti, alla difesa de' loro Signori, non parve
al popolo di aspettare che fussero ad ordine, e corse armato al
Palagio, gridando che voleva che i Grandi rinunziassero al
magistrato. Il romore e il tumulto era grande: i Signori si vedevono
abbandonati, perché i Grandi, veggendo tutto il popolo
armato, non si ardirono a pigliare le armi, e ciascuno si stette
dentro alle case sue; di modo che i Signori popolani, avendo fatto
prima forza di quietare il popolo, affermando quelli loro compagni
essere uomini modesti e buoni, e non avendo potuto per meno reo
partito alle case loro gli rimandorono, dove con fatica salvi si
condussono. Partiti i Grandi di Palagio, fu tolto ancora l'uficio ai
quattro consiglieri grandi, e fecionne infino in dodici popolani; e
gli otto Signori che restorono feciono uno gonfaloniere di giustizia
e sedici gonfalonieri delle Compagnie del popolo, e riformorono i
Consigli in modo che tutto il governo nello arbitrio del popolo
rimase.
40
Era, quando queste cose seguirono, carestia grande nella
città; di modo che i Grandi e il popolo minuto erano mal
contenti, questo per la fame, quelli per avere perdute le
dignità loro: la qual cosa dette animo a messer Andrea
Strozzi di potere occupare la libertà della città.
Costui vendeva il suo grano minore pregio che gli altri, e per
questo alle sue case molte genti concorrevano; tanto che prese
ardire di montare una mattina a cavallo, e con alquanti di quelli
dietro, chiamare il popolo alle armi; e in poco di ora ragunò
più di 4000 uomini insieme, con i quali se n'andò in
piazza de' Signori, e che fusse loro aperto il Palagio domandava. Ma
i Signori, con le minacce e con le armi, dalla Piazza gli
discostorono; di poi talmente con i bandi gli sbigottirono, che a
poco a poco ciascuno si tornò alle case sue, di modo che
messer Andrea, ritrovandosi solo potette con fatica, fuggendo, dalle
mani de' magistrati salvarsi. Questo accidente, ancora che fusse
temerario e che gli avesse avuto quel fine che sogliono simili moti
avere, dette speranza ai Grandi di potere sforzare il popolo,
veggendo che la plebe minuta era in discordia con quello; e per non
perdere questa occasione, armarsi di ogni sorte aiuti conclusono,
per riavere per forza ragionevolmente quello che ingiustamente, per
forza, era stato loro tolto. E crebbono in tanta confidenza del
vincere, che palesemente si provedevono d'armi, affortificavano le
loro case, mandavano ai loro amici, infino in Lombardia, per aiuti.
Il popolo ancora, insieme con i Signori, faceva i suoi provedimenti,
armandosi e a Perugini e a Sanesi chiedendo soccorso. Già
erano degli aiuti e all'una e all'altra parte comparsi: la
città tutta era in arme: avevano fatto i Grandi di qua d'Arno
testa in tre parti: alle case de' Cavicciuli propinque a San
Giovanni, alle case de' Pazzi e de' Donati a San Piero Maggiore, a
quelle de' Cavalcanti in Mercato Nuovo; quegli di là d'Arno
s'erano fatti forti ai ponti e nelle strade delle case loro: i Nerli
il ponte alla Carraia, i Frescobaldi e Mannegli Santa
Trinità, i Rossi e Bardi il Ponte Vecchio e Rubaconte
difendevano. I popolani, da l'altra parte, sotto il gonfalone della
giustizia e le insegne delle Compagnie del popolo si ragunorono.
41
E stando in questa maniera, non parve al popolo di differire
più la zuffa; e i primi che si mossono furono i Medici e i
Rondinegli i quali assalirono i Cavicciuli da quella parte che, per
la piazza di San Giovanni, entra alle case loro. Quivi la zuffa fu
grande, perché dalle torri erano percossi con i sassi, e da
basso con le balestre feriti. Durò questa battaglia tre ore;
e tuttavia il popolo cresceva, tanto che i Cavicciuli, veggendosi
dalla moltitudine sopraffare, e mancare di aiuti, si sbigottirono e
si rimissono nella podestà del popolo; il quale salvò
loro le case e le sustanze; solo tolse loro le armi, e a quelli
comandò che per le case de' popolani loro parenti e amici,
disarmati, si dividessero. Vinto questo primo assalto, furono i
Donati e i Pazzi ancora loro facilmente vinti per essere meno
potenti di quelli. Solo restavano, di qua d'Arno, i Cavalcanti i
quali di uomini e di sito erano forti: non di meno, vedendosi tutti
i gonfaloni contro, e gli altri da tre gonfaloni soli essere stati
superati, senza fare molta difesa si arrenderono. Erano già
le tre parti della città nelle mani del popolo: restavane una
nel potere de' Grandi ma la più difficile, sì per la
potenza di quelli che la difendevano, sì per il sito, sendo
dal fiume d'Arno guardata; talmente che bisognava vincere i ponti, i
quali ne' modi di sopra dimostri erano difesi. Fu per tanto il Ponte
Vecchio il primo assaltato; il quale fu gagliardamente difeso,
perché le torri armate, le vie sbarrate e le sbarre da
ferocissimi uomini guardate erano: tanto che il popolo fu con grave
suo danno ributtato. Conosciuto per tanto come quivi si affaticavano
invano, tentorono di passare per il ponte Rubaconte; e trovandovi le
medesime difficultà, lasciati alla guardia di questi duoi
ponti quattro gonfaloni, con gli altri il ponte alla Carraia
assalirono. E benché i Nerli virilmente si difendessero, non
potettono il furore del popolo sostenere, sì per essere il
ponte (non avendo torri che lo difendessero) più debole,
sì perché i Capponi e l'altre famiglie popolane loro
vicine gli assalirono: talché, essendo da ogni parte
percossi, abbandonorono le sbarre e dettono la via al popolo; il
quale, dopo questi, i Rossi e i Frescobaldi vinse: per che tutti i
popolani di là d'Arno con i vincitori si congiunsono.
Restavano adunque solo i Bardi, i quali né la rovina degli
altri, né l'unione del popolo contro di loro, né la
poca speranza degli aiuti poté sbigottire; e vollono
più tosto, combattendo, o morire o vedere le loro case ardere
e saccheggiare, che volontariamente allo arbitrio de' loro nimici
sottomettersi. Defendevonsi per tanto in modo che il popolo
tentò più volte invano, o dal Ponte Vecchio o dal
ponte Rubaconte, vincerli; e sempre fu con la morte e ferite di
molti ributtato. Erasi, per i tempi adietro, fatto una strada per la
quale si poteva dalla Via Romana, andando intra le case de' Pitti,
alle mura poste sopra il colle di San Giorgio pervenire: per questa
via il popolo mandò sei gonfaloni, con ordine che dalla parte
di dietro le case de' Bardi assalissero. Questo assalto fece a'
Bardi mancare di animo e al popolo vincere la impresa;
perché, come quelli che guardavano le sbarre delle strade
sentirono le loro case essere combattute, abbandonorono la zuffa e
corsono alla difesa di quelle. Questo fece che la sbarra del Ponte
Vecchio fu vinta e i Bardi da ogni parte messi in fuga; i quali da'
Quaratesi, Panzanesi e Mozzi furono ricevuti. Il popolo intanto, e
di quello la parte più ignobile, assetato di preda,
spogliò e saccheggiò tutte le loro case, e i loro
palagi e torri disfece e arse con tanta rabbia che qualunque
più al nome fiorentino crudele nimico si sarebbe di tanta
rovina vergognato.
42
Vinti i Grandi, riordinò il popolo lo stato; e perché
gli era di tre sorte popolo, potente, mediocre e basso, si
ordinò che i potenti avessero duoi Signori, tre i mediocri e
tre i bassi; e il gonfaloniere fusse ora dell'una ora dell'altra
sorte. Oltra di questo, tutti gli ordini della giustizia contro ai
Grandi si riassunsono; e per fargli più deboli, molti di loro
intra la popolare moltitudine mescolorono. Questa rovina de' nobili
fu sì grande e in modo afflisse la parte loro, che mai poi a
pigliare le armi contro al popolo si ardirono, anzi continuamente
più umani e abietti diventorono. Il che fu cagione che
Firenze, non solamente di armi, ma di ogni generosità si
spogliasse. Mantennesi la città, dopo questa rovina, quieta
infino all'anno 1353; nel corso del qual tempo seguì quella
memorabile pestilenza da messer Giovanni Boccaccio con tanta
eloquenzia celebrata, per la quale in Firenze più che
novantaseimila anime mancarono. Feciono ancora i Fiorentini la prima
guerra con i Visconti, mediante la ambizione dello Arcivescovo,
allora principe in Milano; la quale guerra come prima fu fornita, le
parti dentro alla città cominciorono; e benché fusse
la nobilità distrutta, non di meno alla fortuna non mancorono
modi a fare rinascere, per nuove divisioni, nuovi travagli.
LIBRO TERZO
1
Le gravi e naturali nimicizie che sono intra gli uomini popolari e i
nobili, causate da il volere questi comandare e quelli non ubbidire,
sono cagione di tutti i mali che nascano nelle città;
perché da questa diversità di umori tutte le altre
cose che perturbano le republiche prendano il nutrimento loro.
Questo tenne disunita Roma; questo, se gli è lecito le cose
piccole alle grandi agguagliare, ha tenuto diviso Firenze; avvenga
che nell'una e nell'altra città diversi effetti partorissero:
perché le nimicizie che furono nel principio in Roma intra il
popolo e i nobili, disputando; quelle di Firenze combattendo si
diffinivano, quelle di Roma con una legge, quelle di Firenze con lo
esilio e con la morte di molti cittadini terminavano; quelle di Roma
sempre la virtù militare accrebbono, quelle di Firenze al
tutto la spensono; quelle di Roma da una ugualità di
cittadini in una disaguaglianza grandissima quella città
condussono, quelle di Firenze da una disaguaglianza ad una mirabile
ugualità l'hanno ridutta. La quale diversità di
effetti conviene che sia dai diversi fini che hanno avuto questi
duoi popoli causata: perché il popolo di Roma godere i
supremi onori insieme con i nobili desiderava; quello di Firenze per
essere solo nel governo, sanza che i nobili ne participassero,
combatteva. E perché il desiderio del popolo romano era
più ragionevole, venivano ad essere le offese ai nobili
più sopportabili, tale che quella nobilità facilmente
e sanza venire alle armi cedeva; di modo che, dopo alcuni dispareri,
a creare una legge dove si sodisfacesse al popolo e i nobili nelle
loro dignità rimanessero convenivano. Da l'altro canto, il
desiderio del popolo fiorentino era ingiurioso e ingiusto, tale che
la nobilità con maggiori forze alle sue difese si preparava,
e per ciò al sangue e allo esilio si veniva de' cittadini; e
quelle leggi che di poi si creavano, non a comune utilità, ma
tutte in favore del vincitore si ordinavano. Da questo ancora
procedeva che nelle vittorie del popolo la città di Roma
più virtuosa diventava; perché, potendo i popolani
essere alla amministrazione de' magistrati, degli eserciti e degli
imperii con i nobili preposti, di quella medesima virtù che
erano quelli si riempievano, e quella città, crescendovi la
virtù, cresceva potenza; ma in Firenze, vincendo il popolo, i
nobili privi de' magistrati rimanevano; e volendo racquistargli, era
loro necessario, con i governi, con lo animo e con il modo del
vivere, simili ai popolani non solamente essere ma parere. Di qui
nasceva le variazioni delle insegne, le mutazioni de' tituli delle
famiglie, che i nobili, per parere di popolo, facevano; tanto che
quella virtù delle armi e generosità di animo che era
nella nobilità si spegneva, e nel popolo, dove la non era,
non si poteva raccendere, tal che Firenze sempre più umile e
più abietto divenne. E dove Roma, sendosi quella loro
virtù convertita in superbia, si ridusse in termine che sanza
avere un principe non si poteva mantenere, Firenze a quel grado
è pervenuta, che facilmente da uno savio datore di leggie
potrebbe essere in qualunque forma di governo riordinata. Le quali
cose per la lezione del precedente libro in parte si possono
chiaramente cognoscere, avendo mostro il nascimento di Firenze e il
principio della sua libertà, con le cagioni delle divisioni
di quella, e come le parti de' nobili e del popolo con la tirannide
del Duca di Atene e con la rovina della nobilità finirono.
Restano ora a narrarsi le inimicizie intra il popolo e la plebe, e
gli accidenti varii che quelle produssono.
2
Doma che fu la potenzia de' nobili, e finita che fu la guerra con lo
Arcivescovo di Milano, non pareva che in Firenze alcuna cagione di
scandolo fusse rimasa. Ma la mala fortuna della nostra città
e i non buoni ordini suoi feciono intra la famiglia degli Albizzi e
quella de' Ricci nascere inimicizia; la quale divise Firenze, come
prima quella de' Buondelmonti e Uberti, e di poi de' Donati e de'
Cerchi aveva divisa. I pontefici, i quali allora stavano in Francia,
e gli imperadori, che erano nella Magna, per mantenere la
reputazione loro in Italia in varii tempi moltitudine di soldati di
varie nazioni ci avevano mandati; tale che in questi tempi ci si
trovavano Inghilesi, Tedeschi e Brettoni. Costoro, come, per essere
finite le guerre, sanza soldo rimanevono, dietro ad una insegna di
ventura, questo e quell'altro principe taglieggiavano. Venne per
tanto, l'anno 1353, una di queste compagnie in Toscana, capitaneata
da Monreale provenzale; la cui venuta tutte le città di
quella provincia spaventò, e i Fiorentini, non solamente
publicamente di gente si providdono, ma molti cittadini, intra'
quali furono gli Albizzi e i Ricci, per salute propria si armorono.
Questi intra loro erano pieni di odio, e ciascuno pensava, per
ottenere il principato nella repubblica, come potesse opprimere
l'altro: non erano per ciò ancora venuti alle armi, ma
solamente ne' magistrati e ne' Consigli si urtavano. Trovandosi
adunque tutta la città armata, nacque a sorte una quistione
in Mercato Vecchio, dove assai gente secondo che in simili accidenti
si costuma, concorse. E spargendosi il romore, fu apportato ai Ricci
come gli Albizzi gli assalivano, e agli Albizzi che i Ricci gli
venivano a trovare; per la qual cosa tutta la città si
sollevò, e i magistrati con fatica poterono l'una e l'altra
famiglia frenare, acciò che in fatto non seguisse quella
zuffa che a caso, e senza colpa di alcuno di loro, era stata
diffamata. Questo accidente, ancora che debile, fece riaccendere
più gli animi loro, e con maggiore diligenzia cercare
ciascuno di acquistarsi partigiani. E perché già i
cittadini, per la rovina de' Grandi, erano in tanta ugualità
venuti che i magistrati erano, più che per lo adietro non
solevano, reveriti, disegnavano per la via ordinaria e sanza privata
violenza prevalersi.
3
Noi abbiamo narrato davanti come, dopo la vittoria di Carlo I, si
creò il magistrato di Parte guelfa e a quello si dette grande
autorità sopra i Ghibellini; la quale il tempo, i varii
accidenti e le nuove divisioni avevano talmente messa in oblivione,
che molti discesi di Ghibellini i primi magistrati esercitavano.
Uguccione de' Ricci per tanto, capo di quella famiglia, operò
che si rinnovasse la legge contro a' Ghibellini; intra i quali era
opinione di molti fussero gli Albizzi, i quali, molti anni adietro
nati in Arezzo, ad abitare a Firenze erano venuti; onde che
Uguccione pensò, rinnovando questa legge, privare gli Albizzi
de' magistrati, disponendosi per quella che qualunque disceso di
Ghibellino fusse condannato se alcuno magistrato esercitasse. Questo
disegno di Uguccione fu a Piero di Filippo degli Albizzi scoperto; e
pensò di favorirlo, giudicando che, opponendosi, per se
stesso si chiarirebbe ghibellino. Questa legge per tanto, rinnovata
per la ambizione di costoro, non tolse, ma dette a Piero degli
Albizzi riputazione, e fu di molti mali principio: né si
può fare legge per una republica più dannosa che
quella che riguarda assai tempo indietro. Avendo adunque Piero
favorita la legge, quello che da i suoi nimici era stato trovato per
suo impedimento gli fu via alla sua grandezza; perché,
fattosi principe di questo nuovo ordine, sempre prese più
autorità, sendo da questa nuova setta di Guelfi prima che
alcuno altro favorito. E perché non si trovava magistrato che
ricercasse quali fussero i Ghibellini, e per ciò la legge
fatta non era di molto valore, provide che si desse autorità
ai Capitani di chiarire i Ghibellini, e chiariti, significare loro,
e ammunirgli, che non prendessero alcuno magistrato; alla quale
ammunizione se non ubbidissero, rimanessero condennati. Da questo
nacque che di poi tutti quelli che in Firenze sono privi di potere
esercitare i magistrati si chiamano ammuniti. Ai Capitani adunque
sendo con il tempo cresciuta la audacia, senza alcuno rispetto, non
solamente quelli che lo meritavano ammunivano, ma qualunque pareva
loro, mossi da qualsivoglia avara o ambiziosa cagione; e da il 1357,
che era cominciato questo ordine, al '66, si trovavano di già
ammuniti più che 200 cittadini. Donde i Capitani e la setta
de' Guelfi era diventata potente, perché ciascuno, per timore
di non essere ammunito, gli onorava, e massimamente i capi di
quella, i quali erano Piero degli Albizzi, messer Lapo da
Castiglionchio e Carlo Strozzi. E avvenga che questo modo di
procedere insolente dispiacesse a molti, i Ricci infra gli altri
erano peggio contenti che alcuno, parendo loro essere stati di
questo disordine cagione, per il quale vedevono rovinare la
republica e gli Albizzi, loro nimici, essere, contro a' disegni
loro, diventati potentissimi.
4
Per tanto, trovandosi Uguccione de' Ricci de' Signori, volle por
fine a quel male di che egli e gli altri suoi erano stati principio,
e con nuova legge provide che a' sei capitani di parte tre si
aggiugnessero, de' quali ne fussero duoi de' minori artefici; e
volle che i chiariti ghibellini avessero ad essere da ventiquattro
cittadini guelfi a ciò deputati confermati. Questo
provedimento temperò per allora in buona parte la potenza de'
Capitani; di modo che lo ammunire in maggiore parte mancò, e
se pure ne ammunivano alcuni, erano pochi. Non di meno le sette di
Albizzi e Ricci vegghiavano; e leghe, imprese, deliberazioni l'una
per odio dell'altra disfavorivano. Vissesi adunque con simili
travagli da il 1366 al '71, nel qual tempo la setta de' Guelfi
riprese le forze. Era nella famiglia de' Buondelmonti uno cavaliere
chiamato messer Benchi, il quale, per i suoi meriti in una guerra
contro ai Pisani, era stato fatto popolano, e per questo era a
potere essere de' Signori abile diventato; e quando egli aspettava
di sedere in quel magistrato, si fece una legge, che niuno Grande
fatto popolano lo potesse esercitare. Questo fatto offese assai
messer Benchi, e accozzatosi con Piero degli Albizzi, deliberorono
con lo ammunire battere i minori popolani e rimanere soli nel
governo. E per il favore che messer Benchi aveva con la antica
nobilità, e per quello che Piero aveva con la maggiore parte
de' popolani potenti, feciono ripigliare le forze alla setta de'
Guelfi, e con nuove riforme fatte nella Parte ordinorono in modo la
cosa che potevono de' Capitani e de' ventiquattro cittadini a loro
modo disporre. Donde che si ritornò ad ammunire con
più audacia che prima; e la casa degli Albizzi, come capo di
questa setta, sempre cresceva. Da l'altro canto, i Ricci non
mancavano di impedire con gli amici, in quanto potevano, i disegni
loro; tanto che si viveva in sospetto grandissimo, e temevasi per
ciascuno ogni rovina.
5
Onde che molti cittadini, mossi dallo amore della patria, in San
Piero Scheraggio si ragunorono, e ragionato infra loro assai di
questi disordini, ai Signori ne andorono, ai quali uno di loro, di
più autorità, parlò in questa sentenza: -
Dubitavamo molti di noi, magnifici Signori, di essere insieme,
ancora che per cagione publica, per ordine privato; giudicando
potere, o come prosuntuosi essere notati, o come ambiziosi
condannati; ma considerato poi che ogni giorno, e senza alcuno
riguardo, molti cittadini per le logge e per le case, non per alcuna
publica utilità, ma per loro propria ambizione convengano,
giudicammo, poi che quegli che per la rovina della republica si
ristringono non temano, che non avessino ancora da temere quelli che
per bene e utilità publica si ragunano; né quello che
altri si giudichi di noi ci curiamo, poi che gli altri quello che
noi possiamo giudicare di loro non stimano. Lo amore che noi
portiamo, magnifici Signori, alla patria nostra ci ha fatti prima
ristrignere e ora ci fa venire a voi per ragionare di quel male che
si vede già grande e che tuttavia cresce in questa nostra
republica, e per offerirci presti ad aiutarvi spegnerlo. Il che vi
potrebbe, ancora che la impresa paia difficile, riuscire, quando voi
vogliate lasciare indietro i privati rispetti e usare con le
publiche forze la vostra autorità. La comune corruzione di
tutte le città di Italia, magnifici Signori, ha corrotta e
tuttavia corrompe la vostra città; perché, da poi che
questa provincia si trasse di sotto alle forze dello Imperio, le
città di quella, non avendo un freno potente che le
correggessi, hanno, non come libere, ma come divise in sette, gli
stati e governi loro ordinati. Da questo sono nati tutti gli altri
mali, tutti gli altri disordini che in esse appariscono. In prima
non si truova intra i loro cittadini né unione né
amicizia, se non intra quelli che sono di qualche sceleratezza, o
contro alla patria o contro ai privati commessa, consapevoli. E
perché in tutti la religione e il timore di Dio è
spento, il giuramento e la fede data tanto basta quanto l'utile: di
che gli uomini si vagliano, non per osservarlo, ma perché sia
mezzo a potere più facilmente ingannare; e quanto lo inganno
riesce più facile e securo, tanta più gloria e loda se
ne acquista: per questo gli uomini nocivi sono come industriosi
lodati e i buoni come sciocchi biasimati. E veramente in nelle
città di Italia tutto quello che può essere corrotto e
che può corrompere altri si raccozza: i giovani sono oziosi,
i vecchi lascivi, e ogni sesso e ogni età è piena di
brutti costumi; a che le leggi buone, per essere da le cattive
usanze guaste, non rimediano. Di qui nasce quella avarizia che si
vede ne' cittadini, e quello appetito, non di vera gloria, ma di
vituperosi onori, dal quale dependono gli odi, le nimicizie, i
dispareri, le sette; dalle quali nasce morti, esili, afflizioni de'
buoni, esaltazioni de' tristi. Perché i buoni, confidatisi
nella innocenzia loro, non cercono, come i cattivi, di chi
estraordinariamente gli difenda e onori, tanto che indefesi e
inonorati rovinano. Da questo esemplo nasce lo amore delle parti e
la potenza di quelle; perché i cattivi per avarizia e per
ambizione, i buoni per necessità le seguano. E quello che
è più pernizioso è vedere come i motori e
principi di esse la intenzione e fine loro con un piatoso vocabolo
adonestano, perché sempre, ancora che tutti sieno alla
libertà nimici, quella, o sotto colore di stato di ottimati o
di popolare defendendo, opprimano. Perché il premio il quale
della vittoria desiderano è, non la gloria dello avere
liberata la città, ma la sodisfazione di avere superati gli
altri e il principato di quella usurpato; dove condotti, non
è cosa sì ingiusta, sì crudele o avara, che
fare non ardischino. Di qui gli ordini e le leggi, non per publica,
ma per propria utilità si fanno; di qui le guerre, le paci,
le amicizie, non per gloria comune, ma per sodisfazione di pochi si
deliberano. E se le altre città sono di questi disordini
ripiene, la nostra ne è più che alcuna altra
macchiata; perché le leggi, gli statuti, gli ordini civili,
non secondo il vivere libero, ma secondo la ambizione di quella
parte che è rimasa superiore, si sono in quella sempre
ordinati e ordinano. Onde nasce che sempre, cacciata una parte e
spenta una divisione, ne surge un'altra; perché quella
città che con le sette più che con le leggi si vuol
mantenere, come una setta è rimasa in essa sanza opposizione,
di necessità conviene che infra se medesima si divida;
perché da quelli modi privati non si può difendere i
quali essa per sua salute prima aveva ordinati. E che questo sia
vero le antiche e moderne divisioni della nostra città lo
dimostrano. Ciascuno credeva, destrutti che furono i Ghibellini, i
Guelfi di poi lungamente felici e onorati vivessero; non di meno,
dopo poco tempo, in Bianchi e in Neri si divisono. Vinti di poi i
Bianchi, non mai stette la città sanza parti: ora per
favorire i fuori usciti, ora per le nimicizie del popolo e de'
Grandi, sempre combattemmo; e per dare ad altri quello che d'accordo
per noi medesimi possedere o non volavamo o non potavamo, ora al re
Ruberto, ora al fratello, ora al figliuolo, e in ultimo al Duca di
Atene, la nostra libertà sottomettemmo. Non di meno in alcuno
stato mai non ci riposammo, come quelli che non siamo mai stati
d'accordo a vivere liberi e di essere servi non ci contentiamo.
Né dubitammo (tanto sono i nostri ordini disposti alle
divisioni), vivendo ancora sotto la ubbidienza del Re, la
maestà sua ad un vilissimo uomo nato in Agobio posporre. Del
Duca di Atene non si debbe, per onore di questa città,
ricordare; il cui acerbo e tirannico animo ci doveva fare savi e
insegnare vivere: non di meno, come prima e' fu cacciato, noi avemmo
le armi in mano, e con più odio e maggiore rabbia che mai
alcuna altra volta insieme combattuto avessimo, combattemmo; tanto
che l'antica nobilità nostra rimase vinta e nello arbitrio
del popolo si rimisse. Né si credette per molti che mai
alcuna cagione di scandolo o di parte nascesse più in Firenze
sendo posto freno a quelli che per la loro superbia e insopportabile
ambizione pareva che ne fussero cagione; ma e' si vede ora per
esperienza quanto la opinione degli uomini è fallace e il
giudizio falso; perché la superbia e ambizione de' Grandi non
si spense, ma da' nostri popolani fu loro tolta i quali ora, secondo
l'uso degli uomini ambiziosi, di ottenere il primo grado nella
republica cercano; né avendo altri modi ad occuparlo che le
discordie, hanno di nuovo divisa la città, e il nome guelfo e
ghibellino, che era spento, e che era bene non fusse mai stato in
questa republica, risuscitano. Egli è dato di sopra,
acciò che nelle cose umane non sia nulla o perpetuo o quieto,
che in tutte le republiche sieno famiglie fatali, le quali naschino
per la rovina di quelle. Di queste la republica nostra, più
che alcuna altra, è stata copiosa, perché non una, ma
molte, l'hanno perturbata e afflitta, come feciono i Buondelmonti
prima e Uberti, di poi i Donati e i Cerchi; e ora, oh cosa
vergognosa e ridicula! i Ricci e gli Albizzi la perturbono e
dividono. Noi non vi abbiamo ricordati i costumi corrotti e le
antiche e continue divisioni nostre per sbigottirvi, ma per
ricordarvi le cagioni di esse e dimostrarvi che, come voi ve ne
potete ricordare, noi ce ne ricordiamo e per dirvi che lo esemplo di
quelle non vi debbe fare diffidare di potere frenare queste.
Perché in quelle famiglie antiche era tanta grande la
potenza, e tanti grandi i favori che le avevano dai principi, che
gli ordini e modi civili a frenarle non bastavano; ma ora che lo
Imperio non ci ha forze, il papa non si teme, e che la Italia tutta
e questa città è condotta in tanta ugualità che
per lei medesima si può reggere, non ci è molta
difficultà. E questa nostra republica massimamente si
può, non ostante gli antichi esempli che ci sono in
contrario, non solamente mantenere unita, ma di buoni costumi e
civili modi riformare, pure che Vostre Signorie si disponghino a
volerlo fare. A che noi, mossi dalla carità della patria, non
da alcuna privata passione, vi confortiamo. E benché la
corruzione di essa sia grande, spegnete per ora quel male che ci
ammorba, quella rabbia che ci consuma, quel veleno che ci uccide; e
imputate i disordini antichi, non alla natura degli uomini, ma ad i
tempi; i quali sendo variati, potete sperare alla vostra
città, mediante i migliori ordini, migliore fortuna. La
malignità della quale si può con la prudenza vincere,
ponendo freno alla ambizione di costoro, e annullando quelli ordini
che sono delle sette nutritori, e prendendo quelli che al vero
vivere libero e civile sono conformi. E siate contenti più
tosto farlo ora con la benignità delle leggi, che,
differendo, con il favore delle armi gli uomini sieno a farlo
necessitati.
6
I Signori, mossi da quello che prima per loro medesimi cognoscevono,
e di poi dalla autorità e conforti di costoro, dettono
autorità a cinquantasei cittadini, perché alla salute
della republica provedessero. Egli è verissimo che gli assai
uomini sono più atti a conservare uno ordine buono che a
saperlo per loro medesimi trovare. Questi cittadini pensorono
più a spegnere le presenti sette che a torre via le cagioni
delle future, tanto che né l'una cosa né l'altra
conseguirono; perché le cagioni delle nuove non levorono, e
di quelle che vegghiavano una più potente che l'altra, con
maggiore pericolo della republica, feciono. Privorono per tanto di
tutti i magistrati, eccetto che di quelli della Parte guelfa, per
tre anni, tre della famiglia degli Albizzi e tre di quella de'
Ricci, intra i quali Piero degli Albizzi e Uguccione de' Ricci
furono; proibirono a tutti i cittadini entrare in Palagio, eccetto
che ne' tempi che i magistrati sedevano; providono che qualunque
fusse battuto, o impeditagli la possessione de' suoi beni, potesse,
con una domanda, accusarlo ai Consigli e farlo chiarire de' Grandi,
e, chiarito, sottoporlo ai carichi loro. Questa provisione tolse lo
ardire alla setta de' Ricci e a quella degli Albizzi lo accrebbe;
perché, avvenga che ugualmente fussero segnate, non di meno i
Ricci assai più ne patirono; perché, se a Piero fu
chiuso il palagio de' Signori, quello de' Guelfi, dove gli aveva
grandissima autorità, gli rimase aperto; e se prima egli e
chi lo seguiva erano allo ammunire caldi, diventorono, dopo questa
ingiuria, caldissimi. Alla quale mala volontà ancora nuove
cagioni si aggiunsono.
7
Sedeva nel pontificato papa Gregorio XI, il quale, trovandosi ad
Avignone, governava, come gli antecessori suoi avevano fatto, la
Italia per legati; i quali, pieni di avarizia e di superbia, avevano
molte città afflitte. Uno di questi, il quale in quelli tempi
si trovava a Bologna, presa la occasione dalla carestia che lo anno
era in Firenze, pensò di insignorirsi di Toscana, e non
solamente non suvvenne i Fiorentini di vivere, ma per torre loro la
speranza delle future ricolte, come prima apparì la
primavera, con grande esercito gli assaltò, sperando,
trovandogli disarmati e affamati, potergli facilmente superare. E
forse gli succedeva, se le armi con le quali quello gli
assalì infedeli e venali state non fussero: perché i
Fiorentini, non avendo migliore rimedio, dierono centotrentamila
fiorini ai suoi soldati, e feciono loro abbandonare la impresa.
Comincionsi le guerre quando altri vuole, ma non quando altri vuole
si finiscono. Questa guerra, per ambizione del Legato cominciata, fu
dallo sdegno de' Fiorentini seguita, e feciono lega con messer
Bernabò e con tutte le città nimiche alla Chiesa; e
creorono otto cittadini che quella amministrassero, con
autorità di potere operare sanza appello e spendere sanza
darne conto. Questa guerra mossa contro al Pontefice fece, non
ostante che Uguccione fusse morto, risurgere quelli che avieno la
setta de' Ricci seguita, i quali, contro agli Albizzi, avevono
sempre favorito messer Bernabò e disfavorita la Chiesa; e
tanto più che gli Otto erano tutti nimici alla setta de'
Guelfi. Il che fece che Piero degli Albizzi, messer Lapo da
Castiglionchio, Carlo Strozzi e gli altri più insieme si
strinsono alla offesa de' loro avversarii; e mentre che gli Otto
facevano la guerra, ed eglino ammunivano. Durò la guerra tre
anni, né prima ebbe che con la morte del Pontefice termine; e
fu con tanta virtù e tanta sodisfazione dello universale
amministrata, che agli Otto fu ogni anno prorogato il magistrato; ed
erano chiamati Santi, ancora che eglino avessero stimate poco le
censure, e le chiese de' beni loro spogliate, e sforzato il clero a
celebrare gli uffizi: tanto quelli cittadini stimavano allora
più la patria che l'anima. E dimostrorono alla Chiesa come
prima, suoi amici, la avevano difesa, così, suoi nimici, la
potevono affliggere; perché tutta la Romagna, la Marca e
Perugia le feciono ribellare.
8
Non di meno, mentre che al Papa facevono tanta guerra, non si
potevono dai Capitani di parte e dalla loro setta difendere;
perché la invidia che i Guelfi avieno agli Otto faceva
crescere loro l'audacia, e non che agli altri nobili cittadini, ma
dall'ingiuriare alcuni degli Otto non si astenevano. E a tanta
arroganza i Capitani di parte salirono, ch'eglino erano più
che i Signori temuti, e con minore reverenza si andava a questi che
a quelli, e più si stimava il palagio della Parte che il
loro; tanto che non veniva ambasciadore a Firenze che non avesse
commissione a' Capitani. Sendo adunque morto papa Gregorio, e rimasa
la città sanza guerra di fuora, si viveva dentro in grande
confusione; perché da l'un canto la audacia de' Guelfi era
insopportabile, da l'altro non si vedeva modo a potergli battere:
pure si giudicava che di necessità si avesse a venire alle
armi, e vedere quale de' duoi seggi dovesse prevalere. Erano dalla
parte de' Guelfi tutti gli antichi nobili, con la maggiore parte de'
più potenti popolani; dove, come dicemmo, messer Lapo, Piero
e Carlo erano principi: da l'altra erano tutti i popolani di minore
sorte, de' quali erano capi gli Otto della guerra, messer Giorgio
Scali, Tommaso Strozzi; con i quali Ricci, Alberti e Medici
convenivano: il rimanente della moltitudine, come quasi sempre
interviene, alla parte malcontenta si accostava. Parevano ai capi
della setta guelfa le forze degli avversarii gagliarde, e il
pericolo loro grande, qualunque volta una Signoria loro nimica
volesse abbassargli; e pensando che fusse bene prevenire, si
accozzorono insieme; dove le condizioni della città e dello
stato loro esaminorono. E pareva loro che gli ammuniti, per essere
cresciuti in tanto numero, avessero dato loro tanto carico che tutta
la città fusse diventata loro nimica. A che non vedevano
altro rimedio che, dove gli avieno tolto loro gli onori, torre loro
ancora la città, occupando per forza il palagio de' Signori e
reducendo tutto lo stato nella setta loro, ad imitazione degli
antichi Guelfi, i quali non vissono per altro nella città
sicuri che per averne cacciati gli avversarii loro. Ciascuno si
accordava a questo; ma discordavano del tempo.
9
Correva allora lo anno 1378, ed era il mese di aprile; e a messer
Lapo non pareva di differire, affermando niuna cosa nuocere tanto al
tempo quanto il tempo, e a loro massime, potendo nella seguente
Signoria essere facilmente Salvestro de' Medici gonfaloniere, il
quale alla setta loro contrario cognoscevano. A Piero degli Albizzi,
da l'altro canto, pareva da differire, perché giudicava
bisognassero forze, e quelle non essere possibile, sanza
dimostrazione, raccozzare, e quando fussero scoperti, in manifesto
pericolo incorrerebbono. Giudicava per tanto essere necessario che
il propinquo San Giovanni si aspettasse; nel quale tempo, per essere
il più solenne giorno della città assai moltitudine in
quella concorre, intra la quale potrebbono allora quanta gente
volessero nascondere, e per rimediare a quello che di Salvestro si
temeva, si ammunisse; e quando questo non paresse da fare, si
ammunisse uno di Collegio del suo quartiere, e ritraendosi lo
scambio, per essere le borse vote, poteva facilmente la sorte fare
che quello o qualche suo consorte fusse tratto, che gli torrebbe la
facultà di potere sedere gonfaloniere. Fermorono per tanto
questa deliberazione; ancora che messer Lapo mal volentieri vi
acconsentisse, giudicando il differire nocivo, e mai il tempo non
essere al tutto commodo a fare una cosa, in modo che chi aspetta
tutte le commodità, o e' non tenta mai cosa alcuna, o, se la
tenta, la fa il più delle volte a suo disavantaggio.
Ammunirono costoro il collegio, ma non successe loro impedir
Salvestro, perché, scoperte dagli Otto le cagioni, che lo
scambio non si ritraesse operorono. Fu tratto per tanto gonfaloniere
Salvestro di messer Alamanno de' Medici. Costui, nato di nobilissima
famiglia popolana che il popolo fussi da pochi potenti oppresso
sopportare non poteva, e avendo pensato di porre fine a questa
insolenza, vedendosi il popolo favorevole e di molti nobili popolani
compagni, comunicò i disegni suoi con Benedetto Alberti,
Tomaso Strozzi e messer Giorgio Scali, i quali per condurgli ogni
aiuto gli promissono. Fermorono adunque secretamente una legge, la
quale innovava gli ordini della giustizia contro ai Grandi, e
l'autorità de' Capitani di parte diminuiva, e a gli ammuniti
dava modo di potere essere alle dignità rivocati. E
perché quasi in un medesimo tempo si esperimentasse e
ottenesse, avendosi prima infra i Collegi e di poi ne' Consigli a
deliberare, e trovandosi Salvestro proposto (il quale grado, quel
tempo che dura, fa uno quasi che principe della città), fece
in una medesima mattina il Collegio e il Consiglio ragunare; e a'
Collegi prima, divisi da quello, prepose la legge ordinata: la
quale, come cosa nuova, trovò, in nel numero di pochi tanto
disfavore che la non si ottenne. Onde che, veggendo Salvestro come
gli erano tagliate le prime vie ad ottenerla, finse di partirsi del
luogo per sue necessità, e senza che altri se ne accorgesse,
ne andò in Consiglio; e salito alto, donde ciascuno lo
potesse vedere e udire, disse come e' credeva essere stato fatto
gonfaloniere, non per essere giudice di cause private, che hanno i
loro giudici ordinari, ma per vigilare lo stato, correggere la
insolenza de' potenti e temperare quelle leggi per lo uso delle
quali si vedesse la republica rovinare; e come ad ambedue queste
cose aveva con diligenzia pensato e, in quanto gli era stato
possibile, proveduto; ma la malignità degli uomini in modo
alle giuste sue imprese si opponeva, che a lui era tolta la via di
potere operare bene, e a loro, non che di poterlo deliberare, ma di
udirlo. Onde che, vedendo di non potere più in alcuna cosa
alla republica né al bene universale giovare, non sapeva per
qual cagione si aveva a tenere più il magistrato; il quale o
egli non meritava, o altri credeva che non meritasse; e per questo
se ne voleva ire a casa, acciò che quel popolo potesse porre
in suo luogo un altro, che avesse o maggiore virtù o migliore
fortuna di lui. E dette queste parole, si partì di Consiglio
per andarne a casa.
10
Quelli che, in Consiglio, erano della cosa consapevoli, e quelli
altri che desideravano novità, levorono il romore: al quale i
Signori e i Collegi corsono; e veduto il loro Gonfaloniere partirsi,
con prieghi e con autorità lo ritennano, e lo ferono in
Consiglio, il quale era pieno di tumulto, ritornare: dove molti
nobili cittadini furono con parole ingiuriosissime minacciati, intra
i quali Carlo Strozzi fu da uno artefice preso per il petto e voluto
ammazzare, e con fatica fu da' circunstanti difeso. Ma quello che
suscitò maggiore tumulto e messe in arme la città fu
Benedetto degli Alberti; il quale, dalle finestre del Palagio, con
alta voce chiamò il popolo alle armi; e subito fu piena la
Piazza di armati; donde che i Collegi quello che prima, pregati, non
avevono voluto fare, minacciati e impauriti feciono. I Capitani di
parte, in questo medesimo tempo, avevono assai cittadini nel loro
palagio ragunati, per consigliarsi come si avessero contro
all'ordine de' Signori a difendere; ma come si sentì levato
il romore e si intese quello che per i Consigli si era deliberato,
ciascuno si rifuggì nelle case sue. Non sia alcuno che muova
una alterazione in una città, per credere poi, o fermarla a
sua posta, o regolarla a suo modo. Fu la intenzione di Salvestro
creare quella legge e posare la città; e la cosa procedette
altrimenti; perché gli umori mossi avevono in modo alterato
ciascuno, che le botteghe non si aprivano, i cittadini si
afforzavano per le case, molti il loro mobile per i munisteri e per
le chiese nascondevano, e pareva che ciascuno temesse qualche
propinquo male. Ragunoronsi i corpi delle Arti, e ciascuna fece un
sindaco; onde i Priori chiamorono i loro collegi e quelli sindachi,
e consultorono tutto un giorno come la città con sodisfazione
di ciascuno si potesse quietare; ma per essere i pareri diversi, non
si accordorono. L'altro giorno seguente, le Arti trassono fuora le
loro bandiere: il che sentendo i Signori, e dubitando di quello che
avvenne, chiamorono il Consiglio per porvi rimedio. Né fu
ragunato a pena, che si levò il romore e subito le insegne
delle Arti, con grande numero di armati dietro, furono in Piazza.
Onde che il Consiglio, per dare alle Arti e al popolo di
contentargli speranza, e torre loro la occasione del male, dette
generale potestà, la quale si chiama in Firenze balia, ai
Signori, Collegi, agli Otto, a' Capitani di parte e a' sindachi
delle Arti, di potere riformare lo stato della città a comune
benifizio di quella. E mentre che questo si ordinava, alcune insegne
delle Arti, e di quelle di minori qualità, sendo mosse da
quelli che desideravono vendicarsi delle fresche ingiurie ricevute
dai Guelfi, dalle altre si spiccorono, e la casa di messer Lapo da
Castiglionchio saccheggiorono e arsono. Costui, come intese la
Signoria avere fatto impresa contro agli ordini de' Guelfi, e vide
il popolo in arme, non avendo altro rimedio che nascondersi o
fuggire, prima in Santa Croce si nascose, di poi, vestito da frate,
in Casentino se ne fuggì; dove più volte fu sentito
dolersi di sé, per avere consentito a Piero degli Albizzi, e
di Piero per avere voluto aspettare San Giovanni ad assicurarsi
dello stato. Ma Piero e Carlo Strozzi, ne' primi romori, si
nascosono, credendo, cessati quelli, per avere assai parenti e
amici, potere stare in Firenze securi. Arsa che fu la casa di messer
Lapo, perché i mali con difficultà si cominciono e con
facilità si accrescono, molte altre case furono, o per odio
universale o per private nimicizie, saccheggiate e arse. E per avere
compagnia che con maggiore sete di loro a rubare i beni d'altri gli
accompagnasse, le publiche prigioni ruppono; e di poi il munistero
degli Agnoli e il convento di Santo Spirito, dove molti cittadini
avevono il loro mobile nascoso, saccheggiorono. Né campava la
publica Camera dalle mani di questi predatori, se dalla reverenza
d'uno de' Signori non fusse stata difesa: il quale, a cavallo, con
molti armati dietro, in quel modo che poteva alla rabbia di quella
moltitudine si opponeva. Mitigato in parte questo populare furore,
sì per la autorità de' Signori, sì per essere
sopraggiunta la notte, l'altro dì poi la Balia fece grazia
agli ammuniti, con questo, che non potessero, per tre anni,
esercitare alcuno magistrato: annullorono le leggi fatte in
pregiudizio de' cittadini dai Guelfi; chiarirono ribelli messer Lapo
da Castiglionchio e i suoi consorti, e con quello più altri
dallo universale odiati. Dopo le quali deliberazioni, i nuovi
Signori si publicorono, de' quali era gonfaloniere Luigi
Guicciardini; per i quali si prese speranza di fermare i tumulti,
parendo a ciascuno che fussero uomini pacifici e della quiete comune
amatori.
11
Non di meno non si aprivono le botteghe, e i cittadini non posavano
le armi, e guardie grandi per tutta la città si facevano; per
la qual cosa i Signori non presono il magistrato fuora del Palagio,
con la solita pompa, ma dentro, sanza osservare alcuna cerimonia.
Questi Signori giudicorono niuna cosa essere più utile da
farsi, nel principio del loro magistrato, che pacificare la
città; e però feciono posare le armi, aprire le
botteghe, partire di Firenze molti del contado stati chiamati da'
cittadini in loro favore; ordinorono in di molti luoghi della
città guardie: di modo che, se gli ammuniti si fussero potuti
quietare, la città si sarebbe quietata. Ma eglino non erano
contenti di aspettare tre anni a riavere gli onori; tanto che, a
loro sodisfazione, le Arti di nuovo si ragunorono e ai Signori
domandorono che, per bene e quiete della città, ordinassero
che qualunque cittadino, in qualunque tempo, de' Signori, di
Collegio, Capitano di parte, o Consolo di qualunque Arte fusse
stato, non potesse essere ammunito per ghibellino; e di più,
che nuove imborsazioni nella parte guelfa si facessero, e le fatte
si ardessero. Queste domande, non solamente dai Signori, ma subito
da tutti i Consigli furono accettate; per il che parve che i
tumulti, che già di nuovo erano mossi, si fermassero. Ma
perché agli uomini non basta ricuperare il loro, che vogliono
occupare quello d'altri e vendicarsi, quelli che speravano ne'
disordini mostravano agli artefici che non sarebbono mai sicuri, se
molti loro nimici non erano cacciati e destrutti. Le quali cose
presentendo i Signori, feciono venire avanti a loro i magistrati
delle Arti insieme con i loro sindachi; ai quali Luigi Guicciardini
gonfaloniere parlò in questa forma: - Se questi Signori, e io
insieme con loro, non avessimo, buon tempo è, cognosciuta la
fortuna di questa città, la quale fa che, fornite le guerre
di fuora, quelle di dentro cominciono, noi ci saremmo più
maravigliati de' tumulti seguiti, e più ci arebbono arrecato
dispiacere. Ma perché le cose consuete portono seco minori
affanni, noi abbiamo i passati romori con pazienza sopportati, sendo
massimamente senza nostra colpa incominciati, e sperando quelli,
secondo lo esemplo de' passati, dovere avere qualche volta fine,
avendovi di tante e sì gravi domande compiaciuti; ma
presentendo come voi non quietate, anzi volete che a' vostri
cittadini nuove ingiurie si faccino, e con nuovi esili si
condannino, cresce, con la disonestà vostra, il dispiacere
nostro. E veramente, se noi avessimo creduto che, ne' tempi del
nostro magistrato, la nostra città, o per contrapporci a voi
o per compiacervi, avesse a rovinare, noi aremmo con la fuga o con
lo esilio fuggito questi onori; ma sperando avere a convenire con
uomini che avessero in loro qualche umanità, e alla loro
patria qualche amore, prendemmo il magistrato volentieri, credendo,
con la nostra umanità, vincere in ogni modo l'ambizione
vostra. Ma noi vediamo ora per esperienza che quanto più
umilmente ci portiamo, quanto più vi concediamo, tanto
più insuperbite, e più disoneste cose comandate. E se
noi parliamo così, non facciamo per offendervi, ma per farvi
ravvedere; perché noi vogliamo che uno altro vi dica quello
che vi piace, noi vogliamo dirvi quello che vi sia utile. Diteci,
per vostra fe', qual cosa è quella che voi possiate
onestamente più desiderare da noi? Voi avete voluto torre
l'autorità a' Capitani di parte: la si è tolta; voi
avete voluto che si ardino le loro borse e faccinsi nuove riforme:
noi l'abbiamo acconsentito; voi volesti che gli ammuniti
ritornassero negli onori: e si è permesso; noi, per i prieghi
vostri, a chi ha arse le case e spogliate le chiese abbiamo
perdonato, e si sono mandati in esilio tanti onorati e potenti
cittadini, per sodisfarvi; i Grandi, a contemplazione vostra, si
sono con nuovi ordini raffrenati. Che fine aranno queste vostre
domande, o quanto tempo userete voi male la liberalità
nostra? Non vedete voi che noi sopportiamo con più pazienza
lo esser vinti, che voi la vittoria? A che condurranno queste vostre
disunioni questa vostra città? Non vi ricordate voi, che
quando l'è stata disunita, Castruccio, un vile cittadino
lucchese, l'ha battuta? un Duca di Atene, privato condottiere
vostro, l'ha subiugata? Ma quando la è stata unita, non l'ha
potuta superare uno Arcivescovo di Milano e uno Papa; i quali, dopo
tanti anni di guerra, sono rimasi con vergogna. Perché volete
voi adunque che le vostre discordie quella città, nella pace,
faccino serva, la quale tanti nimici potenti hanno, nella guerra,
lasciata libera? Che trarrete voi delle disunioni vostre, altro che
servitù? o de' beni che voi ci avete rubati o rubasse, altro
che povertà? perché sono quelli che, con le industrie
nostre, nutriscono tutta la città; de' quali sendone
spogliati, non potreno nutrirla; e quelli che gli aranno occupati,
come cosa male acquistata, non gli sapranno perservare: donde ne
seguirà la fame e la povertà della città. Io e
questi Signori vi comandiamo, e, se la onestà lo consente, vi
preghiamo, che voi fermiate, una volta, lo animo; e siate contenti
stare quieti a quelle cose che per noi si sono ordinate; e quando
pure ne volesse alcuna di nuovo, vogliate civilmente, e non con
tumulto e con le armi, domandarle, perché, quando le sieno
oneste, sempre ne sarete compiaciuti, e non darete occasione a
malvagi uomini, con vostro carico e danno, sotto le spalle vostre,
di rovinare la patria vostra -. Queste parole, perché erano
vere, commossono assai gli animi di quelli cittadini; e umanamente
ringraziorono il Gonfaloniere di avere fatto l'ufficio con loro di
buon Signore e con la città di buono cittadino, offerendosi
essere presti ad ubbidire a quanto era stato loro commesso. E i
Signori, per darne loro cagione, deputorono duoi cittadini per
qualunque de' maggiori magistrati, i quali, insieme con i sindachi
delle Arti, praticassero se alcuna cosa fusse da riformare a quiete
comune, e ai Signori la referissero.
12
Mentre che queste cose così procedevano, nacque un altro
tumulto, il quale assai più che il primo offese la republica.
La maggiore parte delle arsioni e ruberie seguite ne' prossimi
giorni erano state dalla infima plebe della città fatte; e
quelli che infra loro si erano mostri più audaci temevano,
quietate e composte le maggiori differenze, di essere puniti de'
falli commessi da loro, e come gli accade sempre, di essere
abbandonati da coloro che al fare male gli avevano instigati. A che
si aggiugneva uno odio che il popolo minuto aveva con i cittadini
ricchi e principi delle Arti, non parendo loro essere sodisfatti
delle loro fatiche secondo che giustamente credevano meritare.
Perché quando, ne' tempi di Carlo primo, la città si
divise in Arti, si dette capo e governo a ciascuna, e si provide che
i sudditi di ciascuna Arte dai capi suoi nelle cose civili fussero
giudicati. Queste Arti, come già dicemmo, furono nel
principio dodici; di poi, col tempo, tante se ne accrebbono che le
aggiunsono a ventuna; e furono di tanta potenza che le presono in
pochi anni tutto il governo della città. E perché,
intra quelle delle più e delle meno onorate si trovavano, in
maggiori e minori si divisono; e sette ne furono chiamate maggiori e
quattordici minori. Da questa divisione, e dalle altre cagioni che
di sopra aviamo narrate, nacque l'arroganza de' Capitani di parte;
perché quelli cittadini che erano anticamente stati guelfi
sotto il governo de' quali sempre quello magistrato girava, i
popolani delle maggiori Arti favorivano e quelli delle minori con i
loro defensori perseguitavano; donde contro a di loro tanti tumulti
quanti abbiamo narrati nacquono. Ma perché nello ordinare i
corpi delle Arti molti di quelli esercizi in ne' quali il popolo
minuto e la plebe infima si affatica sanza avere corpi di Arti
proprie restorono, ma a varie Arti, conformi alle qualità
delli loro esercizi, si sottomessono, ne nasceva che quando erano o
non sodisfatti delle fatiche loro, o in alcun modo dai loro maestri
oppressati, non avevano altrove dove rifuggire che al magistrato di
quella Arte che gli governava; dal quale non pareva loro fusse fatta
quella giustizia che giudicavano si convenisse. E di tutte le Arti,
che aveva e ha più di questi sottoposti, era ed è
quella della lana; la quale, per essere potentissima, e la prima,
per autorità, di tutte, con la industria sua la maggiore
parte della plebe e popolo minuto pasceva e pasce.
13
Gli uomini plebei adunque, così quelli sottoposti all'Arte
della lana come alle altre, per le cagioni dette, erano pieni di
sdegno: al quale aggiugnendosi la paura per le arsioni e ruberie
fatte da loro, convennono di notte più volte insieme,
discorrendo i casi seguiti e mostrando l'uno all'altro ne' pericoli
si trovavano. Dove alcuno de' più arditi e di maggiore
esperienza, per inanimire gli altri, parlò in questa
sentenza: - Se noi avessimo a deliberare ora se si avessero a
pigliare le armi, ardere e rubare le case de' cittadini, spogliare
le chiese, io sarei uno di quelli che lo giudicherei partito da
pensarlo, e forse approverei che fusse da preporre una quieta
povertà a uno pericoloso guadagno; ma perché le armi
sono prese e molti mali sono fatti, e' mi pare che si abbia a
ragionare come quelle non si abbiano a lasciare e come de' mali
commessi ci possiamo assicurare. Io credo certamente che, quando
altri non ci insegnasse, che la necessità ci insegni. Voi
vedete tutta questa città piena di rammarichii e di odio
contro a di noi: i cittadini si ristringono, la Signoria è
sempre con i magistrati: crediate che si ordiscono lacci per noi, e
nuove forze contro alle teste nostre si apparecchiano. Noi dobbiamo
per tanto cercare due cose e avere, nelle nostre deliberazioni, duoi
fini: l'uno di non potere essere delle cose fatte da noi ne'
prossimi giorni gastigati, l'altro di potere con più
libertà e più sodisfazione nostra che per il passato
vivere. Convienci per tanto, secondo che a me pare, a volere che ci
sieno perdonati gli errori vecchi, farne de' nuovi, raddoppiando i
mali, e le arsioni e le ruberie multiplicando, e ingegnarsi a questo
avere di molti compagni, perché dove molti errano niuno si
gastiga, e i falli piccoli si puniscono, i grandi e gravi si
premiano; e quando molti patiscono pochi cercano di vendicarsi,
perché le ingiurie universali con più pazienza che le
particulari si sopportono. Il multiplicare adunque ne' mali ci
farà più facilmente trovare perdono, e ci darà
la via ad avere quelle cose che per la libertà nostra di
avere desideriamo. E parmi che noi andiamo a un certo acquisto,
perché quelli che ci potrebbono impedire sono disuniti e
ricchi: la disunione loro per tanto ci darà la vittoria, e le
loro ricchezze, quando fieno diventate nostre, ce la manterranno.
Né vi sbigottisca quella antichità del sangue che ei
ci rimproverano; perché tutti gli uomini, avendo avuto uno
medesimo principio, sono ugualmente antichi, e da la natura sono
stati fatti ad uno modo. Spogliateci tutti ignudi: voi ci vedrete
simili, rivestite noi delle veste loro ed eglino delle nostre: noi
senza dubio nobili ed eglino ignobili parranno; perché solo
la povertà e le ricchezze ci disaguagliano. Duolmi bene che
io sento come molti di voi delle cose fatte, per conscienza, si
pentono, e delle nuove si vogliono astenere; e certamente, se gli
è vero, voi non siete quelli uomini che io credevo che voi
fusse; perché né conscienza né infamia vi debba
sbigottire; perché coloro che vincono, in qualunque modo
vincono, mai non ne riportono vergogna. E della conscienza noi non
dobbiamo tenere conto; perché dove è, come è in
noi, la paura della fame e delle carcere, non può né
debbe quella dello inferno capere. Ma se voi noterete il modo del
procedere degli uomini, vedrete tutti quelli che a ricchezze grandi
e a grande potenza pervengono o con frode o con forza esservi
pervenuti; e quelle cose, di poi, ch'eglino hanno o con inganno o
con violenza usurpate, per celare la bruttezza dello acquisto,
quello sotto falso titolo di guadagno adonestano. E quelli i quali,
o per poca prudenza o per troppa sciocchezza, fuggono questi modi,
nella servitù sempre e nella povertà affogono;
perché i fedeli servi sempre sono servi, e gli uomini buoni
sempre sono poveri; né mai escono di servitù se non
gli infedeli e audaci, e di povertà se non i rapaci e
frodolenti. Perché Iddio e la natura ha posto tutte le
fortune degli uomini loro in mezzo; le quali più alle rapine
che alla industria, e alle cattive che alle buone arti sono esposte:
di qui nasce che gli uomini mangiono l'uno l'altro, e vanne sempre
col peggio chi può meno. Debbesi adunque usare la forza
quando ce ne è data occasione. La quale non può essere
a noi offerta dalla fortuna maggiore, sendo ancora i cittadini
disuniti, la Signoria dubia, i magistrati sbigottiti: talmente che
si possono, avanti che si unischino e fermino l'animo, facilmente
opprimere: donde o noi rimarreno al tutto principi della
città, o ne areno tanta parte che non solamente gli errori
passati ci fieno perdonati, ma areno autorità di potergli di
nuove ingiurie minacciare. Io confesso questo partito essere audace
e pericoloso; ma dove la necessità strigne è l'audacia
giudicata prudenza, e del pericolo nelle cose grandi gli uomini
animosi non tennono mai conto, perché sempre quelle imprese
che con pericolo si cominciono si finiscono con premio, e di uno
pericolo mai si uscì sanza pericolo: ancora che io creda,
dove si vegga apparecchiare le carcere, i tormenti e le morti, che
sia da temere più lo starsi che cercare di assicurarsene;
perché nel primo i mali sono certi, e nell'altro dubi. Quante
volte ho io udito dolervi della avarizia de' vostri superiori e
della ingiustizia de' vostri magistrati! Ora è tempo, non
solamente da liberarsi da loro, ma da diventare in tanto loro
superiore, ch'eglino abbiano più a dolersi e temere di voi
che voi di loro. La opportunità che dalla occasione ci
è porta vola, e invano, quando la è fuggita, si cerca
poi di ripigliarla. Voi vedete le preparazioni de' vostri
avversarii: preoccupiamo i pensieri loro; e quale di noi prima
ripiglierà l'armi, sanza dubio sarà vincitore, con
rovina del nimico ed esaltazione sua: donde a molti di noi ne
risulterà onore, e securità a tutti -. Queste
persuasioni accesono forte i già per loro medesimi riscaldati
animi al male, tanto che deliberorono prendere le armi, poi
ch'eglino avessero più compagni tirati alla voglia loro; e
con giuramento si obligorono di soccorrersi, quando accadessi che
alcuno di loro fusse dai magistrati oppresso.
14
Mentre che costoro ad occupare la republica si preparavano, questo
loro disegno pervenne a notizia de' Signori: per la qual cosa ebbono
uno Simone dalla Piazza nelle mani, da il quale intesono tutta la
congiura, e come il giorno seguente volevono levare il romore. Onde
che, veduto il pericolo, ragunorono i Collegi e quelli cittadini che
insieme con i sindachi delle Arti l'unione della città
praticavano (e avanti che ciascuno fusse insieme era già
venuta la sera), e da quelli i Signori furono consigliati che si
facessero venire i consoli delle Arti: i quali tutti consigliorono
che tutte le genti d'arme in Firenze venire si facessero, e i
gonfalonieri del popolo fussero la mattina, con le loro compagnie
armate in Piazza. Temperava l'oriolo di Palagio, in quel tempo che
Simone si tormentava e che i cittadini si ragunavano, uno
Niccolò da San Friano; e accortosi di quello che era, tornato
a casa, riempié di tumulto tutta la sua vicinanza; di modo
che, in un subito, alla piazza di Santo Spirito più che mille
uomini armati si ragunorono. Questo romore pervenne agli altri
congiurati; e San Piero Maggiore e San Lorenzo, luoghi deputati da
loro, di uomini armati si riempierono. Era già venuto il
giorno, il quale era il 21 di luglio, e in Piazza, in favore de'
Signori, più che ottanta uomini d'arme comparsi non erano; e
de' gonfalonieri non ve ne venne alcuno, perché, sentendo
essere tutta la città in arme, di abbandonare le loro case
temevono. I primi che della plebe furono in Piazza furono quelli che
a San Piero Maggiore ragunati s'erano; allo arrivare de' quali la
gente d'arme non si mosse. Comparsono, appresso a questi, l'altra
moltitudine; e non trovato riscontro, con terribili voci i loro
prigioni alla Signoria domandavano; e per avergli per forza, poi che
non erano per minacce renduti, le case di Luigi Guicciardini arsono;
di modo che i Signori, per paura di peggio, gli consegnorono loro.
Riavuti questi, tolsono il gonfalone della giustizia allo esecutore,
e sotto quello le case di molti cittadini arsono, perseguitando
quelli i quali o per publica o per privata cagione erano odiati. E
molti cittadini, per vendicare loro private ingiurie, alle case de'
loro nimici li condussero: perché bastava solo che una voce,
nel mezzo della moltitudine: - a casa il tale! - gridasse, o che
quello che teneva il gonfalone in mano vi si volgesse. Tutte le
scritture ancora dell'Arte della lana arsono. Fatti che gli ebbono
molti mali, per accompagnarli con qualche lodevole opera, Salvestro
de' Medici e tanti altri cittadini feciono cavalieri, che il numero
di tutti a sessantaquattro aggiunse; intra i quali Benedetto e
Antonio degli Alberti, Tommaso Strozzi e simili loro confidenti
furono; non ostante che molti forzatamente ne facessero. Nel quale
accidente, più che alcuna altra cosa, è da notare lo
avere veduto a molti ardere le case e quelli poco di poi, in un
medesimo giorno, da quelli medesimi (tanto era propinquo il
beneficio alla ingiuria) essere stati fatti cavalieri, il che a
Luigi Guicciardini gonfaloniere di giustizia intervenne. I Signori,
intra tanti tumulti, vedendosi abbandonati da le genti d'arme, dai
capi delle Arti e dai loro gonfalonieri, erano smarriti;
perché niuno secondo l'ordine dato gli aveva soccorsi, e di
sedici gonfaloni solamente la insegna del Lione d'oro e quella del
Vaio, sotto Giovenco della Stufa e Giovanni Cambi, vi comparsono; e
questi poco tempo in Piazza dimororono, perché, non si
vedendo seguitare dagli altri, ancora eglino si partirono. Dei
cittadini dall'altra parte, vedendo il furore di questa sciolta
moltitudine, e il Palagio abbandonato, alcuni dentro alle loro case
si stavano, alcuni altri la turba degli armati seguitavano, per
potere, trovandosi infra loro, meglio le case sue e quelle degli
amici difendere: e così veniva la potenza loro a crescere e
quella de' Signori a diminuire. Durò questo tumulto tutto il
giorno; e venuta la notte, al palagio di messere Stefano, dietro
alla chiesa di San Barnaba, si fermorono. Passava il numero loro
più che seimilia, e avanti apparisse il giorno, si feciono
dalle Arti, con minacce, le loro insegne mandare. Venuta di poi la
mattina, con il gonfalone della giustizia e con le insegne delle
Arti innanzi, al palagio del podestà ne andorono; e ricusando
il podestà di darne loro la possessione, lo combatterono e
vinsono.
15
I Signori, volendo fare pruova di comporre con loro, poi che per
forza non vedevono modo a frenargli, chiamorono quattro de' loro
Collegi e quelli al palagio del podestà, per intendere la
mente loro, mandorono. I quali trovorono che i capi della plebe, con
i sindachi delle Arti e alcuni cittadini, avevano quello che
volevano alla Signoria domandare deliberato. Di modo che alla
Signoria con quattro della plebe deputati e con queste domande
tornorono: che l'Arte della lana non potesse più giudice
forestiero tenere; che tre nuovi corpi d'arti si facessero, l'uno
per i cardatori e tintori, l'altro per i barbieri, farsettai, sarti
e simili arti meccaniche, il terzo per il popolo minuto; e che di
queste tre Arti nuove sempre fussero duoi Signori, e delle
quattordici Arti minori tre; che la Signoria alle case dove queste
nuove Arti potessero convenire provedesse, che niuno a queste Arti
sottoposto, infra duoi anni, potesse essere a pagare debito che
fusse di minore somma che cinquanta ducati constretto; che il Monte
fermasse gli interessi, e solo i capitali si restituissero; che i
confinati e condannati fussero assoluti; che agli onori tutti gli
ammuniti si restituissero. Molte altre cose, oltre a queste, in
beneficio dei loro particulari fautori domandorono, e così,
per il contrario, che molti de' loro nimici fussero confinati e
ammuniti vollono. Le quali domande, ancora che alla republica
disonorevoli e gravi, per timore di peggio, furono dai Signori,
Collegi e Consiglio del popolo subito deliberate. Ma a volere che le
avessero la loro perfezione, era necessario ancora nel Consiglio del
comune si ottenessero; il che, non si potendo in uno giorno ragunare
duoi Consigli, differire all'altro dì convenne. Non di meno
parve che per allora le Arti contente e la plebe sodisfatta ne
rimanesse; e promissono che, data la perfezione alla legge, ogni
tumulto poserebbe. Venuta la mattina di poi, mentre che nel
Consiglio del comune si deliberava, la moltitudine, impaziente e
volubile, sotto le solite insegne venne in Piazza, con sì
alte voci e sì spaventevoli, che tutto il Consiglio e i
Signori spaventorono. Per la qual cosa Guerriante Marignolli, uno
de' Signori, mosso più da il timore che da alcuna altra sua
privata passione, scese, sotto colore di guardare la porta, da basso
e se ne fuggì a casa. Né potette, uscendo fuora, in
modo celarsi che non fusse da la turba ricognosciuto: né gli
fu fatto altra ingiuria, se non che la moltitudine gridò,
come lo vide, che tutti Signori il Palagio abbandonassero; se non,
che ammazzerebbono i loro figliuoli e le loro case arderebbono. Era,
in quel mezzo, la legge deliberata e i Signori nelle loro camere
ridutti; e il Consiglio, sceso da basso e sanza uscire fuora, per la
loggia e per la corte, desperato della salute della città, si
stava, tanta disonestà vedendo in una moltitudine, e tanta
malignità o timore in quelli che l'arebbono possuta o frenare
o opprimere. I Signori ancora erano confusi e della salute della
patria dubi, vedendosi da uno di loro abbandonati e da niuno
cittadino, non che di aiuto, ma di consiglio suvvenuti. Stando
adunque di quello potessero o dovessero fare incerti, messer Tommaso
Strozzi e messer Benedetto Alberti, mossi o da propria ambizione,
desiderando rimanere signori del Palagio, o perché pure
così credevono essere bene, gli persuasono a cedere a questo
impeto popolare e, privati, alle loro case tornarsene. Questo
consiglio, dato da coloro che erano stati capi del tumulto, fece,
ancora che gli altri cedessero, Alamanno Acciaiuoli e Niccolò
del Bene, duoi de' Signori, sdegnare; e tornato in loro un poco di
vigore, dissono che se gli altri se ne volevono partire non
possevono rimediarvi, ma non volevono già, prima che il tempo
lo permettesse, lasciare la loro autorità, se la vita con
quella non perdevano. Questi dispareri raddoppiorono a' Signori la
paura e al popolo lo sdegno; tanto che il Gonfaloniere, volendo
più tosto finire il suo magistrato con vergogna che con
pericolo, a messer Tommaso Strozzi si raccomandò, il quale lo
trasse di Palagio e alle sue case lo condusse. Gli altri Signori in
simile modo l'uno dopo l'altro si partirono; onde che Alamanno e
Niccolò, per non essere tenuti più animosi che savi,
vedendosi rimasi soli, ancora eglino se ne andorono; e il Palagio
rimase nelle mani della plebe e degli Otto della guerra, i quali
ancora non avevono il magistrato deposto.
16
Aveva, quando la plebe entrò in Palagio, la insegna del
gonfaloniere di giustizia in mano uno Michele di Lando pettinatore
di lana. Costui, scalzo e con poco indosso, con tutta la turba
dietro salì sopra la sala, e come e' fu nella audienza de'
Signori, si fermò, e voltosi alla moltitudine, disse: - Voi
vedete: questo Palagio è vostro, e questa città
è nelle vostre mani. Che vi pare che si faccia ora? - Al
quale tutti, che volevono che fusse gonfaloniere e signore e che
governassi loro e la città come a lui pareva, risposono.
Accettò Michele la signoria; e perché era uomo sagace
e prudente, e più alla natura che alla fortuna obligato,
deliberò quietare la città e fermare i tumulti. E per
tenere occupato il popolo, e dare a sé tempo a potere
ordinarsi, che si cercasse d'uno ser Nuto, stato da messer Lapo da
Castiglionchio per bargello disegnato, comandò: alla quale
commissione la maggior parte di quelli aveva d'intorno andorono. E
per cominciare quello imperio con giustizia, il quale egli aveva con
grazia acquistato, fece publicamente che niuno ardesse o rubasse
alcuna cosa comandare; e per spaventare ciascuno, rizzò le
forche in Piazza. E per dare principio alla riforma della
città, annullò i sindachi delle Arti e ne fece de'
nuovi, privò del magistrato i Signori e i Collegi; arse le
borse degli ufici. Intanto ser Nuto fu portato dalla moltitudine in
Piazza e a quelle forche per un piede impiccato: del quale avendone
qualunque era intorno spiccato un pezzo, non rimase in un tratto di
lui altro che il piede. Gli Otto della guerra da l'altra parte,
credendosi, per la partita de' Signori, essere rimasi principi della
città, avevano già i nuovi Signori disegnati; il che
presentendo Michele, mandò a dire loro che subito di Palagio
si partissero, perché voleva dimostrare a ciascuno come sanza
il consiglio loro sapeva Firenze governare. Fece di poi ragunare i
sindachi delle Arti, e creò la Signoria: quattro della plebe
minuta, duoi per le maggiori e duoi per le minori Arti. Fece, oltra
di questo, nuovo squittino, e in tre parti divise lo stato; e volle
che l'una di quelle alle nuove Arti, l'altra alle minori, la terza
alle maggiori toccasse. Dette a messer Salvestro de' Medici
l'entrate delle botteghe del Ponte Vecchio, a sé la
podesteria di Empoli; e a molti altri cittadini amici della plebe
fece molti altri benefizi, non tanto per ristorargli delle opere
loro, quanto perché d'ogni tempo contro alla invidia lo
difendessero.
17
Parve alla plebe che Michele, nel riformare lo stato, fusse stato a'
maggiori popolani troppo partigiano; né pareva avere loro
tanta parte nel governo quanta, a mantenersi in quello e potersi
difendere, fusse di avere necessario; tanto che, dalla loro solita
audacia spinti, ripresono le armi, e tumultuando, sotto le loro
insegne, in Piazza ne vennono; e che i Signori in ringhiera per
deliberare nuove cose a proposito della securtà e bene loro
scendessero domandavano. Michele, veduta la arroganza loro, per non
gli fare più sdegnare, senza intendere altrimenti quello che
volessero, biasimò il modo che nel domandare tenevano, e gli
confortò a posare le armi, e che allora sarebbe loro
conceduto quello che per forza non si poteva con dignità
della Signoria concedere. Per la qual cosa la moltitudine, sdegnata
contro al Palagio, a Santa Maria Novella si ridusse; dove ordinorono
infra loro otto capi, con ministri e altri ordini che dettono loro e
reputazione e reverenzia: tale che la città aveva duoi seggi
ed era da duoi diversi principi governata. Questi capi infra loro
deliberorono che sempre otto, eletti dai corpi delle loro Arti,
avessero con i Signori in Palagio ad abitare, e tutto quello che
dalla Signoria si deliberasse dovesse essere da loro confermato;
tolsono a messer Salvestro de' Medici e a Michele di Lando tutto
quello che nelle altre loro deliberazioni era stato loro concesso,
assegnorono a molti di loro ufici e suvvenzioni, per potere il loro
grado con dignità mantenere. Ferme queste deliberazioni, per
farle valide, mandorono duoi di loro alla Signoria, a domandare che
le fussero loro per i Consigli conferme, con propositi di volerle
per forza, quando d'accordo non le potessero ottenere. Costoro, con
grande audacia e maggiore prosunzione, a' Signori la loro
commissione esposono; e al Gonfaloniere la dignità ch'eglino
gli avieno data, e l'onore fattogli, e con quanta ingratitudine e
pochi rispetti si era con loro governato, rimproverorono. E venendo
poi, nel fine, dalle parole alle minacce, non potette sopportare
Michele tanta arroganzia, e ricordandosi più del grado che
teneva che della infima condizione sua, gli parve da frenare con
estraordinario modo una estraordinaria insolenza; e tratta l'arme
che gli aveva cinta, prima gli ferì gravemente di poi gli
fece legare e rinchiudere. Questa cosa, come fu nota, accese tutta
la moltitudine d'ira; e credendo potere, armata, conseguire quello
che disarmata non aveva ottenuto, prese con furore e tumulto le
armi, e si mosse per ire a sforzare i Signori. Michele, dall'altra
parte, dubitando di quello avvenne, deliberò di prevenire,
pensando che fusse più sua gloria assalire altri che dentro
alle mura aspettare il nimico, e avere, come i suoi antecessori, con
disonore del Palagio e sua vergogna, a fuggirsi. Ragunato adunque
gran numero di cittadini, i quali già si erano cominciati a
ravvedere dello errore loro, salì a cavallo e, seguitato da
molti armati, n'andò a Santa Maria Novella per combattergli.
La plebe, che aveva, come di sopra dicemmo, fatta la medesima
deliberazione, quasi in quel tempo che Michele si mosse partì
ancora ella per ire in Piazza; e il caso fece che ciascuno fece
diverso cammino, tale che per la via non si scontrorono. Donde che
Michele, tornato indietro, trovò che la Piazza era presa e
che il Palagio si combatteva; e appiccata con loro la zuffa, gli
vinse; e parte ne cacciò della città, parte ne
constrinse a lasciare l'armi e nascondersi. Ottenuta la impresa, si
posorono i tumulti, solo per la virtù del Gonfaloniere. Il
quale d'animo, di prudenza e di bontà superò in quel
tempo qualunque cittadino, e merita di essere annoverato intra i
pochi che abbino benificata la patria loro: perché, se in
esso fusse stato animo o maligno o ambizioso, la republica al tutto
perdeva la sua libertà, e in maggiore tirannide che quella
del Duca di Atene perveniva; ma la bontà sua non gli
lasciò mai venire pensiero nello animo che fusse al bene
universale contrario, la prudenza sua gli fece condurre le cose in
modo che molti della parte sua gli cederono e quelli altri potette
con le armi domare. Le quali cose feciono la plebe sbigottire, e i
migliori artefici ravvedere e pensare quanta ignominia era, a coloro
che avevano doma la superbia de' Grandi, il puzzo della plebe
sopportare.
18
Era già, quando Michele ottenne contro alla plebe la
vittoria, tratta la nuova Signoria; intra la quale erano duoi di
tanta vile e infame condizione, che crebbe il desiderio agli uomini
di liberarsi da tanta infamia. Trovandosi adunque, quando il primo
giorno di settembre i Signori nuovi presono il magistrato, la Piazza
piena di armati, come prima i Signori vecchi fuora di Palagio
furono, si levò intra gli armati, con tumulto, una voce, come
e' non volevono che del popolo minuto alcuno ne fusse de' Signori;
tale che la Signoria, per sodisfare loro, privò del
magistrato quelli duoi, de' quali l'uno il Tria e l'altro Baroccio
si chiamava; in luogo de' quali messer Giorgio Scali e Francesco di
Michele elessono. Annullorono ancora l'Arte del popolo minuto, e i
subietti a quella, eccetto che Michele di Lando e Lorenzo di Puccio
e alcuni altri di migliore qualità, degli ufici privorono;
divisono gli onori in due parti, l'una delle quali alle maggiori,
l'altra alle minori Arti consegnorono, solo de' Signori vollono che
sempre ne fusse cinque de' minori artefici e quattro de' maggiori, e
il gonfaloniere ora all'uno ora all'altro membro toccasse. Questo
stato così ordinato fece, per allora, posare la città;
e benché la republica fusse stata tratta delle mani della
plebe minuta restorono più potenti gli artefici di minore
qualità che i nobili popolani; a che questi furono di cedere
necessitati, per torre al popolo minuto i favori delle Arti,
contentando quelle. La qual cosa fu ancora favorita da coloro che
desideravano che rimanessero battuti quelli che, sotto il nome di
Parte guelfa, avevono con tanta violenza tanti cittadini offesi. E
perché infra gli altri che questa qualità di governo
favorivano furono messer Giorgio Scali, messer Benedetto Alberti,
messer Salvestro de' Medici e messer Tommaso Strozzi, quasi che
principi della città rimasono. Queste cose così
procedute e governate la già cominciata divisione tra i
popolani nobili e i minori artefici, per la ambizione de' Ricci e
degli Albizzi, confermorono: dalla quale perché seguirono in
varii tempi di poi effetti gravissimi, e molte volte se ne
arà a fare menzione, chiamereno l'una di queste parte
popolare e l'altra plebea. Durò questo stato tre anni, e di
esili e di morti fu ripieno, perché quelli che governavano,
in grandissimo sospetto, per essere dentro e di fuora molti mali
contenti, vivevano: i mali contenti di dentro o e' tentavano o e' si
credevano che tentassino ogni dì cose nuove; quelli di fuora,
non avendo rispetto che gli frenasse, ora per mezzo di quello
principe, ora di quella republica, varii scandoli, ora in questa ora
in quella parte, seminavano.
19
Trovavasi in questi tempi a Bologna Giannozzo da Salerno, capitano
di Carlo di Durazzo, disceso de' Reali di Napoli, il quale,
disegnando fare la impresa del Regno contro alla reina Giovanna,
teneva questo suo capitano in quella città, per i favori che
da papa Urbano, nimico della Reina, gli erano fatti. Trovavansi a
Bologna ancora molti fuori usciti fiorentini, i quali seco e con
Carlo strette pratiche tenevano; il che era cagione che in Firenze
per quelli che reggevano con grandissimo sospetto si vivesse, e che
si prestasse facilmente fede alle calunnie di quelli cittadini che
erano sospetti. Fu rivelato per tanto, in tale suspensione di animi,
al magistrato, come Giannozzo da Salerno doveva a Firenze con i
fuori usciti rappresentarsi e molti di dentro prendere l'armi e
dargli la città. Sopra questa relazione furono accusati
molti; i primi de' quali Piero degli Albizzi e Carlo Strozzi furono
nominati, e apresso a questi, Cipriano Mangioni, messer Iacopo
Sacchetti, messer Donato Barbadori, Filippo Strozzi e Giovanni
Anselmi; i quali tutti, eccetto Carlo Strozzi che si fuggì,
furono presi; e i Signori, acciò che niuno ardisse prendere
l'armi in loro favore, messer Tommaso Strozzi e messer Benedetto
Alberti con assai gente armata a guardia della città
deputorono. Questi cittadini presi furono esaminati, e secondo
l'accusa e i riscontri, alcuna colpa in loro non si trovava; di modo
che, non li volendo il Capitano condannare, gli inimici loro in
tanto il popolo sollevorono, e con tanta rabbia lo commossono loro
contro, che per forza furono giudicati a morte. Né a Piero
degli Albizzi giovò la grandezza della casa, né la
antica riputazione sua, per essere stato più tempo sopra ogni
altro cittadino onorato e temuto: donde che alcuno, o vero suo
amico, per farlo più umano in tanta sua grandezza, o vero suo
nimico, per minacciarlo con la volubilità della fortuna,
faccendo egli uno convito a molti cittadini, gli mandò uno
nappo d'ariento pieno di confetti, e tra quelli nascosto un chiodo;
il quale scoperto e veduto da tutti i convivanti, fu interpetrato
che gli era ricordato conficcasse la ruota, perché, avendolo
la Fortuna condotto nel colmo di quella, non poteva essere che, se
la seguitava di fare il cerchio suo, che la non lo traesse in fondo:
la quale interpetrazione fu, prima dalla sua rovina, di poi dalla
sua morte verificata. Dopo questa esecuzione rimase la città
piena di confusione, perché i vinti e i vincitori temevono;
ma più maligni effetti da il timore di quelli che governavano
nascevano, perché ogni minimo accidente faceva loro fare alla
Parte nuove ingiurie, o condannando, o ammunendo, o mandando in
esilio i loro cittadini; a che si aggiugnevano nuove leggi e nuovi
ordini, i quali spesso in fortificazione dello stato si facevono. Le
quali tutte cose seguivono con ingiuria di quelli che erano sospetti
alla fazione loro; e per ciò creorono quarantasei uomini, i
quali insieme con i Signori, la republica di sospetti allo stato
purgassero. Costoro ammunirono trentanove cittadini, e feciono assai
popolani Grandi, e assai Grandi popolani; e per potere alle forze di
fuora opporsi, messer Giovanni Aguto, di nazione inghilese e
reputatissimo nelle armi, soldorono, il quale aveva per il papa e
per altri in Italia più tempo militato. Il sospetto di fuora
nasceva da intendersi come più compagnie di gente d'arme da
Carlo di Durazzo per fare l'impresa del Regno si ordinavano, con il
quale era fama essere molti fuori usciti fiorentini. Ai quali
pericoli, oltre alle forze ordinate, con somma di danari si provide;
perché, arrivato Carlo in Arezzo, ebbe dai Fiorentini
quarantamila ducati, e promisse non molestargli; seguì di poi
la sua impresa, e felicemente occupò il regno di Napoli, e la
reina Giovanna ne mandò presa in Ungheria. La quale vittoria
di nuovo il sospetto a quelli che in Firenze tenevono lo stato
accrebbe, perché non potevono credere che i loro danari
più nello animo del Re potessero, che quella antica amicizia
la quale aveva quella casa con i Guelfi tenuta, i quali con tanta
ingiuria erano da loro oppressi.
20
Questo sospetto adunque, crescendo, faceva crescere le ingiurie; le
quali non lo spegnevano, ma accrescevano; in modo che per la
maggiore parte degli uomini si viveva in malissima contentezza. A
che la insolenzia di messer Giorgio Scali e di messer Tommaso
Strozzi si aggiugneva; i quali con la autorità loro quella
de' magistrati superavano, temendo ciascuno di non essere da loro,
con il favore della plebe, oppresso. E non solamente a' buoni, ma ai
sediziosi pareva quel governo tirannico e violento. Ma perché
la insolenzia di messer Giorgio qualche volta doveva avere fine,
occorse che da uno suo familiare fu Giovanni di Cambio, per avere
contro allo stato tenute pratiche, accusato; il quale da il Capitano
fu trovato innocente; tale che il giudice voleva punire lo
accusatore di quella pena che sarebbe stato punito il reo se si
trovava colpevole; e non potendo messer Giorgio con prieghi
né con alcuna sua autorità salvarlo, andò egli
e messer Tommaso Strozzi, con moltitudine di armati, e per forza lo
liberorono, e il palagio del Capitano saccheggiorono, e quello
volendo salvarsi, a nascondersi constrinsono. Il quale atto
riempié la città di tanto odio contro a di lui, che i
suoi nimici pensorono di poterlo spegnere e di trarre la
città, non solamente delle sue mani, ma di quelle della
plebe, la quale tre anni, per la arroganza sua, l'aveva soggiogata.
