Niccolò Machiavelli
Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio
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Introduzione alla lettura
da http://www.italialibri.net/opere/discorsisullaprimadeca.html
Niccolò Machiavelli lavorò ai Discorsi dal 1513 al
1519 con l’intento di scrivere un commento alla prima deca della
Storia di Tito Livio. Ne nacque, invece, un trattato sulle
repubbliche in tre libri, nel quale il riferimento all’opera del
grande storico romano offre solo l’occasione per l’elaborazione di
una teoria complessiva, anche se non sistematica, del rapporto tra
Stati e Popoli. Questa, oltre ad esprimere il livello più
avanzato del pensiero del diplomatico fiorentino, contiene in
embrione già il superamento definitivo della tradizionale
concezione politica del Rinascimento.
I Discorsi hanno ad oggetto temi diversi, non ordinati ma
sparsi, tenuti insieme, in apparenza, solo dal filo della
conversazione: le repubbliche; i popoli; il costume dei cittadini;
principi e principati; le leggi e le congiure; la guerra, le milizie
e i capitani; fortuna e virtù; libertà e corruzione;
le qualità morali delle classi dirigenti.
Il motivo ispiratore dei Discorsi è la Storia, quale fonte di
emulazione per chi si deve occupare della res pubblica. L’approccio
di Machiavelli, tuttavia, non è di passiva celebrazione del
passato, bensì — e questo non è del tutto coerente con
i canoni vigenti dell’Umanesimo — di consapevolezza lucida degli
accadimenti, al fine di trarre dagli eventi contingenti gli elementi
di continuità, i modelli di azione duraturi ed essenziali.
La differenza centrale dei Discorsi rispetto al Principe, più
che al riconoscimento della complessità delle norme che
regolano l’agire politico affiancando l’azione dei popoli, e dunque
delle repubbliche, a quella dell’uomo virtuoso, sta nel procedimento
logico di descrizione dei fenomeni storici che viene adottato.
Mentre nel Principe i fatti servono ad avvalorare norme generali
già date, secondo un processo deduttivo, nei Discorsi, al
contrario, secondo un metodo induttivo sono i fatti (ad esempio la
narrazione di Livio) che determinano le regole dell’agire politico
Il contesto temporale nel quale le due opere vengono scritte
è lo stesso: di getto nel 1513, il Principe; lungo un periodo
che va dal 1513 al 1517 o 1519, i Discorsi. Ciò mette in
evidenza che, pur nell’identità dell’ispirazione, le due
opere rispondono a due obiettivi differenti. Il Principe — a
dispetto della maggiore fama ottenuta — è un’opera
contingente, completamente immersa nelle vicende politiche della
Firenze del tempo. I Discorsi, invece, vogliono essere — malgrado
l’assenza di sistematicità — un’opera non contingente,
bensì il frutto di una lunga riflessione ed elaborazione
teorica.
E di riflessione non solitaria si tratta. Sono presenti nei Discorsi
le conversazioni degli “Orti Oricellari” dentro ai giardini
fiorentini di Palazzo Rucellai, dove uomini saggi e di cultura si
incontravano per leggere le vicende politiche di Firenze alla luce
dei fatti storici di Roma. L’opera è infatti dedicata a
Cosimo Rucellai, nipote del fondatore degli Orti, e a Zenobi
Buondelmonti: «Voi che mi avete forzato a scrivere quello
chi’io mai per me medesimo non avrei scritto» .
Quanto al contenuto storico, Machiavelli sottolinea la
caducità delle tirannidi e il ruolo fondamentale della
libertà nelle repubbliche; l’avversione pragmatica (esse non
portano risultati duraturi) delle congiure e il ruolo vitale della
milizia, del monopolio della forza, dell’esercito cittadino.
Con i Discorsi, Machiavelli si fa precursore della moderna
storiografia e dello stesso Gian Battista Vico. D’altra parte, il
politologo inglese Neil MacCormick considera Machiavelli il padre
della moderna “costituzione mista”, solo parzialmente scritta ma
profondamente operante, in cui il principio fondante della
democrazia è controbilanciato da idonee misure che
salvaguardano comunque il momento decisionale (ai tempi di
Machiavelli questi contrappesi erano rappresentati dal principio
monarchico o da quello oligarchico).
Il valore fondante della libertà nel rapporto tra
intellettuali e potere, ancora su un altro versante, è
l’eredità raccolta da Vittorio Alfieri nella sua opera —
chiaramente ispirata al segretario fiorentino — Del Principe e delle
lettere. Entro la cornice che Machiavelli ha tracciato del Principe
e del Principato, l’intellettuale non può che essere libero o
sottomesso. La stessa questione viene sottolineata da Antonio
Gramsci in uno dei suoi Quaderni, Note su Machiavelli: quest’ultimo,
con la sua opera, è stato tra i primi intellettuali italiani
a svolgere un ruolo “democratico” e “nazionale”.
Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio
Dedica
Niccolò Machiavelli
a Zanobi Buondelmonti
e Cosimo Rucellai
salute.
Io vi mando uno presente, il quale, se non corrisponde agli obblighi
che io ho con voi, è tale, sanza dubbio, quale ha potuto
Niccolò Machiavelli mandarvi maggiore. Perché in
quello io ho espresso quanto io so e quanto io ho imparato per una
lunga pratica e continua lezione delle cose del mondo. E non potendo
né voi né altri desiderare da me più, non vi
potete dolere se io non vi ho donato più. Bene vi può
increscere della povertà dello ingegno mio, quando siano
queste mie narrazioni povere; e della fallacia del giudicio, quando
io in molte parte, discorrendo, m'inganni. Il che essendo, non so
quale di noi si abbia ad essere meno obligato all'altro: o io a voi,
che mi avete forzato a scrivere quello che io mai per me medesimo
non arei scritto; o voi a me, quando, scrivendo non vi abbi
sodisfatto.
Pigliate, adunque, questo in quello modo che si pigliano tutte le
cose degli amici; dove si considera più sempre la intenzione
di chi manda, che le qualità della cosa che è mandata.
E crediate che in questo io ho una sola satisfazione, quando io
penso che, sebbene io mi fussi ingannato in molte sue circunstanzie,
in questa sola so ch'io non ho preso errore, di avere eletto voi, ai
quali, sopra ogni altri, questi mia Discorsi indirizzi: sì
perché, faccendo questo, mi pare avere mostro qualche
gratitudine de' beneficii ricevuti: sì perché e' mi
pare essere uscito fuora dell'uso comune di coloro che scrivono, i
quali sogliono sempre le loro opere a qualche principe indirizzare;
e, accecati dall'ambizione e dall'avarizia, laudano quello di tutte
le virtuose qualitadi, quando da ogni vituperevole parte
doverrebbono biasimarlo.
Onde io, per non incorrere in questo errore, ho eletti non quelli
che sono principi, ma quelli che, per le infinite buone parti loro,
meriterebbono di essere; non quelli che potrebbero di gradi, di
onori e di ricchezze riempiermi, ma quelli che, non potendo,
vorrebbono farlo. Perché gli uomini, volendo giudicare
dirittamente, hanno a stimare quelli che sono, non quelli che
possono essere liberali, e così quelli che sanno, non quelli
che, sanza sapere, possono governare uno regno. E gli scrittori
laudano più Ierone Siracusano quando egli era privato, che
Perse Macedone quando egli era re: perché a Ierone ad essere
principe non mancava altro che il principato; quell'altro non aveva
parte alcuna di re, altro che il regno. Godetevi, pertanto, quel
bene o quel male che voi medesimi avete voluto: e se voi starete in
questo errore, che queste mie opinioni Vi siano grate, non
mancherò di seguire il resto della istoria, secondo che nel
principio vi promissi. Valete.
LIBRO PRIMO
Ancora che, per la invida natura degli uomini, sia sempre suto non
altrimenti periculoso trovare modi ed ordini nuovi, che si fusse
cercare acque e terre incognite, per essere quelli più pronti
a biasimare che a laudare le azioni d'altri; nondimanco, spinto da
quel naturale desiderio che fu sempre in me di operare, sanza alcuno
respetto, quelle cose che io creda rechino comune benefizio a
ciascuno, ho deliberato entrare per una via, la quale, non essendo
suta ancora da alcuno trita, se la mi arrecherà fastidio e
difficultà, mi potrebbe ancora arrecare premio, mediante
quelli che umanamente di queste mie fatiche il fine considerassino.
E se lo ingegno povero, la poca esperienzia delle cose presenti e la
debole notizia delle antique faranno questo mio conato difettivo e
di non molta utilità; daranno almeno la via ad alcuno che,
con più virtù, più discorso e iudizio,
potrà a questa mia intenzione satisfare: il che, se non mi
arrecherà laude, non mi doverebbe partorire biasimo.
Considerando adunque quanto onore si attribuisca
all'antiquità, e come molte volte, lasciando andare infiniti
altri esempli, un frammento d'una antiqua statua sia suto comperato
gran prezzo, per averlo appresso di sé, onorarne la sua casa
e poterlo fare imitare a coloro che di quella arte si dilettono; e
come quegli dipoi con ogni industria si sforzono in tutte le loro
opere rappresentarlo; e veggiendo, da l'altro canto, le
virtuosissime operazioni che le storie ci mostrono, che sono state
operate da regni e republiche antique, dai re, capitani, cittadini,
latori di leggi, ed altri che si sono per la loro patria affaticati,
essere più presto ammirate che imitate; anzi, in tanto da
ciascuno in ogni minima cosa fuggite, che di quella antiqua
virtù non ci è rimasto alcun segno; non posso fare che
insieme non me ne maravigli e dolga.
E tanto più, quanto io veggo nelle diferenzie che intra
cittadini civilmente nascano, o nelle malattie nelle quali li uomini
incorrono, essersi sempre ricorso a quelli iudizii o a quelli
remedii che dagli antichi sono stati iudicati o ordinati:
perché le leggi civili non sono altro che sentenze date dagli
antiqui iureconsulti, le quali, ridutte in ordine, a' presenti
nostri iureconsulti iudicare insegnano. Né ancora la medicina
è altro che esperienze fatte dagli antiqui medici, sopra le
quali fondano e' medici presenti e' loro iudizii. Nondimanco, nello
ordinare le republiche, nel mantenere li stati, nel governare e'
regni, nello ordinare la milizia ed amministrare la guerra, nel
iudicare e' sudditi, nello accrescere l'imperio, non si truova
principe né republica che agli esempli delli antiqui ricorra.
Il che credo che nasca non tanto da la debolezza nella quale la
presente religione ha condotto el mondo, o da quel male che ha fatto
a molte provincie e città cristiane uno ambizioso ozio,
quanto dal non avere vera cognizione delle storie, per non trarne,
leggendole, quel senso né gustare di loro quel sapore che le
hanno in sé.
Donde nasce che infiniti che le leggono, pigliono piacere di udire
quella varietà degli accidenti che in esse si contengono,
sanza pensare altrimenti di imitarle, iudicando la imitazione non
solo difficile ma impossibile; come se il cielo, il sole, li
elementi, li uomini, fussino variati di moto, di ordine e di
potenza, da quello che gli erono antiquamente. Volendo, pertanto,
trarre li uomini di questo errore, ho giudicato necessario scrivere,
sopra tutti quelli libri di Tito Livio che dalla malignità
de' tempi non ci sono stati intercetti, quello che io, secondo le
cognizione delle antique e moderne cose, iudicherò essere
necessario per maggiore intelligenzia di essi, a ciò che
coloro che leggeranno queste mia declarazioni, possino più
facilmente trarne quella utilità per la quale si debbe
cercare la cognizione delle istorie. E benché questa impresa
sia difficile, nondimanco, aiutato da coloro che mi hanno, ad
entrare sotto questo peso, confortato, credo portarlo in modo, che
ad un altro resterà breve cammino a condurlo a loco
destinato.
1
Quali siano stati universalmente
i principii di qualunque città,
e quale fusse quello di Roma.
Coloro che leggeranno quale principio fusse quello della
città di Roma, e da quali latori di leggi e come ordinato,
non si maraviglieranno che tanta virtù si sia per più
secoli mantenuta in quella città; e che dipoi ne sia nato
quello imperio al quale quella republica aggiunse. E volendo
discorrere prima il nascimento suo, dico che tutte le cittadi sono
edificate o dagli uomini natii del luogo dove le si edificano o dai
forestieri. Il primo caso occorre quando agli abitatori dispersi in
molte e piccole parti non pare vivere securi, non potendo ciascuna
per sé, e per il sito e per il piccolo numero, resistere
all'impeto di chi le assaltasse; e ad unirsi per loro difensione,
venendo il nimico, non sono a tempo; o quando fussono, converrebbe
loro lasciare abbandonati molti de' loro ridotti; e così
verrebbero ad essere subita preda dei loro inimici: talmente che,
per fuggire questi pericoli, mossi o da loro medesimi, o da alcuno
che sia infra loro di maggiore autorità, si ristringono ad
abitare insieme in luogo eletto da loro, più commodo a vivere
e più facile a difendere.
Di queste, infra molte altre, sono state Atene e Vinegia. La prima,
sotto l'autorità di Teseo, fu per simili cagioni dagli
abitatori dispersi edificata; l'altra, sendosi molti popoli ridotti
in certe isolette che erano nella punta del mare Adriatico, per
fuggire quelle guerre che ogni dì, per lo avvenimento di
nuovi barbari, dopo la declinazione dello Imperio romano, nascevano
in Italia, cominciarono infra loro, sanza altro principe particulare
che gli ordinasse, a vivere sotto quelle leggi che parevono loro
più atte a mantenerli. Il che successe loro felicemente per
il lungo ozio che il sito dette loro, non avendo quel mare uscita, e
non avendo quelli popoli, che affliggevano Italia, navigli da
poterli infestare: talché ogni piccolo principio li
poté fare venire a quella grandezza nella quale sono.
Il secondo caso, quando da genti forestiere è edificata una
città, nasce o da uomini liberi o che dependono da altri:
come sono le colonie mandate o da una republica o da uno principe
per isgravare le loro terre d'abitatori, o per difesa di quel paese
che, di nuovo acquistato, vogliono sicuramente e sanza ispesa
mantenersi; delle quali città il Popolo romano ne
edificò assai, e per tutto l'imperio suo: ovvero le sono
edificate da uno principe, non per abitarvi, ma per sua gloria; come
la città di Alessandria, da Alessandro. E per non avere
queste cittadi la loro origine libera, rade volte occorre che le
facciano processi grandi, e possinsi intra i capi dei regni
numerare. Simile a queste fu l'edificazione di Firenze,
perché (o edificata da' soldati di Silla, o, a caso, dagli
abitatori dei monti di Fiesole, i quali, confidatisi in quella lunga
pace che sotto Ottaviano nacque nel mondo, si ridussero ad abitare
nel piano sopra Arno) si edificò sotto l'imperio romano:
né poté, ne' principii suoi, fare altri augumenti che
quelli che per cortesia del principe gli erano concessi.
Sono liberi gli edificatori delle cittadi, quando alcuni popoli, o
sotto uno principe o da per sé, sono constretti, o per morbo
o per fame o per guerra, a abbandonare il paese patrio, e crearsi
nuova sede: questi tali, o egli abitano le cittadi che e' truovono
ne' paesi ch'egli acquistano, come fe' Moises; o e' ne edificano di
nuovo, come fe' Enea. In questo caso è dove si conosce la
virtù dello edificatore, e la fortuna dello edificato: la
quale è più o meno maravigliosa, secondo che
più o meno è virtuoso colui che ne è stato
principio. La virtù del quale si conosce in duo modi: il
primo è nella elezione del sito; l'altro nella ordinazione
delle leggi. E perché gli uomini operono o per
necessità o per elezione; e perché si vede quivi
essere maggior virtù dove la elezione ha meno
autorità; è da considerare se sarebbe meglio eleggere,
per la edificazione delle cittadi, luoghi sterili, acciocché
gli uomini, constretti a industriarsi, meno occupati dall'ozio,
vivessono più uniti avendo, per la povertà del sito,
minore cagione di discordie; come interviene in Raugia, e in molte
altre cittadi in simili luoghi edificate: la quale elezione sarebbe
sanza dubbio più savia e più utile, quando gli uomini
fossero contenti a vivere del loro, e non volessono cercare di
comandare altrui. Pertanto, non potendo gli uomini assicurarsi se
non con la potenza, è necessario fuggire questa
sterilità del paese, e porsi in luoghi fertilissimi; dove,
potendo per la ubertà del sito ampliare, possa e difendersi
da chi l'assaltasse e opprimere qualunque alla grandezza sua si
opponesse.
E quanto a quell'ozio che le arrecasse il sito, si debbe ordinare
che a quelle necessità le leggi la costringhino, che il sito
non la costrignesse, ed imitare quelli che sono stati savi, ed hanno
abitato in paesi amenissimi e fertilissimi, e atti a produrre uomini
oziosi ed inabili a ogni virtuoso esercizio, che, per ovviare a
quelli danni i quali l'amenità del paese, mediante l'ozio,
arebbe causati, hanno posto una necessità di esercizio a
quelli che avevano a essere soldati; di qualità che, per tale
ordine, vi sono diventati migliori soldati che in quelli paesi i
quali naturalmente sono stati aspri e sterili. Intra i quali fu il
regno degli Egizi, che, non ostante che il paese sia amenissimo,
tanto potette quella necessità, ordinata dalle leggi, che ne
nacque uomini eccellentissimi; e se li nomi loro non fussono dalla
antichità spenti, si vedrebbe come ei meriterebbero
più laude che Alessandro Magno, e molti altri de' quali
ancora è la memoria fresca. E chi avesse considerato il regno
del Soldano, e l'ordine de' Mammalucchi e di quella loro milizia,
avanti che da Salì, Gran Turco, fusse stata spenta, arebbe
veduto in quello molti esercizi circa i soldati, ed averebbe, in
fatto, conosciuto quanto essi temevano quell'ozio a che la
benignità del paese li poteva condurre, se non vi avessono
con leggi fortissime ovviato.
Dico, adunque, essere più prudente elezione porsi in
luogo fertile, quando quella fertilità con le leggi infra i
debiti termini si ristringa. Ad Alessandro Magno, volendo edificare
una città per sua gloria, venne Dinocrate architetto, e gli
mostrò come e' la poteva edificare sopra il monte Atho, il
quale luogo, oltre allo essere forte, potrebbe ridursi in modo che a
quella città si darebbe forma umana; il che sarebbe cosa
maravigliosa e rara, e degna della sua grandezza. E domandandolo
Alessandro di quello che quelli abitatori viverebbero, rispose non
ci avere pensato: di che quello si rise, e, lasciato stare quel
monte, edificò Alessandria, dove gli abitatori avessero a
stare volentieri per la grassezza del paese, e per la
commodità del mare e del Nilo. Chi esaminerà, adunque,
la edificazione di Roma, se si prenderà Enea per suo primo
progenitore, sarà di quelle cittadi edificate da' forestieri;
se Romolo di quelle edificate dagli uomini natii del luogo; ed in
qualunque modo, la vedrà avere principio libero, sanza
dependere da alcuno: vedrà ancora, come di sotto si
dirà, a quante necessitadi le leggi fatte da Romolo, Numa, e
gli altri, la costringessono; talmente che la fertilità del
sito, la commodità del mare, le spesse vittorie, la grandezza
dello imperio, non la potero per molti secoli corrompere, e la
mantennero piena di tanta virtù, di quanta mai fusse
alcun'altra città o republica ornata.
E perché le cose operate da lei, e che sono da Tito Livio
celebrate, sono seguite o per publico o per privato consiglio, o
dentro o fuori della cittade; io comincerò a discorrere sopra
quelle cose occorse dentro e per consiglio publico, le quali degne
di maggiore annotazione giudicherò, aggiungendovi tutto
quello che da loro dependessi; con i quali Discorsi questo primo
libro, ovvero questa prima parte, si terminerà.
2
Di quante spezie sono le republiche,
e di quale fu la republica romana.
Io voglio porre da parte il ragionare di quelle cittadi che hanno
avuto il loro principio sottoposto a altrui; e parlerò di
quelle che hanno avuto il principio lontano da ogni servitù
esterna, ma si sono subito governate per loro arbitrio, o come
republiche o come principato: le quali hanno avuto, come diversi
principii, diverse leggi ed ordini. Perché ad alcune, o nel
principio d'esse, o dopo non molto tempo, sono state date da uno
solo le leggi, e ad un tratto; come quelle che furono date da
Licurgo agli Spartani: alcune le hanno avute a caso, ed in
più volte e secondo li accidenti, come ebbe Roma.
Talché, felice si può chiamare quella republica, la
quale sortisce uno uomo sì prudente, che gli dia leggi
ordinate in modo che, sanza avere bisogno di ricorreggerle, possa
vivere sicuramente sotto quelle. E si vede che Sparta le
osservò più che ottocento anni sanza corromperle, o
sanza alcuno tumulto pericoloso: e, pel contrario, tiene qualche
grado d'infelicità quella città, che, non si sendo
abbattuta a uno ordinatore prudente, è necessitata da
sé medesima riordinarsi. E di queste ancora è
più infelice quella che è più discosto
dall'ordine; e quella ne è più discosto che co' suoi
ordini è al tutto fuori del diritto cammino, che la possa
condurre al perfetto e vero fine. Perché quelle che sono in
questo grado, è quasi impossibile che per qualunque accidente
si rassettino: quelle altre che, se le non hanno l'ordine perfetto,
hanno preso il principio buono, e atto a diventare migliore, possono
per la occorrenzia degli accidenti diventare perfette. Ma fia bene
vero questo, che mai si ordineranno sanza pericolo; perché
gli assai uomini non si accordano mai ad una legge nuova che
riguardi uno nuovo ordine nella città se non è mostro
loro da una necessità che bisogni farlo; e non potendo venire
questa necessità sanza pericolo, è facil cosa che
quella republica rovini, avanti che la si sia condotta a una
perfezione d'ordine. Di che ne fa fede appieno la republica di
Firenze, la quale fu dallo accidente d'Arezzo, nel dua, riordinata;
e da quel di Prato, nel dodici, disordinata.
Volendo, adunque, discorrere quali furono li ordini della
città di Roma, e quali accidenti alla sua perfezione la
condussero; dico come alcuni che hanno scritto delle republiche
dicono essere in quelle uno de' tre stati, chiamati da loro
Principato, Ottimati, e Popolare, e come coloro che ordinano una
città, debbono volgersi ad uno di questi, secondo pare loro
più a proposito. Alcuni altri, e, secondo la opinione di
molti, più savi, hanno opinione che siano di sei ragioni
governi: delli quali tre ne siano pessimi tre altri siano buoni in
loro medesimi, ma sì facili a corrompersi, che vengono ancora
essi a essere perniziosi. Quelli che sono buoni, sono e'
soprascritti tre: quelli che sono rei, sono tre altri, i quali da
questi tre dipendano; e ciascuno d'essi è in modo simile a
quello che gli è propinquo, che facilmente saltano dall'uno
all'altro: perché il Principato facilmente diventa tirannico;
gli Ottimati con facilità diventano stato di pochi; il
Popolare sanza difficultà in licenzioso si converte. Talmente
che, se uno ordinatore di republica ordina in una città uno
di quelli tre stati, ve lo ordina per poco tempo; perché
nessuno rimedio può farvi, a fare che non sdruccioli nel suo
contrario, per la similitudine che ha in questo caso la virtute ed
il vizio.
Nacquono queste variazioni de' governi a caso intra gli uomini:
perché nel principio del mondo, sendo gli abitatori radi,
vissono un tempo dispersi a similitudine delle bestie; dipoi,
moltiplicando la generazione, si ragunarono insieme, e, per potersi
meglio difendere, cominciarono a riguardare infra loro quello che
fusse più robusto e di maggiore cuore, e fecionlo come capo,
e lo ubedivano. Da questo nacque la cognizione delle cose oneste e
buone, differenti dalle perniziose e ree: perché, veggendo
che se uno noceva al suo benificatore, ne veniva odio e compassione
intra gli uomini, biasimando gl'ingrati ed onorando quelli che
fussero grati, e pensando ancora che quelle medesime ingiurie
potevano essere fatte a loro; per fuggire simile male, si riducevano
a fare leggi, ordinare punizioni a chi contrafacessi: donde venne la
cognizione della giustizia. La quale cosa faceva che, avendo dipoi a
eleggere uno principe, non andavano dietro al più gagliardo,
ma a quello che fusse più prudente e più giusto. Ma
come dipoi si cominciò a fare il principe per successione, e
non per elezione, subito cominciarono li eredi a degenerare dai loro
antichi; e, lasciando l'opere virtuose, pensavano che i principi non
avessero a fare altro che superare gli altri di sontuosità e
di lascivia e d'ogni altra qualità di licenza: in modo che,
cominciando il principe a essere odiato, e per tale odio a temere, e
passando tosto dal timore all'offese, ne nasceva presto una
tirannide. Da questo nacquero, appresso, i principii delle rovine, e
delle conspirazioni e congiure contro a' principi; non fatte da
coloro che fussono o timidi o deboli, ma da coloro che, per
generosità, grandezza d'animo, ricchezza e nobilità,
avanzavano gli altri; i quali non potevano sopportare la inonesta
vita di quel principe. La moltitudine, adunque, seguendo
l'autorità di questi potenti, s'armava contro al principe, e,
quello spento, ubbidiva loro come a suoi liberatori. E quelli,
avendo in odio il nome d'uno solo capo, constituivano di loro
medesimi uno governo; e, nel principio, avendo rispetto alla passata
tirannide, si governavono secondo le leggi ordinate da loro,
posponendo ogni loro commodo alla commune utilità; e le cose
private e le publiche con somma diligenzia governavano e
conservavano. Venuta dipoi questa amministrazione ai loro figliuoli,
i quali non conoscendo la variazione della fortuna, non avendo mai
provato il male, e non volendo stare contenti alla civile
equalità, ma rivoltisi alla avarizia, alla ambizione, alla
usurpazione delle donne, feciono che d'uno governo d'ottimati
diventassi uno governo di pochi, sanza avere rispetto ad alcuna
civilità, talché, in breve tempo, intervenne loro come
al tiranno; perché, infastidita da' loro governi, la
moltitudine si fe' ministra di qualunque disegnassi in alcun modo
offendere quelli governatori; e così si levò presto
alcuno che, con l'aiuto della moltitudine, li spense. Ed essendo
ancora fresca la memoria del principe e delle ingiurie ricevute da
quello, avendo disfatto lo stato de' pochi e non volendo rifare quel
del principe, si volsero allo stato popolare; e quello ordinarono in
modo, che né i pochi potenti, né uno principe, vi
avesse autorità alcuna. E perché tutti gli stati nel
principio hanno qualche riverenzia, si mantenne questo stato
popolare un poco, ma non molto, massime spenta che fu quella
generazione che l'aveva ordinato; perché subito si venne alla
licenza, dove non si temevano né gli uomini privati né
i publici; di qualità che, vivendo ciascuno a suo modo, si
facevano ogni dì mille ingiurie: talché, costretti per
necessità, o per suggestione d'alcuno buono uomo, o per
fuggire tale licenza, si ritorna di nuovo al principato; e da
quello, di grado in grado, si riviene verso la licenza, ne' modi e
per le cagioni dette. E questo è il cerchio nel quale girando
tutte le republiche si sono governate e si governano: ma rade volte
ritornano ne' governi medesimi; perché quasi nessuna
republica può essere di tanta vita, che possa passare molte
volte per queste mutazioni, e rimanere in piede. Ma bene interviene
che, nel travagliare, una republica, mancandole sempre consiglio e
forze, diventa suddita d'uno stato propinquo, che sia meglio
ordinato di lei: ma, posto che questo non fusse, sarebbe atta una
republica a rigirarsi infinito tempo in questi governi.
Dico, adunque, che tutti i detti modi sono pestiferi, per la
brevità della vita che è ne' tre buoni, e per la
malignità che è ne' tre rei. Talché, avendo
quelli che prudentemente ordinano leggi, conosciuto questo difetto,
fuggendo ciascuno di questi modi per sé stesso, ne elessero
uno che participasse di tutti, giudicandolo più fermo e
più stabile; perché l'uno guarda l'altro, sendo in una
medesima città il Principato, gli Ottimati, e il Governo
Popolare.
Intra quelli che hanno per simili constituzioni meritato più
laude, è Licurgo; il quale ordinò in modo le sue leggi
in Sparta, che, dando le parti sue ai Re, agli Ottimati e al Popolo,
fece uno stato che durò più che ottocento anni, con
somma laude sua e quiete di quella città. Al contrario
intervenne a Solone, il quale ordinò le leggi in Atene; che,
per ordinarvi solo lo stato popolare, lo fece di sì breve
vita, che, avanti morisse, vi vide nata la tirannide di Pisistrato;
e benché, dipoi anni quaranta, ne fussero gli eredi suoi
cacciati, e ritornasse Atene in libertà, perché la
riprese lo stato popolare, secondo gli ordini di Solone, non lo
tenne più che cento anni, ancora che per mantenerlo facessi
molte constituzioni, per le quali si reprimeva la insolenzia de'
grandi e la licenza dell'universale, le quali non furono da Solone
considerate: nientedimeno, perché la non le mescolò
con la potenza del Principato e con quella degli Ottimati, visse
Atene, a rispetto di Sparta, brevissimo tempo.
Ma vegnamo a Roma; la quale, nonostante che non avesse uno Licurgo
che la ordinasse in modo, nel principio, che la potesse vivere lungo
tempo libera, nondimeno furo tanti gli accidenti che in quella
nacquero, per la disunione che era intra la Plebe ed il Senato, che
quello che non aveva fatto uno ordinatore, lo fece il caso.
Perché, se Roma non sortì la prima fortuna,
sortì la seconda; perché i primi ordini suoi, se
furono difettivi, nondimeno non deviarono dalla diritta via che li
potesse condurre alla perfezione. Perché Romolo e tutti gli
altri re fecero molte e buone leggi, conformi ancora al vivere
libero: ma perché il fine loro fu fondare un regno e non una
republica, quando quella città rimase libera, vi mancavano
molte cose che era necessario ordinare in favore della
libertà, le quali non erano state da quelli re ordinate. E
avvengaché quelli suoi re perdessono l'imperio, per le
cagioni e modi discorsi; nondimeno quelli che li cacciarono,
ordinandovi subito due Consoli che stessono nel luogo de' Re,
vennero a cacciare di Roma il nome, e non la potestà regia:
talché, essendo in quella republica i Consoli e il Senato,
veniva solo a essere mista di due qualità delle tre
soprascritte, cioè di Principato e di Ottimati. Restavale
solo a dare luogo al governo popolare: onde, sendo diventata la
Nobilità romana insolente per le cagioni che di sotto si
diranno si levò il Popolo contro di quella; talché,
per non perdere il tutto, fu costretta concedere al Popolo la sua
parte e, dall'altra parte, il Senato e i Consoli restassono con
tanta autorità, che potessono tenere in quella republica il
grado loro. E così nacque la creazione de' Tribuni della
plebe, dopo la quale creazione venne a essere più stabilito
lo stato di quella republica, avendovi tutte le tre qualità
di governo la parte sua. E tanto le fu favorevole la fortuna, che,
benché si passasse dal governo de' Re e delli Ottimati al
Popolo, per quelli medesimi gradi e per quelle medesime cagioni che
di sopra si sono discorse, nondimeno non si tolse mai, per dare
autorità agli Ottimati, tutta l'autorità alle
qualità regie; ne si diminuì l'autorità in
tutto agli Ottimati, per darla al Popolo; ma rimanendo mista, fece
una republica perfetta: alla quale perfezione venne per la disunione
della Plebe e del Senato, come nei dua prossimi seguenti capitoli
largamente si dimosterrà.
3
Quali accidenti facessono creare in Roma
i Tribuni della Plebe, il che fece
la republica più perfetta.
Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile, e come
ne è piena di esempli ogni istoria, è necessario a chi
dispone una republica, ed ordina leggi in quella, presupporre tutti
gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità
dello animo loro, qualunque volta ne abbiano libera occasione; e
quando alcuna malignità sta occulta un tempo, procede da una
occulta cagione, che, per non si essere veduta esperienza del
contrario, non si conosce; ma la fa poi scoprire il tempo, il quale
dicono essere padre d'ogni verità.
Pareva che fusse in Roma intra la Plebe ed il Senato, cacciati i
Tarquini, una unione grandissima; e che i Nobili avessono diposto
quella loro superbia, e fossero diventati d'animo popolare, e
sopportabili da qualunque ancora che infimo. Stette nascoso questo
inganno, né se ne vide la cagione, infino che i Tarquinii
vissero; dei quali temendo la Nobilità, ed avendo paura che
la Plebe male trattata non si accostasse loro, si portava umanamente
con quella: ma, come prima ei furono morti i Tarquinii, e che ai
Nobili fu la paura fuggita, cominciarono a sputare contro alla Plebe
quel veleno che si avevano tenuto nel petto, ed in tutti i modi che
potevano la offendevano. La quale cosa fa testimonianza a quello che
di sopra ho detto che gli uomini non operono mai nulla bene, se non
per necessità; ma, dove la elezione abonda, e che vi si
può usare licenza, si riempie subito ogni cosa di confusione
e di disordine. Però si dice che la fame e la povertà
fa gli uomini industriosi, e le leggi gli fanno buoni. E dove una
cosa per sé medesima sanza la legge opera bene, non è
necessaria la legge; ma quando quella buona consuetudine manca,
è subito la legge necessaria. Però mancati i
Tarquinii, che con la paura di loro tenevano la Nobilità a
freno, convenne pensare a uno nuovo ordine che facesse quel medesimo
effetto che facevano i Tarquinii quando erano vivi. E però,
dopo molte confusioni, romori e pericoli di scandoli, che nacquero
intra la Plebe e la Nobilità, si venne, per sicurtà
della Plebe, alla creazione de' Tribuni; e quelli ordinarono con
tante preminenzie e tanta riputazione, che poterono essere sempre di
poi mezzi intra la Plebe e il Senato, e ovviare alla insolenzia de'
Nobili.
4
Che la disunione della Plebe
e del Senato romano fece libera
e potente quella republica.
Io non voglio mancare di discorrere sopra questi tumulti che furono
in Roma dalla morte de' Tarquinii alla creazione de' Tribuni; e di
poi alcune cose contro la opinione di molti che dicono, Roma essere
stata una republica tumultuaria, e piena di tanta confusione che, se
la buona fortuna e la virtù militare non avesse sopperito a'
loro difetti, sarebbe stata inferiore a ogni altra republica. Io non
posso negare che la fortuna e la milizia non fossero cagioni
dell'imperio romano; ma e' mi pare bene, che costoro non si
avegghino, che, dove è buona milizia, conviene che sia buono
ordine, e rade volte anco occorre che non vi sia buona fortuna. Ma
vegnamo agli altri particulari di quella città. Io dico che
coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che
biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma;
e che considerino più a' romori ed alle grida che di tali
tumulti nascevano, che a' buoni effetti che quelli partorivano; e
che e' non considerino come e' sono in ogni republica due umori
diversi, quello del popolo, e quello de' grandi; e come tutte le
leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla
disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito
in Roma; perché da' Tarquinii ai Gracchi, che furano
più di trecento anni, i tumulti di Roma rade volte
partorivano esilio e radissime sangue. Né si possano per
tanto, giudicare questi tomulti nocivi, né una republica
divisa, che in tanto tempo per le sue differenzie non mandò
in esilio più che otto o dieci cittadini, e ne ammazzò
pochissimi, e non molti ancora ne condannò in danari.
Né si può chiamare in alcun modo con ragione una
republica inordinata, dove siano tanti esempli di virtù;
perché li buoni esempli nascano dalla buona educazione, la
buona educazione, dalle buone leggi; e le buone leggi, da quelli
tumulti che molti inconsideratamente dannano: perché, chi
esaminerà bene il fine d'essi, non troverrà ch'egli
abbiano partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del commune
bene, ma leggi e ordini in beneficio della publica libertà. E
se alcuno dicessi: i modi erano straordinarii, e quasi efferati,
vedere il popolo insieme gridare contro al Senato, il Senato contro
al Popolo, correre tumultuariamente per le strade, serrare le
botteghe, partirsi tutta la plebe di Roma, le quali cose tutte
spaventano, non che altro, chi le legge; dico come ogni città
debbe avere i suoi modi con i quali il popolo possa sfogare
l'ambizione sua, e massime quelle città che nelle cose
importanti si vogliono valere del popolo: intra le quali, la
città di Roma aveva questo modo, che, quando il popolo voleva
ottenere una legge, o e' faceva alcuna delle predette cose, o e' non
voleva dare il nome per andare alla guerra, tanto che a placarlo
bisognava in qualche parte sodisfarli. E i desiderii de' popoli
liberi rade volte sono perniziosi alla libertà, perché
e' nascono, o da essere oppressi, o da suspizione di avere ad essere
oppressi. E quando queste opinioni fossero false e' vi è il
rimedio delle concioni, che surga qualche uomo da bene, che, orando,
dimostri loro come ei s'ingannano: e li popoli, come dice Tullio,
benché siano ignoranti, sono capaci della verità, e
facilmente cedano, quando da uomo degno di fede è detto loro
il vero.
Debbesi, adunque, più parcamente biasimare il governo romano;
e considerare che tanti buoni effetti, quanti uscivano di quella
republica, non erano causati se non da ottime cagioni. E se i
tumulti furano cagione della creazione de' Tribuni, meritano somma
laude, perché, oltre al dare la parte sua all'amministrazione
popolare, furano constituiti per guardia della libertà
romana, come nel seguente capitolo si mosterrà.
5
Dove più sicuramente si ponga
la guardia della libertà, o nel Popolo
o ne' Grandi; e quali hanno maggiore
cagione di tumultuare, o chi vuole
acquistare o chi vuole mantenere.
Quelli che prudentemente hanno constituita una republica, in tra le
più necessarie cose ordinate da loro è stato
constituire una guardia alla libertà: e, secondo che questa
è bene collocata, dura più o meno quel vivere libero.
E perché in ogni republica sono uomini grandi e popolari, si
è dubitato nelle mani di quali sia meglio collocata detta
guardia. Ed appresso a' Lacedemonii, e, ne' nostri tempi, appresso
de' Viniziani, la è stata messa nelle mani de' Nobili; ma
appresso de' Romani fu messa nelle mani della Plebe.
Pertanto, è necessario esaminare quale di queste republiche
avesse migliore elezione. E se si andasse dietro alle ragioni ci
è che dire da ogni parte; ma se si esaminasse il fine loro,
si piglierebbe la parte de' Nobili, per avere avuta la
libertà di Sparta e di Vinegia più lunga vita che
quella di Roma. E venendo alle ragioni, dico, pigliando prima la
parte de' Romani, come e' si debbe mettere in guardia coloro d'una
cosa, che hanno meno appetito di usurparla. E sanza dubbio, se si
considerrà il fine de' nobili e degli ignobili, si
vedrà in quelli desiderio grande di dominare, ed in questi
solo desiderio di non essere dominati; e, per conseguente, maggiore
volontà di vivere liberi, potendo meno sperare di usurparla
che non possono i grandi: talché essendo i popolari preposti
a guardia d'una libertà, è ragionevole ne abbiano
più cura; e non la potendo occupare loro, non permettino che
altri la occupi. Dall'altra parte, chi difende l'ordine spartano e
veneto, dice che coloro che mettono la guardia in mano di potenti
fanno due opere buone: l'una, che ei satisfanno più
all'ambizione loro, ed avendo più parte nella republica, per
avere questo bastone in mano, hanno cagione di contentarsi
più; l'altra, che lievono una qualità di
autorità dagli animi inquieti della plebe, che è
cagione d'infinite dissensioni e scandoli in una republica, e atta a
ridurre la Nobilità a qualche disperazione, che col tempo
faccia cattivi effetti. E ne dànno per esemplo la medesima
Roma, che, per avere i Tribuni della plebe questa autorità
nelle mani, non bastò loro avere un Consolo plebeio, che gli
vollono avere ambedue. Da questo, ei vollono la Censura, il Pretore,
e tutti gli altri gradi dell'imperio della città: né
bastò loro questo, ché, menati dal medesimo furore,
cominciorono poi, col tempo, a adorare quelli uomini che vedevano
atti a battere la Nobilità; donde nacque la potenza di Mario,
e la rovina di Roma. E veramente, chi discorressi bene l'una cosa e
l'altra, potrebbe stare dubbio, quale da lui fusse eletto per
guardia di tale libertà, non sappiendo quale umore di uomini
sia più nocivo in una republica, o quello che desidera
mantenere l'onore già acquistato o quel che desidera
acquistare quello che non ha.
Ed in fine, chi sottilmente esaminerà tutto, ne farà
questa conclusione: o tu ragioni d'una republica che voglia fare uno
imperio, come Roma; o d'una che le basti mantenersi. Nel primo caso,
gli è necessario fare ogni cosa come Roma; nel secondo,
può imitare Vinegia e Sparta, per quelle cagioni e come nel
seguente capitolo si dirà.
Ma, per tornare a discorrere quali uomini siano in una republica
più nocivi, o quelli che desiderano d'acquistare, o quelli
che temono di non perdere l'acquistato; dico che, sendo creato Marco
Menenio Dittatore, e Marco Fulvio Maestro de' cavagli, tutti a due
plebei, per ricercare certe congiure che si erano fatte in Capova
contro a Roma, fu data ancora loro autorità dal popolo di
potere ricercare chi in Roma, per ambizione e modi straordinari,
s'ingegnasse di venire al consolato, ed agli altri onori della
città. E parendo alla Nobilità, che tale
autorità fusse data al Dittatore contro a lei, sparsono per
Roma, che non i nobili erano quelli che cercavano gli onori per
ambizione e modi straordinari ma gl'ignobili, i quali, non
confidatisi nel sangue e nella virtù loro, cercavano, per vie
straordinarie, venire a quelli gradi, e particularmente accusavano
il Dittatore. E tanto fu potente questa accusa che Menenio, fatta
una concione e dolutosi delle calunnie dategli da' Nobili, depose la
dittatura, e sottomessesi al giudizio che di lui fusse fatto dal
Popolo, e dipoi, agitata la causa sua, ne fu assoluto: dove si
disputò assai, quale sia più ambizioso o quel che
vuole mantenere o quel che vuole acquistare; perché
facilmente l'uno e l'altro appetito può essere cagione di
tumulti grandissimi. Pur nondimeno, il più delle volte sono
causati da chi possiede, perché la paura del perdere genera
in loro le medesime voglie che sono in quelli che desiderano
acquistare; perché non pare agli uomini possedere sicuramente
quello che l'uomo ha, se non si acquista di nuovo dell'altro. E di
più vi è, che, possedendo molto, possono con maggiore
potenza e maggiore moto fare alterazione. Ed ancora vi è di
più, che gli loro scorretti e ambiziosi portamenti accendano,
ne' petti di chi non possiede, voglia di possedere, o per vendicarsi
contro di loro spogliandoli, o per potere ancora loro entrare in
quelle ricchezze e in quelli onori che veggono essere male usati
dagli altri.
6
Se in Roma si poteva ordinare uno stato
che togliesse via le inimicizie
intra il Popolo ed il Senato.
Noi abbiamo discorso, di sopra, gli effetti che facevano le
controversie intra il Popolo ed il Senato. Ora, sendo quelle
seguitate infino al tempo de' Gracchi, dove furono cagione della
rovina del vivere libero, potrebbe alcuno desiderare che Roma avesse
fatti gli effetti grandi che la fece, sanza che in quella fussono
tali inimicizie. Però mi è parso cosa degna di
considerazione, vedere se in Roma si poteva ordinare uno stato che
togliesse via dette controversie. Ed a volere esaminare questo,
è necessario ricorrere a quelle republiche le quali sanza
tante inimicizie e tumulti sono state lungamente libere, e vedere
quale stato era in loro, e se si poteva introdurre in Roma. In
esemplo tra gli antichi ci è Sparta, tra i moderni Vinegia,
state da me di sopra nominate. Sparta fece uno Re, con uno piccolo
Senato, che la governasse; Vinegia non ha diviso il governo con i
nomi, ma, sotto una appellagione, tutti quelli che possono avere
amministrazione si chiamano Gentiluomini. Il quale modo lo dette il
caso, più che la prudenza di chi dette loro le leggi:
perché, sendosi ridotti in su quegli scogli dove è ora
quella città, per le cagioni dette di sopra, molti abitatori,
come furano cresciuti in tanto numero, che, a volere vivere insieme,
bisognasse loro far leggi, ordinarono una forma di governo; e
convenendo spesso insieme ne' consigli, a diliberare della
città, quando parve loro essere tanti che fossero a
sufficienza a uno vivere politico, chiusero la via a tutti quelli
altri che vi venissono ad abitare di nuovo, di potere convenire ne'
loro governi; e, col tempo, trovandosi in quello luogo assai
abitatori fuori del governo, per dare riputazione a quelli che
governavano, gli chiamarono Gentiluomini, e gli altri Popolani.
Potette questo modo nascere e mantenersi senza tumulto,
perché, quando e' nacque, qualunque allora abitava in Vinegia
fu fatto del governo, di modo che nessuno si poteva dolere; quelli
che dipoi vi vennero ad abitare, trovando lo stato fermo e
terminato, non avevano cagione né commodità di fare
tumulto. La cagione non vi era, perché non era stato loro
tolto cosa alcuna; la commodità non vi era, perché chi
reggeva li teneva in freno, e non gli adoperava in cose dove e'
potessono pigliare autorità. Oltre a di questo, quelli che
dipoi vennono ad abitare Vinegia non sono stati molti, e di tanto
numero che vi sia disproporzione da chi gli governa a loro che sono
governati, perché il numero de' Gentiluomini o egli è
equale al loro, o egli è superiore: sicché, per queste
cagione, Vinegia potette ordinare quello stato, e mantenerlo unito.
Sparta, come ho detto, era governata da uno Re e da uno stretto
Senato. Potette mantenersi così lungo tempo, perché,
essendo in Sparta pochi abitatori, ed avendo tolta la via a chi vi
venisse ad abitare, ed avendo preso le leggi di Licurgo con
riputazione (le quali osservando, levavano via tutte le cagioni de'
tumulti) poterono vivere uniti lungo tempo. Perché Licurgo
con le sue leggi fece in Sparta più equalità di
sustanze, e meno equalità di grado; perché quivi era
una equale povertà, ed i plebei erano manco ambiziosi,
perché i gradi della città si distendevano in pochi
cittadini ed erano tenuti discosto dalla plebe, né gli nobili
col trattargli male dettono mai loro desiderio di avergli. Questo
nacque dai Re spartani, i quali, essendo collocati in quel
principato e posti in mezzo di quella Nobilità, non avevano
il maggiore rimedio a tenere ferma la loro dignità, che
tenere la Plebe difesa da ogni ingiuria: il che faceva che la Plebe
non temeva e non desiderava imperio; e non avendo imperio né
temendo, era levata via la gara che la potesse avere con la
Nobilità, e la cagione de' tumulti; e poterono vivere uniti
lungo tempo. Ma due cose principali causarono questa unione: l'una
essere pochi gli abitatori di Sparta, e per questo poterono essere
governati da pochi; l'altra, che, non accettando forestieri nella
loro republica, non avevano occasione né di corrompersi
né di crescere in tanto che la fusse insopportabile a quelli
pochi che la governavano.
Considerando adunque tutte queste cose, si vede come a' legislatori
di Roma era necessario fare una delle due cose a volere che Roma
stesse quieta come le sopradette republiche: o non adoperare la
plebe in guerra, come i Viniziani; o non aprire la via a'
forestieri, come gli Spartani. E loro feciono l'una e l'altra; il
che dette alla plebe forze ed augumento, ed infinite occasioni di
tumultuare. Ma venendo lo stato romano a essere più quieto,
ne seguiva questo inconveniente, ch'egli era anche più
debile, perché e' gli si troncava la via di potere venire a
quella grandezza dove ei pervenne: in modo che, volendo Roma levare
le cagioni de' tumulti, levava ancora le cagioni dello ampliare. Ed
in tutte le cose umane si vede questo, chi le esaminerà bene:
che non si può mai cancellare uno inconveniente, che non ne
surga un altro. Per tanto, se tu vuoi fare uno popolo numeroso ed
armato per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità
che tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo: se tu lo mantieni o
piccolo o disarmato per poter maneggiarlo, se tu acquisti dominio,
non lo puoi tenere, o ei diventa sì vile che tu sei preda di
qualunque ti assalta. E però, in ogni nostra diliberazione si
debbe considerare dove sono meno inconvenienti, e pigliare quello
per migliore partito: perché tutto netto, tutto sanza
sospetto non si truova mai. Poteva dunque Roma, a similitudine di
Sparta, fare un principe a vita, fare uno Senato piccolo; ma non
poteva, come lei, non crescere il numero de' cittadini suoi, volendo
fare un grande imperio: il che faceva che il Re a vita ed il piccolo
numero del Senato, quanto alla unione, gli sarebbe giovato poco.
Se alcuno volesse, per tanto, ordinare una republica di nuovo,
arebbe a esaminare se volesse che ampliasse, come Roma, di dominio e
di potenza, ovvero che la stesse dentro a brevi termini. Nel primo
caso, è necessario ordinarla come Roma, e dare luogo a'
tumulti e alle dissensioni universali, il meglio che si può;
perché, sanza gran numero di uomini, e bene armati, mai una
republica potrà crescere, o, se la crescerà,
mantenersi. Nel secondo caso, la puoi ordinare come Sparta e come
Vinegia: ma perché l'ampliare è il veleno di simili
republiche, debbe, in tutti quelli modi che si può, chi le
ordina proibire loro lo acquistare, perché tali acquisti
fondati sopra una republica debole, sono al tutto la rovina sua.
Come intervenne a Sparta ed a Vinegia: delle quali la prima,
avendosi sottomessa quasi tutta la Grecia, mostrò in su uno
minimo accidente il debile fondamento suo; perché, seguita la
ribellione di Tebe, causata da Pelopida, ribellandosi l'altre
cittadi, rovinò al tutto quella republica. Similmente
Vinegia, avendo occupato gran parte d'Italia, e la maggiore parte
non con guerra ma con danari e con astuzia, come la ebbe a fare
pruova delle forze sue, perdette in una giornata ogni cosa.
Crederrei bene, che a fare una republica che durasse lungo tempo,
fusse il modo, ordinarla dentro come Sparta o come Vinegia; porla in
luogo forte, e di tale potenza che nessuno credesse poterla subito
opprimere; e, dall'altra parte, non fusse sì grande, che la
fusse formidabile a' vicini: e così potrebbe lungamente
godersi il suo stato. Perché, per due cagioni si fa guerra a
una republica: l'una, per diventarne signore; l'altra, per paura
ch'ella non ti occupi. Queste due cagioni il sopraddetto modo quasi
in tutto toglie via; perché, se la è difficile a
espugnarsi, come io la presuppongo, sendo bene ordinata alla difesa,
rade volte accaderà, o non mai, che uno possa fare disegno di
acquistarla. Se la si starà intra i termini suoi, e veggasi,
per esperienza, che in lei non sia ambizione, non occorrerà
mai che uno per paura di sé le faccia guerra: e tanto
più sarebbe questo, se e' fussi in lei constituzione o legge
che le proibisse l'ampliare. E sanza dubbio credo, che, potendosi
tenere la cosa bilanciata in questo modo, che e' sarebbe il vero
vivere politico e la vera quiete d'una città. Ma sendo tutte
le cose degli uomini in moto, e non potendo stare salde, conviene
che le salghino o che le scendino; e a molte cose che la ragione non
t'induce, t'induce la necessità: talmente che, avendo
ordinata una republica atta a mantenersi, non ampliando, e la
necessità la conducesse ad ampliare, si verrebbe a tor via i
fondamenti suoi, ed a farla rovinare più tosto. Così,
dall'altra parte, quando il Cielo le fusse sì benigno che la
non avesse a fare guerra, ne nascerebbe che l'ozio la farebbe o
effeminata o divisa; le quali due cose insieme, o ciascuna per
sé, sarebbono cagione della sua rovina. Pertanto, non si
potendo, come io credo, bilanciare questa cosa, né mantenere
questa via del mezzo a punto; bisogna, nello ordinare la republica,
pensare alle parte più onorevole; ed ordinarle in modo, che,
quando pure la necessità le inducesse ad ampliare, elle
potessono, quello ch'elle avessono occupato, conservare. E, per
tornare al primo ragionamento, credo ch'e' sia necessario seguire
l'ordine romano, e non quello dell'altre republiche; perché
trovare un modo, mezzo infra l'uno e l'altro, non credo si possa, e
quelle inimicizie che intra il popolo ed il senato nascessino,
tollerarle, pigliandole per uno inconveniente necessario a pervenire
alla romana grandezza. Perché, oltre all'altre ragioni
allegate, dove si dimostra l'autorità tribunizia essere stata
necessaria per la guardia della libertà, si può
facilmente considerare il beneficio che fa nelle republiche
l'autorità dello accusare, la quale era, intra gli altri,
commessa a' Tribuni; come nel seguente capitolo si
discorrerà.
7
Quanto siano in una republica
necessarie le accuse a mantenerla
in libertade.
A coloro che in una città sono preposti per guardia della sua
libertà, non si può dare autorità più
utile e necessaria, quanto è quella di potere accusare i
cittadini al popolo, o a qualunque magistrato o consiglio, quando
peccassono in alcuna cosa contro allo stato libero. Questo ordine fa
dua effetti utilissimi a una republica. Il primo è che i
cittadini, per paura di non essere accusati, non tentano cose contro
allo stato; e tentandole, sono, incontinente e sanza rispetto,
oppressi. L'altro è che si dà onde sfogare a quegli
omori che crescono nelle cittadi, in qualunque modo, contro a
qualunque cittadino: e quando questi omori non hanno onde sfogarsi
ordinariamente, ricorrono a' modi straordinari, che fanno rovinare
tutta una republica. E però non è cosa che faccia
tanto stabile e ferma una republica, quanto ordinare quella in modo
che l'alterazione di quegli omori che l'agitano, abbia una via da
sfogarsi ordinata dalle leggi. Il che si può per molti
esempli dimostrare, e massime per quello che adduce Tito Livio, di
Coriolano, dove dice, che, essendo irritata contro alla Plebe la
Nobilità romana, per parerle che la Plebe avessi troppa
autorità, mediante la creazione de' Tribuni che la
difendevano; ed essendo Roma, come avviene, venuta in penuria grande
di vettovaglie, ed avendo il Senato mandato per grani in Sicilia;
Coriolano, inimico alla fazione popolare, consigliò come egli
era venuto il tempo da potere gastigare la Plebe, e torle quella
autorità che ella si aveva in pregiudicio della
Nobilità presa; tenendola affamata, e non gli distribuendo il
frumento: la quale sentenzia sendo venuta agli orecchi del Popolo,
venne in tanta indegnazione contro a Coriolano, che allo uscire del
Senato lo arebbero tumultuariamente morto, se gli Tribuni non lo
avessero citato a comparire, a difendere la causa sua. Sopra il
quale accidente, si nota quello che di sopra si è detto,
quanto sia utile e necessario che le republiche con le leggi loro,
diano onde sfogarsi all'ira che concepe la universalità
contro a uno cittadino: perché quando questi modi ordinari
non vi siano, si ricorre agli straordinari; e sanza dubbio questi
fanno molto peggiori effetti che non fanno quelli.
Perché, se ordinariamente uno cittadino è oppresso,
ancora che li fusse fatto torto, ne séguita o poco o nessuno
disordine in la republica; perché la esecuzione si fa sanza
forze private, e sanza forze forestieri, che sono quelle che
rovinano il vivere libero; ma si fa con forze ed ordini pubblici,
che hanno i termini loro particulari, né trascendono a cosa
che rovini la republica. E quanto a corroborare questa opinione con
gli esempli, voglio che degli antiqui mi basti questo di Coriolano;
sopra il quale ciascuno consideri, quanto male saria risultato alla
republica romana, se tumultuariamente ei fusse stato morto:
perché ne nasceva offesa da privati a privati, la quale
offesa genera paura; la paura cerca difesa; per la difesa si
procacciano partigiani; da' partigiani nascono le parti nelle
cittadi, dalle parti la rovina di quelle. Ma sendosi governata la
cosa mediante chi ne aveva autorità si vennero a tor via
tutti quelli mali che ne potevano nascere governandola con
autorità privata.
Noi avemo visto ne' nostri tempi quale novità ha fatto alla
republica di Firenze non potere la moltitudine sfogare l'animo suo
ordinariamente contro a un suo cittadino, come accadde ne' tempi che
Francesco Valori era come principe della città; il quale
sendo giudicato ambizioso da molti, e uomo che volesse con la sua
audacia e animosità transcendere il vivere civile; e non
essendo nella republica via a potergli resistere se non con una
setta contraria alla sua; ne nacque che, non avendo paura quello se
non di modi straordinari, si cominciò a fare fautori che lo
difendessono; dall'altra parte, quelli che lo oppugnavano non avendo
via ordinaria a reprimerlo, pensarono alle vie straordinarie:
intanto che si venne alle armi. E dove, quando per l'ordinario si
fusse potuto opporsegli, sarebbe la sua autorità spenta con
suo danno solo; avendosi a spegnere per lo straordinario,
seguì con danno non solamente suo, ma di molti altri nobili
cittadini. Potrebbesi ancora allegare, in sostentamento della
soprascritta conclusione, l'accidente seguito pur in Firenze sopra
Piero Soderini, il quale al tutto seguì per non essere in
quella republica alcuno modo di accuse contro alla ambizione de'
potenti cittadini. Perché lo accusare uno potente a otto
giudici in una republica, non basta: bisogna che i giudici siano
assai, perché i pochi sempre fanno a modo de' pochi. Tanto
che, se tali modi vi fussono stati, o i cittadini lo arebbero
accusato, vivendo lui male; e per tale mezzo, sanza far venire
l'esercito spagnuolo, arebbono sfogato l'animo loro; o, non vivendo
male, non arebbono avuto ardire operargli contro, per paura di non
essere accusati essi: e così sarebbe da ogni parte cessato
quello appetito che fu cagione di scandolo.
Tanto che si può conchiudere questo, che, qualunque volta si
vede che le forze estranee siano chiamate da una parte di uomini che
vivono in una città, si può credere nasca da' cattivi
ordini di quella, per non essere, dentro a quel cerchio, ordine da
potere, sanza modi istraordinari, sfogare i maligni omori che
nascono negli uomini: a che si provede al tutto con ordinarvi le
accuse agli assai giudici, e dare riputazione a quelle. I quali modi
furono in Roma sì bene ordinati, che, in tante dissensioni
della Plebe e del Senato, mai o il Senato o la Plebe o alcuno
particulare cittadino disegnò valersi di forze esterne;
perché, avendo il rimedio in casa, non erano necessitati
andare per quello fuori. E benché gli esempli soprascritti
siano assai sufficienti a provarlo, nondimeno ne voglio addurre un
altro, recitato da Tito Livio nella sua istoria: il quale riferisce
come, sendo stato in Chiusi, città in quelli tempi
nobilissima in Toscana, da uno Lucumone violata una sorella di
Arunte, e non potendo Arunte vendicarsi per la potenza del
violatore, se n'andò a trovare i Franciosi, che allora
regnavano in quello luogo che oggi si chiama Lombardia; e quelli
confortò a venire con armata mano a Chiusi, mostrando loro
come con loro utile lo potevano vendicare della ingiuria ricevuta:
che se Arunte avesse veduto potersi vendicare con i modi della
città, non arebbe cerco le forze barbare. Ma come queste
accuse sono utili in una republica, così sono inutili e
dannose le calunnie, come nel capitolo seguente discorreremo.
8
Quanto le accuse sono utili
alle republiche, tanto sono perniziose
le calunnie.
Non ostante che la virtù di Furio Cammillo, poi ch'egli ebbe
libera Roma dalla oppressione de' Franciosi, avesse fatto che tutti
i cittadini romani, sanza parere loro torsi riputazione o grado,
cedevano a quello; nondimanco Manlio Capitolino non poteva
sopportare che gli fusse attribuito tanto onore e tanta gloria;
parendogli, quanto alla salute di Roma, per avere salvato il
Campidoglio, avere meritato quanto Cammillo; e, quanto all'altre
belliche laude, non essere inferiore a lui. Di modo che, carico
d'invidia, non potendo quietarsi per la gloria di quello, e veggendo
non potere seminare discordia infra i Padri, si volse alla Plebe,
seminando varie opinioni sinistre intra quella. E intra le altre
cose che diceva, era come il tesoro il quale si era adunato insieme
per dare ai Franciosi, e poi non dato loro, era stato usurpato da
privati cittadini; e, quando si riavesse, si poteva convertirlo in
publica utilità, alleggerendo la Plebe da' tributi, o da
qualche privato debito. Queste parole poterono assai nella Plebe;
talché cominciò a avere concorso, ed a fare a sua
posta dimolti tumulti nella città: la quale cosa dispiacendo
al Senato, e parendogli di momento e pericolosa, creò uno
Dittatore, perché ci riconoscesse questo caso, e frenasse lo
empito di Manlio. Onde è che subito il Dittatore lo fece
citare, e condussonsi in publico all'incontro l'uno dell'altro; il
Dittatore in mezzo de' Nobili, e Manlio nel mezzo della Plebe. Fu
domandato Manlio che dovesse dire, appresso a chi fusse questo
tesoro ch'e' diceva, perché n'era così desideroso il
Senato, d'intenderlo, come la Plebe: a che Manlio non rispondeva
particularmente; ma, andando sfuggendo, diceva come non era
necessario dire loro quello che si sapevano: tanto che il Dittatore
lo fece mettere in carcere.
È da notare, per questo testo, quanto siano nelle
città libere, ed in ogni altro modo di vivere, detestabili le
calunnie; e come, per reprimerle, si debba non perdonare a ordine
alcuno che vi faccia a proposito. Né può essere
migliore ordine, a torle via, che aprire assai luoghi alle accuse;
perché, quanto le accuse giovano alle republiche, tanto le
calunnie nuocono: e dall'una all'altra parte è questa
differenza, che le calunnie non hanno bisogno né di testimone
né di alcuno altro particulare riscontro a provarle, in modo
che ciascuno e da ciascuno può essere calunniato; ma non
può già essere accusato, avendo le accuse bisogno di
riscontri veri e di circunstanze che mostrino la verità
dell'accusa. Accusansi gli uomini a' magistrati, a' popoli, a'
consigli; calunnionsi per le piazze e per le logge. Usasi più
questa calunnia dove si usa meno l'accusa, e dove le città
sono meno ordinate a riceverle. Però, un ordinatore d'una
republica debbe ordinare che si possa in quella accusare ogni
cittadino, sanza alcuna paura o sanza alcuno rispetto; e fatto
questo, e bene osservato, debbe punire acremente i calunniatori: i
quali non si possono dolere quando siano puniti, avendo i luoghi
aperti a udire le accuse di colui che gli avesse per le logge
calunniato. E dove non è bene ordinata questa parte,
seguitano sempre disordini grandi: perché le calunnie
irritano, e non castigano i cittadini; e gli irritati pensano di
valersi, odiando più presto, che temendo, le cose che si
dicano contro a loro.