Di che dette ancora il Capitano grande occasione: il quale, cessato
il tumulto, se ne andò a' Signori, e disse come era venuto
volentieri a quello ufizio al quale loro Signorie lo avevano eletto,
perché pensava avere a servire uomini giusti e che
pigliassero l'armi per favorire, non per impedire, la giustizia; ma
poi che gli aveva veduti e provati i governi della città e il
modo del vivere suo, quella dignità che volentieri aveva
presa per acquistare utile e onore, volentieri la rendeva loro per
fuggire pericolo e danno. Fu il Capitano confortato dai Signori, e
messogli animo, promettendogli de' danni passati ristoro e per lo
avvenire sicurtà; e ristrettisi parte di loro con alcuni
cittadini, di quelli che giudicavano amatori del bene commune e meno
sospetti allo stato, conclusono che fusse venuta grande occasione a
trarre la città della potestà di messer Giorgio e
della plebe, sendo lo universale per questa ultima insolenzia
alienatosi da lui. Per ciò pareva loro da usarla prima che
gli animi sdegnati si riconciliassero, perché sapevono che la
grazia dello universale per ogni piccolo accidente si guadagna e
perde; e giudicorono che, a volere condurre la cosa, fusse
necessario tirare alle voglie loro messer Benedetto Alberti, sanza
il consenso del quale la impresa pericolosa giudicavono. Era messer
Benedetto uomo ricchissimo, umano, severo, amatore della
libertà della patria sua, e a cui dispiacevono assai i modi
tirannici: tale che fu facile il quietarlo e farlo alla rovina di
messer Giorgio conscendere. Perché la cagione che a' popolani
nobili e alla setta dei Guelfi lo avevano fatto nimico e amico alla
plebe era stata la insolenza di quelli e i modi tirannici loro,
donde, veduto poi che i capi della plebe erano diventati simili a
quelli, più tempo innanzi s'era discostato da loro, e le
ingiurie le quali a molti cittadini erano state fatte al tutto fuora
del consenso suo erano seguite: tale che quelle cagioni che gli
feciono pigliare le parti della plebe, quelle medesime gliene
feciono lasciare. Tirato adunque messer Benedetto e i capi delle
Arti alla loro volontà, e provedutosi di armi, fu preso
messer Giorgio, e messer Tommaso fuggì. E l'altro giorno poi
fu messer Giorgio con tanto terrore della parte sua decapitato, che
niuno si mosse, anzi ciascuno a gara alla sua rovina concorse. Onde
che, vedendosi quello venire a morte davanti a quel popolo che poco
tempo innanzi lo aveva adorato, si dolfe della malvagia sorte sua e
della malignità de' cittadini, i quali, per averlo ingiuriato
a torto, lo avessero a favorire e onorare una moltitudine
constretto, dove non fusse né fede né gratitudine
alcuna. E ricognoscendo intra gli armati messer Benedetto Alberti,
gli disse: - E tu, messer Benedetto, consenti che a me sia fatta
quella ingiuria che, se io fussi costì non permetterei mai
che la fusse fatta a te? Ma io ti annunzio che questo dì
è fine del male mio e principio del tuo -. Dolfesi di poi di
se stesso, avendo confidato troppo in uno popolo il quale ogni voce,
ogni atto, ogni sospizione muove e corrompe. E con queste doglienze
morì, in mezzo ai suoi nimici armati e della sua morte
allegri. Furono morti, dopo quello, alcuni de' suoi più
stretti amici, e dal popolo strascinati.
21
Questa morte di questo cittadino commosse tutta la città,
perché nella esecuzione di quella molti presono l'arme per
fare alla Signoria e al Capitano del popolo favore; molti altri
ancora, o per loro ambizione, o per propri sospetti la presono. E
perché la città era piena di diversi umori, ciascuno
vario fine aveva, e tutti, avanti che l'armi si posassero, di
conseguirli desideravano. Gli antichi nobili, chiamati Grandi, di
essere privi degli onori publici sopportare non potevono, e per
ciò di recuperare quelli con ogni studio s'ingegnavano, e per
questo che si rendesse la autorità ai Capitani di parte
amavano; ai nobili popolani e alle maggiori Arti lo avere accomunato
lo stato con le Arti minori e popolo minuto dispiaceva; da l'altra
parte le Arti minori volevono più tosto accrescere che
diminuire la loro dignità; e il popolo minuto di non perdere
i collegi delle sue Arti temeva. I quali dispareri feciono, per
spazio di uno anno, molte volte Firenze tumultuare; e ora pigliavano
l'armi i Grandi, ora le maggiori ora le minori Arti e il popolo
minuto con quelle; e più volte ad un tratto in diverse parti
della terra tutti erano armati. Onde ne seguì, e infra loro e
con le genti del Palagio, assai zuffe, perché la Signoria,
ora cedendo, ora combattendo a tanti inconvenienti come poteva il
meglio rimediava. Tanto che alla fine, dopo duoi parlamenti e
più balie che per riformare la città si creorono, dopo
molti danni, travagli e pericoli gravissimi, si fermò uno
governo, per il quale alla patria tutti quelli che erano stati
confinati poi che messer Salvestro de' Medici era stato gonfaloniere
si restituirono; tolsonsi preeminenzie e provisioni a tutti quelli
che dalla balia del '78 ne erano stati proveduti; renderonsi gli
onori alla Parte guelfa; privoronsi le due Arti nuove de' loro corpi
e governi, e ciascuno de' sottoposti a quelle sotto le antiche Arti
loro si rimissono; privoronsi l'Arti minori del gonfaloniere di
giustizia, e ridussonsi dalla metà alla terza parte degli
onori, e di quelli si tolsono loro quelli di maggiore
qualità. Sì che la parte de' popolani nobili e de'
Guelfi riassunse lo stato, e quella della plebe lo perdé; del
quale era stata principe dal 1378 allo '81, che seguirono queste
novità.
22
Né fu questo stato meno ingiurioso verso i suoi cittadini,
né meno grave ne' suoi principii, che si fusse stato quello
della plebe; perché molti nobili popolani che erano notati
defensori di quella furono confinati insieme con gran numero de'
capi plebei, intra i quali fu Michele di Lando; né lo
salvò dalla rabbia delle parti tanti beni de' quali era stato
cagione la sua autorità, quando la sfrenata moltitudine
licenziosamente rovinava la città. Fugli per tanto alle sue
buone operazioni la sua patria poco grata: nel quale errore
perché molte volte i principi e le republiche caggiono, ne
nasce che gli uomini, sbigottiti da simili esempli prima che possino
sentire la ingratitudine de' principi loro, gli offendono. Questi
esili e queste morti, come sempre mai dispiacquono, a messer
Benedetto Alberti dispiacevono, e publicamente e privatamente le
biasimava; donde i principi dello stato lo temevano, perché
lo stimavano uno de' primi amici della plebe e credevono che gli
avessi consentito alla morte di messer Giorgio Scali, non
perché i modi suoi gli dispiacessero, ma per rimanere solo
nel governo. Accrescevono di poi le sue parole e suoi modi il
sospetto; il che faceva che tutta la parte che era principe teneva
gli occhi volti verso di lui, per pigliare occasione di poterlo
opprimere. Vivendosi in questi termini, non furono le cose di fuora
molto gravi; per ciò che alcuna ne seguì fu più
di spavento che di danno. Perché in questo tempo venne
Lodovico d'Angiò in Italia, per rendere il regno di Napoli
alla reina Giovanna e cacciarne Carlo di Durazzo. La passata sua
spaurì assai i Fiorentini; perché Carlo, secondo il
costume degli amici vecchi, chiedeva da loro aiuti, e Lodovico
domandava, come fa chi cerca le amicizie nuove, si stessero di
mezzo. Donde i Fiorentini, per mostrare di sodisfare a Lodovico e
aiutare Carlo, rimossono dai loro soldi messer Giovanni Aguto, e a
papa Urbano, che era di Carlo amico, lo ferono condurre: il quale
inganno fu facilmente da Lodovico cognosciuto, e si tenne assai
ingiuriato da i Fiorentini. E mentre che la guerra intra Lodovico e
Carlo, in Puglia, si travagliava, venne di Francia nuova gente in
favore di Lodovico; la quale, giunta in Toscana, fu dai fuori usciti
aretini condotta in Arezzo, e trattane la parte che per Carlo
governava. E quando disegnavano mutare lo stato di Firenze come
eglino avevono mutato quello di Arezzo, seguì la morte di
Lodovico, e le cose, in Puglia e in Toscana, variorono con la
fortuna l'ordine, perché Carlo si assicurò di quel
regno che gli aveva quasi che perduto, e i Fiorentini, che
dubitavano di potere difendere Firenze, acquistorono Arezzo,
perché da quelle genti che per Lodovico lo tenevono lo
comperorono. Carlo adunque, assicurato di Puglia, ne andò per
il regno di Ungheria, il quale per eredità gli perveniva, e
lasciò la moglie in Puglia, con Ladislao e Giovanna suoi
figliuoli ancora fanciulli, come nel suo luogo dimostrammo.
Acquistò Carlo l'Ungheria; ma poco di poi vi fu morto.
23
Fecesi di quello acquisto, in Firenze, allegrezza solenne, quanta
mai in alcuna città per alcuna propria vittoria si facesse:
dove la publica e la privata magnificenza si cognobbe, per
ciò che molte famiglie a gara con il pubblico festeggiorono.
Ma quella che di pompa e di magnificenza superò le altre fu
la famiglia degli Alberti, perché gli apparati, l'armeggerie
che da quella furono fatte furono non d'una gente privata, ma di
qualunque principe degni. Le quali cose accrebbono a quella assai
invidia, la quale, aggiunta al sospetto che lo stato aveva di messer
Benedetto, fu cagione della sua rovina; per ciò che quelli
che governavano non potevono di lui contentarsi, parendo loro che ad
ogni ora potesse nascere che, con il favore della Parte, egli
ripigliasse la reputazione sua e gli cacciasse della città. E
stando in questa dubitazione, occorse che, sendo egli gonfalonieri
delle Compagnie, fu tratto gonfaloniere di giustizia messer Filippo
Magalotti suo genero: la qual cosa raddoppiò il timore a'
principi dello stato, pensando che a messer Benedetto si
aggiugnevono troppe forze e allo stato troppo pericolo. E
desiderando sanza tumulto rimediarvi, dettono animo a Bese
Magalotti, suo consorte e nimico, che significasse a' Signori che
messer Filippo, mancando del tempo che si richiedeva ad esercitare
quel grado, non poteva né doveva ottenerlo. Fu la causa intra
i Signori esaminata; e parte di loro per odio, parte per levare
scandolo, giudicorono messer Filippo a quella degnità
inabile. E fu tratto in suo luogo Bardo Mancini, uomo al tutto alla
fazione plebea contrario e a messer Benedetto nimicissimo; tanto
che, preso il magistrato, creò una balia, la quale, nel
ripigliare e riformare lo stato, confinò messer Benedetto
Alberti e il restante della famiglia ammunì, eccetto che
messer Antonio. Chiamò messer Benedetto, avanti al suo
partire, tutti i suoi consorti, e veggendogli mesti e pieni di
lacrime, disse loro: - Voi vedete, padri e maggiori miei, come la
fortuna ha rovinato me e minacciato voi di che né io mi
maraviglio, né voi vi dovete maravigliare, perché
sempre così avvenne a coloro i quali intra molti cattivi
vogliono essere buoni, e che vogliono sostenere quello che i
più cercono di rovinare. Lo amore della mia patria mi fece
accostare a messer Salvestro de' Medici e di poi da messer Giorgio
Scali discostare; quello medesimo mi faceva i costumi di questi che
ora governono odiare; i quali, come ei non avevono chi gli
gastigasse non hanno ancora voluto chi gli riprenda. E io sono
contento, con il mio esilio, liberargli da quello timore che loro
avevono, non di me solamente, ma di qualunque sanno che conosce i
tirannici e scelerati modi loro; e per ciò hanno, con le
battiture mie, minacciato gli altri. Di me non mi incresce,
perché quelli onori che la patria libera mi ha dati la serva
non mi può torre; e sempre mi darà maggiore piacere la
memoria della passata vita mia, che non mi darà dispiacere
quella infelicità che si tirerà drieto il mio esilio.
Duolmi bene che la mia patria rimanga in preda di pochi, e alla loro
superbia e avarizia sottoposta; duolmi di voi, perché io
dubito che quelli mali che finiscono oggi in me e cominciono in voi,
con maggiori danni che non hanno perseguitato me non vi perseguino.
Confortovi adunque a fermare l'animo contro ad ogni infortunio, e
portarvi in modo che, se cosa alcuna avversa vi avviene, che ve ne
avverranno molte, ciascuno cognosca, innocentemente e sanza vostra
colpa esservi avvenute -. Di poi, per non dare di sé minore
opinione di bontà fuora, che si avesse data in Firenze, se ne
andò al Sepulcro di Cristo, dal quale tornando morì a
Rodi. Le ossa del quale furono condotte in Firenze, e da coloro con
grandissimo onore sepulte, che, vive, con ogni calunnia e ingiuria
avevono perseguitate.
24
Non fu, in questi travagli della città, solamente la famiglia
degli Alberti offesa, ma con quella molti cittadini ammuniti e
confinati furono, intra i quali fu Piero Benini, Matteo Alderotti,
Giovanni e Francesco del Bene, Giovanni Benci, Andrea Adimari, e con
questi gran numero di minori artefici: intra gli ammuniti furono i
Covoni, i Benini i Rinucci, i Formiconi, i Corbizzi, i Mannelli e
gli Alderotti. Era consuetudine creare la balia per un tempo; ma
quelli cittadini, fatto ch'eglino avevono quello per che gli erano
stati deputati, per onestà, ancora che il tempo non fusse
venuto, rinunciavano. Parendo per tanto a quelli uomini avere
sodisfatto allo stato, volevono, secondo il costume, rinunziare. Il
che intendendo, molti corsono al Palagio armati, chiedendo che
avanti alla renunzia, molti altri confinassero e ammunissero. Il che
dispiacque assai a' Signori; e con buone promesse tanto gli
intrattennono che si feciono forti, e di poi operorono che la paura
facesse loro posare quelle armi che la rabbia aveva fatte pigliare.
Non di meno, per sodisfare in parte a sì rabbioso umore, e
per torre agli artefici plebei più autorità,
providdono che, dove gli avevono la terza parte degli onori, ne
avessero la quarta; e acciò che sempre fussero de' Signori
duoi de' più confidenti allo stato, dierono autorità
al gonfaloniere di giustizia e quattro altri cittadini di fare una
borsa di scelti de' quali in ogni Signoria se ne traessi duoi.
25
Fermato così lo stato, dopo sei anni, che fu nel 1381
ordinato, visse la città dentro insino al '93 assai quieta.
Nel qual tempo Giovan Galeazzo Visconti, chiamato Conte di
Virtù, prese messer Bernabò suo zio, e per ciò
diventò di tutta Lombardia principe. Costui credette potere
divenire re di Italia con la forza, come gli era diventato duca di
Milano con lo inganno; e mosse, nel '90, una guerra grandissima a'
Fiorentini; e in modo variò quella nel maneggiarsi, che molte
volte fu il Duca più presso al pericolo di perdere, che i
Fiorentini, i quali, se non moriva, avevono perduto. Non di meno le
difese furono animose e mirabili ad una republica, e il fine fu
assai meno malvagio che non era stata la guerra spaventevole;
perché, quando il Duca aveva preso Bologna, Pisa, Perugia e
Siena, e che gli aveva preparata la corona per coronarsi in Firenze
re di Italia, morì: la qual morte non gli lasciò
gustare le sue passate vittorie, e a' Fiorentini non lasciò
sentire le loro presenti perdite. Mentre che questa guerra con il
Duca si travagliava, fu fatto gonfalonieri di giustizia messer Maso
degli Albizzi, il quale la morte di Piero aveva fatto nimico agli
Alberti. E perché tuttavolta vegghiavano gli umori delle
parti, pensò messer Maso, ancora che messer Benedetto fusse
morto in esilio, avanti che deponesse il magistrato, con il
rimanente di quella famiglia vendicarsi. E prese la occasione da uno
che sopra certe pratiche tenute con i rebelli fu esaminato, il quale
Alberto e Andrea degli Alberti nominò. Furono costoro subito
presi, donde tutta la città se ne alterò, tale che i
Signori, provedutisi d'arme, il popolo a parlamento chiamorono, e
feciono uomini di balia, per virtù della quale assai
cittadini confinorono e nuove imborsazioni d'uffizi ferono. Intra i
confinati furono quasi che tutti gli Alberti; furono ancora di molti
artefici ammuniti e morti, onde che, per le tante ingiurie, le Arti
e popolo minuto si levò in arme, parendogli che fusse tolto
loro l'onore e la vita. Una parte di costoro vennero in Piazza
un'altra corse a casa messer Veri de' Medici, il quale, dopo la
morte di messer Salvestro, era di quella famiglia rimasto capo. A
quelli che vennero in Piazza i Signori, per addormentargli, dierono
per capi, con le insegne di parte guelfa e del popolo in mano,
messer Rinaldo Gianfigliazzi e messer Donato Acciaiuoli, come
uomini, de' popolani, più alla plebe che alcuni altri
accetti. Quelli che corsono a casa messer Veri lo pregavano che
fusse contento prendere lo stato e liberargli dalla tirannide di
quelli cittadini che erano de' buoni e del bene comune destruttori.
Accordansi tutti quelli che di questi tempi hanno lasciata alcuna
memoria che, se messer Veri fusse stato più ambizioso che
buono, poteva sanza alcuno impedimento farsi principe della
città; perché le gravi ingiurie che, a ragione e a
torto, erano alle Arti e agli amici di quelle state fatte avevano in
maniera accesi gli animi alla vendetta, che non mancava, a sodisfare
ai loro appetiti, altro che un capo che gli conducesse. Né
mancò chi ricordasse a messer Veri quello che poteva fare,
perché Antonio de' Medici, il quale aveva tenuto seco
più tempo particulare inimicizia, lo persuadeva a pigliare il
dominio della republica. Al quale messer Veri disse: - Le tue
minacce, quando tu mi eri inimico, non mi feciono mai paura,
né ora che tu mi sei amico mi faranno male i tuoi consigli; -
e rivoltosi alla moltitudine, gli confortò a fare buono
animo, per ciò che voleva essere loro defensore,
purché si lasciassero da lui consigliare. E andatone in mezzo
di loro, in Piazza, e di quivi salito in Palagio, davanti a'
Signori, disse non si poter dolere in alcun modo di essere vivuto in
maniera che il popolo di Firenze lo amasse, ma che gli doleva bene
che avesse di lui fatto quello giudizio che la sua passata vita non
meritava; per ciò che, non avendo mai dati di sé
esempli di scandoloso o di ambizioso, non sapeva donde si fusse nato
che si credesse che fusse mantenitore degli scandoli come inquieto,
o occupatore dello stato come ambizioso. Pregava per tanto loro
Signorie che la ignoranzia della moltitudine non fusse a suo peccato
imputata, perché, quanto apparteneva a lui, come prima aveva
potuto si era rimesso nelle forze loro. Ricordava bene fussero
contenti usare la fortuna modestamente, e che bastasse loro
più tosto godersi una mezzana vittoria con salute della
città, che, per volerla intera, rovinare quella. Fu messer
Veri lodato da' Signori, e confortato a fare posare le armi; e che
di poi non mancherebbono di fare quello che fussero da lui e dagli
altri cittadini consigliati. Tornossi, dopo queste parole, messer
Veri in Piazza, e le sue brigate con quelle che da messer Rinaldo e
messer Donato erano guidate congiunse. Di poi disse a tutti avere
trovato ne' Signori una ottima volontà verso di loro, e che
molte cose s'erano parlate, ma, per il tempo breve e per la assenzia
de' magistrati, non si erano concluse. Per tanto gli pregava
posassero le armi e ubbidissero ai Signori, facendo loro fede che la
umanità più che la superbia, i prieghi più che
le minacce erano per muovergli, e come e' non mancherebbe loro grado
e securtà, se e' si lasciavano governare da lui: tanto che,
sotto la sua fede, ciascuno alle sue case fece ritornare.
26
Posate le armi, i Signori prima armorono la Piazza; scrissono di poi
dumila cittadini confidenti allo stato, divisi ugualmente per
gonfaloni, i quali ordinorono fussero presti al soccorso loro
qualunque volta gli chiamassero; e ai non scritti lo armarsi
proibirono. Fatte queste preparazioni, confinorono e ammazzorono
molti artefici, di quelli che più feroci che gli altri si
erano ne' tumulti dimostri; e perché il gonfaloniere della
giustizia avesse più maestà e reputazione, providono
che fusse, ad esercitare quella dignità, di avere
quarantacinque anni necessario. In fortificazione dello stato ancora
molti provedimenti feciono, i quali erano contro a quelli che si
facevano insopportabili, e ai buoni cittadini della parte propria
odiosi, perché non giudicavano uno stato buono o securo, il
quale con tanta violenza bisognasse difendere. E non solamente a
quelli degli Alberti che restavano nella città, e ai Medici,
ai quali pareva avere ingannato il popolo, ma a molti altri tanta
violenza dispiaceva. E il primo che cercò di opporsegli fu
messer Donato di Iacopo Acciaiuoli. Costui, ancora che fusse grande
nella città, e più tosto superiore che compagno a
messer Maso degli Albizzi, il quale per le cose fatte nel suo
gonfalonierato era come capo della republica, non poteva intra tanti
mali contenti vivere bene contento, né recarsi, come i
più fanno, il comune danno a privato commodo; e per
ciò fece pensiero di fare esperienza se poteva rendere la
patria agli sbanditi, o almeno gli uffici agli ammuniti. E andava
negli orecchi di questo e quell'altro cittadino questa sua opinione
seminando, mostrando come e' non si poteva altrimenti quietare il
popolo e gli umori delle parti fermare; né aspettava altro
che di essere de' Signori, a mandare ad effetto questo suo
desiderio. E perché nelle azioni nostre lo indugio arreca
tedio e la fretta pericolo, si volse, per fuggire il tedio, a
tentare il pericolo. Erano de' Signori Michele Acciaiuoli suo
consorte e Niccolò Ricoveri suo amico, donde parve a messer
Donato che gli fusse data occasione da non la perdere, e gli
richiese che dovessero preporre una legge a' Consigli, nella quale
si contenesse la restituzione de' cittadini. Costoro, persuasi da
lui, ne parlorono con i compagni, i quali risposono che non erano
per tentare cose nuove, dove lo acquisto è dubio e il
pericolo certo. Onde che messer Donato, avendo prima invano tutte le
vie tentate, mosso da ira fece intendere loro come, poi che non
volevono che la città con i partiti in mano si ordinasse la
si ordinerebbe con le armi. Le quali parole tanto dispiacquero che,
comunicata la cosa con i principi del governo, fu messer Donato
citato; e comparso, fu da quello a chi egli aveva commessa la
imbasciata convinto, tale che fu a Barletta confinato. Furono ancora
confinati Alamanno e Antonio de' Medici, con tutti quelli che di
quella famiglia da messer Alamanno discesi erano, insieme con molti
artefici ignobili, ma di credito appresso alla plebe. Le quali cose
seguirono duoi anni poi che da messer Maso era stato ripreso lo
stato.
27
Stando così la città, con molti mali contenti dentro e
molti sbanditi di fuora, si trovavano intra gli sbanditi, a Bologna
Picchio Cavicciuli, Tommaso de' Ricci, Antonio de' Medici, Benedetto
degli Spini, Antonio Girolami, Cristofano di Carlone, con duoi altri
di vile condizione, ma tutti giovani, feroci e disposti, per tornare
nella patria, a tentare ogni fortuna. A costoro fu mostro per
secrete vie, da Piggiello e Baroccio Cavicciuli, i quali, ammuniti,
in Firenze vivevano, che, se venivono nella città
secretamente, gli riceverebbono in casa, donde e' potevono poi,
uscendo, ammazzare messer Maso degli Albizzi e chiamare il popolo
alle armi; il quale, sendo male contento, facilmente si poteva
sollevare massime perché sarebbono da' Ricci, Adimari,
Medici, Mannelli e da molte altre famiglie seguitati. Mossi per
tanto costoro da queste speranze, a dì 4 di agosto nel 1397,
vennono in Firenze, ed entrati secretamente dove era stato loro
ordinato, mandorono ad osservare messer Maso, volendo da la sua
morte muovere il tumulto. Uscì messer Maso di casa, e in uno
speziale, a San Piero Maggiore propinquo, si fermò. Corse chi
era ito ad osservarlo, a significarlo a' congiurati, i quali, prese
le armi e venuti al luogo dimostro, lo trovorono partito; onde, non
sbigottiti per non essere loro questo primo disegno riuscito, si
volsono verso Mercato vecchio, dove uno della parte avversa
ammazzorono; e levato il romore, gridando: - popolo, arme,
libertà - e: - muoiano i tiranni, - volti verso Mercato
nuovo, alla fine di Calimara ne ammazzorono un altro; e seguitando
con le medesime voci il loro cammino, e niuno pigliando le armi,
nella loggia della Nighittosa si ridussono. Quivi si missono in
luogo alto, avendo grande moltitudine intorno, la quale più
per vedergli che per favorirgli era corsa, e con voce alta gli
uomini a pigliare le armi e uscire di quella servitù che loro
avevano cotanto odiata confortavano, affermando che i rammarichii
de' mali contenti della città, più che le ingiurie
proprie, gli avevano a volergli liberare mossi, e come avevano
sentito che molti pregavano Iddio che dessi loro occasione di
potersi vendicare, il che farebbono qualunque volta avessero capo
che gli movesse, e ora che la occasione era venuta, e che gli
avevano i capi che gli movevano, sguardavano l'uno l'altro, e come
stupidi aspettavano che i motori della liberazione loro fussero
morti e loro nella servitù raggravati; e che si
maravigliavano che coloro i quali per una minima ingiuria solevono
pigliare le armi, per tante non si movessero, e che volessero
sopportare che tanti loro cittadini fussero sbanditi, e tanti
ammuniti; ma che gli era posto nello arbitrio loro rendere agli
sbanditi la patria e agli ammuniti lo stato. Le quali parole, ancora
che vere, non mossono in alcuna parte la moltitudine, o per timore,
o perché la morte di quelli duoi avesse fatti gli ucciditori
odiosi. Tale che, vedendo i motori del tumulto come né le
parole né i fatti avevono forza di muovere alcuno, tardi
avvedutisi quanto sia pericoloso volere fare libero un popolo che
voglia in ogni modo essere servo, disperatisi della impresa, nel
tempio di Santa Reparata si ritirorono, dove, non per campare la
vita, ma per differire la morte, si rinchiusono. I Signori, al primo
romore, turbati, armorono e serrorono il Palagio; ma poi che fu
inteso il caso, e saputo quali erano quelli che movevono lo
scandolo, e dove si erano rinchiusi, si rassicurorono, e al Capitano
con molti altri armati che a prendergli andassero comandarono. Tale
che senza molta fatica le porte del tempio sforzate furono, e parte
di loro, difendendosi, morti, e parte presi. I quali esaminati, non
si trovò altri in colpa fuora di loro, che Baroccio e
Piggiello Cavicciuli, i quali insieme con quelli furono morti.
28
Dopo questo accidente ne nacque un altro di maggiore importanza.
Aveva la città, in questi tempi, come di sopra dicemmo,
guerra con il Duca di Milano, il quale, vedendo come ad opprimere
quella le forze aperte non bastavano, si volse alle occulte, e per
mezzo de' fuori usciti fiorentini, de' quali la Lombardia era piena,
ordinò uno trattato, del quale molti di dentro erano
consapevoli, per il quale si era concluso che, ad un certo giorno,
dai luoghi più propinqui a Firenze, gran parte de' fuori
usciti atti alle armi si partissero, e per il fiume di Arno nella
città entrassero; i quali, insieme con i loro amici di
dentro, alle case de' primi dello stato corressero, e quelli morti,
riformassero secondo la volontà loro la republica. Intra i
congiurati di dentro era uno de' Ricci, nominato Saminiato; e come
spesso nelle congiure avviene, che i pochi non bastano e gli assai
le scuoprono, mentre che Saminiato cercava di guadagnarsi compagni,
trovò lo accusatore. Conferì costui la cosa a
Salvestro Cavicciuli, il quale le ingiurie de' suoi parenti e sue
dovevono fare fedele; non di meno egli stimò più il
propinquo timore che la futura speranza, e subito tutto il trattato
aperse ai Signori; i quali, fatto pigliare Saminiato, a manifestare
tutto l'ordine della congiura constrinsono. Ma de' consapevoli non
ne fu preso, fuora che Tommaso Davizi alcuno, il quale, venendo da
Bologna, non sapendo quello che in Firenze era occorso, fu, prima
che gli arrivasse, sostenuto: gli altri tutti, dopo la cattura di
Saminiato, spaventati, si fuggirono. Puniti per tanto, secondo i
loro falli, Saminiato e Tommaso, si dette balia a più
cittadini, i quali con la autorità loro i delinquenti
cercassero e lo stato assicurassero. Costoro feciono rubelli sei
della famiglia de' Ricci, sei di quella degli Alberti, duoi de'
Medici, tre degli Scali, duoi degli Strozzi, Bindo Altoviti,
Bernardo Adimari, con molti ignobili, ammunirono ancora tutta la
famiglia degli Alberti, Ricci e Medici per dieci anni, eccetto pochi
di loro. Era intra quegli degli Alberti non ammunito messer Antonio
per essere tenuto uomo quieto e pacifico. Occorse che, non essendo
ancora spento il sospetto della congiura fu preso uno monaco stato
veduto, in ne' tempi che i congiurati praticavano, andare più
volte da Bologna a Firenze: confessò costui avere più
volte portate lettere a messer Antonio, donde che subito fu preso, e
benché da principio negasse, fu dal monaco convinto, e per
ciò in danari condennato, e discosto dalla città
trecento miglia confinato. E perché ciascuno giorno gli
Alberti a pericolo lo stato non mettessero, tutti quelli che in
quella famiglia fussero maggiori di quindici anni confinorono.
29
Questo accidente seguì nel 1400; e duoi anni appresso
morì Giovan Galeazzo duca di Milano; la cui morte, come di
sopra dicemmo, a quella guerra che dodici anni era durata pose fine.
Nel qual tempo, avendo il governo preso più autorità,
sendo rimaso sanza nimici fuora e dentro, si fece la impresa di
Pisa, e quella gloriosamente si vinse; e si stette dentro
quietamente dal 1400 al 33. Solo nel 1412, per avere gli Alberti
rotti i confini, si creò contra di loro nuova balia, la quale
con nuovi provedimenti rafforzò lo stato, e gli Alberti con
taglie perseguitò. Nel qual tempo feciono ancora i Fiorentini
guerra con Ladislao re di Napoli, la quale per la morte del Re, nel
1414, finì. E nel travaglio di essa, trovandosi il Re
inferiore, concedé a' Fiorentini la città di Cortona,
della quale era signore; ma poco di poi riprese le forze e
rinnovò con loro la guerra, la quale fu molto più che
la prima pericolosa, e se la non finiva per la morte sua, come
già era finita quella del Duca di Milano, aveva ancora egli,
come quel Duca, Firenze in pericolo di non perdere la sua
libertà condotto. Né questa guerra finì con
minore ventura che quella, perché, quando egli aveva preso
Roma, Siena, la Marca tutta e la Romagna, e che non gli mancava
altro che Firenze ad ire con la potenza sua in Lombardia, si
morì. E così la morte fu sempre più amica a'
Fiorentini che niuno altro amico, e più potente a salvargli
che alcuna loro virtù. Dopo la morte di questo Re stette la
città quieta, fuori e dentro, otto anni; in capo del qual
tempo, insieme con le guerre di Filippo duca di Milano, rinnovorono
le parti; le quali non posorono prima che con la rovina di quello
stato il quale da il 1381 al 1434 aveva regnato, e fatto con tanta
gloria tante guerre, e acquistato allo imperio suo Arezzo, Pisa,
Cortona, Livorno e Monte Pulciano. E maggiore cose arebbe fatte, se
la città si manteneva unita, e non si fussero riaccesi gli
antichi umori in quella; come nel seguente libro particularmente si
dimosterrà.
LIBRO QUARTO
1
Le città, e quelle massimamente che non sono bene ordinate,
le quali sotto nome di republica si amministrano, variano spesso i
governi e stati loro, non mediante la libertà e la
servitù, come molti credono, ma mediante la servitù e
la licenza. Perché della libertà solamente il nome dai
ministri della licenza, che sono i popolari, e da quelli della
servitù, che sono i nobili, è celebrato, desiderando
qualunque di costoro non essere né alle leggi né agli
uomini sottoposto. Vero è che quando pure avviene (che
avviene rade volte) che, per buona fortuna della città, surga
in quella un savio, buono e potente cittadino, da il quale si
ordinino leggi per le quali questi umori de' nobili e de' popolani
si quietino, o in modo si ristringhino che male operare non possino,
allora è che quella città si può chiamare
libera, e quello stato si può stabile e fermo giudicare;
perché, sendo sopra buone leggi e buoni ordini fondato, non
ha necessità della virtù d'uno uomo, come hanno gli
altri, che lo mantenga. Di simili leggi e ordini molte republiche
antiche, gli stati delle quali ebbono lunga vita, furono dotate; di
simili ordini e leggi sono mancate e mancano tutte quelle che spesso
i loro governi da lo stato tirannico a licenzioso, e da questo a
quell'altro, hanno variato e variano. Perché in essi, per i
potenti nimici che ha ciascuno di loro, non è né puote
essere alcuna stabilità; perché l'uno non piace agli
uomini buoni, l'altro dispiace a' savi; l'uno può fare male
facilmente, l'altro può fare bene con difficultà;
nell'uno hanno troppa autorità gli uomini insolenti,
nell'altro gli sciocchi; e l'uno e l'altro di essi conviene che sia
da la virtù e fortuna d'uno uomo mantenuto, il quale, o per
morte può venire meno, o per travagli diventare inutile.
2
Dico per tanto che lo stato il quale in Firenze da la morte di
messer Giorgio Scali ebbe, nel 1381, il principio suo fu prima dalla
virtù di messer Maso degli Albizzi, di poi da quella di
Niccolò da Uzano sostenuto. Visse la città da il 1414
per infino al '22 quietamente sendo morto il re Ladislao, e lo stato
di Lombardia in più parti diviso in modo che di fuora
né dentro era alcuna cosa che la facesse dubitare. Appresso a
Niccolò da Uzano, cittadini di autorità erano
Bartolomeo Valori, Nerone di Nigi, messer Rinaldo degli Albizzi,
Neri di Gino e Lapo Niccolini. Le parti che nacquono per la
discordia degli Albizzi e de' Ricci e che furono di poi da messer
Salvestro de' Medici con tanto scandolo risuscitate, mai non si
spensono e benché quella che era più favorita dallo
universale solamente tre anni regnasse e che nel 1381 la rimanesse
vinta, non di meno, comprendendo lo umore di quella la maggiore
parte della città, non si potette mai al tutto spegnere. Vero
è che gli spessi parlamenti e le continue persecuzioni fatte
contro a' capi di quella da lo '81 al 400 la redussono quasi che a
niente. Le prime famiglie che furono come capi di essa perseguitate
furono Alberti, Ricci e Medici, le quali più volte di uomini
e di ricchezze spogliate furono; e se alcuni nella città ne
rimasono, furono loro tolti gli onori: le quali battiture renderono
quella parte umile e quasi che la consumarono. Restava non di meno
in molti uomini una memoria delle iniurie ricevute e uno desiderio
di vendicarle; il quale, per non trovare dove appoggiarsi, occulto
nel petto loro rimaneva. Quelli nobili popolani i quali
pacificamente governavano la città, feciono duoi errori, che
furono la rovina dello stato di quelli: l'uno, che diventorono per
il continuo dominio, insolenti; l'altro, che, per la invidia
ch'eglino avevono l'uno all'altro, e per la lunga possessione nello
stato, quella cura di chi gli potesse offendere che dovevono non
tennono.
3
Rinfrescando adunque costoro con i loro sinistri modi, ogni
dì, l'odio nello universale, e non vigilando le cose nocive
per non le temere, o nutrendole per invidia l'uno dell'altro,
feciono che la famiglia de' Medici riprese autorità. Il primo
che in quella cominciò a risurgere fu Giovanni di Bicci.
Costui, sendo diventato ricchissimo, ed essendo di natura benigno e
umano, per concessione di quegli che governavano fu condotto al
supremo magistrato. Di che per lo universale della città se
ne fece tanta allegrezza, parendo alla moltitudine aversi guadagnato
uno defensore, che meritamente ai più savi la fu sospetta,
perché si vedeva tutti gli antichi umori cominciare a
risentirsi. E Niccolò da Uzano non mancò di avvertirne
gli altri cittadini, mostrando quanto era pericoloso nutrire uno che
avesse nello universale tanta reputazione; e come era facile opporsi
a' disordini ne' principii, ma lasciandogli crescere, era difficile
il rimediarvi; e che cognosceva come in Giovanni erano molte parti
che superavano quelle di messer Salvestro. Non fu Niccolò da'
suoi uguali udito, perché avevano invidia alla reputazione
sua e desideravano avere compagni a batterlo. Vivendosi per tanto in
Firenze intra questi umori, i quali occultamente cominciavano a
ribollire, Filippo Visconti, secondo figliuolo di Giovanni Galeazzo,
sendo, per la morte del fratello, diventato signore di tutta
Lombardia, e parendogli potere disegnare qualunque impresa,
desiderava sommamente riinsignorirsi di Genova, la quale allora,
sotto il dogato di messer Tommaso da Campo Fregoso, libera si
viveva; ma si diffidava potere o quella o altra impresa ottenere, se
prima non publicava nuovo accordo co' Fiorentini, la riputazione del
quale giudicava gli bastasse a potere a' suoi desiderii sodisfare.
Mandò per tanto suoi oratori a Firenze a domandarlo. Molti
cittadini consigliavano che non si facesse; ma che, sanza farlo,
nella pace che molti anni s'era mantenuta seco si perseverasse,
perché cognoscevono il favore che il farlo gli arrecava e il
poco utile che la città ne traeva. A molti altri pareva da
farlo, e per virtù di quello imporgli termini, i quali
trapassando, ciascuno cognoscesse il cattivo animo suo, e si
potesse, quando e' rompesse la pace, più giustificatamente
fargli la guerra. E così, disputata la cosa assai, si
fermò la pace, nella quale Filippo promisse non si
travagliare delle cose che fussero dal fiume della Magra e del
Panaro in qua.
4
Fatto questo accordo, Filippo occupò Brescia, e poco di poi
Genova, contro alla opinione di quegli che in Firenze avevano
confortata la pace, perché credevano che Brescia fusse difesa
da' Viniziani e Genova per se medesima si defendesse. E
perché nello accordo che Filippo aveva fatto con il doge di
Genova gli aveva lasciate Serezana e altre terre poste di qua dalla
Magra, con patti che, volendo alienarle, fusse obligato darle a'
Genovesi, veniva Filippo ad avere violata la pace: aveva, oltre di
questo, fatto accordo con il legato di Bologna: le quali cose
alterorono gli animi de' nostri cittadini, e fernogli, dubitando di
nuovi mali, pensare a nuovi rimedi. Le quali perturbazioni venendo a
notizia a Filippo, o per giustificarsi, o per tentare gli animi de'
Fiorentini, o per addormentargli, mandò a Firenze
ambasciadori, mostrando maravigliarsi de' sospetti presi e offerendo
rinunziare a qualunque cosa fusse da lui stata fatta, che potesse
generare alcuno sospetto. I quali ambasciadori non feciono altro
effetto che dividere la città, perché una parte e
quelli che erano più reputati nel governo, giudicavano che
fusse bene armarsi e prepararsi a guastare i disegni al nimico; e
quando le preparazioni fussero fatte, e Filippo stesse quieto, non
era mossa la guerra, ma data cagione alla pace: molti altri, o per
invidia di chi governava, o per timore di guerra, giudicavano che
non fusse da insospettire d'uno amico leggiermente; e che le cose
fatte da lui non erano degne di averne tanto sospetto, ma che
sapevono bene che il creare i Dieci, il soldare gente, voleva dire
guerra; la quale se si pigliava con un tanto principe, era con una
certa rovina della città, e sanza poterne sperare alcuno
utile, non potendo noi delli acquisti che si facessero, per avere la
Romagna in mezzo, diventarne signori, e non potendo alle cose di
Romagna, per la vicinità della Chiesa, pensare. Valse non di
meno più l'autorità di quelli che si volevono
preparare alla guerra, che quella di coloro che volevono ordinarsi
alla pace; e creorono i Dieci, soldorono gente e posono nuove
gravezze. Le quali, perché le aggravavano più i minori
che i maggiori cittadini, empierono la città di rammarichii;
e ciascuno dannava l'ambizione e l'avarizia de' potenti,
accusandogli che, per sfogare gli appetiti loro e opprimere, per
dominare, il popolo, volevono muovere una guerra non necessaria.
5
Non si era ancora venuto con il Duca a manifesta rottura; ma ogni
cosa era piena di sospetto, perché Filippo aveva, a richiesta
del legato di Bologna, il quale temeva di messer Antonio Bentivogli,
che fuori uscito si trovava a Castel Bolognese, mandate genti in
quella città; le quali, per essere propinque al dominio di
Firenze, tenevono in sospetto lo stato di quella. Ma quello che fece
più spaventare ciascuno, e dette larga cagione di scoprire la
guerra, fu la impresa, che il Duca fece, di Furlì. Era
signore di Furlì Giorgio Ordelaffi, il quale, venendo a
morte, lasciò Tibaldo suo figliuolo sotto la tutela di
Filippo; e benché la madre, parendogli il tutore sospetto, lo
mandasse a Lodovico Alidosi suo padre, che era signore di Imola, non
di meno fu forzata dal popolo di Furlì, per la osservanza del
testamento del padre, a rimetterlo nelle mani del Duca. Onde
Filippo, per dare meno sospetto di sé, e per meglio celare lo
animo suo, ordinò che il marchese di Ferrara mandasse come
suo procuratore Guido Torello, con gente, a pigliare il governo di
Furlì. Così venne quella terra in potestà di
Filippo. La qual cosa, come si seppe a Firenze, insieme con la nuova
delle genti venute a Bologna, fece più facile la
deliberazione della guerra non ostante che l'avesse grande
contradizione e che Giovanni de' Medici publicamente la
sconfortasse, mostrando che, quando bene si fusse certo della mala
mente del Duca, era meglio aspettare che ti assaltasse che farsegli
incontro con le forze; perché in questo caso così era
giustificata la guerra nel conspetto de' principi di Italia da la
parte del Duca come da la parte nostra, né si poteva
animosamente domandare quelli aiuti che si potrebbono scoperta che
fusse l'ambizione sua, e con altro animo e con altre forze si
difenderebbero le cose sue che quelle d'altri. Gli altri dicevano
che non era da aspettare il nimico in casa; ma di andare a trovare
lui; e che la fortuna è amica più di chi assalta che
di chi si difende; e con minori danni, quando fusse con maggiore
spesa, si fa la guerra in casa altri che in casa sua. Tanto che
questa opinione prevalse, e si deliberò che i Dieci facessero
ogni rimedio perché la città di Furlì si
traesse delle mani del Duca.
6
Filippo, vedendo che i Fiorentini volevono occupare quelle cose che
egli aveva prese a difendere, posti da parte i rispetti,
mandò Agnolo della Pergola con gente grossa ad Imola,
acciò che quel Signore, avendo a pensare di difendere il suo,
alla tutela del nipote non pensasse. Arrivato per tanto Agnolo
propinquo ad Imola, sendo ancora le genti de' Fiorentini a
Modigliana, e sendo il freddo grande e per quello diacciati i fossi
della città, una notte, di furto, prese la terra, e Lodovico
ne mandò prigione a Milano. I Fiorentini, veduta perduta
Imola e la guerra scoperta, mandorono le loro genti a Furlì,
le quali posero l'assedio a quella città e da ogni parte la
strignevano. E perché le genti del Duca non potessero, unite,
soccorrerla, avevono soldato il conte Alberigo il quale da Zagonara,
sua terra, scorreva ciascuno dì infino in su le porte di
Imola. Agnolo della Pergola vedeva di non potere securamente
soccorrere Furlì per il forte alloggiamento che avevano le
nostre genti preso, però pensò di andare alla
espugnazione di Zagonara, giudicando che i Fiorentini non fussero
per lasciare perdere quel luogo; e volendo soccorrere, conveniva
loro abbandonare la impresa di Furlì e venire con
disavantaggio alla giornata. Constrinsono adunque, le genti del
Duca, Alberigo a domandare patti; i quali gli furono concessi,
promettendo di dare la terra qualunque volta infra quindici giorni
non fusse da i Fiorentini soccorso. Intesesi questo disordine nel
campo de' Fiorentini e nella città, e desiderando ciascuno
che i nimici non avessero quella vittoria, feciono che ne ebbono una
maggiore, perché, partito il campo da Furlì per
soccorrere Zagonara, come venne allo scontro de' nimici fu rotto,
non tanto dalla virtù degli avversarii, quanto dalla
malignità del tempo; perché, avendo i nostri camminato
parecchi ore intra il fango altissimo e con l'acqua adosso,
trovorono i nimici freschi, i quali facilmente gli poterono vincere.
Non di meno in una tanta rotta, celebrata per tutta Italia, non
morì altri che Lodovico degli Obizzi insieme con duoi altri
suoi i quali, cascati da cavallo, affogorono nel fango.
7
Tutta la città di Firenze, alla nuova di questa rotta, si
contristò; ma più i cittadini grandi, che avevano
consigliata la guerra, perché vedevono il nimico gagliardo,
loro disarmati, sanza amici, e il popolo loro contro. Il quale per
tutte le piazze con parole ingiuriose gli mordeva, dolendosi delle
gravezze sopportate e della guerra mossa sanza cagione dicendo: -
Ora hanno creati costoro i Dieci per dare terrore al nimico? ora
hanno eglino soccorso Furlì e trattolo delle mani del Duca?
Ecco che si sono scoperti i consigli loro, e a quale fine
camminavano: non per difendere la libertà, la quale è
loro nimica, ma per accrescere la potenza propria; la quale Iddio ha
giustamente diminuita. Né hanno solo con questa impresa
aggravata la città, ma con molte; perché simile a
questa fu quella contro al re Ladislao. A chi ricorreranno eglino
ora per aiuto? a papa Martino, stato, a contemplazione di Braccio,
straziato da loro? alla reina Giovanna, che, per abbandonarla,
l'hanno fatta gittare in grembo al re d'Aragona? - E oltre a di
questo dicevono tutte quelle cose che suole dire uno popolo adirato.
Per tanto parve a' Signori ragunare assai cittadini, i quali, con
buone parole, gli umori mossi dalla moltitudine quietassero. Donde
che messer Rinaldo degli Albizzi, il quale era rimaso primo
figliuolo di messer Maso e aspirava, con le virtù sua e con
la memoria del padre, al primo grado della città,
parlò lungamente, mostrando che non era prudenza giudicare le
cose dagli effetti, perché molte volte le cose bene
consigliate hanno non buono fine e le male consigliate l'hanno
buono: e se si lodano i cattivi consigli per il fine buono, non si
fa altro che dare animo agli uomini di errare; il che torna in danno
grande delle republiche, perché sempre i mali consigli non
sono felici: così medesimamente si errava a biasimare uno
savio partito che abbia fine non lieto, perché si toglieva
animo ai cittadini a consigliare la città e a dire quello che
gli intendono. Poi mostrò la necessità che era di
pigliare quella guerra, e come, se la non si fusse mossa in Romagna,
la si sarebbe fatta in Toscana. Ma poi che Iddio aveva voluto che le
genti fussero state rotte, la perdita sarebbe più grave
quanto più altri si abbandonassi; ma se si mostrava il viso
alla fortuna, e si facevano quelli rimedi si potevano, né
loro sentirebbono la perdita, né il Duca la vittoria. E che
non doveva sbigottirgli le spese e le gravezze future; perché
queste era ragionevole mutare e quelle sarebbono molte minori che le
passate, perché minori apparati sono necessari a chi si vuole
difendere che non sono a quelli che cercano di offendere.
Confortògli, in fine, ad imitare i padri loro, i quali, per
non avere perduto lo animo in qualunque caso avverso, s'erano sempre
contro a qualunque principe difesi.
8
Confortati per tanto i cittadini dalla autorità sua,
soldorono il conte Oddo figliuolo di Braccio, e gli dierono per
governatore Niccolò Piccino, allievo di Braccio e più
reputato che alcuno altro che sotto le insegne di quello avesse
militato; e a quello aggiunsono altri condottieri, e degli spogliati
ne rimessono alcuni a cavallo. Creorono venti cittadini a porre
nuova gravezza; i quali, avendo preso animo per vedere i potenti
cittadini sbattuti per la passata rotta, sanza avere loro alcuno
rispetto gli aggravorono. Questa gravezza offese assai i cittadini
grandi; i quali da principio, per parere più onesti, non si
dolevono della gravezza loro, ma come ingiusta generalmente la
biasimavano, e consigliavano che si dovesse fare uno sgravo. La qual
cosa, cognosciuta da molti, fu loro ne' Consigli impedita: donde,
per fare sentire dalle opere la durezza di quella, e per farla
odiare da molti, operorono che gli esattori con ogni acerbità
la riscotessero, dando autorità loro di potere ammazzare
qualunque contro a' sergenti publici si difendesse. Di che nacquero
molti tristi accidenti, per morte e ferite di cittadini; onde pareva
che le parti venissero al sangue, e ciascuno prudente dubitava di
qualche futuro male, non potendo gli uomini grandi, usi ad essere
riguardati, sopportare di essere manomessi, e gli altri volendo che
ugualmente ciascuno fusse aggravato. Molti per tanto de' primi
cittadini si ristrignevano insieme, e concludevono come gli era di
necessità ripigliare lo stato; perché la poca
diligenzia loro aveva dato animo agli uomini di riprendere le azioni
publiche e fatto pigliare ardire a quelli che solieno essere capi
della moltitudine. E avendo discorso queste cose infra loro
più volte, deliberorono di rivedersi ad un tratto insieme
tutti, e si ragunorono nella chiesa di Santo Stefano più di
settanta cittadini, con licenza di messer Lorenzo Ridolfi e di
Francesco Gianfigliazzi, i quali allora sedevano de' Signori. Con
costoro non convenne Giovanni de' Medici; o che non vi fusse
chiamato come sospetto, o che non vi volesse, come contrario alla
opinione loro, intervenire.
9
Parlò a tutti messer Rinaldo degli Albizzi. Mostrò le
condizioni della città; e come, per negligenzia loro, ella
era tornata nella potestà della plebe, donde nel 1381 era
stata da' loro padri cavata; ricordò la iniquità di
quello stato che regnò da il 78 allo '81; e come da quello a
tutti quelli che erano presenti era stato morto a chi il padre e a
chi l'avolo; e come si ritornava ne' medesimi pericoli, e la
città ne' medesimi disordini ricadeva, perché di
già la moltitudine aveva posto una gravezza a suo modo, e
poco di poi, se la non era da maggiore forza o da migliore ordine
ritenuta, la creerebbe i magistrati secondo lo arbitrio suo; il che
quando seguisse, occuperebbe i luoghi loro, e guasterebbe quello
stato che quarantadue anni con tanta gloria della città aveva
retto, e sarebbe Firenze governata, o a caso, sotto l'arbitrio della
moltitudine, dove per una parte licenziosamente e per l'altra
pericolosamente si viverebbe, o sotto lo imperio di uno che di
quella si facesse principe. Per tanto affermava come ciascuno che
amava la patria e lo onore suo era necessitato a risentirsi e
ricordarsi della virtù di Bardo Mancini, il quale trasse la
città, con la rovina degli Alberti, di quelli pericoli ne'
quali allora era; e come la cagione di questa audacia presa dalla
moltitudine nasceva da' larghi squittini che per negligenzia loro
s'erano fatti, e si era ripieno il Palagio di uomini nuovi e vili.
Concluse per tanto che solo ci vedeva questo modo a rimediarvi:
rendere lo stato ai Grandi, e torre l'autorità alle Arti
minori, riducendole da quattordici a sette; il che farebbe che la
plebe ne' Consigli arebbe meno autorità, sì per essere
diminuito il numero loro, sì ancora per avere in quelli
più autorità i Grandi, i quali per la vecchia
inimicizia gli disfavorirebbero: affermando essere prudenza sapersi
valere degli uomini secondo i tempi; perché, se i padri loro
si valsono della plebe per spegnere la insolenza de' Grandi, ora che
i Grandi erano diventati umili e la plebe insolente era bene frenare
la insolenzia sua con lo aiuto di quelli: e come a condurre queste
cose ci era lo inganno o la forza, alla quale facilmente si poteva
ricorrere, sendo alcuni di loro del magistrato de' Dieci e potendo
condurre secretamente nella città gente. Fu lodato messer
Rinaldo, e il consiglio suo approvò ciascuno. E
Niccolò da Uzano infra gli altri, disse tutte le cose che da
messer Rinaldo erano state dette essere vere, e i rimedi buoni e
certi, quando si potessero fare sanza venire ad una manifesta
divisione della città, il che seguirebbe in ogni modo, quando
non si tirasse alla voglia loro Giovanni de' Medici: perché,
concorrendo quello, la moltitudine, priva di capo e di forze, non
potrebbe offendere; ma non concorrendo egli, non si potrebbe sanza
arme fare, e con l'arme lo giudicava pericoloso o di non potere
vincere o di non potere godersi la vittoria. E ridusse modestamente
loro a memoria i passati ricordi suoi; e come e' non avieno voluto
rimediare a queste difficultà in quelli tempi che facilmente
si poteva; ma che ora non si era più a tempo a farlo sanza
temere di maggiore danno, e non ci restare altro rimedio che
guadagnarselo. Fu data per tanto la commissione a messer Rinaldo che
fusse con Giovanni, e vedesse di tirarlo nella sentenza loro.
10
Esequì il Cavaliere la commissione, e con tutti quelli
termini seppe migliori lo confortò a pigliare questa impresa
con loro, e non volere, per favorire una moltitudine, farla audace
con rovina dello stato e della città. Al quale Giovanni
rispose che l'uffizio d'un savio e buono cittadino credeva essere
non alterare gli ordini consueti della sua città, non sendo
cosa che offenda tanto gli uomini, quanto il variare quelli;
perché conviene offendere molti, e dove molti restono mal
contenti si può ogni giorno temere di qualche cattivo
accidente. E come gli pareva che questa loro deliberazione facesse
due cose perniziosissime: l'una, di dare gli onori a quelli che, per
non gli avere mai avuti, gli stimano meno e meno cagione hanno, non
gli avendo, di dolersi; l'altra, di torgli a coloro che, sendo
consueti avergli, mai quieterebbero se non gli fussero restituiti: e
così verrebbe ad essere molto maggiore la ingiuria che si
facesse ad una parte che il beneficio che si facesse a l'altra; tale
che chi ne fusse autore si acquisterebbe pochi amici e moltissimi
inimici; e questi sarebbero più feroci ad ingiuriarlo che
quelli a difenderlo, sendo gli uomini naturalmente più pronti
alla vendetta della ingiuria che alla gratitudine del benifizio,
parendo che questa ci arrechi danno, quell'altra utile e piacere. Di
poi rivolse il parlare a messer Rinaldo, e disse: - E voi, se vi
ricordasse delle cose seguite, e con quali inganni in questa
città si cammina, saresti meno caldo in questa deliberazione;
perché chi la consiglia, tolta che gli avesse, con le forze
vostre, l'autorità al popolo, la torrebbe a voi con lo aiuto
di quello, che vi sarebbe diventato, per questa ingiuria, inimico; e
vi interverrebbe come a messer Benedetto Alberti, il quale
consentì, per le persuasioni di chi non lo amava, alla rovina
di messer Giorgio Scali e di messer Tommaso Strozzi, e poco di poi,
da quelli medesimi che lo persuasono, fu mandato in esilio -.
Confortollo per tanto a pensare più maturamente alle cose, e
a volere imitare suo padre, il quale, per avere la benivolenza
universale, scemò il pregio al sale, provide che chi avesse
meno d'uno mezzo fiorino di gravezza potesse pagarla o no, come gli
paresse, volle che il dì che si ragunavano i Consigli
ciascuno fusse sicuro da' suoi creditori. E in fine gli concluse che
era, per quanto si apparteneva a lui, per lasciare la città
negli ordini suoi.
11
Queste cose, così praticate, s'intesono fuori, e accrebbono a
Giovanni riputazione e agli altri cittadini odio. Dalla quale egli
si discostava, per dare meno animo a coloro che disegnassero, sotto
i favori suoi, cose nuove; e in ogni suo parlare faceva intendere a
ciascuno che non era per nutrire sette, ma per spegnerle, e, quanto
a lui si aspettava, non cercava altro che la unione della
città: di che molti che seguivano le parti sue erano mali
contenti, perché arebbono voluto che si fusse nelle cose
mostro più vivo. Intra i quali era Alamanno de' Medici, il
quale, sendo di natura feroce, non cessava di accenderlo a
perseguitare i nimici e favorire gli amici, dannando la sua
freddezza e il suo modo di procedere lento; il che diceva essere
cagione che i nimici senza rispetto gli praticavano contro; le quali
pratiche arebbono un giorno effetto con la rovina della casa e degli
amici suoi. Inanimiva ancora al medesimo Cosimo suo figliuolo. Non
di meno Giovanni, per cosa che gli fusse rivelata o pronosticata,
non si moveva di suo proposito: pure, con tutto questo, la parte era
già scoperta, e la città era in manifesta divisione.
Erano in Palagio, al servizio de' Signori, duoi cancellieri, ser
Martino e ser Pagolo: questo favoriva la parte da Uzano, quell'altro
la Medica; e messer Rinaldo, veduto come Giovanni non aveva voluto
convenire con loro, pensò che fusse da privare dell'uffizio
suo ser Martino, giudicando di poi avere sempre il Palagio
più favorevole. Il che presentito dagli avversarii, non
solamente fu ser Martino difeso, ma ser Pagolo privato, con
dispiacere e ingiuria della sua parte. Il che arebbe fatto subito
cattivi effetti, se non fusse la guerra che soprastava alla
città; la quale per la rotta ricevuta a Zagonara era
impaurita, perché, mentre che queste cose in Firenze
così si travagliavano, Agnolo della Pergola, con le genti del
Duca, aveva prese tutte le terre di Romagna possedute dai
Fiorentini, eccetto che Castrocaro e Modigliana, parte per debolezza
de' luoghi, parte per difetto di chi le aveva in guardia. Nella
occupazione delle quali terre seguirono due cose per le quali si
cognobbe quanto la virtù degli uomini ancora al nimico
è accetta, e quanto la viltà e malignità
dispiaccia.
12
Era castellano nella rocca di Monte Petroso Biagio del Melano.
Costui, sendo affocato intorno dai nimici e non vedendo per la
salute della rocca alcuno scampo, gittò panni e paglia da
quella parte che ancora non ardeva, e di sopra vi gittò duoi
suoi piccoli figliuoli, dicendo a' nimici: - Togliete per voi quelli
beni che mi ha dati la fortuna e che voi mi potete torre: quelli che
io ho dello animo, dove la gloria e l'onore mio consiste, né
io vi darò, né voi mi torrete! - Corsono i nimici a
salvare i fanciulli, e a lui porgevano funi e scale perché si
salvasse, ma quello non le accettò, anzi volle più
tosto morire nelle fiamme, che vivere salvo per le mani degli
avversarii della patria sua. Esemplo veramente degno di quella
lodata antichità! e tanto è più mirabile di
quelli quanto è più rado. Furono a' figliuoli suoi da'
nimici restituite quelle cose che si poterono avere salve, e con
massima cura rimandati a' parenti loro; verso de' quali la republica
non fu meno amorevole, perché mentre vissero furono
publicamente sostentati. Al contrario di questo occorse in Galeata,
dove era podestà Zanobi del Pino; il quale, senza fare difesa
alcuna, dette la rocca al nimico, e di più confortava Agnolo
a lasciare l'alpi di Romagna e venire ne' colli di Toscana, dove
poteva fare la guerra con meno pericolo e maggiore guadagno. Non
potette Agnolo sopportare la viltà e il malvagio animo di
costui, e lo dette in preda a' suoi servidori i quali, dopo molti
scherni, gli davano solamente mangiare carte dipinte a biscie,
dicendo che di guelfo, per quel modo, lo volevono fare diventare
ghibellino; e così stentando, in brievi giorni morì.
13
Il conte Oddo, in questo mezzo, insieme con Niccolò Piccino,
era entrato in Val di Lamona, per vedere di ridurre il signore di
Faenza alla amicizia de' Fiorentini, o almeno impedire Agnolo della
Pergola, che non scorresse più liberamente per Romagna. Ma
perché quella valle è fortissima e i valligiani
armigeri, vi fu il conte Oddo morto, e Niccolò Piccino ne
andò prigione a Faenza. Ma la fortuna volle che i Fiorentini
ottenessero quello, per avere perduto che forse avendo vinto non
arebbono ottenuto; perché Niccolò tanto operò
con il signore di Faenza e con la madre, che gli fece amici a'
Fiorentini. Fu, in questo accordo, libero Niccolò Piccino: il
quale non tenne per sé quel consiglio che gli aveva dato ad
altri, perché, praticando con la città della sua
condotta o che le condizioni gli paressero debili, o che le trovasse
migliori altrove, quasi che ex abrupto si partì di Arezzo,
dove era alle stanze, e ne andò in Lombardia, e prese soldo
da il Duca. I Fiorentini, per questo accidente impauriti e dalle
spesse perdite sbigottiti, giudicorono non potere più, soli,
sostenere questa guerra; e mandorono oratori a' Viniziani, a
pregarli che dovessero opporsi, mentre che gli era loro facile, alla
grandezza d'uno che, se lo lasciavano crescere, era così per
essere pernizioso a loro come a' Fiorentini. Confortavagli alla
medesima impresa Francesco Carmignuola, uomo tenuto in quelli tempi
nella guerra eccellentissimo, il quale era già stato soldato
del Duca, ma di poi ribellatosi da quello. Stavano i Viniziani dubi,
per non sapere quanto si potevano fidare del Carmignuola, dubitando
che la inimicizia del Duca e sua non fusse finta. E stando
così sospesi, nacque che il Duca, per mezzo d'uno servidore
del Carmignuola, lo fece avvelenare; il quale veleno non fu
sì potente che lo ammazzasse, ma lo ridusse allo estremo.
Scoperta la cagione del male, i Viniziani si privorono di quello
sospetto; e seguitando i Fiorentini di sollecitargli, feciono lega
con loro; e ciascuna delle parti si obligò a fare la guerra a
spese comune; e gli acquisti di Lombardia fussero de' Viniziani, e
quelli di Romagna e di Toscana de' Fiorentini; e il Carmignuola fu
capitano generale della lega. Ridussesi per tanto la guerra mediante
questo accordo, in Lombardia dove fu governata da il Carmignuola
virtuosamente, e in pochi mesi tolse molte terre al Duca, insieme
con la città di Brescia; la quale espugnazione, in quelli
tempi e secondo quelle guerre, fu tenuta mirabile.
14
Era durata questa guerra da il '22 al 27, ed erano stracchi i
cittadini di Firenze delle gravezze poste infino allora, in modo che
si accordorono a rinnovarle. E perché le fussero uguali
secondo le ricchezze, si provide che le si ponessero a' beni, e che
quello che aveva cento fiorini di valsente ne avesse un mezzo di
gravezza. Avendola pertanto a distribuire la legge, e non gli
uomini, venne ad aggravare assai i cittadini potenti, e avanti che
la si deliberassi era disfavorita da loro. Solo Giovanni de' Medici
apertamente la lodava; tanto che la si ottenne. E perché nel
distribuirla si aggregavano i beni di ciascuno, il che i Fiorentini
dicono accatastare, si chiamò questa gravezza catasto. Questo
modo pose, in parte, regola alla tirannide de' potenti;
perché non potevano battere i minori e fargli con le minacce
ne' Consigli tacere, come potevano prima. Era adunque questa
gravezza dall'universale accettata e da' potenti con dispiacere
grandissimo ricevuta. Ma come accade che mai gli uomini non si
sodisfanno, e avuta una cosa, non vi si contentando dentro, ne
desiderano un'altra, il popolo, non contento alla ugualità
della gravezza che dalla legge nasceva, domandava che si riandassero
i tempi passati, e che si vedesse quello che i potenti, secondo il
catasto, avevano pagato meno, e si facessero pagare tanto che gli
andassero a ragguaglio di coloro che, per pagare quello che non
dovevano, avevano vendute le loro possessioni. Questa domanda, molto
più che il catasto, spaventò gli uomini grandi; e per
difendersene non cessavano di dannarlo, affermando quello essere
ingiustissimo, per essersi posto ancora sopra i beni mobili, i quali
oggi si posseggono e domani si perdono; e che sono, oltra di questo,
molte persone che hanno danari occulti, che il catasto non
può ritrovare. A che aggiugnevano che coloro che, per
governare la republica, lasciavano le loro faccende dovevano essere
meno carichi da quella, dovendole bastare che con la persona si
affaticassero, e che non era giusto che la città si godesse
la roba e la industria loro, e degli altri solo i danari. Gli altri,
a chi il catasto piaceva, rispondevano che, se i beni mobili
variano, e possono ancora variare le gravezze, e con il variarle
spesso si può a quello inconveniente rimediare; e di quelli
che hanno danari occulti non era necessario tenere conto,
perché quegli danari che non fruttono non è
ragionevole che paghino, e fruttando conviene che si scuoprino; e se
non piaceva loro durare fatica per la republica, lasciassilla da
parte e non se ne travagliassino, perché la troverrebbe de'
cittadini amorevoli, a' quali non parrebbe difficile aiutarla di
danari e di consiglio; e che sono tanti i commodi e gli onori che si
tira dreto il governo, che doverebbero bastare loro, sanza volere
non participare de' carichi. Ma il male stava dove e' non dicevano;
perché doleva loro non potere più muovere una guerra
sanza loro danno, avendo a concorrere alle spese come gli altri; e
se questo modo si fusse trovato prima, non si sarebbe fatta la
guerra con il re Ladislao, né ora si farebbe questa con il
duca Filippo; le quali si erano fatte per riempiere i cittadini, e
non per necessità. Questi umori mossi erano quietati da
Giovanni de' Medici, mostrando che non era bene riandare le cose
passate, ma sì bene provedere alle future; e se le gravezze
per lo adietro erano state ingiuste, ringraziare Iddio poi che si
era trovato il modo a farle giuste e volere che questo modo servisse
a riunire, non a dividere la città, come sarebbe quando si
ricercasse le imposte passate, e farle ragguagliare con le presenti;
e che chi è contento di una mezzana vittoria sempre ne
farà meglio, perché quelli che vogliono sopravincere
spesso perdono. E con simili parole quietò questi umori, e
fece che del ragguaglio non si ragionasse.
15
Seguitando in tanto la guerra con il Duca, si fermò una pace
a Ferrara, per il mezzo d'uno legato del Papa. Della quale il Duca,
nel principio di essa, non osservò le condizioni, in modo che
di nuovo la lega riprese le armi; e venuto con le genti di quello
alle mani, lo ruppe a Maclovio. Dopo la quale rotta il Duca mosse
nuovi ragionamenti d'accordo, ai quali i Viniziani e i Fiorentini
acconsentirono, questi per essere insospettiti de' Viniziani,
parendo loro spendere assai per fare potenti altri, quelli per avere
veduto il Carmignuola, dopo la rotta data al Duca, andare lento,
tanto che non pareva loro da potere più confidare in quello.
Conclusesi adunque la pace nel 1428; per la quale i Fiorentini
riebbono le terre perdute in Romagna, e a' Viniziani rimase Brescia,
e di più il Duca dette loro Bergamo e il contado. Spesono in
questa guerra i Fiorentini tre milioni e 500 mila ducati; mediante
la quale accrebbero a' Viniziani stato e grandezza, e a loro
povertà e disunione. Seguita la pace di fuora,
ricominciò la guerra dentro. Non potendo i cittadini grandi
sopportare il catasto, e non vedendo via da spegnerlo, pensorono
modi a fargli più nimici, per avere più compagni ad
urtarlo. Mostrorono adunque agli uffiziali deputati a porlo come la
legge gli costrigneva ad accatastare ancora i beni de' distrettuali,
per vedere se intra quelli vi fussero beni di Fiorentini. Furono per
tanto citati tutti i sudditi a portare, infra certo tempo, le
scritte de' beni loro. Donde che i Volterrani mandorono alla
Signoria a dolersi della cosa, di modo che gli uffiziali, sdegnati,
ne missono diciotto di loro in prigione. Questo fatto fece assai
sdegnare i Volterrani; pure, avendo rispetto alli loro prigioni, non
si mossono.
16
In questo tempo Giovanni de' Medici ammalò, e cognoscendo il
male suo mortale, chiamò Cosimo e Lorenzo suoi figliuoli, e
disse loro: - Io credo essere vivuto quel tempo che da Dio e dalla
natura mi fu al mio nascimento consegnato. Muoio contento, poi che
io vi lascio ricchi, sani, e di qualità che voi potrete,
quando voi seguitiate le mie pedate, vivere in Firenze onorati e con
la grazia di ciascuno. Perché niuna cosa mi fa tanto morire
contento, quanto mi ricordare di non avere mai offeso alcuno, anzi
più tosto, secondo che io ho potuto, benificato ognuno.
Così conforto a fare voi. Dello stato, se voi volete vivere
securi, toglietene quanto ve n'è dalle leggi e dagli uomini
dato; il che non vi recherà mai né invidia né
pericolo, perché quello che l'uomo si toglie, non quello che
all'uomo è dato, ci fa odiare, e sempre ne arete molto
più di coloro che, volendo la parte d'altri, perdono la loro,
e avanti che la perdino vivono in continui affanni. Con queste arti
io ho, intra tanti nimici, intra tanti dispareri, non solamente
mantenuta, ma accresciuta la reputazione mia in questa città.
Così, quando seguitiate le pedate mie, manterrete e
accrescerete voi. Ma quando facesse altrimenti, pensate che il fine
vostro non ha ad essere altrimenti felice che si sia stato quello di
coloro che, nella memoria nostra, hanno rovinato sé e
destrutta la casa loro -. Morì poco di poi, e nello
universale della città lasciò di sé uno
grandissimo desiderio, secondo che meritavano le sue ottime
qualità. Fu Giovanni misericordioso; e non solamente dava
lemosine a chi le domandava, ma molte volte al bisogno de' poveri,
sanza esser domandato, soccorreva. Amava ognuno; i buoni lodava, e
de' cattivi aveva compassione. Non domandò mai onori, ed
ebbeli tutti; non andò mai in Palagio, se non chiamato. Amava
la pace, fuggiva la guerra. Alle avversità degli uomini
suvveniva, le prosperità aiutava. Era alieno dalle rapine
publiche, e del bene commune aumentatore. Ne' magistrati grazioso;
non di molta eloquenzia, ma di prudenza grandissima. Mostrava nella
presenza melanconico; ma era poi nella conversazione piacevole e
faceto. Morì ricchissimo di tesoro, ma più di buona
fama e di benivolenza. La cui eredità, così de' beni
della fortuna come di quelli dello animo, fu da Cosimo non solamente
mantenuta, ma accresciuta.
17
Erano i Volterrani stracchi di stare in carcere; e per essere liberi
promissono di consentire a quello era comandato loro. Liberati
adunque, e tornati a Volterra, venne il tempo che i nuovi loro
priori prendevono il magistrato; de' quali fu tratto uno Giusto,
uomo plebeo, ma di credito nella plebe, il quale era uno di quelli
che fu imprigionato a Firenze. Costui, acceso per se medesimo di
odio, per la ingiuria publica e per la privata, contro a'
Fiorentini, fu ancora stimolato da Giovanni di uomo nobile e che
seco sedeva in magistrato, a dovere muovere il popolo con la
autorità de' priori e con la grazia sua, e trarre la terra
delle mani de' Fiorentini, e farne sé principe. Per il
consiglio del quale, Giusto prese le armi, corse la terra, prese il
capitano che vi era pe' Fiorentini, e sé fece, con il
consentimento del popolo, signore di quella. Questa novità
seguita in Volterra dispiacque assai a' Fiorentini; pure, trovandosi
avere fatto pace con il Duca, e freschi in su gli accordi,
giudicorono potere avere tempo a racquistarla; e per non lo perdere,
mandorono subito a quella impresa commissari messer Rinaldo degli
Albizzi e messer Palla Strozzi. Giusto intanto, che pensava che i
Fiorentini lo assalterebbero, richiese i Sanesi e i Lucchesi di
aiuto. I Sanesi gliene negorono, dicendo essere in lega con i
Fiorentini; e Pagolo Guinigi, che era signore di Lucca, per
racquistare la grazia con il popolo di Firenze, la quale nella
guerra del Duca gli pareva avere perduta per essersi scoperto amico
di Filippo, non solamente negò gli aiuti a Giusto, ma ne
mandò prigione a Firenze quello che era venuto a domandarli.
I commissari intanto, per giugnere i Volterrani sproveduti,
ragunorono insieme tutte le loro genti d'arme, e levorono di
Valdarno di sotto e del contado di Pisa assai fanteria, e ne
andorono verso Volterra. Né Giusto, per essere abbandonato
da' vicini, né per lo assalto che si vedeva fare da'
Fiorentini, si abbandonava; ma rifidatosi nella fortezza del sito e
nella grassezza della terra, si provedeva alla difesa. Era in
Volterra uno messer Arcolano, fratello di quello Giovanni che aveva
persuaso Giusto a pigliare la signoria, uomo di credito nella
nobilità. Costui ragunò certi suoi confidenti e
mostrò loro come Iddio aveva, per questo accidente venuto,
soccorso alla necessità della città loro;
perché, se gli erano contenti di pigliare le armi, e privare
Giusto della signoria, e rendere la città a' Fiorentini, ne
seguirebbe che resterebbono i primi di quella terra, e a lei si
perserverrebbono gli antichi privilegi suoi. Rimasi adunque
d'accordo della cosa, ne andorono al Palagio, dove si posava il
Signore, e fermisi parte di loro da basso, messer Arcolano con tre
di loro salì in su la sala, e trovato quello con alcuni
cittadini, lo tirò da parte, come se gli volesse ragionare di
alcuna cosa importante; e d'un ragionamento in un altro, lo condusse
in camera, dove egli e quelli che erano seco con le spade lo
assalirono. Né furono però sì presti che non
dessero commodità a Giusto di porre mano all'arme sua; il
quale, prima che lo ammazzassero, ferì gravemente duoi di
loro; ma non potendo alfine resistere a tanti, fu morto e gittato a
terra del Palazzo. E prese le armi, quelli della parte di messer
Arcolano dettono la città ai commissari fiorentini, che con
le genti vi erano propinqui; i quali, senza fare altri patti,
entrorono in quella. Di che ne seguì che Volterra
peggiorò le sue condizioni, perché, intra le altre
cose, le smembrorono la maggiore parte del contado e ridussollo in
vicariato.
18
Perduta adunque quasi che in un tratto e racquistata Volterra, non
si vedeva cagione di nuova guerra, se l'ambizione degli uomini non
la avesse di nuovo mossa. Aveva militato assai tempo per la
città di Firenze, nelle guerre del Duca, Niccolò
Fortebraccio, nato d'una sirocchia di Braccio da Perugia. Costui,
venuta la pace, fu da' Fiorentini licenziato, e quando e' venne il
caso di Volterra si trovava ancora alloggiato a Fucecchio, onde che
i commissari, in quella impresa, si valsono di lui e delle sue
genti. Fu opinione, nel tempo che messer Rinaldo travagliò
seco quella guerra, lo persuadesse a volere, sotto qualche fitta
querela, assaltare i Lucchesi, mostrandogli che, se e' lo faceva,
opererebbe in modo, a Firenze, che la impresa contro a Lucca si
farebbe, ed egli ne sarebbe fatto capo. Acquistata pertanto
Volterra, e tornato Niccolò alle stanze a Fucecchio, o per le
persuasioni di messer Rinaldo, o per sua propria volontà, di
novembre, nel 1429, con trecento cavagli e trecento fanti,
occupò Ruoti e Compito, castella de' Lucchesi; di poi, sceso
nel piano, fece grandissima preda. Publicata la nuova a Firenze di
questo assalto, si fece per tutta la città circuli di ogni
sorte uomini, e la maggiore parte voleva che si facesse la impresa
di Lucca. De' cittadini grandi, che la favorivano erano quelli della
parte de' Medici, e con loro s'era accostato messer Rinaldo, mosso,
o da giudicare che la fusse impresa utile per la republica, o da sua
propria ambizione, credendo aversi a trovare capo di quella
vittoria; quelli che la disfavorivano erano Niccolò da Uzano
e la parte sua. E pare cosa da non la credere che sì diverso
giudizio nel muovere guerra fusse in una medesima città,
perché quelli cittadini e quel popolo che, dopo dieci anni di
pace, avevono biasimato la guerra presa contro al duca Filippo per
difendere la sua libertà, ora, dopo tante spese fatte e in
tanta afflizione della città, con ogni efficacia domandassero
che si movesse la guerra a Lucca per occupare la libertà
d'altri, e dall'altro canto quelli che vollono quella biasimavano
questa: tanto variano con il tempo i pareri, e tanto è
più pronta la moltitudine ad occupare quello d'altri che a
guardare il suo, e tanto sono mossi più gli uomini dalla
speranza dello acquistare che dal timore del perdere; perché
questo non è, se non da presso, creduto, quell'altra, ancora
che discosto, si spera. E il popolo di Firenze era ripieno di
speranza dagli acquisti che aveva fatti e faceva Niccolò
Fortebraccio, e dalle lettere de' rettori propinqui a Lucca;
perché il vicario di Vico e di Pescia scrivevono che si dessi
loro licenza di ricevere quelle castella che venivano a darsi loro,
perché presto tutto il contado di Lucca si acquisterebbe.
Aggiunsesi a questo lo ambasciadore mandato dal signore di Lucca a
Firenze, a dolersi degli assalti fatti da Niccolò e a pregare
la Signoria che non volesse muovere guerra a uno suo vicino e ad una
città che sempre gli era stata amica. Chiamavasi lo
ambasciadore messer Iacopo Viviani: costui, poco tempo innanzi, era
stato tenuto prigione da Pagolo per avere congiuratogli contro; e
benché lo avesse trovato in colpa, gli aveva perdonata la
vita, e perché credeva che messer Iacopo gli avesse perdonata
la ingiuria si fidava di lui. Ma ricordandosi più messer
Iacopo del pericolo che del benifizio, venuto a Firenze,
secretamente confortava i cittadini alla impresa. I quali conforti,
aggiunti all'altre speranze, feciono che la Signoria ragunò
il Consiglio, dove convennono quattrocentonovantotto cittadini,
innanzi a' quali per i principali della città fu disputata la
cosa.
19
Intra i primi che volevono la impresa, come di sopra dicemmo, era
messer Rinaldo. Mostrava costui l'utile che si traeva dello
acquisto; mostrava la occasione della impresa, sendo loro lasciata
in preda dai Viniziani e da il Duca, né possendo essere dal
Papa, implicato nelle cose del Regno, impedita. A questo aggiugneva
la facilità dello espugnarla, sendo serva d'un suo cittadino
e avendo perduto quel naturale vigore e quello antico studio di
difendere la sua libertà; in modo che, o dal popolo per
cacciarne il tiranno, o dal tiranno per paura del popolo, la
sarà concessa. Narrava le ingiurie del signore, fatte alla
republica nostra, e il malvagio animo suo verso di quella; e quanto
era pericoloso, se di nuovo o il Papa o il Duca alla città
movesse guerra; e concludeva che niuna impresa mai fu fatta da il
popolo fiorentino né più facile, né più
utile, né più giusta. Contro a questa opinione,
Niccolò da Uzano disse che la città di Firenze non
fece mai impresa più ingiusta, né più
pericolosa, né che da quella dovessero nascere maggiori
danni. E prima, che si andava a ferire una città guelfa,
stata sempre amica al popolo fiorentino, e che nel suo grembo, con
suo pericolo, aveva molte volte ricevuti i Guelfi che non potevono
stare nella patria loro. E che nelle memorie delle cose nostre non
si troverrà mai Lucca libera avere offeso Firenze ma se chi
l'aveva fatta serva, come già Castruccio e ora costui,
l'aveva offesa non si poteva imputare la colpa a lei, ma al tiranno.
E se al tiranno si potesse fare guerra sanza farla a' cittadini, gli
dispiacerebbe meno; ma perché questo non poteva essere, non
poteva anche consentire che una cittadinanza amica fusse spogliata
de' beni suoi. Ma poi che si viveva oggi in modo che del giusto e
dello ingiusto non si aveva a tenere molto conto, voleva lasciare
questa parte indietro, e pensare solo alla utilità della
città. Credeva per tanto quelle cose potersi chiamare utili
che non potevono arrecare facilmente danno: non sapeva adunque come
alcuno poteva chiamare utile quella impresa dove i danni erano certi
e gli utili dubbi. I danni certi erano le spese che la si tirava
dietro, le quali si vedevano tante, che le dovevono fare paura ad
una città riposata, non che ad una stracca d'una lunga e
grave guerra, come era la loro; gli utili che se ne potevono trarre
erano lo acquisto di Lucca; i quali confessava essere grandi, ma che
gli era da considerare i dubi che ci erano dentro, i quali a lui
parevono tanti, che giudicava lo acquisto impossibile. E che non
credessero che i Viniziani e Filippo fussero contenti di questo
acquisto; perché quelli solo mostravano consentirlo per non
parere ingrati, avendo poco tempo innanzi, con i danari de'
Fiorentini, preso tanto imperio; quell'altro aveva caro che in nuova
guerra e in nuove spese si implicassero, acciò che, attriti e
stracchi da ogni parte, potesse di poi di nuovo assaltargli; e come
non gli mancherà modo, nel mezzo della impresa e nella
maggiore speranza della vittoria, di soccorrere i Lucchesi, o
copertamente, con danari, o cassare delle sue genti e come soldati
di ventura mandarli in loro aiuto. Confortava per tanto ad astenersi
dalla impresa, e vivere con il tiranno in modo che se gli facesse,
dentro, più inimici si potesse, perché non ci era
più commoda via a subiugarla, che lasciarla vivere sotto il
tiranno e da quello affliggere e indebolire; per che, governata la
cosa prudentemente, quella città si condurrebbe in termine
che il tiranno non la potendo tenere, ed ella non sapendo né
potendo per sé governarsi, di necessità cadrebbe loro
in grembo. Ma che vedeva gli umori mossi, e le parole sua non essere
udite. Pure voleva pronosticare loro questo: che farebbono una
guerra dove spenderebbono assai, correrebbonvi dentro assai
pericoli, e in cambio di occupare Lucca, la libererebbono dal
tiranno, e di una città amica, subiugata e debole farebbono
una città libera, loro nimica, e, con il tempo, uno ostaculo
alla grandezza della republica loro.
20
Parlato per tanto che fu per la impresa e contro alla impresa, si
venne, secondo il costume, secretamente a ricercare la
volontà degli uomini; e di tutto il numero, solo novantotto
la contradissero. Fatta per tanto la deliberazione, e creati i Dieci
per trattare la guerra, soldorono gente a piè e a cavallo;
deputorono commissari Astorre Gianni e messer Rinaldo degli Albizzi,
e con Niccolò Fortebraccio di avere da lui le terre aveva
prese, e che seguisse la impresa come soldato nostro, convennono. I
commissari, arrivati con lo esercito nel paese di Lucca, divisono
quello; e Astorre si distese per il piano, verso Camaiore e
Pietrasanta, e messer Rinaldo se ne andò verso i monti,
giudicando che, spogliata la città del suo contado, facil
cosa fusse, di poi, lo espugnarla. Furono le imprese di costoro
infelici, non perché non acquistassero assai terre, ma per i
carichi che furno, nel maneggio della guerra, dati all'uno e
all'altro di loro. Vero è che Astorre Gianni de' carichi suoi
se ne dette evidente cagione. È una valle propinqua a
Pietrasanta, chiamata Seravezza, ricca e piena di abitatori, i
quali, sentendo la venuta del Commissario, se gli feciono incontro,
e lo pregorono gli accettasse per fedeli servidori del popolo
fiorentino. Mostrò Astorre di accettare le offerte; di poi
fece occupare alle sue genti tutti i passi e luoghi forti della
valle, e fece ragunare gli uomini nel principale tempio loro; e di
poi gli prese tutti prigioni, e alle sue genti fe' saccheggiare e
destruggere tutto il paese, con esemplo crudele e avaro, non
perdonando a luoghi pii, né a donne, così vergini come
maritate. Queste cose, così come le erano seguite, si seppono
a Firenze, e dispiacquono non solamente a' magistrati, ma a tutta la
città.
21
De' Seravezzesi alcuni, che dalle mani del Commissario s'erano
fuggiti, corsono a Firenze, e per ogni strada e ad ogni uomo
narravano le miserie loro; di modo che, confortati da molti
desiderosi che si punisse il Commissario, o come malvagio uomo, o
come contrario alla fazione loro, ne andorono a' Dieci e domandorono
di essere uditi. E intromessi, uno di loro parlò in questa
sentenza: - Noi siamo certi, magnifici Signori, che le nostre parole
troveranno fede e compassione appresso le Signorie vostre, quando
voi saprete in che modo occupasse il paese nostro il commissario
vostro, e in quale maniera di poi siamo stati trattati da quello. La
valle nostra, come ne possono essere piene le memorie delle antiche
cose vostre, fu sempremai guelfa, ed è stata molte volte uno
fedele ricetto a' cittadini vostri, che, perseguitati da'
Ghibellini, sono ricorsi in quella. E sempre gli antichi nostri e
noi abbiamo adorato il nome di questa inclita republica, per essere
stata capo e principe di quella parte; e in mentre che i Lucchesi
furono guelfi, volentieri servimmo allo imperio loro; ma poi che
pervennero sotto il tiranno, il quale ha lasciati gli antichi amici
e seguite le parti ghibelline, più tosto forzati che
volontari lo abbiamo ubbidito; e Dio sa quante volte noi lo abbiamo
pregato che ci desse occasione di dimostrare l'animo nostro verso
l'antica parte. Quanto sono gli uomini ciechi ne' desiderii loro!