Questa parte, come è detto, era bene ordinata in Roma; ed
è stata sempre male ordinata nella nostra città di
Firenze. E come a Roma questo ordine fece molto bene, a Firenze
questo disordine fece molto male. E chi legge le istorie di questa
città, vedrà quante calunnie sono state in ogni tempo
date a' suoi cittadini, che si sono adoperati nelle cose importanti
di quella. Dell'uno dicevano, ch'egli aveva rubato i danari al
Comune; dell'altro, che non aveva vinta una impresa per essere stato
corrotto; e che quell'altro per sua ambizione aveva fatto il tale ed
il tale inconveniente. Di che ne nasceva che da ogni parte ne
surgeva odio: donde si veniva alla divisione, dalla divisione alle
sètte, dalle sètte alla rovina. Che se fusse stato in
Firenze ordine d'accusare i cittadini, e punire i calunniatori, non
seguivano infiniti scandoli che sono seguiti; perché quelli
cittadini, o condannati o assoluti che fussono, non arebbono potuto
nuocere alla città, e sarebbeno stati accusati meno assai che
non ne erano calunniati, non si potendo, come ho detto, accusare
come calunniare ciascuno. Ed intra l'altre cose di che si è
valuto alcun cittadino per venire alla grandezza sua, sono state
queste calunnie: le quali venendo contro a cittadini potenti che
all'appetito suo si opponevano, facevono assai per quello;
perché, pigliando la parte del Popolo, e confermandolo nella
mala opinione ch'egli aveva di loro, se lo fece amico. E
benché se ne potessi addurre assai esempli, voglio essere
contento solo d'uno. Era lo esercito fiorentino a campo a Lucca,
comandato da messer Giovanni Guicciardini, commessario di quello.
Vollono o i cattivi suoi governi o la cattiva sua fortuna che la
espugnazione di quella città non seguisse: pure, comunque il
caso stesse, ne fu incolpato messer Giovanni, dicendo com'egli era
stato corrotto da' Lucchesi: la quale calunnia sendo favorita
dagl'inimici suoi, condusse messer Giovanni quasi in ultima
disperazione. E benché, per giustificarsi, e' si volessi
mettere nelle mani del Capitano; nondimeno non si potette mai
giustificare, per non essere modi in quella republica da poterlo
fare. Di che ne nacque assai sdegni intra gli amici di messer
Giovanni, che erano la maggior parte degli uomini grandi ed infra
coloro che desideravano fare novità in Firenze. La quale
cosa, e per questa e per altre simili cagioni, tanto crebbe che ne
seguì la rovina di quella republica.
Era adunque Manlio Capitolino calunniatore, e non accusatore; ed i
Romani mostrarono, in questo caso appunto, come i calunniatori si
debbono punire. Perché si debbe farli diventare accusatori; e
quando l'accusa si riscontri vera, o premiarli o non punirli: ma
quando la non si riscontri vera, punirli, come fu punito Manlio.
9
Come egli è necessario essere solo
a volere ordinare una repubblica
di nuovo, o al tutto fuor degli antichi
suoi ordini riformarla.
Ei parrà forse ad alcuno, che io sia troppo trascorso dentro
nella istoria romana, non avendo fatto alcuna menzione ancora degli
ordinatori di quella republica, né di quelli ordini che alla
religione o alla milizia riguardassero. E però, non volendo
tenere più sospesi gli animi di coloro che sopra questa parte
volessono intendere alcune cose; dico come molti per avventura
giudicheranno di cattivo esemplo, che uno fondatore d'un vivere
civile, quale fu Romolo, abbia prima morto un suo fratello, dipoi
consentito alla morte di Tito Tazio Sabino, eletto da lui compagno
nel regno; giudicando, per questo, che gli suoi cittadini potessono
con l'autorità del loro principe, per ambizione e desiderio
di comandare, offendere quelli che alla loro autorità si
opponessero. La quale opinione sarebbe vera, quando non si
considerasse che fine lo avesse indotto a fare tal omicidio.
E debbesi pigliare questo per una regola generale: che mai o rado
occorre che alcuna republica o regno sia, da principio, ordinato
bene, o al tutto di nuovo, fuora degli ordini vecchi, riformato, se
non è ordinato da uno; anzi è necessario che uno solo
sia quello che dia il modo, e dalla cui mente dependa qualunque
simile ordinazione. Però, uno prudente ordinatore d'una
republica, e che abbia questo animo, di volere giovare non a
sé ma al bene comune, non alla sua propria successione ma
alla comune patria, debbe ingegnarsi di avere l'autorità,
solo; né mai uno ingegno savio riprenderà alcuno di
alcuna azione straordinaria, che, per ordinare un regno o
constituire una republica, usasse. Conviene bene, che, accusandolo
il fatto, lo effetto lo scusi; e quando sia buono, come quello di
Romolo, sempre lo scuserà: perché colui che è
violento per guastare, non quello che è per racconciare, si
debbe riprendere. Debbi bene in tanto essere prudente e virtuoso,
che quella autorità che si ha presa non la lasci ereditaria a
un altro: perché, sendo gli uomini più proni al male
che al bene, potrebbe il suo successore usare ambiziosamente quello
che virtuosamente da lui fusse stato usato. Oltre a di questo, se
uno è atto a ordinare, non è la cosa ordinata per
durare molto, quando la rimanga sopra le spalle d'uno; ma sì
bene, quando la rimane alla cura di molti e che a molti stia il
mantenerla. Perché, così come molti non sono atti a
ordinare una cosa, per non conoscere il bene di quella, causato
dalle diverse opinioni che sono fra loro; così, conosciuto
che lo hanno, non si accordano a lasciarlo. E che Romolo fusse di
quelli che nella morte del fratello e del compagno meritasse scusa,
e che quello che fece, fusse per il bene comune, e non per ambizione
propria, lo dimostra lo avere quello, subito ordinato uno Senato,
con il quale si consigliasse, e secondo la opinione del quale
deliberasse. E chi considerrà bene l'autorità che
Romolo si riserbò, vedrà non se ne essere riserbata
alcun'altra che comandare agli eserciti quando si era deliberata la
guerra e di ragunare il Senato. Il che si vide poi, quando Roma
divenne libera per la cacciata de' Tarquini, dove da' Romani non fu
innovato alcun ordine dello antico, se non che, in luogo d'uno Re
perpetuo, fossero due Consoli annuali; il che testifica, tutti gli
ordini primi di quella città essere stati più conformi
a uno vivere civile e libero, che a uno assoluto e tirannico.
Potrebbesi dare in sostentamento delle cose soprascritte infiniti
esempli; come Moises, Licurgo, Solone, ed altri fondatori di regni e
di republiche, e' quali poterono, per aversi attribuito
un'autorità, formare leggi a proposito del bene comune: ma li
voglio lasciare indietro, come cosa nota. Addurronne solamente uno,
non sì celebre, ma da considerarsi per coloro che
desiderassono essere di buone leggi ordinatori: il quale è,
che, desiderando Agide re di Sparta ridurre gli Spartani intra
quelli termini che le leggi di Licurgo gli avevano rinchiusi,
parendogli che, per esserne in parte deviati, la sua città
avesse perduto assai di quella antica virtù, e, per
consequente, di forze e d'imperio, fu, ne' suoi primi principii,
ammazzato dagli Efori spartani, come uomo che volesse occupare la
tirannide. Ma succedendo dopo di lui nel regno Cleomene, e
nascendogli il medesimo desiderio per gli ricordi e scritti ch'egli
aveva trovati d'Agide, dove si vedeva quale era la mente ed
intenzione sua, conobbe non potere fare questo bene alla sua patria
se non diventava solo di autorità; parendogli, per
l'ambizione degli uomini, non potere fare utile a molti contro alla
voglia di pochi: e presa occasione conveniente, fece ammazzare tutti
gli Efori, e qualunque altro gli potesse contrastare; dipoi
rinnovò in tutto le leggi di Licurgo. La quale diliberazione
era atta a fare risuscitare Sparta, e dare a Cleomene quella
riputazione che ebbe Licurgo, se non fusse stata la potenza de'
Macedoni, e la debolezza delle altre republiche greche.
Perché, essendo, dopo tale ordine, assaltato da' Macedoni, e
trovandosi per sé stesso inferiore di forze, e non avendo a
chi rifuggire, fu vinto; e restò quel suo disegno, quantunque
giusto e laudabile, imperfetto.
Considerato adunque tutte queste cose, conchiudo, come a ordinare
una republica è necessario essere solo; e Romolo, per la
morte di Remo e di Tito Tazio, meritare iscusa e non biasimo.
10
Quanto sono laudabili i fondatori
d'una republica o d'uno regno,
tanto quelli d'una tirannide
sono vituperabili.
Intra tutti gli uomini laudati sono i laudatissimi quelli che sono
stati capi e ordinatori delle religioni. Appresso, dipoi, quelli che
hanno fondato o republiche o regni. Dopo a costoro, sono celebri
quelli che, preposti agli eserciti, hanno ampliato o il regno loro o
quello della patria. A questi si aggiungono gli uomini litterati. E
perché questi sono di più ragioni, sono celebrati,
ciascuno d'essi, secondo il grado suo. A qualunque altro uomo, il
numero de' quali è infinito, si attribuisce qualche parte di
laude, la quale gli arreca l'arte e lo esercizio suo. Sono pel
contrario, infami e detestabili gli uomini distruttori delle
religioni, dissipatori de' regni e delle republiche, inimici delle
virtù, delle lettere, e d'ogni altra arte che arrechi
utilità e onore alla umana generazione; come sono gl'impii, i
violenti, gl'ignoranti, i dappochi, gli oziosi, i vili. E nessuno
sarà mai sì pazzo o sì savio, sì tristo
o sì buono, che, prepostagli la elezione delle due
qualità d'uomini, non laudi quella che è da laudare, e
biasimi quella che è da biasimare: nientedimeno, dipoi, quasi
tutti, ingannati da uno falso bene e da una falsa gloria, si
lasciono andare, o voluntariamente o ignorantemente, nei gradi di
coloro che meritano più biasimo che laude; e potendo fare,
con perpetuo loro onore, o una republica o uno regno, si volgono
alla tirannide: né si avveggono per questo partito quanta
fama, quanta gloria, quanto onore, sicurtà, quiete, con
sodisfazione d'animo, ei fuggono; e in quanta infamia, vituperio,
biasimo, pericolo e inquietudine, incorrono.
Ed è impossibile che quelli che in stato privato vivono in
una republica, o che per fortuna o per virtù ne diventono
principi, se leggessono le istorie, e delle memorie delle antiche
cose facessono capitale, che non volessero quelli tali privati
vivere nella loro patria più tosto Scipioni che Cesari; e
quelli che sono principi, più tosto Agesilai, Timoleoni,
Dioni, che Nabidi, Falari e Dionisii: perché vedrebbono
questi essere sommamente vituperati, e quelli eccessivamente
laudati. Vedrebbero ancora come Timoleone e gli altri non ebbono
nella patria loro meno autorità che si avessono Dionisio e
Falari, ma vedrebbono di lunga avervi avuta più
sicurtà. Né sia alcuno che s'inganni, per la gloria di
Cesare, sentendolo, massime, celebrare dagli scrittori:
perché quegli che lo laudano, sono corrotti dalla fortuna
sua, e spauriti dalla lunghezza dello imperio, il quale, reggendosi
sotto quel nome, non permetteva che gli scrittori parlassono
liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere quello che gli scrittori
liberi ne direbbono, vegga quello che dicono di Catilina. E tanto
è più biasimevole Cesare, quanto più è
da biasimare quello che ha fatto, che quello che ha voluto fare un
male. Vegga ancora con quante laude ei celebrano Bruto;
talché, non potendo biasimare quello, per la sua potenza, ei
celebravano il nimico suo.
Consideri ancora quello che è diventato principe in una
republica, quanta laude, poiché Roma fu diventata Imperio,
meritarono più quelli imperadori che vissero sotto le leggi e
come principi buoni, che quelli che vissero al contrario: e
vedrà come a Tito Nerva, Traiano, Adriano, Antonino e Marco,
non erano necessari i soldati pretoriani né la moltitudine
delle legioni a difenderli, perché i costumi loro, la
benivolenza del Popolo, l'amore del Senato, gli difendeva.
Vedrà ancora come a Caligola, Nerone, Vitellio, ed a tanti
altri scelerati imperadori, non bastarono gli eserciti orientali ed
occidentali a salvarli contro a quelli inimici che li loro rei
costumi, la loro malvagia vita, aveva loro generati. E se la istoria
di costoro fusse bene considerata, sarebbe assai ammaestramento a
qualunque principe, a mostrargli la via della gloria o del biasimo,
e della sicurtà o del timore suo. Perché, di ventisei
imperadori che furono da Cesare a Massimino, sedici ne furono
ammazzati, dieci morirono ordinariamente e se di quelli che furono
morti ne fu alcun buono come Galba e Pertinace, fu morto da quella
corruzione che lo antecessore suo aveva lasciata nei soldati. E se
tra quelli che morirono ordinariamente ve ne fu alcuno scelerato,
come Severo, nacque da una sua grandissima fortuna e virtù;
le quali due cose pochi uomini accompagnano. Vedrà ancora,
per la lezione di questa istoria, come si può ordinare un
regno buono: perché tutti gl'imperadori che succederono
all'imperio per eredità, eccetto Tito, furono cattivi, quelli
che per adozione, furono tutti buoni come furono quei cinque da
Nerva a Marco: e come l'imperio cadde negli eredi, e' ritornò
nella sua rovina.
Pongasi, adunque, innanzi un principe i tempi da Nerva a Marco, e
conferiscagli con quelli che erano stati prima e che furono poi; e
dipoi elegga in quali volesse essere nato, o a quali volesse essere
preposto. Perché, in quelli governati da' buoni, vedrà
un principe sicuro in mezzo de' suoi sicuri cittadini, ripieno di
pace e di giustizia il mondo; vedrà il Senato con la sua
autorità, i magistrati co' suoi onori; godersi i cittadini
ricchi le loro ricchezze, la nobilità e la virtù
esaltata; vedrà ogni quiete ed ogni bene; e, dall'altra
parte, ogni rancore, ogni licenza, corruzione e ambizione spenta;
vedrà i tempi aurei, dove ciascuno può tenere e
difendere quella opinione che vuole. Vedrà, in fine,
trionfare il mondo; pieno di riverenza e di gloria il principe,
d'amore e sicurtà i popoli. Se considererà, dipoi,
tritamente i tempi degli altri imperadori, gli vedrà atroci
per le guerre, discordi per le sedizioni, nella pace e nella guerra
crudeli: tanti principi morti col ferro, tante guerre civili, tante
esterne; l'Italia afflitta, e piena di nuovi infortunii; rovinate e
saccheggiate le cittadi di quella. Vedrà Roma arsa, il
Campidoglio da' suoi cittadini disfatto, desolati gli antichi
templi, corrotte le cerimonie, ripiene le città di adulterii:
vedrà il mare pieno di esilii, gli scogli pieni di sangue.
Vedrà in Roma seguire innumerabili crudeltadi e la
nobilità, le ricchezze, i passati onori, e sopra tutto la
virtù, essere imputate a peccato capitale. Vedrà
premiare gli calunniatori, essere corrotti i servi contro al
signore, i liberti contro al padrone; e quelli a chi fussero mancati
inimici, essere oppressi dagli amici. E conoscerà allora
benissimo quanti oblighi Roma, l'Italia, e il mondo, abbia con
Cesare.
E sanza dubbio, se e' sarà nato d'uomo, si sbigottirà
da ogni imitazione de' tempi cattivi, ed accenderassi d'uno immenso
desiderio di seguire i buoni. E veramente, cercando un principe la
gloria del mondo, doverrebbe desiderare di possedere una
città corrotta, non per guastarla in tutto come Cesare, ma
per riordinarla come Romolo. E veramente i cieli non possono dare
agli uomini maggiore occasione di gloria, né gli uomini la
possono maggiore desiderare. E se, a volere ordinare bene una
città, si avesse di necessità a diporre il principato,
meriterebbe, quello che non la ordinasse per non cadere di quel
grado, qualche scusa: ma potendosi tenere il principato ed
ordinarla, non si merita scusa alcuna. E, in somma, considerino
quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come ei sono loro
preposte due vie: l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte li
rende gloriosi; l'altra li fa vivere in continove angustie, e, dopo
la morte, lasciare di sé una sempiterna infamia.
11
Della religione de' Romani.
Avvenga che Roma avesse il primo suo ordinatore Romolo, e che da
quello abbi a riconoscere, come figliuola, il nascimento e la
educazione sua, nondimeno, giudicando i cieli che gli ordini di
Romolo non bastassero a tanto imperio, inspirarono nel petto del
Senato romano di eleggere Numa Pompilio per successore a Romolo,
acciocché quelle cose che da lui fossero state lasciate
indietro, fossero da Numa ordinate. Il quale, trovando uno popolo
ferocissimo, e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le arti
della pace, si volse alla religione, come cosa al tutto necessaria a
volere mantenere una civiltà; e la constituì in modo,
che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in
quella republica; il che facilitò qualunque impresa che il
Senato o quelli grandi uomini romani disegnassero fare. E chi
discorrerà infinite azioni, e del popolo di Roma tutto
insieme, e di molti de' Romani di per sé, vedrà come
quelli cittadini temevono più assai rompere il giuramento che
le leggi; come coloro che stimavano più la potenza di Dio,
che quella degli uomini: come si vede manifestamente per gli esempli
di Scipione e di Manlio Torquato. Perché, dopo la rotta che
Annibale aveva dato ai Romani a Canne, molti cittadini si erano
adunati insieme, e, sbigottiti della patria, si erano convenuti
abbandonare la Italia, e girsene in Sicilia; il che sentendo
Scipione, gli andò a trovare, e col ferro ignudo in mano li
costrinse a giurare di non abbandonare la patria. Lucio Manlio,
padre di Tito Manlio, che fu dipoi chiamato Torquato, era stato
accusato da Marco Pomponio, Tribuno della plebe, ed innanzi che
venisse il dì del giudizio, Tito andò a trovare Marco,
e, minacciando di ammazzarlo se non giurava di levare l'accusa al
padre, lo costrinse al giuramento; e quello, per timore avendo
giurato, gli levò l'accusa. E così quelli cittadini i
quali lo amore della patria, le leggi di quella, non ritenevano in
Italia, vi furono ritenuti da un giuramento che furano forzati a
pigliare; e quel Tribuno pose da parte l'odio che egli aveva col
padre, la ingiuria che gli avea fatto il figliuolo, e l'onore suo,
per ubbidire al giuramento preso: il che non nacque da altro, che da
quella religione che Numa aveva introdotta in quella città.
E vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la
religione a comandare gli eserciti, a animire la Plebe, a mantenere
gli uomini buoni, a fare vergognare i rei. Talché, se si
avesse a disputare a quale principe Roma fusse più obligata,
o a Romolo o a Numa, credo più tosto Numa otterrebbe il primo
grado: perché, dove è religione, facilmente si possono
introdurre l'armi e dove sono l'armi e non religione, con
difficultà si può introdurre quella. E si vede che a
Romolo, per ordinare il Senato, e per fare altri ordini civili e
militari, non gli fu necessario dell'autorità di Dio; ma fu
bene necessario a Numa, il quale simulò di avere
domestichezza con una Ninfa, la quale lo consigliava di quello
ch'egli avesse a consigliare il popolo: e tutto nasceva
perché voleva mettere ordini nuovi ed inusitati in quella
città, e dubitava che la sua autorità non bastasse.
E veramente, mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno
popolo che non ricorresse a Dio; perché altrimente non
sarebbero accettate: perché sono molti i beni conosciuti da
uno prudente, i quali non hanno in sé ragioni evidenti da
poterli persuadere a altrui. Però gli uomini savi, che
vogliono tôrre questa difficultà, ricorrono a Dio.
Così fece Licurgo, così Solone, così molti
altri che hanno avuto il medesimo fine di loro. Maravigliando,
adunque, il Popolo romano la bontà e la prudenza sua, cedeva
ad ogni sua diliberazione. Ben è vero che l'essere quelli
tempi pieni di religione, e quegli uomini, con i quali egli aveva a
travagliare, grossi, gli dettono facilità grande a conseguire
i disegni suoi, potendo imprimere in loro facilmente qualunque nuova
forma. E sanza dubbio, chi volesse ne' presenti tempi fare una
republica più facilità troverrebbe negli uomini
montanari, dove non è alcuna civilità, che in quelli
che sono usi a vivere nelle cittadi, dove la civilità
è corrotta: ed uno scultore trarrà più
facilmente una bella statua d'un marmo rozzo, che d'uno male
abbozzato da altrui.
Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da
Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella
città: perché quella causò buoni ordini; i
buoni ordini fanno buona fortuna; e dalla buona fortuna nacquero i
felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto divino
è cagione della grandezza delle republiche, così il
dispregio di quello è cagione della rovina d'esse.
Perché, dove manca il timore di Dio, conviene o che quel
regno rovini, o che sia sostenuto dal timore d'uno principe che
sopperisca a' difetti della religione. E perché i principi
sono di corta vita, conviene che quel regno manchi presto, secondo
che manca la virtù d'esso. Donde nasce che gli regni i quali
dipendono solo dalla virtù d'uno uomo, sono poco durabili,
perché quella virtù manca con la vita di quello e rade
volte accade che la sia rinfrescata con la successione, come
prudentemente Dante dice:
Rade volte discende per li rami
L'umana probitate; e questo vuole
Quel che la dà, perché da lui si chiami.
Non è, adunque, la salute di una republica o d'uno regno
avere uno principe che prudentemente governi mentre vive; ma uno che
l'ordini in modo, che, morendo ancora, la si mantenga. E
benché agli uomini rozzi più facilmente si persuada
uno ordine o una opinione nuova, non è però per questo
impossibile persuaderla ancora agli uomini civili e che presumono
non essere rozzi. Al popolo di Firenze non pare essere né
ignorante né rozzo: nondimeno da frate Girolamo Savonarola fu
persuaso che parlava con Dio. Io non voglio giudicare s'egli era
vero o no, perché d'uno tanto uomo se ne debbe parlare con
riverenza: ma io dico bene, che infiniti lo credevono sanza avere
visto cosa nessuna straordinaria, da farlo loro credere;
perché la vita sua la dottrina e il suggetto che prese, erano
sufficienti a fargli prestare fede. Non sia, pertanto, nessuno che
si sbigottisca di non potere conseguire quel che è stato
conseguito da altri; perché gli uomini, come nella prefazione
nostra si disse, nacquero, vissero e morirono, sempre, con uno
medesimo ordine.
12
Di quanta importanza sia tenere conto
della religione, e come la Italia,
per esserne mancata mediante
la Chiesa romana, è rovinata.
Quelli principi o quelle republiche, le quali si vogliono mantenere
incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le
cerimonie della loro religione, e tenerle sempre nella loro
venerazione; perché nessuno maggiore indizio si puote avere
della rovina d'una provincia, che vedere dispregiato il culto
divino. Questo è facile a intendere, conosciuto che si
è in su che sia fondata la religione dove l'uomo è
nato; perché ogni religione ha il fondamento della vita sua
in su qualche principale ordine suo. La vita della religione Gentile
era fondata sopra i responsi degli oracoli e sopra la setta degli
indovini e degli aruspici: tutte le altre loro cerimonie sacrifici e
riti, dependevano da queste perché loro facilmente credevono
che quello Iddio che ti poteva predire il tuo futuro bene o il tuo
futuro male, te lo potessi ancora concedere. Di qui nascevano i
templi, di qui i sacrifici, di qui le supplicazioni, ed ogni altra
cerimonia in venerarli: perché l'oracolo di Delo, il tempio
di Giove Ammone, ed altri celebri oracoli, i quali riempivano il
mondo di ammirazione e divozione. Come costoro cominciarono dipoi a
parlare a modo de' potenti, e che questa falsità si fu
scoperta ne' popoli, diventarono gli uomini increduli, ed atti a
perturbare ogni ordine buono. Debbono, adunque i principi d'una
republica o d'uno regno, i fondamenti della religione che loro
tengono, mantenergli; e fatto questo sarà loro facil cosa
mantenere la loro republica religiosa, e, per conseguente buona e
unita. E debbono, tutte le cose che nascano in favore di quella come
che le giudicassono false, favorirle e accrescerle; e tanto
più lo debbono fare quanto più prudenti sono, e quanto
più conoscitori delle cose naturali. E perché questo
modo è stato osservato dagli uomini savi, ne è nato
l'opinione dei miracoli, che si celebrano nelle religioni eziandio
false; perché i prudenti gli augumentano, da qualunque
principio e' si nascano; e l'autorità loro dà poi a
quelli fede appresso a qualunque. Di questi miracoli ne fu a Roma
assai; intra i quali fu, che, saccheggiando i soldati romani la
città de' Veienti, alcuni di loro entrarono nel tempio di
Giunone, ed accostandosi alla imagine di quella, e dicendole:
«Vis venire Romam?» parve a alcuno vedere che la
accennasse, a alcuno altro che la dicesse di sì.
Perché sendo quegli uomini ripieni di religione (il che
dimostra Tito Livio, perché, nello entrare nel tempio, vi
entrarono sanza tumulto, tutti devoti e pieni di riverenza), parve
loro udire quella risposta che alla domanda loro per avventura si
avevano presupposta: la quale opinione e credulità da
Cammillo a dagli altri principi della città fu al tutto
favorita ed accresciuta. La quale religione se ne' principi della
republica cristiana si fusse mantenuta, secondo che dal datore
d'essa ne fu ordinato, sarebbero gli stati e le republiche cristiane
più unite, più felici assai, che le non sono.
Né si può fare altra maggiore coniettura della
declinazione d'essa, quanto è vedere come quelli popoli che
sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della religione
nostra hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi, e
vedesse l'uso presente quanto è diverso da quelli,
giudicherebbe essere propinquo, sanza dubbio, o la rovina o il
fragello.
E perché molti sono d'opinione, che il bene essere delle
città d'Italia nasca dalla Chiesa romana, voglio, contro a
essa, discorrere quelle ragioni che mi occorrono: e ne
allegherò due potentissime ragioni le quali, secondo me, non
hanno repugnanzia. La prima è, che, per gli esempli rei di
quella corte, questa provincia ha perduto ogni divozione e ogni
religione: il che si tira dietro infiniti inconvenienti e infiniti
disordini; perché, così come dove è religione
si presuppone ogni bene, così, dove quella manca, si
presuppone il contrario. Abbiamo, adunque, con la Chiesa e con i
preti noi Italiani questo primo obligo, di essere diventati sanza
religione e cattivi: ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale
è la seconda cagione della rovina nostra. Questo è che
la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa. E veramente,
alcuna provincia non fu mai unita o felice, se la non viene tutta
alla ubbidienza d'una republica o d'uno principe, come è
avvenuto alla Francia ed alla Spagna. E la cagione che la Italia non
sia in quel medesimo termine, né abbia anch'ella o una
republica o uno principe che la governi, è solamente la
Chiesa: perché, avendovi quella abitato e tenuto imperio
temporale, non è stata sì potente né di tanta
virtù che l'abbia potuto occupare la tirannide d'Italia e
farsene principe; e non è stata, dall'altra parte, sì
debole, che, per paura di non perdere il dominio delle sue cose
temporali, la non abbia potuto convocare uno potente che la difenda
contro a quello che in Italia fusse diventato troppo potente: come
si è veduto anticamente per assai esperienze, quando,
mediante Carlo Magno, la ne cacciò i Longobardi, ch'erano
già quasi re di tutta Italia; e quando ne' tempi nostri ella
tolse la potenza a' Viniziani con l'aiuto di Francia; di poi ne
cacciò i Franciosi con l'aiuto de' Svizzeri. Non essendo,
adunque, stata la Chiesa potente da potere occupare la Italia,
né avendo permesso che un altro la occupi, è stata
cagione che la non è potuta venire sotto uno capo; ma
è stata sotto più principi e signori, da' quali
è nata tanta disunione e tanta debolezza, che la si è
condotta a essere stata preda, non solamente de' barbari potenti, ma
di qualunque l'assalta. Di che noi altri Italiani abbiamo obbligo
con la Chiesa, e non con altri. E chi ne volesse per esperienza
certa vedere più pronta la verità, bisognerebbe che
fusse di tanta potenza che mandasse ad abitare la corte romana, con
l'autorità che l'ha in Italia, in le terre de' Svizzeri; i
quali oggi sono, solo, popoli che vivono, e quanto alla religione e
quanto agli ordini militari, secondo gli antichi: e vedrebbe che in
poco tempo farebbero più disordine in quella provincia i rei
costumi di quella corte, che qualunque altro accidente che in
qualunque tempo vi potesse surgere.
13
Come i Romani si servivono
della religione per riordinare la città
e seguire le loro imprese e fermare
i tumulti.
Ei non mi pare fuora di proposito addurre alcuno esemplo dove i
Romani si servivono della religione per riordinare la città,
e per seguire le imprese loro; e quantunque in Tito Livio ne siano
molti, nondimeno voglio essere contento a questi. Avendo creato il
Popolo romano i Tribuni di potestà consolare, e, fuora che
uno, tutti plebei; ed essendo occorso, quello anno, peste e fame, e
venuto certi prodigi, usorono questa occasione i Nobili nella nuova
creazione de' Tribuni, dicendo che gl'Iddii erano adirati per avere
Roma male usato la maiestà del suo imperio, e che non era
altro rimedio a placare gl'Iddii che ridurre la elezione de' Tribuni
nel luogo suo: di che nacque che la plebe, sbigottita da questa
religione, creò i Tribuni tutti nobili. Vedesi ancora, nella
espugnazione della città de' Veienti, come i capitani degli
eserciti si valevano della religione per tenergli disposti a una
impresa; che, essendo il lago Albano, quello anno, cresciuto
mirabilmente, ed essendo i soldati romani infastiditi per la lunga
ossidione, e volendo tornarsene a Roma, trovarono i Romani come
Apollo e certi altri risponsi dicevano che quello anno si
espugnerebbe la città de' Veienti, che si derivassi il lago
Albano: la quale cosa fece ai soldati sopportare i fastidi della
ossidione, presi da questa speranza di espugnare la terra: e
stettono contenti a seguire la impresa, tanto che Cammillo fatto
Dittatore espugnò detta città, dopo dieci anni che la
era stata assediata. E così la religione, usata bene,
giovò e per la espugnazione di quella città, e per la
restituzione del Tribunato nella Nobilità che, sanza detto
mezzo, difficilmente si sarebbe condotto e l'uno e l'altro.
Non voglio mancare di addurre a questo proposito un altro esemplo.
Erano nati in Roma assai tumulti per cagione di Terentillo tribuno,
volendo lui proporre certa legge, per le cagioni che di sotto, nel
suo luogo, si diranno; e tra i primi rimedi che vi usò la
Nobilità, fu la religione, della quale si servirono in due
modi. Nel primo, fecero vedere i libri Sibillini, e rispondere come
alla città, mediante la civile sedizione, soprastavano quello
anno pericoli di non perdere la libertà: la quale cosa,
ancora che fusse scoperta da' tribuni, nondimeno messe tanto terrore
ne' petti della plebe, che la raffreddò nel seguirli. L'altro
modo fu che, avendo un Appio Erdonio, con una moltitudine di
sbanditi e di servi, in numero di quattromila uomini, occupato di
notte il Campidoglio, in tanto che si poteva temere che, se gli Equi
e i Volsci, perpetui inimici al nome romano, ne fossero venuti a
Roma, la arebbono espugnata; e non cessando i tribuni, per questo,
continovare nella pertinacia loro, di proporre la legge Terentilla,
dicendo che quello insulto era simulato e non vero; uscì
fuori del Senato un Publio Ruberio, cittadino grave e di
autorità, con parole, parte amorevoli, parte minaccianti,
mostrandogli i pericoli della città, e la intempestiva
domanda loro; tanto ch'ei costrinse la plebe a giurare di non si
partire dalla voglia del consolo: tanto che la plebe, ubbidiente,
per forza ricuperò il Campidoglio. Ma essendo in tale
espugnazione morto Publio Valerio consolo, subito fu rifatto consolo
Tito Quinzio, il quale, per non lasciare riposare la plebe,
né darle spazio a pensare alla legge Terentilla, le
comandò s'uscisse di Roma per andare contro ai Volsci,
dicendo che per quel giuramento aveva fatto di non abbandonare il
consolo, era obligata a seguirlo: a che i tribuni si opponevano,
dicendo come quel giuramento s'era dato al consolo morto, e non a
lui. Nondimeno Tito Livio mostra come la Plebe, per paura della
religione, volle più tosto ubbidire al consolo, che credere
a' tribuni, dicendo in favore della antica religione queste parole:
«Nondum haec, quae nunc tenet saeculum, negligentia Deum
venerat, nec interpretando sibi quisque jusjurandum et leges aptas
faciebat». Per la quale cosa dubitando i Tribuni di non
perdere allora tutta la lor dignità, si accordarono col
consolo di stare alla ubbidienza di quello; e che per uno anno non
si ragionasse della legge Terentilla, ed i Consoli per uno anno non
potessero trarre fuori la plebe alla guerra. E così la
religione fece al Senato vincere quelle difficultà, che,
sanza essa, mai averebbe vinte.
14
I Romani interpetravano gli auspizi
secondo la necessità, e con la prudenza
mostravano di osservare la religione,
quando forzati non la osservavano;
e se alcuno temerariamente
la dispregiava, punivano.
Non solamente gli augurii, come di sopra si è discorso, erano
il fondamento, in buona parte, dell'antica religione de' Gentili, ma
ancora erano quelli che erano cagione del bene essere della
Republica romana. Donde i Romani ne avevano più cura che di
alcuno altro ordine di quella; ed usavongli ne' comizi consolari,
nel principiare le imprese, nel trar fuora gli eserciti, nel fare le
giornate, ed in ogni azione loro importante, o civile o militare;
né mai sarebbono iti ad una espedizione, che non avessono
persuaso ai soldati che gli Dei promettevano loro la vittoria. Ed in
fra gli altri auspicii, avevano negli eserciti certi ordini di
aruspici, ch'e' chiamavano pullarii: e qualunque volta eglino
ordinavano di fare la giornata con il nimico, ei volevano che i
pullarii facessono i loro auspicii; e, beccando i polli,
combattevono con buono augurio, non beccando, si astenevano dalla
zuffa. Nondimeno, quando la ragione mostrava loro una cosa doversi
fare, non ostante che gli auspicii fossero avversi, la facevano in
ogni modo; ma rivoltavanla con termini e modi tanto attamente, che
non paresse che la facessino con dispregio della religione.
Il quale termine fu usato da Papirio consolo in una zuffa che ei
fece importantissima coi Sanniti, dopo la quale restarono in tutto
deboli ed afflitti. Perché, sendo Papirio in su' campi
rincontro ai Sanniti, e parendogli avere nella zuffa la vittoria
certa, e volendo per questo fare la giornata, comandò ai
pullarii che facessono i loro auspicii; ma non beccando i polli, e
veggendo il principe de' pullarii la gran disposizione dello
esercito di combattere, e la opinione che era nel capitano ed in
tutti i soldati di vincere, per non tôrre occasione di bene
operare a quello esercito, riferì al consolo come gli
auspicii procedevono bene: talché Papirio, ordinando le
squadre, ed essendo da alcuni de' pullarii detto a certi soldati, i
polli non avere beccato, quelli lo dissono a Spurio Papirio nepote
del consolo; e quello riferendolo al consolo, rispose subito,
ch'egli attendessi a fare l'ufficio suo bene; che, quanto a lui ed
allo esercito, gli auspicii erano buoni; e se il pullario aveva
detto le bugie, le tornerebbono in pregiudizio suo. E perché
lo effetto corrispondesse al pronostico, comandò ai legati
che constituissono i pullarii nella prima fronte della zuffa. Onde
nacque che, andando contro a' nimici, sendo da un soldato romano
tratto uno dardo, a caso ammazzò il principe de' pullarii: la
quale cosa udita, il consolo disse come ogni cosa procedeva bene, e
col favore degli Dei; perché lo esercito con la morte di quel
bugiardo s'era purgato da ogni colpa e da ogni ira che quelli
avessono presa contro a di lui. E così, col sapere bene
accomodare i disegni suoi agli auspicii, prese partito di
azzuffarsi, sanza che quello esercito si avvedesse che in alcuna
parte quello avesse negletti gli ordini della loro religione.
Al contrario fece Appio Pulcro in Sicilia, nella prima guerra
punica: che, volendo azzuffarsi con l'esercito cartaginese, fece
fare gli auspicii a' pullarii; e riferendogli quelli, come i polli
non beccavano, disse: - Veggiamo se volessero bere! - e gli fece
gittare in mare. Donde che azzuffandosi, perdé la giornata:
di che egli fu a Roma condannato, e Papirio onorato, non tanto per
avere l'uno vinto, e l'altro perduto, quanto per avere l'uno fatto
contro agli auspicii prudentemente, e l'altro temerariamente.
Né ad altro fine tendeva questo modo dello aruspicare, che di
fare i soldati confidentemente ire alla zuffa; dalla quale
confidenza quasi sempre nasce la vittoria. La qual cosa fu non
solamente usata dai Romani, ma dagli esterni: di che mi pare da
addurne uno esemplo nel seguente capitolo.
15
I Sanniti, per estremo rimedio
alle cose loro afflitte,
ricorsero alla religione.
Avendo i Sanniti avute più rotte da' Romani, ed essendo stati
per ultimo distrutti in Toscana, e morti i loro eserciti e gli loro
capitani; ed essendo stati vinti i loro compagni, come Toscani,
Franciosi ed Umbri; «nec suis nec externis viribus jam stare
poterant, tamen bello non abstinebant adeo ne infeliciter quidem
defensae libertatis taedebat, et vinci, quam non tentare victoriam,
malebant». Onde deliberarono fare l'ultima prova: e
perché ei sapevano che, a volere vincere, era necessario
indurre ostinazione negli animi de' soldati, e che a indurvela non
era migliore mezzo che la religione; pensarono di ripetere uno
antico loro sacrificio, mediante Ovio Paccio, loro sacerdote. Il
quale ordinarono in questa forma: che, fatto il sacrificio solenne e
fatto, intra le vittime morte e gli altari accesi, giurare tutti i
capi dell'esercito di non abbandonare mai la zuffa, citorono i
soldati ad uno ad uno: ed intra quegli altari, nel mezzo di
più centurioni con le spade nude in mano gli facevano prima
giurare che non ridirebbono cosa che vedessono o sentissono; dipoi,
con parole esecrabili e versi pieni di spavento, gli facevano
promettere agli Dei, d'essere presti dove gl'imperadori gli
mandassono, e di non si fuggire mai dalla zuffa, e d'ammazzare
qualunque ei vedessono che si fuggisse: la quale cosa non osservata,
tornassi sopra il capo della sua famiglia e della sua stirpe. Ed
essendo sbigottiti alcuni di loro, non volendo giurare, subito da'
loro centurioni erano morti, talché gli altri che succedevono
poi, impauriti dalla ferocità dello spettacolo, giurarono
tutti. E per fare questo loro assembramento più magnifico,
sendo quarantamila uomini, ne vestirono la metà di panni
bianchi, con creste e pennacchi sopra le celate; e così
ordinati si posero presso ad Aquilonia. Contro a costoro venne
Papirio; il quale, nel confortare i suoi soldati, disse: «non
enim cristas vulnera facere, et picta atque aurata scuta transire
romanum pilum». E per debilitare la opinione che avevono i
suoi soldati de' nimici per il giuramento preso, disse che quello
era a timore non a fortezza loro; perché in quel medesimo
tempo gli avevano avere paura de' cittadini, degl'Iddii, e de'
nimici. E venuti al conflitto, furono superati i Sanniti;
perché la virtù romana, e il timore conceputo per le
passate rotte, superò qualunque ostinazione ei potessero
avere presa per virtù della religione e per il giuramento
preso. Nondimeno si vede come a loro non parve potere avere altro
rifugio, né tentare altro rimedio a potere pigliare speranza
di ricuperare la perduta virtù. Il che testifica appieno,
quanta confidenza si possa avere mediante la religione bene usata. E
benché questa parte più tosto, per avventura, si
richiederebbe essere posta intra le cose estrinseche; nondimeno,
dependendo da uno ordine de' più importanti della Republica
di Roma, mi è parso da connetterlo in questo luogo, per non
dividere questa materia e averci a ritornare più volte.
16
Uno popolo, uso a vivere sotto
uno principe, se per qualche
accidente diventa libero,
con difficultà mantiene la libertà.
Quanta difficultà sia a uno popolo, uso a vivere sotto uno
principe, perservare dipoi la libertà, se per alcuno
accidente l'acquista, come l'acquistò Roma dopo la cacciata
de' Tarquinii, lo dimostrono infiniti esempli che si leggono nelle
memorie delle antiche istorie. E tale difficultà è
ragionevole; perché quel popolo è non altrimenti che
un animale bruto, il quale, ancora che di natura feroce e silvestre,
sia stato nutrito sempre in carcere ed in servitù; che dipoi
lasciato a sorte in una campagna libero, non essendo uso a pascersi,
né sappiendo i luoghi dove si abbia a rifuggire, diventa
preda del primo che cerca rincatenarlo.
Questo medesimo interviene a uno popolo, il quale, sendo uso a
vivere sotto i governi d'altri, non sappiendo ragionare né
delle difese o offese pubbliche, non conoscendo i principi né
essendo conosciuto da loro, ritorna presto sotto uno giogo, il quale
il più delle volte è più grave che quello che,
poco inanzi, si aveva levato d'in sul collo: e trovasi in queste
difficultà, quantunque che la materia non sia corrotta.
Perché un popolo dove in tutto è entrata la
corruzione, non può, non che piccol tempo, ma punto vivere
libero come di sotto si discorrerà: e però i
ragionamenti nostri sono di quelli popoli dove la corruzione non sia
ampliata assai, e dove sia più del buono che del guasto.
Aggiungesi alla soprascritta un'altra difficultà, la quale
è, che lo stato che diventa libero si fa partigiani inimici,
e non partigiani amici. Partigiani inimici gli diventono tutti
coloro che dello stato tirannico si prevalevono, pascendosi delle
ricchezze del principe; a' quali sendo tolta la facultà del
valersi, non possono vivere contenti, e sono forzati ciascuno di
tentare di ripigliare la tirannide, per ritornare
nell'autorità loro. Non si acquista, come ho detto,
partigiani amici; perché il vivere libero prepone onori e
premii, mediante alcune oneste e determinate cagioni, e fuora di
quelle non premia né onora alcuno, e quando uno ha quegli
onori e quegli utili che gli pare meritare, non confessa avere
obligo con coloro che lo rimunerano. Oltre a di questo, quella
comune utilità che del vivere libero si trae, non è da
alcuno, mentre che ella si possiede conosciuta: la quale è di
potere godere liberamente le cose sue sanza alcuno sospetto, non
dubitare dell'onore delle donne, di quel de' figliuoli, non temere
di sé; perché nessuno confesserà mai avere
obligo con uno che non l'offenda.
Però, come di sopra si dice, viene ad avere, lo stato libero
e che di nuovo surge, partigiani inimici, e non partigiani amici. E
volendo rimediare a questi inconvenienti, e a quegli disordini che
le soprascritte difficultà arrecherebbono seco, non ci
è più potente rimedio, né più valido
né più sicuro né più necessario, che
ammazzare i figliuoli di Bruto: i quali, come la istoria mostra, non
furono indotti, insieme con altri giovani romani, a congiurare
contro alla patria per altro, se non perché non si potevono
valere straordinariamente sotto i consoli come sotto i re; in modo
che la libertà di quel popolo pareva che fosse diventata la
loro servitù. E chi prende a governare una moltitudine, o per
via di libertà o per via di principato, e non si assicura di
coloro che a quell'ordine nuovo sono inimici, fa uno stato di poca
vita. Vero è che io giudico infelici quelli principi che, per
assicurare lo stato loro hanno a tenere vie straordinarie, avendo
per nimici la moltitudine: perché quello che ha per nimici i
pochi, facilmente e sanza molti scandoli, si assicura, ma chi ha per
nimico l'universale non si assicura mai, e quanta più
crudeltà usa tanto più debole diventa il suo
principato. Talché il maggiore rimedio che ci abbia, è
cercare di farsi il popolo amico.
E benché questo discorso sia disforme dal soprascritto,
parlando qui d'uno principe e quivi d'una republica; nondimeno, per
non avere a tornare più in su questa materia, ne voglio
parlare brevemente. Volendo, pertanto, uno principe guadagnarsi uno
popolo che gli fosse inimico, parlando di quelli principi che sono
diventati della loro patria tiranni, dico ch'ei debbe esaminare
prima quello che il popolo desidera, e troverrà sempre che
desidera due cose: l'una, vendicarsi contro a coloro che sono
cagione che sia servo; l'altra, di riavere la sua libertà. Al
primo desiderio il principe può sodisfare in tutto, al
secondo in parte. Quanto al primo, ce n'è lo esemplo appunto.
Clearco, tiranno di Eraclea, sendo in esilio, occorse che, per
controversia venuta intra il popolo e gli ottimati di Eraclea, che,
veggendosi gli ottimati inferiori, si volsono a favorire Clearco e
congiuratisi seco lo missono, contro alla disposizione popolare, in
Eraclea e tolsono la libertà al popolo. In modo che,
trovandosi Clearco intra la insolenzia degli ottimati, i quali non
poteva in alcuno modo né contentare né correggere, e
la rabbia de' popolari, che non potevano sopportare lo avere perduta
la libertà, diliberò a un tratto liberarsi dal
fastidio de' grandi, e guadagnarsi il popolo. E presa, sopr'a
questo, conveniente occasione, tagliò a pezzi tutti gli
ottimati, con una estrema sodisfazione de' popolari. E così
egli per questa via sodisfece a una delle voglie che hanno i popoli,
cioè di vendicarsi. Ma quanto all'altro popolare desiderio,
di riavere la sua libertà, non potendo il principe
sodisfargli, debbe esaminare quali cagioni sono quelle che gli fanno
desiderare d'essere liberi; e troverrà che una piccola parte
di loro desidera di essere libera per comandare; ma tutti gli altri,
che sono infiniti, desiderano la libertà per vivere sicuri.
Perché in tutte le republiche, in qualunque modo ordinate, ai
gradi del comandare non aggiungono mai quaranta o cinquanta
cittadini: e perché questo è piccolo numero, è
facil cosa assicurarsene, o con levargli via, o con fare loro parte
di tanti onori, che, secondo le condizioni loro, e' si abbino in
buona parte a contentare. Quelli altri, ai quali basta vivere
sicuri, si sodisfanno facilmente, faccendo ordini e leggi, dove
insieme con la potenza sua si comprenda la sicurtà
universale. E quando uno principe faccia questo, e che il popolo
vegga che, per accidente nessuno, ei non rompa tali leggi,
comincerà in breve tempo a vivere sicuro e contento. In
esemplo ci è il regno di Francia, il quale non vive sicuro
per altro che per essersi quelli re obligati a infinite leggi, nelle
quali si comprende la sicurtà di tutti i suoi popoli. E chi
ordinò quello stato, volle che quelli re, dell'armi e del
danaio facessero a loro modo, ma che d'ogni altra cosa non ne
potessono altrimenti disporre che le leggi si ordinassero. Quello
principe, adunque, o quella republica che non si assicura nel
principio dello stato suo, conviene che si assicuri nella prima
occasione, come fecero i Romani. Chi lascia passare quella, si pente
tardi di non avere fatto quello che doveva fare.
Sendo, pertanto, il popolo romano ancora non corrotto quando ei
ricuperò la libertà, potette mantenerla, morti i
figliuoli di Bruto e spenti i Tarquinii, con tutti quelli modi ed
ordini che altra volta si sono discorsi. Ma se fusse stato quel
popolo corrotto, né in Roma né altrove si truova
rimedi validi a mantenerla; come nel seguente capitolo mosterreno.
17
Uno popolo corrotto, venuto in libertà,
si può con difficultà grandissima
mantenere libero.
Io giudico ch'egli era necessario, o che i re si estinguessono in
Roma, o che Roma in brevissimo tempo divenisse debole e di nessuno
valore; perché, considerando a quanta corruzione erano venuti
quelli re, se fossero seguitati così due o tre successioni, e
che quella corruzione, che era in loro, si fosse cominciata ad
istendere per le membra, come le membra fossero state corrotte, era
impossibile mai più riformarla. Ma perdendo il capo quando il
busto era intero, poterono facilmente ridursi a vivere liberi ed
ordinati. E debbesi presupporre per cosa verissima, che una
città corrotta che viva sotto uno principe, come che quel
principe con tutta la sua stirpe si spenga, mai non si può
ridurre libera, anzi conviene che l'un principe spenga l'altro: e
sanza creazione d'uno nuovo signore non si posa mai, se già
la bontà d'uno, insieme con la virtù, non la tenesse
libera; ma durerà tanto quella libertà, quanto
durerà la vita di quello: come intervenne, a Siracusa, di
Dione e di Timoleone: la virtù de' quali in diversi tempi,
mentre vissono, tenne libera quella città; morti che furono,
si ritornò nell'antica tirannide. Ma non si vede il
più forte esemplo che quello di Roma; la quale, cacciati i
Tarquinii, poté subito prendere e mantenere quella
libertà; ma, morto Cesare, morto Caio Caligola, morto Nerone,
spenta tutta la stirpe cesarea, non poté mai, non solamente
mantenere, ma pure dar principio alla libertà. Né
tanta diversità di evento in una medesima città nacque
da altro, se non da non essere ne' tempi de' Tarquinii il popolo
romano ancora corrotto, ed in questi ultimi tempi essere
corrottissimo. Perché allora, a mantenerlo saldo e disposto a
fuggire i re, bastò solo farlo giurare che non consentirebbe
mai che a Roma alcuno regnasse; e negli altri tempi non bastò
l'autorità e severità di Bruto, con tutte le legioni
orientali, a tenerlo disposto a volere mantenersi quella
libertà che esso, a similitudine del primo Bruto, gli aveva
renduta. Il che nacque da quella corruzione che le parti mariane
avevano messa nel popolo; delle quali sendo capo Cesare, potette
accecare quella moltitudine, ch'ella non conobbe il giogo che da
sé medesima si metteva in sul collo.
E benché questo esemplo di Roma sia da preporre a qualunque
altro esemplo, nondimeno voglio a questo proposito addurre innanzi
popoli conosciuti ne' nostri tempi. Pertanto dico, che nessuno
accidente, benché grave e violento, potrebbe ridurre mai
Milano o Napoli liberi, per essere quelle membra tutte corrotte. Il
che si vide dopo la morte di Filippo Visconti; che, volendosi
ridurre Milano alla libertà, non potette e non seppe
mantenerla. Però, fu felicità grande quella di Roma,
che questi rediventassero corrotti presto, acciò ne fussono
cacciati, ed innanzi che la loro corruzione fusse passata nelle
viscere di quella città: la quale incorruzione fu cagione che
gl'infiniti tumulti che furono in Roma, avendo gli uomini il fine
buono, non nocerono, anzi giovorono, alla Republica.
E si può fare questa conclusione, che, dove la materia non
è corrotta, i tumulti ed altri scandoli non nuocono: dove la
è corrotta, le leggi bene ordinate non giovano, se già
le non sono mosse da uno che con una estrema forza le faccia
osservare, tanto che la materia diventi buona. Il che non so se si
è mai intervenuto o se fusse possibile ch'egli intervenisse:
perché e' si vede, come poco di sopra dissi, che una
città venuta in declinazione per corruzione di materia, se
mai occorre che la si rilievi, occorre per la virtù d'uno
uomo che è vivo allora, non per la virtù dello
universale che sostenga gli ordini buoni; e subito che quel tale
è morto, la si ritorna nel suo pristino abito: come
intervenne a Tebe, la quale, per la virtù di Epaminonda,
mentre lui visse, potette tenere forma di republica e di imperio;
ma, morto quello, la si ritornò ne' primi disordini suoi. La
cagione è, che non può essere uno uomo di tanta vita,
che 'l tempo basti ad avvezzare bene una città lungo tempo
male avvezza. E se uno d'una lunghissima vita, o due successione
virtuose continue, non la dispongano; come la manca di loro, come di
sopra è detto, rovina, se già con dimolti pericoli e
dimolto sangue e' non la facesse rinascere. Perché tale
corruzione e poca attitudine alla vita libera, nasce da una
inequalità che è in quella città: e volendola
ridurre equale, è necessario usare grandissimi straordinari,
i quali pochi sanno o vogliono usare; come in altro luogo più
particularmente si dirà.
18
In che modo nelle città corrotte
si potesse mantenere uno stato libero,
essendovi; o, non vi essendo,
ordinarvelo.
Io credo che non sia fuora di proposito, né disforme dal
soprascritto discorso, considerare se in una città corrotta
si può mantenere lo stato libero, sendovi; o quando e' non vi
fusse, se vi si può ordinare. Sopra la quale cosa, dico, come
gli è molto difficile fare o l'uno o l'altro: e benché
sia quasi impossibile darne regola, perché sarebbe necessario
procedere secondo i gradi della corruzione; nondimanco, essendo bene
ragionare d'ogni cosa, non voglio lasciare questa indietro. E
presupporrò una città corrottissima, donde
verrò ad accrescere più tale difficultà;
perché non si truovano né leggi né ordini che
bastino a frenare una universale corruzione. Perché,
così come gli buoni costumi, per mantenersi, hanno bisogno
delle leggi; così le leggi, per osservarsi, hanno bisogno de'
buoni costumi. Oltre a di questo, gli ordini e le leggi fatte in una
republica nel nascimento suo, quando erano gli uomini buoni, non
sono dipoi più a proposito, divenuti che ei sono rei. E se le
leggi secondo gli accidenti in una città variano, non variano
mai, o rade volte, gli ordini suoi: il che fa che le nuove leggi non
bastano, perché gli ordini, che stanno saldi, le corrompono.
E per dare ad intendere meglio questa parte, dico come in Roma era
l'ordine del governo, o vero dello stato; e le leggi dipoi, che con
i magistrati frenavano i cittadini. L'ordine dello stato era
l'autorità del Popolo, del Senato, de' Tribuni, de' Consoli,
il modo di chiedere e del creare i magistrati, ed il modo di fare le
leggi. Questi ordini poco o nulla variarono negli accidenti.
Variarono le leggi che frenavano i cittadini; come fu la legge degli
adulterii, la suntuaria, quella della ambizione, e molte altre;
secondo che di mano in mano i cittadini diventavano corrotti. Ma
tenendo fermi gli ordini dello stato, che nella corruzione non erano
più buoni, quelle legge, che si rinnovavano, non bastavano a
mantenere gli uomini buoni, ma sarebbono bene giovate, se con la
innovazione delle leggi si fussero rimutati gli ordini.
E che sia il vero, che tali ordini nella città corrotta non
fussero buoni, si vede espresso in doi capi principali, quanto al
creare i magistrati e le leggi. Non dava il popolo romano il
consolato, e gli altri primi gradi della città, se non a
quelli che lo domandavano. Questo ordine fu, nel principio, buono,
perché e' non gli domandavano se non quelli cittadini che se
ne giudicavano degni ed averne la repulsa era ignominioso sì
che, per esserne giudicati degni, ciascuno operava bene.
Diventò questo modo, poi, nella città corrotta,
perniziosissimo; perché non quelli che avevano più
virtù, ma quelli che avevano più potenza domandavano i
magistrati; e gl'impotenti, comecché virtuosi, se ne
astenevano di domandarli, per paura. Vennesi a questo inconveniente,
non a un tratto, ma per i mezzi, come si cade in tutti gli altri
inconvenienti: perché avendo i Romani domata l'Africa e
l'Asia, e ridotta quasi tutta la Grecia a sua ubbidienza, erano
divenuti sicuri della libertà loro, né pareva loro
avere più nimici che dovessono fare loro paura. Questa
sicurtà e questa debolezza de' nimici fece che il popolo
romano, nel dare il consolato, non riguardava più la
virtù, ma la grazia; tirando a quel grado quelli che meglio
sapevano intrattenere gli uomini, non quelli che sapevano meglio
vincere i nimici: dipoi da quelli che avevano più grazia, ei
discesono a darlo a quegli che avevano più potenza;
talché i buoni, per difetto di tale ordine, ne rimasero al
tutto esclusi. Poteva uno tribuno, e qualunque altro cittadino,
preporre al Popolo una legge; sopra la quale ogni cittadino poteva
parlare, o in favore o incontro, innanzi che la si deliberasse. Era
questo ordine buono, quando i cittadini erano buoni; perché
sempre fu bene che ciascuno che intende uno bene per il publico lo
possa preporre; ed è bene che ciascuno sopra quello possa
dire l'opinione sua, acciocché il popolo, inteso ciascuno,
possa poi eleggere il meglio. Ma diventati i cittadini cattivi,
diventò tale ordine pessimo; perché solo i potenti
proponevono leggi, non per la comune libertà, ma per la
potenza loro; e contro a quelle non poteva parlare alcuno, per paura
di quelli: talché il popolo veniva o ingannato o sforzato a
diliberare la sua rovina.
Era necessario, pertanto, a volere che Roma nella corruzione si
mantenesse libera, che, così come aveva nel processo del
vivere suo fatto nuove leggi, l'avesse fatto nuovi ordini:
perché altri ordini e modi di vivere si debbe ordinare in uno
suggetto cattivo, che in uno buono; né può essere la
forma simile in una materia al tutto contraria. Ma perché
questi ordini, o e' si hanno a rinnovare tutti a un tratto, scoperti
che sono non essere più buoni, o a poco a poco, in prima che
si conoschino per ciascuno; dico che l'una e l'altra di queste due
cose è quasi impossibile. Perché, a volergli rinnovare
a poco a poco, conviene che ne sia cagione uno prudente, che vegga
questo inconveniente assai discosto, e quando e' nasce. Di questi
tali è facilissima cosa che in una città non ne surga
mai nessuno: e quando pure ve ne surgessi, non potrebbe persuadere
mai a altrui quello che egli proprio intendesse; perché gli
uomini, usi a vivere in un modo, non lo vogliono variare; e tanto
più non veggendo il male in viso, ma avendo a essere loro
mostro per coniettura. Quanto all'innovare questi ordini a un
tratto, quando ciascuno conosce che non son buoni, dico che questa
inutilità, che facilmente si conosce, è difficile a
ricorreggerla; perché, a fare questo, non basta usare termini
ordinari, essendo modi ordinari cattivi; ma è necessario
venire allo straordinario, come è alla violenza ed all'armi,
e diventare innanzi a ogni cosa principe di quella città, e
poterne disporre a suo modo. E perché il riordinare una
città al vivere politico presuppone uno uomo buono, e il
diventare per violenza principe di una republica presuppone uno uomo
cattivo; per questo si troverrà che radissime volte accaggia
che uno buono, per vie cattive, ancora che il fine suo fusse buono,
voglia diventare principe; e che uno reo, divenuto principe, voglia
operare bene, e che gli caggia mai nello animo usare quella
autorità bene, che gli ha male acquistata.
Da tutte le soprascritte cose nasce la difficultà, o
impossibilità, che è nelle città corrotte, a
mantenervi una republica, o a crearvela di nuovo. E quando pure la
vi si avesse a creare o a mantenere, sarebbe necessario ridurla
più verso lo stato regio, che verso lo stato popolare;
acciocché quegli uomini i quali dalle leggi, per la loro
insolenzia, non possono essere corretti, fussero da una
podestà quasi regia in qualche modo frenati. E a volergli
fare per altre vie diventare buoni, sarebbe o crudelissima impresa o
al tutto impossibile; come io dissi, di sopra, che fece Cleomene: il
quale se, per essere solo, ammazzò gli Efori; e se Romolo,
per le medesime cagioni, ammazzò il fratello e Tito Tazio
Sabino, e dipoi usarono bene quella loro autorità; nondimeno
si debbe avvertire che l'uno e l'altro di costoro non aveano il
suggetto di quella corruzione macchiato, della quale in questo
capitolo ragioniamo, e però poterono volere, e, volendo,
colorire il disegno loro.
19
Dopo uno eccellente principe
si può mantenere uno principe debole;
ma, dopo uno debole, non si può
con un altro debole mantenere
alcuno regno.
Considerato la virtù ed il modo del procedere di Romolo, Numa
e di Tullo, i primi tre re romani, si vede come Roma sortì
una fortuna grandissima, avendo il primo re ferocissimo e bellicoso,
l'altro quieto e religioso, il terzo simile di ferocità a
Romolo, e più amatore della guerra che della pace.
Perché in Roma era necessario che surgesse ne' primi
principii suoi un ordinatore del vivere civile, ma era bene poi
necessario che gli altri re ripigliassero la virtù di Romolo;
altrimenti quella città sarebbe diventata effeminata, e preda
de' suoi vicini. Donde si può notare che uno successore, non
di tanta virtù quanto il primo, può mantenere uno
stato per la virtù di colui che lo ha retto innanzi, e si
può godere le sue fatiche: ma s'egli avviene o che sia di
lunga vita, o che dopo lui non surga un altro che ripigli la
virtù di quel primo, è necessitato quel regno a
rovinare. Così, per il contrario, se dua, l'uno dopo l'altro,
sono di gran virtù, si vede spesso che fanno cose
grandissime, e che ne vanno con la fama in fino al cielo.
Davit, sanza dubbio, fu un uomo, per arme, per dottrina, per
giudizio, eccellentissimo; e fu tanta la sua virtù, che,
avendo vinti e battuti tutti i suoi vicini, lasciò a Salomone
suo figliuolo uno regno pacifico: quale egli si potette con l'arte
della pace, e non con la guerra, conservare; e si potette godere
felicemente la virtù di suo padre. Ma non potette già
lasciarlo a Roboam suo figliuolo; il quale, non essendo per
virtù simile allo avolo, né per fortuna simile al
padre, rimase con fatica erede della sesta parte del regno. Baisit,
sultan de' Turchi, come che fussi più amatore della pace che
della guerra, potette godersi le fatiche di Maumetto suo padre; il
quale avendo, come Davit, battuto i suoi vicini, gli lasciò
un regno fermo, e da poterlo con l'arte della pace facilmente
conservare. Ma se il figliuolo suo Salì, presente signore,
fusse stato simile al padre, e non all'avolo, quel regno rovinava;
ma e' si vede costui essere per superare la gloria dell'avolo. Dico
pertanto con questi esempli, che, dopo uno eccellente principe, si
può mantenere uno principe debole; ma, dopo un debole, non si
può, con un altro debole, mantenere alcun regno, se
già e' non fusse come quello di Francia, che gli ordini suoi
antichi lo mantenessero: e quelli principi sono deboli, che non
stanno in su la guerra.
Conchiudo pertanto, con questo discorso, che la virtù di
Romolo fu tanta, che la potette dare spazio a Numa Pompilio di
potere molti anni con l'arte della pace reggere Roma: ma dopo lui
successe Tullo, il quale per la sua ferocità riprese la
riputazione di Romolo: dopo il quale venne Anco, in modo dalla
natura dotato, che poteva usare la pace e sopportare la guerra. E
prima si dirizzò a volere tenere la via della pace, ma subito
conobbe come i vicini, giudicandolo effeminato, lo stimavano poco:
talmente che pensò che, a volere mantenere Roma, bisognava
volgersi alla guerra, e somigliare Romolo, e non Numa.