Quello che noi desideravamo per nostra salute è stato la
nostra rovina. Perché, come prima noi sentimmo che le insegne
vostre venivano verso di noi, non come a nimici, ma come agli
antichi signori nostri ci facemmo incontro al commissario vostro, e
mettemmo la valle, le nostre fortune e noi nelle sue mani, e alla
sua fede ci raccomandammo, credendo che in lui fusse animo, se non
di Fiorentino, almeno d'uomo. Le Signorie vostre ci perdoneranno,
perché non potere sopportar peggio di quello abbiamo
sopportato ci dà animo a parlare. Questo vostro commissario
non ha di uomo altro che la presenzia, né di Fiorentino altro
che il nome: una peste mortifera, una fiera crudele, uno mostro
orrendo, quanto mai da alcuno scrittore fusse figurato;
perché, riduttici nel nostro tempio, sotto colore di volerci
parlare, noi fece prigioni, e la valle tutta rovinò e arse, e
gli abitatori e le robe di quella rapì, spogliò,
saccheggiò, batté, ammazzò; stuprò le
donne, viziò le vergini, e trattele delle braccia delle
madri, le fece preda de' suoi soldati. Se noi, per alcuna ingiuria
fatta al popolo fiorentino o a lui, avessimo meritato tanto male, o
se armati e difendendoci ci avessi presi, ci dorremmo meno, anzi
accuseremmo noi, i quali o con le iniurie o con la arroganzia nostra
l'avessimo meritato; ma sendo, disarmati, daticegli liberamente, che
di poi ci abbi rubati, e con tanta ingiuria e ignominia spogliati,
siamo forzati a dolerci. E quantunque noi avessimo potuto riempiere
la Lombardia di querele, e con carico di questa città
spargere per tutta Italia la fama delle iniurie nostre, non lo
aviamo voluto fare, per non imbrattare una sì onesta e
piatosa republica con la disonestà e crudeltà d'uno
suo malvagio cittadino. Del quale se avanti alla rovina nostra
avessimo conosciuto l'avarizia ci saremmo sforzati il suo ingordo
animo, ancora che non abbi né misura ne fondo, riempiere, e
aremmo per quella via, con parte delle sustanze nostre, salvate
l'altre, ma poi che non siamo più a tempo, abbiamo voluto
ricorrere a voi, e pregarvi soccorriate alla infelicità de'
vostri subietti, acciò che gli altri uomini non si
sbigottischino, per lo esemplo nostro, a venire sotto lo imperio
vostro. E quando non vi muovino gli infiniti mali nostri, vi muova
la paura dell'ira di Dio, il quale ha veduto i suoi templi
saccheggiati e arsi, e il popolo nostro tradito nel grembo suo -. E
detto questo si gittorono in terra, gridando e pregando che fusse
loro renduto la roba e la patria; e facessero restituire (poi che
non si poteva l'onore) almeno le moglie a' mariti, e a' padri le
figliuole. L'atrocità della cosa, saputa prima, e di poi
dalle vive voci di quelli che la avevano sopportata intesa, commosse
il magistrato; e sanza differire si fece tornare Astorre, e di poi
fu condannato e ammunito. Ricercossi de' beni de' Seravezzesi e
quelli che si poterono trovare si restituirono, degli altri furono
dalla città, con il tempo, in varii modi sodisfatti.
22
Messer Rinaldo degli Albizzi dall'altra parte era diffamato ch'egli
faceva la guerra non per utilità del popolo fiorentino, ma
sua, e come, poi che fu commissario, gli era fuggito dell'animo la
cupidità del pigliare Lucca, perché gli bastava
saccheggiare il contado e riempire le possessioni sue di bestiame e
le case sua di preda; e come non gli bastavano le prede che da' suoi
satelliti per propria utilità si facevano, che comperava
quelle de' soldati, tale che di commissario era diventato
mercatante. Queste calunnie, pervenute agli orecchi suoi, mossono lo
intero e altiero animo suo più che ad uno grave uomo non si
conveniva, e tanto lo perturborono che, sdegnato contro al
magistrato e i cittadini, sanza aspettare o domandare licenza, se ne
tornò a Firenze. E presentatosi davanti a' Dieci, disse che
sapeva bene quanta difficultà e pericolo era servire ad un
popolo sciolto e ad una città divisa, perché l'uno
ogni romore riempie, l'altra le cattive opere perseguita, le buone
non premia e le dubie accusa; tanto che vincendo niuno ti loda,
errando ognuno ti condanna, perdendo ognuno ti calunnia,
perché la parte amica per invidia, la nimica per odio ti
perseguita; non di meno non aveva mai per paura d'un carico vano,
lasciato di non fare una opera che facesse uno utile certo alla sua
città. Vero era che la disonestà delle presenti
calunnie avevano vinta la pazienzia sua, e fattogli mutare natura.
Per tanto pregava il magistrato che volesse per lo avvenire essere
più pronto a difendere i suoi cittadini, acciò che
quegli fussero ancora più pronti a operare bene per la
patria; e poi che in Firenze non si usava concedere loro il trionfo,
almeno si usasse dai falsi vituperii difenderli; e si ricordassero
che ancora loro erano di quella città cittadini, e come ad
ogni ora potria essere loro dato qualche carico, per il quale
intenderebbono quanta offesa agli uomini interi le false calunnie
arrechino. I Dieci, secondo il tempo, s'ingegnorono mitigarlo; e la
cura di quella impresa a Neri di Gino e Alamanno Salviati
demandarono. I quali, lasciato da parte il correre per il contado di
Lucca, s'accostorono con il campo alla terra; e perché ancora
era la stagione fredda, si missono a Capannole; dove a' commissari
pareva che si perdesse tempo; e volendosi strignere più alla
terra, i soldati, per il tempo sinistro, non vi si accordavano, non
ostante che i Dieci sollecitassino lo accamparsi e non accettassino
scusa alcuna.
23
Era, in quelli tempi, in Firenze uno eccellentissimo architettore,
chiamato Filippo di ser Brunellesco, delle opere del quale è
piena la nostra città, tanto che meritò, dopo la
morte, che la sua immagine fusse posta, di marmo, nel principale
tempio di Firenze, con lettere a piè che ancora rendono a chi
legge testimonianza delle sue virtù. Mostrava costui come
Lucca si poteva allagare, considerato il sito della città e
il letto del fiume del Serchio; e tanto lo persuase, che i Dieci
commissono che questa esperienza si facesse. Di che non ne nacque
altro che disordine al campo nostro e securtà a' nemici;
perché i Lucchesi alzorono con uno argine il terreno verso
quella parte che faceno venire il Serchio, e di poi, una notte,
ruppono l'argine di quel fosso per il quale conducevano le acque,
tanto che quelle, trovato il riscontro alto verso Lucca e l'argine
del canale aperto, in modo per tutto il piano si sparsono, che il
campo, non che si potesse appropinquare alla terra, si ebbe a
discostare.
24
Non riuscita adunque questa impresa, i Dieci che di nuovo presono il
magistrato mandorono commissario messer Giovanni Guicciardini.
Costui, il più presto che possé, si accampò
alla terra; donde che il Signore, vedendosi strignere, per conforto
d'uno messer Antonio del Rosso sanese, il quale in nome del comune
di Siena era apresso di lui, mandò al duca di Milano
Salvestro Trenta e Lionardo Buonvisi. Costoro per parte del Signore
gli chiesono aiuto; e trovandolo freddo, lo pregorono secretamente
che dovesse dare loro genti; perché gli promettevano per
parte del popolo dargli preso il loro Signore, e apresso la
possessione della terra, avvertendolo che, se non pigliava presto
questo partito, il Signore darebbe la terra a' Fiorentini, i quali
con molte promesse lo sollecitavano. La paura per tanto che il Duca
ebbe di questo gli fece porre da parte i respetti, e ordinò
che il conte Francesco Sforza, suo soldato, gli domandasse
publicamente licenza per andare nel Regno. Il quale, ottenuta
quella, se ne venne con la sua compagnia a Lucca, non ostante che i
Fiorentini, sapendo questa pratica e dubitando di quello avvenne,
mandassino al Conte Boccaccino Alamanni suo amico, per sturbarla.
Venuto per tanto il Conte a Lucca, i Fiorentini si ritirarono con il
campo a Librafatta; e il Conte subito andò a campo a Pescia
dove era vicario Pagolo da Diacceto. Il quale, consigliato
più dalla paura che da alcuno altro migliore rimedio, si
fuggì a Pistoia; e se la terra non fusse stata difesa da
Giovanni Malavolti, che vi era a guardia, si sarebbe perduta. Il
Conte per tanto, non la avendo potuta nel primo assalto pigliare, ne
andò al Borgo a Buggiano, e lo prese, e Stigliano, castello a
quello propinquo, arse. I Fiorentini, veggendo questa rovina,
ricorsono a quelli rimedi che molte volte gli avevano salvati,
sapiendo come, con i soldati mercenari, dove le forze non bastavano
giovava la corruzione, e però profersono al Conte danari, e
quello, non solamente si partisse, ma desse loro la terra. Il Conte,
parendogli non potere trarre più danari da Lucca, facilmente
si volse a trarne da quelli che ne avevano; e convenne con i
Fiorentini, non di dare loro Lucca, che per onestà non lo
volle consentire, ma di abbandonarla, quando gli fusse dato
cinquantamila ducati. E fatta questa convenzione, acciò che
il popolo di Lucca apresso al Duca lo scusasse, tenne mano con
quello che i Lucchesi cacciassero il loro Signore.
25
Era in Lucca, come di sopra dicemmo, messer Antonio del Rosso,
ambasciadore sanese. Costui, con la autorità del Conte,
praticò con i cittadini la rovina di Pagolo. Capi della
congiura furono Piero Cennami e Giovanni da Chivizzano. Trovavasi il
Conte alloggiato fuora della terra, in sul Serchio, e con lui era
Lanzilao, figliuolo del Signore. Donde i congiurati, in numero di
quaranta, di notte, armati, andorono a trovare Pagolo; al romore de'
quali fattosi incontro tutto attonito, domandò della cagione
della venuta loro. Al quale Piero Cennami disse come loro erano
stati governati da lui più tempo, e condotti, con i nimici
intorno, a morire di ferro e di fame; e però erano deliberati
per lo avvenire, di volere governare loro. E gli domandorono le
chiavi della città e il tesoro di quella. A' quali Pagolo
rispose che il tesoro era consumato, le chiavi ed egli erano in loro
podestà, e gli pregava di questo solo, che fussero contenti,
così come la sua signoria era cominciata e vivuta sanza
sangue, così sanza sangue finisse. Fu dal conte Francesco
condotto Pagolo e il figliuolo al Duca, i quali morirono, di poi, in
prigione. La partita del Conte aveva lasciata libera Lucca dal
tiranno e i Fiorentini dal timore delle genti sue, onde che quelli
si preparorono alle difese e quelli altri ritornorono alle offese; e
avevano eletto per capitano il conte di Urbino, il quale, strignendo
forte la terra, constrinse di nuovo i Lucchesi a ricorrere al Duca;
il quale, sotto il medesimo colore aveva mandato il Conte,
mandò in loro aiuto Niccolò Piccino. A costui, venendo
per entrare in Lucca, i nostri si feciono incontro in sul Serchio; e
al passare di quello vennono alla zuffa, e vi furono rotti; e il
Commissario con poche delle nostre genti si salvò a Pisa.
Questa rotta contristò tutta la nostra città; e
perché la impresa era stata fatta dallo universale, non
sapendo i popolani contro a chi volgersi calunniavano chi l'aveva
amministrata poi che e' non potevono calunniare chi la aveva
deliberata, e risucitorono i carichi dati a messer Rinaldo. Ma
più che alcuno era lacero messer Giovanni Guicciardini,
accusandolo che gli arebbe potuto, dopo la partita del conte
Francesco, ultimare la guerra, ma che gli era stato corrotto con
danari, e come ne aveva mandati a casa una soma, e allegavano chi
gli aveva portati e chi ricevuti. E andorono tanto alto questi
romori e queste accuse, che il Capitano del popolo, mosso da queste
publiche voci, e da quelli della parte contraria spinto, lo
citò. Comparse messer Giovanni tutto pieno di sdegno; donde i
parenti suoi, per onore loro, operorono tanto che il Capitano
abbandonò la impresa. I Lucchesi, dopo la vittoria, non
solamente riebbero le loro terre, ma occuporono tutte quelle del
contado di Pisa, eccetto Bientina, Calcinaia, Livorno e Librafatta,
e se non fusse stata scoperta una congiura che si era fatta in Pisa,
si perdeva anche quella città. I Fiorentini riordinorono le
loro genti, e feciono loro capitano Micheletto, allievo di Sforza.
Dall'altra parte il Duca seguitò la vittoria, e per potere
con più forze affliggere i Fiorentini, fece che i Genovesi,
Sanesi e signore di Piombino si collegassero alla difesa di Lucca, e
che soldassero Niccolò Piccino per loro capitano, la qual
cosa lo fece in tutto scoprire. Donde che i Viniziani e i Fiorentini
rinnovorono la lega e la guerra si cominciò a fare aperta in
Lombardia e in Toscana. E nell'una e nell'altra provincia seguirono,
con varia fortuna, varie zuffe; tanto che, stracco ciascuno, si
fece, di maggio, nel 1433, lo accordo infra le parti, per il quale i
Fiorentini, Lucchesi e Sanesi, che avevano nella guerra occupate
più castella l'uno all'altro, le lasciarono tutte, e ciascuno
tornò nella possessione delle sua.
26
Mentre che questa guerra si travagliava, ribollivano tuttavia i
maligni umori delle parti di dentro; e Cosimo de' Medici, dopo la
morte di Giovanni suo padre, con maggiore animo nelle cose publiche,
e con maggiore studio e più liberalità con gli amici
che non aveva fatto il padre, si governava; in modo che quelli che
per la morte di Giovanni si erano rallegrati, vedendo quale era
Cosimo si contristavano. Era Cosimo uomo prudentissimo, di grave e
grata presenzia, tutto liberale, tutto umano; né mai
tentò alcuna cosa contro alla Parte né contro allo
stato, ma attendeva a benificare ciascuno e, con la
liberalità sua, farsi partigiani assai cittadini. Di modo che
lo esemplo suo accresceva carico a quelli che governavano, e lui
giudicava, per questa via, o vivere in Firenze potente e securo
quanto alcuno altro, o, venendosi per la ambizione degli avversarii
allo straordinario, essere e con le armi e con i favori superiore.
Grandi strumenti ad ordire la potenza sua furono Averardo de' Medici
e Puccio Pucci: di costoro, Averardo con l'audacia, Puccio con la
prudenzia e sagacità, favori e grandezza gli sumministravano;
ed era tanto stimato il consiglio e il iudicio di Puccio, e tanto
per ciascuno cognosciuto, che la parte di Cosimo, non da lui, ma da
Puccio era nominata. Da questa così divisa città fu
fatta la impresa di Lucca, nella quale si accesono gli umori delle
parti, non che si spegnessero. E avvenga che la parte di Cosimo
fusse quella che l'avesse favorita, non di meno ne' governi di essa
erano mandati assai di quelli della parte avversa, come uomini
più reputati nello stato: a che non potendo Averardo de'
Medici e gli altri rimediare, attendevono con ogni arte e industria
a calunniarli; e se perdita alcuna nasceva, che ne nacquero molte,
era, non la fortuna o la forza del nimico, ma la poca prudenza del
commissario accusata. Questo fece aggravare i peccati di Astorre
Gianni, questo fece sdegnare messer Rinaldo degli Albizzi e partirsi
dalla sua commissione sanza licenza, questo medesimo fece richiedere
dal Capitano del popolo messer Giovanni Guicciardini; da questo
tutti gli altri carichi che a' magistrati e a' commissari si dettero
nacquero, perché i veri si accrescevano, i non veri si
fingevano, e i veri e i non veri da quel popolo, che ordinariamente
gli odiava, erano creduti.
27
Queste così fatte cose e modi estraordinari di procedere
erano ottimamente da Niccolò da Uzano e dagli altri capi
della Parte cognosciuti, e molte volte avevano ragionato insieme de'
rimedi; e non ce gli trovavano, perché pareva loro il
lasciare crescere la cosa pericoloso, e il volerla urtare difficile.
E Niccolò da Uzano era il primo al quale non piacevano le vie
straordinarie; onde che, vivendosi con la guerra fuora e con questi
travagli dentro, Niccolò Barbadori, volendo disporre
Niccolò da Uzano ad acconsentire alla rovina di Cosimo, lo
andò a trovare a casa, dove tutto pensoso in uno suo studio
dimorava, e lo confortò con quelle ragioni seppe addurre
migliori a volere convenire con messer Rinaldo a cacciare Cosimo. Al
quale Niccolò da Uzano rispose in questa sentenza: - E' si
farebbe per te, per la tua casa e per la nostra republica, che tu e
gli altri che ti seguono in questa opinione avessero più
tosto la barba d'ariento che d'oro, come si dice che hai tu,
perché i loro consigli, procedendo da capo canuto e pieno di
esperienza, sarebbero più savi e più utili a
ciascheduno. E' mi pare che coloro che pensono di cacciare Cosimo da
Firenze abbino, prima che ogni cosa, a misurare le forze loro e
quelle di Cosimo. Questa nostra parte voi l'avete battezzata la
Parte de' nobili, e la contraria quella della plebe: quando la
verità correspondesse al nome, sarebbe in ogni accidente la
vittoria dubia, e più tosto doverremmo temere noi che
sperare, mossi dallo esemplo delle antiche nobilità di questa
città, le quali dalla plebe sono state spente. Ma noi abbiamo
molto più da temere, sendo la nostra parte smembrata e quella
degli avversarii intera. La prima cosa, Neri di Gino e Nerone di
Nigi, duoi de' primi cittadini nostri, non si sono mai dichiarati in
modo che si possa dire che sieno più amici nostri che loro.
Sonci assai famiglie, anzi assai case, divise; perché molti,
per invidia de' frategli o de' congiunti, disfavoriscono noi, e
favoriscono loro. Io te ne voglio ricordare alcuno de' più
importanti: gli altri considererai tu per te medesimo. De' figliuoli
di messer Maso degli Albizzi, Luca, per invidia di messer Rinaldo,
si è gittato dalla parte loro; in casa e Guicciardini, de'
figliuoli di messer Luigi, Piero è nimico a messer Giovanni,
e favorisce gli avversarii nostri; Tommaso e Niccolò Soderini
apertamente, per lo odio portono a Francesco loro zio, ci fanno
contro. In modo che, se si considera bene quali sono loro e quali
siamo noi, io non so perché più si merita di essere
chiamata la parte nostra nobile che la loro. E se fusse
perché loro sono seguitati da tutta la plebe, noi siamo per
questo, in peggiore condizione, e loro in migliore; e in tanto che,
se si viene alle armi o a' partiti, noi non siamo per potere
resistere. E se noi stiamo ancora nella dignità nostra, nasce
dalla reputazione antica di questo stato, la quale si ha per
cinquanta anni conservata; ma come e' si venisse alla pruova, e che
e' si scoprisse la debolezza nostra, noi ce la perderemmo. E se tu
dicessi che la giusta cagione che ci muove accrescerebbe a noi
credito e a loro lo torrebbe, ti rispondo che questa giustizia
conviene che sia intesa e creduta da altri come da noi; il che
è tutto il contrario; perché la cagione che ci muove
è tutta fondata in sul sospetto che non si faccia principe di
questa città: se questo sospetto noi lo abbiamo, non lo hanno
gli altri; anzi, che è peggio, accusono noi di quello che noi
accusiamo lui. L'opere di Cosimo che ce lo fanno sospetto sono:
perché gli serve de' suoi danari ciascuno, e non solamente i
privati ma il publico, e non solo i Fiorentini ma i condottieri;
perché favorisce quello e quell'altro cittadino che ha
bisogno de' magistrati; perché e' tira, con la benivolenzia
che gli ha nello universale, questo e quell'altro suo amico a
maggiori gradi di onori. Adunque converrebbe addurre le cagioni del
cacciarlo, perché gli è piatoso, oficioso, liberale e
amato da ciascuno. Dimmi un poco: quale legge è quella che
proibisca o che biasimi e danni negli uomini la pietà, la
liberalità, lo amore? E benché sieno modi tutti che
tirino gli uomini volando al principato, non di meno e' non sono
creduti così, né noi siamo sufficienti a darli ad
intendere, perché i modi nostri ci hanno tolta la fede, e la
città, che naturalmente è partigiana e, per essere
sempre vivuta in parte, corrotta, non può prestare gli
orecchi a simili accuse. Ma poniamo che vi riuscisse il cacciarlo,
che potrebbe, avendo una Signoria propizia riuscire facilmente: come
potresti voi mai, intra tanti suoi amici che ci rimarrebbono e
arderebbono del desiderio della tornata sua, obviare che non ci
ritornasse? Questo sarebbe impossibile, perché mai, sendo
tanti e avendo la benivolenzia universale, non ve ne potresti
assicurare; e quanti più de' primi suoi scoperti amici
cacciasse tanti più nimici vi faresti in modo che dopo poco
tempo e' ci ritornerebbe; e ne aresti guadagnato questo, che voi lo
aresti cacciato buono, e tornerebbeci cattivo; perché la
natura sua sarebbe corrotta da quelli che lo revocassero, a' quali
sendo obligato non si potrebbe opporre. E se voi disegnassi di farlo
morire, non mai per via de' magistrati vi riuscirà,
perché i danari suoi, gli animi vostri corruttibili, sempre
lo salveranno. Ma poniamo che muoia, o cacciato non torni: io non
veggo che acquisto ci facci dentro la nostra republica;
perché, se la si libera da Cosimo, la si fa serva a messer
Rinaldo; e io, per me, sono uno di quelli che desidero che niuno
cittadino di potenza e di autorità superi l'altro; ma quando
alcuno di questi duoi avesse a prevalere, io non so quale cagione mi
facesse amare più messer Rinaldo che Cosimo. Né ti
voglio dire altro, se non che Dio guardi questa città che
alcuno suo cittadino ne diventi principe; ma quando pure i peccati
nostri lo meritassero, la guardi di avere ad ubbidire a lui. Non
volere dunque consigliare che si pigli uno partito che da ogni parte
sia dannoso; né credere, accompagnato da pochi, potere
opporti alla voglia di molti: perché tutti questi cittadini,
parte per ignoranza, parte per malizia, sono a vendere questa
republica apparecchiati; ed è in tanto la fortuna loro amica,
ch'eglino hanno trovato il comperatore. Governati per tanto per il
mio consiglio: attendi a vivere modestamente; e arai, quanto alla
libertà, così a sospetto quelli della parte nostra,
come quelli della avversa, e quando travaglio alcuno nasca, vivendo
neutrale, sarai a ciascuno grato; e così gioverai a te, e non
nocerai alla tua patria.
28
Queste parole raffrenorono alquanto lo animo del Barbadoro, in modo
che le cose stettono quiete quanto durò la guerra di Lucca;
ma seguita la pace, e con quella la morte di Niccolò da
Uzano, rimase la città sanza guerra e sanza freno. Donde che
sanza alcuno rispetto crebbono i malvagi umori; e messer Rinaldo,
parendogli essere rimaso solo principe della Parte, non cessava di
pregare e infestare tutti i cittadini i quali credeva potessero
essere gonfalonieri, che si armassero a liberare la patria di quello
uomo che di necessità, per la malignità di pochi e per
la ignoranza di molti, la conduceva in servitù. Questi modi
tenuti da messer Rinaldo, e quelli di coloro che favorivano la parte
avversa, tenevano la città piena di sospetto; e qualunque
volta si creava uno magistrato, si diceva publicamente quanti
dell'una e quanti dell'altra parte vi sedevano; e nella tratta de'
Signori stava tutta la città sollevata. Ogni caso che veniva
davanti a' magistrati, ancora che minimo, si riduceva fra loro in
gara; i secreti si publicavano; così il bene come il male si
favoriva e disfavoriva; i buoni come i cattivi ugualmente erano
lacerati; niuno magistrato faceva l'ufizio suo. Stando adunque
Firenze in questa confusione, e messer Rinaldo in quella voglia di
abbassare la potenza di Cosimo, e sapendo come Bernardo Guadagni
poteva essere gonfaloniere, pagò le sue gravezze,
acciò che il debito publico non gli togliesse quel grado.
Venutosi di poi alla tratta de' Signori, fece la fortuna, amica alle
discordie nostre, che Bernardo fu tratto gonfalonieri per sedere il
settembre e l'ottobre. Il quale messer Rinaldo andò subito a
vicitare, e gli disse quanto la parte de' nobili e qualunque
desiderava bene vivere si era rallegrato per essere lui pervenuto a
quella dignità; e che a lui si apparteneva operare in modo
che non si fussero rallegrati invano. Mostrogli di poi i pericoli
che nella disunione si correvono, e come non era altro rimedio alla
unione, che spegnere Cosimo; perché solo quello, per i favori
che da le immoderate sue ricchezze nascevano, gli teneva infermi; e
che si era condotto tanto alto che, se e' non vi si provedeva, ne
diventerebbe principe; e come ad uno buono cittadino s'apparteneva
rimediarvi, chiamare il popolo in Piazza, ripigliare lo stato, per
rendere alla patria la sua libertà. Ricordogli che messer
Salvestro de' Medici potette ingiustamente frenare la grandezza de'
Guelfi, a' quali, per il sangue dai loro antichi sparso, si
apparteneva il governo; e che quello ch'egli fare contro a tanti
ingiustamente potette, potrebbe bene fare esso, giustamente, contro
ad uno solo. Confortollo a non temere, perché gli amici con
le armi sarebbono presti per aiutarlo; e della plebe che lo adorava
non tenessi conto, perché non trarrebbe Cosimo da lei altri
favori che si traessi già messer Giorgio Scali; né
delle sue ricchezze dubitasse, perché quando fia in
podestà de' Signori, le saranno loro, e conclusegli che
questo fatto farebbe la republica secura e unita, e lui glorioso.
Alle quali parole Bernardo rispose brevemente, come giudicava cosa
necessaria fare quanto egli diceva; e perché il tempo era da
spenderlo in operare, attendessi a prepararsi con le forze, per
essere presto, persuaso che gli avesse i compagni. Preso che ebbe
Bernardo il magistrato, disposti i compagni e convenuto con messer
Rinaldo, citò Cosimo, il quale, ancora che ne fusse da molti
amici sconfortato comparì, confidatosi più nella
innocenzia sua che nella misericordia de' Signori. Come Cosimo fu in
Palagio, e sostenuto, messer Rinaldo con molti armati uscì di
casa, e apresso a quello tutta la Parte, e ne vennono in Piazza,
dove i Signori feciono chiamare il popolo, e creorono dugento uomini
di balia per riformare lo stato della città. Nella quale
balia, come prima si potette, si trattò della riforma, e
della vita e della morte di Cosimo. Molti volevono che fusse mandato
in esilio; molti morto; molti altri tacevano, o per compassione di
lui o per paura di loro. I quali dispareri non lasciavano concludere
alcuna cosa.
29
È nella torre del Palagio uno luogo, tanto grande quanto
patisce lo spazio di quella, chiamato l'Alberghettino; nel quale fu
rinchiuso Cosimo, e dato in guardia a Federigo Malavolti. Dal quale
luogo sentendo Cosimo fare il parlamento, e il romore delle armi che
in Piazza si faceva, e il sonare spesso a balia, stava con sospetto
della sua vita; ma più ancora temeva che estraordinariamente
i particulari nimici lo facessero morire. Per questo si asteneva dal
cibo tanto che, in quattro giorni, non aveva voluto mangiare altro
che un poco di pane. Della qual cosa accorgendosi Federigo, gli
disse: - Tu dubiti, Cosimo di non essere avvelenato; e fai te morire
di fame, e poco onore a me, credendo che io volessi tenere le mani
ad una simile scelleratezza. Io non credo che tu abbia a perdere la
vita: tanti amici hai in Palagio e fuori; ma quando pure avessi a
perderla, vivi securo che piglieranno altri modi che usare me per
ministro a tortela, perché io non voglio bruttarmi le mani
nel sangue di alcuno e massime del tuo, che non mi offendesti mai.
Sta' per tanto di buona voglia prendi il cibo, e mantienti vivo agli
amici e alla patria. E perché con maggiore fidanza possa
farlo, io voglio delle cose tue medesime mangiare teco -. Queste
parole tutto confortorono Cosimo; e con le lagrime agli occhi
abbracciò e baciò Federigo, e con vive ed efficaci
parole ringraziò quello di sì piatoso e amorevole
officio, offerendo essernegli gratissimo, se mai dalla fortuna
gliene fusse data occasione. Sendo adunque Cosimo alquanto
riconfortato, e disputandosi il caso suo intra i cittadini, occorse
che Federigo, per darli piacere, condusse a cena seco uno familiare
del Gonfaloniere, chiamato il Farganaccio, uomo sollazzevole e
faceto. E avendo quasi che cenato, Cosimo, che pensò valersi
della venuta di costui, perché benissimo lo cognosceva,
accennò Federigo che si partisse. Il quale, intendendo la
cagione, finse di andare per cose che mancassero a fornire la cena;
e lasciati quelli soli, Cosimo, dopo alquante amorevoli parole usate
al Farganaccio, gli dette uno contrasegno, e gli impose che andasse
allo Spedalingo di Santa Maria Nuova per mille cento ducati: cento
ne prendesse per sé, e mille ne portasse al Gonfaloniere; e
pregasse quello che, presa onesta occasione, gli venisse a parlare.
Accettò costui la commissione: i denari furono pagati; donde
Bernardo ne diventò più umano: e ne seguì che
Cosimo fu confinato a Padova, contro alla voglia di messer Rinaldo,
che lo voleva spegnere. Fu ancora confinato Averardo e molti della
casa de' Medici; e con quelli, Puccio e Giovanni Pucci. E per
sbigottire quelli che erano male contenti dello esilio di Cosimo,
dettono balia agli Otto di guardia e al Capitano del popolo. Dopo le
quali deliberazioni, Cosimo, a' dì 3 di ottobre, nel 1433,
venne davanti a' Signori, da' quali gli fu denunziato il confine,
confortandolo allo ubbidire, quando e' non volesse che più
aspramente contro a' suoi beni e contro a lui si procedesse.
Accettò Cosimo con vista allegra il confine, affermando che
dovunque quella Signoria lo mandasse era per stare volentieri.
Pregava bene che, poi gli aveva conservata la vita, gliene
difendesse; perché sentiva essere in Piazza molti che
desideravano il sangue suo. Offerse di poi, in qualunque luogo dove
fusse, alla città, al popolo e a Loro Signorie sé e le
sustanze sue. Fu da il Gonfalonieri confortato, e tanto ritenuto in
Palagio che venisse la notte. Di poi lo condusse in casa sua, e
fattolo cenare seco, da molti armati lo fece accompagnare a'
confini. Fu, dovunque passò, ricevuto Cosimo onorevolmente, e
da' Viniziani publicamente vicitato, e non come sbandito, ma come
posto in supremo grado, onorato.
30
Rimasa Firenze vedova d'uno tanto cittadino e tanto universalmente
amato, era ciascuno sbigottito; e parimente quelli che avevano vinto
e quelli che erano vinti temevano. Donde che messer Rinaldo,
dubitando del suo futuro male, per non mancare a sé e alla
Parte, ragunati molti cittadini amici, disse a quelli che vedeva
apparecchiata la rovina loro, per essersi lasciati vincere da'
prieghi, dalle lagrime e da' danari de' loro nimici. E non si
accorgevono che poco di poi aranno a pregare e piagnere eglino, e
che i loro prieghi non saranno uditi, e delle loro lagrime non
troverranno chi abbia compassione: e de' danari presi restituiranno
il capitale e pagheranno l'usura con tormenti, morte ed esili. E che
gli era molto meglio essersi stati, che avere lasciato Cosimo in
vita e gli amici suoi in Firenze; perché gli uomini grandi o
e' non si hanno a toccare o, tocchi, a spegnere. Né ci vedeva
altro rimedio che farsi forti nella città, acciò che,
risentendosi e nimici, che si risentirieno presto, si potesse
cacciarli con le armi, poi che con i modi civili non se ne erano
potuti mandare. E che il rimedio era quello che molto tempo innanzi
aveva ricordato: di riguadagnarsi i Grandi, rendendo e concedendo
loro tutti gli onori della città, e farsi forte con questa
parte, poi che i loro avversarii si erano fatti forti con la plebe.
E come, per questo, la parte loro sarebbe più gagliarda,
quanto in quella sarebbe più vita, più virtù,
più animo e più credito; affermando che, se questo
ultimo e vero rimedio non si pigliava, non vedeva con quale altro
modo si potesse conservare uno stato infra tanti nimici, e
cognosceva una propinqua rovina della parte loro e della
città. A che Mariotto Baldovinetti, uno de' ragunati, si
oppose, mostrando la superbia de' Grandi e la natura loro
insopportabile; e che non era da ricorrere sotto una certa tirannide
loro, per fuggire i dubi pericoli della plebe. Donde che messer
Rinaldo, veduto il suo consiglio non essere udito, si dolfe della
sua sventura e di quella della sua parte, imputando ogni cosa
più a' cieli, che volevono così, che alla ignoranza e
cecità degli uomini. Standosi la cosa adunque in questa
maniera, sanza fare alcuna necessaria provisione, fu trovata una
lettera scritta da messer Agnolo Acciaiuoli a Cosimo, la quale gli
mostrava la disposizione della città verso di lui, e lo
confortava a fare che si movesse qualche guerra, e a farsi amico
Neri di Gino; perché giudicava, come la città avesse
bisogno di danari, non si troverebbe chi la servisse, e verrebbe la
memoria sua a rinfrescarsi ne' cittadini e il desiderio di farlo
ritornare, e se Neri si smembrasse da messer Rinaldo, quella parte
indebolirebbe tanto che la non sarebbe sufficiente a defendersi.
Questa lettera, venuta nelle mani de' magistrati, fu cagione che
messer Agnolo fusse preso, collato e mandato in esilio. Né
per tale esemplo si frenò in alcuna parte l'umore che
favoriva Cosimo. Era di già girato quasi che l'anno dal
dì che Cosimo era stato cacciato, e venendo il fine di agosto
1434, fu tratto gonfalonieri per i duoi mesi futuri Niccolò
di Cocco, e con quello otto Signori tutti partigiani di Cosimo; di
modo che tale Signoria spaventò messer Rinaldo e tutta la sua
parte. E perché avanti che i Signori prendino il magistrato
eglino stanno tre giorni privati, messer Rinaldo fu di nuovo con i
capi della parte sua; e mostrò loro il certo e propinquo
periculo e che il rimedio era pigliare le armi e fare che Donato
Velluti, il quale allora sedeva gonfalonieri, ragunasse il popolo in
Piazza, facesse nuova balia, privasse i nuovi Signori del
magistrato, e se ne creasse de' nuovi, a proposito dello stato, e si
ardessero le borse e con nuovi squittini, si riempiessero di amici.
Questo partito da molti era giudicato sicuro e necessario, da molti
altri troppo violento e da tirarsi dreto troppo carico. E intra
quelli a chi e' dispiacque fu messer Palla Strozzi, il quale era
uomo quieto, gentile e umano, e più tosto atto agli studi
delle lettere che a frenare una parte e opporsi alle civili
discordie. E però disse che i partiti o astuti o audaci
paiono nel principio buoni, ma riescono poi nel trattargli
difficili, e nel finirgli dannosi; e che credeva che il timore delle
nuove guerre di fuori, sendo le genti del Duca in Romagna sopra i
confini nostri, farebbe che i Signori penserebbero più a
quelle che alle discordie di dentro; pure, quando si vedesse che
volessero alterare (il che non potevono fare che non si intendesse)
sempre si sarebbe a tempo a pigliare le armi ed esequire quanto
paresse necessario per la salute comune; il che faccendosi per
necessità, seguirebbe con meno ammirazione del popolo e meno
carico loro. Fu per tanto concluso che si lasciassero entrare i
nuovi Signori e che si vigilassero i loro andamenti, e quando si
sentisse cosa alcuna contro alla Parte, ciascuno pigliasse l'armi e
convenisse alla piazza di San Pulinari luogo propinquo al Palagio,
donde potrebbero poi condursi dove paresse loro necessario.
31
Partiti con questa conclusione, i Signori nuovi entrarono in
magistrato; e il Gonfaloniere, per darsi reputazione e per
sbigottire quelli che disegnassero opporsegli, condannò
Donato Velluti suo antecessore, alle carcere, come uomo che si fusse
valuto de' danari publici. Dopo questo, tentò i compagni per
fare ritornare Cosimo; e trovatigli disposti, ne parlava con quelli
che della parte de' Medici giudicava capi: da' quali sendo
riscaldato, citò messer Rinaldo, Ridolfo Peruzzi e
Niccolò Barbadoro, come principali della parte avversa. Dopo
la quale citazione, pensò messer Rinaldo che non fusse da
ritardare più, e uscì fuora di casa con gran numero di
armati: con il quale si congiunse subito Ridolfo Peruzzi e
Niccolò Barbadoro. Fra costoro erano di molti altri
cittadini, e assai soldati che in Firenze sanza soldo si trovavano,
e tutti si fermorono secondo la convenzione fatta, alla piazza di
San Pulinari. Messer Palla Strozzi ancora che gli avesse ragunate
assai genti, non uscì fuora, il simile fece messer Giovanni
Guicciardini: donde che messer Rinaldo mandò a sollecitargli,
e a riprendergli della loro tardità. Messer Giovanni rispose
che faceva assai guerra alla parte nimica, se teneva, con lo starsi
in casa, che Piero suo fratello non uscisse fuora a soccorrere il
Palagio; messer Palla, dopo molte ambasciate fattegli, venne a San
Pulinari a cavallo, con duoi a piè, e disarmato. Al quale
messer Rinaldo si fece incontra, e forte lo riprese della sua
negligenzia; e che il non convenire con gli altri nasceva o da poca
fede o da poco animo; e l'uno e l'altro di questi carichi doveva
fuggire uno uomo che volesse essere tenuto di quella sorte era
tenuto egli. E se credeva, per non fare suo debito contro alla
Parte, che gli nimici suoi, vincendo, gli perdonassero o la vita o
lo esilio, se ne ingannava. E quanto si aspettava a lui, venendo
alcuna cosa sinistra, ci arebbe questo contento, di non essere
mancato innanzi al pericolo con il consiglio, e in sul pericolo con
la forza; ma a lui e agli altri si raddoppierieno i dispiaceri,
pensando di avere tradita la patria loro tre volte: l'una quando
salvorono Cosimo; l'altra quando non presono i suoi consigli; la
terza allora, di non la soccorrere con le armi. Alle quali parole
messer Palla non rispose cosa che da' circustanti fusse intesa; ma,
mormorando, volse il cavallo, e tornossene a casa. I Signori,
sentendo messer Rinaldo e la sua parte avere prese le armi, e
vedendosi abbandonati, fatto serrare il Palagio, privi di consiglio,
non sapevano che farsi. Ma soprastando messer Rinaldo a venire in
Piazza, per aspettare quelle forze che non vennono, tolse a
sé l'occasione del vincere, e dette animo a loro a
provedersi, e a molti cittadini di andare a quelli e confortargli a
volere usare termini che si posassero le armi. Andorono adunque
alcuni meno sospetti, da parte de' Signori, a messer Rinaldo; e
dissono che la Signoria non sapeva la cagione perché questi
moti si facessero, e che non aveva mai pensato di offenderlo; e se
si era ragionato di Cosimo, non si era pensato a rimetterlo; e se
questa era la cagione del sospetto, che gli assicurerebbero; e che
fussino contenti venire in Palagio; e che sarebbono bene veduti e
compiaciuti d'ogni loro domanda. Queste parole non feciono mutare di
proposito messer Rinaldo; ma diceva volere assicurarsi con il fargli
privati, e di poi a benificio di ciascuno si riordinasse la
città. Ma sempre occorre che dove le autorità sono
pari e i pareri sieno diversi, vi si risolve rade volte alcuna cosa
in bene. Ridolfo Peruzzi, mosso dalle parole di quelli cittadini,
disse che per lui non si cercava altro se non che Cosimo non
tornasse, e avendo questo d'accordo, gli pareva assai vittoria;
né voleva, per averla maggiore, riempiere la sua città
di sangue; e però voleva ubbidire alla Signoria. E con le sue
genti ne andò in Palagio, dove fu lietamente ricevuto. Il
fermarsi adunque messer Rinaldo a San Pulinari, il poco animo di
messer Palla e la partita di Ridolfo avevano tolto a messer Rinaldo
la vittoria della impresa; ed erano cominciati gli animi de'
cittadini che lo seguivano a mancare di quella prima caldezza. A che
si aggiunse l'autorità del Papa.
32
Trovavasi papa Eugenio in Firenze, stato cacciato da Roma da il
popolo. Il quale, sentendo questi tumulti, e parendogli suo uficio
il quietargli, mandò messer Giovanni Vitelleschi patriarca,
amicissimo di messer Rinaldo, a pregarlo che venisse a lui;
perché non gli mancherebbe, con la Signoria, né
autorità né fede a farlo contento e securo, sanza
sangue e danno de' cittadini. Persuaso per tanto messer Rinaldo
dallo amico, con tutti quegli che armati lo seguivano, ne
andò a Santa Maria Novella, dove il Papa dimorava. Al quale
Eugenio fece intendere la fede che i Signori gli avevano data, e
rimesso in lui ogni differenza; e che si ordinerebbono le cose,
quando e' posasse l'armi, come a quello paresse. Messer Rinaldo,
avendo veduto la freddezza di messer Palla e la leggerezza di
Ridolfo Peruzzi, scarso di migliore partito, si rimisse nelle
braccia sua, pensando pure che la autorità del Papa lo avesse
a perservare. Onde che il Papa fece significare a Niccolò
Barbadoro e agli altri che fuori lo aspettavano, che andassero a
posare l'armi, perché messer Rinaldo rimaneva con il
Pontefice per trattare lo accordo con i Signori. Alla quale voce
ciascuno si risolvé e si disarmò.
33
I Signori, vedendo disarmati gli avversarii loro, attesono a
praticare lo accordo per mezzo del Papa: e dall'altra parte
mandorono secretamente nella montagna di Pistoia per fanterie; e
quelle, con tutte le loro genti d'arme, feciono venire, di notte, in
Firenze; e presi i luoghi forti della città, chiamorono il
popolo in Piazza, e creorono nuova balia. La quale, come prima si
ragunò, restituì Cosimo alla patria e gli altri che
erano con quello stati confinati; e della parte nimica
confinò messer Rinaldo degli Albizzi, Ridolfo Peruzzi,
Niccolò Barbadori e messer Palla Strozzi, con molti altri
cittadini; e in tanta quantità che poche terre in Italia
rimasero, dove non ne fusse mandati in esilio, e molte fuora di
Italia ne furono ripiene, tale che Firenze, per simile accidente,
non solamente si privò di uomini da bene, ma di ricchezze e
di industria. Il Papa, vedendo tanta rovina sopra di coloro i quali
per i suoi prieghi avieno posate l'armi, ne restò malissimo
contento; e con messer Rinaldo si dolfe della ingiuria fattagli
sotto la sua fede; e lo confortò a pazienzia, e a sperare
bene per la varietà della fortuna. Al quale messer Rinaldo
rispose: - La poca fede che coloro che mi dovevono credere mi hanno
prestata, e la troppa che io ho prestata a Voi, ha me e la mia parte
rovinata, ma io più di me stesso che di alcuno mi dolgo, poi
che io credetti che Voi, che eri stato cacciato della patria vostra,
potessi tenere me nella mia. De' giuochi della fortuna io ne ho
assai buona esperienza; e come io ho poco confidato nelle
prosperità, così le avversità meno mi
offendono; e so che, quando le piacerà, la mi si potrà
mostrare più lieta; ma quando mai non le piaccia, io
stimerò sempre poco vivere in una città dove possino
meno le leggi che gli uomini; perché quella patria è
desiderabile nella quale le sustanze e gli amici si possono
securamente godere, non quella dove ti possino essere quelle tolte
facilmente, e gli amici, per paura di loro propri, nelle tue
maggiori necessità ti abbandonono. E sempre agli uomini savi
e buoni fu meno grave udire i mali della patria loro, che vederli; e
cosa più gloriosa reputano essere uno onorevole ribello, che
uno stiavo cittadino -. E partito dal Papa pieno di sdegno, seco
medesimo spesso i suoi consigli e la freddezza degli amici
reprendendo, se ne andò in esilio. Cosimo, dall'altra parte,
avendo notizia della sua restituzione, tornò in Firenze. E
rade volte occorse che uno cittadino, tornando trionfante d'una
vittoria, fusse ricevuto dalla sua patria con tanto concorso di
popolo e con tanta dimostrazione di benivolenzia, con quanta fu
ricevuto egli tornando dallo esilio. E da ciascuno voluntariamente
fu salutato benefattore del popolo e padre della patria.
LIBRO QUINTO
1
Sogliono le provincie, il più delle volte, nel variare che le
fanno, dall'ordine venire al disordine, e di nuovo di poi dal
disordine all'ordine trapassare; perché, non essendo dalla
natura conceduto alle mondane cose il fermarsi, come le arrivano
alla loro ultima perfezione, non avendo più da salire,
conviene che scendino; e similmente, scese che le sono, e per li
disordini ad ultima bassezza pervenute, di necessità, non
potendo più scendere, conviene che salghino, e così
sempre da il bene si scende al male, e da il male si sale al bene.
Perché la virtù partorisce quiete la quiete ozio,
l'ozio disordine, il disordine rovina, e similmente dalla rovina
nasce l'ordine, dall'ordine virtù, da questa gloria e buona
fortuna. Onde si è da i prudenti osservato come le lettere
vengono drieto alle armi, e che nelle provincie e nelle città
prima i capitani che i filosofi nascono. Perché avendo le
buone e ordinate armi partorito vittorie, e le vittorie quiete, non
si può la fortezza degli armati animi con il più
onesto ozio che con quello delle lettere corrompere; né
può l'ozio con il maggiore e più pericoloso inganno
che con questo nelle città bene institute entrare. Il che fu
da Catone, quando in Roma Diogene e Carneade filosofi, mandati da
Atene oratori al Senato, vennono, ottimamente cognosciuto; il quale,
veggendo come la gioventù romana cominciava con ammirazione a
seguitarli, e cognoscendo il male che da quello onesto ozio alla sua
patria ne poteva risultare, provide che niuno filosofo potesse
essere in Roma ricevuto. Vengono per tanto le provincie per questi
mezzi alla rovina; dove pervenute, e gli uomini per le battiture
diventati savi, ritornono, come è detto, all'ordine, se
già da una forza estraordinaria non rimangono suffocati.
Queste cagioni feciono, prima mediante gli antichi Toscani, di poi i
Romani, ora felice ora misera la Italia. E avvenga che di poi sopra
le romane rovine non si sia edificato cosa che l'abbia in modo da
quelle ricomperata, che sotto uno virtuoso principato abbia potuto
gloriosamente operare, non di meno surse tanta virtù in
alcuna delle nuove città e de nuovi imperii i quali tra le
romane rovine nacquono, che, sebbene uno non dominasse agli altri,
erano non di meno in modo insieme concordi e ordinati che da'
barbari la liberorono e difesero. Intra i quali imperii i
Fiorentini, se gli erano di minore dominio, non erano di
autorità né di potenza minori; anzi, per essere posti
in mezzo alla Italia, ricchi e presti alle offese, o eglino
felicemente una guerra loro mossa sostenevono, o ei davono la
vittoria a quello con il quale e' s'accostavano. Dalla virtù
adunque di questi nuovi principati, se non nacquono tempi che
fussero per lunga pace quieti, non furono anche per la asprezza
della guerra pericolosi; perché pace non si può
affermare che sia dove spesso i principati con le armi l'uno l'altro
si assaltano; guerre ancora non si possono chiamare quelle nelle
quali gli uomini non si ammazzano, le città non si
saccheggiano, i principati non si destruggono: perché quelle
guerre in tanta debolezza vennono, che le si cominciavano sanza
paura, trattavansi sanza pericolo, e finivonsi sanza danno. Tanto
che quella virtù che per una lunga pace si soleva nelle altre
provincie spegnere fu dalla viltà di quelle in Italia spenta,
come chiaramente si potrà cognoscere per quello che da noi
sarà da il 1434 al '94 descritto dove si vedrà come
alla fine si aperse di nuovo la via a' barbari e riposesi la Italia
nella servitù di quelli. E se le cose fatte dai principi
nostri fuori e in casa, non fieno, come quelle degli antichi, con
ammirazione per la loro virtù e grandezza lette, fieno forse
per le altre loro qualità, con non minore ammirazione
considerate, vedendo come tanti nobilissimi popoli da sì
deboli e male amministrate armi fussino tenuti in freno. E se, nel
descrivere le cose seguite in questo guasto mondo, non si
narrerà o fortezza di soldati, o virtù di capitano, o
amore verso la patria di cittadino, si vedrà con quali
inganni, con quali astuzie e arti, i principi, i soldati e i capi
delle repubbliche, per mantenersi quella reputazione che non avevono
meritata, si governavano. Il che sarà forse non meno utile
che si sieno le antiche cose a cognoscere, perché, se quelle
i liberali animi a seguitarle accendono, queste a fuggirle e
spegnerle gli accenderanno.
2
Era la Italia da quelli che la comandavano in tale termine condotta,
che, quando per la concordia de' principi nasceva una pace, poco di
poi da quelli che tenevano le armi in mano era perturbata: e
così per la guerra non acquistavano gloria né per la
pace quiete. Fatta per tanto la pace intra il duca di Milano e la
lega, l'anno 1433, i soldati, volendo stare in su la guerra si
volsono contro alla Chiesa. Erano allora due sette di armi in
Italia, Braccesca e Sforzesca: di questa era capo il conte Francesco
figliuolo di Sforza, dell'altra era principe Niccolò Piccino
e Niccolò Fortebraccio: a queste sette quasi tutte le altre
armi italiane si accostavano. Di queste la Sforzesca era in maggiore
pregio, sì per la virtù del Conte, sì per la
promessa gli aveva il duca di Milano fatta di madonna Bianca sua
naturale figliuola; la speranza del quale parentado reputazione
grandissima gli arrecava. Assaltorono adunque queste sette di
armati, dopo la pace di Lombardia per diverse cagioni, papa Eugenio:
Niccolò Fortebraccio era mosso dall'antica nimicizia che
Braccio avea sempre tenuta con la Chiesa; il Conte per ambizione si
moveva; tanto che Niccolò assalì Roma e il Conte si
insignorì della Marca. Donde i Romani, per non volere la
guerra, cacciorono Eugenio di Roma. Il quale, con pericolo e
difficultà fuggendo, se ne venne a Firenze, dove considerato
il pericolo nel quale era, e vedendosi da' principi abbandonato, i
quali per cagione sua non volevono ripigliare quelle armi ch'eglino
avieno con massimo desiderio posate, si accordò con il Conte,
e gli concesse la signoria della Marca, ancor che il Conte alla
ingiuria dello averla occupata vi avesse aggiunto il dispregio,
perché, nel segnare in luogo dove scriveva a' suoi agenti le
lettere, con parole latine, secondo il costume italiano, diceva: Ex
Girfalco nostro Firmiamo, invito Petro et Paulo. Né fu
contento alla concessione delle terre ché volle essere creato
gonfaloniere della Chiesa, e tutto gli fu acconsentito: tanto
più temé Eugenio una pericolosa guerra che una
vituperosa pace. Diventato per tanto il Conte amico del Papa
perseguitò Niccolò Fortebraccio, e intra loro
seguirono, nelle terre della Chiesa per molti mesi, varii accidenti,
i quali tutti più a danno del Papa e de' suoi sudditi, che di
chi maneggiava la guerra seguivono; tanto che fra loro, mediante il
duca di Milano, si concluse, per via di triegua, uno accordo, dove
l'uno e l'altro di essi nelle terre della Chiesa principi rimasono.
3
Questa guerra, spenta a Roma, fu da Batista da Canneto in Romagna
raccesa. Ammazzò costui in Bologna, alcuni della famiglia de'
Grifoni, e il governatore per il Papa con altri suoi nimici
cacciò della città; e per tenere con violenza quello
stato, ricorse per aiuti a Filippo; e il Papa, per vendicarsi della
ingiuria, gli domandò a' Viniziani e a' Fiorentini. Furono
l'uno e l'altro di costoro suvvenuti, tanto che subito si trovorono
in Romagna duoi grossi eserciti. Di Filippo era capitano
Niccolò Piccino; le genti viniziane e fiorentine da
Gattamelata e da Niccolò da Tolentino erano governate; e
propinque a Imola vennono a giornata; nella quale i Viniziani e
Fiorentini furono rotti, e Niccolò da Tolentino mandato
prigione al Duca; il quale, o per fraude di quello, o per dolore del
ricevuto danno, in pochi giorni morì. Il Duca, dopo questa
vittoria, o per essere debole per le passate guerre, o per credere
che la lega, avuta questa rotta, posasse, non seguì
altrimenti la fortuna, e dette tempo al Papa e i collegati di nuovo
ad unirsi. I quali elessono per loro capitano il conte Francesco, e
feciono impresa di cacciare Niccolò Fortebraccio delle terre
della Chiesa, per vedere se potevono ultimare quella guerra che in
favore del Pontefice avevono cominciata. I Romani, come e' viddono
il Papa gagliardo in su e campi, cercorono di aver seco accordo; e
trovoronlo, e riceverono un suo commissario. Possedeva
Niccolò Fortebraccio, intra le altre terre, Tiboli,
Montefiasconi, Città di Castello e Ascesi. In questa terra,
non potendo Niccolò stare in campagna, s'era rifuggito, dove
il Conte lo assediò, e andando la obsidione in lunga,
perché Niccolò virilmente si difendeva, parve al Duca
necessario o impedire alla lega quella vittoria, o ordinarsi, dopo
quella, a difendere le cose sua. Volendo per tanto divertire il
Conte dallo assedio, comandò a Niccolò Piccino che per
la via di Romagna passasse in Toscana; in modo che la lega,
giudicando essere più necessario difendere la Toscana che
occupare Ascesi, ordinò al Conte proibissi a Niccolò
il passo; il quale era di già, con lo esercito suo, a
Furlì. Il Conte dall'altra parte mosse con le sue genti e ne
venne a Cesena, avendo lasciato a Lione suo fratello la guerra della
Marca e la cura degli stati suoi. E mentre che Piccinino cercava di
passare, e il Conte di impedirlo, Niccolò Fortebraccio
assaltò Lione, e con grande sua gloria prese quello, e le sue
genti saccheggiò; e seguitando la vittoria, occupò,
con il medesimo impeto, molte terre della Marca. Questo fatto
contristò assai il Conte, pensando essere perduti tutti gli
stati suoi, e lasciato parte dello esercito allo incontro di
Piccinino, con il restante ne andò alla volta del
Fortebraccio, e quello combatté e vinse; nella qual rotta
Fortebraccio rimase prigione e ferito; della quale ferita
morì. Questa vittoria restituì al Pontefice tutte le
terre che da Niccolò Fortebraccio gli erano state tolte, e
ridusse il duca di Milano a domandare pace, la quale per il mezzo di
Niccolò da Esti marchese di Ferrara si concluse. Nella quale
le terre occupate in Romagna dal Duca si restituirono alla Chiesa, e
le genti del Duca si ritornorono in Lombardia, e Battista da
Canneto, come interviene a tutti quelli che per forze e virtù
d'altri si mantengono in uno stato, partite che furono le genti del
Duca di Romagna, non potendo le forze e virtù sue tenerlo in
Bologna, se ne fuggì; dove messer Antonio Bentivoglio, capo
della parte avversa, ritornò.
4
Tutte queste cose nel tempo dello esilio di Cosimo seguirono. Dopo
la cui tornata quelli che lo avevono rimesso e tanti cittadini
ingiuriati pensorono, senza alcuno rispetto, di assicurarsi dello
stato loro. E la Signoria la quale nel magistrato il novembre e
decembre succedette, non contenta a quello che da' suoi antecessori
in favore della parte era stato fatto, prolungò e
permutò i confini a molti, e di nuovo molti altri ne
confinò; e ai cittadini non tanto l'umore delle parti noceva,
ma le ricchezze, i parenti, le nimicizie private. E se questa
proscrizione da il sangue fusse stata accompagnata, arebbe a quella
d'Ottaviano e Silla renduto similitudine; ancora che in qualche
parte nel sangue s'intignesse, perché Antonio di Bernardo
Guadagni fu decapitato, e quattro altri cittadini, intra i quali fu
Zanobi Belfrategli e Cosimo Barbadori, avendo passati i confini, e
trovandosi a Vinegia, i Viniziani, stimando più l'amicizia di
Cosimo che l'onore loro, gli mandorono prigioni, dove furono
vilmente morti. La qual cosa dette grande reputazione alla parte e
grandissimo terrore a' nimici, considerato che sì potente
republica vendesse la libertà sua a' Fiorentini, il che si
credette avesse fatto, non tanto per benificare Cosimo, quanto per
accendere più le parti in Firenze, e fare, mediante il
sangue, la divisione della città nostra più
pericolosa; perché i Viniziani non vedevano altra opposizione
alla loro grandezza, che la unione di quella. Spogliata adunque la
città de' nimici o sospetti allo stato, si volsono a
benificare nuove genti, per fare più gagliarda la parte loro:
e la famiglia degli Alberti, e qualunque altro si trovava ribelle,
alla patria restituirono; tutti i Grandi, eccetto pochissimi, nello
ordine populare ridussono; le possessioni de' rebelli intra loro per
piccolo prezzo divisono. Apresso a questo, con leggi e nuovi ordini
si affortificorono, e feciono nuovi squittini, traendo delle borse i
nimici e riempiendole di amici loro. E ammuniti dalla rovina degli
avversarii, giudicando che non bastassino gli squittini scelti a
tenere fermo lo stato loro, pensorono che i magistrati i quali del
sangue hanno autorità fussino sempre de' principi della setta
loro; e però vollono che gli accoppiatori preposti alla
imborsazione de' nuovi squittini, insieme con la Signoria vecchia,
avessero autorità di creare la nuova; dettono agli Otto di
guardia autorità sopra il sangue; providdono che i confinati,
fornito il tempo, non potessero tornare, se prima dei Signori e
Collegi, che sono in numero trentasette, non se ne accordava
trentaquattro alla loro restituzione; lo scrivere loro e da quelli
ricevere lettere proibirono; e ogni parola, ogni cenno, ogni usanza
che a quelli che governavano fusse in alcuna parte dispiaciuta era
gravissimamente punita. E se in Firenze rimase alcuno sospetto, il
quale da queste offese non fusse stato aggiunto, fu dalle gravezze
che di nuovo ordinorono afflitto; e in poco tempo, avendo cacciata e
impoverita tutta la parte nimica, dello stato loro si assicurorono.
E per non mancare di aiuti di fuori, e per torgli a quelli che
disegnassero offenderli, con il Papa, Viniziani e duca di Milano a
difensione degli stati si collegorono.
5
Stando adunque in questa forma le cose di Firenze, morì
Giovanna reina di Napoli, e per suo testamento lasciò Rinieri
d'Angiò erede del Regno. Trovavasi allora Alfonso re di
Ragona in Sicilia, il quale, per l'amicizia aveva con molti baroni,
si preparava ad occupare quel regno. I Napoletani e molti baroni
favorivano Rinieri, il Papa dall'altra parte non voleva né
che Rinieri né che Alfonso lo occupasse, ma desiderava che
per uno suo governatore si amministrasse. Venne per tanto Alfonso
nel Regno, e fu da il duca di Sessa ricevuto; dove condusse al suo
soldo alcuni principi, con animo (avendo Capua, la quale il principe
di Taranto in nome di Alfonso possedeva) di costrignere i Napoletani
a fare la sua volontà, e mandò l'armata sua ad
assalire Gaeta, la quale per li Napoletani si teneva; per la qual
cosa i Napoletani domandorono aiuto a Filippo. Persuase costui i
Genovesi a prendere quella impresa; i quali, non solo per sodisfare
al Duca, loro principe, ma per salvare le loro mercanzie che in
Napoli e in Gaeta avevono, armorono una potente armata. Alfonso
dall'altra parte, sentendo questo, ringrossò la sua, e in
persona andò allo incontro de' Genovesi; e sopra l'isola di
Ponzio venuti alla zuffa, l'armata aragonese fu rotta, e Alfonso,
insieme con molti principi, preso e dato da' Genovesi nelle mani di
Filippo. Questa vittoria sbigottì tutti i principi che in
Italia temevono la potenza di Filippo, perché giudicavano
avesse grandissima occasione di insignorirsi del tutto. Ma egli
(tanto sono diverse le opinioni degli uomini) prese partito al tutto
a questa opinione contrario. Era Alfonso uomo prudente, e, come
prima poté parlare a Filippo, gli dimostrò quanto ei
s'ingannava a favorire Rinieri e disfavorire lui, perché
Rinieri, diventato re di Napoli, aveva a fare ogni sforzo
perché Milano diventassi del re di Francia, per avere gli
aiuti propinqui e non avere a cercare ne' suoi bisogni, che gli
fusse aperta la via a suoi soccorsi; né poteva altrimenti di
questo assicurarsi, se non con la sua rovina, facendo diventare
quello stato franzese. E che al contrario interverrebbe quando esso
ne diventassi principe; perché, non temendo altro nimico che
i Franzesi, era necessitato amare e carezzare e, non che altro,
ubbidire a colui che a suoi nimici poteva aprire la via; e per
questo il titolo del Regno verrebbe ad essere appresso ad Alfonso,
ma l'autorità e la potenza appresso di Filippo. Sì che
molto più a lui che a sé apparteneva considerare i
pericoli dell'uno partito e l'utilità dell'altro, se
già e' non volesse più tosto sodisfare ad uno suo
appetito, che assicurarsi dello stato; perché nell'uno caso
e' sarebbe principe e libero, nell'altro, sendo in mezzo di duoi
potentissimi principi, o ei perderebbe lo stato, o e' viverebbe
sempre in sospetto, e come servo arebbe ad ubbidire a quelli.
Poterono tanto queste parole nell'animo del Duca, che, mutato
proposito, liberò Alfonso, e onorevolmente lo rimandò
a Genova, e di quindi nel Regno. Il quale si transferì in
Gaeta, la quale, subito che s'intese la sua liberazione, era stata
occupata da alcuni signori suoi partigiani.
6
I Genovesi, veggendo come il Duca, sanza avere loro rispetto, aveva
liberato il Re, e che quello de' pericoli e delle spese loro si era
onorato, e come a lui rimaneva il grado della liberazione e a loro
la ingiuria della cattura e della rotta, tutti si sdegnorono contro
a quello. Nella città di Genova, quando la vive nella sua
libertà, si crea per liberi suffragi uno capo, il quale
chiamano Doge non perché sia assoluto principe, né
perché egli solo deliberi, ma come capo preponga quello che
dai magistrati e consigli loro si debba deliberare. Ha quella
città molte nobili famiglie, le quali sono tanto potenti che
difficilmente allo imperio de' magistrati ubbidiscono. Di tutte
l'altre, la Fregosa e la Adorna sono potentissime: da queste nascono
le divisioni di quella città, e che gli ordini civili si
guastono; perché, combattendo intra loro, non civilmente, ma
il più delle volte con le armi, questo principato, ne segue
che sempre è una parte afflitta e l'altra regge; e alcuna
volta occorre che quelli che si truovano privi delle loro
dignità, alle armi forestiere ricorrono, e quella patria che
loro governare non possono allo imperio d'uno forestiero
sottomettono. Di qui nasceva e nasce che quelli che in Lombardia
regnono, il più delle volte a Genova comandono, come allora,
quando Alfonso d'Aragona fu preso, interveniva. E tra i primi
Genovesi che erano stati cagione di sottometterla a Filippo era
stato Francesco Spinula; il quale, non molto poi che gli ebbe fatta
la sua patria serva, come in simili casi sempre interviene,
diventò sospetto al Duca. Onde che egli, sdegnato, si aveva
eletto quasi che uno esilio voluntario a Gaeta; dove trovandosi
quando e' seguì la zuffa navale con Alfonso, ed essendosi
portato ne' servizi di quella impresa virtuosamente, gli parve avere
di nuovo meritato tanto con il Duca, che potessi almeno, in premio
de' suoi meriti, stare securamente a Genova. Ma veduto che il Duca
seguitava ne' sospetti suoi, perché egli non poteva credere
che quello che non aveva amato la libertà della sua patria
amasse lui, deliberò di tentare di nuovo la fortuna, e ad uno
tratto rendere la libertà alla patria, e a sé la fama
e la securtà, giudicando non avere con i suoi cittadini altro
rimedio se non fare opera che donde era nata la ferita nascessi la
medicina e la salute. E vedendo la indegnazione universale nata
contro al Duca per la liberazione del Re, giudicò che il
tempo fusse commodo a mandare ad effetto i disegni suoi; e
comunicò questo suo consiglio con alquanti i quali sapeva
erano della medesima opinione, e gli confortò e dispose a
seguirlo.
7
Era venuto il celebre giorno di Santo Giovanni Batista, nel quale
Arismino, nuovo governatore mandato da il Duca, entrava in Genova;
ed essendo già entrato dentro, accompagnato da Opicino
vecchio governatore e da molti Genovesi, non parve a Francesco
Spinola di differire, e uscì di casa armato insieme con
quelli che della sua deliberazione erano consapevoli; e come e' fu
sopra alla piazza posta davanti alle sue case, gridò il nome
della libertà. Fu cosa mirabile a vedere con quanta prestezza
quel popolo e quelli cittadini a questo nome concorressino; tale che
niuno il quale, o per sua utilità o per qualunque altra
cagione, amasse il Duca, non solamente non ebbe spazio a pigliare le
armi, ma appena si potette consigliare della fuga. Arismino, con
alcuni Genovesi che erano seco, nella rocca, che per il Duca si
guardava, si rifuggì; Opicino, presumendo potere, se si
rifuggiva in Palagio, dove dumila armati a sua ubbidienza aveva, o
salvarsi o dare animo agli amici a defendersi, voltosi a quello
cammino, prima che in piazza arrivasse fu morto, e, in molte parti
diviso, fu per tutta Genova strascinato. E ridutta i Genovesi la
città sotto i liberi magistrati, in pochi giorni il castello
e gli altri luoghi forti posseduti da il Duca occuporono, e al tutto
da il giogo del duca Filippo si liberorono.
8
Queste cose così governate, dove nel principio avieno
sbigottiti i principi di Italia, temendo che il Duca non diventasse
troppo potente, dettono loro vedendo il fine che ebbono, speranza di
potere tenerlo in freno, e non ostante la lega di nuovo fatta, i
Fiorentini e i Viniziani con i Genovesi si accordorono. Onde che
messer Rinaldo degli Albizzi e gli altri capi de' fuori usciti
fiorentini vedendo le cose perturbate, e il mondo avere mutato viso,
presono speranza di potere indurre il Duca ad una manifesta guerra
contro a Firenze; e andatine a Milano, messer Rinaldo parlò
al Duca in questa sentenza: - Se noi, già tuoi nimici,
vegniamo ora confidentemente a supplicare gli aiuti tuoi per
ritornare nella patria nostra, né tu né alcuno altro
che considera le umane cose come le procedono, e quanto la fortuna
sia varia, se ne debbe maravigliare; non ostante che delle passate e
delle presenti azioni nostre, e teco, per quello che già
facemmo, e con la patria, per quello che ora facciamo, possiamo
avere manifeste e ragionevoli scuse. Niuno uomo buono
riprenderà mai alcuno che cerchi di difendere la patria sua,
in qualunque modo se la difenda. Né fu mai il fine nostro di
iniuriarti, ma sì bene di guardare la patria nostra dalle
ingiurie: di che te ne può essere testimone che, nel corso
delle maggiori vittorie della lega nostra, quando noi ti cognoscemmo
volto ad una vera pace, fummo più desiderosi di quella che tu
medesimo: tanto che noi non dubitiamo di avere mai fatto cosa da
dubitare di non potere da te qualunque grazia ottenere. Né
anche la patria nostra si può dolere che noi ti confortiamo
ora a pigliare quelle armi contro a di lei, dalle quali con tanta
ostinazione la difendemmo; perché quella patria merita di
essere da tutti i cittadini amata la quale ugualmente tutti i suoi
cittadini ama, non quella che, posposti tutti gli altri, pochissimi
ne adora. Né sia alcuno che danni le armi in qualunque modo
contro alla patria mosse, perché le città ancora che
sieno corpi misti, hanno con i corpi semplici somiglianza, e come in
questi nascono molte volte infirmità che sanza il fuoco o il
ferro non si possono sanare, così in quelle molte volte surge
tanti inconvenienti che uno pio e buono cittadino, ancora che il
ferro vi fusse necessario, peccherebbe molto più a lasciarle
incurate che a curarle. Quale adunque puote essere malattia maggiore
ad uno corpo d'una republica che la servitù? quale medicina
è più da usare necessaria che quella che da questa
infirmità la sullevi? Sono solamente quelle guerre giuste che
sono necessarie, e quelle armi sono pietose dove non è alcuna
speranza fuora di quelle. Io non so quale necessità sia
maggiore che la nostra, o quale pietà possa superare quella
che tragga la patria sua di servitù: è certissimo per
tanto la causa nostra essere piatosa e giusta; il che debbe essere e
da noi e da te considerato. Né per la parte tua questa
giustizia manca; perché i Fiorentini non si sono vergognati,
dopo una pace con tanta solennità celebrata, essersi con i
Genovesi tuoi ribelli conlegati: tanto che, se la causa nostra non
ti muove, ti muova lo sdegno. E tanto più veggendo la impresa
facile: perché non ti debbono sbigottire i passati esempli,
dove tu hai veduto la potenza di quel popolo e la ostinazione alla
difesa; le quali due cose ti doverrebbono ragionevolmente ancora
fare temere, quando le fussino di quella medesima virtù che
allora: ma ora tutto il contrario troverrai: perché quale
potenza vuoi tu che sia in una città che abbia da sé
nuovamente scacciato la maggiore parte delle sue ricchezze e della
sua industria? quale ostinazione vuoi tu che sia in uno popolo per
sì varie e nuove nimicizie disunito? La quale disunione
è cagione che ancora quelle ricchezze che vi sono rimase non
si possono, in quel modo che allora si potevono, spendere;
perché gli uomini volentieri consumono il loro patrimonio,
quando ei veggono per la gloria, per l'onore e stato loro proprio
consumarlo, sperando quello bene racquistare nella pace, che la
guerra loro toglie, non quando ugualmente, nella guerra e nella
pace, si veggono opprimere, avendo nell'una a sopportare la ingiuria
degli nimici, nell'altra la insolenzia di coloro che gli comandano.
E ai popoli nuoce molto più l'avarizia de' suoi cittadini che
la rapacità degli nimici; perché di questa si spera
qualche volta vedere il fine, dell'altra non mai. Tu movevi adunque
le armi, nelle passate guerre, contro a tutta una città, ora
contro ad una minima parte di essa le muovi; venivi per torre lo
stato a molti cittadini e buoni, ora vieni per torlo a pochi e
tristi; venivi per torre la libertà ad una città, ora
vieni per rendergliene. E non è ragionevole che, in tanta
disparità di cagioni, ne seguino pari effetti; anzi è
da sperarne una certa vittoria. La quale di quanta fortezza sia allo
stato tuo facilmente lo puoi giudicare, avendo la Toscana amica e
per tale e tanto obligo obligata, della quale più nelle
imprese tue ti varrai che di Milano, e dove altra volta quello
acquisto sarebbe stato giudicato ambizioso e violento, al presente
sarà giusto e pietoso existimato. Non lasciare per tanto
passare questa occasione, e pensa che se le altre tue imprese contro
a quella città ti partorirono, con difficultà, spesa e
infamia, questa ti abbia, con facilità, utile grandissimo e
fama onestissima a parturire.
9
Non erano necessarie molte parole a persuadere al Duca che movesse
guerra a' Fiorentini, perché era mosso da uno ereditario odio
e una cieca ambizione, la quale così gli comandava; e tanto
più sendo spinto dalle nuove ingiurie, per lo accordo fatto
con i Genovesi. Non di meno le passate spese, i corsi pericoli, con
la memoria delle fresche perdite, e le vane speranze de' fuori
usciti lo sbigottivano. Aveva questo Duca, subito che gl'intese la
ribellione di Genova, mandato Niccolò Piccino, con tutte le
sue genti d'arme e quelli fanti che potette del paese ragunare,
verso quella città, per fare forza di recuperarla prima che i
cittadini avessino fermo lo animo e ordinato il nuovo governo,
confidandosi assai nel castello, che dentro, in Genova, per lui si
guardava. E benché Niccolò cacciassi i Genovesi d'in
su e monti e togliessi loro la valle di Pozeveri, dove si erano
fatti forti, e quegli avessi ripinti dentro alle mura della
città, non di meno trovò tanta difficultà nel
passare più avanti, per gli ostinati animi de' cittadini a
difendersi, che fu constretto da quella discostarsi. Onde il Duca,
alle persuasioni degli usciti fiorentini, gli comandò che
assalisse la Riviera di levante, e facessi, propinquo a' confini di
Pisa, quanta maggiore guerra nel paese genovese poteva, pensando che
quella impresa gli avesse a mostrare di tempo in tempo i partiti che
dovessi prendere. Assaltò adunque Niccolò Serezana, e
quella prese. Di poi, fatti di molti danni, per fare più
insospettire i Fiorentini, se ne venne a Lucca dando voce di volere
passare, per ire nel Regno, agli aiuti del re di Raona. Papa
Eugenio, in su questi nuovi accidenti, partì di Firenze, e ne
andò a Bologna; dove trattava nuovi accordi infra il Duca e
la lega, mostrando al Duca che, quando e' non consentisse allo
accordo, sarebbe di concedere alla lega il conte Francesco
necessitato, il quale allora suo confederato, sotto gli stipendi
suoi militava. E benché il Pontefice in questo si affaticasse
assai, non di meno invano tutte le sue fatiche riuscirono;
perché il Duca sanza Genova non voleva accordarsi, e la lega
voleva che Genova restasse libera. E per ciò ciascheduno,
diffidandosi della pace, si preparava alla guerra.
10
Venuto per tanto Niccolò Piccino a Lucca, i Fiorentini di
nuovi movimenti dubitorono, e feciono cavalcare con le loro genti
nel paese di Pisa Neri di Gino, e da il Pontefice impetrorono che 'l
conte Francesco si accozzasse con seco, e con lo esercito loro
feciono alto a Santa Gonda. Piccinino, che era a Lucca, domandava il
passo per ire nel Regno; ed essendogli dinegato, minacciava di
prenderlo per forza. Erano gli eserciti e di forze e di capitani
uguali, e per ciò, non volendo alcuno di loro tentare la
fortuna sendo ancora ritenuti dalla stagione fredda, perché
di dicembre era, molti giorni sanza offendersi dimororono. Il primo
che di loro si mosse fu Niccolò Piccino, al quale fu mostro
che, se di notte assalisse Vico Pisano, facilmente lo occuperebbe.
Fece Niccolò la impresa; e non gli riuscendo occupare Vico,
saccheggiò il paese allo intorno, e il borgo di San Giovanni
alla Vena rubò e arse. Questa impresa, ancora che la
riuscisse in buona parte vana, dette non di meno animo a
Niccolò di procedere più avanti, avendo massimamente
veduto che il Conte e Neri non si erano mossi; e per ciò
assalì Santa Maria in Castello e Filetto, e vinsegli.
Né per questo ancora le genti fiorentine si mossono; non
perché il Conte temessi, ma perché in Firenze dai
magistrati non si era ancora deliberata la guerra, per la reverenzia
che si aveva al Papa, il quale trattava la pace. E quello che per
prudenza i Fiorentini facevano credendo i nimici che per timore lo
facessino, dava loro più animo a nuove imprese; in modo che
deliberorono espugnare Barga, e con tutte le forze vi si
presentorono. Questo nuovo assalto fece che i Fiorentini, posti da
parte i rispetti, non solamente di soccorrere Barga, ma di assalire
il paese lucchese deliberorono. Andato per tanto il Conte a trovare
Niccolò, e appiccata sotto Barga la zuffa, lo vinse e quasi
che rotto lo levò da quello assedio. I Viniziani, in questo
mezzo, parendo loro che il Duca avesse rotta la pace, mandorono
Giovan Francesco da Gonzaga, loro capitano, in Ghiaradadda; il
quale, dannificando assai il paese del Duca, lo constrinse a
rivocare Niccolò Piccino di Toscana. La quale rivocazione,
insieme con la vittoria avuta contro a Niccolò, dette animo
a' Fiorentini di fare la impresa di Lucca e speranza di acquistarla.
Nella quale non ebbono paura né rispetto alcuno, veggendo il
Duca, il quale solo temevono, combattuto da i Viniziani, e che i
Lucchesi, per avere ricevuto in casa i nimici loro e permesso gli
assalissino, non si potevono in alcuna parte dolere.
11
Di aprile per tanto, nel 1437, il Conte mosse lo esercito, e prima
che i Fiorentini volessino assalire altri, vollono recuperare il
loro; e ripresono Santa Maria in Castello e ogni altro luogo
occupato da Piccinino. Di poi, voltisi sopra il paese di Lucca,
assalirono Camaiore; gli uomini della quale, benché fedeli a'
suoi signori, potendo in loro più la paura del nimico apresso
che la fede dello amico discosto, si arrenderono. Presonsi con la
medesima reputazione Massa e Serezana. Le quali cose fatte, circa il
fine di maggio, il campo tornò verso Lucca, e le biade tutte
e i grani guastorono, arsono le ville, tagliorono le viti e gli
arbori, predorono il bestiame, né a cosa alcuna che fare
contro a nimici si suole o puote perdonorono. I Lucchesi dall'altra
parte, veggendosi da il Duca abbandonati, disperati di potere
difendere il paese, lo avieno abbandonato; e con ripari e ogni altro
opportuno rimedio affortificorono la città, della quale non
dubitavano per averla piena di defensori e poterla un tempo
difendere, nel quale speravano, mossi dallo esemplo delle altre
imprese che i Fiorentini avevano contro a di loro fatte. Solo
temevono i mobili animi della plebe, la quale, infastidita dallo
assedio, non stimassi più i pericoli propri che la
libertà d'altri, e gli forzasse a qualche vituperoso e
dannoso accordo. Onde che, per accenderla alla difesa, la ragunorono
in piazza, e uno de' più antichi e de' più savi
parlò in questa sentenza: - Voi dovete sempre avere inteso
che delle cose fatte per necessità non se ne debbe né
puote loda o biasimo meritare. Per tanto, se voi ci accusassi,
credendo che questa guerra che ora vi fanno i Fiorentini noi ce la
avessimo guadagnata avendo ricevute in casa le genti del Duca e
permesso che le gli assalissero, voi di gran lunga vi inganneresti.
E' vi è nota l'antica nimicizia del popolo fiorentino verso
di voi, la quale, non le vostre ingiurie, non la paura loro ha
causata, ma sì bene la debolezza vostra e la ambizione loro;
perché l'una dà loro speranza di potervi opprimere,
l'altra gli spigne a farlo. Né crediate che alcuno merito
vostro gli possa da tale desiderio rimuovere, né alcuna
vostra offesa gli possa ad ingiuriarvi più accendere. Eglino
per tanto hanno a pensare di torvi la libertà, voi di
difenderla; e delle cose che quelli e noi a questo fine facciamo
ciascuno se ne può dolere e non maravigliare. Doliamoci per
tanto che ci assaltino che ci espugnino le terre, che ci ardino le
case e guastino il paese; ma chi è di noi sì sciocco
che se ne maravigli? perché, se noi potessimo, noi faremmo
loro il simile o peggio. E s'eglino hanno mossa questa guerra per la
venuta di Niccolò, quando bene e' non fusse venuto,
l'arebbono mossa per un'altra cagione; e se questo male si fusse
differito, e' sarebbe forse stato maggiore. Sì che questa
venuta non si debba accusare, ma più tosto la cattiva sorte
nostra e l'ambiziosa natura loro; ancora che noi non possavamo
negare al Duca di non ricevere le sue genti e, venute che le erano,
non possavamo tenerle che le non facessino la guerra. Voi sapete che
sanza lo aiuto di uno potente noi non ci possiamo salvare, né
ci è potenza che con più fede o con più forza
ci possa difendere che il Duca: egli ci ha renduta la
libertà, egli è ragionevole che ce la mantenga; egli
a' perpetui nimici nostri è stato sempre nimicissimo. Se
adunque, per non ingiuriare i Fiorentini, noi avessimo fatto
sdegnare il Duca, aremmo perduto lo amico e fatto il nimico
più potente e più pronto alla nostra offesa. Sì
che gli è molto meglio avere questa guerra con lo amore del
Duca, che, con l'odio, la pace; e dobbiamo sperare che ci abbi a
trarre di quelli pericoli ne' quali ci ha messo, pure che noi non ci
abbandoniamo. Voi sapete con quanta rabbia i Fiorentini più
volte ci abbino assaltati, e con quanta gloria noi ci siamo difesi
da loro: e molte volte non abbiamo avuto altra speranza che in Dio e
nel tempo; e l'uno e l'altro ci ha conservati. E se allora ci
difendemmo, qual cagione è che ora noi non ci dobbiamo
defendere? Allora tutta Italia ci aveva loro lasciati in preda; ora
abbiamo il Duca per noi, e dobbiamo credere che i Viniziani saranno
lenti alle nostre offese, come quelli ai quali dispiace che la
potenza de' Fiorentini accresca. L'altra volta i Fiorentini erano
più sciolti, e avieno più speranza di aiuti, e per
loro medesimi erano più potenti; e noi savamo in ogni parte
più deboli, perché allora noi defendavamo uno tiranno
ora difendiamo noi; allora la gloria della difesa era di altri, ora
è nostra; allora questi ci assaltavano uniti, ora disuniti ci
assaltano, avendo piena di loro rebegli tutta Italia. Ma quando
queste speranze non ci fussino, ci debbe fare ostinati alle difese
una ultima necessità. Ogni nimico debbe essere da voi
ragionevolmente temuto, perché tutti vorranno la gloria loro
e la rovina vostra; ma sopra tutti gli altri ci debbono i Fiorentini
spaventare, perché a loro non basterebbe la ubbidienza e i
tributi nostri con lo imperio di questa nostra città, ma
vorrebbono le persone e le sustanze nostre, per potere con il sangue
la loro crudeltà, e con la roba la loro avarizia saziare: in
modo che ciascheduno, di qualunque sorte, gli debbe temere. E
però non vi muovino vedere guastati i vostri campi, arse le
vostre ville, occupate le vostre terre; perché, se noi
salviamo questa città, quelle di necessità si
salveranno; se noi la perdiamo, quelle sanza nostra utilità
si sarebbono salvate; perché, mantenendoci liberi, le
può con difficultà il nimico nostro possedere;
perdendo la libertà, noi invano le possederemmo. Pigliate
adunque le armi, e quando voi combattete, pensate il premio della
vittoria vostra essere la salute, non solo della patria, ma delle
case e de' figliuoli vostri -. Furono l'ultime parole di costui da
quel popolo con grandissima caldezza d'animo ricevute, e unitamente
ciascuno promisse morire prima che abbandonarsi o pensare ad accordo
che in alcuna parte maculasse la loro libertà. E ordinorono
infra loro tutte quelle cose che sono per difendere una città
necessarie.
12
Lo esercito de' Fiorentini, in quel mezzo, non perdeva tempo, e dopo
moltissimi danni fatti per il paese, prese a patti Monte Carlo; dopo
lo acquisto del quale si andò a campo a Nozano: acciò
che i Lucchesi, stretti da ogni parte, non potessero sperare aiuti
e, per fame constretti, si arrendessero. Era il castello assai forte
e ripieno di guardia, in modo che la espugnazione di quello non fu
come le altre facile. I Lucchesi, come era ragionevole, vedendosi
strignere, ricorsono al Duca, e a quello con ogni termine e dolce e
aspro si raccomandorono; e ora nel parlare mostravano i meriti loro,
ora le offese de' Fiorentini; e quanto animo si darebbe agli altri
amici suoi difendendogli, e quanto terrore lasciandogli indifesi, e
se e' perdevono, con la libertà, la vita, egli perdeva, con
gli amici, l'onore, e la fede con tutti quelli che mai per suo amore
si avessero ad alcuno pericolo a sottomettere, aggiugnendo alle
parole le lagrime, acciò che, se l'obligo non lo moveva, lo
movesse la compassione. Tanto che il Duca, avendo aggiunto all'odio
antico de' Fiorentini l'obligo fresco de' Lucchesi, e sopra tutto
desideroso che i Fiorentini non crescessino in tanto acquisto,
deliberò mandare grossa gente in Toscana, o assaltare con
tanta furia e Viniziani, che i Fiorentini fussino necessitati
lasciare le imprese loro per soccorrere quelli.