Da questo piglino esemplo tutti i principi che tengono stato; che
chi somiglierà Numa, lo terrà o non terrà,
secondo che i tempi o la fortuna gli girerà sotto; ma chi
somiglierà Romolo, e fia come esso armato di prudenza e
d'armi, lo terrà in ogni modo, se da una ostinata ed
eccessiva forza non gli è tolto. E certamente si può
stimare che, se Roma sortiva per terzo suo re un uomo che non
sapesse con le armi renderle la sua riputazione non arebbe mai poi,
o con grandissima difficultà, potuto pigliare piede,
né fare quegli effetti ch'ella fece. E così, in mentre
che la visse sotto i re la portò questi pericoli di rovinare
sotto uno re o debole o malvagio.
20
Dua continove successioni di principi
virtuosi fanno grandi effetti;
e come le republiche bene ordinate
hanno di necessità virtuose successioni,
e però gli acquisti ed augumenti loro
sono grandi.
Poiché Roma ebbe cacciati i re, mancò di quelli
pericoli, i quali di sopra sono detti che la portava succedendo in
lei uno re o debole o cattivo. Perché la somma dello imperio
si ridusse ne' consoli, i quali, non per eredità o per
inganni o per ambizione violenta, ma per suffragi liberi venivano a
quello imperio, ed erono sempre uomini eccellentissimi: de' quali
godendosi Roma la virtù, e la fortuna di tempo in tempo,
poté venire a quella sua ultima grandezza in altrettanti anni
che la era stata sotto i re. Perché si vede, come due
continove successioni di principi virtuosi sono sufficienti ad
acquistare il mondo: come furano Filippo di Macedonia ed Alessandro
Magno. Il che tanto più debba fare una republica, avendo per
il modo dello eleggere non solamente due successioni ma infiniti
principi virtuosissimi che sono l'uno dell'altro successori: la
quale virtuosa successione fia sempre in ogni republica bene
ordinata.
21
Quanto biasimo meriti quel principe
e quella republica che manca
d'armi proprie.
Debbono i presenti principi e le moderne republiche, le quali circa
le difese ed offese mancano di soldati propri, vergognarsi di loro
medesime; e pensare con lo esemplo di Tullo, tale difetto essere,
non per mancamento di uomini atti alla milizia, ma per colpa sua,
che non han saputo fare i suoi uomini militari. Perché Tullo,
sendo stata Roma in pace quarant'anni, non trovò, succedendo
egli nel regno, uomo che fusse stato mai in guerra: nondimeno,
disegnando esso fare guerra, non pensò valersi né de'
Sanniti, né de' Toscani, né di altri che fussero
consueti stare nell'armi, ma diliberò, come uomo
prudentissimo, di valersi de' suoi. E fu tanta la sua virtù,
che in un tratto, sotto il suo governo gli poté fare soldati
eccellentissimi. Ed è più vero che alcuna altra
verità, che, se dove è uomini non è soldati,
nasce per difetto del principe, e non per altro difetto o di sito o
di natura.
Di che ce n'è un esemplo freschissimo. Perché ognuno
sa, come ne' prossimi tempi il re d'Inghilterra assaltò il
regno di Francia, né prese altri soldati che popoli suoi; e,
per essere stato quel regno più che trenta anni sanza fare
guerra, non aveva né soldati né capitano che avesse
mai militato: nondimeno, non dubitò con quelli assaltare uno
regno pieno di capitani e di buoni eserciti, i quali erano stati
continovamente sotto l'armi nelle guerre d'Italia. Tutto nacque da
essere quel re prudente uomo, e quel regno bene ordinato; il quale
nel tempo della pace non intermette gli ordini della guerra.
Pelopida ed Epaminonda tebani, poiché gli ebbero libera Tebe,
e trattala della servitù dello imperio spartano, trovandosi
in una città usa a servire, ed in mezzo di popoli effeminati;
non dubitarono, tanta era la virtù loro, di ridurgli sotto
l'armi, e con quelli andare a trovare alla campagna gli eserciti
spartani, e vincergli: e chi ne scrive, dice come questi duoi in
brieve tempo mostrarono che non solamente in Lacedemonia nascevano
gli uomini da guerra, ma in ogni altra parte dove nascessi uomini,
pure che si trovasse chi li sapesse indirizzare alla milizia, come
si vede che Tullo seppe indirizzare i Romani. E Virgilio non
potrebbe meglio esprimere questa opinione, né con altre
parole mostrare di accostarsi a quella, dove dice:
Desidesque movebit
Tullus in arma viros.
22
Quello che sia da notare nel caso
de' tre Orazii romani
e tre Curiazii albani.
Tullo re di Roma, e Mezio, re di Alba, convennero che quello popolo
fusse signore dell'altro, di cui i soprascritti tre uomini
vincessero. Furono morti tutti i Curiazii albani, restò vivo
uno degli Orazii romani: e per questo restò Mezio re albano,
con il suo popolo suggetto a' Romani. E tornando quello Orazio
vincitore in Roma, scontrando una sua sorella, che era a uno de' tre
Curiazii morti maritata, che piangeva la morte del marito,
l'ammazzò. Donde quello Orazio per questo fallo fu messo in
giudizio, e dopo molte dispute fu libero, più per li prieghi
del padre, che per li suoi meriti. Dove sono da notare tre cose:
l'una, che mai non si debbe con parte delle sue forze arrischiare
tutta la sua fortuna; l'altra, che non mai in una città bene
ordinata le colpe con gli meriti si ricompensano; la terza, che non
mai sono i partiti savi, dove si debba o possa dubitare della
inosservanza. Perché, gl'importa tanto a una città lo
essere serva, che mai non si doveva credere che alcuno di quelli re
o di quelli popoli stessero contenti che tre loro cittadini gli
avessero sottomessi: come si vide che volle fare Mezio, il quale,
benché subito dopo la vittoria de' Romani si confessassi
vinto, e promettessi la ubbidienza a Tullo, nondimeno nella prima
espedizione che gli ebbero a convenire contro a' Veienti, si vide
come ei cercò d'ingannarlo; come quello che tardi si era
avveduto della temerità del partito preso da lui. E
perché di questo terzo notabile se n'è parlato assai,
parlereno solo degli altri due ne' seguenti duoi capitoli.
23
Che non si debbe mettere a pericolo
tutta la fortuna e non tutte le forze;
e, per questo, spesso il guardare
i passi è dannoso.
Non fu mai giudicato partito savio mettere a pericolo tutta la
fortuna tua e non tutte le forze. Questo si fa in più modi.
L'uno è faccendo come Tullo e Mezio, quando e' commissono la
fortuna tutta della patria loro, e la virtù di tanti uomini
quanti aveva l'uno e l'altro di costoro negli eserciti suoi alla
virtù e fortuna di tre de' loro cittadini, che veniva a
essere una minima parte delle forze di ciascuno di loro. Né
si avvidono, come per questo partito tutta la fatica che avevano
durata i loro antecessori nell'ordinare la republica, per farla
vivere lungamente libera e per fare i suoi cittadini difensori della
loro libertà, era quasi che stata vana, stando nella potenza
di sì pochi a perderla. La quale cosa da quelli re non
poté essere peggio considerata.
Cadesi ancora in questo inconveniente quasi sempre per coloro, che,
venendo il nimico, disegnano di tenere i luoghi difficili, e
guardare i passi: perché quasi sempre questa diliberazione
sarà dannosa, se già in quello luogo difficile
commodamente tu non potesse tenere tutte le forze tue. In questo
caso, tale partito è da prendere; ma sendo il luogo aspro, e
non vi potendo tenere tutte le forze, il partito è dannoso.
Questo mi fa giudicare così lo esemplo di coloro, che,
essendo assaltati da un inimico potente, ed essendo il paese loro
circundato da' monti e luoghi alpestri, non hanno mai tentato di
combattere il nimico in su' passi ed in su' monti, ma sono iti a
rincontrarlo di là da essi; o, quando non hanno voluto fare
questo, lo hanno aspettato dentro a essi monti, in luoghi benigni e
non alpestri. E la cagione ne è stata la preallegata:
perché, non si potendo condurre alla guardia de' luoghi
alpestri molti uomini, sì per non vi potere vivere lungo
tempo, sì per essere i luoghi stretti e capaci di pochi, non
è possibile sostenere uno inimico che venga grosso a urtarti:
ed al nimico è facile il venire grosso perché la
intenzione sua è passare, e non fermarsi, ed a chi l'aspetta
è impossibile aspettarlo grosso, avendo ad alloggiarsi per
più tempo, non sappiendo quando il nimico voglia passare in
luoghi, come io ho detto, stretti e sterili. Perdendo, adunque, quel
passo che tu ti avevi presupposto tenere, e nel quale i tuoi popoli
e lo esercito tuo confidava, entra il più delle volte ne'
popoli e nel residuo delle genti tua tanto terrore, che, sanza
potere esperimentare la virtù d'esse, rimani perdente; e
così vieni a avere perduta tutta la tua fortuna con parte
delle tue forze.
Ciascuno sa con quanta difficultà Annibale passasse l'alpe
che dividono la Lombardia dalla Francia, e con quanta
difficultà passasse quelle che dividono la Lombardia dalla
Toscana: nondimeno i Romani l'aspettarono prima in sul Tesino, e
dipoi nel piano d'Arezzo: e vollon, più tosto, che il loro
esercito fusse consumato da il nimico nelli luoghi dove poteva
vincere, che condurlo su per l'alpe a essere distrutto dalla
malignità del sito.
E chi leggerà sensatamente tutte le istorie, troverrà
pochissimi virtuosi capitani avere tentato di tenere simili passi, e
per le ragioni dette, e perché e' non si possono chiudere
tutti, sendo i monti come campagne, ed avendo non solamente le vie
consuete e frequentate, ma molte altre le quali, se non sono note a'
forestieri, sono note a paesani; con l'aiuto de' quali sempre sarai
condotto in qualunque luogo, contro alla voglia di chi ti si oppone.
Di che se ne può addurre uno freschissimo esemplo, nel 1515.
Quando Francesco re di Francia disegnava passare in Italia per la
recuperazione dello stato di Lombardia, il maggior fondamento che
facevono coloro ch'erano alla sua impresa contrari, era che gli
Svizzeri lo terrebbono a' passi in su' monti. E, come per esperienza
poi si vidde, quel loro fondamento restò vano: perché,
lasciato quel Re da parte dua o tre luoghi guardati da loro, se ne
venne per un'altra via incognita; e fu prima in Italia, e loro
apresso, che lo avessono presentito. Talché loro sbigottiti
si ritirarono in Milano, e tutti i popoli di Lombardia si
accostarono alle genti franciose; sendo mancati di quella opinione
avevano, che i Franciosi devessono essere ritenuti in su' monti.
24
Le republiche bene ordinate
costituiscono premii e pene
a' loro cittadini, né compensono mai
l'uno con l'altro.
Erano stati i meriti di Orazio grandissimi, avendo con la sua
virtù vinti i Curiazii: era stato il fallo suo atroce, avendo
morto la sorella: nondimeno dispiacque tanto tale omicidio a'
Romani, che lo condussono a disputare della vita, non ostante che
gli meriti suoi fossero tanto grandi e sì freschi. La quale
cosa, a chi superficialmente la considerasse, parrebbe un esemplo
d'ingratitudine popolare: nondimeno, chi la esamina meglio e con
migliore considerazione ricerca quali debbono essere gli ordini
delle republiche, biasimerà quel popolo più tosto per
averlo assoluto che per averlo voluto condannare. E la ragione
è questa, che nessuna republica bene ordinata non mai
cancellò i demeriti con gli meriti de' suoi cittadini; ma
avendo ordinati i premii a una buona opera e le pene a una cattiva
ed avendo premiato uno per avere bene operato, se quel medesimo
opera dipoi male, lo gastiga, sanza avere riguardo alcuno alle sue
buone opere. E quando questi ordini sono bene osservati, una
città vive libera molto tempo: altrimenti sempre
rovinerà tosto. Perché, se a un cittadino che abbia
fatto qualche egregia opera per la città, si aggiugne, oltre
alla riputazione che quella cosa gli arreca, una audacia e
confidenza di poter, senza temere pena, fare qualche opera non
buona, diventerà in brieve tempo tanto insolente che si
risolverà ogni civilità.
È bene necessario, volendo che sia tenuta la pena per le
malvagie opere, osservare i premii per le buone, come si vide che
fece Roma. E benché una republica sia povera, e possa dare
poco, debbe da quel poco non astenersi, perché sempre ogni
piccol dono, dato ad alcuno per ricompenso di bene ancora che
grande, sarà stimato, da chi lo riceve, onorevole e
grandissimo. È notissima la istoria di Orazio Cocle, e quella
di Muzio Scevola: come l'uno sostenne i nimici sopra un ponte, tanto
che si tagliasse; l'altro si arse la mano, che aveva errato, volendo
ammazzare Porsenna, re degli Toscani. A costoro per queste due opere
tanto egregie fu donato dal pubblico due staiora di terra per
ciascuno. È nota ancora la istoria di Manlio Capitolino. A
costui, per avere salvato il Campidoglio da' Franciosi che vi erano
a campo, fu dato, da quelli che insieme con lui vi erano assediati
dentro, una piccola misura di farina. Il quale premio, secondo la
fortuna che allora correva in Roma fu grande; e di qualità
che, mosso poi Manlio o da invidia o dalla sua cattiva natura, a
fare nascere sedizione in Roma e cercando guadagnarsi il popolo, fu,
sanza rispetto alcuno de' suoi meriti, gittato precipite da quello
Campidoglio che esso prima, con tanta sua gloria, avea salvo.
25
Chi vuole riformare uno stato anticato
in una città libera,
ritenga almeno l'ombra de' modi antichi.
Colui che desidera o che vuole riformare uno stato d'una
città, a volere che sia accetto, e poterlo con satisfazione
di ciascuno mantenere, è necessitato a ritenere l'ombra
almanco de' modi antichi, acciò che a' popoli non paia avere
mutato ordine, ancorché, in fatto, gli ordini nuovi fussero
al tutto alieni dai passati; perché lo universale degli
uomini si pascono così di quel che pare come di quello che
è: anzi, molte volte si muovono più per le cose che
paiono che per quelle che sono. Per questa cagione i Romani,
conoscendo nel principio del loro vivere libero questa
necessità, avendo in cambio d'uno re creati duoi consoli, non
vollono ch'egli avessono più che dodici littori, per non
passare il numero di quelli che ministravano ai re. Oltre a di
questo, faccendosi in Roma uno sacrificio anniversario, il quale non
poteva essere fatto se non dalla persona del re, e volendo i Romani
che quel popolo non avesse a desiderare per la assenzia degli re
alcuna cosa delle antiche; crearono uno capo di detto sacrificio, il
quale loro chiamarono Re Sacrificulo, e sottomessonlo al sommo
Sacerdote: talmente che quel popolo per questa via venne a
sodisfarsi di quel sacrificio, e non avere mai cagione, per
mancamento di esso, di disiderare la ritornata de' re. E questo si
debbe osservare da tutti coloro che vogliono scancellare un antico
vivere in una città, e ridurla a uno vivere nuovo e libero:
perché, alterando le cose nuove le menti degli uomini, ti
debbi ingegnare che quelle alterazioni ritenghino più dello
antico sia possibile; e se i magistrati variano, e di numero e
d'autorità e di tempo, degli antichi, che almeno ritenghino
il nome. E questo, come ho detto, debbe osservare colui che vuole
ordinare uno vivere politico, o per via di republica o di regno: ma
quello che vuole fare una potestà assoluta, la quale dagli
autori è chiamata tirannide, debbe rinnovare ogni cosa, come
nel seguente capitolo si dirà.
26
Uno principe nuovo, in una città
o provincia presa da lui,
debbe fare ogni cosa nuova.
Qualunque diventa principe o d'una città o d'uno stato, e
tanto più quando i fondamenti suoi fussono deboli e non si
volga o per via di regno o di republica alla vita civile, il
megliore rimedio che egli abbia, a tenere quel principato, è,
sendo egli nuovo principe, fare ogni cosa, in quello stato, di
nuovo: come è, nelle città, fare nuovi governi con
nuovi nomi, con nuove autorità, con nuovi uomini; fare i
ricchi poveri, i poveri ricchi come fece Davit quando ei
diventò re: «qui esurientes implevit bonis, et divites
dimisit inanes»; edificare, oltra di questo, nuove
città, disfare delle edificate, cambiare gli abitatori da un
luogo a un altro; ed in somma, non lasciare cosa niuna intatta in
quella provincia e che non vi sia né grado, né ordine
né stato, né ricchezza, che chi la tiene non la
riconosca da te; e pigliare per sua mira Filippo di Macedonia, padre
di Alessandro, il quale, con questi modi, di piccol re,
diventò principe di Grecia. E chi scrive di lui, dice che
tramutava gli uomini di provincia in provincia, come e' mandriani
tramutano le mandrie loro. Sono questi modi crudelissimi, e nimici
d'ogni vivere, non solamente cristiano, ma umano; e debbegli
qualunque uomo fuggire, e volere piuttosto vivere privato, che re
con tanta rovina degli uomini; nondimeno, colui che non vuole
pigliare quella prima via del bene, quando si voglia mantenere
conviene che entri in questo male. Ma gli uomini pigliono certe vie
del mezzo, che sono dannosissime; perché non sanno essere
né tutti cattivi né tutti buoni: come nel seguente
capitolo, per esemplo, si mosterrà.
27
Sanno rarissime volte gli uomini
essere al tutto cattivi o al tutto buoni.
Papa Iulio secondo, andando nel 1505 a Bologna, per cacciare di
quello stato la casa de' Bentivogli, la quale aveva tenuto il
principato di quella città cento anni, voleva ancora trarre
Giovampagolo Baglioni di Perugia, della quale era tiranno, come
quello che aveva congiurato contro a tutti i tiranni che occupavano
le terre della Chiesa. E pervenuto presso a Perugia con questo animo
e deliberazione, nota a ciascuno, non aspettò di entrare in
quella città con lo esercito suo, che lo guardasse, ma vi
entrò disarmato, non ostante vi fusse drento Giovampagolo con
gente assai, quale per difesa di sé aveva ragunata. Sì
che, portato da quel furore con il quale governava tutte le cose,
con la semplice sua guardia si rimisse nelle mani del nimico; il
quale dipoi ne menò seco, lasciando un governatore in quella
città, che rendesse ragione per la Chiesa. Fu notata, dagli
uomini prudenti che col papa erano, la temerità del papa e la
viltà di Giovampagolo; né potevono estimare donde si
venisse che quello non avesse, con sua perpetua fama, oppresso ad un
tratto il nimico suo, e sé arricchito di preda, sendo col
papa tutti li cardinali, con tutte le loro delizie. Né si
poteva credere si fusse astenuto o per bontà o per conscienza
che lo ritenesse; perché in uno petto d'un uomo facinoroso,
che si teneva la sorella, che aveva morti i cugini e i nipoti per
regnare, non poteva scendere alcun pietoso rispetto: ma si
conchiuse, nascesse che gli uomini non sanno essere onorevolmente
cattivi, o perfettamente buoni, e, come una malizia ha in sé
grandezza, o è in alcuna parte generosa, e' non vi sanno
entrare. Così Giovampagolo, il quale non stimava essere
incesto e publico parricida, non seppe, o, a dir meglio, non
ardì, avendone giusta occasione, fare una impresa, dove
ciascuno avesse ammirato l'animo suo, e avesse di sé lasciato
memoria eterna, sendo il primo che avesse dimostro a' prelati,
quanto sia da stimare poco chi vive e regna come loro ed avessi
fatto una cosa, la cui grandezza avesse superato ogni infamia, ogni
pericolo, che da quella potesse dependere.
28
Per quale cagione i Romani
furono meno ingrati contro agli loro
cittadini che gli Ateniesi.
Qualunque legge le cose fatte dalle republiche, troverrà in
tutte qualche spezie d'ingratitudine contro a' suoi cittadini: ma ne
troverrà meno in Roma che in Atene, e per avventura in
qualunque altra republica. E ricercando la cagione di questo,
parlando di Roma e d'Atene credo accadessi perché i Romani
avevano meno cagione di sospettare de' suoi cittadini, che gli
Ateniesi. Perché a Roma, ragionando di lei dalla cacciata de'
Re infino a Silla e Mario, non fu mai tolta la libertà da
alcuno suo cittadino in modo che in lei non era grande cagione di
sospettare di loro, e, per conseguente, di offendergli
inconsideratamente. Intervenne bene ad Atene il contrario;
perché, sendogli tolta la libertà da Pisistrato nel
suo più florido tempo, e sotto uno inganno di bontà;
come prima la diventò poi libera, ricordandosi delle ingiurie
ricevute e della passata servitù, diventò prontissima
vendicatrice, non solamente degli errori, ma della ombra degli
errori de' suoi cittadini. Quinci nacque lo esilio e la morte di
tanti eccellenti uomini, quinci l'ordine dell'ostracismo, ed ogni
altra violenza che contro a' suoi ottimati in varii tempi da quella
città fu fatta. Ed è verissimo quello che dicono
questi scrittori della civilità: che i popoli mordono
più fieramente poi ch'egli hanno recuperata la
libertà, che poi che l'hanno conservata. Chi
considererà, adunque, quanto è detto, non
biasimerà in questo Atene, né lauderà Roma; ma
ne accuserà solo la necessità, per la diversità
degli accidenti che in queste città nacquero. Perché
si vedrà, chi considererà le cose sottilmente che, se
a Roma fusse stata tolta la libertà come a Atene, non sarebbe
stata Roma più pia verso i suoi cittadini, che si fusse
quella. Di che si può fare verissima coniettura per quello
che occorse, dopo la cacciata de' re, contro a Collatino ed a Publio
Valerio: de' quali il primo, ancora che si trovasse a liberare Roma,
fu mandato in esilio non per altra cagione che per tenere il nome
de' Tarquinii; l'altro, avendo solo dato di sé sospetto per
edificare una casa in sul monte Celio, fu ancora per esser fatto
esule. Talché si può stimare, veduto quanto Roma fu in
questi due sospettosa e severa, che l'arebbe usata la ingratitudine
come Atene, se da' suoi cittadini come quella, ne' primi tempi ed
innanzi allo augumento suo, fusse stata ingiuriata. E per non avere
a tornare più sopra questa materia della ingratitudine, ne
dirò, quello ne occorrerà, nel seguente capitolo.
29
Quale sia più ingrato,
o uno popolo o uno principe.
Egli mi pare, a proposito della soprascritta materia, da discorrere
quale usi con maggiori esempli questa ingratitudine, o uno popolo o
uno principe. E per disputare meglio questa parte, dico, come questo
vizio della ingratitudine nasce o dall'avarizia o da il sospetto.
Perché, quando o uno popolo o uno principe ha mandato fuori
uno suo capitano in una espedizione importante, dove quel capitano,
vincendola, ne abbi acquistata assai gloria, quel principe o quel
popolo è tenuto allo incontro a premiarlo: e se, in cambio di
premio, o e' lo disonora o e' l'offende, mosso dall'avarizia, non
volendo, ritenuto da questa cupidità, satisfarli; fa uno
errore che non ha scusa, anzi si tira dietro una infamia eterna.
Pure si truova molti principi che ci peccono. E Cornelio Tacito
dice, con questa sentenzia, la cagione: «Proclivius est
iniuriae, quam beneficio vicem exsolvere, quia gratia oneri, ultio
in questu habetur». Ma quando ei non lo premia, o, a dir
meglio, l'offende, non mosso da avarizia ma da sospetto, allora
merita, e il popolo e il principe, qualche scusa. E di queste
ingratitudini, usate per tale cagione, se ne legge assai:
perché quello capitano il quale virtuosamente ha acquistato
uno imperio al suo signore, superando i nimici, e riempiendo
sé di gloria e gli suoi soldati di ricchezze, di
necessità, e con i soldati suoi, e con i nimici, e con i
sudditi propri di quel principe, acquista tanta riputazione, che
quella vittoria non può sapere di buono a quel signore che lo
ha mandato. E perché la natura degli uomini è
ambiziosa e sospettosa, e non sa porre modo a nessuna sua fortuna,
è impossibile che quel sospetto che subito nasce nel principe
dopo la vittoria di quel suo capitano, non sia da quel medesimo
accresciuto per qualche suo modo o termine usato insolentemente.
Talché il principe non può pensare a altro che
assicurarsene: e, per fare questo, ei pensa o di farlo morire o di
torgli la riputazione, che si ha guadagnata nel suo esercito o ne'
suoi popoli; e con ogni industria mostrare che quella vittoria
è nata non per la virtù di quello ma per fortuna, o
per viltà de' nimici, o per prudenza degli altri capi che
sono stati seco in tale fazione. Poiché Vespasiano, sendo in
Giudea fu dichiarato dal suo esercito imperadore, Antonio Primo, che
si trovava con un altro esercito in Illiria, prese le parti sue, e
vennene in Italia contro a Vitellio, quale regnava a Roma, e
virtuosissimamente ruppe dua eserciti Vitelliani, e occupò
Roma, talché Muziano, mandato da Vespasiano, trovò,
per la virtù d'Antonio, acquistato il tutto, e vinta ogni
difficultà. Il premio che Antonio ne riportò, fu che
Muziano gli tolse subito la ubbidienza dello esercito, e a poco a
poco lo ridusse in Roma sanza alcuna autorità: talché
Antonio ne andò a trovare Vespasiano, quale era ancora in
Asia, dal quale fu in modo ricevuto, che, in breve tempo, ridotto in
nessuno grado, quasi disperato morì. E di questi esempli ne
sono piene le istorie. Ne' nostri tempi, ciascuno che al presente
vive, sa con quanta industria e virtù Consalvo Ferrante,
militando nel regno di Napoli contro a' Franciosi, per Ferrando re
di Ragona, conquistassi e vincessi quel regno; e come, per premio di
vittoria, ne riportò che Ferrando si partì da Ragona,
e, venuto a Napoli, in prima gli levò la ubbidienza delle
genti d'armi, dipoi gli tolse le fortezze, ed appresso lo
menò seco in Spagna; dove, poco tempo poi, inonorato,
morì. È tanto, dunque, naturale questo sospetto ne'
principi, che non se ne possono difendere; ed è impossibile
ch'egli usino gratitudine a quelli che con vittoria hanno fatto,
sotto le insegne loro, grandi acquisti.
E da quello che non si difende un principe, non è miracolo,
né cosa degna di maggior memoria, se uno popolo non se ne
difende. Perché, avendo una città che vive libera,
duoi fini, l'uno lo acquistare, l'altro il mantenersi libera;
conviene che nell'una cosa e nell'altra per troppo amore erri.
Quanto agli errori nello acquistare, se ne dirà nel luogo
suo. Quanto agli errori per mantenersi libera, sono, intra gli
altri, questi: di offendere quegli cittadini che la doverrebbe
premiare; avere sospetto di quegli in cui la si doverrebbe
confidare. E benché questi modi in una republica venuta alla
corruzione sieno cagione di gran mali, e che molte volte piuttosto
la viene alla tirannide, come intervenne a Roma di Cesare, che per
forza si tolse quello che la ingratitudine gli negava; nondimeno in
una republica non corrotta sono cagione di gran beni, e fanno che la
ne vive libera; più mantenendosi, per paura di punizione, gli
uomini migliori e meno ambiziosi. Vero è che infra tutti i
popoli che mai ebbero imperio, per le cagioni di sopra discorse,
Roma fu la meno ingrata: perché della sua ingratitudine si
può dire che non ci sia altro esemplo che quello di Scipione;
perché Coriolano e Cammillo furono fatti esuli per ingiuria
che l'uno e l'altro avea fatto alla plebe. Ma all'uno non fu
perdonato, per aversi sempre riserbato contro al popolo l'animo
inimico; l'altro, non solamente fu richiamato, ma per tutti i tempi
della sua vita adorato come principe. Ma la ingratitudine usata a
Scipione nacque da uno sospetto che i cittadini cominciarono avere
di lui, che degli altri non si era avuto: il quale nacque dalla
grandezza del nimico che Scipione aveva vinto, dalla riputazione che
gli aveva data la vittoria di sì lunga e pericolosa guerra,
dalla celerità di essa, dai favori che la gioventù, la
prudenza, e le altre sue memorabili virtudi gli acquistavano. Le
quali cose furono tante, che, non che altro, i magistrati di Roma
temevano della sua autorità: la quale cosa dispiaceva agli
uomini savi, come cosa inusitata in Roma. E parve tanto
straordinario il vivere suo, che Catone Prisco, riputato santo, fu
il primo a fargli contro; e a dire che una città non si
poteva chiamare libera, dove era uno cittadino che fusse temuto dai
magistrati. Talché se il popolo di Roma seguì in
questo caso la opinione di Catone, merita quella scusa che di sopra
ho detto meritare quegli popoli e quegli principi che per sospetto
sono ingrati. Conchiudendo adunque questo discorso, dico che,
usandosi questo vizio della ingratitudine o per avarizia o per
sospetto, si vedrà come i popoli non mai per avarizia la
usarono, e per sospetto assai manco che i principi, avendo meno
cagione di sospettare: come di sotto si dirà.
30
Quali modi debbe usare uno principe
o una republica per fuggire questo vizio
della ingratitudine; e quali quel capitano
o quel cittadino per non essere oppresso
da quella.
Uno principe, per fuggire questa necessità di avere a vivere
con sospetto, o essere ingrato, debbe personalmente andare nelle
espedizioni, come facevono nel principio quegli imperadori romani,
come fa ne' tempi nostri il Turco, e come hanno fatto e fanno quegli
che sono virtuosi. Perché, vincendo, la gloria e lo acquisto
è tutto loro, e quando ei non vi sono, sendo la gloria
d'altrui, non par loro potere usare quello acquisto, se non spengano
in altrui quella gloria che loro non hanno saputo guadagnarsi; e
diventono ingrati ed ingiusti: e sanza dubbio è maggiore la
loro perdita che il guadagno. Ma quando, o per negligenza o per poca
prudenza, e' si rimangono a casa oziosi, e mandano uno capitano; io
non ho che precetto dare loro, altro che quello che per loro
medesimi si sanno. Ma dico bene a quel capitano, giudicando io che
non possa fuggire i morsi della ingratitudine, che facci una delle
due cose: o subito dopo la vittoria lasci lo esercito, e rimettasi
nelle mani del suo principe, guardandosi da ogni atto insolente o
ambizioso, acciocché quello, spogliato d'ogni sospetto, abbia
cagione o di premiarlo o di non lo offendere; o, quando questo non
gli paia di fare, prenda animosamente la parte contraria, e tenga
tutti quelli modi per li quali creda che quello acquisto sia suo
proprio e non del principe suo, faccendosi benivoli i soldati ed i
sudditi; e facci nuove amicizie co' vicini, occupi con li suoi
uomini le fortezze, corrompa i principi del suo esercito, e di
quelli che non può corrompere si assicuri; e per questi modi
cerchi di punire il suo signore di quella ingratitudine che esso gli
userebbe. Altre vie non ci sono: ma, come di sopra si disse, gli
uomini non sanno essere né al tutto tristi, né al
tutto buoni; e sempre interviene che, subito dopo la vittoria,
lasciare lo esercito non vogliono, portarsi modestamente non
possono, usare termini violenti e che abbiano in sé
l'onorevole non sanno; talché, stando ambigui, intra quella
loro dimora ed ambiguità, sono oppressi.