13
Fatta questa deliberazione, s'intese subito a Firenze come il Duca
si ordinava a mandare gente in Toscana, il che fece a' Fiorentini
cominciare a perdere la speranza della loro impresa, e perché
il Duca fusse occupato in Lombardia, sollecitavano i Viniziani a
strignerlo con tutte le forze loro. Ma quelli ancora si trovavano
impauriti, per averli il marchese di Mantova abbandonati, ed essere
ito a' soldi del Duca; e però, trovandosi come disarmati,
rispondevono non potere, non che ingrossare, mantenere quella
guerra, se non mandavano loro il conte Francesco, che fusse capo del
loro esercito, ma con patto che si obligasse a passare con la
persona il Po. Né volevono stare alli antichi accordi dove
quello non era obligato a passarlo, perché senza capitano non
volevono fare guerra, né potevono sperare in altro che nel
Conte; e del Conte non si potevono valere, se non si obligava a far
la guerra in ogni loco. A' Fiorentini pareva necessario che la
guerra si facesse in Lombardia gagliarda; dall'altro canto,
rimanendo sanza il Conte, vedevono la impresa di Lucca rovinata; e
ottimamente cognoscevano questa domanda essere fatta da' Viniziani,
non tanto per necessità avessino del Conte, quanto per
sturbare loro quello acquisto. Dall'altra parte il Conte era per
andare in Lombardia ad ogni piacere della lega; ma non voleva
alterare lo obligo, come quello che desiderava non si privare di
quella speranza quale aveva del parentado promissogli dal Duca.
Erano adunque i Fiorentini distratti da due diverse passioni, e da
la voglia di avere Lucca, e dal timore della guerra con il Duca.
Vinse non di meno, come sempre interviene, il timore; e furono
contenti che il Conte, vinto Nozano, andasse in Lombardia. Restavaci
ancora un'altra difficultà, la quale, per non essere in
arbitrio de' Fiorentini il comporla, dette loro più passione,
e più gli fece dubitare che la prima; perché il Conte
non voleva passare il Po, e i Viniziani altrimenti non lo
accettavono. Né si trovando modo ad accordarli che
liberalmente l'uno cedesse all'altro, persuasono i Fiorentini al
Conte che si obligasse a passare quel fiume per una lettera che
dovesse alla Signoria di Firenze scrivere, mostrandogli che questa
promessa privata non rompeva i patti publici, e come e' poteva poi
fare sanza passarlo; e ne seguirebbe questo commodo, che i
Viniziani, accesa la guerra, erano necessitati seguirla; di che ne
nascerebbe la diversione di quello umore che temevano. E a'
Viniziani dall'altra parte mostrorono che questa lettera privata
bastava ad obligarlo, e per ciò fussino contenti a quella;
perché, dove ei potevono salvare il Conte per i rispetti che
gli aveva al suocero, era bene farlo; e che non era utile a lui
né a loro sanza manifesta necessità scoprirlo. E
così per questa via si deliberò la passata in
Lombardia del Conte, il quale, espugnato Nozano, e fatte alcune
bastie intorno a Lucca per tenere i Lucchesi stretti, e raccomandata
quella guerra a commissari passò l'Alpi e ne andò a
Reggio, dove i Viniziani, insospettiti de' suoi progressi, avanti ad
ogni altra cosa, per scoprire l'animo suo, lo richiesono che
passasse il Po e con le altre loro genti si congiugnessi. Il che fu
al tutto da il Conte denegato, e intra Andrea Mauroceno mandato da'
Viniziani, e lui furono ingiuriose parole, accusando l'uno l'altro
di assai superbia e poca fede, e fatti fra loro assai protesti,
l'uno di non essere obligato al servizio, l'altro al pagamento, se
ne tornò il Conte in Toscana, e quell'altro a Vinegia. Fu il
Conte alloggiato nel paese di Pisa; e speravano potere indurlo a
rinnovare la guerra ai Lucchesi. A che non lo trovorono disposto;
perché il Duca, inteso che per reverenza di lui non aveva
voluto passare il Po pensò di potere ancora, mediante lui,
salvare i Lucchesi; e lo pregò che fusse contento fare
accordo infra i Lucchesi e i Fiorentini e includervi ancora lui
potendo, dandogli speranza di fare a sua posta le nozze della
figliuola. Questo parentado moveva forte il Conte, perché
sperava, mediante quello, non avendo il Duca figliuoli maschi,
potersi insignorire di Milano; e per ciò sempre a' Fiorentini
tagliava le pratiche della guerra, e affermava non essere per
muoversi, se i Viniziani non gli osservavano il pagamento e la
condotta; né il pagamento solo gli bastava, perché,
volendo vivere securo degli stati suoi, gli conveniva avere altro
appoggio che i Fiorentini. Per tanto, se dai Viniziani era
abbandonato, era necessitato pensare a' suoi fatti; e destramente
minacciava di accordarsi con il Duca.
14
Queste gavillazioni e questi inganni dispiacevano a' Fiorentini
grandemente, perché vedevano la impresa di Lucca perduta, e
di più dubitavano dello stato loro, qualunque volta il Conte
e il Duca fussino insieme. E per ridurre i Viniziani a mantenere la
condotta al Conte, Cosimo de' Medici andò a Vinegia, credendo
con la reputazione sua muovergli. Dove nel loro senato lungamente
questa materia disputò, mostrando in quali termini si trovava
lo stato di Italia, quante erano le forze del Duca, dove era la
reputazione e la potenza delle armi, e concluse che, se al Duca si
aggiugneva il Conte, eglino ritornerebbono in mare e loro
disputerebbono della loro libertà. A che fu da' Viniziani
risposto che cognoscevano le forze loro e quelle degli Italiani, e
credevono potere in ogni modo difendersi, affermando non essere
consueti di pagare i soldati che servissero altri; per tanto
pensassero i Fiorentini di pagare il Conte, poi ch'eglino erano
serviti da lui; e come gli era più necessario, a volere
securamente godersi gli stati loro, abbassare la superbia del Conte
che pagarlo, perché gli uomini non hanno termini nella
ambizione loro, e se ora fusse pagato sanza servire, domanderebbe
poco di poi una cosa più disonesta e più pericolosa.
Per tanto a loro pareva necessario porre qualche volta freno alla
insolenzia sua, e non la lasciare tanto crescere che la diventasse
incorrigibile; e se pure loro, o per timore o per altra voglia, se
lo volessino mantenere amico, lo pagassino. Ritornossi adunque
Cosimo sanza altra conclusione. Non di meno i Fiorentini facevano
forza al Conte perché non si spiccasse dalla lega, il quale
ancora mal volentieri se ne partiva; ma la voglia di concludere il
parentado lo teneva dubio, tale che ogni minimo accidente, come
intervenne, lo poteva fare deliberare. Aveva il Conte lasciato a
guardia di quelle sue terre della Marca il Frullano, uno de' suoi
primi condottieri. Costui fu tanto dal Duca instigato che
rinunziò al soldo del Conte e accostossi con lui; la qual
cosa fece che il Conte, lasciato ogni rispetto, per paura di
sé, fece accordo con il Duca; e intra gli altri patti furono
che delle cose di Romagna e di Toscana non si travagliasse. Dopo
tale accordo, il Conte con instanzia persuadeva a' Fiorentini che si
accordassero con i Lucchesi; e in modo a questo gli strinse, che,
veggendo non avere altro rimedio, si accordorono con quelli, nel
mese di aprile, l'anno 1438. Per il quale accordo a' Lucchesi rimase
la loro libertà, e a' Fiorentini Monte Carlo e alcune altre
loro castella. Di poi riempierono con lettere piene di rammarichii
tutta Italia, mostrando che, poi che Iddio e gli uomini non avieno
voluto che i Lucchesi venissero sotto lo imperio loro, avevono fatto
pace con quelli. E rade volte occorre che alcuno abbia tanto
dispiacere di avere perdute le cose sue, quanto ebbono allora i
Fiorentini per non avere acquistato quelle d'altri.
15
In questi tempi, benché i Fiorentini fussero in tanta impresa
occupati, di pensare a' loro vicini e di adornare la loro
città non mancavano. Era morto come aviamo detto,
Niccolò Fortebraccio, a cui era una figlia del conte di Poppi
maritata. Costui, alla morte di Niccolò, aveva il Borgo a San
Sepolcro e le fortezze di quella terra nelle mani e in nome del
genero, vivente quello, le comandava. Di poi dopo la morte di
quello, diceva per la dote della sua figliuola possederla, e al Papa
non voleva concederla; il quale come beni occupati alla Chiesa la
domandava, in tanto che mandò il Patriarca con le genti sue
allo acquisto di essa. Il Conte, veduto non potere sostenere quello
impeto, offerse quella terra a' Fiorentini, e quelli non la vollono.
Ma, sendo il Papa ritornato in Firenze, si intromissono intra lui e
il Conte per accordargli; e trovandosi nello accordo
difficultà, il Patriarca assaltò il Casentino, e prese
Prato Vecchio e Romena, e medesimamente le offerse ai Fiorentini; i
quali ancora non le vollono accettare, se il Papa non acconsentiva
che le potessino rendere al Conte. Di che fu il Papa, dopo molte
dispute, contento; ma volle che i Fiorentini gli promettessero di
operare con il conte di Poppi che il Borgo gli restituisse. Fermo
dunque per questa via lo animo del Papa, parve a' Fiorentini, sendo
il tempio cattedrale della loro città, chiamato Santa
Reparata (la cui edificazione molto tempo innanzi si era cominciata)
venuto a termine che vi si potevono i divini offizi celebrare, di
richiederlo che personalmente lo consecrasse. A che il Papa
volentieri acconsentì, e per maggiore magnificenza della
città e del tempio, e per più onore del Pontefice, si
fece un palco da Santa Maria Novella, dove il Papa abitava, infino
al tempio che si doveva consecrare di larghezza di quattro e di
altezza di dua braccia, coperto tutto di sopra e d'attorno di drappi
ricchissimi, per il quale solo il Pontefice con la sua corte venne,
insieme con quelli magistrati della città e cittadini i quali
ad accompagnarlo furono deputati: tutta l'altra cittadinanza e
popolo per la via, per le case e nel tempio a veder tanto spettacolo
si ridussono. Fatte adunque tutte le cerimonie che in simile
consecrazione si sogliono fare, il Papa, per mostrare segno di
maggiore amore, onorò della cavalleria Giuliano Davanzati,
allora gonfaloniere di giustizia e di ogni tempo riputatissimo
cittadino; al quale la Signoria, per non parere meno del Papa
amorevole, il capitanato di Pisa per un anno concesse.
16
Erano, in questi medesimi tempi, intra la Chiesa romana e la greca
alcune differenze, tanto che nel divino culto non convenivano in
ogni parte insieme; ed essendosi nell'ultimo concilio, fatto a
Basilea, parlato assai, per i prelati della Chiesa occidentale,
sopra questa materia, si deliberò che si usassi ogni
diligenzia perché lo Imperadore e i prelati greci nel
concilio a Basilea convenissero, per fare pruova se si potessino con
la romana Chiesa accordare. E benché questa deliberazione
fusse contro alla maiestà dello imperio greco, e alla
superbia de' suoi prelati il cedere al Romano Pontefice dispiacesse,
non di meno, sendo oppressi dai Turchi, e giudicando per loro
medesimi non potere defendersi, per potere con più
securtà agli altri domandare aiuti, deliberorono cedere. E
così lo Imperadore, insieme con il Patriarca e altri prelati
e baroni greci, per essere, secondo la deliberazione del Concilio, a
Basilea, vennono a Vinegia; ma, sbigottiti dalla peste, deliberorono
che nella città di Firenze le loro differenzie si
terminassero. Ragunati adunque, più giorni, nella chiesa
cattedrale, insieme i romani e greci prelati, dopo molte e lunghe
disputazioni, i greci cederono, e con la Chiesa e Pontefice Romano
si accordorono.
17
Seguita che fu la pace intra i Lucchesi e i Fiorentini, e intra il
Duca e il Conte, si credeva che facilmente si potessero l'armi di
Italia, e massimamente quelle che la Lombardia e la Toscana
infestavano, posare; perché quelle che nel regno di Napoli
intra Rinato d'Angiò e Alfonso d'Aragona erano mosse,
conveniva che per la rovina d'uno de' dua si posassero. E
benché il Papa restasse malcontento per avere molte delle sue
terre perdute, e che si cognoscesse quanta ambizione era nel Duca e
ne' Viniziani, non di meno si stimava che il Papa per
necessità, e gli altri per stracchezza, dovessero fermarsi.
Ma la cosa procedette altrimenti, perché né il Duca
né i Viniziani quietorono; donde ne seguì che di nuovo
si ripresono le armi, e la Lombardia e la Toscana di guerra si
riempierono. Non poteva lo altero animo del Duca che i Viniziani
possedessero Bergamo e Brescia sopportare, e tanto più
veggendoli in su l'armi e ogni giorno il suo paese in molte parti
scorrere e perturbare; e pensava potere non solamente tenergli in
freno, ma riacquistare le sue terre, qualunque volta da il Papa, dai
Fiorentini e dal Conte ei fussero abbandonati. Per tanto egli
disegnò di torre la Romagna al Pontefice giudicando che,
avuta quella, il Papa non lo potrebbe offendere, e i Fiorentini,
veggendosi il fuoco appresso, o eglino non si moverebbono per paura
di loro, o se si movessino, non potrebbono commodamente assalirlo.
Era ancora noto al Duca lo sdegno de' Fiorentini per le cose di
Lucca, contro a' Viniziani e per questo gli giudicava meno pronti a
pigliare l'armi per loro. Quanto al conte Francesco, credeva che la
nuova amicizia, la speranza del parentado fussero per tenerlo fermo;
e per fuggire carico e dare meno cagione a ciascuno di muoversi,
massimamente non potendo, per i capituli fatti con il Conte, la
Romagna assalire, ordinò che Niccolò Piccino, come se
per sua propria ambizione lo facesse, entrasse in quella impresa.
Trovavasi Niccolò, quando lo accordo infra il Duca e il Conte
si fece, in Romagna; e d'accordo con il Duca, mostrò di
essere sdegnato per la amiciza fatta intra lui e il Conte suo
perpetuo nimico; e con le sue genti si ridusse a Camurata, luogo
intra Furlì e Ravenna, dove si affortificò, come se
lungamente, e infino che trovasse nuovo partito, vi volessi
dimorare. Ed essendo per tutto sparta di questo suo sdegno la fama,
Niccolò fece intendere al Pontefice quanti erano i suoi
meriti verso il Duca e quale fusse la ingratitudine sua; e come egli
si dava ad intendere, per avere, sotto i duoi primi capitani, quasi
tutte l'armi di Italia di occuparla; ma se Sua Santità voleva
dei duoi capitani che quello si persuadeva avere poteva fare che
l'uno gli sarebbe nimico e l'altro inutile, perché se lo
provedeva di danari e lo manteneva in su l'armi, assalirebbe gli
stati del Conte che gli occupava alla Chiesa in modo che, avendo il
Conte a pensare a' casi propri, non potrebbe alla ambizione di
Filippo suvvenire. Credette il Papa a queste parole, parendogli
ragionevoli; e mandò cinque mila ducati a Niccolò, e
lo riempié di promesse, offerendo stati a lui e a' figliuoli.
E benché il Papa fusse da molti avvertito dello inganno, nol
credeva, né poteva udire alcuno che dicesse il contrario. Era
la città di Ravenna da Ostasio da Polenta per la Chiesa
governata. Niccolò, parendogli tempo da non differire
più la impresa sua, perché Francesco suo figliuolo
aveva, con ignominia del Papa, saccheggiato Spuleto, deliberò
di assaltare Ravenna, o perché giudicasse quella impresa
più facile, o perché gli avessi con Ostasio
secretamente intelligenzia; e in pochi giorni, poi che l'ebbe
assalita, per accordo la prese. Dopo il quale acquisto, Bologna,
Imola e Furlì da lui furono occupate. E quello che fu
più maraviglioso è che di venti rocche, le quali in
quelli stati per il Pontefice si guardavano, non ne rimase alcuna
che nella potestà di Niccolò non venisse. Né
gli bastò con questa ingiuria avere offeso il Pontefice, che
lo volle ancora con le parole, come egli aveva fatto con i fatti,
sbeffare; e scrisse avergli occupate le terre meritamente, poi che
non si era vergognato avere voluto dividere una amicizia quale era
stata intra il Duca e lui, e avere ripiena Italia di lettere che
significavano come egli aveva lasciato il Duca e accostatosi a'
Viniziani.
18
Occupata Niccolò la Romagna, lasciò quella in guardia
a Francesco suo figliuolo, ed egli, con la maggiore parte delle sue
genti, se ne andò in Lombardia. E accozzatosi con il restante
delle genti duchesche, assalì il contado di Brescia, e tutto
in brieve tempo lo occupò: di poi pose lo assedio a quella
città. Il Duca, che desiderava che i Viniziani gli fussero
lasciati in preda, con il Papa, con i Fiorentini e con il Conte si
scusava, mostrando che le cose fatte da Niccolò in Romagna,
se le erano contro a' capitoli, erano ancora contro a sua voglia; e
per secreti nunzi faceva intendere loro che di questa disubbidienza,
come il tempo e la occasione lo patisse, ne farebbe evidente
demostrazione. I Fiorentini e il Conte non gli prestavano fede; ma
credevono, come la verità era, che queste armi fussero mosse
per tenergli a bada, tanto che potesse domare i Viniziani. I quali,
pieni di superbia, credendosi potere per loro medesimi resistere
alle forze del Duca, non si degnavono di domandare aiuto ad alcuno,
ma con Gattamelata loro capitano la guerra facevano. Desiderava il
conte Francesco, con il favor de' Fiorentini, andare al soccorso del
re Rinato, se gli accidenti di Romagna e di Lombardia non lo
avessino ritenuto; e i Fiorentini ancora lo arieno volentieri
favorito, per l'antica amicizia tenne sempre la loro città
con la casa di Francia; ma il Duca arebbe i suoi favori volti ad
Alfonso, per la amicizia aveva contratta seco nella presura sua. Ma
l'uno e l'altro di costoro, occupati nelle guerre propinque, dalle
imprese più longinque si astennono. I Fiorentini adunque,
veggendo la Romagna occupata dalle forze del Duca, e battere i
Viniziani, come quelli che dalla rovina d'altri temono la loro,
pregorono il Conte che venisse in Toscana, dove si esaminerebbe
quello fussi da fare per opporsi alle forze del Duca, le quali erano
maggiori che mai per lo adietro fussero state; affermando che, se la
insolenzia sua in qualche modo non si frenava, ciascuno che teneva
stati in Italia in poco tempo ne patirebbe. Il Conte conosceva il
timore de' Fiorentini ragionevole, non di meno la voglia aveva che
il parentado fatto con il Duca seguisse lo teneva sospeso; e quel
Duca, che cognosceva questo suo desiderio, gliene dava speranze
grandissime, quando non gli movesse l'armi contro. E perché
la fanciulla era già da potersi celebrare le nozze,
più volte condusse la cosa in termine che si feciono tutti
gli apparati convenienti a quelle: di poi, con varie gavillazioni,
ogni cosa si risolveva. E per fare crederlo meglio al Conte,
aggiunse alle promesse le opere; e gli mandò trenta mila
fiorini, i quali, secondo i patti del parentado, gli doveva dare.
19
Non di meno la guerra di Lombardia cresceva; e i Viniziani ogni
dì perdevano nuove terre; e tutte le armate che eglino
avevano messe per quelle fiumare erano state dalle genti ducali
vinte, il paese di Verona e di Brescia tutto occupato, e quelle due
terre in modo strette, che poco tempo potevono, secondo la comune
opinione, mantenersi; il marchese di Mantova, il quale era molti
anni stato della loro repubblica condottiere, fuora d'ogni loro
credenza gli aveva abbandonati ed erasi accostato al Duca: tanto che
quello che nel principio della guerra non lasciò loro fare la
superbia, fece loro fare, nel progresso di quella, la paura.
Perché, cognosciuto non avere altro rimedio che l'amicizia
de' Fiorentini e del Conte, cominciorono a domandarla; benché
vergognosamente e pieni di sospetto, perché temevono che i
Fiorentini non facessino a loro quella risposta che da loro avevono
nella impresa di Lucca e nelle cose del Conte ricevuta. Ma gli
trovorono più facili che non speravano e che per li
portamenti loro non avevono meritato: tanto più potette in
ne' Fiorentini l'odio dello antico nimico, che della vecchia e
consueta amicizia lo sdegno. E avendo più tempo innanzi
cognosciuto la necessità nella quale dovevano venire i
Viniziani, avevano dimostro al Conte come la rovina di quelli
sarebbe la rovina sua, e come egli s'ingannava se credeva che il
duca Filippo lo stimasse più nella buona che nella cattiva
fortuna, e come la cagione per che gli aveva promessa la figliuola
era la paura aveva di lui. E perché quelle cose che la
necessità fa promettere fa ancora osservare, era necessario
che mantenessi il Duca in quella necessità; il che sanza la
grandezza de' Viniziani non si poteva fare. Per tanto egli doveva
pensare che, se i Viniziani fussino constretti ad abbandonare lo
stato di terra, gli mancherieno non solamente quelli commodi che da
loro egli poteva trarre ma tutti quelli ancora che da altri, per
paura di loro, egli potessi avere. E se considerava bene gli stati
di Italia, vedrebbe quale essere povero, quale suo nimico: né
i Fiorentini soli erano, come egli più volte aveva detto,
suffizienti a mantenerlo; sì che per lui da ogni parte si
vedeva farsi il mantenere potenti in terra i Viniziani. Queste
persuasioni, aggiunto allo odio aveva concetto il Conte con il Duca,
per parergli essere stato in quel parentado sbeffato lo feciono
acconsentire allo accordo: né per ciò si volle per
allora obligare a passare il fiume del Po. I quali accordi di
febraio, nel 1438, si fermorono: dove i Viniziani a' duo terzi, i
Fiorentini al terzo della spesa concorsono; e ciascheduno si
obligò, a sue spese, gli stati che il Conte aveva nella Marca
a difendere. Né fu la lega a queste forze contenta;
perché a quelle il signore di Faenza, i figliuoli di messer
Pandolfo Malatesti da Rimino e Pietrogiampaulo Orsino aggiunsono; e
benché con promesse grandi il marchese di Mantova tentassero,
non di meno dall'amicizia e stipendi del Duca rimuovere non lo
posserono; e il signore di Faenza, poi che la lega ebbe ferma la sua
condotta, trovando migliori patti, si rivolse al Duca; il che tolse
la speranza alla lega di potere presto espedire le cose di Romagna.
20
Era in questi tempi la Lombardia in questi travagli, che Brescia
dalle genti del Duca era assediata in modo che si dubitava che
ciascun dì per la fame si arrendesse, e Verona ancora era in
modo stretta che se ne temeva il medesimo fine, e quando una di
queste due città si perdessero, si giudicavano vani tutti gli
altri apparati alla guerra, e le spese infino allora fatte essere
perdute. Né vi si vedeva altro più certo rimedio che
fare passare il conte Francesco in Lombardia. A questo erano tre
difficultà: l'una disporre il Conte a passare il Po e a fare
guerra in ogni luogo; la seconda che a' Fiorentini pareva rimanere a
discrezione del Duca, mancando del Conte (perché facilmente
il Duca poteva ritirarsi ne' suoi luoghi forti e con parte delle
genti tenere a bada il Conte e con l'altre venire in Toscana con li
loro ribelli, de' quali lo stato che allora reggeva aveva uno
terrore grandissimo); la terza era qual via dovesse con le sue genti
tenere il Conte, che lo conducesse sicuro in Padovano, dove l'altre
genti viniziane erano. Di queste tre difficultà, la seconda,
che apparteneva a' Fiorentini, era più dubia; non di meno
quelli, cognosciuto il bisogno, e stracchi da' Viniziani, i quali
con ogni importunità domandavano il Conte, mostrando che
sanza quello si abbandonerebbono, preposono la necessità
d'altri a' sospetti loro. Restava ancora la difficultà del
cammino; il quale si deliberò che fusse assicurato da'
Viniziani. E perché a trattare questi accordi con il Conte e
a disporlo a passare si era mandato Neri di Gino Capponi, parve alla
Signoria che ancora si transferisse a Vinegia, per fare più
accetto a quella Signoria questo benefizio, e ordinare il cammino e
il passo securo al Conte.
21
Partì adunque Neri da Cesena, e sopra una barca si condusse a
Vinegia. Né fu mai alcuno principe con tanto onore ricevuto
da quella Signoria, con quanto fu ricevuto egli; perché dalla
venuta sua, e da quello che per suo mezzo si aveva a deliberare e
ordinare giudicavano avesse a dependere la salute dello imperio
loro. Intromesso adunque Neri al Senato, parlò in questa
sentenza: - Quelli miei Signori, Serenissimo Principe, furono sempre
di opinione che la grandezza del Duca fusse la rovina di questo
stato e della loro republica; e così che la salute d'ambiduoi
questi stati fusse la grandezza vostra e nostra. Se questo medesimo
fusse stato creduto dalle Signorie Vostre, noi ci troverremmo in
migliore condizione, e lo stato vostro sarebbe securo da quelli
pericoli che ora lo minacciano. Ma perché ne' tempi che voi
dovevi non ci avete prestato né aiuto né fede, noi non
abbiamo potuto correre presto a' remedi del male vostro; né
voi potesti essere pronti al dimandargli, come quelli che nelle
prosperità e nelle avversità vostre ci avete poco
cognosciuti, e non sapete che noi siamo in modo fatti che quello che
noi amammo una volta sempre amiamo, e quello che noi odiammo una
volta sempre odiamo. Lo amore che noi abbiamo portato a questa
vostra Serenissima Signoria voi medesimi lo sapete, che più
volte avete veduto, per soccorrervi, ripiena di nostri danari e di
nostre genti la Lombardia; l'odio che noi portiamo a Filippo, e
quello che sempre portammo alla casa sua, lo sa tutto il mondo;
né è possibile che uno amore o uno odio antico per
nuovi meriti o per nuove offese facilmente si cancelli. Noi savamo e
siamo certi che in questa guerra ci potavamo stare di mezzo, con
grado grande con il Duca e con non molto timore nostro;
perché, se bene e' fusse con la rovina vostra diventato
signore di Lombardia, ci restava in Italia tanto del vivo che noi
non avavamo a disperarci della salute; perché, accrescendo
potenza e stato, si accresce ancora nimicizie e invidia; dalle quali
cose suole di poi nascere guerra e danno. Cognosciavamo ancora
quanta spesa, fuggendo le presenti guerre, fuggiavamo; quanti
imminenti pericoli si evitavano; e come questa guerra che ora
è in Lombardia, movendoci noi, si potrebbe ridurre in
Toscana. Non di meno tutti questi sospetti sono stati da una antica
affezione verso di questo stato cancellati; e abbiamo deliberato con
quella medesima prontezza soccorrere lo stato vostro, che noi
soccorreremmo il nostro quando fusse assalito. Per ciò i miei
Signori, giudicando che fusse necessario, prima che ogni altra cosa,
soccorrere Verona e Brescia, e giudicando sanza il Conte non si
potere fare questo, mi mandorono prima a persuadere quello al
passare in Lombardia e a fare la guerra in ogni luogo (ché
sapete che non è al passare del Po obligato): il quale io
disposi, movendolo con quelle ragioni che noi medesimi ci moviamo.
Ed egli, come gli pare essere invincibile con le armi, non vuole
ancora essere vinto di cortesia, e quella liberalità che vede
usare a noi verso di voi egli l'ha voluta superare; perché sa
bene in quanti pericoli rimane la Toscana dopo la partita sua, e
veggendo che noi abbiamo posposto alla salute vostra i pericoli
nostri, ha voluto ancora egli posporre a quella i respetti suoi. Io
vengo adunque a offerirvi il Conte con sette mila cavagli e dumila
fanti, parato ad ire a trovare il nimico in ogni luogo. Pregovi
bene, e così i miei Signori ed egli vi pregono, che, come il
numero delle genti sue trapassa quelle con le quali per obligo debbe
servire, che voi ancora con la vostra liberalità lo
ricompensiate, acciò che quello non si penta di essere venuto
a' servizi vostri, e noi non ci pentiamo di avernelo confortato -.
Fu il parlare di Neri da quel Senato non con altra attenzione udito
che si farebbe un oracolo, e tanto si accesono gli uditori per le
sue parole, che non furono pazienti che il Principe, secondo la
consuetudine, rispondesse, ma levati in piè, con le mani
alzate, lagrimando in maggiore parte di loro, ringraziavano i
Fiorentini di sì amorevole uffizio, e lui di averlo con tanta
diligenzia e celerità esequito; e promettevano che mai per
alcun tempo, non che de' cuori loro, ma di quelli de' descendenti
loro non si cancellerebbe, e che quella patria aveva sempre ad
essere comune a' Fiorentini e a loro.
22
Ferme di poi queste caldezze, si ragionò della via che il
Conte dovessi fare, acciò si potesse di ponti, di spianate e
di ogni altra cosa munire. Eronci quattro vie: l'una da Ravenna,
lungo la marina; questa, per essere in maggiore parte ristretta
dalla marina e da paduli, non fu approvata: l'altra era per la via
diritta, questa era impedita da una torre chiamata l'Uccellino, la
quale per il Duca si guardava, e bisognava, a volere passare,
vincerla, il che era difficile farlo in sì breve tempo che la
non togliesse la occasione del soccorso, che celerità e
prestezza richiedeva: la terza era per la selva del Lugo, ma
perché il Po era uscito de' suoi argini, rendeva il passarvi,
non che difficile, impossibile: restava la quarta, per la campagna
di Bologna, e passare al ponte Puledrano, e a Cento, e alla Pieve, e
intra il Finale e il Bondeno condursi a Ferrara, donde poi, tra per
acqua e per terra, si potevono transferire in Padovano e
congiugnersi con le genti viniziane. Questa via ancora che in essa
fussero assai difficultà e potesse essere in qualche luogo
dal nimico combattuta, fu per meno rea eletta. La quale come fu
significata al Conte, si partì con celerità
grandissima, e a dì 20 di giugno arrivò in Padovano.
La venuta di questo capitano in Lombardia fece Vinegia e tutto il
loro imperio riempiere di buona speranza, e dove i Viniziani
parevano prima disperati della loro salute, cominciorono a sperare
nuovi acquisti. Il Conte, prima che ogni altra cosa, andò per
soccorrere Verona; il che per obviare, Niccolò se ne
andò con lo esercito suo a Soave castello posto intra il
Vicentino e il Veronese, e con un fosso, il quale da Soave infino a'
paludi dello Adice passava, si era cinto. Il Conte, veggendosi
impedita la via del piano, giudicò potere andare per i monti,
e per quella via accostarsi a Verona, pensando che Niccolò, o
non credessi che facessi quel cammino, sendo aspro e alpestre, o,
quando lo credesse, non fussi a tempo ad impedirlo; e proveduta
vettovaglia per otto giorni, passò con le sue genti la
montagna, e sotto Soave arrivò nel piano. E benché da
Niccolò fussero state fatte alcune bastie per impedire ancora
quella via al Conte, non di meno non furono sufficienti a tenerlo.
Niccolò adunque, veggendo il nimico, fuora d'ogni sua
credenza, passato per non venire seco con disavvantaggio a giornata,
si ridusse di là dallo Adice; e il Conte, sanza alcuno
ostaculo, entrò in Verona.
23
Vinta per tanto felicemente da il Conte la prima fatica, di aver
libera dallo assedio Verona, restava la seconda, di soccorrere
Brescia. È questa città in modo propinqua al lago di
Garda che, benché la fusse assediata per terra, sempre per
via del lago se le potrebbe sumministrare vettovaglie. Questo era
stato cagione che il Duca si era fatto forte in sul lago e nel
principio delle vittorie sue aveva occupate tutte quelle terre che,
mediante il lago, potevano a Brescia porgere aiuto. I Viniziani
ancora vi avevano galee; ma a combattere con le genti del Duca non
erano bastanti. Giudicò per tanto il Conte necessario dare
favore con le genti di terra alla armata viniziana, perché
sperava che facilmente si potessino acquistare quelle terre che
tenevono affamata Brescia. Pose il campo per tanto a Bardolino,
castello posto in sul lago, sperando, avuto quello, che gli altri si
arrendessero. Fu la fortuna al Conte in questa impresa nimica,
perché delle sue genti buona parte ammalorono, talmente che
il Conte, lasciata la impresa, ne andò a Zevio, castello
veronese, luogo abbondevole e sano. Niccolò, veduto che il
Conte si era ritirato, per non mancare alla occasione che gli pareva
avere di potersi insignorire del lago, lasciò il campo suo a
Vegasio, e con gente eletta n'andò al lago, e con grande
impeto e maggiore furia assaltò l'armata viniziana, e quasi
tutta la prese. Per questa vittoria poche castella restorono del
lago che a Niccolò non si arrendessero. I Viniziani,
sbigottiti di questa perdita, e per questo temendo che i Bresciani
non si dessero, sollecitavano il Conte con nunzi e con lettere al
soccorso di quella. E veduto il Conte come per il lago la speranza
del soccorrerla era mancata, e che per la campagna era impossibile
per le fosse, bastie e altri impedimenti ordinati da Niccolò,
intra i quali entrando con uno esercito nimico allo incontro si
andava ad una manifesta perdita, deliberò come la via de'
monti gli aveva fatto salvare Verona, così gli facesse
soccorrere Brescia. Fatto adunque il Conte questo disegno,
partì da Zevio e per Val d'Acri n'andò al lago di
Santo Andrea, e venne a Torboli e Peneda in sul lago di Garda. Di
quivi n'andò a Tenna, dove pose il campo, perché, a
volere passare a Brescia, era lo occupare questo castello
necessario. Niccolò, intesi i consigli del Conte, condusse lo
esercito suo a Peschiera; di poi con il marchese di Mantova e
alquante delle sue più elette genti, andò ad
incontrare il Conte; e venuti alla zuffa, Niccolò fu rotto, e
le sue genti sbaragliate; delle quali parte ne furono prese, parte
allo esercito, e parte all'armata si rifuggirono. Niccolò si
ridusse in Tenna; e venuta la notte, pensò che, se gli
aspettava in quello luogo il giorno, non poteva campare di non
venire nelle mani del nimico; e per fuggire uno certo pericolo, ne
tentò uno dubio. Aveva Niccolò seco, di tanti suoi,
uno solo servidore, di nazione tedesco, fortissimo del corpo, e a
lui sempre stato fedelissimo. A costui persuase Niccolò che
messolo in uno sacco, se lo ponessi in spalla e, come se portassi
arnesi del suo padrone, lo conducesse in luogo securo. Era il campo
intorno a Tenna, ma per la vittoria avuta il giorno, sanza guardia e
sanza ordine alcuno; di modo che al Tedesco fu facile salvare il suo
signore, perché, levatoselo in spalla, vestito come
saccomanno, passò per tutto il campo sanza alcuno
impedimento, tanto che salvo alle sue genti lo condusse.
24
Questa vittoria adunque, se la fusse stata usata con quella
felicità che la si era guadagnata, arebbe a Brescia partorito
maggiore soccorso, e a' Viniziani maggiore felicità; ma lo
averla male usata fece che l'allegrezza presto mancò, e
Brescia rimase nelle medesime difficultà. Perché,
tornato Niccolò alle sue genti, pensò come gli
conveniva con qualche nuova vittoria cancellare quella perdita e
torre la commodità a' Viniziani di soccorrere Brescia. Sapeva
costui il sito della cittadella di Verona, e dai prigioni presi in
quella guerra aveva inteso come la era male guardata, e la
facilità e il modo di acquistarla. Per tanto gli parve che la
fortuna gli avesse messo innanzi materia a riavere l'onore suo e a
fare che la letizia aveva avuto il nimico per la fresca vittoria
ritornassi, per una più fresca perdita, in dolore. È
la città di Verona posta in Lombardia, a piè de' monti
che dividono la Italia dalla Magna, in modo tale che la participa di
quelli e del piano. Esce il fiume dello Adice della valle di Trento,
e nello entrare in Italia non si distende subito per la campagna,
ma, voltosi in su la sinistra, lungo i monti, trova quella
città, e passa per il mezzo di essa, non per ciò in
modo che le parti sieno uguali, perché molto più ne
lascia verso la pianura che di verso i monti. Sopra i quali sono due
rocche, San Piero l'una, l'altra San Felice nominate; le quali
più forti per il sito che per la muraglia appariscono, ed
essendo in luogo alto, tutta la città signoreggiono. Nel
piano di qua dallo Adice, e adosso alle mura della terra sono due
altre fortezze, discosto l'una dall'altra mille passi, delle quali
l'una la vecchia, l'altra la cittadella nuova si nominano; dall'una
delle quali, dalla parte di dentro, si parte uno muro che va a
trovare l'altra, e fa quasi come una corda allo arco che fanno le
mura ordinarie della città, che vanno da l'una all'altra
cittadella. Tutto questo spazio posto infra l'uno muro e l'altro
è pieno di abitatori, e chiamasi il borgo di San Zeno. Queste
cittadelle e questo borgo disegnò Niccolò Piccino di
occupare pensando che gli riuscisse facilmente, sì per le
negligenti guardie che di continuo vi si facevano, sì per
credere che per la nuova vittoria la negligenzia fusse maggiore, e
per sapere come nella guerra niuna impresa è tanto riuscibile
quanto quella che il nimico non crede che tu possa fare. Fatto
adunque una scelta di sua gente, ne andò insieme con il
marchese di Mantova, di notte, a Verona, e senza essere sentito,
scalò e prese la cittadella nuova. Di quindi, scese le sue
genti nella terra, la porta di Santo Antonio ruppono, per la quale
tutta la cavalleria intromessono. Quelli che per i Viniziani
guardavano la cittadella vecchia, avendo prima sentito il romore
quando le guardie della nuova furono morte, di poi quando e'
rompevono la porta, cognoscendo come gli erano i nimici, a gridare e
a sonare a popolo e all'arme cominciorono. Donde che, risentiti i
cittadini, tutti confusi, quelli che ebbono più animo presono
l'armi e alla piazza de' rettori corsono. Le genti intanto di
Niccolò avevano il borgo di San Zeno saccheggiato, e
procedendo più avanti, i cittadini, cognosciuto come dentro
erano le genti duchesche, e non veggendo modo a difendersi,
confortorono i rettori viniziani a volersi rifuggire nelle fortezze,
e salvare le persone loro e la terra; mostrando che gli era meglio
conservare loro vivi e quella città ricca ad una migliore
fortuna, che volere, per evitare la presente, morire loro e
impoverire quella. E così i rettori e qualunque vi era del
nome viniziano, nella rocca di San Felice rifuggirono. Dopo questo,
alcuni de' primi cittadini a Niccolò e al marchese di Mantova
si feciono incontro, pregandogli che volessero più tosto
quella città ricca con loro onore, che povera con loro
vituperio, possedere; massimamente non avendo essi apresso a' primi
padroni meritato grado né odio apresso a loro per difendersi.
Furno costoro da Niccolò e dal Marchese confortati; e quanto
in quella militare licenza poterono, da il sacco la difesono. E
perché eglino erano come certi che il Conte verrebbe alla
recuperazione di essa, con ogni industria di avere nelle mani i
luoghi forti s'ingegnorono; e quelli che non potevono avere, con
fossi, sbarrate, dalla terra separavano, acciò che al nimico
fusse difficile il passare dentro.
25
Il conte Francesco era con le genti sue a Tenna, e sentita questa
novella, prima la giudicò vana, di poi, da più certi
avvisi cognosciuta la verità, volle con la celerità la
pristina negligenzia superare. E benché tutti i suoi capi
dello esercito lo consigliassero che, lasciato la impresa di Verona
e Brescia, se ne andasse a Vicenza, per non essere, dimorando quivi,
assediati dagli inimici, non volle acconsentirvi, ma volle tentare
la fortuna di recuperare quella città; e voltosi, nel mezzo
di queste sospensioni d'animo, ai proveditori viniziani e a
Bernardetto de' Medici, il quale per i Fiorentini era apresso di lui
commissario, promisse loro la certa recuperazione, se una delle
rocche gli aspettava. Fatte adunque ordinare le sue genti, con
massima celerità ne andò verso Verona. Alla vista del
quale credette Niccolò ch'egli, come da' suoi era stato
consigliato, se ne andasse a Vicenza; ma veduto di poi volgere alla
terra le genti e indirizzarsi verso la rocca di San Felice, si volle
ordinare alla difesa. Ma non fu a tempo, perché le sbarre
alle rocche non erano fatte, e i soldati, per la avarizia della
preda e delle taglie, erano divisi; né potette unirli
sì tosto che potessero obviare alle genti del Conte che le
non si accostassero alla fortezza e per quella scendessero nella
città. La quale recuperorono felicemente, con vergogna di
Niccolò e danno delle sue genti; il quale insieme con il
marchese di Mantova, prima nella cittadella, di poi, per la
campagna, a Mantova si rifuggirono. Dove, ragunate le reliquie delle
loro genti ch'erano salvate, con l'altre che erano allo assedio di
Brescia si congiunsono. Fu per tanto Verona in quattro dì
dallo esercito ducale acquistata e perduta. Il Conte, dopo questa
vittoria, sendo già verno e il freddo grande, poi che ebbe
con molta difficultà mandato vettovaglie in Brescia, ne
andò alle stanze in Verona, e ordinò che a Torboli si
facessero, la vernata, alcune galee, per potere essere, a primavera,
in modo per terra e per acqua gagliardo, che Brescia si potesse al
tutto liberare.
26
Il Duca, veduta la guerra per il tempo ferma, e troncagli la
speranza che gli aveva avuta di occupare Verona e Brescia, e come di
tutto ne erano cagione i danari e i consigli de' Fiorentini, e come
quelli né per ingiuria che da' Viniziani avessero ricevuta si
erano potuti dalla loro amicizia alienare, né per promesse
ch'egli avesse loro fatte, se gli era potuti guadagnare,
deliberò, acciò che quelli sentissero più da
presso i frutti de' semi loro, di assaltare la Toscana. A che fu da'
fuori usciti fiorentini e da Niccolò confortato: questo lo
moveva il desiderio aveva di acquistare gli stati di Braccio e
cacciare il Conte della Marca, quelli erano dalla volontà di
tornare nella loro patria spinti; e ciascuno aveva mosso il Duca con
ragioni opportune e conforme al desiderio suo. Niccolò gli
mostrava come e' poteva mandarlo in Toscana e tenere assediata
Brescia, per essere signore del lago e avere i luoghi di terra forti
e bene muniti, e restargli capitani e gente da potere opporsi al
Conte quando volessi fare altra impresa (ma che non era ragionevole
la facesse sanza liberare Brescia, e a liberarla era impossibile);
in modo che veniva a fare guerra in Toscana e a non lasciare la
impresa di Lombardia: mostravagli ancora che i Fiorentini erano
necessitati subito che lo vedevono in Toscana, a richiamare il Conte
o perdersi; e qualunque l'una di queste cose seguiva, ne resultava
la vittoria. I fuori usciti affermavano essere impossibile, se
Niccolò con lo esercito si accostava a Firenze che quel
popolo, stracco dalle gravezze e dalla insolenzia de' potenti, non
pigliasse le armi contro di loro: mostravongli lo accostarsi a
Firenze essere facile, promettendogli la via del Casentino aperta,
per la amicizia che messer Rinaldo teneva con quel conte: tanto che
il Duca, per sé prima voltovi, tanto più, per le
persuasioni di questi, fu in fare questa impresa confirmato. I
Viniziani dall'altra parte, con tutto che il verno fusse aspro, non
mancavano di sollecitare il Conte a soccorrere con tutto lo esercito
Brescia, la qual cosa il Conte negava potersi in quelli tempi fare;
ma che si doveva aspettare la stagione nuova, e in quel tanto
mettere in ordine l'armata, e di poi per acqua e per terra
soccorrerla. Donde i Viniziani stavano di mala voglia, ed erano
lenti a ogni provisione, talmente che nello esercito loro erano
assai genti mancate.
27
Di tutte queste cose fatti certi, i Fiorentini spaventorono,
veggendosi venire la guerra adosso e in Lombardia non si essere
fatto molto profitto. Né dava loro meno affanno i sospetti
ch'eglino avieno delle genti della Chiesa; non perché il Papa
fusse loro nimico, ma perché vedevono quelle armi più
ubbidire al Patriarca, loro inimicissimo, che al Papa. Fu Giovanni
Vitelleschi cornetano, prima notaio apostolico, di poi vescovo di
Ricanati, appresso patriarca alessandrino; ma diventato in ultimo
cardinale, fu Cardinale fiorentino nominato. Era costui animoso e
astuto; e per ciò seppe tanto operare, che dal Papa fu
grandemente amato, e da lui preposto alli eserciti della Chiesa; e
di tutte le imprese che il Papa in Toscana, in Romagna, nel Regno e
a Roma fece, ne fu capitano: onde che prese tanta autorità
nelle genti e nel Papa, che questo temeva a comandargli, e le genti
a lui solo, e non ad altri, ubbidivano. Trovandosi per tanto questo
cardinale con le genti in Roma quando venne la fama che
Niccolò voleva passare in Toscana, si raddoppiò a'
Fiorentini la paura, per essere stato quel cardinale, poi che messer
Rinaldo fu cacciato, sempre a quello stato nimico, veggendo che gli
accordi fatti in Firenze intra le parti per suo mezzo non erano
stati osservati, anzi con pregiudizio di messer Rinaldo maneggiati,
sendo stato cagione che posasse le armi e desse commodità a'
nimici di cacciarlo: tanto che ai principi del governo pareva che il
tempo fusse venuto da ristorare messer Rinaldo de' danni, se con
Niccolò, venendo quello in Toscana si accozzava. E tanto
più ne dubitavano parendo loro la partita di Niccolò
di Lombardia importuna, lasciando una impresa quasi vinta, per
entrare in una al tutto dubia; il che non credevono sanza qualche
nuova intelligenza o nascoso inganno facesse. Di questo loro
sospetto avevano avvertito il Papa, il quale aveva già
conosciuto lo errore suo per avere dato ad altri troppa
autorità. Ma in mentre che i Fiorentini stavano così
sospesi la fortuna mostrò loro la via come si potessero del
Patriarca assicurare. Teneva quella republica in tutti i luoghi
diligenti esploratori di quelli che portavano lettere, per scoprire
se alcuno contro allo stato loro alcuna cosa ordinasse. Occorse che
a Montepulciano furono prese lettere le quali il Patriarca scriveva,
sanza consenso del Pontefice, a Niccolò Piccino; le quali
subito il magistrato preposto alla guerra presentò al Papa. E
benché le fussero scritte con non consueti caratteri, e il
senso di loro implicato in modo che non se ne potesse trarre alcuno
specificato sentimento, non di meno questa oscurità, con la
pratica del nimico, messe tanto sospetto nel Pontefice, che
deliberò di assicurarsene, e la cura di questa impresa ad
Antonio Rido da Padova, il quale era alla guardia del castello di
Roma preposto, dette. Costui, come ebbe la commissione, parato ad
ubbidire, che venisse la occasione aspettava. Aveva il Patriarca
deliberato passare in Toscana; e volendo il dì seguente
partire di Roma significò al Castellano che la mattina fusse
sopra il ponte del castello, perché, passando, gli voleva di
alcuna cosa ragionare. Parve ad Antonio che la occasione fusse
venuta; e ordinò a' suoi quello dovessero fare; e al tempo
aspettò il Patriarca sopra il ponte che, propinquo alla
rocca, per fortezza di quella si può, secondo la
necessità, levare e porre. E come il Patriarca fu sopra
quello, avendolo prima con il ragionamento fermo, fece cenno a' suoi
che alzassero il ponte; tanto che il Patriarca in un tratto si
trovò, di comandatore di eserciti, prigione di uno
castellano. Le genti che erano seco prima romoreggiorono; di poi,
intesa la volontà del Papa, si quietorono. Ma il Castellano
confortando con umane parole il Patriarca, e dandogli speranza di
bene, gli rispose che gli uomini grandi non si pigliavano per
lasciargli, e quelli che meritavano di essere presi, non meritavano
di essere lasciati. E così poco di poi morì in
carcere; e il Papa alle sue genti Lodovico patriarca di Aquileia
prepose. E non avendo mai voluto per lo adietro nelle guerre della
lega e del Duca implicarsi, fu allora contento intervenirvi; e
promisse essere presto per la difesa di Toscana, con quattro mila
cavagli e dumila fanti.
28
Liberati i Fiorentini da questa paura, restava loro il timore di
Niccolò e della confusione delle cose di Lombardia, per i
dispareri erano tra i Viniziani e il Conte; i quali per intenderli
meglio, mandorono Neri di Gino Capponi e messer Giuliano Davanzati a
Vinegia; a' quali commissono che fermassero come l'anno futuro si
avesse a maneggiare la guerra; e a Neri imposono che, intesa la
opinione de' Viniziani, se ne andassi dal Conte per intendere la sua
e per persuaderlo a quelle cose che alla salute della lega fussero
necessarie. Non erano ancora questi ambasciadori a Ferrara,
ch'eglino intesono Niccolò Piccino con sei milia cavagli
avere passato il Po; il che fece affrettare loro il cammino; e
giunti a Vinegia, trovorono quella Signoria tutta a volere che
Brescia, sanza aspettare altro tempo, si soccorresse, perché
quella città non poteva aspettare il soccorso al tempo nuovo,
né che si fusse fabricata l'armata, ma, non veggendo altri
aiuti, si arrenderebbe al nimico, il che farebbe al tutto vittorioso
il Duca, e a loro perdere tutto lo stato di terra. Per la qual cosa
Neri andò a Verona per udire il Conte, e quello che allo
incontro allegava. Il quale gli dimostrò con assai ragioni il
cavalcare in quelli tempi verso Brescia essere inutile per allora e
dannoso per la impresa futura; perché, rispetto al tempo e al
sito, a Brescia non si farebbe frutto alcuno, ma solo si
disordinerebbono e affaticherebbono le sue genti, in modo che,
venuto il tempo nuovo e atto alle faccende, sarebbe necessitato con
lo esercito tornarsi a Verona per provedersi delle cose consumate il
verno e necessarie per la futura state; di maniera che tutto il
tempo atto alla guerra in andare e tornare si consumerebbe. Erano
con il Conte a Verona, mandati a praticare queste cose, messer
Orsatto Iustiniani e messer Giovanni Pisani. Con questi, dopo molte
dispute, si concluse che i Viniziani, per lo anno nuovo, dessino al
Conte ottantamila ducati e all'altre loro genti ducati quaranta per
lancia, e che si sollecitasse di uscire fuora con tutto lo esercito,
e si assalisse il Duca, acciò che, per timore delle cose sue,
facesse tornare Niccolò in Lombardia. Dopo la quale
conclusione se ne tornorono a Vinegia. I Viniziani, perché la
somma del danaio era grande, ad ogni cosa pigramente provvedevono.
29
Niccolò Piccino, in questo mezzo, seguitava il suo viaggio, e
già era giunto in Romagna; e aveva operato tanto con i
figliuoli di messer Pandolfo Malatesti, che, lasciati i Viniziani,
si erano accostati al Duca. Questa cosa dispiacque a Vinegia; ma
molto più a Firenze; perché credevono, per quella via,
potere fare resistenza a Niccolò; ma veduti i Malatesti
ribellati, si sbigottirono, massimamente perché temevono che
Pietrogiampaolo Orsino, loro capitano, il quale si trovava nelle
terre de' Malatesti, non fusse svaligiato, e rimanere disarmati.
Questa novella medesimamente sbigottì il Conte, perché
temeva di non perdere la Marca, passando Niccolò in Toscana;
e disposto di andare a soccorrere la casa sua, se ne venne a
Vinegia; e intromesso al Principe, mostrò come la passata sua
in Toscana era utile alla lega, perché la guerra si aveva a
fare dove era lo esercito e il capitano del nimico, non dove erano
le terre e le guardie sue: perché, vinto l'esercito, è
vinta la guerra; ma vinte le terre, e lasciando intero lo esercito,
diventa molte volte la guerra più viva; affermando la Marca e
la Toscana essere perdute, se a Niccolò non si faceva
gagliarda opposizione; le quali perdute, non aveva rimedio la
Lombardia; ma quando l'avesse rimedio, non intendeva di abbandonare
i suoi sudditi e i suoi amici; e che era passato in Lombardia
signore, e non voleva partirsene condottiere. A questo fu replicato
da il Principe come gli era cosa manifesta che s'egli, non solamente
partisse di Lombardia, ma con lo esercito ripassasse il Po, che
tutto lo stato loro di terra si perderebbe; e loro non erano per
spendere più alcuna cosa per difenderlo, perché non
è savio colui che tenta di difendere una cosa che si abbia a
perdere in ogni modo; ed è, con minore infamia, meno danno
perdere gli stati solo, che li stati e i danari. E quando la perdita
delle cose loro seguisse, si vedrebbe allora quanto importa la
reputazione de' Viniziani a mantenere la Toscana e la Romagna. E
però erano al tutto contrari alla sua opinione, perché
credevono che chi vincesse in Lombardia vincerebbe in ogni altro
luogo, e il vincere era facile, rimanendo lo stato del Duca, per la
partita di Niccolò, debile in modo che prima si poteva fare
rovinare che gli avesse o potuto rivocare Niccolò, o
provedutosi di altri rimedi. E che chi esaminasse ogni cosa
saviamente, vedrebbe il Duca non avere mandato Niccolò in
Toscana per altro che per levare il Conte da queste imprese, e la
guerra che gli ha in casa farla altrove; di modo che, andandogli
dietro il Conte, se prima non si veggia una estrema
necessità, si verrà ad adempiere i disegni suoi e
farlo della sua intenzione godere, ma se si manterranno le genti in
Lombardia e in Toscana si provvegga come e' si può, e' si
avvedrà tardi del suo malvagio partito, e in tempo che gli
arà sanza rimedio perduto in Lombardia e non vinto in
Toscana. Detta adunque e replicata da ciascuno la sua opinione, si
concluse che si stesse a vedere qualche giorno per vedere questo
accordo de' Malatesti con Niccolò quello partorisse, e se di
Pietrogiampaulo i Fiorentini si potevono valere, e se il Papa andava
di buone gambe con la lega, come gli aveva promesso. Fatta questa
conclusione, pochi giorni apresso furono certificati, i Malatesti
avere fatto quello accordo più per timore che per alcuna
malvagia cagione, e Pietrogiampaulo esserne ito con le sue genti
verso Toscana, e il Papa essere di migliore voglia per aiutare la
lega che prima. I quali avvisi feciono fermare lo animo al Conte. E
fu contento rimanere in Lombardia; e Neri Capponi tornassi a Firenze
con mille de' suoi cavagli e con cinquecento degli altri; e se pure
le cose procedessino in modo, in Toscana, che la opera del Conte vi
fusse necessaria, che si scrivesse, e che allora il Conte, sanza
alcuno rispetto, si partisse. Arrivò pertanto Neri con queste
genti in Firenze di aprile, e il medesimo dì giunse
Giampaulo.
30
Niccolò Piccino, in questo mezzo, ferme le cose di Romagna,
disegnava di scendere in Toscana; e volendo passare per l'alpe di
San Benedetto e per la valle di Montone, trovò quelli luoghi,
per la virtù di Niccolò da Pisa, in modo guardati, che
giudicò che vano sarebbe da quella parte ogni suo sforzo. E
perché i Fiorentini in questo assalto subito erano mal
provisti e di soldati e di capi, avevano a' passi di quelle alpi
mandati più loro cittadini, con fanterie di subito fatte, a
guardarli; intra' quali fu messer Bartolommeo Orlandini cavaliere,
al quale fu in guardia il castello di Marradi e il passo di quella
alpe consegnato. Non avendo adunque Niccolò Piccino giudicato
potere superare il passo di San Benedetto, per la virtù di
chi lo guardava, giudicò di potere vincere quello di Marradi
per la viltà di chi l'aveva a difendere. È Marradi uno
castello posto a piè delle alpi che dividono la Toscana dalla
Romagna, ma da quella parte che guarda verso Romagna, e nel
principio di Val di Lamona; e benché sia senza mura, non di
meno il fiume, i monti e gli abitatori lo fanno forte; perché
gli uomini sono armigeri e fedeli, e il fiume in modo ha roso il
terreno, e ha sì alte le grotte sue, che a venirvi di verso
la valle è impossibile, qualunque volta un picciol ponte, che
è sopra il fiume, fusse difeso; e dalla parte de' monti sono
le ripe sì aspre che rendono quel sito sicurissimo. Non di
meno la viltà di messer Bartolomeo rendé e quelli
uomini vili e quel sito debolissimo; perché non prima e'
sentì il romore delle genti inimiche, che, lasciato ogni cosa
in abbandono, con tutti i suoi se ne fuggì; né si
fermò prima che al Borgo a San Lorenzo. Niccolò,
entrato ne' luoghi abbandonati pieno di maraviglia che non fussero
difesi e di allegrezza di avergli acquistati, scese in Mugello; dove
occupò alcune castella; e a Pulicciano fermò il suo
esercito, donde scorreva tutto il paese infino a' monti di Fiesole.
E fu tanto audace che passò Arno, e infino a tre miglia
propinquo a Firenze predò e scorse ogni cosa.
31
I Fiorentini, dall'altra parte, non si sbigottirono, e prima che
ogni altra cosa, attesono a tenere fermo il governo; del quale
potevono poco dubitare per la benivolenza che Cosimo aveva nel
popolo, e per avere ristretti i primi magistrati intra pochi
potenti, i quali con la severità loro tenevono fermo, se pure
alcuno vi fusse stato male contento o di nuove cose desideroso.
Sapevano ancora, per gli accordi fatti in Lombardia con quali forze
tornava Neri, e da il Papa aspettavano le genti sue: la quale
speranza infino alla tornata di Neri li tenne vivi. Il quale,
trovata la città in questi disordini e paure, deliberò
uscire in campagna, per frenare in parte Niccolò, che
liberamente non saccheggiasse il paese, e fatto testa di più
fanti, tutti del popolo, con quella cavalleria si trovavano,
uscì fuora, e riprese Remole che tenevano i nimici; dove
accampatosi proibiva a Niccolò lo scorrere e a' cittadini
dava speranza di levargli il nimico d'intorno. Niccolò,
veduto come i Fiorentini quando erano spogliati di gente non avevono
fatto alcuno movimento, e inteso con quanta sicurtà in quella
città si stava, gli pareva invano consumare il tempo, e
deliberò fare altre imprese, acciò che i Fiorentini
avessero cagione di mandargli dietro le genti, e dargli occasione di
venire alla giornata; la quale vincendo, pensava che ogni altra cosa
gli succedessi prospera. Era nello esercito di Niccolò
Francesco conte di Poppi, il quale si era, come i nimici furono in
Mugello ribellato da' Fiorentini con i quali era in lega. E
benché prima i Fiorentini ne dubitassero, per farselo con i
benificii amico, gli accrebbono la provisione, e sopra tutte le loro
terre a lui convicine lo feciono commissario. Non di meno (tanto
può negli uomini lo amore della parte) alcuno benifizio
né alcuna paura gli poté fare sdimenticare l'affezione
portava a messer Rinaldo e agli altri che nello stato primo
governavano; tanto che, subito che gli intese Niccolò esser
propinquo, si accostò con lui; e con ogni sollecitudine lo
confortava a scostarsi dalla città e passare in Casentino,
mostrandogli la fortezza del paese, e con quale securtà
poteva, di quivi, tenere stretti i nimici. Prese per tanto
Niccolò questo consiglio;giunto in Casentino, occupò
Romena e Bibbiena; di poi pose il campo a Castel San Niccolò.
È questo castello posto a piè delle alpi che dividono
il Casentino da il Val d'Arno; e per essere in luogo assai rilevato,
e dentrovi sufficienti guardie, fu difficile la sua espugnazione,
ancora che Niccolò con briccole e simili artiglierie
continuamente lo combattesse. Era durato questo assedio più
di venti giorni, infra il quale tempo i Fiorentini avevano le loro
genti raccozzate; e di già avevano, sotto più
condottieri, tremila cavagli a Fegghine ragunati, governati da
Pietrogiampaulo capitano e da Neri Capponi e Bernardo de' Medici
commissari. A costoro vennono quattro, mandati da Castello San
Niccolò, a pregarli dovessero dare loro soccorso. I
commissari, esaminato il sito, vedevano non li potere soccorrere se
non per le alpi che venivano di Val d'Arno; la sommità delle
quali poteva essere occupata prima dal nimico che da loro, per avere
a fare più corto cammino, e per non potersi la loro venuta
celare; in modo che si andava a tentare una cosa da non riuscire e
poterne seguire la rovina delle genti loro. Onde che i commissari
lodorono la fede di quelli, e commissono loro che, quando e' non
potessero più difendersi si arrendessero. Prese adunque
Niccolò questo castello dopo trentadue giorni che vi era ito
con il campo, e tanto tempo perduto per sì poco acquisto fu
della rovina della sua impresa buona parte cagione; perché,
se si manteneva con le genti d'intorno a Firenze, faceva che chi
governava quella città non poteva se non con rispetto,
strignere i cittadini a fare danari; e con più
difficultà ragunavano le genti e facevono ogni altra
provisione avendo il nimico adosso, che discosto; e arebbono molti
avuto animo a muovere qualche accordo per assicurarsi di
Niccolò con la pace, veggendo che la guerra fusse per durare.
Ma la voglia che il conte di Poppi aveva di vendicarsi contro a
quelli castellani, stati lungo tempo suoi nimici, gli fece dare quel
consiglio; e Niccolò, per sodisfargli, lo prese, il che fu la
rovina dell'uno e dell'altro: e rade volte accade che le particulari
passioni non nuochino alle universali commodità.
Niccolò, seguitando la vittoria, prese Rassina e Chiusi. In
questi parti il conte di Poppi lo persuadeva a fermarsi, mostrando
come e' poteva distendere le sue genti fra Chiusi, Caprese e la
Pieve; e veniva ad essere signore delle alpi, e potere a sua posta
in Casentino, in Val d'Arno, in Val di Chiana e in Val di Tevere
scendere, ed essere presto ad ogni moto che facessino i nimici. Ma
Niccolò, considerata la asprezza de' luoghi, gli disse che i
suoi cavagli non mangiavano sassi; e ne andò al Borgo a San
Sepolcro, dove amichevolmente fu ricevuto. Dal quale luogo
tentò gli animi di quelli di Città di Castello, i
quali, per essere amici a' Fiorentini, non lo udirono. E desiderando
egli avere i Perugini a sua devozione, con quaranta cavagli se ne
andò a Perugia, dove fu ricevuto, sendo loro cittadino,
amorevolmente. Ma in pochi giorni vi diventò sospetto, e
tentò con il Legato e con i Perugini più cose, e non
gliene successe niuna; tanto che, ricevuto da loro ottomila ducati,
se ne tornò allo esercito. Di quivi tenne pratiche in Cortona
per torla a' Fiorentini; e per essersi scoperta la cosa prima che il
tempo, diventorono i disegni suoi vani. Era intra i primi cittadini
di quella città Bartolommeo di Senso: costui andando la sera,
per ordine del capitano, alla guardia d'una porta, gli fu da uno del
contado, suo amico, fatto intendere che non vi andasse, se voleva
non esservi morto. Volle intendere Bartolommeo il fondamento della
cosa, e trovò l'ordine del trattato che si teneva con
Niccolò. Il che Bartolommeo, per ordine al capitano
rivelò; il quale, assicuratosi de' capi della congiura e
raddoppiato le guardie alle porte, aspettò, secondo l'ordine
dato, che Niccolò venisse; il quale venne di notte e al tempo
ordinato; e trovandosi scoperto, se ne ritornò agli
alloggiamenti suoi.
32
Mentre che queste cose in questa maniera in Toscana si
travagliavano, e con poco acquisto per la gente del Duca, in
Lombardia non erano quiete, ma con perdita e danno suo.
Perché il conte Francesco, come prima lo consentì il
tempo, uscì con lo esercito suo in campagna; e perché
i Viniziani avevano la loro armata del lago instaurata, volle il
Conte, prima che ogni cosa, insignorirsi delle acque, e cacciare il
Duca del lago, giudicando, fatto questo, che l'altre cose gli
sarieno facile. Assaltò per tanto, con l'armata de'
Viniziani, quella del Duca, e la ruppe, e con le genti di terra le
castella che al Duca ubbidivano; tanto che l'altre genti ducali, che
per terra strignevano Brescia, intesa quella rovina, si allargorono:
e così Brescia, dopo tre anni che l'era stata assediata,
dallo assedio fu libera. Apresso a questa vittoria, il Conte
andò a trovare li nimici che si erano ridotti a Soncino,
castello posto in sul fiume dello Ollio, e quelli diloggiò, e
li fece ritirare a Cremona; dove il Duca fece testa, e da quella
parte i suoi stati difendeva. Ma stringendolo più l'uno
dì che l'altro il Conte e dubitando non perdere o tutto o
gran parte degli stati suoi, cognobbe la malvagità del
partito da lui preso, di mandare Niccolò in Toscana; e per
ricorreggere lo errore, scrisse a Niccolò in quali termini si
trovava e dove erano condotte le sue imprese: per tanto, il
più presto potesse, lasciato la Toscana, se ne tornasse in
Lombardia. I Fiorentini, in questo mezzo, sotto i loro commissari
avevono ragunate le loro genti con quelle del Papa, e avevano fatto
alto ad Anghiari, castello posto nelle radice de' monti che dividono
Val di Tevere da Val di Chiana, discosto al Borgo a San Sepolcro
quattro miglia, via piana, e i campi atti a ricevere cavagli e
maneggiarvisi guerra. E perché eglino avieno notizia delle
vittorie del Conte e della revocazione di Niccolò,
giudicorono con la spada dentro e sanza polvere avere vinta quella
guerra; e per ciò a' commissari scrissono che si astenessero
dalla giornata, perché Niccolò non poteva molti giorni
stare in Toscana. Questa commissione venne a notizia a
Niccolò, e veggendo la necessità del partirsi, per non
lasciare cosa alcuna intentata, deliberò fare la giornata,
pensando di trovare i nimici sproveduti e con il pensiero alieno
dalla zuffa. A che era confortato da messer Rinaldo, da il conte di
Poppi e dagli altri fuorusciti fiorentini, i quali la loro manifesta
rovina cognoscevano se Niccolò si partiva, ma venendo a
giornata, credevono o potere vincere la impresa, o perderla
onorevolmente. Fatta adunque questa deliberazione, mosse lo esercito
donde era, intra Città di Castello e il Borgo; e venuto al
Borgo sanza che i nimici se ne accorgessero, trasse di quella terra
dumila uomini, i quali confidando nella virtù del capitano e
nelle promesse sue, desiderosi di predare, lo seguirono.
33
Dirizzatosi dunque Niccolò, con le schiere in battaglia,
verso Anghiari, era già loro propinquo a meno di dua miglia,
quando da Micheletto Attendulo fu veduto un grande polverio; e
accortosi come gli erano i nimici, gridò all'arme. Il tumulto
nel campo de' Fiorentini fu grande, perché, campeggiando
quelli eserciti per lo ordinario sanza alcuna disciplina, vi si era
aggiunta la negligenzia, per parere loro avere il nimico discosto e
più disposto alla fuga che alla zuffa; in modo che ciascuno
era disarmato, di lungi dagli alloggiamenti, e in quel luogo dove la
volontà, o per fuggire il caldo che era grande, o per seguire
alcuno suo diletto, lo aveva tirato. Pure fu tanta la diligenza de'
commissari e del capitano, che, avanti fussero arrivati i nimici,
erano a cavallo e ordinati a potere resistere allo impeto suo. E
come Micheletto fu il primo a scoprire il nimico, così fu il
primo armato ad incontrarlo; e corse con le sue genti sopra il ponte
del fiume che attraversa la strada non molto lontano da Anghiari. E
perché, davanti alla venuta del nimico, Pietrogiampaulo aveva
fatto spianare le fosse che circundavano la strada che è tra
il ponte e Anghiari, sendosi posto Micheletto allo incontro del
ponte, Simoncino, condottiere della Chiesa, con il Legato, si
mossono da man destra, e da sinistra i commissari fiorentini con
Pietrogiampaulo loro capitano, e le fanterie disposono da ogni parte
su per la ripa del fiume. Non restava per tanto agli nimici altra
via aperta ad andare a trovare gli avversarii loro, che la diritta
del ponte; né i Fiorentini avevono altrove che al ponte a
combattere, eccetto che alle fanterie loro avevono ordinato che, se
le fanterie nimiche uscivano di strada per essere a' fianchi delle
loro genti d'armi, con le balestra le combattessero, acciò
che quelle non potessero ferire per fianco i loro cavalli che
passassero il ponte. Furono per tanto le prime genti che comparsono
da Micheletto gagliardamente sostenute, e non che altro, da quello
ributtate; ma sopravenendo Astor e Francesco Piccinino con gente
eletta, con tale impeto in Micheletto percossono, che gli tolsono il
ponte e lo pinsono infino al cominciare dell'erta che sale al borgo
di Anghiari; di poi furono ributtati e ripinti fuori del ponte da
quelli che dai fianchi gli assalirono. Durò questa zuffa due
ore, che ora Niccolò, ora le genti fiorentine erano signori
del ponte. E benché la zuffa sopra il ponte fusse pari, non
di meno e di là e di qua dal ponte con disavvantaggio grande
di Niccolò si combatteva. Perché, quando le genti di
Niccolò passavano il ponte, trovavano i nimici grossi, che,
per le spianate fatte, si potevono maneggiare, e quelli che erano
stracchi potevono dai freschi essere soccorsi; ma quando le genti
fiorentine lo passavano, non poteva commodamente Niccolò
rinfrescare i suoi, per essere angustiato dalle fosse e dagli argini
che fasciavano la strada: come intervenne, perché molte volte
le genti di Niccolò vinsono il ponte, e sempre dalle genti
fresche degli avversarii furono ripinte indietro, ma come il ponte
dai Fiorentini fu vinto, talmente che le loro genti entrorono nella
strada, non sendo a tempo Niccolò, per la furia di chi veniva
e per la incommodità del sito a rinfrescare i suoi, in modo
quelli davanti con quelli di dietro si mistorono, che l'uno
disordinò l'altro, e tutto lo esercito fu constretto mettersi
in volta e ciascuno, sanza alcuno rispetto, si rifuggì verso
il Borgo. I soldati fiorentini attesono alla preda; la quale fu, di
prigioni, di arnesi e di cavagli, grandissima, perché con
Niccolò non rifuggirono salvi mille cavalli. I Borghigiani, i
quali avevono seguitato Niccolò per predare, di predatori
divennono preda, e furono presi tutti e taglieggiati; le insegne e i
carriaggi furono tolti. E fu la vittoria molto più utile per
la Toscana, che dannosa per il Duca; perché, se i Fiorentini
perdevono la giornata, la Toscana era sua; e perdendo quello, non
perdé altro che le armi e i cavagli del suo esercito; i quali
con non molti danari si poterono recuperare. Né furono mai
tempi che la guerra che si faceva ne' paesi d'altri fusse meno
pericolosa per chi la faceva, che in quelli. E in tanta rotta e in
sì lunga zuffa, che durò dalle venti alle ventiquattro
ore, non vi morì altri che uno uomo; il quale, non di ferite
o d'altro virtuoso colpo, ma caduto da cavallo e calpesto
espirò: con tanta securtà allora gli uomini
combattevano, perché, sendo tutti a cavallo, e coperti
d'arme, e securi dalla morte qualunque volta e' si arrendevano, non
ci era cagione perché dovessero morire, defendendogli nel
combattere le armi, e quando e' non potevono più combattere,
lo arrendersi.
34
È questa zuffa, per le cose seguite combattendo e poi,
esemplo grande della infelicità di queste guerre;
perché, vinti i nimici e ridutto Niccolò nel Borgo, i
commissari volevono seguirlo e in quel luogo assediarlo per avere la
vittoria intera; ma da alcuno condottiere o soldato non furono
voluti ubbidire, dicendo volere riporre la preda e medicare i
feriti. E quello che è più notabile fu che l'altro
dì, a mezzo giorno, sanza licenza o rispetto di commissario o
di capitano ne andorono ad Arezzo, e quivi lasciata la preda, ad
Anghiari ritornorono: cosa tanto contro ad ogni lodevole ordine e
militare disciplina, che ogni reliquia di qualunque ordinato
esercito arebbe facilmente e meritamente potuto loro torre quella
vittoria che gli avieno immeritamente acquistata. Oltra di questo,
volendo i commissari che ritenessero gli uomini d'arme presi, per
torre occasione al nimico di rifarsi, contro alla volontà
loro li liberorono. Cose tutte da maravigliarsi come in uno esercito
così fatto fusse tanta virtù che sapesse vincere, e
come nello inimico fusse tanta viltà che da sì
disordinate genti potesse essere vinto. Nello andare dunque e
tornare che feciono le genti fiorentine di Arezzo, Niccolò
ebbe tempo a partirsi con le sue genti dal Borgo, e ne andò
verso Romagna, con il quale ancora i rebelli fiorentini si
fuggirono. I quali, vedutosi mancata ogni speranza di tornare a
Firenze, in più parti, in Italia e fuori, secondo la
commodità di ciascuno, si divisono. De' quali messer Rinaldo
elesse la sua abitazione ad Ancona: e per guadagnarsi la celeste
patria, poi che gli aveva perduta la terrestre, se ne andò al
sepulcro di Cristo; donde tornato, nel celebrare le nozze d'una sua
figliuola sendo a mensa, di subito morì: e fugli in questo la
fortuna favorevole, che nel meno infelice giorno del suo esilio lo
fece morire. Uomo veramente in ogni fortuna onorato: ma più
ancora stato sarebbe, se la natura lo avesse in una città
unita fatto nascere; perché molte sue qualità in una
città divisa lo offesono, che in una unita l'arebbono
premiato. I commissari adunque, tornate le genti loro da Arezzo, e
partito Niccolò, si presentorono al Borgo. I Borghesi
volevono darsi a' Fiorentini, e quelli recusavano di pigliarli: e
nel trattare questi accordi, il Legato del pontefice
insospettì de' commissari, che non volessero quella terra
occupare alla Chiesa; tanto che vennono insieme a parole ingiuriose;
e sarebbe seguito intra le genti fiorentine e le ecclesiastiche
disordine se la pratica fusse ita molto in lunga ma perché la
ebbe il fine che voleva i Legato, ogni cosa si pacificò.
35
Mentre che le cose del Borgo si travagliavano, si intese
Niccolò Piccino essere ito verso Roma; e altri avvisi
dicevano verso la Marca; donde parve al Legato e alle genti
sforzesche di andare verso Perugia, per suvvenire o alla Marca o a
Roma, dove Niccolò si fusse volto; e con quelle andasse
Bernardo de Medici; e Neri con le genti fiorentine ne andassi allo
acquisto del Casentino. Fatta questa deliberazione Neri ne
andò a campo a Rassina, e quella prese, e con il medesimo
impeto prese Bibbiena, Prato Vecchio e Romena, e di quivi pose il
campo a Poppi, e da due parti lo cinse: una nel piano di Certomondo,
l'altra sopra il colle che passa a Fronzoli. Quel Conte, vedutosi
abbandonato da Dio e dagli uomini, si era rinchiuso in Poppi, non
perché gli sperasse di potere avere alcuno aiuto, ma per fare
l'accordo, se poteva, meno dannoso. Stringendolo pertanto Neri, egli
adimandò patti; e trovolli tali quali in quel tempo ei poteva
sperare: di salvare sé, suoi figliuoli e cose che ne poteva
portare; e la terra e lo stato cedere ai Fiorentini. E quando e'
capitulorono, discese sopra il ponte di Arno, che passa a piè
della terra, e tutto doloroso e afflitto disse a Neri: - Se io
avesse bene misurato la fortuna mia e la potenza vostra, io verrei
ora amico a rallegrarmi con voi della vostra vittoria, non nimico a
supplicarvi che fusse meno grave la mia rovina. La presente sorte,
come la è a voi magnifica e lieta, così è a me
dolente e misera. Io ebbi cavagli, arme, sudditi, stato e ricchezze:
che maraviglia è se mal volentieri le lascio? Ma se voi
volete e potete comandare a tutta la Toscana, di necessità
conviene che noi altri vi ubbidiamo; e se io non avesse fatto questo
errore, la mia fortuna non sarebbe stata cognosciuta, e la vostra
liberalità non si potrebbe conoscere; perché, se voi
mi conserverete, darete al mondo uno eterno esemplo della vostra
clemenzia. Vinca per tanto la pietà vostra il fallo mio;
lasciate almeno questa sola casa al disceso di coloro da' quali i
padri vostri hanno innumerabili benifici ricevuti -. il quale Neri
rispose come lo avere sperato troppo in quelli che potevono poco lo
aveva fatto in modo contro alla republica di Firenze errare, che,
aggiuntovi le condizioni de' presenti tempi, era necessario cedesse
tutte le cose sue, e quelli luoghi nimico a' Fiorentini
abbandonasse, che loro amico non aveva voluti tenere: perché
gli aveva dato di sé tale esemplo che non poteva essere
nutrito dove, in ogni variazione di fortuna, e' potesse a quella
republica nuocere; perché non lui, ma gli stati suoi si
temevano; ma che se nella Magna e' potessi essere principe, quella
città lo desiderrebbe, e per amore di quelli suoi antichi che
gli allegava, lo favorirebbe. A questo il Conte, tutto sdegnato,
rispose che vorrebbe i Fiorentini molto più discosto vedere.
E così, lasciato ogni amorevole ragionamento, il Conte, non
veggendo altro rimedio, cedé la terra e tutte le sue ragioni
a' Fiorentini; e con tutte le sue robbe, insieme con la moglie e co'
figliuoli, piangendo si partì; dolendosi di avere perduto uno
stato che i suoi padri per novecento anni avevono posseduto. Queste
vittorie tutte, come s'intesono a Firenze, furono da i principi del
governo e da quel populo con maravigliosa allegrezza ricevute. E
perché Bernardetto de' Medici trovò essere vano che
Niccolò fusse ito verso la Marca o a Roma, se ne tornò
con le genti dove era Neri; e insieme tornati a Firenze, fu loro
deliberati tutti quelli onori e quali, secondo l'ordine della
città, a loro vittoriosi cittadini si possono deliberare
maggiori; e da i Signori e da' Capitani di parte, e di poi da tutta
la città, furono ad uso di trionfanti ricevuti.
LIBRO SESTO
1
Fu sempre, e così è ragionevole che sia, il fine di
coloro che muovono una guerra, di arricchire sé e impoverire
il nimico; né per altra cagione si cerca la vittoria,
né gli acquisti per altro si desiderano, che per fare
sé potente e debole lo avversario. Donde ne segue che,
qualunque volta o la tua vittoria ti impoverisce o lo acquisto ti
indebolisce, conviene si trapassi o non si arrivi a quel termine per
il quale le guerre si fanno. Quel principe e quella republica
è dalle vittorie nelle guerre arricchito, che spegne i nimici
ed è delle prede e delle taglie signore; quello delle
vittorie impoverisce, che i nimici, ancora che vinca, non può
spegnere, e le prede e le taglie, non a lui, ma a i suoi soldati
appartengono. Questo tale è nelle perdite infelice e nelle
vittorie infelicissimo, perché, perdendo, quelle ingiurie
sopporta che gli fanno i nimici; vincendo, quelle che gli fanno gli
amici; le quali, per essere meno ragionevoli, sono meno
sopportabili, veggendo massime essere i suoi sudditi con taglie e
nuove offese di raggravare necessitato; e se gli ha in sé
alcuna umanità, non si può di quella vittoria
interamente rallegrare, della quale tutti i suoi sudditi si
contristono. Solevono le antiche e bene ordinate republiche, nelle
vittorie loro, riempiere d'oro e d'ariento lo erario, distribuire
doni nel popolo, rimettere a' sudditi i tributi, e con giuochi e con
solenne feste festeggiarli; ma quelle di quelli tempi che noi
descriviamo, prima votavono lo erario, di poi impoverivano il
popolo, e de' nimici tuoi non ti assicuravano. Il che tutto nasceva
da il disordine con il quale quelle guerre si trattavano:
perché, spogliandosi i nimici vinti, e non si ritenendo
né ammazzando, tanto quelli a riassalire il vincitore
differivono, quanto ei penavano da chi gli conduceva d'essere d'arme
e cavagli riforniti. Sendo ancora le taglie e la preda de' soldati,
i principi vincitori di quelle nelle nuove spese de' nuovi soldi non
si valevano, ma delle viscere de' loro popoli gli traevono,
né partoriva altro la vittoria, in benifizio de' popoli, se
non che la faceva il principe più sollecito e meno respettivo
ad aggravargli. E a tale quelli soldati avevono la guerra condotta,
che ugualmente al vincitore e al vinto, a volere potere alle sue
genti comandare, nuovi danari bisognavano, perché l'uno aveva
a rivestirgli, l'altro a premiargli; e come quelli sanza essere
rimessi a cavallo non potevano, così quelli altri sanza nuovi
premi combattere non volevano. Di qui nasceva che l'uno godeva poco
la vittoria, l'altro poco sentiva la perdita; perché il vinto
era a tempo a rifarsi, e il vittorioso non era a tempo a seguire la
vittoria.
2
Questo disordine e perverso modo di milizia fece che Niccolò
Piccino era prima rimontato a cavallo, che si sapesse per Italia la
sua rovina; e maggiore guerra faceva dopo la perdita al nimico, che
prima non aveva fatta. Questo fece che, dopo la rotta di Tenna, e'
potette occupare Verona; questo fece che, spogliato delle sue genti
a Verona, e' potette venire con un grosso esercito in Toscana;
questo fece che, rotto ad Anghiari, innanzi che pervenisse in
Romagna, era in su i campi più potente che prima, e potette
riempiere il Duca di Milano di speranza di potere difendere la
Lombardia, la quale per la sua assenzia gli pareva quasi che avere
perduta. Perché, mentre che Niccolò riempiva di
tumulti la Toscana, il Duca si era ridotto in termine che dubitava
dello stato suo; e giudicando che potesse prima seguire la rovina
sua, che Niccolò Piccino il quale aveva richiamato, fusse
venuto a soccorrerlo, per frenare l'impeto del Conte e temporeggiare
quella fortuna con la industria, la quale non poteva con la forza
sostenere, ricorse a quelli remedi i quali in simili termini molte
volte gli erano giovati; e mandò Niccolò da Esti
principe di Ferrara a Peschiera, dove era il Conte. Il quale per
parte sua lo confortò alla pace, e gli mostrò come al
Conte non era quella guerra a proposito: perché, se il Duca
si indeboliva in modo che non potesse mantenere la reputazione sua,
sarebbe egli il primo che ne patirebbe, perché da' Viniziani
e Fiorentini non sarebbe più stimato. E in fede che il Duca
desiderava la pace, gli offerse la conclusione del parentado: e
manderebbe la figliuola a Ferrara; la quale gli prometteva, seguita
la pace, dargli nelle mani. Il Conte rispose che se il Duca
veramente cercassi la pace, facilmente la troverrebbe, come cosa dai
Fiorentini e Viniziani desiderata: vero era che con
difficultà se gli poteva credere conosciuto che non abbi mai
fatto pace se non per necessità, la quale come manca, gli
ritorna la voglia della guerra; ne anche al suo parentado si poteva
prestare fede, sendone stato tante volte beffato non di meno, quando
la pace si concludessi, farebbe poi del parentado quanto dagli amici
fusse consigliato.
3
I Viniziani, i quali de' loro soldati nelle cose ancora non
ragionevoli sospettono, presono ragionevolmente di queste pratiche
sospetto grandissimo; il quale volendo il Conte cancellare, seguiva
la guerra gagliardamente. Non di meno l'animo, a lui per ambizione e
a' Viniziani per sospetto, era in modo intepidito, che quello
restante della state si ferono poche imprese; in modo che, tornato
Niccolò Piccino in Lombardia, e di già cominciato il
verno, tutti gli eserciti ne andorono alle stanze: il Conte in
Verona, in Cremona il Duca, le genti fiorentine in Toscana, e quelle
del Papa in Romagna. Le quali, poi che ebbono vinto ad Anghiari,
assaltorono Furlì e Bologna, per trarle di mano a Francesco
Piccinino, che in nome del padre le governava; e non riuscì
loro, perché furono da Francesco gagliardamente difese. Non
di meno questa loro venuta dette tanto spavento ai Ravennati di non
tornare sotto lo imperio della Chiesa, che, d'accordo con Ostasio di
Polenta loro signore, si missero nella potestà de' Viniziani;
i quali, in guidardone della ricevuta terra, acciò che per
alcun tempo Ostasio non potesse loro per forza torre quello che per
poca prudenzia aveva loro dato, lo mandarono, insieme con un suo
figliuolo, a morire in Candia. Nelle quali imprese, non ostante la
vittoria di Anghiari, mancando al Papa danari vendé il
castello del Borgo a Santo Sipolcro venticinquemila ducati, a'
Fiorentini. Stando per tanto le cose in questi termini, e parendo a
ciascuno, mediante la vernata, essere sicuro della guerra, non si
pensava più alla pace; e massime il Duca, per essere da
Niccolò Piccino e dalla stagione rassicurato. E per
ciò aveva rotto con il Conte ogni ragionamento d'accordo, e
con grande diligenzia rimisse Niccolò a cavallo; e faceva
qualunque altro provedimento che per una futura guerra si
richiedeva. Della qual cosa avendo notizia il Conte, ne andò
a Vinegia, per consigliarsi con quel Senato come per lo anno futuro
si avessero a governare. Niccolò dall'altra parte, trovandosi
in ordine, e vedendo il nimico disordinato, non aspettò che
venisse la primavera; e nel più freddo verno passò
l'Adda, e entrò nel Bresciano, e tutto quel paese, fuora che
Asola e Orci, occupò; dove più che dumila cavalli
sforzeschi, i quali questo assalto non aspettavano, svaligiò
e prese. Ma quello che più dispiacque al Conte e più
sbigottì i Viniziani fu che Ciarpellone, uno de' primi
capitani del Conte, si ribellò da lui. Il Conte, avuto questo
avviso, partì subito da Vinegia, e arrivato a Brescia
trovò Niccolò, fatto quelli danni, essersi ritornato
alle stanze; donde che al Conte non parve, poi che trovò la
guerra spenta, di raccenderla; ma volle, poi che il tempo e il
nimico gli davano commodità a riordinarsi, usarla, per potere
poi, con il nuovo tempo, vendicarsi delle vecchie offese. Fece
adunque che i Viniziani richiamassero le genti che in Toscana
servivono a' Fiorentini, e in luogo di Gattamelata morto, volle che
Micheletto Attendulo conducessero.
4
Venuta adunque la primavera, Niccolò Piccino fu il primo a
uscire in campagna; e campeggiò Cignano, castello lontano da
Brescia dodici miglia; al soccorso del quale venne il Conte; e tra
l'uno e l'altro di quelli capitani, secondo la loro consuetudine, si
maneggiava la guerra. E dubitando, il Conte, di Bergamo, andò
a campo a Martiningo, castello posto in luogo da potere facilmente,
espugnato quello, soccorrere Bergamo; la qual città da
Niccolò era gravemente offesa; e perché egli aveva
preveduto non potere esser impedito dal nimico se non per la via di
Martiningo, aveva quel castello di ogni difesa fornito; tal che al
Conte fu necessario andare a quella espugnazione con tutte le forze.
Donde che Niccolò, con tutto lo esercito suo, si pose in
luogo che gli impediva le vettovaglie al Conte, e con tagliate e
bastioni in modo si era affortificato, che il Conte nol poteva, se
non con suo manifesto pericolo, assalire; e ridussesi la cosa in
termine che lo assediatore era in maggiore pericolo che quelli di
Martiningo, che erano assediati. Donde che il Conte non poteva
più per la fame campeggiare, né, per il pericolo,
poteva levarsi; e si vedeva per il Duca una manifesta vittoria, e
per i Viniziani e il Conte una espressa rovina. Ma la fortuna, alla
quale non manca modo di aiutare gli amici e disfavorire i nimici,
fece in Niccolò Piccino, per la speranza di questa vittoria,
crescere tanta ambizione e insolenzia che, non avendo rispetto al
Duca né a sé, gli mandò a dire come, avendo
militato sotto le sue insegne gran tempo, e non avendo ancora
acquistata tanta terra che vi si potesse sotterrare dentro, voleva
intendere da lui di quali premii avesse a essere per le sue fatiche
premiato, perché in sua potestà era farlo signore di
Lombardia e porgli tutti i suoi nimici in mano; e parendogli che
d'una certa vittoria ne avesse a nascere certo premio, desiderava
gli concedesse la città di Piacenza, acciò, stanco di
sì lunga milizia, potesse qualche volta riposarsi. Né
si vergognò, in ultimo, minacciare il Duca di lasciare la
impresa, quando a questa sua domanda non acconsentisse. Questo modo
di domandare ingiurioso e insolente offese tanto il Duca e ne prese
tanto sdegno, che deliberò più tosto volere perdere la
impresa che consentirlo. E quello che tanti pericoli e tanti minacci
di nimici non avevono fatto piegare, gli insolenti modi degli amici
piegorono: e deliberò fare lo accordo con il Conte; a cui
mandò Antonio Guidobuono da Tortona; e per quello gli offerse
la figliuola e le condizioni della pace; le quali cose furono
avidamente da lui e da tutti i collegati accettate. E fermi i patti
secretamente infra loro, mandò il Duca a comandare a
Niccolò che facesse tregua per uno anno con il Conte,
mostrando essere tanto con le spese affaticato che non poteva
lasciare una certa pace per una dubia vittoria. Restò
Niccolò ammirato di questo partito, come quello che non
poteva cognoscere qual cagione lo movesse a fuggire sì
gloriosa vittoria; e non poteva credere che, per non volere premiare
gli amici, e' volesse e suoi nimici salvare. Per tanto, in quel modo
che gli parve migliore, a questa deliberazione si opponeva; tanto
che il Duca fu constretto, a volerlo quietare, di minacciarlo che lo
darebbe, quando egli non vi acconsentisse, a' suoi soldati e a' suoi
nimici in preda. Ubbidì adunque Niccolò, non con altro
animo che si faccia colui che per forza abbandona gli amici e la
patria, dolendosi della sua malvagia sorte; poi che ora la fortuna,
ora il Duca, de' suoi nimici gli toglievono la vittoria. Fatta la
triegua, le nozze di madonna Bianca e del Conte si celebrorono; e
per dota di quella gli consegnò la città di Cremona.
Fatto questo, si fermò la pace, di novembre, nel 1441; dove
per i Viniziani Francesco Barbadico e Paulo Trono, e per i
Fiorentini messer Agnolo Acciaiuoli convennono, nella quale i
Viniziani Peschiera, Asola e Lonato, castella del marchese mantuano,
guadagnorono.
5
Ferma la guerra in Lombardia, restavano le armi del Regno; le quali,
non si potendo quietare, furono cagione che di nuovo in Lombardia si
ripigliassero. Era il re Rinato da Alfonso di Ragona stato
spogliato, mentre la guerra di Lombardia si travagliava di tutto il
reame eccetto che di Napoli, tale che Alfonso parendogli avere la
vittoria in mano, deliberò, mentre assediava Napoli, torre al
Conte Benevento e gli altri suoi stati che in quelle circunstanze
possedeva; perché giudicava questo fatto potergli sanza suo
periculo riuscire, sendo il Conte nelle guerre di Lombardia
occupato. Successe ad Alfonso per tanto facilmente questa impresa; e
con poca fatica tutte quelle terre occupò; ma venuta la nuova
della pace di Lombardia, Alfonso temé che il Conte non
venisse, per le sue terre, in favore di Rinato, e Rinato
sperò per le medesime cagioni in quello. Mandò per
tanto Rinato a sollecitare il Conte, pregandolo che venisse a
soccorrere uno amico e d'uno nimico a vendicarsi. Dall'altra parte
Alfonso pregava Filippo che dovesse, per la amicizia aveva seco fare
dare al Conte tanti affanni che, occupato in maggiori imprese, fusse
di lasciare quella necessitato. Accettò Filippo questo
invito, sanza pensare che turbava quella pace la quale poco davanti
aveva con tanto suo disavantaggio fatta. Fece per tanto intendere a
papa Eugenio come allora era tempo di riavere quelle terre che il
Conte, della Chiesa, ocupava; e a questo fare gli offerse
Niccolò Piccino pagato mentre che la guerra durasse; il
quale, fatta la pace, si stava con le sue genti in Romagna. Prese
Eugenio cupidamente questo consiglio, per lo odio teneva con il
Conte e per il desiderio aveva di riavere il suo; e se altra volta
fu con questa medesima speranza da Niccolò ingannato, credeva
ora, intervenendoci il Duca, non potere dubitare di inganno; e
accozzate le genti con quelle di Niccolò, assalì la
Marca. Il Conte, percosso da sì inopinato assalto, fatto
testa delle sue genti, andò contro al nimico. In questo mezzo
il re Alfonso occupò Napoli; donde che tutto quel regno,
eccetto Castelnuovo, venne in sua potestà. Lasciato per tanto
Rinato, in Castelnuovo, buona guardia, si partì; e venuto a
Firenze, fu onoratissimamente ricevuto; dove stato pochi giorni,
veduto non potere fare più guerra se ne andò a
Marsilia. Alfonso, in questo mezzo, aveva preso Castelnuovo, e il
Conte si trovava, nella Marca, inferiore al Papa e a Niccolò;
per ciò ricorse a' Viniziani e Fiorentini per aiuti di gente
e di danari, mostrando che, se allora ei non pensavano di frenare il
Papa e il Re, mentre che gli era ancora vivo, ch'eglino arebbono,
poco di poi, a pensare alla salute propria, perché si
accosterebbono con Filippo, e dividerebbonsi la Italia. Stettono i
Fiorentini e i Viniziani un tempo sospesi, sì per non
giudicare se si era bene inimicarsi con il Papa e con il Re,
sì per trovarsi occupati nelle cose de' Bolognesi. Aveva
Annibale Bentivogli cacciato di quella città Francesco
Piccinino, e per potersi defendere dal Duca, che favoriva Francesco,
aveva a' Viniziani e Fiorentini domandato aiuto; e quelli non gliene
avieno negato; in modo che, essendo in queste imprese occupati, non
potevono resolversi ad aiutare il Conte. Ma sendo seguito che
Annibale aveva rotto Francesco Piccinino, e parendo quelle cose
posate, deliberorono i Fiorentini suvvenire al Conte; ma prima, per
assicurarsi del Duca, rinnovorono la lega con quello. Da che il Duca
non si discostò, come colui che aveva consentito si facesse
guerra al Conte mentre che il re Rinato era in su l'armi, ma
vedutolo spento e privo in tutto del Regno, non gli piaceva che il
Conte fusse de' suoi stati spogliato e per ciò, non solamente
consentì agli aiuti del Conte, ma scrisse ad Alfonso che
fusse contento di tornarsi nel Regno e non gli fare più
guerra. E benché da Alfonso questo fusse fatto mal
volentieri, non di meno, per gli oblighi aveva con il Duca,
deliberò sodisfargli, e si tirò con le genti di
là dal Tronto.
6
Mentre che in Romagna le cose secondo questo ordine si
travagliavano, non stettono i Fiorentini quieti infra loro. Era in
Firenze, intra i cittadini reputati nel governo, Neri di Gino
Capponi, della cui reputazione Cosimo de' Medici più che di
alcuno altro temeva, perché al credito grande che gli aveva
nella città, quello che gli aveva con i soldati si
aggiugneva; perché, essendo stato molte volte capo degli
eserciti fiorentini, se li aveva, con la virtù e con i meriti
guadagnati. Oltre a di questo, la memoria delle vittorie che da lui
e da Gino suo padre si ricognoscevano (avendo questo espugnata Pisa,
e quello vinto Niccolò Piccino ad Anghiari) lo faceva amare
da molti e temere da quelli che desideravono non avere nel governo
compagnia Intra molti altri capi dello esercito fiorentino era
Baldaccio di Anghiari, uomo in guerra eccellentissimo, perché
in quelli tempi non era alcuno, in Italia, che di virtù di
corpo e d'animo lo superassi; e aveva intra le fanterie,
perché di quelle sempre era stato capo, tanta reputazione che
ogni uomo existimava che con quello in ogni impresa e a ogni sua
volontà converrebbono. Era Baldaccio amicissimo a Neri, come
quello che per le sue virtù, delle quali era sempre stato
testimone, lo amava; il che arrecava agli altri cittadini sospetto
grandissimo. E giudicando che fussi il lasciarlo pericoloso e il
tenerlo pericolosissimo, deliberorono di spegnerlo. Al quale loro
pensiero fu in questo la fortuna favorevole: era gonfaloniere di
giustizia messer Bartolomeo Orlandini: costui, sendo mandato alla
guardia di Marradi quando, come di sopra dicemmo, Niccolò
Piccino passò in Toscana, vilmente se ne era fuggito, e aveva
abbandonato quel passo che per sua natura quasi si difendeva;
dispiacque tanta viltà a Baldaccio, e con parole ingiuriose e
con lettere fece noto il poco animo di costui: di che messer
Bartolomeo ebbe vergogna e dispiacere grande; e sommamente
desiderava vendicarsene, pensando di potere, con la morte dello
accusatore, la infamia delle sue colpe cancellare.
7
Questo desiderio di messer Bartolomeo era dagli altri cittadini
cognosciuto, tanto che, sanza molta fatica, che dovesse spegnere
quello gli persuasono e a un tratto sé della ingiuria
vendicasse e lo stato da uno uomo liberasse che bisognava o con
pericolo nutrirlo, o licenziarlo con danno. Fatta per tanto
Bartolomeo deliberazione di ammazzarlo, rinchiuse nella camera sua
molti giovani armati, ed essendo Baldaccio venuto in Piazza, dove
ciascun giorno veniva a trattare con i magistrati della sua
condotta, mandò il Gonfaloniere per lui, il quale, sanza
alcuno sospetto, ubbidì. A cui il Gonfaloniere si fece
incontro, e con seco per lo andito, lungo le camere de' Signori,
della sua condotta ragionando, dua o tre volte passeggiò. Di
poi, quando gli parve tempo, sendo pervenuto propinquo alla camera
che gli armati nascondeva, fece loro il cenno. I quali saltorono
fuora, e quello trovato solo e disarmato ammazzorono, e così
morto per la finestra che del Palagio in Dogana risponde, gittorono,
e di quivi, portatolo in Piazza, e tagliatogli il capo, per tutto il
giorno a tutto il popolo spettaculo ne feciono. Rimase di costui uno
solo figliuolo, che Annalena sua donna pochi anni davanti gli aveva
partorito, il quale non molto tempo visse. E restata Annalena priva
del figliuolo e del marito, non volle più con altro uomo
accompagnarsi; e fatto delle sue case uno munistero, con molte
nobili donne che con lei convennono si rinchiuse, dove santamente
morì e visse. La cui memoria, per il munistero creato e
nomato da lei, come al presente vive, così viverà
sempre. Questo fatto abbassò, in parte, la potenza di Neri, e
tolsegli reputazione e amici. Né bastò questo a'
cittadini, dello stato, perché, sendo già passati
dieci anni dopo il principio dello stato loro, ed essendo la
autorità della balia finita, e pigliando molti con il parlare
e con le opere più animo che non si richiedeva, giudicorono i
capi dello stato che, a non volere perdere quello, fussi necessario
ripigliarlo, dando di nuovo autorità agli amici e li nimici
battendo. E per ciò, nel 1444, creorono, per i Consigli,
nuova balia; la quale riformò gli ufici, dette
autorità a pochi di potere creare la Signoria; rinnovò
la Cancelleria delle riformazioni, privandone ser Filippo Peruzzi e
a quella preponendo uno che secondo il parere de' potenti si
governassi; prolungò il tempo de' confini a' confinati, pose
Giovanni di Simone Vespucci nelle carcere; privò degli onori
gli accoppiatori dello stato nimico, e con quelli i figliuoli di
Piero Baroncelli, tutti i Serragli, Bartolomeo Fortini, messer
Francesco Castellani e molti altri. E con questi modi a sé
renderono autorità e reputazione, e a' nimici e sospetti
tolsono l'orgoglio.
8
Fermo così e ripreso lo stato, si volsono alle cose di fuora.
Era Niccolò Piccino, come di sopra dicemmo, stato abbandonato
da il re Alfonso, e il Conte, per lo aiuto che da' Fiorentini aveva
avuto, era diventato potente; donde che quello assalì
Niccolò presso a Fermo, e quello ruppe di modo che
Niccolò, privato quasi di tutte le sue genti, con pochi si
rifuggì in Montecchio; dove si fortificò e difese
tanto che in breve tempo tutte le sue genti gli tornorono apresso, e
in tanto numero che potette facilmente difendersi dal Conte sendo
massimamente di già venuto il verno, per il quale furono
quelli capitani constretti mandare le loro genti alle stanze.
Niccolò attese tutta la vernata ad ingrossare lo esercito, e
da il Papa e da il re Alfonso fu aiutato, tanto che, venuta la
primavera, si ridussono quelli capitani alla campagna; dove, essendo
Niccolò superiore, era condotto il Conte in estrema
necessità; e sarebbe stato vinto, se da il Duca non fussino
stati a Niccolò i suoi disegni rotti. Mandò Filippo a
pregare quello che subito andassi a lui, perché gli aveva a
parlare di bocca di cose importantissime. Donde che Niccolò,
cupido di intenderle, abbandonò per uno incerto bene una
certa vittoria; e lasciato Francesco suo figliuolo capo dello
esercito, se ne andò a Milano. Il che sentendo il Conte, non
volse perdere la occasione del combattere mentre che Niccolò
era assente e venuto alla zuffa propinquo al castello di Monte Loro,
ruppe le genti di Niccolò, e Francesco prese Niccolò,
arrivato a Milano, e vedutosi aggirato da Filippo, e intesa la rotta
e la presa del figliuolo, per dolore morì. l'anno 1445, di
età di sessantaquattro anni; stato più virtuoso che
felice capitano. E di lui restorono Francesco e Iacopo, i quali
ebbono meno virtù e più cattiva fortuna del padre;
tanto che queste armi braccesche quasi che si spensero e le
sforzesche, sempre dalla fortuna aiutate, diventorono più
gloriose. Il Papa, vedendo battuto lo esercito di Niccolò e
lui morto, né sperando molto negli aiuti di Ragona,
cercò la pace con il Conte; e per il mezzo de' Fiorentini si
conchiuse. Nella quale al Papa, delle terre della Marca, Osimo
Fabriano e Ricanati restorono: tutto il restante sotto lo imperio
del Conte rimase.
9
Seguita la pace nella Marca, sarebbe tutta Italia pacificata, se dai
Bolognesi non fusse stata turbata. Erano in Bologna due potentissime
famiglie, Canneschi e Bentivogli: di questi era capo Annibale, di
quelli Batista. Avevano, per meglio potersi l'uno dell'altro fidare,
contratto intra loro parentado; ma infra gli uomini che aspirano ad
una medesima grandezza si può facilmente fare parentado, ma
non amicizia. Era Bologna in lega con i Fiorentini e Viniziani la
quale, mediante Annibale Bentivogli, dopo che ne avevono cacciato
Francesco Piccinino, era stata fatta; e sapiendo Batista quanto il
Duca desiderava avere quella città favorevole, tenne pratica
seco di ammazzare Annibale e ridurre quella città sotto le
insegne sua. Ed essendo convenuti del modo, a dì 24 di
giugno, nel 1445, assalì Batista Annibale con i suoi e quello
ammazzò; di poi, gridando il nome del Duca, corse la terra.
Erano in Bologna i commissari viniziani e fiorentini; i quali al
primo romore si ritirorono in casa; ma veduto poi come il popolo non
favoriva gli ucciditori, anzi in gran numero, ragunati con le armi
in Piazza, della morte di Annibale si dolevono, preso animo, e con
quelle genti si trovavono, si accostorono a quelli; e fatto testa,
le genti cannesche assalirono, e quelle in poco d'ora vinsono; delle
quali parte ammazzorono, parte fuora della città cacciorono.
Batista, non essendo stato a tempo a fuggire, né i nimici ad
ammazzarlo, drento alle sue case, in una tomba fatta per conservare
frumento, si nascose; e avendone i suoi nimici cerco tutto il
giorno, e sapendo come e' non era uscito della città, feciono
tanto spavento ai suoi servidori, che da uno suo ragazzo, per
timore, fu loro mostro; e tratto di quello luogo, ancora coperto
d'armi, fu prima morto, di poi per la terra strascinato e arso.
Così l'autorità del Duca fu sufficiente a farli fare
quella impresa, e la sua potenza non fu a tempo a soccorrerlo.
10
Posati adunque, per la morte di Batista e fuga de' Canneschi, questi
tumulti, restorono i Bolognesi in grandissima confusione, non vi
sendo alcuno della casa de' Bentivogli atto al governo, ed essendo
rimaso di Annibale un solo figliuolo, chiamato Giovanni, di
età di sei anni, in modo che si dubitava che intra gli amici
de' Bentivogli non nascesse divisione, la quale facessi ritornare i
Canneschi, con la rovina della patria e della parte loro. E mentre
stavano in questa suspensione di animo, Francesco che era stato
conte di Poppi, trovandosi in Bologna, fece intendere a quelli primi
della città che, se volevono essere governati da uno disceso
del sangue di Annibale, lo sapeva loro insegnare. E narrò
come, sendo, circa venti anni passati, Ercule cugino di Annibale a
Poppi, sapeva come egli ebbe cognoscenza con una giovane di quello
castello, della quale ne nacque uno figliuolo chiamato Santi, il
quale Ercule gli affermò più volte essere suo;
né pareva che potesse negarlo, perché chi cognobbe
Ercule e cognosce il giovane vede infra loro una somiglianza
grandissima. Fu da quelli cittadini prestato fede alle parole di
costui, né differirono punto a mandare a Firenze loro
cittadini a ricognoscere il giovane e operare con Cosimo e con Neri
che fusse loro concesso. Era quello che si reputava padre di Santi
morto, tanto che quel giovane sotto la custodia d'uno suo zio,
chiamato Antonio da Cascese, viveva. Era Antonio ricco, e sanza
figliuoli, e amico a Neri: per ciò intesa che fu questa cosa,
Neri giudicò che fussi né da sprezzarla né
temerariamente da accettarla, e volle che Santi, alla presenzia di
Cosimo, con quelli che da Bologna erano mandati parlasse. Convennono
costoro insieme; e Santi fu dai Bolognesi, non solamente onorato, ma
quasi adorato: tanto poteva nelli animi di quelli lo amore delle
parti. Né per allora si concluse alcuna cosa, se non che
Cosimo chiamò Santi in disparte, e sì gli disse: -
Niuno, in questo caso, ti può meglio consigliare che tu
medesimo; perché tu hai a pigliare quel partito a che l'animo
ti inclina: perché, se tu sarai figliuolo di Ercole
Bentivogli, tu ti volgerai a quelle imprese che di quella casa e di
tuo padre fieno degne; ma se tu sarai figliuolo di Agnolo da
Cascese, ti resterai in Firenze a consumare in una arte di lana
vilmente la vita tua. - Queste parole commossono il giovane; e dove
prima egli aveva quasi che negato di pigliare simile partito, disse
che si rimetteva in tutto a quello che Cosimo e Neri ne deliberassi;
tanto che, rimasi d'accordo con i mandati bolognesi, fu di veste,
cavagli e servitori onorato; e poco di poi, accompagnato da molti, a
Bologna condotto e al governo del figliuolo di Annibale e della
città posto. Dove con tanta prudenzia si governò, che,
dove i suoi maggiori erano stati tutti dai loro nimici morti, egli e
pacificamente visse e onoratissimamente morì.
11
Dopo la morte di Niccolò Piccino e la pace seguita nella
Marca, desiderava Filippo avere uno capitano il quale a' suoi
eserciti comandasse; e tenne pratiche secrete con Ciarpellone, uno
de' primi capi del conte Francesco; e fermo infra loro lo accordo,
Ciarpellone domandò licenza al Conte di andare a Milano, per
entrare in possessione di alcune castella che da Filippo gli erano
nelle passate guerre state donate. Il Conte dubitando di quello che
era, acciò che il Duca non se ne potessi contro a' suoi
disegni servire, lo fece prima sostenere e poco di poi morire,
allegando di averlo trovato in fraude contro a di lui. Di che
Filippo prese grandissimo dispiacere e sdegno, il che piacque a'
Fiorentini e a' Viniziani, come quelli che temevano assai se le armi
del Conte e la potenza di Filippo diventavano amiche. Questo sdegno
per tanto fu cagione di suscitare nuova guerra nella Marca. Era
signore di Rimino Gismondo Malatesti, il quale per essere genero del
Conte, sperava la signoria di Pesero, ma il Conte, occupata quella,
ad Alessandro suo fratello la dette, di che Gismondo sdegnò
forte. Al quale sdegno si aggiunse che Federigo di Montefeltro, suo
nimico per i favori del Conte aveva la signoria di Urbino occupata:
questo fece che Gismondo si accostò al Duca, e che
sollecitava il Papa e il Re a fare guerra al Conte. Il quale, per
fare sentire a Gismondo i primi frutti di quella guerra che
desiderava, pensò di prevenirlo, e in un tratto lo
assalì. Onde che subito si riempierono di tumulti la Romagna
e la Marca, perché Filippo, il Re e il Papa mandorono grossi
aiuti a Gismondo, e i Fiorentini e Viniziani, se non di genti, di
danari provedevono il Conte. Né bastò a Filippo la
guerra di Romagna, ché disegnò torre al Conte Cremona
e Pontremoli: ma Pontremoli da' Fiorentini, e Cremona da' Viniziani
fu difesa. In modo che in Lombardia ancora si rinnovò la
guerra: nella quale, dopo alquanti travagli seguiti nel Cremonese,
Francesco Piccinino, capitano del Duca, fu, a Casale, da Micheletto
e dalle genti de' Viniziani rotto. Per la quale vittoria i Viniziani
sperarono di potere torre lo stato al Duca; e mandorono uno loro
commissario in Cremona, e la Chiaradadda assalirono, e quella tutta,
fuori che Crema, occuporono; di poi, passato l'Adda, scorrevono per
infino a Milano, donde che il Duca ricorse ad Alfonso, e lo
pregò volesse soccorrerlo, mostrandogli i pericoli del Regno,
quando la Lombardia fusse in mano de' Viniziani. Promisse Alfonso
mandargli aiuti, i quali con difficultà, sanza consentimento
del Conte, potevono passare.
12
Per tanto Filippo ricorse con i prieghi al Conte: che non volesse
abbandonare il suocero, già vecchio e cieco. Il Conte si
teneva offeso dal Duca per avergli mosso guerra; dall'altra parte la
grandezza de' Viniziani non gli piaceva, e di già i danari
gli mancavano, e la lega lo provedeva parcamente, perché a'
Fiorentini era uscita la paura del Duca, la quale faceva loro
stimare il Conte, e i Viniziani desideravano la sua rovina, come
quelli che giudicavano lo stato di Lombardia non potere essere loro
tolto se non da il Conte. Non di meno, mentre che Filippo cercava di
tirarlo a' suoi soldi, e gli offeriva il principato di tutte le sue
genti, purché lasciasse i Viniziani e la Marca restituisse al
Papa, gli mandorono ancora loro ambasciadori, promettendogli Milano
se lo prendevano, e la perpetuità del capitaneato delle loro
genti, pure che seguisse la guerra nella Marca e impedisse che non
venissero aiuti di Alfonso in Lombardia. Erano adunque le promesse
de' Viniziani grandi, e i meriti loro grandissimi, avendo mosso
quella guerra per salvare Cremona al Conte; e dall'altra parte le
ingiurie del Duca erano fresche, e le sue promesse infedeli e
deboli. Pure non di meno stava dubio il Conte di qual partito
dovessi prendere: perché dall'uno canto l'obligo della lega,
la fede data, i meriti freschi e le promesse delle cose future lo
movevano; dall'altro i prieghi del suocero, e sopra tutto il veleno
che dubitava che sotto le grandi promesse de' Viniziani si
nascondesse; giudicando dovere stare, e delle promesse e dello
stato, qualunque volta avessero vinto, a loro discrezione; alla
quale niuno prudente principe non mai, se non per necessità,
si rimisse. Queste difficultà di risolversi al Conte furono
dalla ambizione de' Viniziani tolte via: i quali, avendo speranza di
occupare Cremona per alcune intelligenzie avieno in quella
città, sotto altro colore vi fecero appressare le loro genti.
Ma la cosa si scoprì da quelli che per il Conte la
guardavano; e riuscì il loro disegno vano; per che non
acquistorono Cremona, e il Conte perderono; il quale, posposti tutti
i rispetti, si accostò al Duca.
13
Era morto papa Eugenio, e creato per suo successore Niccola V, e il
Conte aveva già tutto lo esercito a Cutignuola per passare in
Lombardia, quando gli venne avviso Filippo essere morto, che correva
l'anno 1447, all'ultimo di agosto. Questa nuova riempié di
affanni il Conte; perché non gli pareva che le sue genti
fussero ad ordine, per non avere avuto lo intero pagamento; temeva
de' Viniziani, per essere in su l'armi e suoi nimici, avendo di
fresco lasciati quelli e accostatosi al Duca; temeva di Alfonso, suo
perpetuo nimico; non sperava nel Papa né ne' Fiorentini: in
questi, per essere collegati con i Viniziani; in quello, per essere
delle terre della Chiesa possessore. Pure deliberò di
mostrare il viso alla fortuna, e secondo gli accidenti di quella
consigliarsi; perché molte volte, operando, si scuoprono
quelli consigli che, standosi, sempre si nasconderebbono. Davagli
grande speranza il credere che, se i Milanesi dalla ambizione de'
Viniziani si volessero difendere, che non potessero ad altre armi
che alle sue rivolgersi. Onde che, fatto buono animo, passò
nel Bolognese; e passato di poi Modena e Reggio, si fermò con
le genti in su la Lenza, e a Milano mandò a offerirsi. De i
Milanesi, morto il Duca parte volevono vivere liberi, parte sotto
uno principe: di quelli che amavano il principe l'una parte voleva
il Conte l'altra il re Alfonso. Per tanto, sendo quelli che amavano
la libertà più uniti, prevalsono agli altri, e
ordinorono a loro modo una republica, la quale da molte città
del Ducato non fu ubbidita, giudicando ancora quelle potere, come
Milano, la loro libertà godere; e quelle che a quella non
aspiravano, la signoria de' Milanesi non volevono. Lodi adunque e
Piacenza si dierono a' Viniziani, Pavia e Parma si feciono libere.
Le quali confusioni sentendo il Conte, se ne andò a Cremona;
dove i suoi oratori insieme con oratori milanesi vennono, con la
conclusione che fusse capitano de' Milanesi con quelli capitoli che
ultimamente con il duca Filippo aveva fatti. A' quali aggiunsono che
Brescia fusse del Conte, e acquistandosi Verona, fusse sua quella, e
Brescia restituisse.
14
Avanti che il Duca morisse, papa Niccola, dopo la sua assunzione al
pontificato, cercò di creare pace intra i principi italiani;
e per questo operò, con gli oratori che i Fiorentini gli
mandorono nella creazione sua, che si facesse una dieta a Ferrara,
per trattare o lunga triegua o ferma pace. Convennono adunque, in
quella città, il legato del Papa, gli oratori viniziani,
ducali e fiorentini; quelli del re Alfonso non v'intervennono.
Trovavasi costui a Tiboli, con assai genti a piè e a cavallo,
e di quivi favoriva il Duca; e si crede che, poi ch'eglino ebbono
tirato da il canto loro il Conte, che volessino apertamente i
Fiorentini e i Viniziani assalire, e in quel tanto che l'indugiavano
le genti del Conte ad essere in Lombardia, intrattenere la pratica
della pace a Ferrara; dove il Re non mandò, affermando che
ratificherebbe a quanto da il Duca si concludesse. Fu la pace molti
giorni praticata; e dopo molte dispute, si concluse o una pace per
sempre o una tregua per cinque anni, quale di queste dua al Duca
piacesse; ed essendo iti gli oratori ducali a Milano per intendere
la sua volontà, lo trovorono morto. Volevono, non ostante la
sua morte, i Milanesi seguire lo accordo; ma i Viniziani non
vollono, come quelli che presono speranza grandissima di occupar
quello stato, veggendo massime che Lodi e Piacenza, subito dopo la
morte del Duca, si erano loro arrese; tale che li speravano, o per
forza o per accordo, potere in breve tempo spogliare Milano di tutto
lo stato, e quello di poi in modo opprimere, che ancora esso si
arrendesse prima che alcuno, lo suvvenisse; e tanto più si
persuasono questo, quando viddono i Fiorentini implicarsi in guerra
con il re Alfonso.
15
Era quel re a Tiboli, e volendo seguire la impresa di Toscana,
secondo che con Filippo aveva deliberato, parendogli che la guerra
che si era già mossa in Lombardia fusse per darli tempo e
commodità, desiderava avere un piè nello stato de'
Fiorentini, prima che apertamente si movesse; e per ciò tenne
trattato nella rocca di Cennina, in Valdarno di sopra, e quella
occupò. I Fiorentini, percossi da questo inopinato accidente,
e veggendo il Re mosso per venire a' loro danni, soldorono genti,
creorono i Dieci, e secondo il loro costume si preparorono alla
guerra. Era già condotto il Re con il suo esercito sopra il
Sanese, e faceva ogni suo sforzo per tirare quella città a'
suoi voleri: non di meno stierono quelli cittadini nella amicizia
de' Fiorentini fermi, e non riceverono il Re in Siena, né in
alcuna loro terra: provedevanlo bene di viveri, di che gli scusava
la impotenza loro e la gagliardia del nimico. Non parve al Re
entrare per la via del Valdarno, come prima aveva disegnato,
sì per avere riperduta Cennina, sì perché di
già i Fiorentini erano in qualche parte forniti di gente; e
si inviò verso Volterra, e molte castella nel Volterrano
occupò. Di quindi n'andò in quello di Pisa; e per li
favori che gli feciono Arrigo e Fazio de' conti della Gherardesca,
prese alcune castella, e da quelle assalì Campiglia; la quale
non possé espugnare, perché fu da' Fiorentini e dal
verno difesa. Onde che il Re lasciò, nelle terre prese,
guardie da difenderle e da potere scorrere il paese, e con il
restante dello esercito si ritirò alle stanze in nel paese di
Siena. I Fiorentini intanto, aiutati dalla stagione, con ogni studio
si providdono di gente, capi delle quali erano Federigo signore di
Urbino e Gismondo Malatesti da Rimino; e benché fra questi
fusse discordia, non di meno, per la prudenza, di Neri di Gino e di
Bernardetto de Medici commissari, si mantennono in modo uniti che si
uscì a campo sendo ancora il verno grande, e si ripresono le
terre perdute nel Pisano e le Ripomerancie nel Volterrano; e i
soldati del Re, che prima scorrevono le maremme, si frenorono di
sorte che con fatica potevono le terre loro date a guardia
mantenere. Ma venuta la primavera, i commissari feciono alto, con
tutte le loro genti, allo Spedaletto, in numero di cinquemila
cavalli e due mila fanti; e il Re ne venne con le sue, in numero di
quindicimila, propinquo a tre miglia a Campiglia. E quando si
stimava tornassi a campeggiare quella terra, si gittò a
Piombino, sperando di averlo facilmente, per essere quella terra
male provvista, e per giudicare quello acquisto a sé
utilissimo e ai Fiorentini pernizioso; per ché da quel luogo
poteva consumare con una lunga guerra i Fiorentini, potendo
provederlo per mare, e tutto il paese di Pisa perturbare. Per
ciò dispiacque a Fiorentini questo assalto; e consigliatisi
quello fusse da fare, giudicorono che, se si poteva stare con lo
esercito nelle macchie di Campiglia, che il Re sarebbe forzato
partirsi o rotto o vituperato. E per questo armarono quattro
galeazze avevono a Livorno, e con quelle messono trecento fanti in
Piombino, e posonsi alle Caldane, luogo dove con difficultà
potevono essere assaliti, perché alloggiare alle macchie, nel
piano, lo giudica vano pericoloso.
16
Aveva lo esercito fiorentino le vettovaglie dalle terre
circunstante, le quali, per essere rade e poco abitate, lo
prevedevono con difficultà; tale che lo esercito ne pativa, e
massimamente mancava di vino, perché, non vi se ne
ricogliendo e d'altronde non ne potendo avere non era possibile che
se ne avesse per ciascuno. Ma il Re, ancora che dalle genti
fiorentine fusse tenuto stretto, abbondava, da strame in fuora,
d'ogni cosa, perché era per mare di tutto proveduto. Vollono
per tanto i Fiorentini fare pruova se per mare ancora le genti loro
potessero suvvenire, e caricorono le loro galeazze di viveri; e
fattole venire, furono da sette galee del Re incontrate, e dua ne
furono prese, e dua fugate. Questa perdita fece perdere la speranza
alle genti fiorentine del rinfrescamento; onde che dugento
saccomanni o più, per mancamento massime del vino, si
fuggirono nel campo del Re; e l'altre genti mormoreggiavano,
affermando non essere per stare in luoghi caldissimi, dove non fusse
vino a l'acque fussero cattive; tanto che i commissari deliberorono
abbandonare quel luogo, e volsonsi alla recuperazione di alcune
castella che ancora restavano in mano al Re. Il quale dall'altra
parte, ancora che non patissi di viveri e fusse superiore di genti,
si vedeva mancare, per essere il suo esercito ripieno di malattie
che in quelli tempi i luoghi maremmani producono; e furono di tanta
potenza che molti ne morivano e quasi tutti erano infermi. Onde che
si mossono pratiche di accordo, per il quale il Re domandava
cinquanta mila fiorini, e che Piombino gli fusse lasciato a
discrezione. La qual cosa consultata a Firenze, molti, desiderosi
della pace, l'accettavano, affermando non sapere come si potesse
sperare di vincere una guerra che a sostenerla tante spese fussero
necessarie, ma Neri Capponi, andato a Firenze, in modo con le
ragioni la sconfortò, che tutti i cittadini d'accordo a non
la accettare convennono, e il signore di Piombino per loro
raccomandato accettorono, e a tempo di pace e di guerra di
suvvenirlo promissono, purché non si abbandonasse, e si
volesse, come infino allora aveva fatto, difendere. Intesa il Re
questa deliberazione, e veduto, per lo infermo suo esercito, di non
potere acquistare la terra si levò quasi che rotto da campo;
dove lasciò più che dumila uomini morti; e con il
restante dello infermo esercito si ritirò nel paese di Siena,
e di quindi nel Regno, tutto sdegnato contro a' Fiorentini,
minacciandoli, a tempo nuovo, di nuova guerra.
17
Mentre che queste cose in Toscana in simil modo si travagliavano, il
conte Francesco, in Lombardia, sendo diventato capitano de'
Milanesi, prima che ogni altra cosa si fece amico Francesco
Piccinino, il quale per li Milanesi militava, acciò che nelle
sue imprese lo favorisse, o con più rispetto lo ingiuriasse.
Ridussesi adunque con lo esercito suo in campagna, onde che quelli
di Pavia giudicorono non si potere dalle sue forze difendere, e non
volendo dall'altra parte ubbidire a' Milanesi, gli offersono la
terra con queste condizioni che non li mettessi sotto lo imperio di
Milano. Desiderava il Conte la possessione di quella città,
parendogli uno gagliardo principio a potere colorire i disegni suoi,
né lo riteneva il timore o la vergogna del rompere la fede,
perché gli uomini grandi chiamono vergogna il perdere, non
con inganno acquistare; ma dubitava, pigliandola, non fare sdegnare
i Milanesi in modo che si dessero a' Viniziani; e non la pigliando,
temeva del duca di Savoia, al quale molti cittadini si volevono
dare, e nell'uno caso e nell'altro gli pareva essere privo dello
imperio di Lombardia. Pure non di meno, pensando che fusse minor
pericolo nel prendere quella città che nel lasciarla prendere
ad uno altro deliberò di accettarla, persuadendosi potere
acquietare i Milanesi. A' quali fece intendere ne' pericoli
s'incorreva quando non avessi accettata Pavia, perché quelli
cittadini si sarebbono dati o a' Viniziani o al Duca, e nell'uno e
nell'altro caso lo stato loro era perduto; e come ei dovevono
più contentarsi di avere lui per vicino amico, che uno
potente, quale era qualunque di quelli, e nimico. I Milanesi si
turborono assai del caso, parendo loro avere scoperta l'ambizione
del Conte e il fine a che egli andava; ma giudicorono non potere
scoprirsi, perché non vedevono, partendosi dal Conte, dove si
volgere altrove che a' Viniziani, de' quali la superbia e le gravi
condizioni temevano; e per ciò deliberorono non si spiccare
dal Conte, e per allora rimediare con quello ai mali che
soprastavano loro, sperando che, liberati da quelli, si potrebbono
ancora liberare da lui; perché, non solamente da' Viniziani,
ma ancora dai Genovesi e duca di Savoia, in nome di Carlo d'Orliens,
nato d'una sorella di Filippo, erano assaliti. Il quale assalto il
Conte con poca fatica oppresse. Solo adunque gli restorono nimici i
Viniziani, i quali con uno potente esercito volevono occupare quello
stato, e tenevano Lodi e Piacenza, alla quale il Conte pose il
campo, e quella, dopo una lunga fatica, prese e saccheggiò.
Di poi, perché ne era venuto il verno, ridusse le sue genti
nelli alloggiamenti, ed egli se ne andò a Cremona, dove tutta
la vernata con la moglie si riposò.
18
Ma venuta la primavera, uscirono gli eserciti viniziani e milanesi
alla campagna. Desideravano i Milanesi acquistare Lodi, e di poi
fare accordo con i Viniziani, perché le spese della guerra
erano loro rincresciute e la fede del capitano era loro sospetta;
tal che sommamente desideravano la pace, per riposarsi e per
assicurarsi del Conte. Deliberorono per tanto che il loro esercito
andassi allo acquisto di Caravaggio, sperando che Lodi si arrendesse
qualunque volta quel castello fusse tratto delle mani del nimico. Il
Conte ubbidì a' Milanesi, ancora che l'animo suo fussi
passare l'Adda e assalire il Bresciano. Posto dunque lo assedio a
Caravaggio, con fossi e altri ripari si affortificò,
acciò che, se i Viniziani volessero levarlo da campo, con
loro disavvantaggio lo avessero ad assalire. I Viniziani dall'altra
parte vennono con il loro esercito, sotto Micheletto loro capitano,
propinqui a duoi tiri d'arco al campo del Conte; dove più
giorni dimororono, e feciono molte zuffe. Non di meno il Conte
seguiva di strignere il castello, e lo aveva condotto in termine che
conveniva si arrendesse, la quale cosa dispiaceva ad i Viniziani,
parendo loro, con la perdita di quello, avere perduta la impresa. Fu
per tanto intra i loro capitani grandissima disputa del modo del
soccorrerlo; né si vedeva altra via che andare dentro ai suoi
ripari a trovare il nimico; dove era disavvantaggio grandissimo; ma
tanto stimorono la perdita di quel castello che il Senato veneto,
naturalmente timido e discosto da qualunque partito dubio e
pericoloso, volle più tosto, per non perdere quello, porre in
pericolo il tutto, che, con la perdita di esso, perdere la impresa.
Feciono adunque deliberazione di assalire in qualunque modo il
Conte; e levatisi una mattina di buona ora in arme, da quella parte
che era meno guardata lo assalirono, e nel primo impeto, come
interviene nelli assalti che non si aspettono, tutto lo esercito
sforzesco perturborono. Ma subito fu ogni disordine da il Conte in
modo riparato, che i nimici, dopo molti sforzi fatti per superare
gli argini, furono, non solamente ributtati, ma in modo fugati e
rotti, che di tutto lo esercito, dove erano meglio che dodici mila
cavagli, non se ne salvorono mille, e tutte loro robe e carriaggi
furono predati; né mai fino a quel dì fu ricevuta dai
Viniziani la maggiore e più spaventevole rovina. E intra la
preda e i presi fu trovato... proveditore viniziano, il quale,
avanti alla zuffa e nel maneggiare la guerra, aveva parlato
vituperosamente del Conte, chiamando quello bastardo e vile, di modo
che, trovandosi dopo la rotta prigione, e de' suoi falli
ricordandosi, dubitando non essere secondo i suoi meriti premiato,
arrivato avanti al Conte, tutto timido e spaventato, secondo la
natura degli uomini superbi e vili, la quale è nelle
prosperità essere insolenti e nelle avversità abietti
e umili, gittatosi lagrimando ginocchione, gli chiese delle ingiurie
contro a quello usate perdono. Levollo il Conte; e presolo per il
braccio gli fece buono animo, e confortollo a sperare bene. Poi gli
disse che si maravigliava che uno uomo di quella prudenza e
gravità che voleva essere tenuto egli fusse caduto in tanto
errore di parlare sì vilmente di coloro che non lo
meritavano; e quanto apparteneva alle cose che quello gli aveva
rimproverate, che non sapeva quello che Sforza suo padre si avesse
con madonna Lucia sua madre operato, perché non vi era e non
aveva potuto a' loro modi del congiugnersi provedere, talmente che
di quello che si facessero e' non credeva poterne biasimo o lode
riportare; ma che sapeva bene che di quello aveva avuto ad operare
egli, si era governato in modo che niuno lo poteva riprendere; di
che egli e il suo Senato ne potevono fare fresca e vera
testimonianza. Confortollo a essere per lo avvenire più
modesto nel parlare d'altrui e più cauto nelle imprese sue.
19
Dopo questa vittoria, il Conte, con il suo vincitore esercito,
passò nel Bresciano, e tutto quello contado occupò; e
di poi pose il campo propinquo a dua miglia a Brescia. I Viniziani
dall'altra parte, ricevuta la rotta, temendo, come seguì, che
Brescia non fusse la prima percossa, l'avevano di quella guardia che
meglio e più presto avevono potuta trovare proveduta; e di
poi con ogni diligenzia ragunorono forze, e ridussono insieme quelle
reliquie che del loro esercito posserono avere, e a' Fiorentini per
virtù della loro lega domandorono aiuti: i quali,
perché erano liberi dalla guerra del re Alfonso, mandorono in
aiuto di quelli mille fanti e dumila cavagli. I Viniziani, con
queste forze, ebbono tempo a pensare agli accordi. Fu, un tempo,
cosa quasi che fatale alla republica viniziana perdere nella guerra
e nelli accordi vincere; e quelle cose che nella guerra perdevano,
la pace di poi molte volte duplicatamente loro rendeva. Sapevano i
Viniziani come i Milanesi dubitavano del Conte, e come il Conte
desiderava non essere capitano, ma signore de' Milanesi, e come in
loro arbitrio era fare pace con uno de' duoi, desiderandola l'uno
per ambizione, l'altro per paura, ed elessono di farla con il Conte,
e di offerirgli aiuti a quello acquisto. E si persuasono che, come i
Milanesi si vedessino ingannati dal Conte vorrieno, mossi dallo
sdegno, sottoporsi prima a qualunque altro che a lui; e conducendosi
in termine che per loro medesimi non si potessino difendere
né più del Conte fidarsi, sarieno forzati, non avendo
dove gittarsi, di cadere loro in grembo. Preso questo consiglio,
tentorono lo animo del Conte; e lo trovorono alla pace
dispostissimo, come quello che desiderava che la vittoria avuta a
Caravaggio fusse sua e non de' Milanesi. Fermorono per tanto uno
accordo, nel quale i Viniziani si obligorono pagare al Conte, tanto
che gli differisse ad acquistare Milano, tredici mila fiorini per
ciascuno mese, e di più, durante quella guerra, di
quattromila cavagli e dumila fanti suvvenirlo; e il Conte dall'altra
parte si obligò restituire a' Viniziani terre, prigioni e
qualunque altra cosa stata da lui in quella guerra occupata, ed
essere solamente contento a quelle terre le quali il duca Filippo
alla sua morte possedeva.
20
Questo accordo, come fu saputo a Milano, contristò molto
più quella città che non aveva la vittoria di
Caravaggio rallegrata. Dolevonsi i principi, rammaricavansi i
popolari, piangevano le donne e i fanciulli e tutti insieme il Conte
traditore e disleale chiamavano; e benché quelli non
credessino né con prieghi né con promesse dal suo
ingrato proponimento rivocarlo, gli mandorono imbasciadori, per
vedere con che viso e con quali parole questa sua sceleratezza
accompagnasse. Venuti per tanto davanti al Conte, uno di quelli
parlò in questa sentenza: - Sogliono coloro i quali alcuna
cosa da alcuno impetrare desiderano, con i prieghi, premii o minacce
assalirlo, acciò, mosso o dalla misericordia o dall'utile o
dalla paura, a fare quanto da loro si desidera condescenda. Ma negli
uomini crudeli e avarissimi, e secondo la opinione loro potenti, non
vi avendo quelli tre modi luogo alcuno, indarno si affaticono coloro
che credono o con i prieghi umiliarli o con i premii guadagnarli, o
con le minacce sbigottirli. Noi per tanto, conoscendo al presente,
benché tardi, la crudeltà, l'ambizione e superbia tua,
veniamo a te, non per volere impetrare alcuna cosa, né per
credere di ottenerla quando bene noi la domandassimo, ma per
ricordarti i benefizi che tu hai dal popolo milanese ricevuti, e
dimostrarti con quanta ingratitudine tu li hai ricompensati,
acciò che almeno, infra tanti mali che noi sentiamo, si gusti
qualche piacere per rimproverarteli. E' ti debbe ricordare benissimo
quali erano le condizioni tue dopo la morte del duca Filippo: tu eri
del Papa e del Re inimico; tu avevi abbandonati i Fiorentini e
Viniziani, de' quali, e per il giusto e fresco sdegno, e per non
avere quelli più bisogno di te, eri quasi che nimico
divenuto; trovaviti stracco della guerra avevi avuta con la Chiesa,
con poca gente, sanza amici, sanza danari e privo d'ogni speranza di
potere mantenere gli stati tuoi e l'antica tua riputazione. Dalle
quali cose facilmente cadevi, se non fusse stata la nostra
semplicità: perché noi soli ti ricevemmo in casa,
mossi dalla reverenzia avavamo alla felice memoria del Duca nostro;
con il quale avendo tu parentado e nuova amicizia, credavamo che ne'
suoi eredi passasse lo amore tuo e che se a' benifici suoi si
aggiugnessino i nostri, dovesse questa amicizia, non solamente
essere ferma, ma inseparabile; e per ciò alle antiche
convenzioni Verona o Brescia aggiugnemmo. Che più potavamo
noi darti e prometterti? E tu che potevi, non dico da noi, ma in
quelli tempi da ciascuno, non dico avere, ma desiderare? Tu per
tanto ricevesti da noi uno insperato bene; e noi, per ricompenso,
riceviamo da te uno insperato male. Né hai differito infino
ad ora a dimostrarci lo iniquo animo tuo; perché non prima
fusti delle nostre armi principe, che, contro ad ogni giustizia,
ricevesti Pavia; il che ne doveva ammunire quale doveva essere il
fine di questa tua amicizia. La quale ingiuria noi sopportammo,
pensando che quello acquisto dovessi empiere con la grandezza sua
l'ambizione tua. Ahimè! che a coloro che desiderano il tutto
non puote la parte sodisfare. Tu promettesti che noi gli acquisti di
poi da te fatti godessimo, perché sapevi bene come quello che
in molte volte ci davi ci potevi in un tratto ritorre; come è
stato dopo la vittoria di Caravaggio; la quale, preparata prima con
il sangue e con i danari nostri, poi fu con la nostra rovina
conseguita. O infelice quelle città che hanno contro alla
ambizione di chi le vuole opprimere a difendere la libertà
loro; ma molto più infelice quelle che sono con le armi
mercennarie e infedeli, come le tue, necessitate a difendersi!
Vaglia almeno questo nostro esemplo a' posteri, poi che quello di
Tebe e di Filippo di Macedonia non è valuto a noi: il quale,
dopo la vittoria avuta de' nimici, prima diventò, di
capitano, loro nimico, e di poi principe. Non possiamo per tanto
essere d'altra colpa accusati, se non di avere confidato assai in
quello in cui noi dovavamo confidare poco; perché la tua
passata vita, lo animo tuo vasto, non contento mai di alcuno grado o
stato, ci doveva ammunire; né dovavamo porre speranza in
colui che aveva tradito il signore di Lucca, taglieggiato i
Fiorentini e Vinizani, stimato poco il Duca, vilipeso un Re, e sopra
tutto Iddio e la Chiesa sua con tante ingiurie perseguitata;
né dovavamo mai credere che tanti principi fussero, nel petto
di Francesco Sforza, di minore autorità che i Milanesi, e che
si avessi ad osservare quella fede in noi, che si era negli altri
più volte violata. Non di meno questa poca prudenza che ci
accusa non scusa la perfidia tua, né purga quella infamia che
le nostre giuste querele per tutto il mondo ti partoriranno,
né farà che il giusto stimolo della tua conscienza non
ti perseguiti, quando quelle armi, state da noi preparate per
offendere e sbigottire altri, verranno a ferire e ingiuriare noi;
perché tu medesimo ti giudicherai degno di quella pena che i
parricidi hanno meritata. E quando pure l'ambizione ti accecassi, il
mondo tutto, testimone della iniquità tua, ti farà
aprire gli occhi; faratteli aprire Iddio, se i pergiurii, se la
violata fede, se i tradimenti gli dispiacciono, e se sempre, come in
fino ad ora per qualche occulto bene ha fatto, ei non vorrà
essere de' malvagi uomini amico. Non ti promettere adunque la
vittoria certa, perché la ti fia dalla giusta ira di Dio
impedita; e noi siamo disposti con la morte perdere la
libertà nostra, la quale quando pure non potessimo difendere,
ad ogni altro principe, prima che a te, la sottoporremo; e se pure i
peccati nostri fussino tali che contro ad ogni nostra voglia ti
venissimo in mano, abbi ferma fede che quel regno che sarà da
te cominciato con inganno e infamia finirà, in te o ne' tuoi
figliuoli, con vituperio e danno.
21
Il Conte, ancora che da ogni parte si sentisse da' Milanesi morso,
sanza dimostrare o con le parole o con i gesti alcuna estraordinaria
alterazione, rispose che era contento donare agli loro adirati animi
la grave ingiuria delle loro poco savie parole; alle quali
risponderebbe particularmente, se fusse davanti ad alcuno che delle
loro differenze dovesse essere giudice, perché si vedrebbe
lui non avere ingiuriati i Milanesi, ma provedutosi che non
potessero iniuriare lui. Perché sapevono bene come dopo la
vittoria di Carafaggio si erano governati; perché, in scambio
di premiarlo di Verona o Brescia, cercavano di fare pace con i
Viniziani, acciò che solo apresso di lui restassero i carichi
della inimicizia e apresso di loro i frutti della vittoria, con il
grado della pace e tutto l'utile che si era tratto della guerra. In
modo che eglino non si potevono dolere, se li aveva fatto quello
accordo che eglino prima avevano tentato di fare; il qual partito se
alquanto differiva a prendere, arebbe al presente a rimproverare a
loro quella ingratitudine la quale ora eglino gli rimproverano. Il
che se fusse vero o no, lo dimosterrebbe, con il fine di quella
guerra, quello Iddio ch'eglino chiamavano per vendicatore delle loro
ingiurie; mediante il quale vedranno quale di loro sarà
più suo amico, e quale con maggiore giustizia arà
combattuto. Partitisi gli ambasciadori, il Conte si ordinò a
potere assaltare i milanesi, e questi si preparorono alla difesa; e
con Francesco e Iacopo Piccinino, i quali per lo antico odio avieno
i Bracceschi con li Sforzeschi erano stati a' Milanesi fedeli,
pensorono di difendere la loro libertà infino a tanto, almeno
che potessero smembrare i Viniziani da il Conte, i quali non
credevono dovessino esserli fedeli né amici lungamente.
Dall'altra parte il Conte, che questo medesimo cognosceva,
pensò che fusse savio partito, quando giudicava che l'obligo
non bastasse, tenerli fermi con il premio. E per ciò, nel
distribuire le imprese della guerra, fu contento che i Viniziani
assalissero Crema, ed egli con l'altra gente assalirebbe il restante
di quello stato. Questo pasto messo davanti ai Viniziani fu cagione
ch'eglino durorono tanto nella amicizia del Conte, che il Conte
aveva già occupato tutto il dominio a' Milanesi, e in modo
ristrettili alla terra, che non potevono di alcuna cosa necessaria
provedersi; tanto che, disperati d'ogni altro aiuto, mandorono
oratori a Vinegia a pregarli che avessero compassione alle cose
loro; e fussino contenti, secondo che debbe essere il costume delle
republiche, favorire la loro libertà, non uno tiranno, il
quale, se gli riesce insignorirsi di quella città, non
potranno a loro posta frenare. Né credino che gli stia
contento a' termini ne' capituli posti, ché vorrà i
termini antichi di quello stato ricognoscere. Non si erano ancora i
Viniziani insignoriti di Crema, e volendo, prima che cambiassino
volto, insignorirsene, risposono publicamente, non potere, per lo
accordo fatto con il Conte, suvvenirli; ma in privato gli
intrattennono in modo che, sperando nello accordo, poterono a' loro
Signori darne una ferma speranza.
22
Era già il Conte con le sue genti tanto propinquo a Milano
che combatteva i borghi, quando a' Viniziani, avuta Crema non parve
da differire di fare amicizia con i Milanesi con i quali si
accordorono, e intra' primi capituli promissono al tutto la difesa
alla loro libertà. Fatto lo accordo, commissono alle genti
loro avieno presso al Conte che partitesi de' suoi campi, nel
Viniziano si ritirassero. Significorono ancora al Conte la pace
fatta co' Milanesi, e gli dierono venti giorni di tempo ad
accettarla. Non si maravigliò il Conte del partito preso dai
Viniziani, perché molto tempo innanzi lo aveva preveduto, e
temeva che ogni giorno potesse accadere; non di meno non potette
fare che, venuto il caso, non se ne dolesse e quel dispiacere
sentisse che avevano i Milanesi, quando egli gli aveva abbandonati,
sentito. Prese tempo dagli ambasciadori, che da Vinegia erano stati
mandati a significargli lo accordo, duoi giorni a rispondere; fra il
quale tempo deliberò di intrattenere i Viniziani e non
abbandonare la impresa. E per ciò publicamente disse di
volere accettare la pace, e mandò suoi ambasciadori a
Vinegia, con amplo mandato, a ratificarla; ma da parte commisse loro
che in alcuno modo non la ratificassero, ma con varie invenzioni e
gavillazioni la conclusione differissero. E per fare a' Viniziani
più credere che dicessi da vero fece triegua con i Milanesi
per uno mese e discostossi da Milano, e divise le sue genti per gli
alloggiamenti ne' luoghi che allo intorno aveva occupati. Questo
partito fu cagione della vittoria sua e della rovina de' Milanesi,
perché i Viniziani, confidando nella pace, furono più
lenti alle provisioni della guerra, e i Milanesi, veggendo la tregua
fatta, e il nimico discostatosi, e i Viniziani amici crederono al
tutto che il Conte fusse per abbandonare la impresa. La quale
opinione in duoi modi li offese: l'uno ch'eglino straccurorono gli
ordini delle difese loro; l'altro, che nel paese libero dal nimico,
perché il tempo della semente era, assai grano seminorono,
donde nacque che più tosto il Conte li potette affamare. Al
Conte dall'altra parte tutte quelle cose giovorono che i nimici
offesono; e di più quel tempo gli dette commodità a
potere respirare e provedersi di aiuti.
23
Non si erano in questa guerra di Lombardia, i Fiorentini declarati
per alcuna delle parti, né avieno dato alcuno favore al
Conte, né quando egli difendeva i Milanesi né poi;
perché il Conte non ne avendo avuto di bisogno non ne gli
aveva con instanzia ricerchi, solamente avieno, dopo la rotta di
Carafaggio, per virtù delli obblighi della lega, mandato
aiuti a' Viniziani. Ma sendo rimaso il conte Francesco solo, non
avendo dove ricorrere, fu necessitato chiedere instantemente aiuto
a' Fiorentini, e publicamente allo stato, e privatamente agli amici,
e massimamente a Cosimo de' Medici, con il quale aveva sempre tenuta
una continua amicizia, ed era sempre stato da quello in ogni sua
impresa fedelmente consigliato e largamente suvvenuto. Né in
questa tanta necessità Cosimo lo abbandonò, ma come
privato copiosamente lo suvvenne, e gli dette animo a seguire la
impresa: desiderava ancora che la città publicamente lo
aiutasse, dove si trovava difficultà. Era in Firenze Neri di
Gino Capponi potentissimo. A costui non pareva che fusse a benefizio
della città che il Conte occupasse Milano, e credeva che
fusse più a salute della Italia che il Conte ratificasse la
pace, che egli seguisse la guerra. In prima egli dubitava che i
Milanesi, per lo sdegno avieno contro al Conte, non si dessino al
tutto a' Viniziani; il che era la rovina di ciascuno di poi, quando
pure gli riuscisse di occupare Milano, gli pareva che tante armi e
tanto stato congiunte insieme fussero formidabili; e s'egli era
insopportabile conte, giudicava che fussi per essere uno duca
insopportabilissimo. Per tanto affermava che fusse meglio, e per la
republica di Firenze e per la Italia, che il Conte restasse con la
sua reputazione delle armi, e la Lombardia in due republiche si
dividessi, le quali mai si unirebbono alla offesa degli altri, e
ciascheduna per sé offendere non potrebbe. E a fare questo
non ci vedeva altro migliore rimedio che non suvvenire il Conte e
mantenere la lega vecchia con i Viniziani. Non erano queste ragioni
dagli amici di Cosimo accettate, perché credevano Neri
muoversi a questo, non perché così credessi essere il
bene della Republica, ma per non volere che il Conte, amico di
Cosimo, diventassi duca, parendogli che per questo Cosimo ne
diventassi troppo potente. E Cosimo ancora con ragioni mostrava lo
aiutare il Conte essere alla Republica e alla Italia utilissimo;
perché gli era opinione poco savia credere che i Milanesi si
potessero conservare liberi; perché le qualità della
cittadinanza, il modo del vivere loro, le sette antiquate in quella
città, erano ad ogni forma di civile governo contrarie;
talmente che gli era necessario o che il Conte ne diventasse duca, o
e Viniziani signori; e in tale partito niuno era sì sciocco
che dubitassi qual fussi meglio, o avere uno amico potente vicino, o
avervi uno nimico potentissimo. Né credeva che fusse da
dubitare che i Milanesi, per avere guerra con il Conte, si
sottomettersi a' Viniziani; perché il Conte aveva la parte in
Milano, e non quelli; talché qualunque volta e' non potranno
difendersi come liberi, sempre più tosto al Conte che a'
Viniziani si sottometteranno. Queste diversità di opinioni
tennono assai sospesa la città, e alla fine deliberorono che
si mandasse imbasciadori al Conte per trattare il modo dello
accordo; e se trovassino il Conte gagliardo da potere sperare che e'
vincesse, concluderlo, quanto che no, gavillarlo e differirlo.
24
Erano questi ambasciadori a Reggio, quando eglino intesono il Conte
essere diventato signore di Milano. Perché il Conte, passato
il tempo della tregua, si ristrinse con le sue genti a quella
città, sperando in brieve, a dispetto de' Viniziani,
occuparla; perché quelli non la potevano soccorrere se non
dalla parte dell'Adda, il quale passo facilmente poteva chiudere; e
non temeva, per essere la vernata, che i Viniziani gli
campeggiassino apresso; e sperava, prima che il verno passasse,
avere la vittoria, massimamente sendo morto Francesco Piccinino, e
restato solo Iacopo suo fratello capo de' Milanesi. Avevano i
Viniziani mandato uno loro oratore a Milano, a confortare quelli
cittadini, che fussino pronti a difendersi, promettendo loro grande
e presto soccorso. Seguirono adunque, durante il verno, intra i
Viniziani e il Conte, alcune leggieri zuffe; ma fattosi il tempo
più benigno, i Viniziani, sotto Pandolfo Malatesti, si
fermorono con il loro esercito sopra l'Adda. Dove, consigliatisi se
dovevono, per soccorrere Milano, assalire il Conte e tentare la
fortuna della zuffa, Pandolfo loro capitano giudicò che e'
non fusse da farne questa esperienza, conoscendo la virtù del
Conte e del suo esercito. E credeva che si potesse, sanza
combattere, vincere al sicuro, perché il Conte da il disagio
delli strami e del frumento era cacciato. Consigliò per tanto
che si conservasse quello alloggiamento, per dare speranza a'
Milanesi di soccorso, acciò che, disperati, non si dessino al
Conte. Questo partito fu approvato da' Viniziani, sì per
giudicarlo sicuro, sì ancora perché avevono speranza
che, tenendo i Milanesi in quella necessità, sarebbono
forzati rimettersi sotto il loro imperio; persuadendosi che mai non
fussino per darsi al Conte, considerate le ingiurie avieno ricevute
da lui. Intanto i Milanesi erano condotti quasi che in estrema
miseria; e abbondando quella città naturalmente di poveri, si
morivano per le strade di fame; donde ne nascevano romori e pianti
in diversi luoghi della città; di che i magistrati temevano
forte, e facevano ogni diligenzia perché genti non si
adunassero insieme. Indugia assai la moltitudine tutta a disporsi al
male; ma quando vi è disposta ogni piccolo accidente la
muove. Duoi adunque, di non molta condizione, ragionando, propinqui
a Porta Nuova, della calamità della città e miseria
loro, e che modi vi fussero per la salute, si cominciò ad
accostare loro delli altri, tanto che diventorono buono numero:
donde che si sparse per Milano voce, quelli di Porta Nuova essere
contro a' magistrati in arme. Per la qual cosa tutta la moltitudine,
la quale non aspettava altro che essere mossa, fu in arme; e feciono
capo di loro Gasparre da Vicomercato, e ne andorono al luogo dove i
magistrati erano ragunati. Nei quali feciono tale impeto che tutti
quelli che non si poterono fuggire uccisono; intra' quali Lionardo
Venero, ambasciadore viniziano, come cagione della loro fame, e
della loro miseria allegro, ammazzorono. E così, quasi che
principi della città diventati, infra loro preposono quello
si avesse a fare, a volere uscire di tanti affanni e qualche volta
riposarsi. E ciascuno giudicava che convenisse rifuggire, poi che la
libertà non si poteva conservare, sotto uno principe che gli
difendessi: e chi il re Alfonso, chi il duca di Savoia, chi il re di
Francia voleva per suo signore chiamare. Del Conte non era alcuno
che ragionasse: tanto erano ancora potenti gli sdegni avevano seco.
Non di meno, non si accordando degli altri, Gasparre da Vicomercato
fu il primo che nominò il Conte; e largamente mostrò
come, volendosi levare la guerra da dosso, non ci era altro modo che
chiamare quello; perché il popolo di Milano aveva bisogno di
una certa e presente pace, non d'una speranza lunga d'uno futuro
soccorso. Scusò con le parole le imprese del Conte;
accusò i Viniziani; accusò tutti gli altri principi di
Italia, che non aveno voluto, chi per ambizione, chi per avarizia,
che vivessino liberi. E da poi che la loro libertà si aveva a
dare, si desse ad uno che li sapesse e potesse difendere;
acciò che almeno dalla servitù nascesse la pace, e non
maggiori danni e più pericolosa guerra. Fu costui con
maravigliosa attenzione ascoltato; e tutti, finito il suo parlare,
gridorono che il Conte si chiamasse, e Gasparre feciono ambasciadore
a chiamarlo. Il quale, per comandamento del popolo, andò a
trovare il Conte, e gli portò sì lieta e felice
novella. La quale il Conte accettò lietamente, ed entrato in
Milano come principe, a' 26 di febbraio, nel 1450, fu con somma e
maravigliosa letizia ricevuto da coloro che non molto tempo innanzi
lo avieno con tanto odio infamato.
25
Venuta la nuova di questo acquisto a Firenze, si ordinò agli
oratori fiorentini che erano in cammino che, in cambio di andare a
trattare accordo con il Conte, si rallegrassino con il Duca della
vittoria. Furono questi oratori da il Duca ricevuti onorevolmente e
copiosamente onorati, perché sapeva bene che contro alla
potenza de' Viniziani non poteva avere in Italia più fedeli
né più gagliardi amici de' Fiorentini; i quali, avendo
deposto il timore della casa de' Visconti, si vedeva che avevono a
combattere con le forze de' Ragonesi e Viniziani; perché i
Ragonesi re di Napoli erano loro nimici per la amicizia che sapevano
che il popolo fiorentino aveva sempre con la casa di Francia tenuta
e i Viniziani cognoscevano che l'antica paura de' Visconti era nuova
di loro, e perché sapevono con quanto studio eglino avevono i
Visconti perseguitati, temendo le medesime persecuzioni, cercavano
la rovina di quelli. Queste cose furono cagione che il nuovo Duca
facilmente si ristrignesse con i Fiorentini, e che i Viniziani e re
Alfonso si accordassero contro a' comuni nimici: e si obligorono in
uno medesimo tempo a muovere le armi; e che il Re assalisse i
Fiorentini e i Viniziani il Duca, il quale, per essere nuovo nello
stato, credevono né con le forze proprie né con gli
aiuti d'altri potesse sostenerli. Ma perché la lega tra i
Fiorentini e Viniziani durava, e il Re, dopo la guerra di Piombino,
aveva fatto pace con quelli, non parve loro da rompere la pace, se
prima con qualche colore non si giustificasse la guerra. E per
ciò l'uno e l'altro mandò ambasciadore a Firenze; i
quali per parte de' loro signori feciono intendere la lega fatta
essere, non per offendere alcuno, ma per difendere gli stati loro.
Dolfesi di poi il Viniziano che i Fiorentini avevono dato passo per
Lunigiana ad Alessandro fratello del Duca che con genti passasse in
Lombardia e di più erano stati aiutatori e consigliatori
dello accordo fatto intra il Duca e il marchese di Mantova. Le quali
cose tutte affermavano essere contrarie allo stato loro e alla
amicizia avieno insieme e per ciò ricordavano loro
amorevolmente che chi offende a torto dà cagione ad altri di
essere offeso a ragione, e che chi rompe la pace aspetti la guerra.
Fu commessa dalla Signoria la risposta a Cosimo; il quale, con lunga
e savia orazione, riandò tutti i beneficii fatti dalla
città sua alla republica viniziana; mostrò quanto
imperio quella aveva, con i danari, con le genti e con il consiglio
de' Fiorentini, acquistato; e ricordò loro che, poi che da i
Fiorentini era venuta la cagione della amicizia, non mai verrebbe la
cagione della nimicizia; ed essendo stati sempre amatori della pace,
lodavano assai lo accordo fatto infra loro, quando per pace, e non
per guerra, fusse fatto. Vero era che delle querele fatte assai si
maravigliava, veggendo che di sì leggieri cosa e vana da una
tanta republica si teneva tanto conto; ma quando pure fussero degne
di essere considerate, facevono a ciascuno intendere come e'
volevono che il paese loro fusse libero e aperto a qualunque, e che
il Duca era di qualità che per fare amicizia con Mantova non
aveva né de' favori né de' consigli loro bisogno. E
per ciò dubitava che queste querele non avessero altro veleno
nascosto che le non dimostravano, il che quando fusse, farebbono
cognoscere a ciascuno facilmente l'amicizia de' Fiorentini quanto la
è utile, tanto essere la nimicizia dannosa.
26
Passò per allora la cosa leggiermente, e parve che gli
oratori se ne andassero assai sodisfatti. Non di meno la lega fatta
e i modi de' Viniziani e del Re facevono più tosto temere i
Fiorentini e il Duca di nuova guerra, che sperare ferma pace. Per
tanto i Fiorentini si collegorono con il Duca; e intanto si scoperse
il malo animo de' Viniziani, perché feciono lega con i
Sanesi, e cacciorono tutti i Fiorentini e loro sudditi della
città e imperio loro. E poco appresso Alfonso fece il
simigliante, e sanza avere alla pace l'anno davanti fatta alcuno
rispetto, e sanza averne, non che giusta, ma colorita cagione.
Cercorono i Viniziani di acquistarsi i Bolognesi, e fatti forti i
fuori usciti, gli missono con assai gente, di notte, per le fogne,
in Bologna; né prima si seppe la entrata loro, che loro
medesimi levassero il romore. Al quale Santi Bentivogli sendosi
desto, intese come tutta la città era da' ribelli occupata; e
benché fusse consigliato da molti che con la fuga salvasse la
vita, poi che con lo stare non poteva salvare lo stato, non di meno
volle mostrare alla fortuna il viso; e prese le armi, e dette animo
a' suoi, e fatto testa di alcuni amici, assalì parte de'
ribelli, e quelli rotti, molti ne ammazzò, e il restante
cacciò della città. Dove per ciascuno fu giudicato
avere fatto verissima pruova di essere della casa de' Bentivogli.
Queste opere e dimostrazioni feciono in Firenze ferma credenza della
futura guerra; e però si volsono i Fiorentini alle loro
antiche e consuete difese; e creorono il magistrato de' Dieci,
soldorono nuovi condottieri, mandorono oratori a Roma, a Napoli, a
Vinegia, a Milano e a Siena, per chiedere aiuti agli amici, chiarire
i sospetti, guadagnarsi i dubi e scoprire i consigli de' nimici. Dal
Papa non si ritrasse altro che parole generali, buona disposizione e
conforti alla pace; dal Re vane scuse di avere licenziati i
Fiorentini, offerendosi volere dare il salvocondotto a qualunque lo
adimandasse. E benché s'ingegnasse al tutto i consigli della
nuova guerra nascondere, non di meno gli ambasciadori cognobbono il
malo animo suo, e scopersono molte sue preparazioni per venire a'
danni della republica loro. Col Duca di nuovo con varii oblighi si
fortificò la lega; e per suo mezzo si fece amicizia con i
Genovesi, e le antiche differenzie di rappresaglie e molte altre
querele si composono, non ostante che i Viniziani cercassero per
ogni modo tale composizione turbare. Né mancorono di
supplicare allo imperadore di Gostantinopoli che dovesse cacciare la
nazione fiorentina del paese suo: con tanto odio presono questa
guerra; e tanto poteva in loro la cupidità del dominare, che
sanza alcuno rispetto volevono distruggere coloro che della loro
grandezza erano stati cagione; ma da quello imperadore non furono
intesi. Fu da il Senato viniziano alli oratori fiorentini proibito
lo entrare nello stato di quella republica, allegando che, sendo in
amicizia con il Re, non potevono, sanza sua participazione, udirli.
I Sanesi con buone parole gli ambasciadori riceverono, temendo di
non essere prima disfatti che la lega li potesse difendere, e per
ciò parve loro di addormentare quelle armi che non potevono
sostenere. Vollono i Viniziani e il Re, secondo che allora si
conietturò, per giustificare la guerra, mandare oratori a
Firenze, ma quello de' Viniziani non fu voluto intromettere nel
dominio fiorentino, e non volendo quello del Re solo fare quello
uffizio, restò quella legazione imperfetta; e i Viniziani per
questo cognobbono essere stimati meno da quelli Fiorentini che non
molti mesi innanzi avevono stimati poco.
27
Nel mezzo del timore di questi moti, Federigo III imperadore
passò in Italia per coronarsi, e a dì 30 di gennaio,
nel 1451, entrò in Firenze con mille cinquecento cavagli, e
fu da quella Signoria onoratissimamente ricevuto; e stette in quella
città infino a dì 6 di febbraio, che quello
partì per ire a Roma alla sua coronazione. Dove solennemente
coronato, e celebrate le nozze con la imperadrice, la quale per mare
era venuta a Roma, se ne ritornò nella Magna; e di maggio
passò di nuovo per Firenze, dove gli furono fatti i medesimi
onori che alla venuta sua. E nel ritornarsene, sendo stato dal
marchese di Ferrara benificato, per ristorare quello, gli concesse
Modena e Reggio. Non mancorono i Fiorentini, in questo medesimo
tempo, di prepararsi alla imminente guerra, e per dare reputazione a
loro e terrore al nimico, feciono, eglino e il Duca, lega con il re
di Francia per difesa de' comuni stati; la quale con grande
magnificenza e letizia per tutta Italia publicorono. Era venuto il
mese di maggio dell'anno 1452, quando ai Viniziani non parve da
differire più di rompere la guerra al Duca, e con sedici mila
cavagli e sei mila fanti, dalla parte di Lodi lo assalirono; e nel
medesimo tempo il marchese di Monferrato, o per sua propria
ambizione, o spinto da' Viniziani, ancora lo assalì dalla
parte di Alessandria. Il Duca dall'altra parte aveva messo insieme
diciotto mila cavalli e tre mila fanti, e avendo proveduto
Alessandria e Lodi di gente, e similmente muniti tutti i luoghi dove
i nimici lo potessino offendere, assalì con le sue genti il
Bresciano, dove fece a' Viniziani danni grandissimi; e da ciascuna
parte si predava il paese, e le deboli ville si saccheggiavano. Ma
sendo rotto il marchese di Monferrato ad Alessandria dalle genti del
Duca, potette quello, di poi, con maggiori forze opporsi a'
Viniziani e il paese loro assalire.
28
Travagliandosi per tanto la guerra di Lombardia con varii ma deboli
accidenti e poco degni di memoria, in Toscana nacque medesimamente
la guerra del re Alfonso e de' Fiorentini, la quale non si
maneggiò con maggiore virtù né con maggiore
pericolo che si maneggiasse quella di Lombardia. Venne in Toscana
Ferrando, figliuolo non legittimo di Alfonso, con dodici mila
soldati, capitaneati da Federigo signore di Urbino. La prima loro
impresa fu ch'eglino assalirono Foiano in Val di Chiana;
perché, avendo amici i Sanesi, entrorono da quella parte
nello imperio fiorentino. Era il castello debile di mura, piccolo, e
per ciò non pieno di molti uomini; ma secondo quelli tempi,
erano reputati feroci e fedeli. Erano in quello dugento soldati
mandati dalla Signoria per guardia di esso. A questo così
munito castello Ferrando si accampò; e fu tanta, o la gran
virtù di quelli di dentro o la poca sua, che non prima che
dopo trentasei giorni se ne insignorì. Il quale tempo dette
commodità alla città di provedere gli altri luoghi di
maggiore momento, e di ragunare le loro genti, e meglio che non
erano, alle difese loro ordinarsi. Preso i nimici questo castello,
passorono nel Chianti, dove due piccole ville possedute da privati
cittadini non poterono espugnare. Donde che, lasciate quelle, se
n'andorono a campo alla Castellina, castello posto a' confini del
Chianti, propinquo a dieci miglia a Siena, debile per arte, e per
sito debilissimo; ma non poterono per ciò queste due
debolezze superare la debolezza dello esercito che lo assalì,
perché, dopo quarantaquattro giorni che gli stette a
combatterlo, se ne partì con vergogna. Tanto erano quelli
eserciti formidabili e quelle guerre pericolose, che quelle terre le
quali oggi come luoghi impossibili a defenderli si abbandonano,
allora come cose impossibili a pigliarsi si defendevono. E mentre
che Ferrando stette con il campo in Chianti, fece assai correrie e
prede nel Fiorentino, e corse infino propinquo a sei miglia alla
città, con paura e danno assai de' sudditi de' Fiorentini. I
quali in questi tempi, avendo condotte le loro genti, in numero di
ottomila soldati, sotto Astor da Faenza e Gismondo Malatesti, verso
il castello di Colle, le tenevano discosto al nimico, temendo che le
non fussino necessitate di venire a giornata; perché
giudicavano, non perdendo quella, non potere perdere la guerra;
perché le piccole castella, perdendole, con la pace si
recuperano, e delle terre grosse erano securi, sapiendo che il
nimico non era per assalirle. Aveva ancora il Re una armata di circa
venti legni, tra galee e fuste, ne' mari di Pisa; e mentre che per
terra la Castellina si combatteva, pose questa armata alla rocca di
Vada, e quella, per poca diligenzia del castellano occupò,
per che i nimici di poi il paese allo intorno molestavano; la quale
molestia facilmente si levò via per alcuni soldati che i
Fiorentini mandorono a Campiglia, i quali tenevano i nimici stretti
alla marina.
29
Il Pontefice intra queste guerre non si travagliava, se non in
quanto egli credeva potere mettere accordo infra le parti; e
benché e' si astenessi dalla guerra di fuori, fu per trovarla
più pericolosa in casa. Viveva in quelli tempi un messer
Stefano Porcari, cittadino romano, per sangue e per dottrina, ma
molto più per eccellenza di animo, nobile. Desiderava costui,
secondo il costume degli uomini che appetiscono gloria, o fare, o
tentare almeno, qualche cosa degna di memoria; e giudicò non
potere tentare altro, che vedere se potesse trarre la patria sua
delle mani de' prelati e ridurla nello antico vivere, sperando per
questo, quando gli riuscisse, essere chiamato nuovo fondatore e
secondo padre di quella città. Facevagli sperare di questa
impresa felice fine i malvagi costumi de' prelati e la mala
contentezza de' baroni e popolo romano; ma sopra tutto gliene davano
speranza quelli versi del Petrarca, nella canzona che comincia:
“Spirto gentil che quelle membra reggi”, dove dice:
Sopra il monte Tarpeio, canzon, vedrai
Un cavalier che Italia tutta onora,
Pensoso più d'altrui che di se stesso.
Sapeva messere Stefano i poeti molte volte essere di spirito divino
e profetico ripieni; tal che giudicava dovere ad ogni modo
intervenire quella cosa che il Petrarca in quella canzona
profetizzava, ed essere egli quello che dovesse essere di sì
gloriosa impresa esecutore; parendogli, per eloquenzia, per
dottrina, per grazia e per amici, essere superiore ad ogni altro
romano. Caduto adunque in questo pensiero, non potette in modo cauto
governarsi, che con le parole, con le usanze e con il modo del
vivere non si scoprisse, talmente che divenne sospetto al Pontefice,
il quale, per torgli commodità a potere operare male, lo
confinò a Bologna, e al governatore di quella città
commisse che ciascuno giorno lo rassegnasse. Non fu messer Stefano
per questo primo intoppo sbigottito, anzi con maggiore studio
seguitò la impresa sua, e per quelli mezzi poteva più
cauti, teneva pratiche con gli amici; e più volte andò
e tornò da Roma con tanta celerità, che gli era a
tempo a rappresentarsi al governatore infra i termini comandati. Ma
dappoi che gli parve avere tratti assai uomini alla sua
volontà, deliberò di non differire a tentare la cosa;
e commisse agli amici i quali erano in Roma che, in un tempo
determinato, una splendida cena ordinassero, dove tutti i congiurati
fussero chiamati, con ordine che ciascheduno avesse seco i
più fidati amici, e promisse di essere con loro avanti che la
cena fusse fornita. Fu ordinato tutto secondo lo avviso suo, e
messere Stefano era già arrivato nella casa dove si cenava,
tanto che, fornita la cena, vestito di drappo d'oro, con collane e
altri ornamenti che gli davano maestà e riputazione, comparse
infra i convivanti, e quelli abbracciati, con una lunga orazione gli
confortò a fermare l'animo e disporsi a sì gloriosa
impresa. Di poi divisò il modo; e ordinò che una parte
di loro, la mattina seguente, il palagio del Pontefice occupasse,
l'altra, per Roma, chiamasse il popolo all'arme. Venne la cosa a
notizia al Pontefice la notte: alcuni dicono che fu per poca fede
de' congiurati, altri che si seppe essere messere Stefano in Roma.
Comunque si fusse, il Papa, la notte medesima che la cena si era
fatta, fece prendere messere Stefano con la maggior parte de'
compagni, e di poi, secondo che meritavano i falli loro, morire.
Cotal fine ebbe questo suo disegno. E veramente puote essere da
qualcuno la costui intenzione lodata, ma da ciascuno sarà
sempre il giudicio biasimato; perché simili imprese, se le
hanno in sé, nel pensarle, alcuna ombra di gloria, hanno,
nello esequirle, quasi sempre certissimo danno.
30
Era già durata la guerra in Toscana quasi che uno anno, ed
era venuto il tempo, nel 1453, che gli eserciti si riducono alla
campagna, quando al soccorso de' Fiorentini venne il signore
Alessandro Sforza, fratello del Duca, con due mila cavagli; e per
questo, essendo lo esercito de' Fiorentini cresciuto e quello del Re
diminuito, parve a' Fiorentini di andare a recuperare le cose
perdute; e con poca fatica alcune terre recuperorono. Di poi
andorono a campo a Foiano, il quale fu per poca cura de' commissari
saccheggiato, tanto che, essendo dispersi gli abitatori, con
difficultà grande vi tornorono ad abitare, e con esenzioni e
altri premii vi si ridussono. La rocca ancora di Vada si
racquistò, perché i nimici, veggendo di non poterla
tenere, l'abbandonorono e arsono. E mentre che queste cose dallo
esercito fiorentino erano operate, lo esercito ragonese, non avendo
ardire di appressarsi a quello de' nimici, si era ridotto propinquo
a Siena, e scorreva molte volte nel Fiorentino, dove faceva ruberie,
tumulti e spaventi grandissimi. Né mancò quel re di
vedere se poteva per altra via assalire i nimici, e dividere le
forze di quelli, e per nuovi travagli e assalti invilirgli. Era
signore di Val di Bagno Gherardo Gambacorti, il quale, o per
amicizia o per obligo, era stato sempre, insieme con i suoi passati,
o soldato o raccomandato de' Fiorentini. Con costui tenne pratica il
re Alfonso, che gli desse quello stato, ed egli, allo incontro,
d'uno altro stato nel Regno lo ricompensasse. Questa pratica fu
rivelata a Firenze; e per scoprire lo animo suo, se gli mandò
uno ambasciadore, il quale gli ricordassi gli oblighi de' passati e
suoi, e lo confortasse a seguire nella fede con quella republica.