Quanto a una republica, volendo fuggire questo vizio dello ingrato,
non si può dare il medesimo rimedio che al principe;
cioè che vadia, e non mandi, nelle espedizioni sue, sendo
necessitata a mandare uno suo cittadino. Conviene, pertanto, che per
rimedio io le dia, che la tenga i medesimi modi che tenne la
Republica romana a essere meno ingrata che l'altre. Il che nacque
dai modi del suo governo. Perché, adoperandosi tutta la
città, e gli nobili e gli ignobili, nella guerra, surgeva
sempre in Roma in ogni età tanti uomini virtuosi, ed ornati
di varie vittorie, che il popolo non aveva cagione di dubitare
d'alcuno di loro, sendo assai, e guardando l'uno l'altro. E in tanto
si mantenevano interi e respettivi di non dare ombra di alcuna
ambizione né cagione al popolo, come ambiziosi,
l'offendergli, che, venendo alla dittatura quello maggiore gloria ne
riportava che più tosto la diponeva. E così, non
potendo simili modi generare sospetto, non generavano ingratitudine.
In modo che, una republica che non voglia avere cagione d'essere
ingrata, si debba governare come Roma, e uno cittadino che voglia
fuggire quelli suoi morsi, debbe osservare i termini osservati da'
cittadini romani.
31
Che i capitani romani per errore
commesso non furano mai
istraordinariamente puniti; né furano
mai ancora puniti
quando per la ignoranza loro
o tristi partiti presi da loro
ne fusse seguiti danni alla republica.
I Romani non solamente, come di sopra avemo discorso, furano manco
ingrati che l'altre republiche, ma ancora furano più pii e
più rispettivi nella punizione de' loro capitani degli
eserciti che alcuna altra. Perché se il loro errore fusse
stato per malizia, e' lo gastigavano umanamente; se gli era per
ignoranza, non che lo punissono, e' lo premiavano ed onoravano.
Questo modo del procedere era bene considerato da loro:
perché e' giudicavano che fusse di tanta importanza, a quelli
che governavano gli eserciti loro, lo avere l'animo libero ed
espedito, e sanza altri estrinseci rispetti nel pigliare i partiti,
che non volevono aggiugnere, a una cosa per sé stessa
difficile e pericolosa, nuove difficultà e pericoli; pensando
che, aggiugnendoveli, nessuno potessi essere che operassi mai
virtuosamente. Verbigrazia, e' mandavano uno esercito in Grecia
contro a Filippo di Macedonia, o in Italia contro a Annibale, o
contro a quelli popoli che vinsono prima. Era, questo capitano che
era preposto a tale espedizione, angustiato da tutte quelle cure che
si arrecavano dietro quelle faccende, le quali sono gravi e
importantissime. Ora, se a tali cure si fussi aggiunto più
esempli de' Romani ch'eglino avessono crucifissi o altrimenti morti
quelli che avessono perdute le giornate, egli era inpossibile che
quello capitano intra tanti sospetti potessi deliberare
strenuamente. Però, giudicando essi che a questi tali fusse
assai pena la ignominia dello avere perduto, non li vollono con
altra maggiore pena sbigottire.
Uno esemplo ci è, quanto allo errore commesso non per
ignoranza. Erano Sergio e Virginio a campo a Veio, ciascuno preposto
a una parte dello esercito; de' quali Sergio era all'incontro donde
potevono venire i Toscani, e Virginio dall'altra parte. Occorse che,
sendo assaltato Sergio da' Falisci e da altri popoli,
sopportò di essere rotto e fugato prima che mandare per aiuto
a Virginio. E dall'altra parte Virginio, aspettando che si
umiliasse, volle più tosto vedere il disonore della patria
sua e la rovina di quello esercito, che soccorrerlo. Caso veramente
malvagio e degno d'essere notato, e da fare non buona coniettura
della Republica romana, se l'uno o l'altro non fussono stati
gastigati. Vero è che, dove un'altra republica gli averebbe
puniti di pena capitale, quella gli punì in denari. Il che
nacque non perché i peccati loro non meritassono maggiore
punizione, ma perché gli Romani vollono in questo caso, per
le ragioni già dette, mantenere gli antichi costumi loro. E
quando agli errori per ignoranza, non ci è il più
bello esemplo che quello di Varrone: per la temerità del
quale sendo rotti i Romani a Canne da Annibale, dove quella
Republica portò pericolo della sua libertà; nondimeno,
perché vi fu ignoranza e non malizia, non solamente non lo
gastigarono ma lo onorarono; e gli andò incontro, nella
tornata sua in Roma, tutto l'ordine senatorio: e non lo potendo
ringraziare della zuffa, lo ringraziarono ch'egli era tornato in
Roma, e non si era disperato delle cose romane. Quando Papirio
Cursore voleva fare morire Fabio, per avere, contro al suo
comandamento, combattuto co' Sanniti; intra le altre ragioni che dal
padre di Fabio erano assegnate contro alla ostinazione del
dittatore, era che il popolo romano in alcuna perdita de' suoi
capitani non aveva fatto mai quello che Papirio nelle vittorie
voleva fare.
32
Una republica o uno principe
non debbe differire
a beneficare gli uomini
nelle sue necessitadi.
Ancora che ai Romani succedesse felicemente essere liberali al
popolo, sopravvenendo il pericolo, quando Porsenna venne a assaltare
Roma per rimettere i Tarquinii; dove il Senato, dubitando della
plebe, che la non volesse più tosto accettare i re che
sostenere la guerra, per assicurarsene la sgravò delle
gabelle del sale, e d'ogni gravezza, dicendo come i poveri assai
operavano in beneficio publico se ei nutrivono i loro figliuoli; e
che per questo beneficio quel popolo si esponessi a sopportare
ossidione, fame e guerra; non sia alcuno che, confidatosi in questo
esemplo, differisca ne' tempi de' pericoli a guadagnarsi il popolo;
però che mai gli riuscirà quello che riuscì ai
Romani. Perché l'universale giudicherà non avere quel
bene da te, ma dagli avversari tuoi, e dovendo temere che, passata
la necessità, tu ritolga loro quello che hai forzatamente
loro dato, non arà teco obligo alcuno. E la cagione
perché a' Romani tornò bene questo partito, fu
perché lo stato era nuovo, e non per ancora fermo; e aveva
veduto quel popolo, come innanzi si erano fatte leggi in beneficio
suo, come quella dell'appellagione alla plebe; in modo che ei
potette persuadersi che quel bene gli era fatto, non era tanto
causato dalla venuta dei nimici, quanto dalla disposizione del
Senato in beneficarli. Oltre a questo, la memoria dei re era fresca,
dai quali erano stati in molti modi vilipesi e ingiuriati. E
perché simili cagioni accaggiono rade volte, occorrerà
ancora rade volte che simili rimedi giovino. Però, debbe
qualunque tiene stato, così republica come principe,
considerare innanzi, quali tempi gli possono venire addosso
contrari, e di quali uomini ne' tempi avversi si può avere di
bisogno; e dipoi vivere con loro in quello modo che giudica,
sopravvegnente qualunque caso, essere necessitato vivere. E quello
che altrimenti si governa, o principe o republica, e massime un
principe, e poi in sul fatto crede, quando il pericolo sopravviene,
con i beneficii riguadagnarsi gli uomini, se ne inganna:
perché, non solamente non se ne assicura, ma accelera la sua
rovina.
33
Quando uno inconveniente è cresciuto
o in uno stato o contro a uno stato,
è più salutifero partito temporeggiarlo
che urtarlo.
Crescendo la Republica romana in riputazione, forze ed imperio, i
vicini, i quali prima non avevano pensato quanto quella nuova
republica potesse arrecare loro di danno, cominciarono, ma tardi, a
conoscere lo errore loro; e volendo rimediare a quello che prima non
aveano rimediato, congiurarono bene quaranta popoli contro a Roma:
donde i Romani intra gli altri rimedii soliti farsi da loro negli
urgenti pericoli, si volsono a creare il Dittatore, cioè dare
potestà a uno uomo che sanza alcuna consulta potesse
diliberare, e sanza alcuna appellagione potesse esequire le sue
diliberazioni. Il quale rimedio, come allora fu utile, e fu cagione
che vincessero i soprastanti pericoli, così fu sempre
utilissimo in tutti quegli accidenti che, nello augumento dello
imperio, in qualunque tempo surgessono contro alla Republica.
Sopra il quale accidente è da discorrere prima, come, quando
uno inconveniente, che surga o in una republica o contro a una
republica, causato da cagione intrinseca o estrinseca, è
diventato tanto grande che e' cominci a fare paura a ciascuno,
è molto più sicuro partito temporeggiarsi con quello,
che tentare di estinguerlo. Perché, quasi sempre, coloro che
tentano di ammorzarlo fanno le sue forze maggiori, e fanno
accelerare quel male che da quello si sospettava. E di questi simili
accidenti ne nasce nella republica più spesso per cagione
intrinseca che estrinseca: dove molte volte, o e' si lascia pigliare
ad uno cittadino più forze che non è ragionevole, o e'
si comincia a corrompere una legge, la quale è il nervo e la
vita del vivere libero; e lasciasi trascorrere questo errore in
tanto, che gli è più dannoso partito il volere
rimediare che lasciarlo seguire. E tanto è più
difficile il conoscere questi inconvenienti quando e' nascono,
quanto e' pare più naturale agli uomini favorire sempre i
principii delle cose: e tali favori possano, più che in
alcuna altra cosa, nelle opere che paiano che abbiano in sé
qualche virtù e siano operate da' giovani. Perché se
in una republica si vede surgere uno giovane nobile, quale abbia in
sé virtù istraordinaria, tutti gli occhi de' cittadini
si cominciono a voltare verso lui e concorrere,sanza alcuno
rispetto, a onorarlo; in modo che, se in quello è punto
d'ambizione, accozzati i favori che gli dà la natura e questo
accidente, viene subito in luogo che, quando i cittadini si
avveggono dello errore loro, hanno pochi rimedi ad ovviarvi e
volendo quegli tanti ch'egli hanno, operarli, non fanno altro che
accelerare la potenza sua.
Di questo se ne potrebbe addurre assai esempli, ma io ne voglio
solamente dare uno della città nostra. Cosimo de' Medici, dal
quale la casa de' Medici in la nostra città ebbe il principio
della sua grandezza, venne in tanta riputazione col favore che gli
dette la sua prudenza e la ignoranza degli altri cittadini, che ei
cominciò a fare paura allo stato, in modo che gli altri
cittadini giudicavano l'offenderlo pericoloso ed il lasciarlo stare
così, pericolosissimo. Ma vivendo in quei tempi
Niccolò da Uzzano, il quale nelle cose civili era tenuto uomo
espertissimo, ed avendo fatto il primo errore di non conoscere i
pericoli che dalla riputazione di Cosimo potevano nascere; mentre
che visse, non permesse mai che si facesse il secondo, cioè
che si tentasse di volerlo spegnere; giudicando tale tentazione
essere al tutto la rovina dello stato loro; come si vide in fatto,
che fu, dopo la sua morte: perché, non osservando quegli
cittadini che rimasono, questo suo consiglio, si feciono forti
contro a Cosimo, e lo cacciorono da Firenze. Donde ne nacque che la
sua parte, per questa ingiuria risentitasi, poco di poi lo
richiamò, e lo fece principe della republica: a il quale
grado sanza quella manifesta opposizione non sarebbe mai potuto
salire.
Questo medesimo intervenne a Roma con Cesare, che, favorita da
Pompeio e dagli altri quella sua virtù, si convertì
poco dipoi quel favore in paura: di che fa testimone Cicerone,
dicendo che Pompeio aveva tardi cominciato a temere Cesare. La quale
paura fece che pensarono ai rimedi; e gli rimedi che fecero,
accelerarono la rovina della loro Republica.
Dico, adunque, che poi che gli è difficile conoscere questi
mali quando ei surgano, causata questa difficultà da uno
inganno che ti fanno le cose in principio, è più savio
partito il temporeggiarle poi che le si conoscono, che l'oppugnarle:
perché, temporeggiandole, o per loro medesime si spengono, o
almeno il male si differisce in più lungo tempo. E in tutte
le cose debbono aprire gli occhi i principi che disegnano
cancellarle o alle forze ed impeto loro opporsi; di non dare loro,
in cambio di detrimento, augumento; e, credendo sospingere una cosa,
tirarsela dietro, ovvero suffocare una pianta a annaffiarla. Ma si
debbano considerare bene le forze del malore, e quando ti vedi
sufficiente a sanare quello, metterviti sanza rispetto; altrimenti
lasciarlo stare, né in alcun modo tentarlo. Perché
interverrebbe, come di sopra si discorre, come intervenne a' vicini
di Roma: ai quali, poiché Roma era cresciuta in tanta
potenza, era più salutifero con gli modi della pace cercare
di placarla e ritenerla addietro, che coi modi della guerra farle
pensare ai nuovi ordini e alle nuove difese. Perché quella
loro congiura non fece altro che farli più uniti, più
gagliardi, e pensare a modi nuovi, mediante i quali in più
breve tempo ampliarono la potenza loro. Intra i quali fu la
creazione del Dittatore; per lo quale nuovo ordine, non solamente
superarono i soprastanti pericoli ma fu cagione di ovviare a
infiniti mali, ne' quali sanza quello rimedio quella republica
sarebbe incorsa.
34
L'autorità dittatoria fece bene,
e non danno, alla Republica romana:
e come le autorità che i cittadini
si tolgono, non quelle che sono loro
dai suffragi liberi date,
sono alla vita civile perniziose.
E' sono stati dannati da alcuno scrittore quelli Romani che
trovarono in quella città modo di creare il Dittatore, come
cosa che fosse cagione, col tempo, della tirannide di Roma;
allegando, come il primo tiranno che fosse in quella città la
comandò sotto questo titolo dittatorio; dicendo che, se non
vi fusse stato questo Cesare non arebbe potuto sotto alcuno titolo
publico adonestare la sua tirannide. La quale cosa non fu bene, da
colui che tiene questa opinione, esaminata, e fu fuori d'ogni
ragione creduta. Perché, e' non fu il nome né il grado
del Dittatore che facesse serva Roma, ma fu l'autorità presa
dai cittadini per la lunghezza dello imperio: e se in Roma fusse
mancato il nome dittatorio, ne arebbono preso un altro;
perché e' sono le forze che facilmente si acquistano i nomi,
non i nomi le forze. E si vede che 'l Dittatore, mentre fu dato
secondo gli ordini publici, e non per autorità propria, fece
sempre bene alla città. Perché e' nuocono alle
republiche i magistrati che si fanno e l'autoritadi che si
dànno per vie istraordinarie, non quelle che vengono per vie
ordinarie: come si vede che seguì in Roma, in tanto processo
di tempo, che mai alcuno Dittatore fece se non bene alla Republica.
Di che ce ne sono ragioni evidentissime. Prima, perché a
volere che un cittadino possa offendere, e pigliarsi autorità
istraordinaria, conviene ch'egli abbia molte qualità, le
quali in una republica non corrotta non può mai avere:
perché gli bisogna essere ricchissimo, ed avere assai
aderenti e partigiani, i quali non può avere dove le leggi si
osservano; e quando pure ve gli avessi, simili uomini sono in modo
formidabili, che i suffragi liberi non concorrano in quelli. Oltra
di questo, il Dittatore era fatto a tempo, e non in perpetuo, e per
ovviare solamente a quella cagione mediante la quale era creato; e
la sua autorità si estendeva in potere diliberare per
sé stesso circa i rimedi di quello urgente pericolo, e fare
ogni cosa sanza consulta, e punire ciascuno sanza appellagione: ma
non poteva fare cosa che fussi in diminuzione dello stato; come
sarebbe stato tôrre autorità al Senato o al Popolo,
disfare gli ordini vecchi della città, e farne de' nuovi. In
modo che, raccozzato il breve tempo della sua dittatura, e le
autorità limitate che egli aveva, ed il popolo romano non
corrotto; era impossibile ch'egli uscisse de' termini suoi, e
nocessi alla città: e per esperienza si vede che sempre mai
giovò.
E veramente, infra gli altri ordini romani, questo è uno che
merita essere considerato e numerato infra quegli che furono cagione
della grandezza di tanto imperio; perché sanza uno simile
ordine le cittadi con difficultà usciranno degli accidenti
istraordinari. Perché gli ordini consueti nelle republiche
hanno il moto tardo (non potendo alcuno consiglio né alcuno
magistrato per sé stesso operare ogni cosa, ma avendo in
molte cose bisogno l'uno dell'altro, e perché nel raccozzare
insieme questi voleri va tempo) sono i rimedi loro pericolosissimi,
quando egli hanno a rimediare a una cosa che non aspetti tempo. E
però le republiche debbano intra loro ordini avere uno simile
modo: e la Republica viniziana, la quale intra le moderne republiche
è eccellente, ha riservato autorità a pochi cittadini,
che ne' bisogni urgenti, sanza maggiore consulta, tutti d'accordo
possino deliberare. Perché, quando in una republica manca uno
simile modo, è necessario, o, servando gli ordini, rovinare,
o, per non ruinare, rompergli. Ed in una republica non vorrebbe mai
accadere cosa che con modi straordinari si avesse a governare.
Perché, ancora che il modo straordinario per allora facesse
bene, nondimeno lo esemplo fa male; perché si mette una
usanza di rompere gli ordini per bene, che poi, sotto quel colore,
si rompono per male. Talché mai fia perfetta una republica,
se con le leggi sue non ha provisto a tutto, e ad ogni accidente
posto il rimedio, e dato il modo a governarlo. E però,
conchiudendo, dico che quelle republiche, le quali negli urgenti
pericoli non hanno rifugio o al Dittatore o a simili autoritadi,
sempre ne' gravi accidenti rovineranno. È da notare in questo
nuovo ordine il modo dello eleggerlo, quanto dai Romani fu
saviamente provisto. Perché, sendo la creazione del Dittatore
con qualche vergogna dei Consoli, avendo, di capi della
città, a divenire sotto una ubbidienza come gli altri; e
presupponendo che di questo avessi a nascere isdegno fra' cittadini;
vollono che l'autorità dello eleggerlo fosse nei Consoli:
pensando che, quando l'accidente venisse che Roma avesse bisogno di
questa regia potestà, ei lo avessono a fare volentieri e
facendolo loro, che dolesse loro meno. Perché le ferite ed
ogni altro male che l'uomo si fa da sé spontaneamente e per
elezione, dolgano di gran lunga meno, che quelle che ti sono fatte
da altrui. Ancora che poi negli ultimi tempi i Romani usassono, in
cambio del Dittatore, di dare tale autorità al Console, con
queste parole: «Videat Consul, ne Respublica quid detrimenti
capiat». E per tornare alla materia nostra, conchiudo, come i
vicini di Roma, cercando opprimergli, gli fecerono ordinare, non
solamente a potersi difendere, ma a potere, con più forza,
più consiglio e più autorità, offendere loro.
35
La cagione perché la creazione in Roma
del Decemvirato fu nociva alla libertà
di quella republica, non ostante
che fusse creato per suffragi publici
e liberi.
E' pare contrario a quel che di sopra è discorso, che quella
autorità che si occupa con violenza, non quella ch'è
data con gli suffragi, nuoce alle republiche, la elezione dei dieci
cittadini creati dal Popolo romano per fare le leggi in Roma: i
quali ne diventarono con il tempo tiranni, e sanza alcuno rispetto
occuparono la libertà di quella. Dove si debbe considerare i
modi del dare l'autorità e il tempo per che la si dà.
E quando e' si dia autorità libera, col tempo lungo,
chiamando il tempo lungo uno anno o più, sempre fia
pericolosa, e farà gli effetti o buoni o rei, secondo che
siano rei o buoni coloro a chi la sarà data. E se si
considerrà l'autorità che ebbero i Dieci, e quella che
avevano i Dittatori, si vedrà, sanza comparazione, quella de'
Dieci maggiore. Perché, creato il Dittatore, rimanevano i
Tribuni, i Consoli, il Senato, con la loro autorità;
né il Dittatore la poteva tôrre loro: e s'egli avessi
potuto privare, uno del Consolato, uno del Senato, ei non poteva
annullare l'ordine senatorio, e fare nuove leggi. In modo che il
Senato, i Consoli, i Tribuni, restando con l'autorità loro,
venivano a essere come sua guardia, a farlo non uscire della via
diritta. Ma nella creazione de' Dieci occorse tutto il contrario:
perché gli annullorono i Consoli ed i Tribuni; dettero loro
autorità di fare legge, ed ogni altra cosa, come il Popolo
romano. Talché, trovandosi soli, sanza Consoli, sanza
Tribuni, sanza appellagione al Popolo; e per questo non venendo ad
avere chi gli osservasse ei poterono, il secondo anno, mossi
dall'ambizione di Appio, diventare insolenti. E per questo si debbe
notare, che, quando e' si è detto che una autorità,
data da' suffragi liberi, non offese mai alcuna republica, si
presuppone che un popolo non si conduca mai a darla, se non con le
debite circunstanze e ne' debiti tempi: ma quando, o per essere
ingannato, o per qualche altra cagione che lo accecasse, e' si
conducesse a darla imprudentemente, e nel modo che il Popolo romano
la dette a' Dieci gl'interverrà sempre come a quello. Questo
si prova facilmente, considerando quali cagioni mantenessero i
Dittatori buoni, e quali facessero i Dieci cattivi; e considerando
ancora, come hanno fatto quelle republiche che sono state tenute
bene ordinate, nel dare l'autorità per lungo tempo, come
davano gli Spartani agli loro Re, e come dànno i Viniziani ai
loro Duci: perché si vedrà, all'uno ed all'altro modo
di costoro essere poste guardie, che facevano che ei non potevano
usare male quella autorità. Né giova, in questo caso,
che la materia non sia corrotta; perché una autorità
assoluta in brevissimo tempo corrompe la materia e si fa amici e
partigiani. Né gli nuoce, o essere povero, o non avere
parenti; perché le ricchezze ed ogni altro favore subito gli
corre dietro: come particularmente nella creazione de' detti Dieci
discorrereno.
36
Non debbano i cittadini,
che hanno avuti i maggiori onori,
sdegnarsi de' minori.
Avevano i Romani fatto Marco Fabio e G. Manilio consoli, e vinta una
gloriosissima giornata contro a' Veienti e gli Etruschi; nella quale
fu morto Quinto Fabio, fratello del consolo, quale lo anno davanti
era stato consolo. Dove si debbe considerare quanto gli ordini di
quella città erano atti a farla grande; e quanto le altre
republiche, che si discostono da' modi suoi, s'ingannino.
Perché, ancora che i Romani fossono amatori grandi della
gloria, nondimeno non stimavano così disonorevole ubbidire
ora a chi altra volta essi avevano comandato, e trovarsi a servire
in quello esercito del quale erano stati principi. Il quale costume
è contrario alla opinione, ordini e modi de' cittadini de'
tempi nostri: ed in Vinegia è ancora questo errore, che uno
cittadino, avendo avuto un grado grande, si vergogni di accettarne
uno minore; e la città gli consenta che se ne possa
discostare. La quale cosa, quando fusse onorevole per il privato,
è al tutto inutile per il publico. Perché più
speranza debbe avere una republica, e più confidare in uno
cittadino che da uno grado grande scenda a governare uno minore che
in quello che da uno minore salga a governare uno maggiore.
Perché a costui non può ragionevolmente credere, se
non gli vede uomini intorno, i quali siano di tanta riverenza o di
tanta virtù che la novità di colui possa essere, con
il consiglio ed autorità loro, moderata. E quando in Roma
fosse stata la consuetudine quale è a Vinegia e nell'altre
republiche e regni moderni, che chi era stato una volta Consolo non
volesse mai più andare negli eserciti se non Consolo, ne
sarebbero nate infinite cose in disfavore del vivere libero; e per
gli errori che arebbon fatti gli uomini nuovi, e per l'ambizione che
loro arebbono potuta usare meglio, non avendo uomini intorno, nel
cospetto de' quali ei temessono errare; e così sarebbero
venuti a essere più sciolti: il che sarebbe tornato tutto in
detrimento publico.
37
Quali scandoli partorì in Roma
la legge agraria: e come fare una legge
in una republica, che riguardi
assai indietro, e sia contro a una
consuetudine antica della città,
è scandolosissimo.
Egli è sentenzia degli antichi scrittori, come gli uomini
sogliono affliggersi nel male e stuccarsi nel bene; e come dall'una
e dall'altra di queste due passioni nascano i medesimi effetti.
Perché, qualunque volta è tolto agli uomini il
combattere per necessità, combattono per ambizione; la quale
è tanto potente ne' petti umani, che mai, a qualunque grado
si salgano, gli abbandona. La cagione è, perché la
natura ha creati gli uomini in modo che possono desiderare ogni
cosa, e non possono conseguire ogni cosa: talché, essendo
sempre maggiore il desiderio che la potenza dello acquistare, ne
risulta la mala contentezza di quello che si possiede, e la poca
sodisfazione d'esso. Da questo nasce il variare della fortuna loro:
perché, disiderando gli uomini, parte di avere più,
parte temendo di non perdere lo acquistato, si viene alle inimicizie
ed alla guerra; dalla quale nasce la rovina di quella provincia e la
esaltazione di quell'altra. Questo discorso ho fatto, perché
alla Plebe romana non bastò assicurarsi de' nobili per la
creazione de' Tribuni, al quale desiderio fu costretta per
necessità; che lei, subito, ottenuto quello, cominciò
a combattere per ambizione, e volere con la Nobiltà dividere
gli onori e le sustanze, come cosa stimata più dagli uomini.
Da questo nacque il morbo che partorì la contenzione della
legge agraria, che infine fu causa della distruzione della
Republica. E perché le republiche bene ordinate hanno a
tenere ricco il publico e gli loro cittadini, poveri, convenne che
fusse nella città di Roma difetto in questa legge: la quale o
non fusse fatta nel principio in modo che la non si avesse ogni
dì a ritrattare, o che si differisse tanto in farla, che
fosse scandoloso il riguardarsi indietro o, sendo ordinata bene da
prima, era stata poi dall'uso corrotta, talché in qualunque
modo si fusse, mai non si parlò di questa legge in Roma, che
quella città non andasse sottosopra.
Aveva questa legge due capi principali. Per l'uno si disponeva che
non si potesse possedere per alcuno cittadino più che tanti
iugeri di terra; per l'altro, che i campi di che si privavano i
nimici, si dividessono intra il popolo romano. Veniva pertanto a
fare di dua sorte offese ai nobili: perché quegli che
possedevano più beni non permetteva la legge (quali erano la
maggiore parte de' nobili), ne avevano a essere privi, e dividendosi
intra la plebe i beni de' nimici, si toglieva a quegli la via dello
arricchire. Sicché, venendo a essere queste offese contro a
uomini potenti, e, che pareva loro, contrastandola, difendere il
publico, qualunque volta, come è detto, si ricordava, andava
sottosopra tutta quella città: e i nobili con pazienza ed
industria la temporeggiavano o con trarre fuora uno esercito o che a
quel Tribuno che la proponeva si opponesse un altro Tribuno, o
talvolta cederne parte, ovvero mandare una colonia in quel luogo che
si avesse a distribuire: come intervenne del contado di Anzio, per
il quale surgendo questa disputa della legge, si mandò in
quel luogo una colonia, tratta di Roma, alla quale si consegnasse
detto contado. Dove Tito Livio usa un termine notabile, dicendo che
con difficultà si trovò in Roma chi desse il nome per
ire in detta colonia: tanto era quella plebe più pronta a
volere desiderare le cose in Roma, che a possederle in Anzio.
Andò questo omore di questa legge, così,
travagliandosi un tempo, tanto che gli Romani cominciarono a
condurre le loro armi nelle estreme parti di Italia, o fuori di
Italia; dopo al quale tempo parve che la cessassi. Il che nacque
perché i campi che possedevano i nimici di Roma essendo
discosti agli occhi della plebe, ed in luogo dove non gli era facile
il cultivargli, veniva a essere meno desiderosa di quegli: e ancora
i Romani erano meno punitori de' loro nimici in simil modo; e quando
pure spogliavano alcuna terra del suo contado, vi distribuivano
colonie. Tanto che, per tali cagioni, questa legge stette come
addormentata infino ai Gracchi; da' quali essendo poi svegliata,
rovinò al tutto la libertà romana; perché la
trovò raddoppiata la potenza de' suoi avversari, e si accese,
per questo, tanto odio intra la Plebe ed il Senato, che si venne
nelle armi ed al sangue, fuori d'ogni modo e costume civile.
Talché, non potendo i publici magistrati rimediarvi,
né sperando più alcuna delle fazioni in quegli, si
ricorse ai rimedi privati, e ciascuna delle parti pensò di
farsi uno capo che la difendesse. Prevenne in questo scandolo e
disordine la plebe, e volse la sua riputazione a Mario tanto che la
lo fece quattro volte consule; ed in tanto continovò con
pochi intervalli il suo consolato, che si potette per sé
stesso far consulo tre altre volte. Contro alla quale peste non
avendo la Nobilità alcuno rimedio, si volse a favorire Silla;
e fatto, quello, capo della parte sua, vennero alle guerre civili;
e, dopo molto sangue e variare di fortuna, rimase superiore la
Nobilità. Risuscitarono poi questi omori a tempo di Cesare e
di Pompeio; perché, fattosi Cesare capo della parte di Mario,
e Pompeio di quella di Silla, venendo alle mani, rimase superiore
Cesare: il quale fu primo tiranno in Roma; talché mai fu poi
libera quella città.
Tale, adunque, principio e fine ebbe la legge agraria. E
benché noi mostrassimo altrove, come le inimicizie di Roma
intra il Senato e la Plebe mantenessero libera Roma, per nascerne,
da quelle, leggi in favore della libertà, e per questo paia
disforme a tale conclusione il fine di questa legge agraria; dico
come, per questo, io non mi rimuovo da tale opinione: perché
gli è tanta l'ambizione de' grandi, che, se per varie vie ed
in vari modi ella non è in una città sbattuta, tosto
riduce quella città alla rovina sua. In modo che, se la
contenzione della legge agraria penò trecento anni a fare
Roma serva, si sarebbe condotta, per avventura, molto più
tosto in servitù quando la plebe, e con questa legge e con
altri suoi appetiti, non avesse sempre frenato l'ambizione de'
nobili. Vedesi per questo ancora, quanto gli uomini stimano
più la roba che gli onori. Perché la Nobilità
romana sempre negli onori cede sanza scandoli straordinari alla
plebe; ma come si venne alla roba fu tanta la ostinazione sua nel
difenderla, che la plebe ricorse, per isfogare l'appetito suo, a
quegli straordinari che di sopra si discorrono. Del quale disordine
furono motori i Gracchi, de' quali si debbe laudare più la
intenzione che la prudenzia. Perché, a volere levar via uno
disordine cresciuto in una republica, e per questo fare una legge
che riguardi assai indietro, è partito male considerato; e,
come di sopra largamente si discorse, non si fa altro che accelerare
quel male, a che quel disordine ti conduce: ma, temporeggiandolo, o
il male viene più tardo, o per sé medesimo col tempo
avanti che venga al fine suo, si spegne.
38
Le republiche deboli sono male risolute
e non si sanno diliberare; e se le pigliano
mai alcun partito, nasce più da necessità
che da elezione.
Essendo in Roma una gravissima pestilenza, e parendo per questo agli
Volsci ed agli Equi che fusse venuto il tempo di potere oppressare
Roma, fatto questi due popoli uno grossissimo esercito, assaltarono
i Latini e gli Ernici; e guastando il loro paese, furono costretti i
Latini e gli Ernici farlo intendere a Roma, e pregare che fossero
difesi da' Romani: ai quali, sendo i Romani gravati dal morbo,
risposero che pigliassero partito di difendersi da loro medesimi e
con le loro armi, perché essi non gli potevano difendere.
Dove si conosce la generosità e prudenza di quel Senato, e
come sempre in ogni fortuna volle essere quello che fusse principe
delle diliberazioni che avessero a pigliare i suoi; né si
vergognò mai diliberare una cosa che fusse contraria al suo
modo di vivere o ad altre diliberazioni fatte da lui, quando la
necessità gliene comandava.