Mostrò Gherardo maravigliarsi, e con giuramenti gravi
affermò non mai sì scellerato pensiero essergli caduto
nello animo; e che verrebbe in persona a Firenze a farsi pegno della
fede sua; ma sendo indisposto, quello che non poteva fare egli
farebbe fare al figliuolo il quale come statico consegnò allo
ambasciadore, che a Firenze seco ne lo menasse. Queste parole e
questa demostrazione feciono a' Fiorentini credere che Gherardo
dicesse il vero, e lo accusatore suo essere stato bugiardo e vano; e
per ciò sopra questo pensiero si riposorono. Ma Gherardo con
maggiore instanzia seguitò con il Re la pratica; la quale
come fu conclusa, il Re mandò in Val di Bagno frate Puccio,
cavaliere ierosolimitano, con assai gente, a prendere delle rocche e
delle terre di Gherardo la possessione. Ma quelli popoli di Bagno,
sendo alla republica fiorentina affezionati, con dispiacere
promettevano ubbidienza a' commissari del Re. Aveva già preso
frate Puccio quasi che la possessione di tutto quello stato: solo
gli mancava di insignorirsi della rocca di Corzano. Era con
Gherardo, mentre faceva tale consegnazione, infra i suoi che gli
erano d'intorno, Antonio Gualandi, pisano, giovane e ardito, a cui
questo tradimento di Gherardo dispiaceva; e considerato il sito
della fortezza, e gli uomini che vi erano in guardia, e cognosciuta
nel viso e ne' gesti la mala loro contentezza, e trovandosi Gherardo
alla porta per intromettere le genti ragonesi, si girò
Antonio verso il di drento della rocca, e spinse con ambo le mani
Gherardo fuora di quella, e alle guardie comandò che sopra il
volto di sì scelerato uomo quella fortezza serrassero e alla
republica fiorentina la conservassero. Questo romore come fu udito
in Bagno e negli altri luoghi vicini, ciascuno di quelli popoli
prese le armi contro a' Ragonesi, e ritte le bandiere di Firenze,
quelli ne cacciorono. Questa cosa come fu intesa a Firenze, i
Fiorentini il figliuolo di Gherardo dato loro per statico
imprigionorono, e a Bagno mandorono genti che quel paese per la loro
republica defendessero, e quello stato che per il principe si
governava in vicariato redussono. Ma Gherardo, traditore del suo
signore e del figliuolo, con fatica poté fuggire, e
lasciò la donna e sua famiglia, con ogni sua sustanza, nella
potestà de' nimici. Fu stimato assai, in Firenze, questo
accidente, perché, se succedeva al Re di quello paese
insignorirsi, poteva con poca sua spesa a sua posta in Val di Tevere
e in Casentino correre; dove arebbe dato tanta noia alla Republica,
che non arebbono i Fiorentini potuto le loro forze tutte allo
esercito ragonese, che a Siena si trovava, opporre.
31
Avevano i Fiorentini, oltre agli apparati fatti in Italia per
reprimere le forze della inimica lega, mandato messer Agnolo
Acciaiuoli loro oratore al re di Francia, a trattare con quello, che
dessi facultate ad il re Rinato d'Angiò di venire in Italia
in favore del Duca e loro, acciò che venisse a defendere i
suoi amici, e potesse di poi, sendo in Italia, pensare allo acquisto
del regno di Napoli e a questo effetto, aiuto di genti e di denari
gli promettevano. E così, mentre che in Lombardia e in
Toscana la guerra secondo abbiamo narrato, si travagliava lo
ambasciadore con il re Rinato lo accordo conchiuse: che dovesse
venire per tutto giugno con duemila quattrocento cavagli in Italia;
e allo arrivare suo in Alessandria la lega gli doveva dare
trentamila fiorini, e di poi, durante la guerra, diecimila per
ciascuno mese. Volendo adunque questo re, per virtù di questo
accordo, passare in Italia, era da il duca di Savoia e marchese di
Monferrato ritenuto, i quali, sendo amici de' Viniziani, non gli
permettevano il passo. Onde che il Re fu dallo ambasciadore
fiorentino confortato che, per dare reputazione agli amici, se ne
tornasse in Provenza, e per mare con alquanti suoi scendesse in
Italia; e dall'altra parte facesse forza con il re di Francia, che
operasse con quel duca che le genti sue potessero per la Savoia
passare. E così come fu consigliato successe; perché
Rinato, per mare, si condusse in Italia, e le sue genti, a
contemplazione del Re, furono ricevute in Savoia. Fu il re Rinato
raccettato da il duca Francesco onoratissimamente; e messe le genti
italiane e franzese insieme, assalirono con tanto terrore i
Viniziani, che in poco tempo tutte le terre che quelli avevano prese
nel Cremonese recuperorono; né contenti a questo, quasi che
tutto il Bresciano occuporono; e l'esercito viniziano, non si
tenendo più securo in campagna, propinquo alle mura di
Brescia si era ridutto. Ma sendo venuto il verno, parve al Duca di
ritirare le sue genti negli alloggiamenti, e al re Rinato
consegnò le stanze a Piacenza. E così, dimorato il
verno del 1453 sanza fare alcuna impresa, quando di poi la state ne
veniva, e che si stimava per il Duca uscire alla campagna e
spogliare i Viniziani dello stato loro di terra, il re Rinato fece
intendere al Duca come egli era necessitato ritornarsene in Francia.
Fu questa deliberazione al Duca nuova e inespettata, e per
ciò ne prese dispiacere grandissimo, e benché subito
andassi da quello per dissuadergli la partita, non possé
né per preghi né per promesse rimuoverlo; ma solo
promisse lasciare parte delle sue genti e mandare Giovanni suo
figliuolo, che per lui fusse a' servizi della lega. Non dispiacque
questa partita a' Fiorentini, come quelli che, avendo recuperate le
loro castella, non temevano più il Re, e dall'altra parte non
desideravano che il Duca altro che le sue terre in Lombardia
ricuperasse. Partissi per tanto Rinato, e mandò il suo
figliuolo, come aveva promesso, in Italia; il quale non si
fermò in Lombardia, ma ne venne a Firenze, dove
onoratissimamente fu ricevuto.
32
La partita del Re fece che il Duca volentieri si voltò alla
pace; e i Viniziani, Alfonso e i Fiorentini, per essere tutti
stracchi, la desideravano, e il Papa ancora con ogni demostrazione
la aveva desiderata e desiderava, perché questo medesimo anno
Maumetto Gran Turco aveva preso Gostantinopoli e al tutto di Grecia
insignoritosi. Il quale acquisto sbigottì tutti i cristiani,
e più che ciascuno altro i Viniziani e il Papa, parendo a
ciascuno già di questi sentire le sue armi in Italia. Il Papa
per tanto pregò i potentati italiani gli mandassero oratori,
con autorità di fermare una universale pace. I quali tutti
ubbidirono; e venuti insieme a' meriti della cosa, vi si trovava nel
trattarla assai difficultà: voleva il Re che i Fiorentini lo
rifacessero delle spese fatte in quella guerra, e i Fiorentini
volevono esserne sodisfatti loro, i Viniziani domandavano al Duca
Cremona, il Duca a loro Bergamo, Brescia e Crema; tal che pareva che
queste difficultà fussero a risolvere impossibile. Non di
meno, quello che a Roma fra molti pareva difficile a fare, a Milano
e a Vinegia infra duoi fu facilissimo; perché, mentre che le
pratiche a Roma della pace si tenevano, il Duca e i Viniziani, a
dì 9 di aprile, nel 1454, la conclusono. Per virtù
della quale ciascuno ritornò nelle terre possedeva avanti la
guerra, e al Duca fu concesso potere recuperare le terre gli avieno
occupate i principi di Monferrato e di Savoia; e agli altri italiani
principi fu uno mese a ratificarla concesso. Il Papa e i Fiorentini,
e con loro Sanesi e altri minori potenti, fra il tempo la
ratificorono; né contenti a questo, si fermò fra i
Fiorentini, Duca e Viniziani pace per anni venticinque.
Mostrò solamente il re Alfonso, delli principi di Italia,
essere di questa pace mal contento, parendogli fusse fatta con poca
sua reputazione, avendo, non come principale, ma come aderente ad
essere ricevuto in quella; e per ciò stette molto tempo
sospeso, sanza lasciarsi intendere. Pure, sendogli state mandate,
dal Papa e dagli altri principi molte solenne ambascerie, si
lasciò da quelli, e massime dal Pontefice, persuadere, ed
entrò in questa lega, con il figliuolo, per anni trenta; e
ferono insieme il Duca e il Re doppio parentado e doppie nozze,
dando e togliendo la figliuola l'uno dell'altro per i loro
figliuoli. Non di meno, acciò che in Italia restassero i semi
della guerra, non consentì fare la pace, se prima dai
collegati non gli fu concessa licenzia di potere, sanza loro
ingiuria, fare guerra a' Genovesi, a Gismondo Malatesti e ad Astor
principe di Faenza. E fatto questo accordo, Ferrando suo figliuolo,
il quale si trovava a Siena, se ne tornò nel Regno, avendo
fatto, per la venuta sua in Toscana, niuno acquisto di imperio, e
assai perdita di sue genti.
33
Sendo adunque seguita questa pace universale, si temeva solo che il
re Alfonso, per la nimicizia aveva con i Genovesi, non la turbasse,
ma il fatto andò altrimenti, perché, non da il Re
apertamente, ma, come sempre per lo addietro era intervenuto, dalla
ambizione de' soldati mercennari fu turbata. Avevono i Viniziani,
come è costume, fatta la pace, licenziato da' loro soldi
Iacopo Piccinino loro condottiere; con il quale aggiuntosi alcuni
altri condottieri sanza partito, passarono in Romagna, e di quindi
nel Sanese, dove fermatosi, Iacopo mosse loro guerra, e
occupò a' Sanesi alcune terre. Nel principio di questi moti,
e al cominciamento dello anno 1455, morì papa Niccola, e a
lui fu eletto successore Calisto III. Questo pontefice, per
reprimere la nuova e vicina guerra, subito sotto Giovanni
Ventimiglia suo capitano ragunò quanta più gente
potette, e quelle, con gente de' Fiorentini e del Duca, i quali
ancora a reprimere questi moti erano concorsi, mandò contro a
Iacopo. E venuti alla zuffa propinqui a Bolsena, non ostante che il
Ventimiglia restasse prigione, Iacopo ne rimase perdente, e come
rotto a Castiglione della Pescaia si ridusse; e se non fusse stato
da Alfonso suvvenuto di danari, vi rimaneva al tutto disfatto. La
qual cosa fece a ciascuno credere questo moto di Iacopo essere per
ordine di quello re seguito; in modo che, parendo ad Alfonso di
essere scoperto, per riconciliarsi i collegati con la pace, che si
aveva con questa debile guerra quasi che alienati, operò che
Iacopo restituisse a' Sanesi le terre occupate loro, e quelli gli
dessino ventimila fiorini; e fatto questo accordo, ricevé
Iacopo e le sue genti nel Regno. In questi tempi, ancora che il Papa
pensasse a frenare Iacopo Piccinino, non di meno non mancò di
ordinarsi a potere suvvenire alla cristianità, che si vedeva
che era per essere dai Turchi oppressata; e per ciò
mandò per tutte le provincie cristiane oratori e predicatori,
a persuadere ai principi e ai popoli che si armassero in favore
della loro religione e con danari e con la persona la impresa contro
al comune nimico di quella favorissero. Tanto che in Firenze si
ferono assai limosine, assai ancora si segnorono d'una croce rossa,
per essere presti con la persona a quella guerra, fecionsi ancora
solenne processioni, né si mancò, per il publico e per
il privato, di mostrare di volere essere intra i primi cristiani,
con il consiglio, con i danari e con gli uomini, a tale impresa. Ma
questa caldezza della cruciata fu raffrenata alquanto da una nuova
che venne, come, sendo il Turco con lo esercito suo intorno a
Belgrado per espugnarlo, castello posto in Ungheria sopra il fiume
del Danubio, era stato dagli Ungheri rotto e ferito. Talmente che,
essendo nel Pontefice e ne' cristiani cessata quella paura ch'
eglino avieno per la perdita di Gostantinopoli conceputa, si
procedé nelle preparazioni che si facevano per la guerra
più tepidamente; e in Ungheria medesimamente, per la morte di
Giovanni Vaivoda, capitano di quella vittoria, raffreddorono.
34
Ma tornando alle cose di Italia, dico come e' correva l'anno 1456,
quando i tumulti mossi da Iacopo Piccinino finirono, donde che,
posate le armi dagli uomini, parve che Iddio le volessi prendere
egli, tanta fu grande una tempesta di venti che allora seguì,
la quale in Toscana fece inauditi per lo adietro e a chi per lo
avvenire lo intenderà maravigliosi e memorabili effetti.
Partissi a' 24 d'agosto, una ora avanti giorno, dalle parti del mare
di sopra di verso Ancona, e attraversando per la Italia,
entrò nel mare di sotto verso Pisa, un turbine d'una
nugolaglia grossa e folta, la quale quasi che due miglia di spazio
per ogni verso occupava. Questa, spinta da superiori forze, o
naturali o sopranaturali che le fussero, in se medesimo rotta, in se
medesimo combatteva, e le spezzate nugole, ora verso il cielo
salendo, ora verso la terra scendendo, insieme si urtavano; e ora in
giro con una velocità grandissima si movevano, e davanti a
loro un vento fuori d'ogni modo impetuoso concitavano; e spessi
fuochi e lucidissimi vampi intra loro nel combattere apparivono. Da
queste così rotte e confuse nebbie, da questi così
furiosi venti e spessi splendori, nasceva uno romore non mai
più da alcuna qualità o grandezza di tremuoto o di
tuono udito; dal quale usciva tanto spavento che ciascuno che lo
sentì giudicava che il fine del mondo fusse venuto, e la
terra, l'acqua e il resto del cielo e del mondo, nello antico caos,
mescolandosi insieme, ritornassero. Fe' questo spaventevole turbine,
dovunque passò, inauditi e maravigliosi effetti; ma
più notabili che altrove intorno al castello di San Casciano
seguirono. È questo castello posto propinquo a Firenze ad
otto miglia, sopra il colle che parte le valli di Pesa e di Grieve.
Fra detto castello, adunque, e il borgo di Santo Andrea, posto sopra
il medesimo colle, passando, questa furiosa tempesta, a Santo Andrea
non aggiunse, e San Casciano rasentò in modo che solo alcuni
merli e cammini di alcune case abbatté, ma fuori, in quello
spazio che è dall'uno de' luoghi detti all'altro, molte case
furono infino al piano della terra rovinate. I tetti de' templi di
San Martino a Bagnuolo e di Santa Maria della Pace, interi come
sopra quelli erano, furono più che un miglio discosto
portati, uno vetturale, insieme con i suoi muli, fu, discosto dalla
strada, nelle vicine convalli trovato morto, tutte le più
grosse querce, tutti i più gagliardi arbori, che a tanto
furore non volevono cedere, furono, non solo sbarbati, ma discosto
molto da dove avevano le loro radice portati; onde che, passata la
tempesta e venuto il giorno, gli uomini stupidi al tutto erano
rimasi. Vedevasi il paese desolato e guasto; vedevasi la rovina
delle case e de' templi; sentivansi i lamenti di quelli che vedevano
le loro possessioni distrutte, e sotto le rovine avevano lasciato il
loro bestiame e i loro parenti morti: la qual cosa a chi vedeva e
udiva recava compassione e spavento grandissimo. Volle senza dubio
Iddio più tosto minacciare che gastigare la Toscana;
perché se tanta tempesta fusse entrata in una città,
infra le case e gli abitatori assai e spessi, come l'entrò
fra querce e arbori e case poche e rare, sanza dubio faceva quella
rovina e fragello che si può con la mente conietturare
maggiore. Ma Iddio volle, per allora, che bastasse questo poco di
esemplo a rinfrescare infra gli uomini la memoria della potenzia
sua.
35
Era, per tornare donde io mi partii, il re Alfonso, come di sopra
dicemmo, male contento della pace; e poi che la guerra ch'egli aveva
fatta muovere da Iacopo Piccinino a' Sanesi sanza alcuna ragionevole
cagione non aveva alcuno importante effetto partorito, volle vedere
quello che partoriva quella la quale, secondo le convenzioni della
lega, poteva muovere. E però, l'anno 1456, mosse per mare e
per terra guerra a' Genovesi, desideroso di rendere lo stato agli
Adorni e privarne i Fregosi che allora governavano; e dall'altra
parte fece passare il Tronto a Iacopo Piccinino contro a Gismondo
Malatesti. Costui perché aveva guernite bene le sue terre
stimò poco lo assalto di Iacopo; di maniera che da questa
parte la impresa del Re non fece alcuno effetto, ma quella di Genova
partorì a lui e al suo regno più guerra che non arebbe
voluto. Era allora duce di Genova Pietro Fregoso. Costui, dubitando
non potere sostenere l'impeto del Re, deliberò quello che non
poteva tenere donarlo almeno ad alcuno che da' nimici suoi lo
defendesse e qualche volta, per tale beneficio, gliene potesse
giusto premio rendere. Mandò per tanto oratori a Carlo VII re
di Francia, e gli offerì lo imperio di Genova. Accettò
Carlo la offerta, e a prendere la possessione di quella città
vi mandò Giovanni d'Angiò figliuolo del re Rinato, il
quale di poco tempo avanti si era partito da Firenze e ritornato in
Francia. E si persuadeva Carlo che Giovanni, per avere presi assai
costumi italiani, potesse meglio che uno altro governare quella
città; e parte giudicava che di quindi potesse pensare alla
impresa di Napoli; del quale regno Rinato suo padre era stato da
Alfonso spogliato. Andò per tanto Giovanni a Genova dove fu
ricevuto come principe, e datogli in sua potestate le fortezze della
città e dello stato.
36
Questo accidente dispiacque ad Alfonso, parendogli aversi tirato
adosso troppo importante nimico, non di meno, per ciò non
sbigottito, seguitò con franco animo la impresa sua e aveva
già condotta l'armata sotto Villa Marina a Portofino, quando,
preso da una subita infirmità, morì. Restorono, per
questa morte, Giovanni e i Genovesi liberi dalla guerra; e Ferrando,
il quale successe nel regno di Alfonso suo padre, era pieno di
sospetto, avendo uno nimico di tanta reputazione in Italia, e
dubitando della fede di molti suoi baroni, i quali desiderosi di
cose nuove, ai Franzesi non si aderissino. Temeva ancora del Papa la
ambizione del quale cognosceva, che per essere nuovo nel regno non
disegnasse spogliarlo di quello. Sperava solo nel duca di Milano, il
quale non era meno ansio delle cose del Regno che si fusse Ferrando,
perché dubitava che, quando i Franzesi se ne fussero
insignoriti, non disegnassero di occupare ancora lo stato suo, il
quale sapeva come ei credevono potere come cosa a loro appartenente
domandare. Mandò per tanto quel duca, subito dopo la morte di
Alfonso, lettere e gente a Ferrando: queste per dargli aiuto e
reputazione, quelle per confortarlo a fare buono animo,
significandogli come non era, in alcuna sua necessità, per
abbandonarlo. Il Pontefice dopo la morte di Alfonso, disegnò
di dare quel regno a Pietro Lodovico Borgia suo nipote; e per
adonestare quella impresa e avere più concorso con gli altri
principi di Italia, publicò come sotto lo imperio della
Romana Chiesa voleva quel regno ridurre; e per ciò persuadeva
al Duca che non dovesse prestare alcuno favore a Ferrando,
offerendogli le terre che già in quel regno possedeva. Ma nel
mezzo di questi pensieri e nuovi travagli Calisto morì; e
successe al pontificato Pio II, di nazione sanese, della famiglia
de' Piccoluomini, nominato Enea. Questo pontefice, pensando
solamente a benificare i cristiani e ad onorar la Chiesa, lasciando
indietro ogni sua privata passione, per i prieghi del duca di
Milano, coronò del Regno Ferrando, giudicando poter
più presto mantenendo chi possedeva posare l'armi italiane,
che se avesse, o favorito i Franzesi perché gli occupassero
quel regno, o disegnato, come Calisto, di prenderlo per sé.
Non di meno Ferrando, per questo benifizio, fece principe di Malfi
Antonio, nipote del Papa, e con quello congiunse una sua figliuola
non legittima. Restituì ancora Benevento e Terracina alla
Chiesa.
37
Pareva per tanto che fussero posate le armi in Italia, e il
Pontefice si ordinava a muovere la cristianità contro a'
Turchi, secondo che da Calisto era già stato principiato,
quando nacque intra i Fregosi e Giovanni signore di Genova
dissensione, la quale maggiori guerre e più importanti di
quelle passate raccese. Trovavasi Petrino Fregoso in uno suo
castello in Riviera. A costui non pareva essere stato rimunerato da
Giovanni d'Angiò secondo i suoi meriti e della sua casa,
sendo loro stati cagione di farlo in quella città principe:
per tanto vennono insieme a manifesta inimicizia. Piacque questa
cosa a Ferrando, come unico rimedio e sola via alla sua salute; e
Petrino di gente e di danari suvvenne, e per suo mezzo giudicava
potere cacciare Giovanni di quello stato. Il che cognoscendo egli,
mandò per aiuti in Francia, con i quali si fece incontro a
Petrino, il quale, per molti favori gli erano stati mandati, era
gagliardissimo; in modo che Giovanni si ridusse a guardare la
città. Nella quale entrato una notte Petrino, prese alcuni
luoghi di quella; ma venuto il giorno, fu dalle genti di Giovanni
combattuto e morto, e tutte le sue genti o morte o prese. Questa
vittoria dette animo a Giovanni di fare la impresa del Regno; e di
ottobre, nel 1459, con una potente armata partì di Genova per
alla volta di quello; e pose a Baia, e di quivi a Sessa, dove fu da
quel duca ricevuto. Accostoronsi a Giovanni il principe di Taranto,
gli Aquilani e molte altre città e principi; di modo che quel
regno era quasi tutto in rovina. Veduto questo, Ferrando ricorse per
aiuti al Papa e al Duca; e per avere meno nimici, fece accordo con
Gismondo Malatesti. Per la qual cosa si turbò in modo Iacopo
Piccinino, per essere di Gismondo naturale nimico, che si parti da'
soldi di Ferrando e accostossi a Giovanni. Mandò ancora
Ferrando danari a Federigo signore di Urbino, e quanto prima
poté, ragunò, secondo quelli tempi, uno buono
esercito; e sopra il fiume di Sarni si ridusse a fronte con li
nimici, e venuti alla zuffa, fu il re Ferrando rotto, e presi molti
importanti suoi capitani. Dopo questa rovina rimase in fede di
Ferrando la città di Napoli con alcuni pochi principi e
terre: la maggiore parte a Giovanni si dierono. Voleva Iacopo
Piccinino che Giovanni con questa vittoria andasse a Napoli e si
insignorissi del capo del Regno; ma non volse, dicendo che prima
voleva spogliarlo di tutto il dominio e poi assalirlo, pensando che,
privo delle sue terre, lo acquisto di Napoli fusse più
facile. Il quale partito, preso al contrario, gli tolse la vittoria
di quella impresa; perché egli non cognobbe come più
facilmente le membra seguono il capo che il capo le membra.
38
Erasi rifuggito, dopo la rotta, Ferrando in Napoli, e quivi gli
scacciati de' suoi stati riceveva; e con quelli modi più
umani poté, ragunò danari insieme, e fece un poco di
testa di esercito. Mandò di nuovo per aiuto al Papa e al
Duca, e dall'uno e dall'altro fu suvvenuto con maggiore
celerità e più copiosamente che per innanzi,
perché vivevono con sospetto grande che non perdessi quel
regno. Diventato per tanto il re Ferrando gagliardo, uscì di
Napoli; e avendo cominciato a racquistare riputazione, riacquistava
delle terre perdute. E mentre che la guerra nel Regno si
travagliava, nacque uno accidente che al tutto tolse a Giovanni
d'Angiò la reputazione e la commodità di vincere
quella impresa. Erano i Genovesi infastiditi del governo avaro e
superbo de' Franzesi, tanto che presono le armi contro al
governatore regio, e quello constrinsono a rifuggirsi nel
Castelletto; e a questa impresa furono i Fregosi e gli Adorni
concordi, e dal duca di Milano di danari e di gente furono aiutati,
così nell'acquistare lo stato come nel conservarlo; tanto che
il re Rinato, il quale con una armata venne di poi in soccorso del
figliuolo, sperando riacquistare Genova per virtù del
Castelletto, fu, nel porre delle sue genti in terra, rotto, di sorte
che fu forzato tornarsene svergognato in Provenza. Questa nuova,
come fu intesa nel regno di Napoli, sbigottì assai Giovanni
d'Angiò; non di meno non lasciò la impresa; ma per
più tempo sostenne la guerra aiutato da quelli baroni i
quali, per la rebellione loro, non credevono apresso a Ferrando
trovare luogo alcuno. Pure alla fine, dopo molti accidenti seguiti a
giornata li duoi regali eserciti si condussono, nella quale fu
Giovanni, propinquo a Troia, rotto, l'anno 1463. Né tanto
l'offese la rotta, quanto la partita da lui di Iacopo Piccinino, il
quale si accostò a Ferrando; sì che, spogliato di
forze, si ridusse in Istia, donde poi se ne tornò in Francia.
Durò questa guerra quattro anni e la perdé colui, per
sua negligenzia, il quale, per virtù de' suoi soldati l'ebbe
più volte vinta. Nella quale i Fiorentini non si
travagliorono in modo che apparisse: vero è che da il re
Giovanni di Aragona, nuovamente assunto re in quel regno per la
morte di Alfonso, furono, per sua ambasciata, richiesti che
dovessero soccorrere alle cose di Ferrando suo nipote, come erano,
per la lega nuovamente fatta con Alfonso suo padre, obligati. A cui
per i Fiorentini fu risposto: non avere obligo alcuno con quello; e
che non erano per aiutare il figliuolo in quella guerra che il padre
con le armi sue aveva mossa; e come la fu cominciata sanza loro
consiglio o saputa, così sanza il loro aiuto la tratti e
finisca. Donde che quelli oratori, per parte del loro re,
protestorono la pena dello obligo e gli interessi del danno; e
sdegnati contro a quella città si partirono. Stettono per
tanto i Fiorentini, nel tempo di questa guerra, quanto alle cose di
fuori, in pace; ma non posorono già drento, come
particularmente nel seguente libro si dimosterrà.
LIBRO SETTIMO
1
E' parrà forse a quelli che il libro superiore aranno letto
che uno scrittore delle cose fiorentine si sia troppo disteso in
narrare quelle seguite in Lombardia e nel Regno; non di meno io non
ho fuggito né sono per lo avvenire per fuggire simili
narrazioni, perché, quantunque io non abbia mai promesso di
scrivere le cose di Italia, non mi pare per ciò da lasciare
indietro di non narrare quelle che saranno in quella provincia
notabili. Perché, non le narrando, la nostra istoria sarebbe
meno intesa e meno grata; massimamente perché dalle azioni
degli altri popoli e principi italiani nascono il più delle
volte le guerre nelle quali i Fiorentini sono di intromettersi
necessitati, come dalla guerra di Giovanni d'Angiò e del re
Ferrando gli odii e le gravi inimicizie nacquono le quali poi intra
Ferrando e i Fiorentini, e particularmente con la famiglia de'
Medici seguirono. Perché il Re si doleva, in quella guerra,
non solamente non essere stato suvvenuto, ma essere stati prestati
favori al nimico suo; il quale sdegno fu di grandissimi mali
cagione, come nella narrazione nostra si dimosterrà. E
perché io sono, scrivendo le cose di fuora, infino al 1463
transcorso, mi è necessario, a volere i travagli di dentro in
quel tempo seguiti narrare, ritornare molti anni indietro. Ma prima
voglio alquanto, secondo la consuetudine nostra ragionando, dire
come coloro che sperano che una republica possa essere unita, assai
di questa speranza s'ingannono. Vera cosa è che alcune
divisioni nuocono alle republiche, e alcune giovano: quelle nuocono
che sono dalle sette e da partigiani accompagnate; quelle giovano
che senza sette e senza partigiani si mantengono. Non potendo
adunque provedere uno fondatore di una republica che non sieno
inimicizie in quella, ha a provedere almeno che non vi sieno sette.
E però è da sapere come in due modi acquistono
riputazione i cittadini nelle città: o per vie publiche, o
per modi privati. Publicamente si acquista, vincendo una giornata,
acquistando una terra, faccendo una legazione con sollecitudine e
con prudenza, consigliando la republica saviamente e felicemente;
per modi privati si acquista, benificando questo e quell'altro
cittadino, defendendolo da' magistrati, suvvenendolo di danari,
tirandolo immeritamente agli onori, e con giochi e doni publici
gratificandosi la plebe. Da questo modo di procedere nascono le
sette e i partigiani; e quanto questa reputazione così
guadagnata offende, tanto quella giova quando ella non è con
le sette mescolata, perché la è fondata sopra un bene
comune, non sopra un bene privato. E benché ancora tra i
cittadini così fatti non si possa per alcuno modo provedere
che non vi sieno odii grandissimi non di meno, non avendo partigiani
che per utilità propria li seguitino, non possono alla
republica nuocere; anzi conviene che giovino, perché è
necessario, per vincere le loro pruove, si voltino alla esaltazione
di quella, e particularmente osservino l'uno l'altro, acciò
che i termini civili non si trapassino. Le inimicizie di Firenze
furono sempre con sette, e per ciò furono sempre dannose;
né stette mai una setta vincitrice unita, se non tanto quanto
la setta inimica era viva, ma come la vinta era spenta, non avendo
quella che regnava più paura che la ritenesse né
ordine infra sé che la frenasse, la si ridivideva. La parte
di Cosimo de' Medici rimase, nel 1434, superiore; ma per essere la
parte battuta grande e piena di potentissimi uomini, si mantenne un
tempo, per paura, unita e umana, intanto che fra loro non feciono
alcuno errore, e al popolo per alcuno loro sinistro modo non si
feciono odiare; tanto che qualunque volta quello stato ebbe bisogno
del popolo per ripigliare la sua autorità, sempre lo
trovò disposto a concedere a i capi suoi tutta quella balia e
potenza che desideravano. E così, dal 1434 al '55, che sono
anni ventuno, sei volte, e per i Consigli ordinariamente, la
autorità della balia riassunsono.
2
Erano in Firenze, come più volte abbiamo detto, duoi
cittadini potentissimi Cosimo de' Medici e Neri Capponi; de' quali
Neri era uno di quelli che aveva acquistata la sua reputazione per
vie publiche, in modo che gli aveva assai amici e pochi partigiani;
Cosimo, dall'altra parte, avendosi alla sua potenza la publica e la
privata via aperta, aveva amici e partigiani assai. E stando costoro
uniti, mentre tutti a duoi vissero, sempre ciò che vollono
sanza alcuna difficultà dal popolo ottennono, perché
gli era mescolata con la potenza la grazia. Ma venuto l'anno 1455,
ed essendo morto Neri, e la parte nimica spenta, trovò lo
stato difficultà nel riassumere l'autorità sua; e i
propri amici di Cosimo, e nello stato potentissimi, ne erano
cagione, perché non temevano più la parte avversa, che
era spenta, e avevano caro di diminuire la potenza di quello. Il
quale umore dette principio a quelle divisioni che di poi, nel 1466
seguirono; in modo che quelli a' quali lo stato apparteneva, ne'
Consigli dove publicamente si ragionava della publica
amministrazione, consigliavano che gli era bene che la
potestà della balia non si riassumesse, e che si serrassero
le borse e i magistrati a sorte, secondo i favori de' passati
squittini, si sortissero. Cosimo, a frenare questo umore aveva uno
de' duoi rimedi: o ripigliare lo stato per forza, con i partigiani
che gli erano rimasi, e urtare tutti gli altri, o lasciare ire la
cosa e con il tempo fare a' suoi amici cognoscere che non a lui, ma
a loro propri, lo stato e la reputazione toglievono. De' quali duoi
remedi questo ultimo elesse; perché sapeva bene che in tale
modo di governo, per essere le borse piene di suoi amici, egli non
correva alcuno pericolo, e come a sua posta poteva il suo stato
ripigliare. Riduttasi per tanto la città a creare i
magistrati a sorte, pareva alla universalità de' cittadini
avere riavuta la sua libertà, e i magistrati, non secondo la
voglia de' potenti, ma secondo il giudicio loro proprio giudicavano;
in modo che ora uno amico d'uno potente, ora quello d'uno altro era
battuto, e così quelli che solevano vedere le case loro piene
di salutatori e di presenti, vote di sustanze e di uomini le
vedevano. Vedevonsi ancora diventati uguali a quelli che solevono
avere di lunga inferiori, e superiori vedevano quelli che solevono
essere loro eguali. Non erano riguardati né onorati, anzi
molte volte beffati e derisi, e di loro e della republica per le vie
e per le piazze sanza alcuno riguardo si ragionava; di
qualità che cognobbono presto, non Cosimo, ma loro avere
perduto lo stato. Le quali cose Cosimo dissimulava, e come e'
nasceva alcuna deliberazione che piacessi al popolo, ed egli era il
primo a favorirla. Ma quello che fece più spaventare i
Grandi, e a Cosimo dette maggiore occasione a farli ravvedere fu che
si risuscitò il modo del catasto del 1427, dove, non gli
uomini, ma le leggi le gravezze ponesse.
3
Questa legge vinta, e di già fatto il magistrato che la
esequisse, li fé al tutto ristrignere insieme, e ire a
Cosimo, a pregarlo che fusse contento volere trarre loro e sé
delle mani della plebe, e rendere allo stato quella riputazione che
faceva lui potente e loro onorati. Ai quali Cosimo rispose che era
contento; ma che voleva che la legge si facesse ordinariamente e con
volontà del popolo, e non per forza, pella quale per modo
alcuno non gli ragionassero. Tentossi ne' Consigli la legge di fare
nuova balia, e non si ottenne, onde che i cittadini grandi tornavano
a Cosimo, e con ogni termine di umilità lo pregavano volesse
acconsentire al parlamento; il che Cosimo al tutto negava come
quello che voleva ridurli in termine che appieno lo errore loro
cognoscessero. E perché Donato Cocchi trovandosi gonfalonieri
di giustizia, volle senza suo consentimento fare il parlamento, lo
fece in modo Cosimo da' Signori che con seco sedevano sbeffare, che
gli impazzò, e come stupido ne fu alle case sue rimandato.
Non di meno, perché non è bene lasciare tanto
transcorrere le cose, che le non si possino poi ritirare a sua
posta, sendo pervenuto al gonfaloniere della giustizia Luca Pitti,
uomo animoso e audace, gli parve tempo di lasciare governare la cosa
a quello, acciò, se di quella impresa s'incorreva in alcuno
biasimo, fusse a Luca, non a lui, imputato. Luca per tanto, nel
principio del suo magistrato, prepose al popolo molte volte di
rifare la balia; e non si ottenendo, minacciò quelli che ne'
Consigli sedevano con parole ingiuriose e piene di superbia. Alle
quali poco di poi aggiunse i fatti; perché di agosto, nel
1458, la vigilia di Santo Lorenzo avendo ripieno di armati il
Palagio chiamò il popolo in Piazza, e per forza e con le
armi, gli fece acconsentire quello che prima volontariamente non
aveva acconsentito. Riassunto per tanto lo stato, e creato la balia
e di poi i primi magistrati secondo il parere de' pochi, per dare
principio a quello governo con terrore, ch'eglino avieno cominciato
con forza, confinorono messer Girolamo Machiavelli con alcuni altri,
e molti ancora degli onori privorono. Il quale messer Girolamo, per
non avere di poi osservati i confini, fu fatto ribelle; e andando
circuendo Italia, sullevando i principi contro alla patria, fu in
Lunigiana, per poca fede d'uno di quelli signori, preso; e condotto
a Firenze, fu morto in carcere.
4
Fu questa qualità di governo, per otto anni che durò
insopportabile e violento; perché Cosimo, già vecchio
e stracco e per la mala disposizione del corpo fatto debole, non
potendo essere presente in quel modo soleva alle cure publiche,
pochi cittadini predavano quella città. Fu Luca Pitti, per
premio della opera aveva fatta in benifizio della republica, fatto
cavaliere; ed egli, per non essere meno grato verso di lei, che
quella verso di lui fussi stata, volle che, dove prima si chiamavano
Priori dell'Arti, acciò che della possessione perduta almeno
ne riavessero il titulo, si chiamassero Priori di Libertà:
volle ancora che dove prima il gonfaloniere sedeva sopra la destra
de' rettori, in mezzo di quelli per lo avvenire sedesse. E
perché Iddio paressi partecipe di questa impresa, feciono
publice processioni e solenni offizi per ringraziare quello de'
riassunti onori. Fu messer Luca dalla Signoria e da Cosimo
riccamente presentato, dietro ai quali tutta la città a gara
concorse; e fu opinione che i presenti alla somma di ventimila
ducati aggiugnessero. Donde egli salì in tanta reputazione,
che non Cosimo ma messer Luca la città governava. Da che lui
venne in tanta confidenza che gli cominciò duoi edifici,
l'uno in Firenze l'altro a Ruciano, luogo propinquo uno miglio alla
città, tutti superbi e regii; ma quello della città al
tutto maggiore che alcuno altro che da privato cittadino infino a
quel giorno fusse stato edificato. I quali per condurre a fine non
perdonava ad alcuno estraordinario modo; perché, non solo i
cittadini e gli uomini particulari lo presentavano e delle cose
necessarie allo edifizio lo suvvenivano, ma i comuni e popoli interi
gli sumministravano aiuti. Oltra di questo, tutti gli sbanditi, e
qualunque altro avesse commesso omicidio, o furto o altra cosa per
che egli temesse publica penitenzia, purché e' fusse persona
a quella edificazione utile, dentro a quelli edifizi sicuro si
rifuggiva. Gli altri cittadini, se non edificavano come quello, non
erano meno violenti, né meno rapaci di lui, in modo che, se
Firenze non aveva guerra di fuori che la distruggesse, dai suoi
cittadini era distrutta. Seguirono, come abbiamo detto, durante
questo tempo, le guerre del Regno, e alcune che ne fece il Pontefice
in Romagna contro a quelli Malatesti; perché egli desiderava
spogliarli di Rimino e di Cesena, che loro possedevano; sì
che, infra queste imprese e i pensieri di fare la impresa del Turco,
papa Pio consumò il pontificato suo.
5
Ma Firenze seguitò nelle disunioni e ne' travagli suoi.
Cominciò la disunione nella parte di Cosimo nel '55, per le
cagioni dette, le quali per la prudenza sua, come abbiamo narrato,
per allora si posorono. Ma venuto l'anno '64, Cosimo
riaggravò nel male, di qualità che passò di
questa vita. Dolfonsi della morte sua gli amici e i nimici;
perché quelli che per cagione dello stato non lo amavano,
veggendo quale era stata la rapacità de' cittadini vivente
lui, la cui reverenza gli faceva meno insopportabili, dubitavano,
mancato quello, non essere al tutto rovinati e distrutti; e in Piero
suo figliuolo non confidavano molto, perché, non ostante che
fusse uomo buono, non di meno giudicavano che, per essere ancora lui
infermo e nuovo nello stato, fusse necessitato ad avere loro
rispetto, talché quelli, sanza freno in bocca, potessero
essere più strabocchevoli nelle rapacità loro.
Lasciò per tanto di sé in ciascuno grandissimo
desiderio. Fu Cosimo il più reputato e nomato cittadino, di
uomo disarmato, che avesse mai, non solamente Firenze, ma alcuna
altra città di che si abbia memoria perché, non
solamente superò ogni altro de' tempi suoi d'autorità
e di ricchezze, ma ancora di liberalità e di prudenza;
perché intra tutte le altre qualità che lo feciono
principe nella sua patria fu lo essere sopra tutti gli altri uomini
liberale e magnifico. Apparve la sua liberalità molto
più dopo la sua morte, quando Piero, suo figliuolo, volle le
sue sustanze ricognoscere, perché non era cittadino alcuno
che avesse nella città alcuna qualità, a chi Cosimo
grossa somma di danari non avesse prestata, e molte volte, sanza
essere richiesto, quando intendeva la necessità d'uno uomo
nobile, lo suvveniva. Apparve la sua magnificenzia nella copia degli
edifizi da lui edificati; perché in Firenze i conventi e i
templi di San Marco e di San Lorenzo e il munistero di Santa
Verdiana, e ne' monti di Fiesole San Girolamo e la Badia, e nel
Mugello un tempio de' frati minori non solamente instaurò, ma
da e fondamenti di nuovo edificò. Oltra di questo, in Santa
Croce, ne' Servi, negli Angioli, in San Miniato, fece fare altari e
cappelle splendidissime; i quali templi e cappelle, oltre allo
edificare, riempié di paramenti e d'ogni cosa necessaria allo
ornamento del divino culto. A questi sacri edifizi si aggiunsono le
private sue case; le quali sono, una nella città, di quello
essere che a tanto cittadino si conveniva; quattro di fuora, a
Careggi, a Fiesole, a Cafaggiuolo e al Trebbio: tutti palagi, non da
privati cittadini, ma regii. E perché nella magnificenzia
degli edifizi non gli bastava essere cognosciuto in Italia,
edificò ancora in Ierusalem un recettaculo per i poveri e
infermi peregrini; nelle quali edificazioni uno numero grandissimo
di danari consumò. E benché queste abitazioni e tutte
le altre opere e azioni sue fussero regie, e che solo, in Firenze,
fusse principe, non di meno tanto fu temperato dalla prudenza sua,
che mai la civile modestia non trapassò: perché nelle
conversazioni, ne' servidori, nel cavalcare, in tutto il modo del
vivere, e ne' parentadi, fu sempre simile a qualunque modesto
cittadino; perché sapeva come le cose estraordinarie che a
ogni ora si veggono e appariscono recono molto più invidia
agli uomini, che quelle che sono in fatto e con onestà si
ricuoprono. Avendo per tanto a dare moglie a' suoi figliuoli, non
cercò i parentadi de' principi, ma con Giovanni la Cornelia
degli Alessandri e con Piero la Lucrezia de' Tornabuoni congiunse; e
delle nipoti nate di Piero la Bianca a Guglielmo de' Pazzi, e la
Nannina a Bernardo Rucellai sposò. Degli stati de' principi e
civili governi niuno altro al suo tempo per intelligenza lo
raggiunse: di qui nacque che in tanta varietà di fortuna, e
in sì varia città e volubile cittadinanza, tenne uno
stato trentuno anno; perché, sendo prudentissimo, cognosceva
i mali discosto e per ciò era a tempo, o a non li lasciare
crescere, o a prepararsi in modo che cresciuti, non lo offendessero:
donde non solamente vinse la domestica e civile ambizione, ma quella
di molti principi superò con tanta felicità e prudenza
che qualunque seco e colla sua patria si collegava, rimaneva o pari
o superiore al nimico, e qualunque se gli opponeva, o e' perdeva il
tempo e' denari, o lo stato. Di che ne possono rendere buona
testimonianza i Viniziani; i quali, con quello, contro al duca
Filippo sempre furono superiori, e disiunti da lui, sempre furono, e
da Filippo prima, e da Francesco poi, vinti e battuti; e quando con
Alfonso contro alla republica di Firenze si collegorono, Cosimo con
il credito suo vacuò Napoli e Vinegia di danari in modo che
furono constretti a prendere quella pace che fu voluta concedere
loro. Delle dificultà adunque che Cosimo ebbe, dentro alla
città e fuori, fu il fine glorioso per lui e dannoso per gli
inimici; e per ciò sempre le civili discordie gli accrebbono
in Firenze stato, e le guerre di fuora potenza e reputazione: per il
che allo imperio della sua republica il Borgo a San Sipolcro,
Montedoglio, il Casentino e Val di Bagno aggiunse. E così la
virtù e fortuna sua spense tutti i suoi nimici, e gli amici
esaltò.
6
Nacque nel 1389, il giorno di Santo Cosimo e Damiano. Ebbe la sua
prima età piena di travagli, come lo esilio, la cattura, i
pericoli di morte dimostrano; e da il concilio di Gostanza, dove era
ito con papa Giovanni, dopo la rovina di quello, per campare la
vita, gli convenne fuggire travestito. Ma passati i quaranta anni
della sua età, visse felicissimo, tanto che, non solo quelli
che si accostorono a lui nelle imprese publiche, ma quelli ancora
che i suoi tesori per tutta la Europa amministravano della
felicità sua participorono: da che molte eccessive ricchezze
in molte famiglie di Firenze nacquono, come avvenne in quella de'
Tornabuoni, de' Benci, de' Portinari e de' Sassetti; e dopo questi,
tutti quelli che da il consiglio e fortuna sua dependevono
arricchirono: talmente che, ben che negli edifizi de' templi e nelle
limosine egli spendesse continuamente, si doleva qualche volta con
gli amici che mai aveva potuto spendere tanto in onore di Dio che lo
trovassi ne' suoi libri debitore. Fu di comunale grandezza, di
colore ulivigno e di presenza venerabile. Fu sanza dottrina, ma
eloquentissimo e ripieno d'una naturale prudenza; e per ciò
era officioso nelli amici, misericordioso ne' poveri, nelle
conversazione utile, ne' consigli cauto, nelle esecuzioni presto, e
ne' suoi detti e risposte era arguto e grave. Mandogli messer
Rinaldo degli Albizi, ne' primi tempi del suo esilio a dire che la
gallina covava, a cui Cosimo rispose che la poteva mal covare fuora
del nidio, e ad altri ribelli, che li feciono intendere che non
dormivano disse che lo credeva, avendo cavato loro il sonno. Disse
di papa Pio, quando e' citava i principi per la impresa contro al
Turco, che gli era vecchio e faceva una impresa da giovani. Agli
oratori viniziani, i quali vennono a Firenze insieme con quelli del
re Alfonso a dolersi della republica, mostrò il capo
scoperto, e dimandolli di qual colore fusse; al quale risposono: -
Bianco, - ed egli allora soggiunse: - E' non passerà gran
tempo che i vostri senatori lo aranno bianco come io. -
Domandandogli la moglie, poche ore avanti la morte, perché
tenesse gli occhi chiusi, rispose: - Per avvezzargli. - Dicendogli
alcuni cittadini, dopo la sua tornata dallo esilio, che si guastava
la città e facevasi contro a Dio a cacciare di quella tanti
uomini da bene, rispose come gli era meglio città guasta che
perduta; e come due canne di panno rosato facevono uno uomo da bene;
e che gli stati non si tenevono co' paternostri in mano: le quali
voci dettono materia a' nimici di calunniarlo, come uomo che amasse
più se medesimo che la patria, e più questo mondo che
quell'altro. Potrebbonsi riferire molti altri suoi detti, i quali,
come non necessari, si ommetteranno. Fu ancora Cosimo degli uomini
litterati amatore ed esaltatore; e per ciò condusse in
Firenze lo Argilopolo, uomo di nazione greca e in quelli tempi
litteratissimo, acciò che da quello la gioventù
fiorentina la lingua greca e l'altre sue dottrine potesse
apprendere; nutrì nelle sue case Marsilio Ficino, secondo
padre della platonica filosofia, il quale sommamente amò; e
perché potesse più commodamente seguire gli studi
delle lettere, e per poterlo con più sua commodità
usare, una possessione propinqua alla sua di Careggi gli
donò. Questa sua prudenza adunque, queste sue ricchezze, modo
di vivere e fortuna, lo feciono, a Firenze, da' cittadini temere e
amare, e dai principi, non solo di Italia, ma di tutta la Europa,
maravigliosamente stimare. Donde che lasciò tale fondamento
a' suoi posteri che poterono con la virtù pareggiarlo e con
la fortuna di gran lunga superarlo, e quella autorità che
Cosimo ebbe in Firenze, non solo in quella città, ma in tutta
la cristianità averla. Non di meno negli ultimi tempi della
sua vita sentì gravissimi dispiaceri; perché de' duoi
figliuoli che gli ebbe, Piero e Giovanni, questo morì in nel
quale egli più confidava, quell'altro era infermo e, per la
debilezza del corpo, poco atto alle publiche e alle private
faccende. Di modo che, faccendosi portare, dopo la morte del
figliuolo, per la casa, disse sospirando: - Questa è troppa
gran casa a sì poca famiglia. - Angustiava ancora la
grandezza dello animo suo non gli parere di avere accresciuto lo
imperio fiorentino d'uno acquisto onorevole; e tanto più se
ne doleva, quanto gli pareva essere stato da Francesco Sforza
ingannato; il quale, mentre era conte, gli aveva promesso, comunque
si fusse insignorito di Milano, di fare la impresa di Lucca per i
Fiorentini. Il che non successe, perché quel conte con la
fortuna mutò pensiero, e diventato duca, volle godersi quello
stato colla pace che si aveva acquistato con la guerra; e per
ciò non volle né a Cosimo né ad alcuno altro di
alcuna impresa sodisfare; né fece, poi che fu duca, altre
guerre che quelle che fu per difendersi necessitato. Il che fu di
noia grandissima a Cosimo cagione, parendogli avere durato fatica e
speso per fare grande uno uomo ingrato e infedele. Parevagli, oltre
a di questo, per la infirmità del corpo, non potere nelle
faccende publiche e private porre l'antica diligenza sua; di
qualità che l'una e l'altra vedeva rovinare, perché la
città era distrutta da' cittadini, e le sustanze da' ministri
e da' figliuoli. Tutte queste cose gli feciono passare gli ultimi
tempi della sua vita inquieti. Non di meno morì pieno di
gloria, e con grandissimo nome nella città e fuori. Tutti i
cittadini e tutti i principi cristiani si dolfono con Piero suo
figliuolo della sua morte, e fu con pompa grandissima da tutti i
cittadini alla sepultura accompagnato, e nel tempio di San Lorenzo
sepellito, e per publico decreto sopra la sepultura sua PADRE DELLA
PATRIA nominato. Se io, scrivendo le cose fatte da Cosimo, ho
imitato quelli che scrivono le vite de' principi, non quelli che
scrivono le universali istorie, non ne prenda alcuno ammirazione,
perché, essendo stato uomo raro nella nostra città, io
sono stato necessitato con modo estraordinario lodarlo.
7
In questi tempi, che Firenze e Italia nelle dette condizioni si
trovava, Luigi re di Francia era da gravissima guerra assalito, la
quale gli avieno i suoi baroni, con lo aiuto di Francesco duca di
Brettagna e di Carlo duca di Borgogna, mossa; la quale fu di tanto
momento che non potette pensare di favorire il duca Giovanni
d'Angiò nelle imprese di Genova e del Regno; anzi, giudicando
di avere bisogno degli aiuti di ciascuno, sendo restata la
città di Savona in potestà de' Franciosi,
insignorì di quella Francesco duca di Milano, e gli fece
intendere che, se voleva, con sua grazia poteva fare la impresa di
Genova. La qual cosa fu da Francesco accettata; e con la reputazione
che gli dette l'amicizia del Re, e con li favori che gli ferono gli
Adorni, s'insignorì di Genova; e per non mostrarsi ingrato
verso il Re de' beneficii ricevuti, mandò al soccorso suo, in
Francia, millecinquecento cavagli, capitaneati da Galeazzo suo
primogenito. Restati per tanto Ferrando di Aragona e Francesco
Sforza, l'uno duca di Lombardia e principe di Genova, l'altro re di
tutto il regno di Napoli, e avendo insieme contratto parentado,
pensavano come e' potessero in modo fermare gli stati loro, che
vivendo li potessero securamente godere e morendo agli loro eredi
liberamente lasciare. E per ciò giudicorono che fusse
necessario che il Re si assicurasse di quelli baroni che lo aveno
nella guerra di Giovanni d'Angiò offeso, e il Duca operasse
di spegnere le armi braccesche al sangue suo naturali nimiche, le
quali sotto Iacopo Piccinino in grandissima reputazione erano
salite, perché egli era rimaso il primo capitano di Italia, e
non avendo stato, qualunque era in stato doveva temerlo, e
massimamente il Duca, il quale, mosso da lo esemplo suo, non gli
pareva potere tenere quello stato, né securo a' figliuoli
lasciarlo, vivente Iacopo. Il Re per tanto con ogni industria
cercò lo accordo con i suoi baroni, e usò ogni arte in
assicurarli, il che gli succedette felicemente, perché quelli
principi, rimanendo in guerra con il Re, vedevono la loro rovina
manifesta, e facendo accordo e di lui fidandosi, ne stavano dubi. E
perché gli uomini fuggono sempre più volentieri quel
male che è certo, ne seguita che i principi possono i minori
potenti facilmente ingannare: credettono quelli principi alla pace
del Re, veggendo i pericoli manifesti nella guerra, e rimessisi
nelle braccia di quello, furono di poi da lui in varii modi e sotto
varie cagioni spenti. La qual cosa sbigottì Iacopo Piccinino,
il quale con le sue genti si trovava a Solmona; e per torre
occasione al Re di opprimerlo, tenne pratica con il duca Francesco,
per mezzo de' suoi amici, di riconciliarsi con quello; e avendogli
il Duca fatte quante offerte potette maggiori, deliberò
Iacopo rimettersi nelle braccia sua, e lo andò, accompagnato
da cento cavagli, a trovare a Milano.
8
Aveva Iacopo sotto il padre e con il fratello militato gran tempo,
prima per il duca Filippo e di poi per il popolo di Milano, tanto
che, per la lunga conversazione, aveva in Milano amici assai e
universale benivolenza; la quale le presenti condizioni avevano
accresciuta perché agli Sforzeschi la prospera fortuna e la
presente potenza aveva partorito invidia, e a Iacopo le cose avverse
e la lunga assenza avevano in quel popolo generato misericordia, e
di vederlo grandissimo desiderio. Le quali cose tutte apparsono
nella venuta sua, perché pochi rimasono della nobilità
che non lo incontrassero, e le strade donde ei passò di
quelli che desideravano vederlo erano ripiene; il nome della gente
sua per tutto si gridava. I quali onori affrettorono la sua rovina,
perché al Duca crebbe, con il sospetto, il desiderio di
spegnerlo. E per poterlo più copertamente fare, volle che
celebrasse le nozze con Drusiana sua figliuola naturale, la quale
più tempo innanzi gli aveva sposata; di poi convenne con
Ferrando lo prendesse a' suoi soldi con titulo di capitano delle sue
genti e centomila fiorini di provisione. Dopo la quale conclusione,
Iacopo, insieme con uno ambasciadore ducale e Drusiana sua moglie,
se ne andò a Napoli; dove lietamente e onoratamente fu
ricevuto e per molti giorni con ogni qualità di festa
intrattenuto. Ma avendo domandato licenza per gire a Solmona, dove
aveva le sue genti, fu da il Re nel Castello convitato, e appresso
il convito, insieme con Francesco suo figliuolo, imprigionato, e
dopo poco tempo morto. E così i nostri principi italiani
quella virtù che non era in loro temevano in altri, e la
spegnevano: tanto che, non la avendo alcuno, esposono questa
provincia a quella rovina la quale, dopo non molto tempo, la
guastò e afflisse.
9
Papa Pio, in questi tempi, aveva composte le cose di Romagna; e per
ciò gli parve tempo, veggendo seguita universale pace, di
muovere i Cristiani contro al Turco; e riprese tutti quelli ordini
che da' suoi antecessori erano stati fatti; e tutti i principi
promissono o danari o genti, e in particulari Mattia re d'Ungheria e
Carlo duca di Borgogna promissono essere personalmente seco, i quali
furono da il Papa fatti capitani della impresa. E andò tanto
avanti il Pontefice con la speranza, che partì da Roma e
andonne in Ancona, dove si era ordinato che tutto lo esercito
convenisse; e i Viniziani gli avieno promessi navigi per passarlo in
Stiavonia. Convenne per tanto in quella città, dopo lo
arrivare del Pontefice, tanta gente che in pochi giorni tutti i
viveri che in quella città erano e che dai luoghi vicini vi
si potevano condurre mancorono, di qualità che ciascuno era
dalla fame oppressato. Oltra di questo non vi era danari da
provederne quelli che ne avevano di bisogno, né arme da
rivestire quelli che ne mancavano; e Mattia e Carlo non comparsono,
e i Viniziani vi mandorono uno loro capitano con alquante galee,
più tosto per mostrare la pompa loro, e di avere osservata la
fede, che per potere quello esercito passare. Onde che il Papa,
sendo vecchio e infermo, nel mezzo di questi travagli e disordini
morì. Dopo la cui morte ciascheduno alle sue case se ne
ritornò. Morto il Papa, l'anno 1465, fu eletto al pontificato
Paulo II, di nazione viniziano. E perché quasi che tutti i
principati di Italia mutassero governo, morì ancora, l'anno
seguente, Francesco Sforza duca di Milano, dopo sedici anni ch'egli
aveva occupato quel ducato, e fu dichiarato duca Galeazzo suo
figliuolo.
10
La morte di questo principe fu cagione che le divisioni di Firenze
diventassero più gagliarde e facessero i suoi effetti
più presto. Poi che Cosimo morì, Piero suo figliuolo,
rimaso erede delle sustanze e dello stato del padre, chiamò a
sé messer Dietisalvi Neroni, uomo di grande autorità e
secondo gli altri cittadini reputatissimo, nel quale Cosimo
confidava tanto che commisse, morendo, a Piero che delle sustanze e
dello stato al tutto secondo il consiglio di quello si governasse.
Dimostrò per tanto Piero a messer Dietisalvi la fede che
Cosimo aveva avuta in lui; e perché voleva ubbidire a suo
padre dopo morte come aveva ubbidito in vita, desiderava con quello
del patrimonio e del governo della città consigliarsi. E per
cominciare dalle sustanze proprie, farebbe venire tutti i calculi
delle sue ragioni e gliene porrebbe in mano, acciò che
potesse l'ordine e disordine di quelle cognoscere, e cognosciuto,
secondo la sua prudenza consigliarlo. Promisse messer Dietisalvi in
ogni cosa usare diligenzia e fede; ma venuti i calculi, e quelli
bene esaminati, cognobbe in ogni parte essere assai disordini. E
come quello che più lo strigneva la propria ambizione che lo
amore di Piero o gli antichi benifizi da Cosimo ricevuti,
pensò che fusse facile torgli la reputazione e privarlo di
quello stato che il padre come ereditario gli aveva lasciato. Venne
per tanto messer Dietisalvi a Piero con uno consiglio che pareva
tutto onesto e ragionevole; ma sotto a quello era la sua rovina
nascosa. Dimostrogli il disordine delle sue cose, e a quanti danari
gli era necessario provedere non volendo perdere, con il credito, la
reputazione delle sustanze e dello stato suo. E perciò gli
disse che e' non poteva con maggiore onestà rimediare a'
disordini suoi, che cercare di fare vivi quelli danari che suo padre
doveva avere da molti, così forestieri come cittadini:
perché Cosimo, per acquistarsi partigiani in Firenze e amici
di fuora, nel fare parte a ciascuno delle sue sustanze fu
liberalissimo, in modo che quello di che per queste cagioni era
creditore ad una somma di danari non piccola né di poca
importanza ascendeva. Parve a Piero il consiglio buono e onesto,
volendo a' disordini suoi rimediare con il suo; ma subito che gli
ordinò che questi danari si domandassero, i cittadini, come
se quello volesse torre il loro, non domandare il suo, si
risentirono; e sanza rispetto dicevano male di lui, e come ingrato e
avaro lo calunniavano.
11
Donde che, veduta messer Dietisalvi questa comune e populare
disgrazia in la quale Piero era per i suoi consigli incorso, si
ristrinse con messer Luca Pitti, messer Agnolo Acciaiuoli e
Niccolò Soderini, e deliberorono di torre a Piero la
reputazione e lo stato. Erano mossi costoro da diverse cagioni:
messer Luca desiderava succedere nel luogo di Cosimo, perché
era diventato tanto grande che si sdegnava avere ad osservare Piero;
messer Dietisalvi, il quale conosceva messer Luca non essere atto ad
essere capo del governo, pensava che di necessità, tolto via
Piero, la reputazione del tutto, in breve tempo, dovesse cadere in
lui; Niccolò Soderini amava che la città più
liberamente vivesse, e che secondo la voglia de' magistrati si
governasse. Messer Agnolo con i Medici teneva particulari odii per
tali cagioni: aveva Raffaello suo figliuolo, più tempo
innanzi, presa per moglie la Lessandra de' Bardi con grandissima
dote: costei o per i mancamenti suoi o per i difetti d'altri, era da
il suocero e dal marito male trattata; onde che Lorenzo di Larione,
suo affine, mosso a pietà di questa fanciulla, una notte, con
di molti armati accompagnato, la trasse di casa messer Agnolo.
Dolfonsi gli Acciaiuoli di questa ingiuria fatta loro dai Bardi: fu
rimessa la causa in Cosimo; il quale giudicò che gli
Acciaiuoli dovessero alla Lessandra restituire la sua dote, e di poi
il tornare con il marito suo allo arbitrio della fanciulla si
rimettesse. Non parve a messer Agnolo che Cosimo, in questo
giudicio, lo avesse come amico trattato; e non si essendo potuto
contro a Cosimo, deliberò contro al figliuolo vendicarsi.
Questi congiurati non di meno, in tanta diversità di umori,
publicavano una medesima cagione, affermando volere che la
città con i magistrati, e non con il consiglio di pochi, si
governasse. Accrebbono oltra di questo gli odii verso Piero e le
cagioni di morderlo molti mercatanti che in questo tempo fallirono:
di che publicamente ne fu Piero incolpato, che, volendo, fuori di
ogni espettazione, riavere i suoi danari, gli aveva fatti con
vituperio e danno della città fallire. Aggiunsesi a questo
che si praticava di dare per moglie la Clarice degli Orsini a
Lorenzo suo primogenito; il che porse a ciascuno più larga
materia di calunniarlo, dicendo come e' si vedeva espresso, poi
ch'egli voleva rifiutare per il figliuolo uno parentado fiorentino,
che la città più come cittadino non lo capeva, e per
ciò egli si preparava a occupare il principato: perché
colui che non vuole i suoi cittadini per parenti gli vuole per
servi, e per ciò è ragionevole che non gli abbia
amici. Pareva a questi capi della sedizione avere la vittoria in
mano, perché la maggior parte de' cittadini, ingannati da
quel nome della libertà che costoro, per adonestare la loro
impresa, avevano preso per insegna, gli seguivano.
12
Ribollendo adunque questi umori per la città, parve ad alcuno
di quelli a' quali le civili discordie dispiacevano che si vedesse
se con qualche nuova allegrezza si potessero fermare, perché
il più delle volte i popoli oziosi sono strumento a chi vuole
alterare. Per torre via adunque questo ozio, e dare che pensare agli
uomini qualche cosa, che levassero il pensiero dello stato, sendo
già passato l'anno che Cosimo era morto, presono occasione da
che fusse bene rallegrare la città, e ordinorono due feste
secondo l'altre che in quella città si fanno, solennissime:
una che rappresentava quando i tre Re vennono di Oriente dietro alla
stella che dimostrava la natività di Cristo; la quale era di
tanta pompa e sì magnifica, che in ordinarla e farla teneva
più mesi occupata tutta la città, l'altra fu uno
torniamento (che così chiamano uno spettaculo che rappresenta
una zuffa di uomini a cavallo) dove i primi giovani della
città si esercitorono insieme con i più nominati
cavalieri di Italia. E intra i giovani fiorentini il più
reputato fu Lorenzo, primogenito di Piero, il quale, non per grazia,
ma per proprio suo valore ne riportò il primo onore.
Celebrati questi spettaculi, ritornorono ne' cittadini i medesimi
pensieri, e ciascuno con più studio che mai la sua opinione
seguitava: di che dispareri e travagli grandi ne risultavano; i
quali da duoi accidenti furono grandemente accresciuti: l'uno fu che
l'autorità della balia mancò, l'altro la morte di
Francesco duca di Milano. Donde che Galeazzo, nuovo duca,
mandò a Firenze ambasciadori per confermare i capitoli che
Francesco suo padre aveva con la città; in ne' quali, tra le
altre cose, si disponeva che qualunque anno si pagasse a quel duca
certa somma di danari. Presono per tanto i principi contrari a'
Medici occasione da questa domanda, e publicamente, ne' Consigli, a
questa deliberazione si opposono, mostrando non con Galeazzo, ma con
Francesco essere fatta l'amiciza, sì che, morto Francesco,
era morto l'obligo; né ci era cagione di risuscitarlo,
perché in Galeazzo non era quella virtù che era in
Francesco, e per consequente non se ne doveva né poteva
sperare quello utile; e se da Francesco si era avuto poco, da questo
si arebbe meno; e se alcuno cittadino lo volesse soldare per la
potenza sua, era cosa contro al vivere civile e alla libertà
della città. Piero, allo incontro, mostrava che e' non era
bene una amicizia tanto necessaria per avarizia perderla, e che
niuna cosa era tanto salutifera alla republica e a tutta Italia,
quanto essere collegati con il duca, acciò che i Viniziani,
veggendo loro uniti, non sperino, o per finta amicizia o per aperta
guerra, opprimere quel ducato; perché non prima sentiranno i
Fiorentini essere da quel duca alienati, ch'eglino aranno l'armi in
mano contro di lui, e trovandolo giovane, nuovo nello stato e sanza
amici, facilmente se lo potranno, o con inganno o con forza,
guadagnare; e nell'uno e nell'altro caso vi si vedeva la rovina
della republica.
13
Non erano accettate queste ragioni, e le nimicizie cominciorono a
mostrarsi aperte, e ciascheduna delle parti di notte, in diverse
compagnie conveniva, perché gli amici de' Medici nella
Crocetta, e gli avversarii nella Pietà si riducevano i quali,
solleciti nella rovina di Piero, avevono fatto soscrivere come alla
impresa loro favorevoli, molti cittadini. E trovandosi, tra le altre
volte, una notte insieme, tennono particulare consiglio del modo di
procedere loro; e a ciascuno piaceva diminuire la potenza de'
Medici, ma erano differenti nel modo. Una parte, la quale era la
più temperata e modesta, voleva che, poi che gli era finita
l'autorità della balia, che si attendessi ad obstare che la
non si riassumesse; e fatto questo, ci era la intenzione di
ciascuno, perché i Consigli e i magistrati governerebbono la
città, e in poco tempo l'autorità di Piero si
spegnerebbe; e verrebbe, con la perdita della reputazione dello
stato, a perdere il credito nelle mercatanzie, perché le
sustanze sue erano in termine che, se si teneva forte che e' non si
potessi de' danari publici valere, era a rovinare necessitato; il
che come fusse seguito, non ci era di lui più alcuno
pericolo, e venivasi ad avere, sanza esili e sanza sangue, la sua
libertà recuperata; il che ogni buono cittadino doveva
desiderare. Ma se si cercava di adoperare la forza, si potrebbe in
moltissimi pericoli incorrere; perché tale lascia cadere uno
che cade da sé, che, se gli è spinto da altri, lo
sostiene. Oltra di questo, quando non si ordinasse alcuna cosa
straordinaria contro a di lui, non arebbe cagione di armarsi o di
cercare amici; e quando e' lo facessi, sarebbe con tanto suo carico,
e genererebbe in ogni uomo tanto sospetto, che farebbe a sé
più facile la rovina e ad altri darebbe maggiore occasione di
opprimerlo. A molti altri de' ragunati non piaceva questa lunghezza,
affermando come il tempo era per favorire lui e non loro:
perché, se si voltavano ad essere contenti alle cose
ordinarie, Piero non portava pericolo alcuno, e loro ne correvono
molti, perché i magistrati suoi nimici gli lasceranno godere
la città, e gli amici lo faranno, con la rovina loro, come
intervenne nel '58, principe. E se il consiglio dato era da uomini
buoni, questo era da uomini savi; e per ciò, mentre che gli
uomini erano infiammati contro a di lui, conveniva spegnerlo. Il
modo era: armarsi dentro, e fuori soldare il marchese di Ferrara,
per non essere disarmato; e quando la sorte dessi di avere una
Signoria amica, essere parati ad assicurarsene. Rimasono per tanto
in questa sentenza: che si aspettasse la nuova Signoria, e secondo
quella governarsi. Trovavasi intra questi congiurati ser
Niccolò Fedini il quale tra loro come cancelliere si
esercitava. Costui, tirato da più certa speranza,
rivelò tutte le pratiche tenute da' suoi inimici a Piero, e
la listra de' congiurati e de' soscritti gli portò.
Sbigottissi Piero, vedendo il numero e la qualità de'
cittadini che gli erano contro, e consigliatosi con gli amici,
deliberò ancora egli fare degli amici suoi una soscrizione; e
dato di questa impresa la cura ad alcuno de' più suoi fidati,
trovò tanta varietà e instabilità negli animi
de' cittadini, che molti de' soscritti contro di lui ancora in
favore suo si soscrissono.
14
Mentre che queste cose in questa maniera si travagliavano, venne il
tempo che il supremo magistrato si rinnuova; al quale per
gonfalonieri di giustizia fu Niccolò Soderini assunto. Fu
cosa maravigliosa a vedere con quanto concorso non solamente di
onorati cittadini ma di tutto il popolo, e' fusse al Palazzo
accompagnato; e per il cammino gli fu posta una grillanda di ulivo
in testa, per mostrare che da quello avesse e la salute e la
libertà di quella patria a dependere. Vedesi, per questa e
per molte altre esperienze, come non è cosa desiderabile
prendere o uno magistrato o uno principato con estraordinaria
opinione; perché, non potendosi con le opere a quella
corrispondere, desiderando più gli uomini, che non possono
conseguire, ti partorisce, con il tempo, disonore e infamia. Erano
messer Tommaso Soderini e Niccolò fratelli: era
Niccolò più feroce e animoso; messer Tommaso
più savio. Questi, perché era a Piero amicissimo,
cognosciuto l'umore del fratello, come egli desiderava solo la
libertà della città e che sanza offesa di alcuno lo
stato si fermasse, lo confortò a fare nuovo squittino,
mediante il quale le borse de' cittadini che amassero il vivere
libero si riempiessero; il che fatto, si verrebbe a fermare e
assicurare lo stato sanza tumulto e sanza ingiuria di alcuno,
secondo la volontà sua. Credette facilmente Niccolò a'
consigli del fratello, e attese in questi vani pensieri a consumare
il tempo del suo magistrato; e dai capi de' congiurati, suoi amici,
gli fu lasciato consumare, come quelli che per invidia non volevono
che lo stato con l'autorità di Niccolò si rinnovasse,
e sempre credevano con uno altro gonfaloniere essere a tempo ad
operare il medesimo. Venne per tanto il fine del magistrato di
Niccolò, e avendo cominciate assai cose e non ne fornite
alcuna, lasciò quello assai più disonorevolmente, che
onorevolemente non lo aveva preso.
15
Questo esemplo fece la parte di Piero più gagliarda; e gli
amici suoi più nella speranza si confermorono, e quelli che
erano neutrali a Piero si aderirono; tal che, essendo le cose
pareggiate, più mesi sanza altro tumulto si temporeggiorono.
Non di meno la parte di Piero sempre pigliava più forze; onde
che gli inimici si risentirono e si ristrinsono insieme, e quello
che non avevono saputo o voluto fare per il mezzo de' magistrati e
facilmente, pensorono di fare per forza; e conclusono di fare
ammazzare Piero, che, infermo, si trovava a Careggi; e a questo
effetto fare venire il marchese di Ferrara con le genti verso la
città; e morto Piero, venire armati in Piazza, e fare che la
Signoria fermassi uno stato secondo la volontà loro;
perché, sebbene tutta non era loro amica, speravano quella
parte che fusse contraria farla per paura cedere. Messer Dietisalvi,
per celare meglio lo animo suo, vicitava Piero spesso, e ragionavali
della unione della città, e lo consigliava. Erano state a
Piero rivelate tutte queste pratiche; e di più messer
Domenico Martelli gli fece intendere come Francesco Neroni, fratello
di messer Dietisalvi, lo aveva sollecitato a volere essere con loro,
mostrandogli la vittoria certa e il partito vinto. Onde che Piero
deliberò di essere il primo a prender le armi; e prese la
occasione dalle pratiche tenute da' suoi avversarii con il marchese
di Ferrara. Finse per tanto avere ricevuta una lettera da messer
Giovanni Bentivogli principe in Bologna, che gli significava come il
marchese di Ferrara si trovava sopra il fiume Albo con gente, e che
publicamente dicevono venire a Firenze. E così, sopra questo
avviso, Piero prese l'arme, e in mezzo d'una grande moltitudine di
armati ne venne a Firenze. Dopo il quale tutti quelli che seguivono
le parti sue si armorono; e la parte avversa fece il simile; ma con
migliore ordine quella di Piero, come coloro che erano preparati, e
quegli altri non erano ancora secondo il disegno loro a ordine.
Messer Dietisalvi, per avere le sue case propinque a quelle di
Piero, in esse non si teneva securo; ma ora andava in Palazzo a
confortare la Signoria a fare che Piero posasse l'arme, ora a
trovare messer Luca, per tenerlo fermo nelle parti loro. Ma di tutti
si mostrò più vivo che alcuno Niccolò Soderini,
il quale prese l'arme, e fu seguitato quasi che da tutta la plebe
del suo quartiere, e ne andò alle case di messer Luca, e lo
pregò montasse a cavallo e venisse in Piazza a' favori della
Signoria, che era per loro; dove senza dubio s'arebbe la vittoria
certa, e non volesse, standosi in casa, essere o dagli armati nimici
vilmente oppresso, o dai disarmati vituperosamente ingannato; e che
a ora si pentirebbe non avere fatto, che non sarebbe a tempo a fare;
e che, se e' voleva con la guerra la rovina di Piero, egli poteva
facilmente averla; se voleva la pace, era molto meglio essere in
termine da dare, non ricevere, le condizioni di quella. Non mossono
queste parole messer Luca, come quello che aveva già posato
lo animo, ed era stato da Piero, con promesse di nuovi parentadi e
nuove condizioni, svolto; perché avevano con Giovanni
Tornabuoni una sua nipote in matrimonio congiunta. In modo che
confortò Niccolò a posare l'armi e tornarsene a casa;
perché e' doveva bastargli che la città si governasse
con i magistrati; e così seguirebbe, e che le arme ogni uomo
le poserebbe, e i Signori, dove loro avevono più parte,
sarebbono giudici delle differenze loro. Non potendo adunque
Niccolò altrimenti disporlo, se ne tornò a casa; ma
prima gli disse: - Io non posso, solo, fare bene alla mia
città; ma io posso bene pronosticarle il male: questo partito
che voi pigliate farà alla patria nostra perdere la sua
libertà, a voi lo stato e le sustanze, a me e agli altri la
patria.
16
La Signoria, in questo tumulto, aveva chiuso il Palazzo, e con i
suoi magistrati si era ristretta, non mostrando favore ad alcuna
delle parti. I cittadini, e massimamente quegli che avevano seguite
le parti di messer Luca, veggendo Piero armato e gli avversarii
disarmati, cominciorono a pensare, non come avessino a offendere
Piero, ma come avessino a diventare suoi amici. Donde che i primi
cittadini, capi delle fazioni, convennono in Palazzo, alla presenza
della Signoria, dove molte cose dello stato della città,
molte della reconciliazione di quella ragionorono. E perché
Piero, per la debilità del corpo, non vi poteva intervenire,
tutti d'accordo deliberorono andare alle sue case a trovarlo,
eccetto che Niccolò Soderini, il quale, avendo prima
raccomandato i suoi figliuoli e le sue cose a messer Tommaso, se ne
andò nella sua villa, per aspettare quivi il fine della cosa,
il quale reputava a sé infelice e alla patria sua dannoso.
Arrivati per tanto gli altri cittadini da Piero, uno di quelli, a
chi era stato commesso il parlare, si dolfe de' tumulti nati nella
città, mostrando come di quelli aveva maggiore colpa chi
aveva prima prese l'arme; e non sapendo quello che Piero, che era
stato il primo a pigliarle, si volesse, erano venuti per intendere
la volontà sua, e quando la fusse al bene della città
conforme, erano per seguirla. Alle quali parole Piero rispose come,
non quello che prende prima le arme è cagione degli scandoli,
ma colui che è primo a dare cagione che le si prendino; e se
pensassero più quali erano stati i modi loro verso di lui, si
maraviglierebbono meno di quello che per salvare sé avesse
fatto: perché vedrebbono che le convenzioni notturne, le
soscrizioni, le pratiche di torgli la città e la vita lo
avevono fatto armare; le quali arme non avendo mosse dalle case sue,
facevano manifesto segno dello animo suo, come per difendere
sé, non per offendere altri, le aveva prese. Né voleva
altro, né altro desiderava che la securtà o la quiete
sua; né aveva mai dato segno di sé di desiderare
altro; perché, mancata l'autorità della balia, non
pensò mai alcuno estraordinario modo per renderliene, ed era
molto contento che i magistrati governassero la città,
contentandosene quelli. E che si dovevono ricordare come Cosimo e i
figliuoli sapevono vivere in Firenze, con la balia e sanza la balia,
onorati; e nel '58, non la casa sua, ma loro la avevano riassunta; e
che, se ora non la volevono, che non la voleva ancora egli; ma che
questo non bastava loro, perché aveva veduto che non
credevono potere stare in Firenze standovi egli. Cosa veramente che
non arebbe mai, non che creduta, pensata, che gli amici suoi e del
padre non credessero potere vivere in Firenze con lui, non avendo
mai dato altro segno di sé, che di quieto e pacifico uomo.
Poi volse il suo parlare a messer Dietisalvi e ai fratelli, che
erano presenti, e rimproverò loro, con parole gravi e piene
di sdegno, i beneficii ricevuti da Cosimo, la fede avuta in quelli e
la grande ingratitudine loro. E furono di tanta forza le sue parole,
che alcuni de' presenti in tanto si commossono, che, se Piero non li
raffrenava, gli arebbono con l'arme manomessi. Concluse alla fine
Piero, che era per approvare tutto quello che loro e la Signoria
deliberassero, e che da lui non si domandava altro che vivere quieto
e securo. Fu sopra questo parlato di molte cose, né per
allora deliberatone alcuna, se non generalmente che gli era
necessario riformare la città e dare nuovo ordine allo stato.
17
Sedeva in quelli tempi gonfaloniere di giustizia Bernardo Lotti,
uomo non confidente a Piero, in modo che non gli parve, mentre che
quello era in magistrato, da tentare cosa alcuna, il che non
giudicò importante molto, sendo propinquo al fine del
magistrato suo. Ma venuta la elezione de' Signori i quali di
settembre e di ottobre seggono, l'anno 1466, fu eletto al sommo
magistrato Ruberto Lioni; il quale, subito che ebbe preso il
magistrato, sendo tutte le altre cose preparate, chiamò il
popolo in Piazza, e fece nuova balia, tutta della parte di Piero; la
quale poco di poi creò i magistrati secondo la volontà
del nuovo stato. Le quali cose spaurirono i capi della fazione
nimica; e messer Agnolo Acciaiuoli si fuggì a Napoli, messer
Dietisalvi Neroni e Niccolò Soderini a Vinegia, messer Luca
Pitti si restò in Firenze, confidandosi nelle promesse
fattegli da Piero e nel nuovo parentado. Furono quelli che si erano
fuggiti declarati rebelli, e tutta la famiglia de' Neroni fu
dispersa; e messer Giovanni di Nerone, allora arcivescovo di
Firenze, per fuggire maggiore male, si elesse voluntario esilio a
Roma. Furono molti altri cittadini, che subito si partirono, in
varii luoghi confinati. Né bastò questo, che si
ordinò una processione per ringraziare Iddio dello stato
conservato e della città riunita; nella solennità
della quale furono alcuni cittadini presi e tormentati, e di poi
parte di loro morti e parte posti in esilio. Né in questa
variazione di cose fu esemplo tanto notabile quanto quello di messer
Luca Pitti; perché subito si cognobbe la differenza quale
è dalla vittoria alla perdita, da il disonore all'onore.
Vedevasi nelle sue case una solitudine grandissima, dove prima erano
da moltissimi cittadini frequentate; per la strada gli amici, i
parenti, non che di accompagnarlo, ma di salutarlo temevano,
perché a parte di essi erano stati tolti gli onori e a parte
la roba, e tutti parimente minacciati; i superbi edifici che gli
aveva cominciati furono dagli edificatori abbandonati; i beneficii
che gli erano per lo adietro stati fatti si convertirono in
ingiurie, gli onori in vituperii; onde che molti di quelli che gli
avieno per grazia alcuna cosa donata di grande prezzo, come cosa
prestata ridomandavano; e quelli altri che solevono insino al cielo
lodarlo, come uomo ingrato e violento lo biasimavano. Tal che si
pentì, tardi, non avere a Niccolò Soderini creduto e
cercò più tosto di morire onorato con le armi in mano,
che vivere intra i vittoriosi suoi nimici disonorato.
18
Quelli che si trovavano cacciati cominciorono a pensare infra loro
varii modi di racquistare quella città che non si avevano
saputo conservare. Messer Agnolo Acciaiuoli non di meno, trovandosi
a Napoli, prima che pensasse di innovare cosa alcuna, volle tentare
l'animo di Piero, per vedere se poteva sperare di riconciliarsi
seco; e scrissegli una lettera in questa sentenza: - Io mi rido de'
giuochi della fortuna, e come a sua posta ella fa gli amici
diventare nimici, e gli nimici amici. Tu ti puoi ricordare come,
nello esilio di tuo padre, stimando più quella ingiuria che i
pericoli miei, io ne perdei la patria, e fui per perderne la vita;
né ho mai, mentre sono vivuto con Cosimo, mancato di onorare
e favorire la casa vostra né dopo la sua morte ho avuto animo
di offenderti. Vero è che la tua mala complessione, la tenera
età de' tuoi figliuoli in modo mi sbigottivono, che io
giudicai che fusse da dare tal forma allo stato, che dopo la tua
morte la patria nostra non rovinasse. Da questo sono nate le cose
fatte, non contro a te, ma in benifizio della patria mia; il che, se
pure è stato errore, merita e dalla mia buona mente e dalle
opere mie passate essere cancellato. Né posso credere, avendo
la casa tua trovato in me, tanto tempo, tanta fede, non trovare ora
in te misericordia, e che tanti miei meriti da un solo fallo debbino
essere destrutti. - Piero, ricevuta questa lettera, così gli
rispose: - Il ridere tuo costì è cagione che io non
pianga; perché, se tu ridessi a Firenze, io piangerei a
Napoli. Io confesso che tu hai voluto bene a mio padre; e tu
confesserai di averne da quello ricevuto; in modo che tanto
più era l'obligo tuo che il nostro, quanto si debbono stimare
più i fatti che le parole. Sendo tu stato adunque del tuo
bene ricompensato, non ti debbi ora maravigliare se del male ne
riporti giusti premii. Né ti scusa lo amore della patria;
perché non sarà mai alcuno che creda questa
città essere stata meno amata e accresciuta dai Medici che
dagli Acciaiuoli. Vivi per tanto disonorato costì, poi che
qui onorato vivere non hai saputo.
19
Disperato per tanto messer Agnolo di potere impetrare perdono, se ne
venne a Roma, e accozzossi con lo Arcivescovo e altri fuori usciti,
e con quelli termini potette più vivi si sforzorono di torre
il credito alla ragione de' Medici che in Roma si travagliava; a che
Piero con difficultà provide; pure, aiutato dagli amici,
fallì il disegno loro. Messer Dietisalvi dall'altra parte e
Niccolò Soderini con ogni diligenza cercorono di muovere il
Senato viniziano contra alla patria loro, giudicando che, se i
Fiorentini fussero da nuova guerra assaliti per essere lo stato loro
nuovo e odiato, che non potrieno sostenerla. Trovavasi in quel tempo
a Ferrara Giovan Francesco, figliuolo di messer Palla Strozzi, il
quale era, nella mutazione del '34, stato cacciato con il padre da
Firenze. Aveva costui credito grande ed era, secondo gli altri
mercatanti, estimato ricchissimo. Mostrorono questi nuovi ribelli a
Giovan Francesco la facilità del ripatriarsi, quando e
Viniziani ne facessero impresa; e facilmente credevono la farieno,
quando si potesse in qualche parte contribuire alla spesa; dove
altrimenti ne dubitavano. Giovan Francesco, il quale desiderava
vendicarsi delle ingiurie ricevute, credette facilmente a' consigli
di costoro, e promesse essere contento concorrere a questa impresa
con tutte le sue facultà. Donde che quelli se ne andorono al
Doge, e con quello si dolfono dello esilio, il quale non per altro
errore dicevano sopportare, che per avere voluto che la patria loro
con le leggi sue vivesse e che i magistrati, e non i pochi
cittadini, si onorassero: perché Piero de' Medici con altri,
suoi seguaci, i quali erano a vivere tirannicamente consueti,
avevono con inganno prese le armi, con inganno fattole posare a
loro, e con inganno cacciatigli poi della loro patria; né
furono contenti a questo, che eglino usorono mezzano Iddio ad
opprimere molti altri che sotto la fede data erano rimasi nella
città; e come nelle publiche e sacre cerimonie e solenni
supplicazioni, acciò che Iddio de' loro tradimenti fusse
partecipe, furono molti cittadini incarcerati e morti: cosa d'uno
impio e nefando esemplo. Il che per vendicare non sapevono dove con
più speranza si potere ricorrere che a quel Senato; il quale,
per essere sempre stato libero, doverrebbe di coloro avere
compassione che avessero la sua libertà perduta. Concitavano
adunque contro a' tiranni gli uomini liberi, contro agli impii i
pietosi; e che si ricordassero come la famiglia de' Medici aveva
tolto loro lo imperio di Lombardia, quando Cosimo, fuora della
volontà degli altri cittadini, contro a quel Senato
favorì e suvvenne Francesco; tanto che, se la giusta causa
loro non li moveva, il giusto odio e giusto desiderio di vendicarsi
muovere gli doverrebbe.
20
Queste ultime parole tutto quel Senato commossono; e deliberorono
che Bartolomeo Colione, loro capitano, assalisse il dominio
fiorentino. E quanto si potette prima fu insieme lo esercito; con il
quale si accostò Ercule da Esti, mandato da Borso marchese di
Ferrara. Costoro, nel primo assalto, non sendo ancora i Fiorentini
ad ordine, arsono il borgo di Dovadola e feciono alcuni danni nel
paese allo intorno. Ma i Fiorentini, cacciata che fu la parte nimica
a Piero, avieno con Galeazzo duca di Milano e con il re Ferrando
fatta nuova lega, e per loro capitano condotto Federigo conte di
Urbino, in modo che trovandosi ad ordine con gli amici, stimorono
meno i nimici; perché Ferrando mandò Alfonso suo
primogenito, e Galeazzo venne in persona, e ciascheduno con
conveniente forze; e feciono tutti testa a Castracaro, castello de'
Fiorentini posto nelle radici delle alpi che scendono dalla Toscana
in Romagna. I nimici, in quel mezzo, si erano ritirati verso Imola;
e così fra l'uno e l'altro esercito seguivano, secondo i
costumi di que' tempi, alcune leggieri zuffe; né per l'uno
né per l'altro si assalì o campeggiò terre,
né si dette copia al nimico di venire a giornata; ma standosi
ciascuno nelle sue tende, ciascuno con maravigliosa viltà si
governava. Questa cosa dispiaceva a Firenze; perché si vedeva
essere oppressa da una guerra nella quale si spendeva assai e si
poteva sperare poco; e i magistrati se ne dolfono con quelli
cittadini ch'eglino avieno a quella impresa deputati commissari. I
quali risposono essere di tutto il duca Galeazzo cagione, il quale,
per avere assai autorità e poca esperienza, non sapeva
prendere partiti utili, né prestava fede a quelli che
sapevono; e come gli era impossibile, mentre quello nello esercito
dimorava, che si potesse alcuna cosa virtuosa o utile operare.
Feciono i Fiorentini per tanto intendere a quel Duca come gli era
loro commodo e utile assai che personalmente e' fussi venuto agli
aiuti loro, perché sola tale reputazione era atta a potere
sbigottire i nimici, non di meno stimavano molto più la
salute sua e del suo stato che i commodi propri, perché,
salvo quello, ogni altra cosa speravano prospera, ma patendo quello,
temevono ogni avversità. Non giudicavano per tanto cosa molto
secura che egli molto tempo dimorasse assente da Milano, sendo nuovo
nello stato, e avendo i vicini potenti e sospetti, talmente che chi
volesse macchinare cosa alcuna controgli, potrebbe facilmente. Donde
che lo confortavano a tornarsene nel suo stato e lasciare parte
delle genti per la difesa loro. Piacque a Galeazzo questo consiglio
e sanza altro pensare se ne tornò a Milano. Rimasi adunque i
capitani de' Fiorentini sanza questo impedimento, per dimostrare che
fusse vera la cagione che del lento loro procedere avevano accusata,
si strinsono più al nimico, in modo che vennono ad una
ordinata zuffa, la quale durò mezzo un giorno, sanza che
niuna delle parti inclinasse. Nondimeno non vi morì alcuno:
solo vi furno alcuni cavagli feriti, e certi prigioni da ogni parte
presi. Era già venuto il verno e il tempo che gli eserciti
erano consueti ridursi alle stanze, per tanto messer Bartolomeo si
ritirò verso Ravenna, le genti fiorentine in Toscana; quelle
del Re e del Duca ciascuna negli stati de' loro signori si
ridussono. Ma da poi che per questo assalto non si era sentito
alcuno moto in Firenze, secondo che i rebelli fiorentini avieno
promesso, e mancando il soldo alle genti condotte, si trattò
l'accordo, e dopo non molte pratiche fu concluso. Per tanto i
rebelli fiorentini, privi d'ogni speranza, in varii luoghi si
partirono: messer Dietisalvi si ridusse a Ferrara, dove fu dal
marchese Borso ricevuto e nutrito; Niccolò Soderini se ne
andò a Ravenna, dove con una piccola provisione avuta da'
Viniziani invecchiò e morì. Fu costui tenuto uomo
giusto e animoso, ma nel risolversi dubio e lento, il che fece che,
gonfaloniere di giustizia, ei perdé quella occasione del
vincere che di poi, privato, volle racquistare e non potette.
21
Seguita la pace, quelli cittadini che erano rimasi in Firenze
superiori non parendo loro avere vinto, se con ogni ingiuria, non
solamente i nimici, ma i sospetti alla parte loro non affliggevano,
operorono con Bardo Altoviti, che sedeva gonfaloniere di giustizia,
che di nuovo a molti cittadini togliessi gli onori, a molti altri la
città. La qual cosa crebbe a loro potenza, e agli altri
spavento; la qual potenza sanza alcuno rispetto esercitavano, e in
modo si governavano, che pareva che Iddio e la fortuna avesse dato
loro quella città in preda. Delle quali cose Piero poche ne
intendeva, e a quelle poche non poteva, per essere dalla
infirmità oppresso, rimediare; perché era in modo
contratto, che d'altro che della lingua non si poteva valere.
Né ci poteva fare altri rimedi che ammunirli e pregarli
dovessero civilmente vivere e godersi la loro patria salva
più tosto che destrutta. E per rallegrare la città,
deliberò di celebrare magnificamente le nozze di Lorenzo suo
figliuolo, con il quale la Clarice nata di casa Orsina aveva
congiunta; le quali nozze furono fatte con quella pompa di apparati
e di ogni altra magnificenza che a tanto uomo si richiedeva; dove
più giorni in nuovi ordini di balli, di conviti e di antiche
rapresentazioni si consumorono. Alle quali cose si aggiunse, per
mostrare più la grandezza della casa de' Medici e dello
stato, duoi spettaculi militari: l'uno fatto dagli uomini a cavallo,
dove una campale zuffa si rapresentò; l'altro una
espugnazione di una terra dimostrò; le quali cose con quello
ordine furono fatte e con quella virtù esequite, che si
potette maggiore.
22
Mentre che queste cose in questa maniera in Firenze procedevano, il
resto della Italia viveva quietamente, ma con sospetto grande della
potenza del Turco, il quale con le sue imprese seguiva di combattere
i Cristiani e aveva espugnato Negroponte, con grande infamia e danno
del nome cristiano. Morì, in questi tempi, Borso marchese di
Ferrara, e a quello successe Ercule suo fratello. Morì
Gismondo da Rimino, perpetuo nimico alla Chiesa, ed erede del suo
stato rimase Ruberto, suo naturale figliuolo, il quale fu poi intra
i capitani di Italia nella guerra eccellentissimo. Morì papa
Paulo, e fu a lui creato successore Sisto IV, detto prima Francesco
da Savona, uomo di bassissima e vile condizione; ma per le sue
virtù era divenuto generale dell'ordine di San Francesco, e
di poi cardinale. Fu questo pontefice il primo che cominciasse a
mostrare quanto uno pontefice poteva, e come molte cose, chiamate
per lo adietro errori, si potevono sotto la pontificale
autorità nascondere. Aveva intra la sua famiglia Pietro e
Girolamo, i quali, secondo che ciascuno credeva, erano suoi
figliuoli; non di manco sotto altri più onesti nomi gli
palliava. Piero, perché era frate, condusse alla
dignità del cardinalato, del titolo di San Sisto; a Girolamo
dette la città di Furlì, e tolsela ad Antonio
Ordelaffi, i maggiori del quale erano di quella città stati
lungo tempo principi. Questo modo di procedere ambizioso lo fece
più dai principi di Italia stimare, e ciascuno cercò
di farselo amico; e perciò il duca di Milano dette per moglie
a Girolamo la Caterina, sua figliuola naturale, e per dote di quella
la città di Imola, della quale aveva spogliato Taddeo degli
Alidosi. Intra questo duca ancora e il re Ferrando si contrasse
nuovo parentado, perché Elisabella, nata d'Alfonso
primogenito del Re, con Giovan Galeazzo, primo figliuolo del Duca,
si congiunse.
23
Vivevasi per tanto in Italia assai quietamente, e la maggior cura di
quelli principi era di osservare l'uno l'altro, e con parentadi,
nuove amicizie e leghe, l'uno dell'altro assicurarsi. Non di meno,
in tanta pace, Firenze era da' suoi cittadini grandemente afflitta,
e Piero alla ambizione loro, dalla malattia impedito, non poteva
opporsi. Non di meno, per sgravare la sua conscienza, e per vedere
se poteva farli vergognare, gli chiamò tutti in casa, e
parlò loro in questa sentenza: - Io non arei mai creduto che
potesse venire tempo che i modi e costumi degli amici mi avessero a
fare amare e desiderare i nimici, e la vittoria la perdita;
perché io mi pensava avere in compagnia uomini che nelle
cupidità loro avessero qualche termine o misura, e che
bastasse loro vivere nella loro patria securi e onorati, e di
più, de' loro nimici vendicati. Ma io cognosco ora come io mi
sono di gran lunga ingannato, come quello che cognosceva poco la
naturale ambizione di tutti gli uomini, e meno la vostra:
perché non vi basta essere in tanta città principi e
avere voi pochi quegli onori, dignità e utili de' quali
già molti cittadini si solevono onorare; non vi basta avere
intra voi divisi i beni de' nimici vostri; non vi basta potere tutti
gli altri affliggere con i publici carichi, e voi, liberi da quelli,
avere tutte le publiche utilità; che voi con ogni
qualità di ingiuria ciascheduno affliggete. Voi spogliate de'
suoi beni il vicino, voi vendete la giustizia, voi fuggite i
giudicii civili, voi oppressate gli uomini pacifici, e gli insolenti
esaltate. Né credo che sia in tutta Italia tanti esempli di
violenza e di avarizia, quanti sono in questa città. Dunque
questa nostra patria ci ha dato la vita perché noi la
togliamo a lei? ci ha fatti vittoriosi perché noi la
distruggiamo? ci onora perché noi la vituperiamo? Io vi
prometto per quella fede che si debbe dare e ricevere dagli uomini
buoni, che, se voi seguiterete di portarvi in modo che io mi abbi a
pentire di avere vinto, io ancora mi porterò in maniera che
voi vi pentirete di avere male usata la vittoria. - Risposono quelli
cittadini secondo il tempo e il luogo accomodatamente; non di meno
dalle loro sinistre operazioni non si ritrassono. Tanto che Piero
fece venire celatamente messer Agnolo Acciaiuoli in Cafaggiuolo, e
con quello parlò a lungo delle condizioni della città:
né si dubita punto che, se non era dalla morte interrotto,
che gli avesse tutti i fuorusciti per frenare le rapine di quegli di
dentro alla patria restituiti. Ma a questi suoi onestissimi pensieri
si oppose la morte; perché, aggravato dal male del corpo e
dalle angustie dello animo, si morì l'anno della età
sua cinquantatreesimo. La virtù e bontà del quale la
patria sua non potette interamente cognoscere, per essere stato da
Cosimo suo padre infino quasi che allo estremo della sua vita
accompagnato, e per avere quelli pochi anni che sopravisse nelle
contenzioni civili e nella infirmità consumati. Fu sotterrato
Piero nel tempio di San Lorenzo, propinquo al padre; e furno le sue
esequie fatte con quella pompa che tanto cittadino meritava.
Rimasono di lui duoi figliuoli, Lorenzo e Giuliano, i quali
benché dessero a ciascheduno speranza di dovere essere uomini
alla repubblica utilissimi, non di meno la loro gioventù
sbigottiva ciascuno.
24
Era in Firenze intra i primi cittadini del governo, e molto di lunga
agli altri superiore, messer Tommaso Soderini, la cui prudenza e
autorità, non solo in Firenze, ma appresso a tutti i principi
di Italia era nota. Questi, dopo la morte di Piero, da tutta la
città era osservato; e molti cittadini alle sue case, come
capo della città, lo vicitorono, molti principi gli
scrissono. Ma egli, che era prudente e che ottimamente la fortuna
sua e di quella casa cognosceva, alle lettere de' principi non
rispose, e a' cittadini fece intendere come, non le sue case, ma
quelle de' Medici si avevano a vicitare. E per mostrare con
l'effetto quello che con i conforti aveva dimostro, ragunò
tutti i primi delle famiglie nobili nel convento di Santo Antonio,
dove fece ancora Lorenzo e Giuliano de' Medici venire; e quivi
disputò, con una lunga e grave orazione, delle condizioni
della città, di quelle di Italia e degli umori de' principi
d'essa, e concluse che, se volevano che in Firenze si vivesse unito
e in pace, e dalle divisioni di dentro e dalle guerre di fuora
securo, era necessario osservare quegli giovani e a quella casa la
reputazione mantenere: perché gli uomini di fare le cose che
sono fare consueti mai non si dolgono, le nuove, come presto si
pigliano, così ancora presto si lasciano, e sempre fu
più facile mantenere una potenza la quale con la lunghezza
del tempo abbia spenta la invidia, che suscitarne una nuova la quale
per moltissime cagioni si possa facilmente spegnere. Parlò,
apresso a messer Tommaso, Lorenzo, e benché fusse giovane,
con tanta gravità e modestia, che dette a ciascheduno
speranza di essere quello che di poi divenne. E prima partissero di
quel luogo, quegli cittadini giurorono di prendergli in figliuoli, e
loro in padri. Restati adunque in questa conclusione, erano Lorenzo
e Giuliano come principi dello stato onorati; e quelli dal consiglio
di messer Tommaso non si partivano.
25
E vivendosi assai quietamente dentro e fuora, non sendo guerra che
la comune quiete perturbasse, nacque uno inopinato tumulto, il quale
fu come un presagio de' futuri danni. Intra le famiglie le quali con
la parte di messer Luca Pitti rovinorono fu quella de' Nardi;
perché Salvestro e i frategli, capi di quella famiglia,
furono prima mandati in esilio, e di poi, per la guerra che mosse
Bartolommeo Colioni, fatti rebelli. Intra questi era Bernardo,
fratello di Salvestro, giovane pronto e animoso. Costui, non
potendo, per la povertà, sopportare lo esilio, né
veggendo, per la pace fatta, modo alcuno al ritorno suo,
deliberò di tentare qualche cosa da potere, mediante quella,
dare cagione ad una nuova guerra: perché molte volte un
debile principio partorisce gagliardi effetti, con ciò sia
che gli uomini sieno più pronti a seguire una cosa mossa che
a muoverla. Aveva Bernardo conoscenza grande in Prato, e nel contado
di Pistoia grandissima, e massimamente con quelli del Palandra,
famiglia, ancora che contadina, piena di uomini, e secondo gli altri
Pistolesi, nelle armi e nel sangue nutriti. Sapeva come costoro
erano mal contenti, per essere stati in quelle loro nimicizie da'
magistrati fiorentini male trattati. Conosceva oltre a di questo gli
umori de' Pratesi, e come e' pareva loro essere superbamente e
avaramente governati; e di alcuno sapeva il male animo contro allo
stato. In modo che tutte queste cose gli davano speranza di potere
accendere un fuoco in Toscana, faccendo ribellare Prato, dove poi
concorressero tanti a nutrirlo, che quelli che lo volessero spegnere
non bastassero. Comunicò questo suo pensiero con messer
Dietisalvi; e lo domandò, quando lo occupare Prato gli
riuscisse, quali aiuti potesse, mediante lui, dai principi sperare.
Parve a messer Dietisalvi la impresa pericolosissima e quasi
impossibile a riuscire: non di meno, veggendo di potere, con il
pericolo d'altri, di nuovo tentare la fortuna, lo confortò al
fatto, promettendogli da Bologna e da Ferrara aiuti certissimi,
quando gli operasse in modo che tenesse e difendesse Prato almeno
quindici giorni. Ripieno adunque Bernardo, per questa promessa,
d'una felice speranza, si condusse celatamente a Prato, e comunicata
la cosa con alcuni, li trovò dispostissimi. Il quale animo e
volontà trovò ancora in quelli del Palandra, e
convenuti insieme del tempo e del modo, fece Bernardo il tutto a
messer Dietisalvi intendere.
26
Era podestà di Prato per il popolo di Firenze Cesare
Petrucci. Hanno questi simili governatori di terre consuetudine di
tenere le chiavi delle porti appresso di loro; e qualunque volta,
ne' tempi massime non sospetti, alcuno della terra le domanda, per
uscire o entrare di notte in quella, gliene concedono. Bernardo, che
sapeva questo costume, propinquo al giorno, insieme con quelli del
Palandra e circa cento armati, alla porta che guarda verso Pistoia
si presentò; e quelli che, dentro, sapevano il fatto ancora
s'armorono; uno de' quali domandò al Podestà le
chiavi, fingendo che uno della terra per entrare le domandasse. Il
Podestà, che niente d'uno simile accidente poteva dubitare,
mandò uno suo servidore con quelle: al quale, come fu
alquanto dilungatosi dal Palagio, furono tolte da' congiurati; e
aperta la porta, fu Bernardo con i suoi armati intromesso, e
convenuti insieme, in due parti si divisono, una delle quali,
guidata da Salvestro Pratese, occupò la cittadella, l'altra,
insieme con Bernardo, prese il Palagio, e Cesare con tutta la sua
famiglia dierono in guardia ad alcuni di loro. Di poi levorono il
romore, e per la terra andavano il nome della libertà
gridando. Era già apparito il giorno, e a quel romore molti
popolani corsono in Piazza, e intendendo come la rocca e il Palagio
erano stati occupati e il Podestà con i suoi preso, stavano
ammirati donde potesse questo accidente nascere. Gli Otto cittadini
che tengono in quella terra il supremo grado nel palagio loro
convennono, per consigliarsi di quello fussi da fare. Ma Bernardo e
i suoi, corso che gli ebbe un tempo per la terra, e veggendo di non
essere seguito da alcuno, poi che gli intese gli Otto essere
insieme, se n'andò da quelli; e narrò la cagione della
impresa sua essere volere liberare loro e la patria sua dalla
servitù; e quanta gloria sarebbe a quelli, se prendevono
l'arme e in questa gloriosa impresa lo accompagnavano, dove
acquisterieno quiete perpetua ed eterna fama. Ricordò loro
l'antica loro libertà e le presenti condizioni; mostrò
gli aiuti certi, quando e' volessero, pochissimi giorni, a quelle
tante forze che i Fiorentini potessero mettere insieme opporsi;
affermò di avere intelligenza in Firenze, la quale si
dimosterrebbe subito che si intendesse quella terra essere unita a
seguirlo. Non si mossono gli Otto per quelle parole; e gli risposono
non sapere se Firenze si viveva libera o serva, come cosa che a loro
non si aspettava intenderla; ma che sapevano bene che per loro non
si desiderò mai altra libertà che servire a quegli
magistrati che Firenze governavano, da' quali mai non avevono
ricevuta tale ingiuria che gli avessero a prendere l'armi contro a
quelli. Per tanto lo confortavano a lasciare il Podestà nella
sua libertà, e la terra libera dalle sue genti; e sé
da quel pericolo con prestezza traessi nel quale con poca prudenza
era entrato. Non si sbigottì Bernardo per queste parole, ma
deliberò di vedere se la paura moveva i Pratesi, poi che i
prieghi non li movevono: e per spaventargli pensò di fare
morire Cesare, e tratto quello di prigione, comandò che fusse
alle finestre del Palagio appiccato. Era già Cesare propinquo
alle finestre, con il capestro al collo, quando ei vide Bernardo che
sollecitava la sua morte. Al quale voltosi disse: - Bernardo, tu mi
fai morire, credendo essere di poi dai Pratesi seguitato: ed egli ti
riuscirà il contrario; perché la reverenzia che questo
popolo ha agli rettori che ci manda il popolo di Firenze è
tanta che, come ei si vedrà questa ingiuria fattami, ti
conciterà tanto odio contro, che ti partorirà la tua
rovina. Per tanto non la morte, ma la vita mia puote essere cagione
della vittoria tua: perché, se io comanderò loro
quello che ti parrà, più facilmente a me che a te
ubbidiranno; e seguendo io gli ordini tuoi, ci verrai ad avere la
intenzione tua. - Parve a Bernardo, come quello che era scarso di
partiti, questo consiglio buono; e gli comandò che, venuto
sopra uno verone che risponde in Piazza, comandasse al popolo che lo
ubbidisse. La quale cosa fatta che Cesare ebbe, fu riposto in
prigione.
27
Era già la debolezza de' congiurati scoperta; e molti
Fiorentini che abitavano la terra erano convenuti insieme, intra i
quali era messer Giorgio Ginori, cavaliere di Rodi. Costui fu il
primo che mosse le armi contro di loro; e assalì Bernardo, il
quale andava discorrendo per la Piazza, ora pregando, ora
minacciando se non era seguitato e ubbidito; e fatto impeto contra
di lui con molti che messer Giorgio seguirono, fu ferito e preso.
Fatto questo, fu facil cosa liberare il Podestà e superare
gli altri, perché, sendo pochi e in più parti divisi,
furono quasi che tutti presi o morti. A Firenze era venuto, in quel
mezzo, la fama di questo accidente, e di molto maggiore che non era
seguito, intendendosi essere preso Prato, il Podestà con la
famiglia morto, piena di nimici la terra; Pistoia essere in arme, e
molti di quelli cittadini essere in questa congiura: tanto che
subito fu pieno il Palagio di cittadini, e con la Signoria a
consigliarsi convennono. Era allora in Firenze Ruberto da San
Severino, capitano nella guerra reputatissimo: per tanto si
deliberò di mandarlo, con quelle genti che potette più
adunare insieme, a Prato; e gli commissono si appropinquasse alla
terra, e dessi particulare notizia della cosa, faccendovi quelli
rimedi che alla prudenza sua occorressero. Era passato Ruberto di
poco il castello di Campi quando fu da uno mandato di Cesare
incontrato, che significava Bernardo essere preso, e i suoi compagni
fugati e morti, e ogni tumulto posato. Onde che si ritornò a
Firenze: e poco di poi vi fu condotto Bernardo, e ricerco dal
magistrato del vero della impresa, e trovatala debile, disse averla
fatta perché, avendo deliberato più tosto di morire in
Firenze che vivere in esilio, volle che la sua morte almeno fusse da
qualche ricordevole fatto accompagnata.
28
Nato quasi che in un tratto e oppresso questo tumulto, ritornorono i
cittadini al loro consueto modo di vivere, pensando di godersi sanza
alcuno rispetto quello stato che si avevano stabilito e fermo. Di
che ne nacquono alla città quelli mali che sogliono nella
pace il più delle volte generarsi; perché i giovani,
più sciolti che l'usitato, in vestire, in conviti, in altre
simili lascivie sopra modo spendevano, ed essendo oziosi, in giuochi
e in femmine il tempo e le sustanze consumavano e gli studi loro
erano apparire con il vestire splendidi e con il parlare sagaci e
astuti; e quello che più destramente mordeva gli altri era
più savio e da più stimato. Questi così fatti
costumi furono da' cortigiani del duca di Milano accresciuti, il
quale insieme con la sua donna e con tutta la sua ducale corte, per
sodisfare, secondo che disse, ad uno boto, venne in Firenze; dove fu
ricevuto con quella pompa che conveniva un tanto principe e tanto
amico alla città ricevere. Dove si vide, cosa in quel tempo
nella nostra città ancora non veduta, che, sendo il tempo
quadragesimale, nel quale la Chiesa comanda che sanza mangiar carne
si digiuni, quella sua corte, sanza rispetto della Chiesa o di Dio,
tutta di carne si cibava. E perché si feciono molti
spettaculi per onorarlo, intra i quali, nel tempio di Santo Spirito,
si rapresentò la concessione dello Spirito Santo agli
Apostoli, e perché, per i molti fuochi che in simile
solennità si fanno, quel tempio tutto arse, fu creduto da
molti Dio, indegnato contro di noi, avere voluto della sua ira
dimostrare quel segno. Se adunque quel duca trovò la
città di Firenze piena di cortigiane delicatezze e costumi ad
ogni bene ordinata civilità contrari, la lasciò molto
più; onde che i buoni cittadini pensorono che fusse
necessario porvi freno, e con nuova legge a' vestiri, a' mortorii,
ai conviti termine posero.
29
Nel mezzo di tanta pace nacque uno nuovo e insperato tumulto in
Toscana. Fu trovata nel contado di Volterra da alcuni di quelli
cittadini una cava d'allumi, della quale cognoscendo quelli la
utilità, per avere chi con i danari li aiutasse e con la
autorità gli difendesse, ad alcuni cittadini fiorentini si
accostorono, e degli utili che di quella si traevano li ferono
partecipi. Fu questa cosa nel principio, come il più delle
volte delle imprese nuove interviene, dal popolo di Volterra stimata
poco; ma con il tempo, cognosciuto l'utile, volle rimediare a
quello, tardi e sanza frutto, che a buona ora facilmente arebbe
rimediato. Cominciossi ne' Consigli loro ad agitare la cosa,
affermando non essere conveniente che una industria trovata ne'
terreni publici in privata utilità si converta. Mandorono
sopra questo oratori a Firenze: fu la causa in alcuni cittadini
rimessa, i quali, o per essere corrotti dalla parte, o perché
giudicassero cosa essere bene, riferirono il popolo volterrano non
volere le cose giuste desiderando privare i suoi cittadini delle
fatiche e industrie loro, e per ciò ai privati, non a lui,
quelle lumiere appartenevano; ma essere bene conveniente che
ciascuno anno certa quantità di danari pagassero, in segno di
ricognoscerlo per superiore. Questa risposta fece non diminuire, ma
crescere i tumulti e gli odii in Volterra; e niuna altra cosa, non
solamente ne' loro Consigli, ma fuora, per tutta la città,
s'agitava; richiedendo l'universale quello che pareva gli fusse
stato tolto, e volendo i particulari conservare quello che si
avevano prima acquistato e di poi era stato loro dalla sentenzia de'
Fiorentini confermato. Tanto che, in queste dispute, fu morto uno
cittadino in quella città reputato, chiamato il Pecorino, e
dopo lui molti altri che con quello si accostavano, e le loro case
saccheggiate e arse; e da quello impeto medesimo mossi, con fatica
dalla morte de' rettori che quivi erano per il popolo fiorentino si
astennono.
30
Seguito questo primo insulto, deliberorono, prima che ogni cosa,
mandare oratori a Firenze; i quali feciono intendere a quelli
Signori che, se volevono conservare loro i capituli antichi, che
ancora eglino la città nella antica sua servitù
conserverebbono. Fu assai disputata la risposta. Messer Tommaso
Soderini consigliava che fusse da ricevere i Volterrani in qualunque
modo e' volessero ritornare, non gli parendo tempi da suscitare una
fiamma sì propinqua, che potesse ardere la casa nostra,
perché temeva la natura del Papa, la potenza del Re,
né confidava nella amicizia de' Viniziani, né in
quella del Duca, per non sapere quanta fede si fusse nell'una e
quanta virtù nell'altra, ricordando quella trita sentenza:
essere meglio uno magro accordo che una grassa vittoria. Dall'altra
parte Lorenzo de' Medici, parendogli avere occasione di dimostrare
quanto con il consiglio e con la prudenza valesse, sendo massime di
così fare confortato da quegli che alla autorità di
messer Tommaso avevono invidia, deliberò fare la impresa, e
con l'armi punire l'arroganza de' Volterrani; affermando che, se
quelli non fussero con esemplo memorabile corretti, gli altri sanza
reverenzia o timore alcuno, di fare il medesimo per ogni leggera
cagione non dubiterebbono. Deliberata adunque la impresa, fu
risposto a' Volterrani come eglino non potevano domandare la
osservanza di quegli capitoli che loro medesimi avevano guasti, e
per ciò, o e' si rimettessero nell'arbitrio di quella
Signoria, o eglino aspettassero la guerra. Ritornati adunque i
Volterrani con questa risposta, si preparavano alle difese,
affortificando la terra e mandando a tutti i principi italiani per
convocare aiuti, e furono da pochi uditi, perché solamente i
Sanesi e il signore di Piombino dettono loro alcuna speranza di
soccorso. I Fiorentini dall'altra parte pensando che la importanza
della vittoria loro fusse nello accelerare, messono insieme dieci
mila fanti e due mila cavagli, i quali, sotto lo imperio di Federigo
signore d'Urbino, si presentorono nel contado di Volterra, e
facilmente quello tutto occuporono. Messono di poi il campo alla
città, la quale, sendo posta in luogo alto e quasi da ogni
parte tagliato, non si poteva, se non da quella banda dove è
il tempio di Santo Alessandro, combattere. Avevano i Volterrani per
loro difesa condotti circa mille soldati; i quali, veggendo la
gagliarda espugnazione che i Fiorentini facevono, diffidandosi di
poterla difendere, erano nelle difese lenti e nelle ingiurie che
ogni dì facevono a' Volterrani prontissimi. Dunque quegli
poveri cittadini, e fuori dai nimici erano combattuti, e dentro
dagli amici oppressi; tanto che, desperati della salute loro,
cominciorono a pensare all'accordo, e non lo trovando migliore,
nelle braccia de' commissari si rimissono. I quali si feciono aprire
le porti, e intromesso la maggior parte dello esercito, se ne
andorono al Palagio dove i Priori loro erano; a' quali comandorono
se ne tornassero alle loro case; e nel cammino fu uno di quegli, da
uno de' soldati, per dispregio, spogliato. Da questo principio, come
gli uomini sono più pronti al male che al bene, nacque la
destruzione e il sacco di quella città; la quale per tutto un
giorno fu rubata e scorsa; né a donne né a luoghi pii
si perdonò; e i soldati, così quegli che l'avevano
male difesa, come quegli che l'avevano combattuta, delle sue
sustanze la spogliarono. Fu la novella di questa vittoria con
grandissima allegrezza da' Fiorentini ricevuta; e perché la
era stata tutta impresa di Lorenzo, ne salì quello in
reputazione grandissima. Onde che uno dei suoi più intimi
amici rimproverò a messer Tommaso Soderini il consiglio suo,
dicendogli: - Che dite voi, ora che Volterra si è acquistata?
- a cui messer Tommaso rispose: - A me pare ella perduta:
perché, se voi la ricevevi d'accordo, voi ne traevi utile e
securtà, ma avendola a tenere per forza, ne' tempi avversi vi
porterà debolezza e noia, e ne' pacifici danno e spesa.
31
In questi tempi il Papa, cupido di tenere le terre della Chiesa
nella obbedienza loro, aveva fatto saccheggiare Spuleto, che si era,
mediante le intrinseche fazioni, ribellato; di poi, perché
Città di Castello era nella medesima contumacia, l'aveva
obsediata. Era in quella terra principe Niccolò Vitelli:
teneva costui grande amicizia con Lorenzo de' Medici; donde che da
quello non gli fu mancato di aiuti, i quali non furono tanti che
defendessero Niccolò, ma furono ben suffizienti a gittare i
primi semi della nimicizia intra Sisto e i Medici; i quali poco di
poi produssono malissimi frutti. Né arebbono differito molto
a dimostrarsi, se la morte di frate Piero, cardinale di Santo Sisto,
non fusse seguita; perché, avendo questo cardinale circuito
Italia, e ito a Vinegia e Milano, sotto colore di onorare le nozze
di Ercule marchese di Ferrara, andava tentando gli animi di quelli
principi, per vedere come inverso i Fiorentini gli trovava disposti.
Ma ritornato a Roma si morì, non sanza suspizione di essere
stato da' Viniziani avvelenato, come quelli che temevano della
potenza di Sisto, quando si fusse potuto dell'animo e dell'opera di
frate Piero valere: perché, non ostante che fusse dalla
natura di vile sangue creato, e di poi intra i termini d'uno
convento vilmente nutrito, come prima al cardinalato pervenne,
apparse in lui tanta superbia e tanta ambizione che, non che il
cardinalato, ma il pontificato non lo capeva; perché non
dubitò di celebrare uno convito in Roma, che a qualunque re
sarebbe stato giudicato estraordinario; dove meglio che ventimila
fiorini consumò. Privato adunque Sisto di questo ministro,
seguitò i disegni suoi con più lentezza. Non di meno,
avendo i Fiorentini, Duca e Viniziani rinnovato la lega, e lasciato
il luogo al Papa e al Re per entrare in quella, Sisto ancora e il Re
si collegorono, lasciando luogo agli altri principi di potervi
entrare. E già si vedeva l'Italia divisa in due fazioni,
perché ciascuno dì nascevano cose che infra queste due
leghe generavono odio; come avvenne dell'isola di Cipri, alla quale
il re Ferrando aspirava, e i Viniziani la occuporono; onde che il
Papa e il Re si venivano a ristringere più insieme. Era in
Italia allora tenuto nelle arme eccellentissimo Federigo principe di
Urbino, il quale molto tempo aveva per il popolo fiorentino
militato. Deliberorono per tanto il Re e il Papa, acciò che
la lega nimica mancasse di questo capo, guadagnarsi Federigo; e il
Papa lo consigliò, e il Re lo pregò andasse a trovarlo
a Napoli. Ubbidì Federigo, con ammirazione e dispiacere de'
Fiorentini, i quali credevano che a lui come a Iacopo Piccinino
intervenisse. Non di meno ne avvenne il contrario: perché
Federigo tornò da Napoli e da Roma onoratissimo, e di quella
loro lega capitano. Non mancavano ancora il Re e il Papa di tentare
gli animi de' signori di Romagna e de' Sanesi per farsegli amici e
per potere, mediante quegli, più offendere i Fiorentini.
Della qual cosa accorgendosi quegli, con ogni rimedio opportuno
contro alla ambizione loro si armavano; e avendo perduto Federigo da
Urbino, soldorono Ruberto da Rimino; rinnovorono la lega con i
Perugini, e con il signore di Faenza si collegorono. Allegavano il
Papa e il Re la cagione dello odio contro a' Fiorentini essere che
desideravano da' Viniziani si scompagnassero e conlegassinsi con
loro; perché il Papa non giudicava che la Chiesa potesse
mantenere la reputazione sua, né il conte Girolamo gli stati
di Romagna, sendo i Fiorentini e Viniziani uniti. Dall'altra parte i
Fiorentini dubitavano che volessero inimicargli con i Viniziani, non
per farseli amici, ma per potere più facilmente ingiuriargli:
tanto che in questi sospetti e diversità d'umori si visse in
Italia duoi anni prima che alcuno tumulto nascesse. Ma il primo che
nacque fu, ancora che piccolo, in Toscana.
32
Di Braccio da Perugia, uomo, come più volte abbiamo dimostro,
nella guerra reputatissimo, rimasono duoi figliuoli: Oddo e Carlo.
Questi era di tenera età, quell'altro fu dagli uomini di Val
di Lamona ammazzato, come di sopra mostrammo; ma Carlo, poi che fu
agli anni militari pervenuto, fu dai Viniziani, per la memoria del
padre e per la speranza che di lui si aveva, intra i condottieri di
quella republica ricevuto. Era venuto, in questi tempi, il fine
della sua condotta; e quello non volle che per allora da quel senato
gli fusse confermata; anzi deliberò vedere se, con il nome
suo e riputazione del padre, ritornare negli stati suoi di Perugia
poteva. A che i Viniziani facilmente consentirono, come quelli che
nelle innovazioni delle cose sempre solevano accrescere lo imperio
loro. Venne per tanto Carlo in Toscana; e trovando le cose di
Perugia difficili, per essere in lega con i Fiorentini, e volendo
che questa sua mossa partorisse qualche cosa degna di memoria,
assaltò i Sanesi, allegando essere quelli debitori suoi per
servizi avuti da suo padre nelli affari di quella repubblica, e per
ciò volerne essere sodisfatto, e con tanta furia gli
assaltò, che quasi tutto il dominio loro mandò
sottosopra. Quegli cittadini, veggendo tale insulto, come eglino
sono facili a credere male de' Fiorentini, si persuasono tutto
essere con loro consenso esequito, e il Papa e il Re di rammarichii
riempierono. Mandorono ancora oratori a Firenze; i quali si dolfono
di tanta ingiuria, e destramente mostrorono che, sanza essere
suvvenuto, Carlo non arebbe potuto con tanta securtà
ingiuriargli. Di che i Fiorentini si escusorono, affermando essere
per fare ogni opera che Carlo si astenesse da lo offendergli; e in
quel modo che gli oratori vollono, a Carlo comandorono che da lo
offendere i Sanesi si astenesse. Di che Carlo si dolfe, mostrando
che i Fiorentini, per non lo suvvenire, si erano privi d'un grande
acquisto e avieno privo lui d'una gran gloria: perché, in
poco tempo, prometteva loro la possessione di quella terra: tanta
viltà aveva trovata in essa, e tanti pochi ordini alla
difesa. Partissi adunque Carlo e alli stipendi usati de' Viniziani
si ritornò, e i Sanesi, ancora che mediante i Fiorentini
fussero da tanti danni liberi rimasono non di meno pieni di sdegno
contro a quelli, perché non pareva loro avere alcuno obligo
con coloro che gli avessero d'un male di che prima fussero stati
cagione liberati.
33
Mentre che queste cose ne' modi sopra narrati tra il Re e il Papa e
in Toscana si travagliavano, nacque in Lombardia uno accidente di
maggiore momento e che fu presagio di maggiori mali. Insegnava in
Milano la latina lingua a' primi giovani di quella città Cola
Montano, uomo litterato e ambizioso. Questo, o che gli avesse in
odio la vita e costumi del Duca, o che pure altra cagione lo
movesse, in tutti i suoi ragionamenti il vivere sotto un principe
non buono detestava, gloriosi e felici chiamando quegli a' quali di
nascere e vivere in una republica aveva la natura e la fortuna
conceduto; mostrando come tutti gli uomini famosi si erano nelle
republiche e non sotto i principi nutriti; perché quelle
nutriscono gli uomini virtuosi, e quegli gli spengono, facendo l'una
profitto dell'altrui virtù, l'altra temendone. I giovani con
chi egli aveva più familiarità presa erano
Giovannandrea Lampognano, Carlo Visconti e Girolamo Olgiato. Con
costoro più volte della pessima natura del Principe, della
infelicità di chi era governato da quello ragionava; e in
tanta confidenza dello animo e volontà di quegli giovani
venne, che gli fece giurare che, come per la età e'
potessero, la loro patria dalla tirannide di quel principe
libererebbono. Sendo ripieni adunque questi giovani di questo
desiderio, il quale sempre con gli anni crebbe, i costumi e modi del
Duca, e di più le particulari ingiurie contro a loro fatte,
di farlo mandare ad effetto affrettorono. Era Galeazzo libidinoso e
crudele, delle quali due cose gli spessi esempli lo avevono fatto
odiosissimo; perché non solo non gli bastava corrompere le
donne nobili, che prendeva ancora piacere di publicarle; né
era contento fare morire gli uomini, se con qualche modo crudele non
gli ammazzava. Non viveva ancora sanza infamia di avere morta la
madre; perché, non gli parendo essere principe, presente
quella, con lei in modo si governò, che le venne voglia di
ritirarsi nella sua dotale sede a Cremona, nel quale viaggio, da
subita malattia presa morì: donde molti giudicorono quella
dal figliuolo essere stata fatta morire. Aveva questo duca, per via
di donne, Carlo e Girolamo disonorati, e a Giovannandrea non aveva
voluto la possessione della badia di Miramondo, stata ad un suo
propinquo dal Pontefice resignata, concedere. Queste private
ingiurie accrebbono la voglia a questi giovani, con il vendicarle,
liberare la loro patria da tanti mali; sperando che, qualunque volta
riuscisse loro lo ammazzarlo, di essere, non solamente da molti de'
nobili ma da tutto il popolo seguiti. Deliberatisi adunque a questa
impresa, si trovavano spesso insieme; di che l'antica
familiarità non dava alcuna ammirazione: ragionavano sempre
di questa cosa, e per fermare più l'animo al fatto, con le
guaine di quelli ferri ch'eglino avieno a quella opera destinati,
ne' fianchi e nel petto l'uno l'altro percotevono. Ragionorono del
tempo e del loco: in Castello non pareva loro securo; a caccia,
incerto e pericoloso; ne' tempi che quello per la terra giva a
spasso, difficile e non riuscibile; ne' conviti, dubio. Per tanto
deliberarono in qualche pompa e publica festivitate opprimerlo, dove
fussero certi che venisse, ed eglino, sotto varii colori, vi
potessero loro amici ragunare. Conclusono ancora che, sendo alcuno
di loro per qualunque cagione dalla corte ritenuti, gli altri
dovessero, per il mezzo del ferro e de' nimici armati, ammazzarlo.
34
Correva l'anno 1476, ed era propinqua la festività del Natale
di Cristo; e perché il Principe, il giorno di Santo Stefano,
soleva con pompa grande vicitare il tempio di quello martire,
deliberorono che quello fusse il luogo e il tempo commodo ad
esequire il pensiero loro. Venuta adunqua la mattina di quel santo,
feciono armare alcuni de' loro più fidati amici e servidori,
dicendo volere andare in aiuto di Giovannandrea, il quale contro
alla voglia di alcuni suoi emuli voleva condurre nelle sue
possessioni uno aquedutto; e quelli così armati al tempio
condussono, allegando volere, avanti partissero, prendere licenza
dal Principe. Feciono ancora venire in quel luogo, sotto varii
colori, più altri loro amici e congiunti, sperando che, fatta
la cosa, ciascheduno nel resto della impresa loro gli seguitasse. E
lo animo loro era, morto il Principe, ridursi insieme con quegli
armati, e gire in quella parte della terra dove credessero
più facilmente sollevare la plebe, e quella contro alla
Duchessa e a' principi dello stato fare armare. E stimavano che il
popolo, per la fame dalla quale era aggravato, dovesse facilmente
seguirgli, perché disegnavano dargli la casa di messer Cecco
Simonetta, di Giovanni Botti e di Francesco Lucani, tutti principi
del governo, in preda, e per questa via assicurare loro, e rendere
la libertà al popolo. Fatto questo disegno, e confirmato
l'animo a questa esecuzione, Giovannandrea con gli altri furno al
tempio di buona ora; udirono messa insieme; la quale udita,
Giovannandrea si volse ad una statua di Santo Ambrogio e disse: - O
padrone di questa nostra città, tu sai la intenzione nostra e
il fine a che noi voliamo metterci a tanti pericoli: sia favorevole
a questa nostra impresa; e dimostra, favorendo la giustizia, che la
ingiustizia ti dispiaccia. - Al Duca dall'altro canto, avendo a
venire al tempio, intervennono molti segni della sua futura morte:
perché, venuto il giorno, si vestì, secondo che
più volte costumava, una corazza, la quale di poi subito si
trasse, come se nella presenza o nella persona lo offendesse, volle
udire messa in Castello, e trovò che il suo cappellano era
ito a Santo Stefano con tutti i suoi apparati di cappella; volle
che, in cambio di quello, il vescovo di Como celebrasse la messa, e
quello allegò certi impedimenti ragionevoli: tanto che, quasi
per necessità, deliberò di andare al tempio, e prima
si fece venire Giovangaleazzo ed Ermes suoi figliuoli, e quelli
abbracciò e baciò molte volte, né pareva
potesse spiccarsi da quelli; pure alla fine, deliberato allo andare,
si uscì di Castello, ed entrato in mezzo dello oratore di
Ferrara e di Mantova, ne andò al tempio. I congiurati, in
quel tanto, per dare di loro minore suspizione, e fuggire il freddo
che era grandissimo, si erano in una camera dello arciprete della
chiesa, loro amico, ritirati; e intendendo come il Duca veniva, se
ne vennono in chiesa: e Giovanni Andrea e Girolamo si posono dalla
destra parte allo entrare del tempio, e Carlo dalla sinistra.
Entravano già nel tempio quelli che precedono al Duca; di poi
entrò egli, circundato da una moltitudine grande, come era
conveniente, in quella solennità, ad una ducale pompa. I
primi che mossano fu il Lampognano e Girolamo. Costoro, simulando di
far fare largo al Principe, se gli accostorono, e strette le armi,
che corte e acute avevono nelle maniche nascose, lo assalirono. Il
Lampognano gli dette due ferite, l'una nel ventre, l'altra nella
gola; Girolamo ancora nella gola e nel petto lo percosse. Carlo
Visconte, perché si era posto più propinquo alla
porta, ed essendogli il Duca passato avanti, quando dai compagni fu
assalito, nol potette ferire davanti, ma con duoi colpi la schiena e
la spalla gli trafisse. E furono queste sei ferite sì preste
e sì subite, che il Duca fu prima in terra che quasi niuno
del fatto si accorgesse; né quello potette altro fare o dire,
salvo che, cadendo, una volta sola il nome della Nostra Donna in suo
aiuto chiamare. Caduto il Duca in terra, il romore si levò
grande; assai spade si sfoderorono e, come avviene nelli casi non
preveduti, chi fuggiva del tempio e chi correva verso il tumulto
sanza avere alcuna certezza o cagione della cosa. Non di meno quegli
che erano al Duca più propinqui, e che avevono veduto il Duca
morto, e gli ucciditori cognosciuti, li perseguitorono. E de'
congiurati, Giovannandrea volendo tirarsi fuori di chiesa,
entrò fra le donne, le quali trovando assai, e secondo il
loro costume a sedere in terra implicato e ritenuto intra le loro
veste fu da un moro, staffiero del Duca, sopraggiunto e morto. Fu
ancora da' circunstanti ammazzato Carlo. Ma Girolamo Olgiato, uscito
fra gente e gente di chiesa, vedendo i suoi compagni morti non
sapiendo dove altrove fuggirsi, se ne andò alle sue case;
dove non fu dal padre né da' frategli ricevuto. Solamente la
madre, avendo al figliuolo compassione, lo raccomandò ad uno
prete, antico amico alla famiglia loro; il quale, messogli suoi
panni indosso, alle sue case lo condusse; dove stette duoi giorni,
non sanza speranza che in Milano nascesse qualche tumulto che lo
salvasse. Il che non succedendo, e dubitando non essere in quel loco
ritrovato, volse sconosciuto fuggirsi; ma, conosciuto, nella
podestà della giustizia pervenne, dove tutto l'ordine della
congiura aperse. Era Girolamo di età di ventitré anni;
né fu nel morire meno animoso che nello operare si fusse
stato; perché trovandosi ignudo e con il carnefice davanti,
che aveva il coltello in mano per ferirlo, disse queste parole in
lingua latina, perché litterato era: - Mors acerba, fama
perpetua, stabit vetus memoria facti. - Fu questa impresa di questi
infelici giovani secretamente trattata e animosamente esequita; e
allora rovinorono quando quelli ch'eglino speravano gli avessero a
seguire e defendere non gli defesono né seguirono. Imparino
per tanto i principi a vivere in maniera, e farsi in modo reverire e
amare, che niuno speri potere, ammazzandogli, salvarsi; e gli altri
cognoschino quanto quel pensiero sia vano che ci faccia confidare
troppo che una moltitudine, ancora che mal contenta, ne' pericoli
tuoi ti seguiti o ti accompagni. Sbigottì questo accidente
tutta Italia; ma molto più quegli che, indi a breve tempo, in
Firenze seguirono; i quali quella pace che per dodici anni era stata
in Italia ruppono, come nel libro seguente sarà da noi
dimostrato. Il quale, se arà il fine suo mesto e lagrimoso,
arà il principio sanguinoso e spaventevole.
LIBRO OTTAVO
1
Sendo il principio di questo ottavo libro posto in mezzo di due
congiure, l'una già narrata, e successa a Milano, l'altra per
doversi narrare, e seguita a Firenze, parrebbe conveniente cosa,
volendo seguitare il costume nostro, che delle qualità delle
congiure e della importanza di esse ragionassimo; il che si farebbe
volentieri quando, o in altro luogo io non ne avesse parlato, o ella
fusse materia da potere con brevità passarla. Ma sendo cosa
che desidera assai considerazione, e già in altro luogo
detta, la lasceremo indrieto; e passando ad un'altra materia, diremo
come lo stato de' Medici, avendo vinte tutte le inimicizie le quali
apertamente lo avevono urtato, a volere che quella casa prendesse
unica autorità nella città e si spiccasse col vivere
civile da le altre, era necessario che ella superasse ancora quelle
che occultamente contro gli macchinavano. Perché, mentre che
i Medici di pari di autorità e di riputazione con alcune
dell'altre famiglie combattevono, potevono i cittadini che alla loro
potenza avevono invidia apertamente a quelli opporsi, sanza temere
di essere ne' principii delle loro nimicizie oppressi,
perché, sendo diventati i magistrati liberi, niuna delle
parti, se non dopo la perdita, aveva cagione di temere. Ma, dopo la
vittoria del '66, si ristrinse in modo lo stato tutto a' Medici, i
quali tanta autorità presono, che quelli che ne erano mal
contenti conveniva o con pazienza quel modo del vivere
comportassero, o, se pure lo volessero spegnere, per via di congiure
e secretamente di farlo tentassero: le quali perché con
difficultà succedono, partoriscono il più delle volte
a chi le muove rovina, e a colui contro al quale sono mosse
grandezza. Donde che quasi sempre uno principe d'una città,
da simili congiure assalito, se non è come il duca di Milano
ammazzato, il che rade volte interviene, saglie in maggiore potenza,
e molte volte, sendo buono, diventa cattivo; perché queste,
con lo esemplo loro, gli danno cagione di temere, il temere di
assicurarsi, l'assicurarsi di ingiuriare: donde ne nascono gli odii,
di poi, e molte volte la sua rovina. E così queste congiure
opprimono subito chi le muove, e quello contro a chi le son mosse in
ogni modo con il tempo offendono.
2
Era la Italia, come di sopra abbiamo dimostro, divisa in due
fazioni: Papa e Re da una parte; da l'altra Viniziani, Duca e
Fiorentini; e benché ancora infra loro non fusse accesa
guerra, non di meno ciascuno giorno infra essi si dava nuove cagioni
di accenderla; e il Pontefice massime, in qualunque sua impresa, di
offendere lo stato di Firenze s'ingegnava. Onde che, sendo morto
messere Filippo de' Medici, arcivescovo di Pisa, il Papa, contro
alla volontà della signoria di Firenze, Francesco Salviati,
il quale cognosceva alla famiglia de' Medici nimico, di quello
arcivescovado investì: talché, non gli volendo la
Signoria dare la possessione, ne seguì tra il Papa e quella,
nel maneggio di questa cosa, nuove offese. Oltra di questo, faceva
in Roma alla famiglia de' Pazzi favori grandissimi, e quella de'
Medici in ogni azione disfavoriva. Erano i Pazzi, in Firenze, per
ricchezze e nobilità, allora, di tutte l'altre famiglie
fiorentine splendidissimi: capo di quelli era messer Iacopo, fatto,
per le sue ricchezze e nobilità, dal popolo cavaliere. Non
aveva altri figliuoli che una figliuola naturale: aveva bene molti
nipoti, nati di messer Piero e Antonio suoi frategli; i primi de'
quali erano Guglielmo, Francesco, Rinato, Giovanni, e apresso
Andrea, Niccolò e Galeotto. Aveva Cosimo de' Medici, veggendo
la ricchezza e nobilità di costoro, la Bianca sua nipote con
Guglielmo congiunta, sperando che quel parentado facesse queste
famiglie più unite e levasse via le inimicizie e gli odii che
dal sospetto il più delle volte sogliono nascere. Non di
meno, tanto sono i disegni nostri incerti e fallaci, la cosa
procedette altrimenti: perché chi consigliava Lorenzo gli
mostrava come gli era pericolosissimo, e alla sua autorità
contrario, raccozzare ne' cittadini ricchezze e stato. Questo fece
che a messer Iacopo e a' nipoti non erano conceduti quegli gradi di
onore che a loro, secondo gli altri cittadini, pareva meritare: da
qui nacque ne' Pazzi il primo sdegno e ne' Medici il primo timore, e
l'uno di questi che cresceva dava materia all'altro di crescere;
donde i Pazzi, in ogni azione dove altri cittadini concorressero,
erano da' magistrati non bene veduti. E il magistrato degli Otto,
per una leggieri cagione, sendo Francesco de' Pazzi a Roma, sanza
avere a lui quel rispetto che a' grandi cittadini si suole avere, a
venire a Firenze lo constrinse: tanto che i Pazzi, in ogni luogo,
con parole ingiuriose e piene di sdegno si dolevano; le quali cose
accrescevono ad altri il sospetto e a sé le ingiurie. Aveva
Giovanni de' Pazzi per moglie la figliuola di Giovanni Buonromei,
uomo ricchissimo, le sustanze di cui, sendo morto, alla sua
figliuola, non avendo egli altri figliuoli, ricadevono. Non di meno
Carlo, suo nipote, occupò parte di quegli beni; e venuta la
cosa in litigio, fu fatta una legge per virtù della quale la
moglie di Giovanni de' Pazzi fu della eredità di suo padre
spogliata, e a Carlo concessa; la quale ingiuria i Pazzi al tutto
dai Medici ricognobbono. Della qual cosa Giuliano de' Medici molte
volte con Lorenzo suo fratello si dolfe, dicendo come e' dubitava
che, per volere delle cose troppo, che le non si perdessero tutte.
3
Non di meno Lorenzo, caldo di gioventù e di potenza, voleva
ad ogni cosa pensare, e che ciascuno da lui ogni cosa ricognoscesse.
Non potendo adunque i Pazzi, con tanta nobilità e tante
ricchezze, sopportare tante ingiurie, cominciorono a pensare come se
ne avessero a vendicare. Il primo che mosse alcuno ragionamento
contro a' Medici fu Francesco. Era costui più animoso e
più sensitivo che alcuno degli altri; tanto che
deliberò o di acquistare quello che gli mancava, o di perdere
ciò che gli aveva. E perché gli erano in odio i
governi di Firenze, viveva quasi sempre a Roma, dove assai tesoro,
secondo il costume de' mercatanti fiorentini, travagliava. E
perché egli era al conte Girolamo amicissimo, si dolevano
costoro spesso, l'uno con l'altro, de' Medici: tanto che, dopo molto
doglienze, e' vennono a ragionamento come gli era necessario, a
volere che l'uno vivesse ne' suoi stati e l'altro nella sua
città securo, mutare lo stato di Firenze: il che sanza la
morte di Giuliano e di Lorenzo pensavano non si potessi fare.
Giudicorono che il Papa e il Re facilmente vi acconsentirebbono
purché all'uno e all'altro si mostrasse la facilità
della cosa. Sendo adunque caduti in questo pensiero, comunicorono il
tutto con Francesco Salviati arcivescovo di Pisa, il quale, per
essere ambizioso e di poco tempo avanti stato offeso da' Medici,
volentieri vi concorse. Ed esaminando infra loro quello fusse da
fare, deliberorono, perché la cosa più facilmente
succedessi, di tirare nella loro volontà messer Iacopo de'
Pazzi, sanza il quale non credevano potere cosa alcuna operare.
Parve adunque che Francesco de' Pazzi, a questo effetto, andasse a
Firenze, e l'Arcivescovo e il Conte a Roma rimanessero, per essere
con il Papa quando e' paresse tempo da comunicargliene. Trovò
Francesco messer Iacopo più respettivo e più duro non
arebbe voluto; e fattolo intendere a Roma, si pensò che
bisognasse maggiore autorità a disporlo: onde che
l'Arcivescovo e il Conte ogni cosa a Giovan Batista da Montesecco,
condottieri del Papa, comunicorono. Questo era stimato assai nella
guerra, e al Conte e al Papa obligato: non di meno mostrò la
cosa essere difficile e pericolosa; i quali periculi e
difficultà l'Arcivescovo s'ingegnava spegnere, mostrando gli
aiuti che il Papa e il Re farebbono alla impresa, e di più
gli odii che i cittadini di Firenze portavano a' Medici, i parenti
che i Salviati e i Pazzi si tiravano dietro, la facilità
dello ammazzargli, per andare per la città sanza compagnia e
sanza sospetto, e di poi, morti che fussero, la facilità del
mutare lo stato. Le quali cose Giovan Batista interamente non
credeva, come quello che da molti altri Fiorentini aveva udito
altrimenti parlare.
4
Mentre che si stava in questi ragionamenti e pensieri, occorse che
il signor Carlo di Faenza ammalò, tale che si dubitava della
morte. Parve per tanto allo Arcivescovo e al Conte di avere
occasione di mandare Giovan Batista a Firenze, e di quivi in
Romagna, sotto colore di riavere certe terre che il signore di
Faenza gli occupava. Commisse per tanto il Conte a Giovan Batista
parlasse con Lorenzo, e da sua parte gli domandasse consiglio, come
nelle cose di Romagna si avesse a governare; di poi parlasse con
Francesco de' Pazzi, e vedessero, insieme, di disporre messer Iacopo
de' Pazzi a seguitare la loro volontà. E perché lo
potesse con la autorità del Papa muovere, vollono, avanti
alla partita, parlasse al Pontefice; il quale fece tutte quelle
offerte possette maggiori in benifizio della impresa. Arrivato per
tanto Giovan Batista a Firenze, parlò con Lorenzo, dal quale
fu umanissimamente ricevuto e ne' consigli domandati saviamente e
amorevolmente consigliato; tanto che Giovan Batista ne prese
ammirazione, parendogli avere trovato altro uomo che non gli era
stato mostro, e giudicollo tutto umano, tutto savio, e al Conte
amicissimo. Non di meno volle parlare con Francesco, e non ve lo
trovando, perché era ito a Lucca, parlò con messer
Iacopo, e trovollo nel principio molto alieno dalla cosa: non di
meno, avanti partisse, l'autorità del Papa lo mosse alquanto,
e per ciò disse a Giovan Batista che andasse in Romagna e
tornasse, e che intanto Francesco sarebbe in Firenze, e allora
più particularmente della cosa ragionerebbono. Andò e
tornò Giovan Batista, e con Lorenzo de' Medici seguitò
il simulato ragionamento delle cose del Conte; di poi con messer
Iacopo e Francesco de' Pazzi si ristrinse; e tanto operorono, che
messer Iacopo acconsentì alla impresa. Ragionorono del modo.
A messer Iacopo non pareva che fusse riuscibile sendo ambedui i
frategli in Firenze; e per ciò si aspettasse che Lorenzo
andasse a Roma, come era fama che voleva andare, e allora si
esequisse la cosa. A Francesco piaceva che Lorenzo fusse a Roma; non
di meno, quando bene non vi andasse, affermava che o a nozze, o a
giuoco, o in chiesa, ambiduoi i frategli si potevono opprimere. E
circa gli aiuti forestieri, gli pareva che il Papa potesse mettere
gente insieme per la impresa del castello di Montone, avendo giusta
cagione di spogliarne il conte Carlo, per avere fatti i tumulti
già detti nel Sanese e nel Perugino. Non di meno non si fece
altra conclusione, se non che Francesco de' Pazzi e Giovan Batista
ne andassero a Roma, e quivi con il Conte e con il Papa ogni cosa
concludessero. Praticossi di nuovo a Roma questa materia; e in fine
si concluse, sendo la impresa di Montone resoluta, che
Giovanfrancesco da Tolentino, soldato del Papa, ne andasse in
Romagna, e messer Lorenzo da Castello nel paese suo, e ciascheduno
di questi, con le genti del paese, tenessero le loro compagnie ad
ordine per fare quanto da l'Arcivescovo de' Salviati e Francesco de'
Pazzi fusse loro ordinato, i quali con Giovan Batista da Montesecco
se ne venissero a Firenze dove provedessero a quanto fusse
necessario per la esecuzione della impresa; alla quale il re
Ferrando, mediante il suo oratore, prometteva qualunque aiuto.
Venuti pertanto l'Arcivescovo e Francesco de' Pazzi a Firenze
tirorono nella sentenza loro Iacopo di messer Poggio, giovane
litterato, ma ambizioso e di cose nuove desiderosissimo, tiroronvi
duoi Iacopi Salviati l'uno fratello, l'altro affine dello
Arcivescovo; condussonvi Bernardo Bandini e Napoleone Franzesi,
giovani arditi e alla famiglia de' Pazzi obligatissimi. De'
forestieri, oltre a' prenominati, messer Antonio da Volterra e uno
Stefano sacerdote, il quale nelle case di messer Iacopo alla sua
figliuola la lingua latina insegnava, v'intervennono. Rinato de'
Pazzi, uomo prudente e grave, e che ottimamente cognosceva il male
che da simili imprese nascono, alla congiura non acconsentì;
anzi la detestò, e con quel modo che onestamente potette
adoperare la interruppe.
5
Aveva il Papa tenuto nello Studio pisano a imparar lettere
pontificie Raffaello de' Riario, nipote del conte Girolamo; nel
quale luogo ancora essendo, fu dal Papa alla dignità del
cardinalato promosso. Parve per tanto a' congiurati di condurre
questo cardinale a Firenze, acciò che la sua venuta e la
congiura ricoprisse, possendosi infra la sua famiglia quelli
congiurati de' quali avevono bisogno nascondere, e da quello
prendere cagione di esequirla. Venne adunque il Cardinale, e fu da
messere Iacopo de' Pazzi a Montughi, sua villa propinqua a Firenze,
ricevuto. Desideravano i congiurati di accozzare insieme, mediante
costui, Lorenzo e Giuliano; e come prima questo occorresse,
ammazzargli. Ordinorono per tanto convitassero il Cardinale nella
villa loro di Fiesole, dove Giuliano, o a caso o a studio, non
convenne; tanto che, tornato il disegno vano, giudicorono, che, se
lo convitassero a Firenze, di necessità ambiduoi vi avessero
ad intervenire. E così dato l'ordine, la domenica de'
dì 26 d'aprile, correndo l'anno 1478, a questo convito
deputorono. Pensando adunque i congiurati di potergli nel mezzo del
convito ammazzare, furono il sabato notte insieme, dove tutto quello
che la mattina seguente si avesse ad esequire disposono. Venuto di
poi il giorno, fu notificato a Francesco come Giuliano ad il convito
non interveniva. Per tanto di nuovo i capi della congiura si
ragunorono, e conclusono che non fusse da differire il mandarla ad
effetto; perché gli era impossibile, sendo nota a tanti, che
la non si scoprisse. E per ciò deliberorono nella chiesa
cattedrale di Santa Reparata ammazzargli, dove sendo il Cardinale, i
duoi frategli, secondo la consuetudine, converrebbono. Volevano che
Giovan Batista prendesse la cura di ammazzare Lorenzo, e Francesco
de' Pazzi e Bernardo Bandini, Giuliano. Recusò Giovan Batista
il volerlo fare: o che la familiarità aveva tenuta con
Lorenzo gli avesse adolcito lo animo, o che pure altra cagione lo
movesse: disse che non gli basterebbe mai l'animo commettere tanto
eccesso in chiesa e accompagnare il tradimento con il sacrilegio. Il
che fu il principio della rovina della impresa loro: perché,
strignendoli il tempo, furono necessitati dare questa cura a messer
Antonio da Volterra e a Stefano sacerdote, duoi che, per pratica e
per natura, erano a tanta impresa inettissimi: perché, se mai
in alcuna faccenda si ricerca l'animo grande e fermo, e nella vita e
nella morte per molte esperienze risoluto, è necessario
averlo in questa, dove si è assai volte veduto agli uomini
nelle arme esperti e nel sangue intrisi lo animo mancare. Fatto
adunque questa deliberazione, vollono che il segno dello operare
fusse quando si comunicava il sacerdote che nel tempio la principale
messa celebrava; e che, in quel mezzo, lo arcivescovo de' Salviati,
insieme con i suoi e con Iacopo di messer Poggio, il palagio publico
occupassero, acciò che la Signoria, o voluntaria o forzata,
seguita che fusse de' duoi giovani la morte, fusse loro favorevole.
6
Fatta questa deliberazione se n'andorono nel tempio, nel quale
già il Cardinale insieme con Lorenzo de' Medici era venuto.
La chiesa era piena di popolo e lo oficio divino cominciato, quando
ancora Giuliano de' Medici non era in chiesa; onde che Francesco de'
Pazzi insieme con Bernardo, alla sua morte destinati, andorono alle
sue case a trovarlo, e con prieghi e con arte nella chiesa lo
condussono. È cosa veramente degna di memoria che tanto odio,
tanto pensiero di tanto eccesso si potesse con tanto cuore e tanta
ostinazione d'animo da Francesco e da Bernardo ricoprire:
perché, conduttolo nel tempio, e per la via e nella chiesa
con motteggi e giovinili ragionamenti lo intrattennero; né
mancò Francesco, sotto colore di carezzarlo, con le mani e
con le braccia strignerlo, per vedere se lo trovava o di corazza o
d'altra simile difesa munito. Sapevano Giuliano e Lorenzo lo acerbo
animo de' Pazzi contra di loro, e come eglino desideravano di torre
loro l'autorità dello stato, ma non temevono già della
vita, come quelli che credevano che, quando pure eglino avessero a
tentare cosa alcuna, civilmente e non con tanta violenza lo avessero
a fare; e per ciò anche loro, non avendo cura alla propria
salute, di essere loro amici simulavano. Sendo adunque preparati gli
ucciditori, quegli a canto a Lorenzo, dove, per la moltitudine che
nel tempio era, facilmente e sanza sospetto potevono stare, e quegli
altri insieme con Giuliano, venne l'ora destinata; e Bernardo
Bandini, con una arme corta a quello effetto apparecchiata,
passò il petto a Giuliano, il quale dopo pochi passi cadde in
terra; sopra il quale Francesco de' Pazzi gittatosi, lo empié
di ferite; e con tanto studio lo percosse, che, accecato da quel
furore che lo portava, se medesimo in una gamba gravemente offese.
Messer Antonio e Stefano, dall'altra parte, assalirono Lorenzo, e
menatogli più colpi, di una leggieri ferita nella gola lo
percossono; perché, o la loro negligenzia, o lo animo di
Lorenzo, che, vedutosi assalire, con l'arme sua si difese, o lo
aiuto di chi era seco, fece vano ogni sforzo di costoro. Tale che
quegli, sbigottiti, si fuggirono e si nascosono; ma di poi
ritrovati, furono vituperosamente morti e per tutta la città
strascinati. Lorenzo dall'altra parte, ristrettosi con quegli amici
che gli aveva intorno, nel sacrario del tempio si rinchiuse.
Bernardo Bandini, morto che vide Giuliano, ammazzò ancora
Francesco Nori, a' Medici amicissimo, o perché lo odiasse per
antico, o perché Francesco di aiutare Giuliano s'ingegnasse;
e non contento a questi duoi omicidii corse per trovare Lorenzo e
supplire con lo animo e prestezza sua a quello che gli altri per la
tardità e debilezza loro avevono mancato, ma trovatolo nel
sacrario rifuggito, non potette farlo. Nel mezzo di questi gravi e
tumultuosi accidenti i quali furono tanti terribili che pareva che
il tempio rovinasse, il Cardinale si ristrinse allo altare, dove con
fatica fu dai sacerdoti tanto salvato che la Signoria, cessato il
romore, potette nel suo palagio condurlo; dove con grandissimo
sospetto infino alla liberazione sua dimorò.
7
Trovavansi in Firenze in questi tempi alcuni Perugini, cacciati, per
le parti, di casa loro, i quali i Pazzi, promettendo di rendere loro
la patria, avevano tirati nella voglia loro; donde che l'arcivescovo
de' Salviati, il quale era ito per occupare il Palagio insieme con
Iacopo di messer Poggio e i suoi Salviati e amici, gli avea condotti
seco. E arrivato al Palagio, lasciò parte de' suoi da basso,
con ordine che, come eglino sentissero il romore, occupassero la
porta; ed egli, con la maggior parte de' Perugini, salì da
alto; e trovato che la Signoria desinava, perché era l'ora
tarda, fu, dopo non molto, da Cesare Petrucci gonfaloniere di
giustizia intromesso. Onde che, entrato con pochi de' suoi,
lasciò gli altri fuora; la maggiore parte de' quali nella
cancelleria per se medesimi si rinchiusono, perché in modo
era la porta di quella congegnata, che, serrandosi, non si poteva se
non con lo aiuto della chiave, così di dentro come di fuora,
aprire. L'Arcivescovo intanto, entrato dal Gonfaloniere, sotto
colore di volergli alcune cose per parte del Papa riferire, gli
cominciò a parlare con parole spezzate e dubie; in modo che
l'alterazione che dal viso e dalle parole mostrava generorono nel
Gonfaloniere tanto sospetto che a un tratto, gridando, si pinse
fuora di camera, e trovato Iacopo di messer Poggio, lo prese per i
capegli e nelle mani de' suoi sergenti lo misse. E levato il romore
tra i Signori, con quelle armi che il caso sumministrava loro, tutti
quegli che con l'Arcivescovo erano saliti da alto, sendone parte
rinchiusi e parte inviliti, o subito furono morti, o così
vivi, fuori delle finestre del Palagio gittati; intra i quali
l'Arcivescovo, i duoi Iacopi Salviati e Iacopo di messer Poggio
appiccati furono. Quegli che da basso in Palagio erano rimasi
avevano sforzata la guardia, e la porta e le parti basse tutte
occupate, in modo che i cittadini che in questo romore al Palagio
corsono, né armati aiuto, né disarmati consiglio alla
Signoria potevano porgere.
8
Francesco de' Pazzi intanto e Bernardo Bandini, veggendo Lorenzo
campato, e uno di loro, in chi tutta la speranza della impresa era
posta, gravemente ferito, si erono sbigottiti donde che Bernardo,
pensando con quella franchezza d'animo alla sua salute, che gli
aveva allo ingiuriare i Medici pensato, veduta la cosa perduta,
salvo se ne fuggì. Francesco, tornatosene a casa ferito,
provò se poteva reggersi a cavallo; perché l'ordine
era di circuire con armati la terra e chiamare il popolo alla
libertà e all'arme; e non potette: tanta era profonda la
ferita, e tanto sangue aveva per quella perduto; onde che,
spogliatosi, si gittò sopra il suo letto ignudo, e
pregò messer Iacopo che quello da lui non si poteva fare
facesse egli. Messer Iacopo, ancora che vecchio e in simili tumulti
non pratico, per fare questa ultima esperienza della fortuna loro,
salì a cavallo, con forse cento armati, suti prima per simile
impresa preparati, e se n'andò alla piazza del Palagio,
chiamando in suo aiuto il popolo e la libertà. Ma
perché l'uno era dalla fortuna e liberalità de' Medici
fatto sordo, l'altra in Firenze non era cognosciuta, non gli fu
risposto da alcuno. Solo i Signori, che la parte superiore del
Palagio signoreggiavano, con i sassi lo salutorono, e con le minacce
in quanto poterono lo sbigottirono. E stando messer Iacopo dubio, fu
da Giovanni Serristori, suo cognato, incontrato; il quale prima lo
riprese degli scandoli mossi da loro, di poi lo confortò a
tornarsene a casa, affermandogli che il popolo e la libertà
era a cuore agli altri cittadini come a lui. Privato adunque messer
Iacopo d'ogni speranza, veggendosi il Palagio nimico, Lorenzo vivo,
Francesco ferito, e da niuno seguitato, non sapiendo altro che
farsi, deliberò di salvare, se poteva, con la fuga, la vita;
e con quella compagnia che gli aveva seco in Piazza, si uscì
di Firenze per andarne in Romagna.
9
In questo mezzo tutta la città era in arme, e Lorenzo de'
Medici da molti armati accompagnato, s'era nelle sue case ridutto:
il Palagio dal popolo era stato ricuperato, e gli occupatori di
quello tutti fra presi e morti. Già per tutta la città
si gridava il nome de' Medici, e le membra de' morti, o sopra le
punte delle armi fitte, o per la città strascinate si
vedevano; e ciascheduno, con parole piene d'ira e con fatti pieni di
crudeltà, i Pazzi perseguitava. Già erano le loro case
dal popolo occupate; e Francesco, così ignudo, fu di casa
tratto, e al Palagio condotto, fu a canto all'Arcivescovo e agli
altri appiccato. Né fu possibile, per ingiuria che per il
cammino o poi gli fusse fatta o detta, farli parlare alcuna cosa; ma
guardando altrui fiso, sanza dolersi altrimenti, tacito sospirava.
Guglielmo de' Pazzi, di Lorenzo cognato, nelle case di quello, e per
la innocenza sua e per lo aiuto della Bianca sua moglie, si
salvò. Non fu cittadino che, armato o disarmato, non andasse
alle case di Lorenzo in quella necessità; e ciascheduno
sé e le sustanze sue gli offeriva: tanta era la fortuna e la
grazia che quella casa, per la sua prudenza e liberalità, si
aveva acquistata. Rinato de' Pazzi s'era, quando il caso
seguì nella sua villa ritirato, donde, intendendo la cosa, si
volle, travestito, fuggire: non di meno fu per il cammino
cognosciuto, e preso, e a Firenze condotto. Fu ancora preso messer
Iacopo nel passare l'alpi, perché, inteso da quegli alpigiani
il caso seguito a Firenze e veduta la fuga di quello, fu da loro
assalito e a Firenze menato: né potette ancora che più
volte ne gli pregasse impetrare di essere da loro per il cammino
ammazzato. Furono messer Iacopo e Rinato giudicati a morte, dopo
quattro giorni che il caso era seguito, e infra tante morti che in
quelli giorni erano state fatte, che avevono piene di membra di
uomini le vie, non ne fu con misericordia altra che questa di Rinato
riguardata, per essere tenuto uomo savio e buono, né di
quella superbia notato, che gli altri di quella famiglia accusati
erano. E perché questo caso non mancasse di alcuno
estraordinario esemplo, fu messer Iacopo prima nella sepultura de'
suoi maggiori sepulto; di poi, di quivi, come scomunicato, tratto,
fu lungo le mura della città sotterrato; e di quindi ancora
cavato, per il capresto con il quale era stato morto, fu per tutta
la città ignudo strascinato; e da poi che in terra non aveva
trovato luogo alla sepultura sua, fu da quegli medesimi che
strascinato l'avevono, nel fiume d'Arno, che allora aveva le sue
acque altissime gittato. Esemplo veramente grandissimo di fortuna,
vedere uno uomo da tante ricchezze e da sì felicissimo stato,
in tanta infelicità, con tanta rovina e con tale vilipendio
cadere! Narronsi de' suoi alcuni vizi, intra i quali erano giuochi e
bestemmie più che a qualunche perduto uomo non si
converrebbe; quali vizi con le molte elimosine ricompensava,
perché a molti bisognosi e luoghi pii largamente suvveniva.
Puossi ancora, di quello, dire questo bene, che il sabato davanti a
quella domenica deputata a tanto omicidio, per non fare partecipe
dell'avversa sua fortuna alcuno altro, tutti i suoi debiti
pagò, e tutte le mercatanzie che gli aveva in dogana e in
casa, le quali ad alcuni appartenessero, con maravigliosa
sollecitudine a' padroni di quelle consegnò. Fu a Giovan
Batista da Montesecco, dopo una lunga esamine fatta di lui, tagliata
la testa; Napoleone Franzesi con la fuga fuggì il supplizio;
Guglielmo de' Pazzi fu confinato, e i suoi cugini che erano rimasi
vivi, nel fondo della rocca di Volterra in carcere posti. Fermi
tutti i tumulti, e puniti i congiurati, si celebrorono le esequie di
Giuliano; il quale fu con le lagrime da tutti i cittadini
accompagnato, perché in quello era tanta liberalità e
umanità quanta in alcuno altro in tale fortuna nato si
potesse desiderare. Rimase di lui uno figliuolo naturale, il quale
dopo a pochi mesi che fu morto nacque, e fu chiamato Giulio; il
quale fu di quella virtù e fortuna ripieno, che in questi
presenti tempi tutto il mondo cognosce, e che da noi, quando alle
presenti cose perverremo, concedendone Iddio vita, sarà
largamente dimostro. Le genti che sotto messer Lorenzo da Castello
in Val di Tevere, e quelle che sotto Giovan Francesco da Talentino
in Romagna erano, insieme, per dare favore a' Pazzi s'erano mosse
per venire a Firenze; ma poi ch'eglino intesero la rovina della
impresa, si tornorono indietro.
10
Ma non essendo seguita in Firenze la mutazione dello stato, come il
Papa e il Re desideravano, deliberarono quello che non avevono
potuto fare per congiure farlo per guerra; e l'uno e l'altro, con
grandissima celerità, messe le sue genti insieme per assalire
lo stato di Firenze, publicando non volere altro da quella
città, se non che la rimovesse da sé Lorenzo de'
Medici, il quale solo di tutti i Fiorentini avieno per nimico.
Avevano già le genti del Re passato il Tronto, e quelle del
Papa erano nel Perugino; e perché, oltre alle temporali i
Fiorentini ancora le spirituali ferite sentissero, gli
scomunicò e maladisse. Onde che i Fiorentini, veggendosi
venire contro tanti eserciti, si preparorono con ogni sollecitudine
alle difese. E Lorenzo de' Medici, innanzi ad ogni altra cosa,
volle, poi che la guerra per fama era fatta a lui, ragunare in
Palagio, con i Signori, tutti i qualificati cittadini, in numero di
più di trecento; a' quali parlò in questa sentenza: -
Io non so, eccelsi Signori, e voi, magnifici cittadini, se io mi
dolgo con voi delle seguite cose, o se io me ne rallegro. E
veramente quando io penso con quanta fraude, con quanto odio io sia
stato assalito e il mio fratello morto, io non posso fare non me ne
contristi e con tutto il cuore e con tutta l'anima non me ne dolga.
Quando io considero di poi con che prontezza, con che studio, con
quale amore, con quanto unito consenso di tutta la città il
mio fratello sia stato vendicato e io difeso, conviene, non
solamente me ne rallegri, ma in tutto me stesso esalti e glorii. E
veramente, se la esperienza mi ha fatto conoscere come io aveva in
questa città più nimici che io non pensava, m'ha
ancora dimostro come io ci aveva più ferventi e caldi amici
che io non credeva. Son forzato, adunque, a dolermi con voi per le
ingiurie d'altri, e rallegrarmi per i meriti vostri; ma son bene
constretto a dolermi tanto più delle ingiurie, quanto le sono
più rare, più senza esemplo e meno da noi meritate.
Considerate, magnifici cittadini, dove la cattiva fortuna aveva
condotta la casa nostra, che fra gli amici, fra i parenti, nella
chiesa non era secura. Sogliono quelli che dubitano della morte
ricorrere agli amici per aiuti, sogliono ricorrere a' parenti; e noi
gli trovavamo armati per la distruzione nostra: sogliono rifuggire
nelle chiese tutti quegli che, per publica o per privata cagione,
sono perseguitati. Adunque, da chi gli altri sono difesi, noi siamo
morti; dove i parricidi, gli assassini sono sicuri, i Medici
trovorono gli ucciditori loro. Ma Iddio, che mai per lo addietro non
ha abbandonata la casa nostra, ha salvato ancora noi, e ha presa la
defensione della giusta causa nostra. Perché quale ingiuria
abbiamo noi fatta ad alcuno, che se ne meritasse tanto desiderio di
vendetta? E veramente questi che ci si sono dimostri tanto nimici,
mai privatamente non gli offendemmo; perché, se noi gli
avessimo offesi, e' non arebbono avuto commodità di offendere
noi. S'eglino attribuiscono a noi le publiche ingiurie, quando
alcuna ne fusse stata loro fatta, che non lo so, eglino offendono
più voi che noi, più questo Palagio e la maestà
di questo governo che la casa nostra, dimostrando che per nostra
cagione voi ingiuriate immeritamente i cittadini vostri. Il che
è discosto al tutto da ogni verità; perché noi
quando avessimo potuto, e voi quando noi avessimo voluto, non lo
aremmo fatto: perché chi ricercherà bene il vero
troverrà la casa nostra non per altra cagione con tanto
consenso essere stata sempre esaltata da voi, se non perché
la si è sforzata, con la umanità, liberalità,
con i beneficii, vincere ciascuno. Se noi abbiamo adunque onorati
gli strani, come aremmo noi ingiuriati i parenti? Se si sono mossi a
questo per desiderio di dominare, come dimostra lo occupare il
Palagio, venire con gli armati in Piazza, quanto questa cagione sia
brutta, ambiziosa e dannabile, da se stessa si scuopre e si
condanna; se lo hanno fatto per odio e invidia avevano alla
autorità nostra, eglino offendono voi, non noi, avendocela
voi data. E veramente quelle autoritadi meritono di essere odiate
che gli uomini si usurpano, non quelle che gli uomini per
liberalità, umanità e munificenza si guadagnano. E voi
sapete che mai la casa nostra salse a grado alcuno di grandezza, che
da questo Palagio e dallo unito consenso vostro non vi fusse spinta:
non tornò Cosimo mio avolo dallo esilio con le armi e per
violenza, ma con il consenso e unione vostra, mio padre, vecchio e
infermo, non difese già lui contro a tanti nimici lo stato,
ma voi con l'autorità e benivolenza vostra lo difendesti; non
arei io, dopo la morte di mio padre, sendo ancora, si può
dire, un fanciullo, mantenuto il grado della casa mia, se non
fussero stati i consigli e favori vostri; non arebbe potuto
né potrebbe reggere la mia casa questa republica, se voi,
insieme con lei, non l'avessi retta e reggesse. Non so io adunque
qual cagione di odio si possa essere il loro contro di noi, o quale
giusta cagione di invidia: portino odio agli loro antenati, i quali,
con la superbia e con la avarizia, si hanno tolta quella reputazione
che i nostri si hanno saputa, con studi a quegli contrari,
guadagnare. Ma concediamo che le ingiurie fatte a loro da noi sieno
grandi, e che meritamente eglino desiderassero la rovina nostra:
perché venire ad offendere questo Palagio? perché fare
lega con il Papa e con il Re contro alla libertà di questa
republica? perché rompere la lunga pace di Italia? A questo
non hanno eglino scusa alcuna; perché dovevono offendere chi
offendeva loro, e non confundere le inimicizie private con le
ingiurie publiche; il che fa che, spenti loro, il male nostro
è più vivo, venendoci, alle loro cagioni, il Papa e il
Re a trovare con le armi: la qual guerra affermano fare a me e alla
casa mia. Il che Dio volessi che fusse il vero, perché i
rimedi sarebbono presti e certi, né io sarei sì
cattivo cittadino che io stimasse più la salute mia che i
pericoli vostri; anzi volentieri spegnerei lo incendio vostro con la
rovina mia. Ma perché sempre le ingiurie che i potenti fanno
con qualche meno disonesto colore le ricuoprono, eglino hanno preso
questo modo a ricoprire questa disonesta ingiuria loro. Pure non di
meno, quando voi credessi altrimenti, io sono nelle braccia vostre:
voi mi avete a reggere o lasciare; voi miei padri, voi miei
defensori; e quanto da voi mi sarà commesso che io faccia,
sempre farò volentieri; né ricuserò mai, quando
così a voi paia, questa guerra con il sangue del mio fratello
cominciata, di finirla col mio. - Non potevono i cittadini, mentre
che Lorenzo parlava, tenere le lagrime; e con quella pietà
che fu udito, gli fu da uno di quegli, a chi gli altri commissono,
risposto; dicendogli che quella città ricognosceva tanti
meriti da lui e dai suoi, che gli stesse di buono animo, ché
con quella prontezza ch'eglino avevono vendicata del fratello la
morte, e di lui conservata la vita, gli conserverebbono la
reputazione e lo stato; né prima perderebbe quello, che loro
la patria perdessero. E perché le opere corrispondessero alle
parole, alla custodia del corpo suo di certo numero di armati
publicamente providono, acciò che dalle domestiche insidie lo
defendessero.