Questo dico, perché altre volte il medesimo Senato aveva
vietato ai detti popoli l'armarsi e difendersi; talché a uno
Senato meno prudente di questo sarebbe paruto cadere del grado suo a
concedere loro tale difensione. Ma quello sempre giudicò le
cose come si debbano giudicare, e sempre prese il meno reo partito
per migliore: perché male gli sapeva non potere difendere i
suoi sudditi, male gli sapeva che si armassero sanza loro, per le
ragioni dette e per molte altre che s'intendano: nondimeno,
conoscendo che si sarebbono armati, per necessità, a ogni
modo, avendo il nimico addosso; prese la parte onorevole, e volle
che quello che gli aveano a fare, lo facessero con licenza sua,
acciocché, avendo disubbidito per necessità, non si
avvezzassero a disubbidire per elezione. E benché questo paia
partito che da ciascuna republica dovesse essere preso, nientedimeno
le republiche deboli e male consigliate non gli sanno pigliare,
né si sanno onorare di simili necessità. Aveva il duca
Valentino presa Faenza, e fatto calare Bologna agli accordi suoi.
Dipoi, volendo tornarsene a Roma per la Toscana, mandò in
Firenze uno suo uomo a domandare il passo per sé e per lo
esercito suo. Consultossi in Firenze come si avesse a governare
questa cosa, né fu mai consigliato per alcuno di
concedergliene. In che non si seguì il modo romano:
perché, sendo il Duca armatissimo, ed i Fiorentini in modo
disarmati che non gli potevan vietare il passare, era molto
più onore loro, che paresse che passasse con volontà
di quegli, che a forza; perché, dove vi fu al tutto il loro
vituperio, sarebbe stato in parte minore quando l'avessero governata
altrimenti. Ma la più cattiva parte che abbiano le republiche
deboli, è essere inresolute; in modo che tutti i partiti che
le pigliono, gli pigliono per forza; e se vien loro fatto alcun
bene, lo fanno forzate, e non per prudenza loro.
Io voglio dare di questo due altri esempli, occorsi ne' tempi
nostri, nello stato della nostra città.
Nel 1500, ripreso che il re Luigi XII di Francia ebbe Milano,
desideroso di rendervi Pisa, per avere cinquantamila ducati che gli
erano stati promessi da' Fiorentini dopo tale restituzione,
mandò gli suoi eserciti verso Pisa, capitanati da monsignore
di Beumonte; benché francese, nondimanco uomo in cui i
Fiorentini assai confidavano. Condussesi questo esercito e questo
capitano intra Cascina e Pisa, per andare a combattere le mura; dove
dimorando alcuno giorno per ordinarsi alla espugnazione, vennono
oratori Pisani a Beumonte, e gli offerirono di dare la città
allo esercito francese con questi patti: che, sotto la fede del re,
promettesse non la mettere in mano de' Fiorentini, prima che dopo
quattro mesi. Il quale partito fu da' Fiorentini al tutto rifiutato,
in modo che si seguì nello andarvi a campo e partirsene con
vergogna. Né fu rifiutato il partito per altra cagione che
per diffidare della fede del re; come quegli che per debolezza di
consiglio si erano per forza messi nelle mani sue, e, dall'altra
parte, non se ne fidavano, ne vedevano quanto era meglio che il re
potesse rendere loro Pisa sendovi dentro, e, non la rendendo,
scoprire l'animo suo, che, non la avendo, poterla loro promettere, e
loro essere forzati comperare quelle promesse. Talché, molto
più utilmente arebbono fatto a acconsentire che Beumonte
l'avessi, sotto qualunque promessa, presa: come se ne vide la
esperienza dipoi nel 1502, che, essendosi ribellato Arezzo, venne ai
soccorsi de' Fiorentini mandato da il re di Francia monsignor Imbalt
con gente francese; il quale, giunto propinquo ad Arezzo, dopo poco
tempo cominciò a praticare accordo con gli Aretini, i quali
sotto certa fede volevon dare la terra, a similitudine de' Pisani.
Fu rifiutato in Firenze tale partito; il che veggendo monsignor
Imbalt, e parendogli come i Fiorentini se ne intendessero poco,
cominciò a tenere le pratiche dello accordo da sé,
sanza partecipazione de' Commessari: tanto che ei lo conchiuse a suo
modo, e, sotto quello, con le sue genti se n'entrò in Arezzo,
faccendo intendere ai Fiorentini come egli erano matti, e non
s'intendevano delle cose del mondo: che, se volevano Arezzo, lo
facessero intendere a il re, il quale lo poteva dare loro molto
meglio, avendo le sua gente in quella città, che fuori. Non
si restava in Firenze di lacerare e biasimare detto Imbalt;
né si restò mai infino a tanto che si conobbe che, se
Beumonte fosse stato simile a Imbalt, si sarebbe avuto Pisa come
Arezzo.
E così, per tornare a proposito, le republiche inresolute non
pigliono mai partiti buoni, se non per forza, perché la
debolezza loro non le lascia mai deliberare dove è alcuno
dubbio; e se quel dubbio non è cancellato da una violenza che
le sospinga, stanno sempre mai sospese.
39
In diversi popoli si veggano spesso
i medesimi accidenti.
E' si conosce facilmente, per chi considera le cose presenti e le
antiche, come in tutte le città ed in tutti i popoli sono
quegli medesimi desiderii e quelli medesimi omori, e come vi furono
sempre. In modo che gli è facil cosa, a chi esamina con
diligenza le cose passate, prevedere in ogni republica le future, e
farvi quegli rimedi che dagli antichi sono stati usati; o, non ne
trovando degli usati, pensarne de' nuovi, per la similitudine degli
accidenti. Ma perché queste considerazioni sono neglette, o
non intese da chi legge, o, se le sono intese, non sono conosciute
da chi governa; ne seguita che sempre sono i medesimi scandoli in
ogni tempo.
Avendo la città di Firenze, dopo il 94, perso parte dello
imperio suo, come Pisa ed altre terre, fu necessitata fare guerra a
coloro che le occupavano. E perché chi le occupava era
potente, ne seguiva che si spendeva assai nella guerra, sanza alcun
frutto; dallo spendere assai, ne risultava assai gravezze; dalle
gravezze, infinite querele del popolo: e perché questa guerra
era amministrata da uno magistrato di dieci cittadini che si
chiamavano i Dieci della guerra, l'universale cominciò a
recarselo in dispetto, come quello che fusse cagione e della guerra
e delle spese d'essa; e cominciò a persuadersi che, tolto via
detto magistrato, fusse tolto via la guerra, tanto che, avendosi a
rifare, non se gli fecero gli scambi; e lasciatosi spirare, si
mandarono le azioni sue alla Signoria. La quale diliberazione fu
tanto perniziosa, che, non solamente non levò la guerra, come
lo universale si persuadeva, ma, tolto via quegli uomini che con
prudenza l'amministravano, ne seguì tanto disordine, che,
oltre a Pisa, si perdé Arezzo e molti altri luoghi: in modo
che, ravvedutosi il popolo dello errore suo, e come la cagione del
male era la febbre e non il medico, rifece il magistrato de' Dieci.
Questo medesimo omore si levò in Roma contro al nome de'
Consoli: perché veggendo quello popolo nascere l'una guerra
dall'altra, e non poter mai riposarsi; dove e' dovevano pensare che
la nascessi dall'ambizione de' vicini che gli volevano opprimere,
pensavano nascessi dall'ambizione de' nobili, che, non potendo
dentro in Roma gastigare la Plebe difesa dalla potestà
tribunizia, la volevon condurre fuora di Roma sotto i Consoli, per
oppressarla dove la non aveva aiuto alcuno. E pensarono, per questo,
che fusse necessario o levar via i Consoli, o regolare in modo la
loro potestà, che e' non avessono autorità sopra il
popolo né fuori né in casa. Il primo che tentò
questa legge, fu uno Terentillo tribuno; il quale proponeva che si
dovessero creare cinque uomini che dovessero considerare la potenza
de' Consoli, e limitarla. Il che alterò assai la
Nobilità, parendogli che la maiestà dello imperio
fusse al tutto declinata, talché alla Nobilità non
restasse più alcun grado in quella Republica. Fu nondimeno
tanta l'ostinazione de' Tribuni, che 'l nome consolare si spense; e
furono in fine contenti, dopo qualche altro ordine, più tosto
creare Tribuni con potestà consolare, che Consoli: tanto
avevano più in odio il nome che l'autorità loro. E
così seguitarono lungo tempo, infine che, conosciuto l'errore
loro, come i Fiorentini ritornarono a' Dieci, così loro
ricreorno i Consoli.
40
La creazione del Decemvirato in Roma,
e quello che in essa è da notare:
dove si considera, intra molte altre cose,
come si può o salvare, per simile
accidente, o oppressare una republica.
Volendo discorrere particularmente sopra gli accidenti che nacquero
in Roma per la creazione del Decemvirato, non mi pare soperchio
narrare, prima, tutto quello che seguì per simile creazione,
e dopo disputare quelle parti che sono, in esse azioni, notabili: le
quali sono molte e di grande considerazione, così per coloro
che vogliono mantenere una republica libera, come per quelli che
disegnassono sottometterla. Perché in tale discorso si
vedrà, molti errori fatti dal Senato e dalla plebe in
disfavore della libertà; e molti errori fatti da Appio, capo
del Decemvirato, in disfavore di quella tirannide che egli si aveva
presupposto stabilire in Roma. Dopo molte disputazioni e contenzioni
seguite intra il Popolo e la Nobilità per fermare nuove leggi
in Roma, per le quali si stabilisse più la libertà di
quello stato, mandarono, d'accordo, Spurio Pestumio, con duoi altri
Cittadini, a Atene, per gli esempli di quelle leggi che Solone dette
a quella città, acciocché sopra quelle potessono
fondare le leggi romane. Andati e tornati costoro, si venne alla
creazione degli uomini che avessero ad esaminare e fermare dette
leggi; e crearono dieci cittadini per uno anno, intra i quali fu
creato Appio Claudio, uomo sagace ed inquieto. E perché e'
potessono, sanza alcun rispetto, creare tali leggi, si levarono di
Roma tutti gli altri magistrati, ed in particulare i Tribuni ed i
Consoli, e levossi lo appello al Popolo; in modo che tale magistrato
veniva a essere al tutto principe di Roma. Appresso ad Appio si
ridusse tutta l'autorità degli altri suoi compagni, per i
favori che gli faceva la Plebe; perché egli s'era fatto in
modo popolare con le dimostrazioni, che pareva maraviglia ch'egli
avesse preso sì presto una nuova natura e uno nuovo ingegno,
essendo stato tenuto, innanzi a questo tempo, uno crudele
perseguitatore della plebe.
Governaronsi questi Dieci assai civilmente, non tenendo più
che dodici littori, i quali andavano davanti a quello ch'era infra
loro proposto. E benché gli avessono l'autorità
assoluta, nondimeno, avendosi a punire uno cittadino romano per
omicida, lo citorno nel cospetto del popolo, e da quello lo fecero
giudicare. Scrissero le loro leggi in dieci tavole; ed avanti che le
confermassero, le messono in publico, acciocché ciascuno le
potesse leggere e disputarle; acciocché si conoscesse se vi
era alcun difetto, per poterle innanzi alla confermazione loro
emendare. Fece, in su questo, Appio nascere un romore per Roma, che,
se a queste dieci tavole se ne aggiugnesse due altre, si darebbe a
quelle la loro perfezione; talché questa opinione dette
occasione al popolo di rifare i Dieci per un altro anno: a che il
popolo s'accordò volentieri, sì perché i
Consoli non si rifacessono, sì perché e' pareva loro
potere stare sanza Tribuni, sendo loro giudici delle cause, come
disopra si disse. Preso, dunque, partito di rifarli, tutta la
Nobilità si mosse a cercare questi onori; ed intra i primi
era Appio; ed usava tanta umanità verso la plebe nel
domandarlo, che la cominciò a essere sospetta a' suoi
compagni: «credebant enim haud gratuitam in tanta superbia
comitatem fore». E dubitando di opporsegli apertamente,
deliberarono farlo con arte, e benché e' fusse minore di
tempo di tutti dettono a lui autorità di proporre i futuri
Dieci al popolo, credendo ch'egli osservassi i termini degli altri
di non proporre sé medesimo, sendo cosa inusitata e
ignominiosa in Roma. «Ille vero impedimentum pro occasione
arripuit» e nominò sé intra i primi, con
maraviglia e dispiacere di tutti i nobili; nominò dipoi nove
altri, a suo proposito. La quale nuova creazione, fatta per uno
altro anno, cominciò a mostrare al Popolo ed alla
Nobilità lo errore suo. Perché subito «Appius
finem fecit ferendae alienae personae»; e cominciò a
mostrare la innata sua superbia, ed in pochi dì
riempié de' suoi costumi i suoi compagni. E per isbigottire
il popolo ed il Senato in cambio di dodici littori, ne feciono cento
venti.
Stette la paura equale qualche giorno; ma cominciarono poi a
intrattenere il Senato, e batter la plebe: e se alcuno battuto
dall'uno, appellava all'altro, era peggio trattato nell'appellagione
che nella prima sentenzia. In modo che la Plebe, conosciuto lo
errore suo, cominciò piena di afflizione a riguardare in viso
i nobili, «et inde libertatis captare auram, unde servitutem
timendo, in eum statum rempublicam adduxerunt». E alla
Nobilità era grata questa loro afflizione, «ut ipsi,
taedio praesentium, Consules desiderarent». Vennono i
dì che terminavano l'anno: le due tavole delle leggi erano
fatte, ma non publicate. Da questo i Dieci presono occasione di
continovare nel magistrato; e cominciarono a tenere con violenza lo
stato, e farsi satelliti della gioventù nobile, alla quale
davono i beni di quegli che loro condennavano. «Quibus donis
juventus corrumpebatur et malebat licentiam suam, quam omnium
libertatem». Nacque in questo tempo, che i Sabini ed i Volsci
mossero guerra a' Romani; in su la quale paura cominciarono i Dieci
a vedere la debolezza dello stato loro, perché sanza il
Senato non potevono ordinare la guerra, e, ragunando il Senato,
pareva loro perdere lo stato. Pure, necessitati, presono questo
ultimo partito; e ragunati i senatori insieme, molti de' senatori
parlarono contro alla superbia de' Dieci, e in particulare Valerio
ed Orazio: e l'autorità loro si sarebbe al tutto spenta, se
non che il Senato, per invidia della Plebe, non volle mostrare
l'autorità sua pensando che, se i Dieci deponevano il
magistrato voluntari, che potesse essere che i Tribuni della plebe
non si rifacessero. Deliberossi dunque la guerra uscissi fuori con
dua eserciti guidati da parte di detti Dieci; Appio rimase a
governare la città. Donde nacque che si innamorò di
Virginia, e che, volendola tôrre per forza, il padre Virginio,
per liberarla, l'ammazzò: donde seguirono i tumulti di Roma e
degli eserciti: i quali riduttisi insieme con il rimanente della
plebe romana, se ne andarono nel Monte Sacro, dove stettero tanto
che i Dieci deposono il magistrato, e che furono creati i Tribuni ed
i Consoli, e ridotta Roma nella forma della sua antica
libertà.
Notasi adunque, per questo testo, in prima, essere nato in Roma
questo inconveniente di creare questa tirannide per quelle medesime
cagioni che nascano la maggior parte delle tirannidi nelle
città: e questo è da troppo desiderio del popolo,
d'essere libero, e da troppo desiderio de' nobili, di comandare. E
quando e' non convengano a fare una legge in favore della
libertà, ma gettasi qualcuna delle parti a favorire uno,
allora è che subito la tirannide surge. Convennono il popolo
ed i nobili di Roma a creare i Dieci, e crearli con tanta
autorità, per il desiderio che ciascuna delle parti aveva,
l'una di spegnere il nome consolare, l'altra il tribunizio. Creati
che furono, parendo alla plebe che Appio fusse diventato popolare e
battessi la Nobilità, si volse il popolo a favorirlo. E
quando uno popolo si conduce a fare questo errore, di dare
riputazione a uno, perché batta quelli che egli ha in odio, e
che quello uno sia savio, sempre interverrà ch'e'
diventerà tiranno di quella città. Perché egli
attenderà, insieme col favore del popolo, a spegnere la
Nobilità; e non si volterà mai alla oppressione del
popolo, se non quando e' l'arà spenta; nel quale tempo,
conosciutosi il popolo essere servo, non abbi dove rifuggire. Questo
modo hanno tenuto tutti coloro che hanno fondato tirannide in le
republiche. E se questo modo avesse tenuto Appio, quella sua
tirannide arebbe presa più vita, e non sarebbe mancata
sì presto: ma e' fece tutto il contrario, né si
potette governare più imprudentemente; che, per tenere la
tirannide, e' si fece inimico di coloro che gliele avevano data e
che gliele potevano mantenere, ed inimico di quelli che non erano
concorsi a dargliene e che non gliene arebbono potuta mantenere; e
perdessi coloro che gli erano amici, e cercò di avere amici
quegli che non gli potevano essere amici. Perché, ancora che
i nobili desiderino tiranneggiare, quella parte della
Nobilità che si truova fuori della tirannide, è sempre
inimica al tiranno; né quello se la può guadagnare mai
tutta, per l'ambizione grande e grande avarizia che è in lei
non potendo il tiranno avere né tante ricchezze né
tanti onori che a tutta satisfaccia. E così Appio, lasciando
il popolo ed accostandosi a' nobili, fece uno errore evidentissimo,
e per le ragioni dette di sopra, e perché, a volere con
violenza tenere una cosa, bisogna che sia più potente chi
sforza che chi è sforzato.
Donde nasce che quegli tiranni che hanno amico l'universale ed
inimici i grandi, sono più sicuri, per essere la loro
violenza sostenuta da maggiori forze, che quella di coloro che hanno
per inimico il popolo e amica la Nobilità. Perché con
quello favore bastono a conservarsi le forze intrinseche: come
bastarono a Nabide, tiranno di Sparta, quando tutta Grecia e il
Popolo romano lo assaltò: il quale, assicuratosi di pochi
nobili, avendo amico il Popolo, con quello si difese; il che non
arebbe potuto fare avendolo inimico. In quello altro grado per avere
pochi amici dentro, non bastono le forze intrinseche, ma gli
conviene cercare di fuora. Ed hanno a essere di tre sorte: l'una
satelliti forestieri, che ti guardino la persona, l'altra armare il
contado, che faccia quello ufficio che arebbe a fare la plebe, la
terza accostarsi con vicini potenti che ti difendino. Chi tiene
questi modi e gli osserva bene, ancora ch'egli avesse per inimico il
popolo, potrebbe in qualche modo salvarsi. Ma Appio non poteva fare
questo, di guadagnarsi il contado, sendo una medesima cosa il
contado e Roma: e quel che poteva fare, non seppe: talmente che
rovinò ne' primi principii suoi. Fecero il Senato ed il
Popolo in questa creazione del Decemvirato errori grandissimi:
perché, avvenga che di sopra si dica, in quel discorso che si
fa del Dittatore, che quegli magistrati che si fanno da per loro,
non quelli che fa il popolo, sono nocivi alla libertà;
nondimeno il popolo debbe, quando egli ordina i magistrati, fargli
in modo che gli abbino avere qualche rispetto a diventare scelerati.
E dove e' si debbe preporre loro guardia per mantenergli buoni, i
Romani la levarono, faccendolo solo magistrato in Roma, ed
annullando tutti gli altri, per la eccessiva voglia (come di sopra
dicemo) che il Senato aveva di spegnere i Tribuni, e la plebe di
spegnere i Consoli; la quale gli accecò in modo, che
concorsono in tale disordine. Perché gli uomini, come diceva
il re Ferrando, spesso fanno come certi minori uccelli di rapina;
ne' quali è tanto desiderio di conseguire la loro preda, a
che la natura gl'incita, che non sentono uno altro maggiore uccello
che sia loro sopra per ammazzarli. Conoscesi, adunque, per questo
discorso, come nel principio preposi, lo errore del popolo romano,
volendo salvare la libertà, e gli errori di Appio, volendo
occupare la tirannide.
41
Saltare dalla umiltà alla superbia,
dalla piatà alla crudeltà,
sanza i debiti mezzi, è cosa imprudente
e inutile.
Oltre agli altri termini male usati da Appio per mantenere la
tirannide, non fu di poco momento saltare troppo presto da una
qualità a un'altra. Perché l'astuzia sua nello
ingannare la plebe simulando d'essere uomo popolare, fu bene usata;
furono ancora bene usati i termini che tenne perché i Dieci
si avessono a rifare; fu ancora bene usata quella audacia di creare
sé stesso contro alla opinione della Nobilità; fu bene
usato creare compagni a suo proposito: ma non fu già bene
usato, come egli ebbe fatto questo, secondo che disopra dico,
mutare, in uno subito, natura; e, di amico, mostrarsi inimico alla
plebe; di umano, superbo; di facile, difficile; e farlo tanto
presto, che, sanza scusa niuna, ogni uomo avesse a conoscere la
fallacia dello animo suo. Perché chi è paruto buono un
tempo, e vuole a suo proposito diventar cattivo, lo debbe fare per i
debiti mezzi; ed in modo condurvisi con le occasioni, che, innanzi
che la diversa natura ti tolga de' favori vecchi, la te ne abbia
dati tanti de' nuovi, che tu non venga a diminuire la tua
autorità: altrimenti, trovandoti scoperto e sanza amici,
rovini.
42
Quanto gli uomini facilmente
si possono corrompere.
Notasi ancora, in questa materia del Decemvirato, quanto facilmente
gli uomini si corrompono, e fannosi diventare di contraria natura,
quantunque buoni e bene ammaestrati; considerando quanto quella
gioventù che Appio si aveva eletta intorno, cominciò a
essere amica della tirannide per uno poco di utilità che
gliene conseguiva; e come Quinto Fabio, uno del numero de' secondi
Dieci, sendo uomo ottimo, accecato da uno poco d'ambizione, e
persuaso dalla malignità di Appio, mutò i suoi buoni
costumi in pessimi, e diventò simile a lui. Il che esaminato
bene, farà tanto più pronti i latori di leggi delle
republiche o de' regni a frenare gli appetiti umani, e tôrre
loro ogni speranza di potere impune errare.
43
Quegli che combattono per la gloria
propria, sono buoni e fedeli soldati.
Considerasi ancora, per il soprascritto trattato, quanta differenzia
è da uno esercito contento e che combatte per la gloria sua,
a quello che è male disposto e che combatte per l'ambizione
d'altrui. Perché, dove gli eserciti romani solevano sempre
essere vittoriosi sotto i Consoli, sotto i Decemviri sempre
perderono. Da questo esemplo si può conoscere, in parte,
delle cagioni della inutilità de' soldati mercenari; i quali
non hanno altra cagione che gli tenga fermi, che un poco di
stipendio che tu dai loro. La qual cagione non è né
può essere bastante a fargli fedeli, né tanto tuoi
amici, che voglino morire per te. Perché in quegli eserciti
che non è un'affezione verso di quello per chi e' combattono,
che gli faccia diventare suoi partigiani, non mai vi potrà
essere tanta virtù che basti a resistere a uno nimico un poco
virtuoso. E perché questo amore non può nascere,
né questa gara, da altro che da' sudditi tuoi; è
necessario, a volere tenere uno stato, a volere mantenere una
republica o uno regno, armarsi de' sudditi suoi: come si vede che
hanno fatto tutti quelli che con gli eserciti hanno fatto grandi
profitti. Avevano gli eserciti romani sotto i Dieci quella medesima
virtù; ma perché in loro non era quella medesima
disposizione, non facevono gli usitati loro effetti. Ma come prima
il magistrato de' Dieci fu spento, e che loro come liberi
cominciorono a militare, ritornò in loro il medesimo animo; e
per consequente, le loro imprese avevono il loro fine felice,
secondo l'antica consuetudine loro.
44
Una moltitudine sanza capo è inutile:
e come e' non si debbe minacciare prima,
e poi chiedere l'autorità.
Era la plebe romana, per lo accidente di Virginia, ridotta armata
nel Monte Sacro. Mandò il Senato suoi ambasciadori a
dimandare con quale autorità gli avevano abbandonati i loro
capitani, e ridottosi nel Monte. E tanto era stimata
l'autorità del Senato, che, non avendo la plebe intra loro
capi, niuno si ardiva a rispondere. E Tito Livio dice, che e' non
mancava loro materia a rispondere, ma mancava loro chi facesse la
risposta. La qual cosa dimostra appunto la inutilità d'una
moltitudine sanza capo. Il quale disordine fu conosciuto da
Virginio, e per suo ordine si creò venti Tribuni militari,
che fossero loro capi, a rispondere e convenire col Senato. Ed
avendo chiesto che si mandasse loro Valerio ed Orazio, a' quali loro
direbbono la voglia loro, non vi vollono andare se prima i Dieci non
deponevano il magistrato: e arrivati sopra il Monte dove era la
Plebe, fu domandato loro da quella, che volevano che si creassero i
Tribuni della Plebe, e che si avesse a appellare al Popolo da ogni
magistrato, e che si dessono loro tutti i Dieci che gli volevono
ardere vivi. Laudarono Valerio ed Orazio le prime loro domande;
biasimarono l'ultima come impia, dicendo: «Crudelitatem
damnatis, in crudelitatem ruitis»; e consigliarongli che
dovessono lasciare il fare menzione de' Dieci, e ch'egli
attendessero a ripigliare l'autorità e potestà loro:
dipoi non mancherebbe loro modo a sodisfarsi. Dove apertamente si
conosce quanta stultizia e poca prudenza è domandare una
cosa, e dire prima: io voglio fare il tale male con essa;
perché non si debbe mostrare l'animo suo, ma vuolsi cercare
di ottenere quel suo desiderio in ogni modo. Perché e' basta
a domandare a uno l'arme, sanza dire: io ti voglio ammazzare con
esse; potendo, poi che tu hai l'arme in mano, soddisfare allo
appetito tuo.
45
È cosa di malo esemplo non osservare
una legge fatta, e massime
dallo autore d'essa; e rinfrescare
ogni dì nuove ingiurie in una città,
è, a chi la governa, dannosissimo.
Seguito lo accordo, e ridotta Roma in l'antica sua forma, Virginio
citò Appio innanzi al Popolo, a difendere la sua causa.
Quello comparse accompagnato da molti nobili: Virginio
comandò che fusse messo in prigione. Cominciò Appio a
gridare, ed appellare al Popolo. Virginio diceva che non era degno
di avere quella appellagione che egli aveva distrutta, ed avere per
difensore quel Popolo che egli aveva offeso: Appio replicava, come
e' non avevano a violare quella appellagione che gli aveva con tanto
desiderio ordinata. Pertanto egli fu incarcerato, ed avanti al
dì del giudizio ammazzò se stesso. E benché la
scelerata vita di Appio meritasse ogni supplicio, nondimeno fu cosa
poco civile violare le leggi, e tanto più quella che era
fatta allora. Perché io non credo che sia cosa di più
cattivo esemplo in una republica, che fare una legge e non la
osservare; e tanto più, quanto la non è osservata da
chi l'ha fatta. Essendo Firenze, dopo al 94, stata riordinata nello
stato suo con lo aiuto di frate Girolamo Savonerola, gli scritti del
quale mostrono la dottrina, la prudenza, e la virtù dello
animo suo; ed avendo, intra le altre costituzioni per assicurare i
cittadini, fatto fare una legge, che si potesse appellare al Popolo
dalle sentenzie che, per casi di stato, gli Otto e la Signoria
dessono; la quale legge persuase più tempo, e con
difficultà grandissima ottenne; occorse che, poco dopo la
confermazione d'essa, furono condannati a morte dalla Signoria, per
conto di stato, cinque cittadini; e volendo quegli appellare, non
furono lasciati, e non fu osservata la legge. Il che tolse
più riputazione a quel frate, che alcuno altro accidente:
perché, se quella appellagione era utile, e' doveva farla
osservare, se la non era utile, non doveva farla vincere. E tanto
più fu notato questo accidente, quanto che il frate, in tante
predicazioni che fece poi che fu rotta questa legge, non mai o
dannò chi l'aveva rotta, o lo scusò; come quello che
dannare non la voleva come cosa che gli tornava a proposito, e
scusare non la poteva. Il che avendo scoperto l'animo suo ambizioso
e partigiano, gli tolse riputazione, e dettegli assai carico.
Offende ancora uno stato assai, rinfrescare ogni dì nello
animo de' tuoi cittadini nuovi umori per nuove ingiurie che a questo
e quello si facciano: come intervenne a Roma dopo il Decemvirato.
Perché tutti i Dieci, ed altri cittadini in diversi tempi,
furono accusati e condennati; in modo che gli era uno spavento
grandissimo in tutta la Nobilità, giudicando che e' non si
avesse mai a porre fine a simili condennagioni, fino a tanto che
tutta la Nobilità non fusse distrutta. Ed arebbe generato, in
quella città, grande inconveniente, se da Marco Duellio
tribuno non vi fusse stato proveduto; il quale fece uno editto, che
per uno anno non fusse lecito a alcuno citare o accusare alcuno
cittadino romano: il che rassicurò tutta la Nobilità.
Dove si vede quanto sia dannoso a una republica o a un principe,
tenere con le continove pene ed offese sospesi e paurosi gli animi
de' sudditi. E sanza dubbio non si può tenere il più
pernizioso ordine: perché gli uomini che cominciono a
dubitare di avere a capitare male, in ogni modo si assicurano ne'
pericoli, e diventono più audaci, e meno respettivi a tentare
cose nuove. Però è necessario o non offendere mai
alcuno, o fare le offese a un tratto: e dipoi rassicurare gli
uomini, e dare loro cagione di quietare e fermare l'animo.
46
Li uomini salgono da una ambizione
a un'altra; e prima si cerca non essere
offeso, dipoi si offende altrui.
Avendo il Popolo romano recuperata la libertà e ritornato nel
suo pristino grado ed in tanto maggiore quanto si erano fatte di
molte leggi nuove in confermazione della sua potenza; pareva
ragionevole che Roma qualche volta quietassi. Nondimeno, per
esperienza si vide in contrario; perché ogni dì vi
surgeva nuovi tumulti e nuove discordie. E perché Tito Livio
prudentissimamente rende la ragione donde questo nasceva, non mi
pare se non a proposito referire appunto le sue parole, dove dice
che sempre o il Popolo o la Nobilità insuperbiva, quando
l'altro si umiliava; e stando la plebe quieta intra i termini suoi,
cominciarono i giovani nobili a ingiuriarla; ed i Tribuni vi potevon
fare pochi rimedi, perché, loro anche, erano violati. La
Nobilità, dall'altra parte, ancora che gli paresse che la sua
gioventù fusse troppo feroce, nonpertanto aveva a caro che,
avendosi a trapassare il modo, lo trapassassono i suoi, e non la
plebe. E così il disiderio di difendere la libertà
faceva che ciascuno tanto si prevaleva ch'egli oppressava l'altro. E
l'ordine di questi accidenti è che, mentre che gli uomini
cercono di non temere, cominciono a fare temere altrui; e quella
ingiuria che gli scacciano da loro, la pongono sopra un altro; come
se fusse necessario offendere o essere offeso. Vedesi, per questo,
in quale modo, fra gli altri, le republiche si risolvono, ed in che
modo gli uomini salgono da un'ambizione a un'altra, e come quella
sentenza sallustiana, posta in bocca di Cesare, e verissima:
«quod omnia mala exempla bonis initiis orta sunt».