11
Di poi si prese modo alla guerra, mettendo insieme genti e danari in
quella somma poterono maggiore. Mandorono per aiuti, per
virtù della lega, al duca di Milano e a' Viniziani; e poi che
il Papa si era dimostro lupo e non pastore, per non essere come
colpevoli devorati, con tutti quelli modi potevono la causa loro
giustificavano, e tutta la Italia del tradimento fatto contro allo
stato loro riempierono, mostrando la impietà del Pontefice e
la ingiustizia sua; e come quello pontificato che gli aveva male
occupato, male esercitava; poi che gli aveva mandato quelli che alle
prime prelature aveva tratti, in compagnia di traditori e parricidi,
a commettere tanto tradimento in nel tempio, nel mezzo del divino
officio, nella celebrazione del Sacramento; e da poi, perché
non gli era successo ammazzare i cittadini, mutare lo stato della
loro città e quella a suo modo saccheggiare, la interdiceva e
con le pontificali maledizioni la minacciava e offendeva. Ma se Dio
era giusto, se a Lui le violenzie dispiacevono, gli dovevono quelle
di questo suo vicario dispiacere; ed essere contento che gli uomini
offesi, non trovando presso a quello luogo, ricorressero a Lui. Per
tanto, non che i Fiorentini ricevessero lo interdetto e a quello
ubbidissero, ma sforzorono i sacerdoti a celebrare il divino oficio,
feciono un concilio, in Firenze, di tutti i prelati toscani che allo
imperio loro ubbidivono, nel quale appellorono delle ingiurie del
Pontefice al futuro Concilio. Non mancavano ancora al Papa ragioni
da giustificare la causa sua; e per ciò allegava appartenersi
ad uno pontefice spegnere le tirannide, opprimere i cattivi,
esaltare i buoni; le quali cose ei debbe con ogni opportuno rimedio
fare; ma che non è già l'uficio de' principi seculari
detinere i cardinali, impiccare i vescovi, ammazzare, smembrare e
strascinare i sacerdoti, gli innocenti e i nocenti sanza alcuna
differenzia uccidere.
12
Non di meno, intra tante querele e accuse, i Fiorentini il
Cardinale, ch'eglino avieno in mano, al Pontefice restituirono; il
che fece che il Papa, sanza rispetto, con tutte le forze sue e del
Re gli assalì. Ed entrati gli duoi eserciti, sotto Alfonso
primogenito di Ferrando e duca di Calavria, e al governo di Federigo
conte di Urbino, nel Chianti per la via de' Sanesi, i quali dalle
parti inimiche erano, occuporono Radda e più altre castella,
e tutto il paese predorono; di poi andorono con il campo alla
Castellina. I Fiorentini, veduti questi assalti, erano in grande
timore, per essere sanza gente e vedere gli aiuti degli amici lenti;
perché, non ostante che il Duca mandasse soccorso, i
Viniziani avevono negato essere obligati aiutare i Fiorentini nelle
cause private, perché, sendo la guerra fatta a privati, non
erano obligati in quella a suvvenirli, perché le inimicizie
particulari non si avevono publicamente a defendere. Di modo che i
Fiorentini, per disporre i Viniziani a più sana opinione,
mandorono oratore a quel senato messer Tommaso Soderini; e in quel
mentre soldorono gente, e feciono capitano de' loro eserciti Ercule
marchese di Ferrara. Mentre che queste preparazioni si facevano, lo
esercito nimico strinse in modo la Castellina, che quegli terrieri,
desperati del soccorso, si dierono, dopo quaranta giorni che eglino
avieno sopportata la obsidione. Di quivi si volsono i nimici verso
Arezzo, e campeggiorono il Monte a San Sovino. Era di già
l'esercito fiorentino ad ordine, e andato alla volta de' nimici,
s'era posto propinquo a quelli a tre miglia, e dava loro tanta
incommodità che Federigo d'Urbino domandò per alcuni
giorni tregua. La quale gli fu conceduta con tanto disavvantaggio
de' Fiorentini, che quegli che la dimandavono di averla impetrata si
maravigliorono; perché, non la ottenendo, erano necessitati
partirsi con vergogna; ma avuti quelli giorni di commodità a
riordinarsi, passato il tempo della tregua, sopra la fronte delle
genti nostre quel castello occuporono. Ma essendo già venuto
il verno, i nimici, per ridursi a vernare in luoghi commodi, dentro
nel Sanese si ritirorono. Ridussonsi ancora le genti fiorentine
nelli alloggiamenti più commodi; e il marchese di Ferrara,
avendo fatto poco profitto a sé e meno ad altri, se ne
tornò nel suo stato.
13
In questi tempi Genova si ribellò dallo stato di Milano per
queste cagioni: poi che fu morto Galeazzo, e restato Giovan Galeazzo
suo figliuolo, di età inabile al governo, nacque dissensione
intra Sforza, Lodovico e Ottaviano e Ascanio suoi zii, e madonna
Bona sua madre, perché ciascuno di essi voleva prendere la
cura del piccolo Duca. Nella quale contenzione madonna Bona, vecchia
duchessa, per il consiglio di messer Tommaso Soderini, allora per i
Fiorentini in quello stato oratore, e di messer Cecco Simonetta,
stato secretario di Galeazzo, restò superiore. Donde che,
fuggendosi gli Sforzeschi di Milano, Ottaviano nel passare l'Adda
affogò, e gli altri furono in varii luoghi confinati insieme
con il signore Ruberto da San Severino, il quale in quegli travagli
aveva lasciata la Duchessa e accostatosi a loro. Sendo di poi
seguiti i tumulti di Toscana, quegli principi, sperando per gli
nuovi accidenti potere trovare nuova fortuna, ruppono i confini, e
ciascuno di loro tentava cose nuove per ritornare nello stato suo.
Il re Ferrando, che vedeva che i Fiorentini solamente, nelle loro
necessità, erano stati dallo stato di Milano soccorsi, per
torre loro ancora quegli aiuti, ordinò di dare tanto che
pensare alla Duchessa nello stato suo, che agli aiuti de' Fiorentini
provedere non potesse, e per il mezzo di Prospero Adorno e del
signore Ruberto e rebelli sforzeschi, fece ribellare Genova dal
Duca. Restava solo nella potestà sua il Castelletto, sotto la
speranza del quale la Duchessa mandò assai genti per
recuperare la città, e vi furono rotte, tal che, veduto il
pericolo che poteva soprastare allo stato del figliuolo e a lei, se
quella guerra durava, sendo la Toscana sottosopra e i Fiorentini, in
chi ella solo sperava, afflitti, deliberò, poi che la non
poteva avere Genova come subietta, averla come amica; e convenne con
Batistino Fregoso, nimico di Prospero Adorno, di dargli il
Castelletto e farlo in Genova principe, pure che ne cacciasse
Prospero e a' ribelli sforzeschi non facesse favore. Dopo la quale
conclusione, Batistino, con lo aiuto del castello e della parte,
s'insignorì di Genova, e se ne fece, secondo il costume loro,
doge; tanto che gli Sforzeschi e il signore Ruberto, cacciati del
Genovese, con quelle genti che li seguirono ne vennono in Lunigiana.
Donde che il Papa e il Re, veduto come e travagli di Lombardia erano
posati, presono occasione da questi cacciati da Genova a turbare la
Toscana di verso Pisa, acciò che i Fiorentini, dividendo le
loro forze, indebolissero; e per ciò operorono, sendo
già passato il verno, che il signore Ruberto si partisse con
le sue genti di Lunigiana, e il paese pisano assalisse. Mosse
adunque il signor Ruberto uno tumulto grandissimo, e molte castella
del Pisano saccheggiò e prese, e infino alla città di
Pisa predando corse.
14
Vennono, in questi tempi, a Firenze oratori dello Imperadore e del
re di Francia e del re d'Ungheria, i quali dai loro principi erano
mandati al Pontefice, i quali persuasono a' Fiorentini mandassero
oratori al Papa, promettendo fare ogni opera con quello, che con una
ottima pace si ponesse fine a questa guerra. Non recusorono i
Fiorentini di fare questa esperienza, per essere apresso qualunque
escusati, come per la parte loro amavano la pace. Andati adunque gli
oratori, sanza alcuna conclusione tornorono. Onde che i Fiorentini,
per onorarsi della reputazione del re di Francia poi che dagli
Italiani erano parte offesi parte abbandonati, mandorono oratore a
quel re Donato Acciaiuoli, uomo delle greche e latine lettere
studiosissimo, di cui sempre gli antenati hanno tenuti gradi grandi
nella città. Ma nel cammino, sendo arrivato a Milano,
morì; onde che la patria, per remunerare chi era rimaso di
lui e per onorare la sua memoria, con publiche spese
onoratissimamente lo seppellì, e a' figliuoli esenzione, e
alle figliuole dote conveniente a maritarle concesse; e in suo
luogo, per oratore al Re, messer Guid'Antonio Vespucci, uomo delle
imperiali e pontificie lettere peritissimo, mandò. Lo assalto
fatto dal signore Ruberto nel paese di Pisa turbò assai, come
fanno le cose inaspettate, i Fiorentini; perché, avendo da la
parte di Siena una gravissima guerra, non vedevano come si potere a'
luoghi di verso Pisa provedere; pure, con comandati e altre simili
provisioni, alla città di Pisa soccorsono. E per tenere i
Lucchesi in fede, acciò che o danari o viveri al nimico non
sumministrassero, Piero di Gino di Neri Capponi ambasciadore vi
mandorono; il quale fu da loro con tanto sospetto ricevuto, per
l'odio che quella città tiene con il popolo di Firenze, nato
da le antiche ingiurie e dal continuo timore, che portò molte
volte pericolo di non vi essere popolarmente morto: tanto che questa
sua andata dette cagione a nuovi sdegni, più tosto che a
nuova unione. Rivocorono i Fiorentini il marchese di Ferrara,
soldorono il marchese di Mantova, e con instanzia grande richiesono
a' Viniziani il conte Carlo, figliuolo di Braccio, e Deifebo,
figliuolo del conte Iacopo, i quali furono alla fine, dopo molte
gavillazioni, da' Viniziani conceduti; perché, avendo fatto
tregua con il Turco, e per ciò non avendo scusa che gli
ricoprissi, a non osservare la fede della lega si vergognorono.
Vennono per tanto il conte Carlo e Deifebo con buono numero di genti
d'arme; e messe insieme, con quelle, tutte le genti d'arme che
poterono spiccare dallo esercito che sotto il marchese di Ferrara
alle genti del duca di Calavria era opposto, se ne andorono inverso
Pisa per trovare il signore Ruberto, il quale con le sue genti si
trovava propinquo al fiume del Serchio. E benché gli avesse
fatto sembiante di volere aspettare le genti nostre, non di meno non
le aspettò, ma ritirossi in Lunigiana, in quelli
alloggiamenti donde si era, quando entrò nel paese di Pisa,
partito. Dopo la cui partita furono dal conte Carlo tutte quelle
terre recuperate che dai nimici nel paese di Pisa erano state prese.
15
Liberati i Fiorentini dagli assalti di verso Pisa, feciono tutte le
genti loro infra Colle e San Gimignano ridurre. Ma sendo in quello
esercito, per la venuta del conte Carlo, Sforzeschi e Bracceschi,
subito si risentirono le antiche nimicizie loro; e si credeva,
quando avessero ad essere lungamente insieme, che fussero venuti
alle armi. Tanto che, per minore male, si deliberò di
dividere le genti, e una parte di quelle, sotto il conte Carlo,
mandare nel Perugino, un'altra parte fermare a Poggibonzi, dove
facessero uno alloggiamento forte, da potere tenere i nimici, che
non entrassero nel Fiorentino. Stimorono, per questo partito,
constrignere ancora i nimici a dividere le genti; perché
credevono, o che il conte Carlo occuperebbe Perugia, dove pensavano
avesse assai partigiani, o che il Papa fusse necessitato mandarvi
grossa gente per difenderla. Ordinorono oltra di questo, per
condurre il Papa in maggiore necessità, che messer
Niccolò Vitelli, uscito di Città di Castello, dove era
capo messer Lorenzo suo nimico, con gente si appressasse alla terra,
per fare forza di cacciarne lo avversario e levarla dalla ubbidienza
del Papa. Parve, in questi principii, che la fortuna volesse
favorire le cose fiorentine; perché e' si vedeva il conte
Carlo fare nel Perugino progressi grandi; messer Niccolò
Vitelli, ancora che non gli fusse riuscito entrare in Castello, era
con le sue genti superiore in campagna, e d'intorno alla
città sanza opposizione alcuna predava; così ancora le
genti che erano restate a Poggibonzi ogni dì correvano alle
mura di Siena: non di meno, alla fine, tutte queste speranze
tornorono vane. In prima morì il conte Carlo, nel mezzo della
speranza delle sue vittorie. La cui morte ancora migliorò le
condizioni de' Fiorentini, se la vittoria che da quella nacque si
fusse saputa usare, perché, intesasi la morte del Conte,
subito le genti della Chiesa, che erano di già tutte insieme
a Perugia, presono speranza di potere opprimere le genti fiorentine;
e uscite in campagna, posono il loro alloggiamento sopra il Lago
propinquo a' nimici a tre miglia. Dall'altra parte Iacopo
Guicciardini, il quale si trovava di quello esercito commissario,
con il consiglio del magnifico Ruberto da Rimine, il quale, morto il
conte Carlo, era rimaso il primo e più reputato di quello
esercito, cognosciuta la cagione dell'orgoglio de' nimici,
deliberorono aspettargli, tal che, venuti alle mani accanto al Lago,
dove già Annibale cartaginese dette quella memorabile rotta
a' Romani, furono le genti della Chiesa rotte. La quale vittoria fu
ricevuta in Firenze con laude de' capi e piacere di ciascuno, e
sarebbe stata con onore e utile di quella impresa, se i disordini
che nacquono nello esercito che si trovava a Poggibonzi non avessero
ogni cosa perturbato. E così il bene che fece l'uno esercito
fu dall'altro interamente destrutto: perché, avendo quelle
genti fatto preda sopra il Sanese, venne, nella divisione di essa,
differenza intra il marchese di Ferrara e quello di Mantova; tal
che, venuti alle armi, con ogni qualità di offesa si
assalirono; e fu tale che, giudicando i Fiorentini non si potere
più d'ambeduoi valere, si consentì che il marchese di
Ferrara con le sue genti se ne tornasse a casa.
16
Indebolito adunque quello esercito, e rimaso sanza capo, e
governandosi in ogni parte disordinatamente, il duca di Calavria,
che si trovava con lo esercito suo propinquo a Siena, prese animo di
venirli a trovare, e così fatto come pensato, le genti
fiorentine, veggendosi assalire, non nelle armi, non nella
moltitudine, che erano al nimico superiori non nel sito dove erano,
che era fortissimo, confidarono, ma sanza aspettare non che altro di
vedere il nimico, alla vista della polvere si fuggirono, e a' nimici
le munizioni, i carriaggi e l'artiglierie lasciorono: di tanta
poltroneria e disordine erano allora quelli eserciti ripieni, che
nel voltare uno cavallo o la testa o la groppa dava la perdita o la
vittoria d'una impresa. Riempié questa rotta i soldati del Re
di preda, e i Fiorentini di spavento; perché, non solo la
città loro si trovava dalla guerra, ma ancora da una
pestilenza gravissima afflitta; la quale aveva in modo occupata la
città, che tutti i cittadini, per fuggire la morte, per le
loro ville si erano ritirati. Questo fece ancora questa rotta
più spaventevole; perché quelli cittadini che per la
Val di Pesa e per la Val d'Elsa avevono le loro possessioni, sendosi
ridutti in quelle, seguita la rotta, subito, come meglio poterono,
non solamente con i figliuoli e robe loro, ma con i loro lavoratori,
a Firenze corsono: tal che pareva che si dubitasse che ad ogni ora
il nimico alla città si potesse presentare. Quegli che alla
cura della guerra erano preposti, veggendo questo disordine,
comandorono alle genti che erano state nel Perugino vittoriose che,
lasciata la impresa contro a' Perugini, venissero in Val d'Elsa per
opporsi al nimico, il quale, dopo la vittoria, sanza alcuno
contrasto scorreva il paese. E benché quelle avessero stretta
in modo la città di Perugia, che ad ogni ora se ne aspettasse
la vittoria, non di meno vollono i Fiorentini prima difendere il
loro, che cercare di occupare quello d'altri: tanto che quello
esercito, levato dai suoi felici successi, fu condotto a San
Casciano, castello propinquo a Firenze a otto miglia, giudicando non
si potere altrove fare testa, infino a tanto che le reliquie dello
esercito rotto fussero insieme. I nimici dall'altra parte, quegli
che erano a Perugia, liberi per la partita delle genti fiorentine,
divenuti audaci, grandi prede nello Aretino e nel Cortonese ciascuno
giorno facevano; e quegli altri, che sotto Alfonso duca di Calavria
avevano a Poggibonzi vinto, si erano di Poggibonzi prima, e di Vico
di poi insignoriti, e Certaldo messo a sacco; e fatte queste
espugnazioni e prede, andorono con il campo al castello di Colle, il
quale in quegli tempi era stimato fortissimo, e avendo gli uomini
allo stato di Firenze fedeli, potette tenere tanto a bada il nimico,
che si fussero ridutte le genti insieme. Avendo adunque i Fiorentini
raccozzate le genti tutte a San Casciano, ed espugnando i nimici con
ogni forza Colle, deliberorono di appressarsi a quelli, e dare animo
a' Colligiani a defendersi. E perché i nimici avessero
più respetto ad offendergli, avendo gli avversarii propinqui,
fatta questa deliberazione, levorono il campo da San Casciano e
posonlo a San Gimignano, propinquo a cinque miglia a Colle, donde
con i cavalli leggieri e con altri più espediti soldati
ciascuno dì il campo del Duca molestavano. Non di meno a'
Colligiani non era sufficiente questo soccorso, per che, mancando
delle loro cose necessarie, a dì 13 di novembre si dierono,
con dispiacere de' Fiorentini e con massima letizia de' nimici, e
massimamente de' Sanesi, i quali oltre al comune odio che portono
alla città di Firenze, lo avevano con i Colligiani
particulare.
17
Era di già il verno grande, e i tempi sinistri alla guerra,
tanto che il Papa e il Re, mossi, o da volere dare speranza di pace,
o da volere godersi le vittorie avute più pacificamente,
offersono tregua a' Fiorentini per tre mesi, e dierono dieci giorni
tempo alla risposta; la quale fu accettata subito. Ma come avviene a
ciascuno, che più le ferite, raffreddi che sono i sangui, si
sentono, che quando le si ricevono, questo breve riposo fece
cognoscere più a' Fiorentini i sostenuti affanni. E i
cittadini, liberamente e sanza rispetto, accusavano l'uno l'altro, e
manifestavano gli errori nella guerra commessi: mostravano le spese
invano fatte, le gravezze ingiustamente poste; le quali cose, non
solamente ne' circuli, intra i privati, ma ne' consigli publici
animosamente parlavano. E prese tanto ardire alcuno, che, voltosi a
Lorenzo de' Medici, gli disse: - Questa città è
stracca, e non vuole più guerra; - e per ciò era
necessario che pensasse alla pace. Onde che Lorenzo, cognosciuta
questa necessità, si ristrinse con quegli amici che pensava
più fedeli e più savi, e prima conclusono, veggendo i
Viniziani freddi e poco fedeli, il Duca pupillo e nelle civili
discordie implicato, che fusse da cercare con nuovi amici nuova
fortuna; ma stavano dubi nelle cui braccia fusse da rimettersi, o
del Papa o del Re. Ed esaminato tutto, approvorono l'amicizia del
Re, come più stabile e più secura: perché la
brevità della vita de' papi, la variazione della successione,
il poco timore che la Chiesa ha de' principi, i pochi rispetti che
la ha nel prendere i partiti, fa che uno principe seculare non
può in uno pontefice interamente confidare, né
può securamente accomunare la fortuna sua con quello;
perché chi è, nelle guerre e pericoli, del papa amico,
sarà nelle vittorie accompagnato e nelle rovine solo, sendo
il pontefice dalla spirituale potenza e reputazione sostenuto e
difeso. Deliberato adunque che fusse a maggiore profitto guadagnarsi
il Re, giudicorono non si potere fare meglio né con
più certezza che con la presenza di Lorenzo; perché,
quanto più con quello re si usasse liberalità, tanto
più credevano potere trovare remedi alle nimicizie passate.
Avendo per tanto Lorenzo fermo lo animo a questa andata,
raccomandò la città e lo stato a messer Tommaso
Soderini, che era in quel tempo gonfaloniere di giustizia, e al
principio di decembre partì di Firenze, e arrivato a Pisa,
scrisse alla Signoria la cagione della sua partita. E quelli
signori, per onorarlo, e perché e' potesse trattare con
più reputazione la pace con il Re, lo feciono oratore per il
popolo fiorentino, e gli dettono autorità di collegarsi con
quello, come a lui paresse meglio per la sua republica.
18
In questi medesimi tempi il signore Ruberto da San Severino, insieme
con Lodovico e Ascanio, perché Sforza loro fratello era
morto, riassalirono di nuovo lo stato di Milano per tornare nel
governo di quello; e avendo occupata Tortona, ed essendo Milano e
tutto quello stato in arme, la duchessa Bona fu consigliata
ripatriasse gli Sforzeschi, e per levare via queste civili contese,
gli ricevesse in stato. Il principe di questo consiglio fu Antonio
Tassino ferrarese, il quale, nato di vile condizione, venuto a
Milano, pervenne alle mani del duca Galeazzo, e alla duchessa sua
donna per cameriere lo concesse. Questi, o per essere bello di
corpo, o per altra sua segreta virtù, dopo la morte del Duca
salì in tanta reputazione apresso alla Duchessa, che quasi lo
stato governava; il che dispiaceva assai a messer Cecco, uomo per
prudenza e per lunga pratica eccellentissimo; tanto che, in quelle
cose poteva, e con la Duchessa e con gli altri del governo, di
diminuire l'autorità del Tassino s'ingegnava. Di che
accorgendosi quello, per vendicarsi delle ingiurie, e per avere
apresso chi da messer Cecco lo defendesse, confortò la
Duchessa a ripatriare gli Sforzeschi; la quale, seguitando i suoi
consigli, sanza conferirne cosa alcuna con messer Cecco, gli
ripatriò: donde che quello le disse: - Tu hai preso uno
partito il quale torrà a me la vita e a te lo stato. - Le
quali cose poco di poi intervennono, perché messer Cecco fu
da il signore Lodovico fatto morire, ed essendo, dopo alcun tempo,
stato cacciato del ducato il Tassino, la Duchessa ne prese tanto
sdegno, che la si partì di Milano e renunziò nelle
mani di Lodovico il governo del figliuolo. Restato adunque Lodovico
solo governatore del ducato di Milano, fu, come si
dimosterrà, cagione della rovina di Italia. Era partito
Lorenzo de' Medici per a Napoli, e la tregua intra le parti
vegghiava, quando, fuora di ogni espettazione, Lodovico Fregoso,
avuta certa intelligenza con alcuno Serezanese, di furto
entrò con armati in Serezana, e quella terra occupò, e
quello che vi era per il popolo fiorentino prese prigione. Questo
accidente dette grande dispiacere a' principi dello stato di
Firenze, perché si persuadevano che tutto fusse seguito con
ordine del re Ferrando. E si dolfono con il duca di Calavria, che
era con lo esercito a Siena, di essere, durante la tregua, con nuova
guerra assaliti; il quale fece ogni demostrazione, e con lettere e
con ambasciate, che tale cosa fusse nata sanza consentimento del
padre o suo. Pareva non di meno a' Fiorentini essere in pessime
condizioni, vedendosi voti di danari, il capo della republica nelle
mani del Re, e avere una guerra antica con il Re e con il Papa e una
nuova con i Genovesi, ed essere sanza amici; perché ne'
Viniziani non speravano, e del governo di Milano più tosto
temevano, per essere vario e instabile. Solo restava a' Fiorentini
una speranza, di quello che avesse Lorenzo de' Medici a trattare con
il Re.
19
Era Lorenzo, per mare, arrivato a Napoli; dove, non solamente da il
Re, ma da tutta quella città fu ricevuto onoratamente e con
grande espettazione, perché essendo nata tanta guerra solo
per opprimerlo, la grandezza degli inimici che gli aveva avuti lo
aveva fatto grandissimo. Ma arrivato alla presenza del Re, e'
disputò in modo delle condizioni di Italia, degli umori de'
principi e popoli di quella, e quello che si poteva sperare nella
pace e temere nella guerra, che quel re si maravigliò
più, poi che l'ebbe udito, della grandezza dello animo suo e
della destrezza dello ingegno e gravità del iudizio, che non
si era prima dello avere egli solo potuto sostenere tanta guerra
maravigliato; tanto che gli raddoppiò gli onori, e
cominciò a pensare come più tosto e' lo avesse a
lasciare amico che a tenerlo nimico. Non di meno, con varie cagioni,
dal dicembre al marzo lo intrattenne, per fare non solamente di lui
duplicata sperienza, ma della città: perché non
mancavano a Lorenzo, in Firenze, nimici che arebbono avuto desiderio
che il Re lo avesse ritenuto e come Iacopo Piccinino trattato; e
sotto ombra di dolersene, per tutta la città ne parlavano, e
nelle deliberazioni publiche a quello che fusse in favore di Lorenzo
si opponevano. E avevano con questi loro modi sparta fama che, se il
Re lo avesse molto tempo tenuto a Napoli, che in Firenze si
muterebbe governo. Il che fece che il Re soprasedé lo
espedirlo quel tempo, per vedere se in Firenze nasceva tumulto
alcuno. Ma veduto come le cose passavano quiete, a dì 6 di
marzo, nel 1479, lo licenziò; e prima con ogni generazione di
beneficio e dimostrazione di amore se lo guadagnò; e infra
loro nacque accordi perpetui a conservazione de' comuni stati.
Tornò per tanto Lorenzo in Firenze grandissimo, s'egli se
n'era partito grande; e fu con quella allegrezza da la città
ricevuto, che le sue grandi qualità e i freschi meriti
meritavano, avendo esposto la propria vita per rendere alla patria
sua la pace. Perché, duoi giorni dopo l'arrivata sua, si
publicò lo accordo fatto infra la republica di Firenze e il
Re: per il quale si obligavano ciascuno alla conservazione de'
comuni stati; e delle terre tolte nella guerra a' Fiorentini fusse
in arbitrio del Re il restituirle; e che i Pazzi posti nella torre
di Volterra si liberassero; e al Duca di Calavria, per certo tempo,
certe quantità di danari si pagassero. Questa pace, subito
che fu publicata, riempié di sdegno il Papa e i Viniziani:
perché al Papa pareva essere stato poco stimato da il Re, e i
Viniziani da' Fiorentini; ché, sendo stati l'uno e l'altro
compagni nella guerra, si dolevano non avere parte nella pace.
Questa indegnazione, intesa e creduta a Firenze, subito dette a
ciascheduno sospetto che da questa pace fatta non nascesse maggiore
guerra: in modo che i principi dello stato deliberorono di
ristrignere il governo, e che le deliberazioni importanti si
riducessero in minore numero; e feciono un consiglio di settanta
cittadini, con quella autorità gli poterono dare maggiore
nelle azioni principali. Questo nuovo ordine fece fermare l'animo a
quelli che volessero cercare nuove cose. E per darsi reputazione,
prima che ogni cosa, accettorono la pace fatta da Lorenzo con il Re,
destinorono oratori al Papa e a quello messer Antonio Ridolfi e
Piero Nasi. Non di meno non ostante questa pace, Alfonso duca di
Calavria non si partiva con lo esercito da Siena, mostrando essere
ritenuto dalle discordie di quegli cittadini; le quali furono tante
che, dove gli era alloggiato fuora della città, lo ridussero
in quella e lo ferono arbitro delle differenze loro. Il Duca, presa
questa occasione molti di quegli cittadini punì in danari,
molti ne giudicò alle carcere, molti allo esilio, e alcuni
alla morte: tanto che, con questi modi, egli diventò
sospetto, non solamente a' Sanesi, ma a' Fiorentini, che non si
volesse di quella città fare principe. Né vi si
cognosceva alcuno rimedio, trovandosi la città in nuova
amicizia con il Re, e al Papa e a' Viniziani nimica. La qual
suspizione, non solamente nel popolo universale di Firenze, sottile
interpetre di tutte le cose, ma in ne' principi dello stato
appariva; e afferma ciascuno la città nostra non essere mai
stata in tanto pericolo di perdere la libertà. Ma Iddio, che
sempre in simili estremità ha di quella avuta particulare
cura, fece nascere uno accidente insperato, il quale dette al Re, al
Papa e a' Viniziani maggiori pensieri che quelli di Toscana.
20
Era Maumetto gran Turco andato con un grandissimo esercito a campo a
Rodi, e quello aveva per molti mesi combattuto; non di meno, ancora
che le forze sue fussero grandi, e la ostinazione nella espugnazione
di quella terra grandissima, la trovò maggiore nelli
assediati; i quali con tanta virtù da tanto impeto si
defesono, che Maumetto fu forzato da quello assedio partirsi con
vergogna. Partito per tanto da Rodi, parte della sua armata, sotto
Iacometto bascià, se ne venne verso la Velona; e o che quello
vedesse la facilità della impresa, o che pure il signore
gliele comandasse, nel costeggiare la Italia pose, in un tratto,
quattro mila soldati in terra; e assaltata la città di
Otranto, subito la prese e saccheggiò; e tutti gli abitatori
di quella ammazzò. Di poi, con quelli modi gli occorsono
migliori, e dentro in quella e nel porto si affortificò; e
riduttovi buona cavalleria, il paese circunstante correva e predava.
Veduto il Re questo assalto, e conosciuto di quanto principe ella
fusse impresa, mandò per tutto nunzi a significarlo, e a
domandare contro al comune nimico aiuti e con grande instanzia
revocò il duca di Calavria e le sue genti che erano a Siena.
21
Questo assalto, quanto egli perturbò il Duca e il resto di
Italia, tanto rallegrò Firenze e Siena, parendo a questa di
avere riavuta la sua libertà, e a quella di essere uscita di
quelli pericoli che gli facieno temere di perderla. La quale
opinione accrebbono le doglienze che il Duca fece nel partire da
Siena, accusando la fortuna, che, con uno insperato e non
ragionevole accidente, gli aveva tolto lo imperio di Toscana. Questo
medesimo caso fece al Papa mutare consiglio; e dove prima non aveva
mai voluto ascoltare alcuno oratore fiorentino, diventò in
tanto più mite che gli udiva qualunque della universale pace
gli ragionava: tanto che i Fiorentini furono certificati che, quando
s'inclinassero a domandare perdono al Papa, che lo troverebbono. Non
parve adunque di lasciare passare questa occasione; e mandorono al
Pontefice dodici ambasciadori; i quali, poi che furono arrivati a
Roma, il Papa, con diverse pratiche, prima che desse loro audienza
gli intrattenne. Pure, alla fine, si fermò intra le parti
come per lo avvenire si avesse a vivere, e quanto nella pace e
quanto nella guerra per ciascuna di esse a contribuire. Vennono di
poi gli ambasciadori a' piedi del Pontefice, il quale, in mezzo dei
suoi cardinali, con eccessiva pompa gli aspettava. Escusorono
costoro le cose seguite, ora accusandone la necessità, ora la
malignità d'altri, ora il furore popolare e la giusta ira
sua; e come quelli sono infelici, che sono forzati o combattere o
morire. E perché ogni cosa si doveva sopportare per fuggire
la morte, avevono sopportato la guerra, gli interdetti, e le altre
incommodità che si erano tirate dietro le passate cose,
perché la loro republica fuggisse la servitù, la
quale, suole essere la morte delle città libere. Non di meno,
se, ancora che forzati, avessero commesso alcuno fallo, erano per
tornare a menda; e confidavano nella clemenza sua, la quale, ad
esemplo del Sommo Redentore, sarà per riceverli nelle sue
pietosissime braccia. Alle quali scuse il Papa rispose con parole
piene di superbia e di ira, rimproverando loro tutto quello che ne'
passati tempi avevono contro alla Chiesa commesso: non di meno, per
conservare i precetti di Dio, era contento concedere loro quel
perdono che domandavano; ma che faceva loro intendere come eglino
avieno ad ubbidire; e quando eglino rompessero l'ubbidienza, quella
libertà che sono stati per perdere ora, e' perderebbono poi,
e giustamente; perché coloro sono meritamente liberi, che
nelle buone, non nelle cattive opere si esercitano; perché la
libertà male usata offende se stessa e altri; e potere
stimare poco Iddio e meno la Chiesa non è oficio di uomo
libero, ma di sciolto e più al male che al bene inclinato; la
cui correzione non solo a' principi, ma a qualunque cristiano
appartiene. Tale che delle cose passate si avevono a dolere di loro,
che avevono con le cattive opere dato cagione alla guerra, e con le
pessime nutritola, la quale si era spenta più per la
benignità d'altri che per i meriti loro. Lessesi poi la
formula dello accordo e della benedizione; alla quale il Papa
aggiunse, fuori delle cose praticate e ferme che, se i Fiorentini
volevono godere il frutto della benedizione, tenessero armate, di
loro danari, quindici galee tutto quel tempo che il Turco
combattesse il Regno. Dolfonsi assai gli oratori di questo peso,
posto sopra allo accordo fatto; né poterono in alcuna parte,
per alcuno mezzo o favore, e per alcuna doglienza, alleggerirlo. Ma
tornati a Firenze, la Signoria, per fermare questa pace,
mandò oratore al Papa messer Guidantonio Vespucci, che di
poco tempo innanzi era tornato di Francia. Questi, per la sua
prudenza, ridusse ogni cosa a termini sopportabili, e dal Pontefice
molte grazie ottenne; il che fu segno di maggiore riconciliazione.
22
Avendo per tanto i Fiorentini ferme le loro cose con il Papa, ed
essendo libera Siena e loro dalla paura del Re per la partita di
Toscana del duca di Calavria, e seguendo la guerra de' Turchi,
strinsono il Re, per ogni verso, alla restituzione delle loro
castella le quali il duca di Calavria, partendosi, aveva lasciate
nelle mani de' Sanesi. Donde che quel re dubitava che i Fiorentini,
in tanta sua necessità, non si spiccassero da lui, e con il
muovere guerra a' Sanesi gli impedissero gli aiuti che dal Papa e
dagli altri Italiani sperava. E per ciò fu contento che le si
restituissero, e con nuovi oblighi di nuovo i Fiorentini si
obligò: e così la forza e la necessità, non le
scritture e gli oblighi, fa osservare a' principi la fede. Ricevute
adunque le castella, e ferma questa nuova confederazione, Lorenzo
de' Medici riacquistò quella riputazione che prima la guerra
e di poi la pace, quando del Re si dubitava, gli aveva tolta: e non
mancava, in quelli tempi, chi lo calunniasse apertamente, dicendo
che per salvare sé, egli aveva venduta la sua patria; e come
nella guerra si erano perdute le terre, e nella pace si perderebbe
la libertà. Ma riavute le terre, e fermo con il Re onorevole
accordo, e ritornata la città nella antica riputazione sua,
in Firenze, città di parlare avida e che le cose dai successi
e non dai consigli giudica, si mutò ragionamento: e
celebravasi Lorenzo infino al cielo; dicendo che la sua prudenza
aveva saputo guadagnarsi nella pace quello che la cattiva fortuna
gli aveva tolto nella guerra; e come gli aveva potuto più il
consiglio e iudizio suo che l'armi e le forze del nimico. Avevono
gli assalti del Turco differita quella guerra la quale, per lo
sdegno che il Papa e i Viniziani avevono preso per la pace fatta,
era per nascere; ma come il principio di quello assalto fu insperato
e cagione di molto bene, così il fine fu inaspettato e
cagione di assai male: perché Maumetto, gran Turco,
morì, fuori di ogni opinione, e venuta intra i figliuoli
discordia, quegli che si trovavano in Puglia, dal loro signore
abbandonati, concessono, d'accordo, Otranto al Re. Tolta via adunque
questa paura, che teneva gli animi del Papa e de' Viniziani fermi,
ciascuno temeva di nuovi tumulti. Dall'una parte erano in lega Papa
e Viniziani; con questi erano Genovesi, Sanesi e altri minori
potenti dall'altra erano Fiorentini, Re e Duca a' quali si
accostavano Bolognesi e molti altri signori. Desideravano i
Viniziani di insignorirsi di Ferrara; e pareva loro avere cagione
ragionevole alla impresa e speranza certa di conseguirla. La cagione
era perché il Marchese affermava non essere più tenuto
a ricevere il Visdomine e il sale da loro, sendo, per convenzione
fatta, che, dopo settanta anni dell'uno e dell'altro carico quella
città fusse libera. Rispondevano dall'altro canto i Viniziani
che quanto tempo riteneva il Pulesine, tanto doveva ricevere il
Visdomine e il sale. E non ci volendo il Marchese acconsentire,
parve a' Viniziani di avere giusta presa di prendere l'armi, e
commodo tempo a farlo, veggendo il Papa contro a' Fiorentini e il Re
pieno di sdegno. E per guadagnarselo più, sendo ito il conte
Girolamo a Vinegia, fu da loro onoratissimamente ricevuto, e
donatogli la città e la gentiligia loro, segno sempre di
onore grandissimo a qualunque la donano. Avevano, per essere presti
a quella guerra, posti nuovi dazi, e fatto capitano de' loro
eserciti il signor Ruberto da San Severino, il quale, sdegnato con
il signore Lodovico, governatore di Milano, s'era fuggito a Tortona,
e, quivi fatti alcuni tumulti, andatone a Genova; dove sendo, fu
chiamato da' Viniziani e fatto delle loro armi principe.
23
Queste preparazioni a nuovi moti, cognosciute dalla lega avversa,
feciono che quella ancora si preparasse alla guerra: e il duca di
Milano per suo capitano elesse Federigo signore di Urbino, i
Fiorentini il signore Gostanzo di Pesero. E per tentare l'animo del
Papa, e chiarirsi se i Viniziani con suo consentimento movieno
guerra a Ferrara, il re Ferrando mandò Alfonso duca di
Calavria con il suo esercito sopra il Tronto, e domandò passo
al Papa, per andare in Lombardia al soccorso del Marchese; il che
gli fu dal Papa al tutto negato. Tanto che, parendo al Re e a'
Fiorentini essere certificati dello animo suo, deliberorono
strignerlo con le forze, acciò che per necessità egli
diventasse loro amico, o almeno darli tanti impedimenti, che non
potesse a' Viniziani porgere aiuti. Perché già quegli
erano in campagna, e avevano mosso guerra al Marchese, e scorso
prima il paese suo, e poi posto lo assedio a Ficheruolo, castello
assai importante allo stato di quel signore. Avendo per tanto il Re
e i Fiorentini deliberato di assalire il Pontefice Alfonso duca di
Calavria scorse verso Roma, e con lo aiuto de' Colonnesi, che si
erano congiunti seco perché gli Orsini si erano accostati al
Papa, faceva assai danni nel paese; e dall'altra parte le genti
fiorentine assalirono, con messer Niccolò Vitelli,
Città di Castello, e quella città occuporono, e ne
cacciorono messer Lorenzo, che per il Papa la teneva, e di quella
feciono come principe messer Niccolò. Trovavasi per tanto il
Papa in massime angustie, perché Roma drento dalla parte era
perturbata, e fuora il paese da' nimici corso. Non di meno, come
uomo animoso, e che voleva vincere e non cedere al nimico, condusse
per capitano il magnifico Ruberto da Rimine; e fattolo venire in
Roma, dove tutte le sue genti d'arme aveva ragunate, gli
mostrò quanto onore gli sarebbe se, contro alle forze d'uno
Re, egli liberasse la Chiesa da quelli affanni in ne' quali si
trovava, e quanto obligo, non solo egli, ma tutti i suoi successori
arebbono seco; e come, non solo gli uomini, ma Iddio sarebbe per
ricognoscerlo. Il magnifico Ruberto, considerate prima le genti
d'arme del Papa e tutti gli apparati suoi, lo confortò a fare
quanta più fanteria e' poteva; il che con ogni studio e
celerità si misse ad effetto. Era il duca di Calavria
propinquo a Roma, in modo che ogni giorno correva e predava infino
alle porte della città; la qual cosa fece in modo indegnare
il popolo romano, che molti voluntariamente s'offersono ad essere
con il magnifico Ruberto alla liberazione di Roma; i quali furono
tutti da quello signore ringraziati e ricevuti. Il Duca, sentendo
questi apparati, si discostò alquanto dalla città,
pensando che, trovandosi discosto, il magnifico Ruberto non avesse
animo ad andarlo a trovare; e parte aspettava Federigo suo fratello,
il quale con nuova gente gli era mandato dal padre. Il magnifico
Ruberto, vedendosi quasi al Duca di gente d'arme uguale, e di
fanterie superiore, uscì instierato di Roma, e pose uno
alloggiamento propinquo a due miglia al nimico. Il Duca, veggendosi
gli avversarii addosso fuori d'ogni sua opinione, giudicò
convenirgli o combattere, o come rotto fuggirsi; onde che, quasi
constretto, per non fare cosa indegna d'un figliuolo d'un re,
deliberò combattere; e volto il viso al nimico, ciascuno
ordinò le sue genti in quel modo che allora ordinavono, e si
condussono alla zuffa, la quale durò infino a mezzogiorno. E
fu questa giornata combattuta con più virtù che alcuna
altra che fusse stata fatta in cinquanta anni in Italia,
perché vi morì, tra l'una parte e l'altra, più
che mille uomini, e il fine di essa fu per la Chiesa glorioso,
perché la moltitudine delle sue fanterie offesono in modo le
cavallerie ducali, che quello fu constretto a dare la volta, e
sarebbe il Duca rimaso prigione, se da molti Turchi, di quelli che
erano stati ad Otranto e allora militavano seco, non fusse stato
salvato. Avuta il magnifico Ruberto questa vittoria, tornò
come trionfante in Roma. La quale egli potette godere poco,
perché, avendo, per lo affanno del giorno, bevuta assai
acqua, se gli mosse un flusso che in pochi giorni lo ammazzò.
Il corpo del quale fu da il Papa con ogni qualità di onore
onorato. Avuta il Pontefice questa vittoria, mandò subito il
Conte verso Città di Castello, per vedere di restituire a
messer Lorenzo quella terra, e parte tentare la città di
Rimine; perché, sendo, dopo la morte del magnifico Ruberto,
rimaso di lui, in guardia della donna, un suo piccolo figliuolo,
pensava che gli fusse facile occupare quella città. Il che
gli sarebbe felicemente succeduto, se quella donna da' Fiorentini
non fusse stata difesa; i quali se gli opposono in modo con le
forze, che non potette né contro a Castello, né contro
a Rimine fare alcuno effetto.
24
Mentre che queste cose in Romagna e a Roma si travagliavano, i
Viniziani avevano occupato Ficheruolo, e con le genti loro passato
il Po, e il campo del duca di Milano e del Marchese era in
disordine, perché Federigo conte di Urbino si era ammalato, e
fattosi portare per curarsi a Bologna si morì, tale che le
cose del Marchese andavano declinando, e a' Viniziani cresceva
ciascun dì la speranza di occupare Ferrara. Dall'altra parte,
il Re e i Fiorentini facevano ogni opera per ridurre il Papa alla
voglia loro, e non essendo succeduto di farlo cedere alle armi, lo
minacciavano del concilio, il quale già dallo Imperadore era
stato pronunziato per a Basilea; onde che, per mezzo degli oratori
di quello, che si trovavano a Roma, e de' primi cardinali, i quali
la pace desideravano, fu persuaso e stretto il Papa a pensare alla
pace e alla unione di Italia. Onde che il Pontefice, per timore, e
anche per vedere come la grandezza de' Viniziani era la rovina della
Chiesa e di Italia, si volse allo accordarsi con la lega; e
mandò suoi nunzi a Napoli, dove per cinque anni feciono lega
Papa, Re duca di Milano e Fiorentini, riserbando il luogo a'
Viniziani ad accettarla. Il che seguito fece il Papa intendere a'
Viniziani che si astenessero dalla guerra di Ferrara. A che i
Viniziani non vollono acconsentire; anzi con maggiori forze si
prepararono alla guerra, e avendo rotte le genti del Duca e del
Marchese ad Argenta, si erano in modo appressati a Ferrara,
ch'eglino avieno posti nel parco del Marchese gli alloggiamenti
loro.
25
Onde che alla lega non parve da differire più di porgere
gagliardi aiuti a quel signore, e feciono passare a Ferrara il duca
di Calavria con le genti sue e con quelle del Papa; e similmente i
Fiorentini tutte le loro genti vi mandorono. E per meglio dispensare
l'ordine della guerra, fece la lega una dieta a Cremona, dove
convenne il legato del Papa con il conte Girolamo, il duca di
Calavria, il signore Lodovico e Lorenzo de' Medici con molti altri
principi italiani; nella quale intra questi principi si divisorono
tutti i modi della futura guerra. E perché eglino giudicavano
che Ferrara non si potesse meglio soccorrere che con il fare una
diversione gagliarda, volevano che il signore Lodovico acconsentisse
a rompere guerra a' Viniziani per lo stato del duca di Milano; a che
quel signore non voleva acconsentire, dubitando di non si tirare una
guerra addosso da non la potere spegnere a sua posta. E per
ciò si deliberò di fare alto con tutte le genti a
Ferrara; e messo insieme quattro mila uomini d'arme e otto mila
fanti, andorono a trovare i Viniziani, i quali avieno dumiladugento
uomini d'arme e sei mila fanti. Alla lega parve, la prima cosa, di
assalire l'armata che i Viniziani avieno nel Po; e quella assalita,
appresso al Bondeno, ruppono con perdita di più che dugento
legni; dove rimase prigioniero messer Antonio Iustiniano,
provveditore dell'armata. I Viniziani poi che viddono Italia tutta
unita loro contro, per darsi più reputazione, avieno condotto
il duca dello Reno con dugento uomini d'arme, onde che, avendo
ricevuto questo danno della armata, mandorono quello, con parte del
loro esercito, a tenere a bada il nimico, e il signore Ruberto da
San Severino feciono passare l'Adda con il restante dello esercito
loro e accostarsi a Milano, gridando il nome del Duca e di madonna
Bona sua madre; perché credettono, per questa via, fare
novità in Milano, stimando il signore Lodovico e il governo
suo fusse in quella città odiato. Questo assalto portò
seco, nel principio, assai terrore, e messe in arme quella
città; non di meno partorì fine contrario al disegno
de' Viniziani, perché quello che il signore Lodovico non
aveva voluto acconsentire, questa ingiuria fu cagione che gli
acconsentisse. E per ciò, lasciato il marchese di Ferrara
alla difesa delle cose sue con quattro mila cavagli e due mila
fanti, il duca di Calavria con dodici mila cavagli e cinque mila
fanti entrò nel Bergamasco, e di quivi nel Bresciano, e di
poi nel Veronese; e quelle tre città, sanza che i Viniziani
vi potessero fare alcuno rimedio, quasi che di tutti i loro contadi
spogliò; perché il signore Ruberto con le sue genti
con fatica poteva salvare quelle città. Dall'altra banda
ancora il marchese di Ferrara aveva ricuperate gran parte delle cose
sue, però che il duca dello Reno, che gli era allo incontro,
non poteva opposergli, non avendo più che due mila cavagli e
mille fanti. E così tutta quella state dell'anno 1483 si
combatté felicemente per la lega.
26
Venuta poi la primavera del seguente anno, perché la vernata
era quietamente trapassata, si ridussono gli eserciti in campagna; e
la lega, per potere con più prestezza opprimere i Viniziani,
aveva messo tutto lo esercito suo insieme. E facilmente, se la
guerra si fusse come l'anno passato mantenuta, si toglieva a'
Viniziani tutto lo stato tenevano in Lombardia; perché si
erano ridutti con sei mila cavagli e cinque mila fanti e aveno allo
incontro tredici mila cavagli e sei mila fanti; perché il
duca dello Reno, fornito l'anno della sua condotta, se ne era ito a
casa. Ma come avviene spesso dove molti di uguale autorità
concorrono, il più delle volte la disunione loro dà la
vittoria al nimico. Sendo morto Federigo Gonzaga, marchese di
Mantova, il quale con la sua autorità teneva in fede il duca
di Calavria e il signore Lodovico, cominciò fra quegli a
nascere dispareri, e da' dispareri gelosia: perché
Giangaleazzo duca di Milano era già in età da potere
prendere il governo del suo stato, e avendo per moglie la figliuola
del duca di Calavria, desiderava quello, che non Lodovico, ma il
genero lo stato governasse. Conoscendo per tanto Lodovico questo
desiderio del Duca, deliberò di torgli la commodità di
esequirlo. Questo sospetto di Lodovico, cognosciuto dai Viniziani,
fu preso da loro per occasione; e giudicorono potere, come sempre
avevono fatto, vincere con la pace, poi che con la guerra avevono
perduto; e praticato segretamente infra loro e il signore Lodovico
lo accordo, lo agosto del 1484 lo conclusono. Il quale, come venne a
notizia degli altri confederati, dispiacque assai, massimamente poi
che e' viddono come a' Viniziani si avevono a restituire le terre
tolte, e lasciare loro Rovigo e il Pulesine, ch'eglino avevono al
marchese di Ferrara occupato, e appresso riavere tutte quelle
preminenze che sopra quella città per antico avevono avute. E
pareva a ciascuno di avere fatto una guerra dove si era speso assai
e acquistato nel trattarla onore e nel finirla vergogna, poi che le
terre prese si erano rendute, e non ricuperate le perdute. Ma furono
constretti i collegati ad accettarla, per essere per le spese
stracchi, e per non volere fare pruova più, per i difetti e
ambizione d'altri, della fortuna loro.
27
Mentre che in Lombardia le cose in tal forma si governavano, il
Papa, mediante messer Lorenzo, strigneva Città di Castello
per cacciarne Niccolò Vitelli, il quale dalla lega, per
tirare il Papa alla voglia sua, era stato abbandonato; e nello
strignere la terra, quelli che di dentro erano partigiani di
Niccolò uscirono fuora, e venuti alle mani con li inimici li
ruppono. Onde che il Papa rivocò il conte Girolamo di
Lombardia, e fecelo venire a Roma, per instaurare le forze sue e
ritornare a quella impresa; ma giudicando di poi che fusse meglio
guadagnarsi messer Niccolò con la pace, che di nuovo
assalirlo con la guerra, si accordò seco; e con messer
Lorenzo suo avversario, in quel modo potette migliore, lo
riconciliò. A che lo constrinse più un sospetto di
nuovi tumulti che lo amore della pace, perché vedeva intra
Colonnesi e Orsini destarsi maligni umori. Fu tolto dal re di Napoli
agli Orsini, nella guerra fra lui e il Papa, il contado di
Tagliacozzo, e dato a' Colonnesi, che seguitavano le parti sue:
fatta di poi la pace tra il Re e il Papa, gli Orsini, per
virtù delle convenzioni, lo domandavano. Fu molte volte dal
Papa a' Colonnesi significato che lo restituissero; ma quelli,
né per preghi delli Orsini, né per minacci del Papa,
alla restituzione non condescesono anzi di nuovo gli Orsini con
prede e altre simili ingiurie offesono. Donde, non potendo il
Pontefice comportarle, mosse tutte le sue forze insieme, e quelle
degli Orsini, contro a di loro, e a quelli le case avieno in Roma
saccheggiò, e chi quelle volle difendere ammazzò e
prese e della maggiore parte de' loro castelli li spogliò:
tanto che quelli tumulti, non per pace ma per afflizione d'una
parte, posorono.
28
Non furono ancora a Genova e in Toscana le cose quiete:
perché i Fiorentini tenevano il conte Antonio da Marciano con
gente alle frontiere di Serezana, e mentre che la guerra durò
in Lombardia, con scorrerie e simili leggieri zuffe i Serezanesi
molestavano, e in Genova Batistino Fregoso, doge di quella
città, fidandosi di Pagolo Fregoso arcivescovo, fu preso con
la moglie e con i figliuoli da lui; e ne fece sé principe.
L'armata ancora viniziana aveva assalito il Regno, e occupato
Galipoli, e gli altri luoghi allo intorno infestava. Ma seguita la
pace in Lombardia, tutti i tumulti posorono, eccetto che in Toscana
e a Roma; perché il Papa, pronunziata la pace, dopo cinque
giorni morì, o perché fusse il termine di sua vita
venuto, o perché il dolore della pace fatta, come nimico a
quella, lo ammazzasse. Lasciò per tanto questo pontefice
quella Italia in pace la quale, vivendo, aveva sempre tenuta in
guerra. Per la costui morte fu subito Roma in arme: il conte
Girolamo si ritirò con le sue genti a canto al Castello; gli
Orsini temevano che i Colonnesi non volessero vendicare le fresche
ingiurie, i Colonnesi ridomandavano le case e castelli loro: onde
seguirono, in pochi giorni, uccisioni, ruberie e incendii in molti
luoghi di quella città. Ma avendo i cardinali persuaso al
Conte che facesse restituire il Castello nelle mani del Collegio, e
che se ne andasse ne' suoi stati e liberasse Roma dalle sue armi,
quello, desiderando di farsi benivolo il futuro pontefice,
ubbidì, e restituito il Castello al Collegio, se ne
andò ad Imola. Donde che, liberati i cardinali da questa
paura, e i baroni da quello sussidio che nelle loro differenze dal
Conte speravano, si venne alla creazione del nuovo pontefice; e dopo
alcuno disparere, fu eletto Giovanbatista Cibo, cardinale di
Malfetta, genovese, e si chiamò Innocenzio VIII; il quale,
per la sua facile natura, ché umano e quieto uomo era, fece
posare le armi, e Roma per allora pacificò.
29
I Fiorentini, dopo la pace di Lombardia, non potevano quietare,
parendo loro cosa vergognosa e brutta che un privato gentile uomo
gli avesse del castello di Serezana spogliati. E perché ne'
capituli della pace era che, non solamente si potesse ridomandare le
cose perdute, ma fare guerra a qualunque lo acquisto di quelle
impedisse, si ordinorono subito con danari e con genti a fare quella
impresa. Onde che Agostino Fregoso, il quale aveva Serezana
occupata, non gli parendo potere con le sue private forze sostenere
tanta guerra, donò quella terra a San Giorgio. Ma poi che di
San Giorgio e de' Genovesi si ha più volte a fare menzione,
non mi pare inconveniente gli ordini e modi di quella città,
sendo una delle principali di Italia, dimostrare. Poi che i Genovesi
ebbono fatta pace con i Viniziani, dopo quella importantissima
guerra che molti anni adietro era seguita infra loro, non potendo
sodisfare quella loro repubblica a quelli cittadini che gran somma
di danari avevono prestati, concesse loro l'entrate della dogana, e
volle che, secondo i crediti, ciascuno, per i meriti della
principale somma, di quelle entrate participasse infino a tanto che
dal Comune fussero interamente sodisfatti; e perché potessero
convenire insieme, il palagio il quale è sopra la dogana loro
consegnorono. Questi creditori adunque ordinorono fra loro uno modo
di governo, faccendo uno consiglio di cento di loro, che le cose
publiche deliberasse, e uno magistrato di otto cittadini, il quale,
come capo di tutti, le esequisse, e i crediti loro divisono in
parti, le quali chiamorono Luoghi, e tutto il corpo loro in San
Giorgio intitulorono. Distribuito così questo loro governo,
occorse al comune della città nuovi bisogni, onde ricorse a
San Giorgio per nuovi aiuti; il quale, trovandosi ricco e bene
amministrato, lo poté servire; e il Comune allo incontro,
come prima gli aveva la dogana conceduta, gli cominciò, per
pegno de' danari aveva, a concedere delle sue terre. E in tanto
è proceduta la cosa, nata dai bisogni del Comune e i servigi
di San Giorgio, che quello si ha posto sotto la sua amministrazione
la maggiore parte delle terre e città sottoposte allo imperio
genovese; le quali e' governa e difende, e ciascuno anno, per
publici suffragi, vi manda suoi rettori, sanza che il Comune in
alcuna parte se ne travagli. Da questo è nato che quelli
cittadini hanno levato lo amore dal Comune, come cosa tiranneggiava,
e postolo a San Giorgio, come parte bene e ugualmente amministrata:
onde ne nasce le facili e spesse mutazioni dello stato, e che ora ad
un loro cittadino, ora ad uno forestiero ubbidiscono, perché
non San Giorgio, ma il Comune varia governo. Tale che, quando infra
i Fregosi e gli Adorni si è combattuto del principato,
perché si combatte lo stato del Comune, la maggior parte de'
cittadini si tira da parte e lascia quello in preda al vincitore;
né fa altro l'ufficio di San Giorgio, se non, quando uno ha
preso lo stato, che fare giurargli la osservanzia delle leggi sue;
le quali infino a questi tempi non sono state alterate,
perché, avendo arme, e danari, e governo, non si può,
sanza pericolo di una certa e pericolosa rebellione, alteralle.
Esemplo veramente raro e da i filosofi in tante loro imaginate e
vedute repubbliche mai non trovato, vedere dentro ad uno medesimo
cerchio infra i medesimi cittadini, la libertà e la
tirannide, la vita civile e la corrotta la giustizia e la licenza:
perché quello ordine solo mantiene quella città piena
di costumi antichi e venerabili; e se gli avvenisse, che con il
tempo in ogni modo avverrà, che San Giorgio tutta quella
città occupasse, sarebbe quella una republica più che
la viniziana memorabile.
30
A questo San Giorgio adunque Agostino Fregoso concesse Serezana. Il
quale la ricevé volentieri, e prese la difesa di quella; e
subito misse un'armata in mare, e mandò gente a Pietrasanta,
perché impedissero qualunque al campo de' Fiorentini, che
già si trovava propinquo a Serezana, andasse. I Fiorentini,
dall'altra parte, desideravano occupar Pietrasanta, come terra che,
non l'avendo, faceva lo acquisto di Serezana meno utile, sendo
quella terra posta infra quella e Pisa; ma non potevano
ragionevolmente campeggiarla, se già dai Pietrasantesi, o da
chi vi fusse dentro, non fussero nello acquisto di Serezana
impediti. E perché questo seguisse, mandorono da Pisa al
campo grande somma di munizioni e vettovaglie, e con quelle una
debile scorta, acciò che chi era in Pietrasanta, per la poca
guardia temesse meno, e per la assai preda desiderassi più lo
assalirli. Successe per tanto secondo il disegno la cosa:
perché quelli che erano in Pietrasanta, veggendosi innanzi
agli occhi tanta preda, la tolsono; il che dette legittima cagione
a' Fiorentini di fare la impresa, e così, lasciata da canto
Serezana, si accamporono a Pietrasanta, la quale era piena di
defensori che gagliardamente la defendevano. I Fiorentini, poste nel
piano le loro artiglierie, feciono una bastia sopra il monte, per
poterla ancora da quella parte strignere. Era dello esercito
commissario Iacopo Guicciardini; e mentre che a Pietrasanta si
combatteva, l'armata genovese prese e arse la rocca di Vada, e le
sue genti, poste in terra, il paese allo intorno correvano e
predavano. Allo incontro delle quali si mandò, con fanti e
cavagli messer Bongianni Gianfigliazzi; il quale in parte
raffrenò l'orgoglio loro, tale che con tanta licenza non
scorrevano. Ma l'armata, seguitando di molestare i Fiorentini,
andò a Livorno, e con puntoni e altre sue preparazioni, si
accostò alla torre nuova e quella più giorni con
l'artiglierie combatté, ma veduto di non fare alcuno
profitto, se ne tornò indietro con vergogna.
31
In quel mezzo a Pietrasanta si combatteva pigramente; onde che i
nimici, preso animo, assalirono la bastia e quella occuporono; il
che seguì con tanta reputazione loro e timore dello esercito
fiorentino, che fu per rompersi da se stesso; tale che si
discostò quattro miglia dalla terra; e quelli capi
giudicavano che, sendo già il mese d'ottobre, che fusse da
ridursi alle stanze e riserbarsi a tempo nuovo a quella
espugnazione. Questo disordine, come si intese a Firenze,
riempié di sdegno i principi dello stato, e subito, per
ristorare il campo di reputazione e di forze, elessono per nuovi
commissari Antonio Pucci e Bernardo del Nero. I quali con gran somma
di danari andorono in campo, e a quelli capitani mostrorono la
indegnazione della Signoria, dello stato e di tutta la città,
quando non si ritornasse con lo esercito alle mura, e quale infamia
sarebbe la loro, che tanti capitani, con tanto esercito, sanza avere
allo incontro altri che una piccola guardia, non potessero sì
vile e sì debile terra espugnare. Mostrorono l'utile presente
e quello che in futuro di tale acquisto potevano sperare; talmente
che gli animi di tutti si raccesono a tornare alle mura; e prima che
ogni altra cosa deliberorono di acquistare la bastia. Nello acquisto
della quale si cognobbe quanto l'umanità,
l'affabilità, le grate accoglienze e parole negli animi de'
soldati possono; perché Antonio Pucci, quello soldato
confortando, a quell'altro promettendo, all'uno porgendo la mano,
l'altro abbracciando, gli fece ire a quello assalto con tanto impeto
ch'eglino acquistorono quella bastia in uno momento, ne fu lo
acquisto sanza danno, imperciò che il conte Antonio da
Marciano da una artiglieria fu morto. Questa vittoria dette tanto
terrore a quelli della terra, che cominciorono a ragionare di
arrendersi: onde, acciò che le cose con più
reputazione si concludessero, parve a Lorenzo de' Medici condursi in
campo; e arrivato quello, non dopo molti giorni si ottenne il
castello. Era già venuto il verno, e per ciò non parve
a quelli capitani da procedere più avanti con la impresa, ma
di aspettare il tempo nuovo, massime perché quello autunno,
mediante la trista aria, aveva infermato quello esercito, e molti
de' capi erano gravemente malati; intra' quali Antonio Pucci e
messer Bongianni Gianfigliazzi, non solamente ammalorono, ma
morirono, con dispiacere di ciascuno, tanta fu la grazia che Antonio
nelle cose fatte da lui a Pietrasanta si aveva acquistata. I
Lucchesi, poi che i Fiorentini ebbono acquistata Pietrasanta,
mandorono oratori a Firenze a domandare quella, come terra stata
già della loro republica, perché allegavano intra gli
oblighi essere che si dovesse restituire al primo signore tutte
quelle terre che l'uno dell'altro recuperasse. Non negorono i
Fiorentini le convenzioni; ma risposono non sapere se, nella pace
che si trattava fra loro e i Genovesi, si avieno a restituire
quella; e per ciò non potevano prima che a quel tempo
deliberarne; e quando bene non avessero a restituirla, era
necessario che i Lucchesi pensassero a sodisfarli della spesa fatta
e del danno ricevuto per la morte di tanti loro cittadini; e quando
questo facessero, potevano facilmente sperare di riaverla.
Consumossi adunque tutto quel verno nelle pratiche della pace intra
i Genovesi e i Fiorentini, la quale a Roma, mediante il Pontefice,
si praticava. Ma non si essendo conclusa, arebbono i Fiorentini,
venuta la primavera, assalita Serezana, se non fussero stati da la
malattia di Lorenzo de' Medici e da la guerra che nacque intra il
Papa e il re Ferrando, impediti: perché Lorenzo, non
solamente da le gotte, le quali come ereditarie del padre lo
affliggevano, ma da gravissimi dolori di stomaco fu assalito, in
modo che fu necessitato andare a' bagni per curarsi.
32
Ma più importante cagione fu la guerra; della quale fu questa
la origine. Era la città della Aquila in modo sottoposta al
regno di Napoli, che quasi libera viveva. Aveva in essa assai
riputazione il conte di Montorio. Trovavasi propinquo al Tronto, con
le sue genti d'arme, il duca di Calavria, sotto colore di volere
posare certi tumulti che in quelle parti intra i paesani erano nati;
e disegnando ridurre l'Aquila interamente alla ubbidienza del Re,
mandò per il conte di Montorio, come se se ne volesse servire
in quelle cose che allora praticava. Ubbidì il Conte, sanza
alcuno sospetto; e arrivato dal Duca, fu fatto prigione da quello e
mandato a Napoli. Questa cosa, come fu nota all'Aquila,
alterò tutta quella città; e prese popularmente
l'arme, fu morto Antonio Concinello, commissario del Re, e con
quello alcuni cittadini i quali erano cognosciuti a quella
maestà partigiani. E per avere gli Aquilani chi nella
rebellione gli difendesse, rizzorono le bandiere della Chiesa, e
mandorono oratori al Papa, a dare la città e loro, pregando
quello che, come cosa sua, contra alla regia tirannide gli aiutasse.
Prese il Pontefice animosamente la loro difesa, come quello che per
cagioni private e publiche odiava il Re; e trovandosi il signore
Ruberto da San Severino nimico dello stato di Milano e senza soldo,
lo prese per suo capitano, e lo fece con massima celerità
venire a Roma. Sollecitò, oltre di questo, tutti gli amici e
parenti del conte di Montorio, che contro al Re si ribellassero:
tale che il principe d'Altemura, di Salerno e di Bisignano presono
l'armi contro a quello. Il Re, veggendosi da sì subita guerra
assalire, ricorse a' Fiorentini e al duca di Milano per aiuti.
Stettero i Fiorentini dubi di quello dovessero fare; perché
e' pareva loro difficile il lasciare, per le altrui, le imprese
loro; e pigliare di nuovo l'arme contro alla Chiesa pareva loro
pericoloso. Non di meno, sendo in lega, preposono la fede alle
commodità e pericoli loro, e soldorono gli Orsini; e di
più mandorono tutte le loro genti, sotto il conte di
Pitigliano, verso Roma, al soccorso del Re. Fece per tanto quel Re
duoi campi: l'uno, sotto il duca di Calavria, mandò verso
Roma, il quale, insieme con le genti fiorentine, allo esercito della
Chiesa si opponesse; con l'altro, sotto il suo governo, si oppose a'
Baroni; e nell'una e nell'altra parte fu travagliata questa guerra
con varia fortuna. Alla fine, restando il Re in ogni luogo
superiore, d'agosto, nel 1486, per il mezzo degli oratori del re di
Spagna, si concluse la pace, alla quale il Papa, per essere battuto
dalla fortuna, né volere più tentare quella,
acconsentì: dove tutti i potentati di Italia si unirono,
lasciando solo i Genovesi da parte, come dello stato di Milano
rebelli e delle terre de' Fiorentini occupatori. Il signore Ruberto
da San Severino, fatta la pace, sendo stato, nella guerra, al Papa
poco fedele amico e agli altri poco formidabile nimico, come
cacciato dal Papa si partì di Roma; e seguitato dalle genti
del Duca e de' Fiorentini, quando egli fu passato Cesena, veggendosi
sopraggiungere, si misse in fuga, e con meno di cento cavagli si
condusse a Ravenna; e dell'altre sue genti, parte furono ricevute da
il Duca, parte da' paesani disfatte. Il Re, fatta la pace, e
riconciliatosi con i Baroni, fece morire Iacopo Coppola e Antonello
d'Anversa con i figliuoli, come quegli che, nella guerra, avevono
rivelati i suoi segreti al Pontefice.
33
Aveva il Papa, per lo esemplo di questa guerra, cognosciuto con
quanta prontezza e studio i Fiorentini conservono le loro amicizie;
tanto che, dove prima, e per amore de' Genovesi e per gli aiuti
avieno fatti al Re, quello gli odiava, cominciò ad amarli e a
fare maggiori favori che l'usato a' loro oratori. La quale
inclinazione, cognosciuta da Lorenzo de' Medici, fu con ogni
industria aiutata; perché giudicava essergli di grande
reputazione quando alla amicizia teneva con il Re e' potesse
aggiungnere quella del Papa. Aveva il Pontefice uno figliuolo
chiamato Francesco, e desiderando di onorarlo di stati, e di amici
perché potesse dopo la sua morte mantenergli, non cognobbe in
Italia con chi lo potesse più securamente congiugnere che con
Lorenzo; e per ciò operò in modo che Lorenzo gli dette
per donna una sua figliuola. Fatto questo parentado, il Papa
desiderava che i Genovesi, d'accordo, cedessero Serezana a'
Fiorentini, mostrando loro come e' non potevano tenere quello che
Agostino aveva venduto, né Agostino poteva a San Giorgio
donare quello che non era suo. Non di meno non potette mai fare
alcuno profitto; anzi i Genovesi, mentre che queste cose a Roma si
praticavano, armorono molti loro legni, e sanza che a Firenze se ne
intendesse cosa alcuna, posono tremila fanti in terra e assalirono
la rocca di Serezanello, posta sopra Serezana e posseduta da i
Fiorentini; e il borgo quale è a canto a quella predorono e
arsono; e apresso, poste l'artiglierie alla rocca, quella con ogni
sollecitudine combattevano. Fu questo assalto nuovo e insperato a'
Fiorentini; onde che subito le loro genti, sotto Virginio Orsino, a
Pisa ragunorono; e si dolfono col Papa, che, mentre quello trattava
della pace, i Genovesi avieno mosso loro la guerra. Mandorono di poi
Piero Corsini a Lucca, per tenere in fede quella città;
mandorono Pagolantonio Soderini a Vinegia, per tentare gli animi di
quella republica, domandorono aiuti al Re e al signore Lodovico,
né da alcuno gli ebbono, perché il Re disse dubitare
della armata del Turco, e Lodovico, sotto altre gavillazioni,
differì il mandarli. E così i Fiorentini nelle guerre
loro quasi sempre sono soli, né truovono chi con quello animo
li suvvenga, che loro altri aiutano. Né questa volta, per
essere dai confederati abbandonati, non sendo loro nuovo, si
sbigottirono; e fatto un grande esercito, sotto Iacopo Guicciardini
e Piero Vettori contro al nimico lo mandorono, i quali feciono uno
alloggiamento sopra il fiume della Magra. In quel mezzo Serezanello
era stretto forte da' nimici, i quali con cave e ogni altra forza lo
espugnavano: tale che i commessari deliberorono soccorrerlo,
né i nimici recusorono la zuffa; e venuti alle mani, furono i
Genovesi rotti; dove rimase prigione messer Luigi dal Fiesco, con
molti altri capi del nimico esercito. Questa vittoria non
sbigottì in modo i Serezanesi che e' si volessero arrendere;
anzi ostinatamente si preparorono alla difesa, e i commissari
fiorentini alla offesa: tanto che la fu gagliardamente combattuta e
difesa. E andando questa espugnazione in lungo, parve a Lorenzo de'
Medici di andare in campo. Dove arrivato, presono i nostri soldati
animo, e Serezanesi lo perderono; perché, veduta la
ostinazione de' Fiorentini ad offenderli e la freddezza de' Genovesi
a soccorrergli, liberamente, e sanza altre condizioni, nelle braccia
di Lorenzo si rimissono; e venuti nella potestà de'
Fiorentini, furono, eccetto pochi della ribellione autori,
umanamente trattati. Il signore Lodovico, durante quella
espugnazione, aveva mandate le sue genti d'arme a Pontremoli, per
mostrare di venire a' favori nostri; ma avendo intelligenza in
Genova, si levò la parte contro a quelli che reggevano, e con
lo aiuto di quelle genti, si dierono al duca di Milano.
34
In questi tempi i Tedeschi avevono mosso guerra a' Viniziani; e
Boccolino da Osimo nella Marca aveva fatto ribellare Osimo al Papa,
e presone la tirannide. Costui, dopo molti accidenti, fu contento,
persuaso da Lorenzo de' Medici, di rendere quella città al
Pontefice; e ne venne a Firenze, dove, sotto la fede di Lorenzo,
più tempo onoratissimamente visse, di poi andandone a Milano;
dove, non trovando la medesima fede, fu da il signore Lodovico fatto
morire. I Viniziani, assaliti da' Tedeschi, furono, propinqui alla
città di Trento, rotti, e il signore Ruberto da San Severino,
loro capitano, morto. Dopo la quale perdita, i Viniziani, secondo
l'ordine della fortuna loro, feciono uno accordo con i Tedeschi, non
come perdenti, ma come vincitori: tanto fu per la loro republica
onorevole. Nacquono ancora, in questi tempi, tumulti in Romagna,
importantissimi. Francesco d'Orso, furlivese, era uomo di grande
autorità in quella città: questi venne in sospetto al
conte Girolamo, tal che più volte da il Conte fu minacciato,
donde che, vivendo Francesco con timore grande, fu confortato da'
suoi amici e parenti di prevenire; e poi che temeva di essere morto
da lui, ammazzasse prima quello, e fuggisse, con la morte d'altri, i
pericoli suoi. Fatta adunque questa deliberazione, e fermo l'animo a
questa impresa, elessono il tempo, il giorno del mercato di
Furlì, perché, venendo in quel giorno in quella
città assai del contado loro amici, pensorono sanza avergli a
fare venire, potere della opera loro valersi. Era del mese di
maggio, e la maggiore parte delli Italiani hanno per consuetudine di
cenare di giorno. Pensorono i congiurati che l'ora commoda fusse, ad
ammazzarlo, dopo la sua cena, nel qual tempo, cenando la sua
famiglia, egli quasi restava in camera solo. Fatto questo pensiero,
a quella ora deputata Francesco ne andò alle case del Conte,
e lasciati i compagni nelle prime stanze, arrivato alla camera dove
il Conte era, disse ad un suo cameriere che gli facesse intendere
come gli voleva parlare. Fu Francesco intromesso, e trovato quello
solo, dopo poche parole d'uno simulato ragionamento lo
ammazzò; e chiamati i compagni, ancora il cameriere
ammazzorono. Veniva a sorte il capitano della terra a parlare al
Conte, e arrivato in sala con pochi dei suoi, fu ancora egli dagli
ucciditori del Conte morto. Fatti questi omicidii, levato il romore
grande, fu il capo del Conte fuori delle finestre gittato; e
gridando Chiesa e Libertà, feciono armare tutto il popolo, il
quale aveva in odio l'avarizia e crudeltà del Conte; e
saccheggiate le sue case, la contessa Caterina e tutti i suoi
figliuoli presono. Restava solo la fortezza a pigliarsi, volendo che
questa loro impresa avesse felice fine. A che non volendo il
castellano condescendere, pregorono la Contessa fusse contenta
disporlo a darla. Il che ella promesse fare, quando eglino la
lasciassero entrare in quella; e per pegno della fede ritenessero i
suoi figliuoli. Credettono i congiurati alle sue parole, e
permissonle l'entrarvi. La quale, come fu dentro, gli
minacciò di morte e d'ogni qualità di supplizio in
vendetta del marito; e minacciando quegli di ammazzargli i
figliuoli, rispose come ella aveva seco il modo a rifarne degli
altri. Sbigottiti per tanto i congiurati, veggendo come dal Papa non
erano suvvenuti, e sentendo come il signore Lodovico, zio alla
Contessa, mandava gente in suo aiuto, tolte delle sustanzie loro
quello poterono portare, se ne andorono a Città di Castello.
Onde che la Contessa, ripreso lo stato, la morte del marito con ogni
generazione di crudeltà vendicò. I Fiorentini, intesa
la morte del Conte, presono occasione di recuperare la rocca di
Piancaldoli, stata loro dal Conte per lo adietro occupata. Dove
mandate loro genti, quella con la morte del Cecca, architettore
famosissimo, recuperorono.
35
A questo tumulto di Romagna un altro in quella provincia, non di
minore momento, se ne aggiunse. Aveva Galeotto, signore di Faenza,
per moglie la figliuola di messer Giovanni Bentivogli, principe in
Bologna. Costei, o per gelosia, o per essere male dal marito
trattata, o per sua cattiva natura, aveva in odio il suo marito; e
in tanto procedé con lo odiarlo, che la deliberò di
torgli lo stato e la vita. E simulata certa sua infirmità, si
pose nel letto; dove ordinò che, venendo Galeotto a
vicitarla, fusse da certi suoi confidenti i quali a quello effetto
aveva in camera nascosti, morto. Aveva costei di questo suo pensiero
fatto partecipe il padre, il quale sperava, dopo che fusse morto il
genero, divenire signore di Faenza. Venuto per tanto il tempo
destinato a questo omicidio, entrò Galeotto in camera della
moglie, secondo la sua consuetudine, e stato seco alquanto a
ragionare, uscirono de' luoghi segreti della camera gli ucciditori
suoi, i quali, sanza che vi potesse fare rimedio, lo ammazzorono.
Fu, dopo la costui morte, il romore grande: la moglie, con uno suo
piccolo figliuolo detto Astorre, si fuggì nella rocca; il
popolo prese le armi; messer Giovanni Bentivogli, insieme con uno
Bergamino, condottieri del duca di Milano, prima preparatosi con
assai armati, entrorono in Faenza, dove ancora era Antonio Boscoli,
commissario fiorentino. E congregati in tale tumulto tutti quelli
capi insieme, e parlando del governo della terra, gli uomini di Val
di Lamona, che erano a quello romore popularmente corsi, mossono
l'armi contro a messer Giovanni e a Bergamino, e questo ammazzorono,
e quello presono prigione; e gridando il nome di Astorre e de'
Fiorentini, la città ad il loro commissario raccomandorono.
Questo caso, inteso a Firenze, dispiacque assai a ciascuno, non di
meno feciono messer Giovanni e la figliuola liberare, e la cura
della città e di Astorre con volontà di tutto il
popolo, presono. Seguirono ancora, oltre a questi, poi che le guerre
principali intra i maggiori principi si composono, per molti anni,
assai tumulti, in Romagna, nella Marca, e a Siena; i quali, per
essere stati di poco momento, giudico essere superfluo il
raccontargli. Vero è che quelli di Siena poi che il duca di
Calavria dopo la guerra del '78 se ne partì, furono
più spessi; e dopo molte variazioni, che ora dominava la
plebe, ora i nobili, restorono i nobili superiori: intra i quali
presono più autorità che gli altri Pandolfo e Iacobo
Petrucci; i quali, l'uno per prudenza, l'altro per animo,
diventorono come principi di quella città.
36
Ma i Fiorentini, finita la guerra di Serezana, vissono infino al
1492 che Lorenzo de' Medici morì, in una felicità
grandissima: perché Lorenzo, posate l'armi d'Italia, le quali
per il senno e autorità sua si erano ferme, volse l'animo a
fare grande sé e la sua città, e a Piero, suo
primogenito, l'Alfonsina, figliuola del cavaliere Orsino, congiunse;
di poi Giovanni, suo secondo figliuolo, alla dignità del
cardinalato trasse. Il che tanto fu più notabile, quanto,
fuora d'ogni passato esemplo, non avendo ancora quattordici anni, fu
a tanto grado condotto; il che fu una scala da potere fare salire la
sua casa in cielo, come poi ne' seguenti tempi, intervenne. A
Giuliano, terzo suo figliuolo, per la poca età sua e per il
poco tempo che Lorenzo visse, non potette di estraordinaria fortuna
provedere. Delle figliuole, l'una a Iacopo Salviati, l'altra a
Francesco Cibo, la terza a Piero Ridolfi congiunse; la quarta, la
quale egli, per tenere la sua casa unita, aveva maritata a Giovanni
de' Medici, si morì. Nelle altre sue private cose fu, quanto
alla mercanzia, infelicissimo; perché per il disordine de'
suoi ministri, i quali, non come privati, ma come principi le sue
cose amministravano, in molte parti molto suo mobile fu spento; in
modo che convenne che la sua patria di gran somma di danari lo
suvvenisse. Onde che quello, per non tentare più simile
fortuna, lasciate da parte le mercatantili industrie, alle
possessioni, come più stabili e più ferme ricchezze,
si volse; e nel Pratese, nel Pisano e in Val di Pesa fece
possessioni, e per utile e per qualità di edifizi e di
magnificenza, non da privato cittadino, ma regie. Volsesi, dopo
questo, a fare più bella e maggiore la sua città; e
per ciò, sendo in quella molti spazi sanza abitazioni, in
essi nuove strade, da empiersi di nuovi edifizi, ordinò, onde
che quella città ne divenne più bella e maggiore. E
perché in nel suo stato più quieta e secura vivesse, e
potesse i suoi nimici, discosto da sé, combattere o
sostenere, verso Bologna, nel mezzo delle alpi, il castello di
Fiorenzuola affortificò; verso Siena dette principio ad
instaurare il Poggio Imperiale e farlo fortissimo; verso Genova, con
lo acquisto di Pietrasanta e di Serezana, quella via al nimico
chiuse. Di poi, con stipendi e provisioni, manteneva suoi amici i
Baglioni in Perugia, i Vitelli in Città di Castello; e di
Faenza il governo particulare aveva: le quali tutte cose erano come
fermi propugnacoli alla sua città. Tenne ancora, in questi
tempi pacifici, sempre la patria sua in festa; dove spesso giostre e
rappresentazioni di fatti e trionfi antichi si vedevano; e il fine
suo era tenere la città abbondante, unito il popolo, e la
nobiltà onorata. Amava maravigliosamente qualunque era in una
arte eccellente; favoriva i litterati, di che messer Agnolo da
Montepulciano, messer Cristofano Landini e messer Demetrio greco ne
possono rendere ferma testimonianza, onde che il conte Giovanni
della Mirandola, uomo quasi che divino, lasciate tutte l'altre parti
di Europa che egli aveva peragrate, mosso dalla munificenzia di
Lorenzo, pose la sua abitazione in Firenze. Della architettura,
della musica e della poesia maravigliosamente si dilettava; e molte
composizioni poetiche, non solo composte, ma comentate ancora da lui
appariscono. E perché la gioventù fiorentina potesse
negli studi delle lettere esercitarsi, aperse nella città di
Pisa uno studio, dove i più eccellenti uomini che allora in
Italia fussero condusse. A fra' Mariano da Ghinazzano, dell'ordine
di Santo Agostino, perché era predicatore eccellentissimo,
uno munistero propinquo a Firenze edificò. Fu dalla fortuna e
da Dio sommamente amato, per il che tutte le sue imprese ebbono
felice fine e tutti i suoi nimici infelice: perché oltre ai
Pazzi, fu ancora voluto, nel Carmine da Batista Frescobaldi, e nella
sua villa da Baldinotto da Pistoia, ammazzare; e ciascuno d'essi,
insieme con i consci de' loro segreti, dei malvagi pensieri loro
patirono giustissime pene. Questo suo modo di vivere, questa sua
prudenza e fortuna, fu dai principi, non solo di Italia, ma
longinqui da quella, con ammirazione cognosciuta e stimata: fece
Mattia re d'Ungheria molti segni dell'amore gli portava, il Soldano
con i suoi oratori e suoi doni lo vicitò e presentò;
il gran Turco gli pose nelle mani Bernardo Bandini, del suo fratello
ucciditore. Le quali cose lo facevano tenere in Italia mirabile. La
quale reputazione ciascuno giorno, per la prudenzia sua cresceva;
perché era, nel discorrere le cose eloquente e arguto, nel
risolverle savio, nello esequirle presto e animoso. Né di
quello si possono addurre vizi che maculassero tante sue
virtù, ancora che fusse nelle cose veneree maravigliosamente
involto, e che si dilettasse di uomini faceti e mordaci, e di
giuochi puerili, più che a tanto uomo non pareva si
convenisse, in modo che molte volte fu visto, intra i suoi figliuoli
e figliuole intra i loro trastulli mescolarsi. Tanto che, a
considerare in quello e la vita leggieri, voluttuosa e la grave, si
vedeva in lui essere due persone diverse, quasi con impossibile
coniunzione congiunte. Visse, negli ultimi tempi, pieno di affanni,
causati dalla malattia che lo teneva maravigliosamente afflitto,
perché era da intollerabili doglie di stomaco oppresso; le
quali tanto lo strinsono che di aprile, nel 1492, morì,
l'anno quarantaquattro della sua età. Né morì
mai alcuno, non solamente in Firenze, ma in Italia, con tanta fama
di prudenza, né che tanto alla sua patria dolesse. E come
dalla sua morte ne dovesse nascere grandissime rovine ne
mostrò il cielo molti evidentissimi segni: intra i quali,
l'altissima sommità del tempio di Santa Reparata fu da uno
fulmine con tanta furia percossa, che gran parte di quel pinnacolo
rovinò, con stupore e maraviglia di ciascuno. Dolfonsi
adunque della sua morte tutti i suoi cittadini e tutti i principi di
Italia: di che ne feciono manifesti segni, perché non ne
rimase alcuno che a Firenze, per suoi oratori, il dolore preso di
tanto caso non significasse. Ma se quelli avessero cagione giusta di
dolersi, lo dimostrò poco di poi lo effetto; perché,
restata Italia priva del consiglio suo, non si trovò modo,
per quegli che rimasono, né di empiere né di frenare
l'ambizione di Lodovico Sforza, governatore del duca di Milano. Per
la quale, subito morto Lorenzo cominciorono a nascere quegli cattivi
semi i quali, non dopo molto tempo, non sendo vivo chi gli sapesse
spegnere, rovinorono, e ancora rovinano, la Italia.