Cercono, come di sopra è detto, quegli cittadini che
ambiziosamente vivono in una republica, la prima cosa, di non potere
essere offesi, non solamente dai privati, ma etiam da' magistrati:
cercono, per poter fare questo, amicizie; e quelle acquistano per
vie in apparenza oneste, o con sovvenire di danari, o con difenderli
da' potenti: e perché questo pare virtuoso, inganna
facilmente ciascuno, e per questo non vi si pone rimedi; in tanto
che lui, sanza ostaculo perseverando, diventa di qualità che
i privati cittadini ne hanno paura, ed i magistrati gli hanno
rispetto. E quando egli è salito a questo grado, e non si sia
prima ovviato alla sua grandezza, viene a essere in termine, che
volerlo urtare è pericolosissimo, per le ragioni che io
dissi, di sopra, del pericolo ch'è nello urtare un
inconveniente che abbi di già fatto assai augumento in una
città: tanto che la cosa si riduce in termine che bisogna, o
cercare di spegnerlo con pericolo d'una subita rovina, o,
lasciandolo fare, entrare in una servitù manifesta, se morte
o qualche accidente non te ne libera. Perché, venuto a'
soprascritti termini, che i cittadini e magistrati abbino paura a
offendere lui e gli amici suoi, non dura dipoi molta fatica a fare
che giudichino ed offendino a suo modo. Donde una republica intra
gli ordini suoi debbe avere questo, di vegghiare che i suoi
cittadini, sotto ombra di bene non possino fare male; e ch'egli
abbino quella riputazione che giovi, e non nuoca, alla
libertà, come nel suo luogo da noi sarà disputato.
47
Gli uomini, come che s'ingannino
ne' generali, ne' particulari
non s'ingannono.
Essendosi il Popolo romano, come di sopra si disse, recato a noia il
nome consolare, e volendo che potessono essere fatti Consoli uomini
plebei, o che fusse diminuita la loro autorità; la
Nobilità, per non maculare l'autorità consolare
né con l'una né con l'altra cosa, prese una via di
mezzo, e fu contenta che si creassi quattro Tribuni con
potestà consolare, i quali potessono essere così
plebei come nobili. Fu contenta a questo la plebe, parendole
spegnere il Consolato, ed avere in questo sommo grado la parte sua.
Nacquene di questo uno caso notabile: che, venendosi alla creazione
di questi Tribuni, e potendosi creare tutti plebei, furono dal
Popolo romano creati tutti nobili. Onde Tito Livio dice queste
parole: «Quorum comitiorum eventus docuit, alios animos in
contentione libertatis et honoris, alios secundum deposita certamina
in incorrupto iudicio esse». Ed esaminando donde possa
procedere questo, credo proceda che gli uomini nelle cose generali
s'ingannono assai, nelle particulari non tanto. Pareva generalmente
alla Plebe romana di meritare il Consolato, per avere più
parte in la città, per portare più pericolo nelle
guerre, per essere quella che con le braccia sue manteneva Roma
libera, e la faceva potente. E parendogli, come è detto,
questo suo desiderio ragionevole, volse ottenere questa
autorità in ogni modo. Ma come la ebbe a fare giudicio degli
uomini suoi particularmente, conobbe la debolezza di quegli, e
giudicò che nessuno di loro meritasse quello che tutta
insieme gli pareva meritare. Talché, vergognatasi di loro,
ricorse a quegli che lo meritavano. Della quale diliberazione
maravigliandosi meritamente Tito Livio, dice queste parole:
«Hanc modestiam aequitatemque et altitudinem animi, ubi nunc
in uno inveneris, quae tunc populi universi fuit?».
In confirmazione di questo, se ne può addurre un altro
notabile esemplo, seguito in Capova da poi che Annibale ebbe rotti i
Romani a Canne. Per la quale rotta sendo tutta sollevata Italia,
Capova ancora stava per tumultuare, per l'odio che era intra 'l
popolo ed il Senato: e trovandosi in quel tempo nel supremo
magistrato Pacuvio Calano, e conoscendo il pericolo che portava
quella città di tumultuare, disegnò con suo grado
riconciliare la Plebe con la Nobilità; e fatto questo
pensiero, fece ragunare il Senato, e narrò loro l'odio che il
popolo aveva contro di loro, ed i pericoli che portavano di essere
ammazzati da quello, e data la città a Annibale, sendo le
cose de' Romani afflitte: dipoi soggiunse che, se volevano lasciare
governare questa cosa a lui, farebbe in modo che si unirebbono
insieme; ma gli voleva serrare dentro al palagio, e, col fare
potestà al popolo di potergli gastigare, salvargli. Cederono
a questa sua opinione i Senatori; e quello chiamò il popolo a
concione, avendo rinchiuso in palagio il Senato; e disse com'egli
era venuto il tempo che potevano domare la superbia della
Nobilità, e vendicarsi delle ingiurie ricevute da quella,
avendogli rinchiusi tutti sotto la sua custodia: ma perché
credeva che loro non volessono che la loro città rimanessi
sanza governo, era necessario, volendo ammazzare i Senatori vecchi,
crearne de' nuovi: e per tanto aveva messo tutti i nomi de' Senatori
in una borsa, e comincerebbe a tragli in loro presenza; e gli
farebbe, i tratti, di mano in mano morire, come prima loro avessono
trovato il successore. E cominciato a trarne uno, fu al nome di
quello levato uno romore grandissimo, chiamandolo uomo superbo,
crudele ed arrogante: e chiedendo Pacuvio che facessono lo scambio,
si racchetò tutta la concione; e dopo alquanto spazio, fu
nominato uno della plebe; al nome del quale chi cominciò a
fischiare, chi a ridere, chi a dirne male in uno modo, e chi in uno
altro. E così seguitando di mano in mano, tutti quegli che
furono nominati, gli giudicavano indegni del grado senatorio. Di
modo che Pacuvio, preso sopra questo occasione, disse: Poiché
voi giudicate che questa città stia male sanza il Senato, e,
a fare gli scambi a' Senatori vecchi non vi accordate, io penso che
sia bene che voi vi riconciliate insieme; perché questa paura
in la quale i Senatori sono stati, gli arà fatti in modo
raumiliare che quella umanità che voi cercavi altrove,
troverrete in loro. Ed accordatisi a questo, ne seguì la
unione di questo ordine; e quello inganno in che egli erano si
scoperse, come e' furno costretti venire a' particulari. Ingannonsi,
oltra di questo, i popoli generalmente nel giudicare le cose e gli
accidenti di esse; le quali, dipoi si conoscono particularmente,
mancano di tale inganno.
Dopo il 1494, sendo stati i principi della città cacciati da
Firenze, e non vi essendo alcuno governo ordinato, ma più
tosto una certa licenza ambiziosa, ed andando le cose publiche di
male in peggio; molti popolari, veggendo la rovina della
città, e non ne intendendo altra cagione, ne accusavano la
ambizione di qualche potente che nutrisse i disordini, per potere
fare uno stato a suo proposito, e tôrre loro la
libertà; e stavano questi tali per le logge e per le piazze,
dicendo male di molti cittadini, minacciandogli che, se mai si
trovassino de' Signori, scoprirebbero questo loro inganno, e gli
gastigarebbero. Occorreva spesso che di simili ne ascendeva al
supremo magistrato; e come egli era salito in quel luogo, e che
vedeva le cose più da presso, conosceva i disordini donde
nascevano, ed i pericoli che soprastavano, e la difficultà
del rimediarvi. E veduto come i tempi, e non gli uomini, causavano
il disordine, diventava subito d'un altro animo, e d'un'altra fatta;
perché la cognizione delle cose particulari gli toglieva via
quello inganno che nel considerarle generalmente si aveva
presupposto. Dimodoché, quelli che lo avevano prima, quando
era privato, sentito parlare, e vedutolo poi nel supremo magistrato
stare quieto, credevono che nascessi, non per più vera
cognizione delle cose, ma perché fusse stato aggirato e
corrotto dai grandi. Ed accadendo questo a molti uomini, e molte
volte, ne nacque tra loro uno proverbio che diceva: Costoro hanno
uno animo in piazza, ed uno in palazzo. Considerando, dunque, tutto
quello si è discorso, si vede come e' si può fare
tosto aprire gli occhi a' popoli, trovando modo, veggendo che uno
generale gl'inganna, ch'egli abbino a discendere a' particulari;
come fece Pacuvio in Capova, ed il Senato in Roma. Credo ancora, che
si possa conchiudere, che mai un uomo prudente non debba fuggire il
giudicio populare nelle cose particulari, circa le distribuzioni de'
gradi e delle dignità: perché solo in questo il popolo
non s'inganna; e se s'inganna qualche volta, fia sì rado, che
s'inganneranno più volte i pochi uomini che avessono a fare
simili distribuzioni. Né mi pare superfluo mostrare, nel
seguente capitolo, l'ordine che teneva il Senato per ingannare il
popolo nelle distribuzioni sue.
48
Chi vuole che uno magistrato
non sia dato a uno vile o a uno cattivo,
lo facci domandare o a uno troppo vile
e troppo cattivo o a uno troppo nobile
e troppo buono.
Quando il Senato dubitava che i Tribuni con potestà consolare
non fussero fatti d'uomini plebei, teneva uno de' due modi: o egli
faceva domandare ai più riputati uomini di Roma; o veramente,
per i debiti mezzi, corrompeva qualche plebeio vile ed
ignobilissimo, che mescolati con i plebei che, di migliore
qualità, per l'ordinario se lo domandavano, anche loro lo
domandassono. Questo ultimo modo faceva che la plebe si vergognava a
darlo; quel primo faceva che la si vergognava a torlo. Il che tutto
torna a proposito del precedente discorso, dove si mostra che il
popolo, se s'inganna de' generali, de' particulari non s'inganna.
49
Se quelle cittadi che hanno avuto
il principio libero, come Roma,
hanno difficultà a trovare legge
che le mantenghino: quelle che lo hanno
immediate servo, ne hanno quasi
una impossibilità.
Quanto sia difficile, nello ordinare una republica, provedere a
tutte quelle leggi che la mantengono libera, lo dimostra assai bene
il processo della Republica romana: dove, non ostante che fussono
ordinate di molte leggi da Romolo prima, dipoi da Numa, da Tullo
Ostilio e Servio, ed ultimamente dai dieci cittadini creati a simile
opera; nondimeno sempre nel maneggiare quella città si
scoprivono nuove necessità, ed era necessario creare nuovi
ordini: come intervenne quando crearono i Censori i quali furono uno
di quegli provvedimenti che aiutarono tenere Roma libera, quel tempo
che la visse in libertà. Perché, diventati arbitri de'
costumi di Roma, furono cagione potissima che i Romani differissono
più a corrompersi. Feciono bene nel principio della creazione
di tale magistrato uno errore, creando quello per cinque anni; ma,
dipoi non molto tempo, fu corretto dalla prudenza di Mamerco
dittatore, il quale per nuova legge ridusse detto magistrato a
diciotto mesi. Il che i Censori, che vegghiavano ebbero tanto per
male, che privarono Mamerco del Senato: la quale cosa e dalla Plebe
e dai Padri fu assai biasimata. E perché la istoria non
mostra che Mamerco se ne potessi difendere, conviene o che lo
istorico sia difettivo, o gli ordini di Roma in questa parte non
buoni: perché e' non è bene che una republica sia in
modo ordinata, che uno cittadino per promulgare una legge conforme
al vivere libero, ne possa essere, sanza alcuno rimedio, offeso. Ma
tornando al principio di questo discorso, dico che si debbe, per la
creazione di questo nuovo magistrato, considerare che, se quelle
città che hanno avuto il principio loro libero, e che per
sé medesimo si è retto, come Roma, hanno
difficultà grande a trovare leggi buone per mantenerle
libere; non è maraviglia che quelle città che hanno
avuto il principio loro immediate servo, abbino, non che
difficultà, ma impossibilità a ordinarsi mai in modo
che le possino vivere civilmente e quietamente. Come si vede che
è intervenuto alla città di Firenze; la quale, per
avere avuto il principio suo sottoposto allo Imperio romano, ed
essendo vivuta sempre sotto il governo d'altrui, stette un tempo
abietta, e sanza pensare a sé medesima: dipoi, venuta la
occasione di respirare, cominciò a fare suoi ordini; i quali
sendo mescolati con gli antichi, che erano cattivi, non poterono
essere buoni: e così è ita maneggiandosi, per dugento
anni che si ha di vera memoria, sanza avere mai avuto stato, per il
quale la possa veramente essere chiamata republica. E queste
difficultà, che sono state in lei, sono state sempre in tutte
quelle città che hanno avuto i principii simili a lei. E,
benché molte volte, per suffragi pubblici e liberi, si sia
data ampla autorità a pochi cittadini di potere riformarla;
non pertanto non mai l'hanno ordinata a comune utilità, ma
sempre a proposito della parte loro: il che ha fatto, non ordine, ma
maggiore disordine in quella città. E per venire a qualche
esemplo particulare, dico come, intra le altre cose che si hanno a
considerare da uno ordinatore d'una republica è esaminare
nelle mani di quali uomini ei ponga l'autorità del sangue
contro de' suoi cittadini. Questo era bene ordinato in Roma,
perché e' si poteva appellare al Popolo ordinariamente: e se
pure fosse occorso cosa importante, dove il differire la esecuzione
mediante l'appellagione fusse pericoloso, avevano il refugio del
Dittatore, il quale eseguiva immediate; al quale rimedio non
refuggivano mai, se non per necessità. Ma Firenze, e le altre
città nate nel modo di lei, sendo serve, avevano questa
autorità collocata in uno forestiero, il quale, mandato dal
principe, faceva tale ufficio. Quando dipoi vennono in
libertà, mantennono questa autorità in uno forestiero,
il quale chiamavono capitano: il che, per potere essere facilmente
corrotto da' cittadini potenti, era cosa perniziosissima. Ma dipoi,
mutandosi per la mutazione degli stati questo ordine, crearono otto
cittadini che facessino l'uffizio di quel capitano. El quale ordine,
di cattivo, diventò pessimo, per le ragioni che altre volte
sono dette; che i pochi furono sempre ministri de' pochi, e de'
più potenti. Da che si è guardata la città di
Vinegia; la quale ha dieci cittadini, che, sanza appello, possono
punire ogni cittadino. E perché e' non basterebbono a punire
i potenti, ancora che ne avessino autorità, vi hanno
constituito la Quarantia: e di più, hanno voluto che il
Consiglio de' Pregai, che è il Consiglio maggiore, possa
gastigargli; in modo che, non vi mancando lo accusatore, non vi
manca il giudice a tenere gli uomini potenti a freno. Non è
adunque maraviglia, veggendo come in Roma, ordinata da sé
medesima e da tanti uomini prudenti, surgevano ogni dì nuove
cagioni per le quali si aveva a fare nuovi ordini in favore del
viver libero; se nell'altre città, che hanno più
disordinato principio, vi surgano tante difficultà, che le
non si possino riordinarsi mai.
50
Non debba uno consiglio
o uno magistrato potere fermare le azioni
delle città.
Erano consoli in Roma Tito Quinzio Cincinnato e Gneo Giulio Mento, i
quali, sendo disuniti, avevono ferme tutte le azioni di quella
Republica. Il che veggendo il Senato, gli confortava a creare il
Dittatore, per fare quello che per le discordie loro non potevon
fare. Ma i Consoli, discordando in ogni altra cosa, solo in questo
erano d'accordo, di non volere creare il Dittatore. Tanto che il
Senato, non avendo altro rimedio, ricorse allo aiuto de' Tribuni; i
quali, con l'autorità del Senato, sforzarono i Consoli a
ubbidire. Dove si ha a notare, in prima, la utilità del
Tribunato; il quale non era solo utile a frenare l'ambizione che i
potenti usavano contro alla Plebe, ma quella ancora ch'egli usavano
infra loro: l'altra, che mai si debbe ordinare in una città,
che i pochi possino tenere alcuna diliberazione di quelle che
ordinariamente sono necessarie a mantenere la republica.
Verbigrazia, se tu dài una autorità a uno consiglio di
fare una distribuzione di onori e d'utile, o ad uno magistrato di
amministrare una faccenda; conviene o imporgli una necessità
perché ci l'abbia a fare in ogni modo, o ordinare, quando non
la voglia fare egli, che la possa e debba fare uno altro:
altrimenti, questo ordine sarebbe difettivo e pericoloso; come si
vedeva che era in Roma, se alla ostinazione di quegli Consoli non si
poteva opporre l'autorità de' Tribuni. Nella Republica
viniziana il Consiglio grande distribuisce gli onori e gli utili:
occorreva alle volte che l'universalità, per isdegno o per
qualche falsa persuasione, non creava i successori a' magistrati
della città, ed a quelli che fuori amministravano lo imperio
loro. Il che era disordine grandissimo: perché in un tratto,
e le terre suddite e la città propria mancavano de' suoi
legittimi giudici, né si poteva ottenere cosa alcuna, se
quella universalità di quel Consiglio o non si soddisfaceva o
non si sgannava. Ed avrebbe ridotta questo inconveniente quella
città a mal termine, se dagli cittadini prudenti non vi si
fusse proveduto: i quali, presa occasione conveniente, fecero una
legge, che tutti i magistrati che sono o fusseno dentro e fuori
della città, mai vacassero, se non quando fussono fatti gli
scambi e i successori loro. E così si tolse la
commodità a quel Consiglio di potere, con pericolo della
republica, fermare le azioni publiche.
51
Una republica o uno principe
debbe mostrare di fare per liberalità
quello a che la necessità lo constringe.
Gli uomini prudenti si fanno grado delle cose sempre e in ogni loro
azione, ancora che la necessità gli constringesse a farle in
ogni modo. Questa prudenza fu usata bene dal Senato romano, quando
ei diliberò, che si desse il soldo del publico agli uomini
che militavano, essendo consueti militare del loro proprio. Ma
veggendo il Senato come in quel modo non si poteva fare lungamente
guerra, e per questo non potendo né assediare terre né
condurre gli eserciti discosto; e giudicando essere necessario
potere fare l'uno e l'altro, deliberò che si dessono detti
stipendi: ma lo feciono in modo che si fecero grado di quello a che
la necessità gli constringeva. E fu tanto accetto alla plebe
questo presente, che Roma andò sottosopra per l'allegrezza,
parendole uno beneficio grande, quale mai speravono di avere, e
quale mai per loro medesimi arebbono cerco. E benché i
Tribuni s'ingegnassero di cancellare questo grado, mostrando come
ella era cosa che aggravava, non alleggeriva, la plebe, sendo
necessario porre i tributi per pagare questo soldo: nientedimeno non
potevano fare tanto che la plebe non lo avesse accetto: il che fu
ancora augumentato dal Senato per il modo che distribuivano i
tributi, perché i più gravi e i maggiori furono quelli
ch'ei posano alla Nobilità, e gli primi che furono pagati.
52
A reprimere la insolenzia d'uno che surga
in una republica potente,
non vi è più sicuro e meno scandoloso
modo, che preoccuparli quelle vie
per le quali viene a quella potenza.
Vedesi, per il soprascritto discorso, quanto credito acquistasse la
Nobilità con la plebe, per le dimostrazioni lette in
beneficio suo, sì del soldo ordinato, sì ancora del
modo del porre i tributi. Nel quale ordine se la Nobilità si
fosse mantenuta, si sarebbe levato via ogni tumulto in quella
città, e sarebbesi tolto ai Tribuni quel credito che gli
avevano con la plebe, e, per consequente, quella autorità. E
veramente, non si può in una republica, e massime in quelle
che sono corrotte, con miglior modo, meno scandoloso e più
facile, opporsi all'ambizione di alcuno cittadino, che
preoccupandogli quelle vie, per le quali si vede che esso cammina
per arrivare al grado che disegna. Il quale modo se fusse stato
usato contro a Cosimo de' Medici, sarebbe stato miglior partito
assai per gli suoi avversari, che cacciarlo da Firenze:
perché, se quegli cittadini che gareggiavano seco avessero
preso lo stile suo, di favorire il popolo, gli venivano, sanza
tumulto e sanza violenza, a trarre di mano quelle armi di che egli
si valeva più. Piero Soderini si aveva fatto riputazione
nella città di Firenze con questo solo, di favorire
l'universale; il che nello universale gli dava riputazione, come
amatore della libertà della città. E veramente, a
quegli cittadini che portavano invidia alla grandezza sua, era molto
più facile, ed era cosa molto più onesta, meno
pericolosa, e meno dannosa per la republica, preoccupargli quelle
vie con le quali si faceva grande, che volere contrapporsegli,
acciocché con la rovina sua rovinassi tutto il restante della
republica. Perché, se gli avessero levato di mano quelle armi
con le quali si faceva gagliardo (il che potevono fare facilmente),
arebbono potuto in tutti i consigli e in tutte le diliberazioni
publiche opporsegli sanza sospetto e sanza rispetto alcuno. E se
alcuno replicasse che, se i cittadini che odiavano Piero, feciono
errore a non gli preoccupare le vie con le quali ei si guadagnava
riputazione nel popolo, Piero ancora venne a fare errore, a non
preoccupare quelle vie per le quali quelli suoi avversari lo
facevono temere. Di che Piero merita scusa, sì perché
gli era difficile il farlo, sì perché le non erano
oneste a lui; imperocché le vie con le quali era offeso,
erano il favorire i Medici; con li quali favori essi lo battevano,
ed alla fine lo rovinarono. Non poteva, pertanto, Piero onestamente
pigliare questa parte, per non potere distruggere con buona fama
quella libertà, alla quale egli era stato preposto guardia:
dipoi, non potendo questi favori farsi segreti e a un tratto, erano
per Piero pericolosissimi; perché comunche ei si fusse
scoperto amico ai Medici, sarebbe diventato sospetto ed odioso al
popolo: donde ai nimici suoi nasceva molto più
commodità di opprimerlo, che non avevano prima.
Debbono, pertanto, gli uomini in ogni partito considerare i difetti
ed i pericoli di quello, e non gli prendere, quando vi sia
più del pericoloso che dell'utile; nonostante che ne fussi
stata data sentenzia conforme alla diliberazione loro.
Perché, faccendo altrimenti, in questo caso interverrebbe a
quelli come intervenne a Tullio; il quale, volendo tôrre i
favori a Marc'Antonio, gliene accrebbe. Perché, sendo
Marc'Antonio stato giudicato inimico del Senato, ed avendo quello
grande esercito insieme adunato, in buona parte, de' soldati che
avevano seguitato le parte di Cesare; Tullio, per torgli questi
soldati, confortò il Senato a dare riputazione ad Ottaviano,
e mandarlo con Irzio e Pansa consoli contro a Marc'Antonio:
allegando, che, subito che i soldati che seguivano Marc'Antonio,
sentissero il nome di Ottaviano nipote di Cesare, e che si faceva
chiamare Cesare, lascerebbono quello, e si accosterebbono a costui;
e così restato Marc'Antonio ignudo di favori, sarebbe facile
lo opprimerlo. La quale cosa riuscì tutta al contrario;
perché Marc'Antonio si guadagnò Ottaviano; e, lasciato
Tullio e il Senato, si accostò a lui. La quale cosa fu al
tutto la distruzione della parte degli ottimati. Il che era facile a
conietturare: né si doveva credere quel che si persuase
Tullio, ma tener sempre conto di quel nome che con tanta gloria
aveva spenti i nimici suoi, ed acquistatosi il principato in Roma;
né si doveva credere mai potere, o da suoi eredi o da suoi
fautori, avere cosa che fosse conforme al nome libero.
53
Il popolo molte volte disidera
la rovina sua, ingannato da una falsa
spezie di beni: e come le grandi speranze
e gagliarde promesse facilmente
lo muovono.
Espugnata che fu la città de' Veienti, entrò nel
popolo romano un'opinione, che fosse cosa utile per la città
di Roma, che la metà de' Romani andasse ad abitare a Veio;
argomentando che, per essere quella città ricca di contado,
piena di edificii e propinqua a Roma, si poteva arricchire la
metà de' cittadini romani, e non turbare per la
propinquità del sito nessuna azione civile. La quale cosa
parve al Senato ed a' più savi Romani tanto inutile e tanto
dannosa, che liberamente dicevano, essere più tosto per
patire la morte che consentire a una tale diliberazione. In modo
che, venendo questa cosa in disputa, si accese tanto la plebe contro
al Senato, che si sarebbe venuto alle armi ed al sangue, se il
Senato non si fusse fatto scudo di alcuni vecchi ed estimati
cittadini, la riverenza de' quali frenò la plebe, che la non
procedé più avanti con la sua insolenzia. Qui si hanno
a notare due cose. La prima che il popolo molte volte, ingannato da
una falsa immagine di bene, disidera la rovina sua; e se non gli
è fatto capace, come quello sia male, e quale sia il bene, da
alcuno in chi esso abbia fede, si porta in le republiche infiniti
pericoli e danni. E quando la sorte fa che il popolo non abbi fede
in alcuno, come qualche volta occorre, sendo stato ingannato per lo
addietro o dalle cose o dagli uomini, si viene alla rovina, di
necessità. E Dante dice a questo proposito, nel discorso suo
che fa De Monarchia, che il popolo molte volte grida Viva la sua
morte! e Muoia la sua vita! Da questa incredulità nasce che
qualche volta in le republiche i buoni partiti non si pigliono: come
di sopra si disse de' Viniziani, quando, assaltati da tanti inimici,
non poterono prendere partito di guadagnarsene alcuno con la
restituzione delle cose tolte ad altri (per le quali era mosso loro
la guerra, e fatta la congiura de' principi loro contro), avanti che
la rovina venisse.
Pertanto, considerando quello che è facile o quello che
è difficile persuadere a uno popolo, si può fare
questa distinzione: o quel che tu hai a persuadere rappresenta in
prima fronte guadagno, o perdita; o veramente ci pare partito
animoso, o vile. E quando nelle cose che si mettono innanzi al
popolo, si vede guadagno, ancora che vi sia nascosto sotto perdita;
e quando e' pare animoso, ancora che vi sia nascosto sotto la rovina
della republica, sempre sarà facile persuaderlo alla
moltitudine: e così fia sempre difficile persuadere quegli
partiti dove apparisse o viltà o perdita, ancora che vi fusse
nascosto sotto salute e guadagno. Questo che io ho detto, si
conferma con infiniti esempli, romani e forestieri, moderni ed
antichi. Perché da questo nacque la malvagia opinione che
surse, in Roma, di Fabio Massimo, il quale non poteva persuadere al
Popolo romano, che fusse utile a quella Republica procedere
lentamente in quella guerra, e sostenere sanza azzuffarsi l'impeto
d'Annibale; perché quel popolo giudicava questo partito vile,
e non vi vedeva dentro quella utilità vi era; né Fabio
aveva ragioni bastanti a dimostrarla loro: e tanto sono i popoli
accecati in queste opinioni gagliarde, che, benché il Popolo
romano avesse fatto quello errore di dare autorità al Maestro
de' cavagli di Fabio, di potersi azzuffare, ancora che Fabio non
volesse; e che per tale autorità il campo romano fusse per
essere rotto, se Fabio con la sua prudenza non vi rimediava, non gli
bastò questa isperienza, che fece di poi consule Varrone, non
per altri suoi meriti che per avere, per tutte le piazze e tutti i
luoghi publici di Roma, promesso di rompere Annibale, qualunque
volta gliene fusse data autorità. Di che ne nacque la zuffa e
la rotta di Canne, e presso che la rovina di Roma. Io voglio
addurre, a questo proposito, ancora uno altro esemplo romano. Era
stato Annibale in Italia otto o dieci anni, aveva ripieno di
occisione de' Romani tutta questa provincia, quando venne in Senato
Marco Centenio Penula, uomo vilissimo (nondimanco aveva avuto
qualche grado nella milizia), ed offersesi, che, se gli davano
autorità di potere fare esercito d'uomini volontari in
qualunque luogo volesse in Italia, ei darebbe loro, in brevissimo
tempo, preso o morto Annibale. Al Senato parve la domanda di costui
temeraria; nondimeno, ei, pensando, che s'ella se gli negasse e nel
popolo si fusse dipoi saputa la sua chiesta, che non ne nascesse
qualche tumulto, invidia e mal grado contro all'ordine senatorio,
gliene concessono: volendo più tosto mettere a pericolo tutti
coloro che lo seguitassono, che fare surgere nuovi sdegni nel
popolo; sapendo quanto simile partito fusse per essere accetto, e
quanto fusse difficile il dissuaderlo. Andò, adunque, costui
con una moltitudine inordinata ed incomposta a trovare Annibale; e
non gli fu prima giunto all'incontro, che fu, con tutti quegli che
lo seguitarono, rotto e morto.
In Grecia, nella città di Atene, non potette mai Nicia, uomo
gravissimo e prudentissimo, persuadere a quel Popolo che non fusse
bene andare a assaltare Sicilia; talché, presa quella
diliberazione contro alla voglia de' savi, ne seguì al tutto
la rovina di Atene. Scipione, quando fu fatto consolo, e che
desiderava la provincia di Africa, promettendo al tutto la rovina di
Cartagine, a che non si accordando il Senato per la sentenzia di
Fabio Massimo, minacciò di proporla nel Popolo, come quello
che conosceva benissimo quanto simili diliberazioni piaccino a'
popoli.
Potrebbesi a questo proposito dare esempli della nostra
città; come fu quando messere Ercole Bentivogli governatore
delle genti fiorentine, insieme con Antonio Giacomini, poiché
ebbono rotto Bartolommeo d'Alviano a San Vincenti andarono a campo a
Pisa la quale impresa fu diliberata dal popolo in su le promesse
gagliarde di messere Ercole, ancora che molti savi cittadini la
biasimassero: nondimeno non vi ebbono rimedio, spinti da quella
universale volontà, la quale era fondata in su le promesse
gagliarde del governatore. Dico, adunque, come e' non è la
più facile via a fare rovinare una republica dove il popolo
abbia autorità, che metterla in imprese gagliarde;
perché, dove il popolo sia di alcuno momento, sempre fiano
accettate, né vi arà, chi sarà d'altra
opinione, alcuno rimedio. Ma se di questo nasce la rovina della
città, ne nasce ancora, e più spesso, la rovina
particulare de' cittadini che sono preposti a simili imprese:
perché, avendosi il popolo presupposto la vittoria, come ei
viene la perdita, non ne accusa né la fortuna né la
impotenzia di chi ha governato, ma la malvagità e ignoranza
sua; e quello, il più delle volte, o ammazza o imprigiona o
confina: come intervenne a infiniti capitani Cartaginesi ed a molti
Ateniesi. Né giova loro alcuna vittoria che per lo addietro
avessero avuta, perché tutto la presente perdita cancella:
come intervenne ad Antonio Giacomini nostro, il quale, non avendo
espugnata Pisa, come il popolo si aveva presupposto ed egli
promesso, venne in tanta disgrazia popolare, che, non ostante
infinite sue buone opere passate, visse più per
umanità di coloro che ne avevano autorità, che per
alcuna altra cagione che nel popolo lo difendesse.
54
Quanta autorità abbi uno uomo grave
a frenare una moltitudine concitata.
Il secondo notabile sopra il testo nel superiore capitolo allegato,
è, che veruna cosa è tanto atta a frenare una
moltitudine concitata, quanto è la riverenzia di qualche uomo
grave e di autorità, che se le faccia incontro; né
sanza cagione dice Virgilio:
Tum pietate gravem ac meritis si forte virum quem
Conspexere, silent, arrectisque auribus adstant.
Per tanto, quello che è preposto a uno esercito, o quello che
si trova in una città, dove nascesse tumulto debba
rappresentarsi in su quello con maggiore grazia e più
onorevolmente che può, mettendosi intorno le insegne di
quello grado che tiene, per farsi più riverendo. Era, pochi
anni sono, Firenze divisa in due fazioni, Fratesca ed Arrabbiata,
che così si chiamavano; e venendo all'armi, ed essendo
superati i Frateschi, intra i quali era Pagolantonio Soderini, assai
in quegli tempi riputato cittadino, ed andandogli in quelli tumulti
il popolo armato a casa per saccheggiarla; messere Francesco suo
fratello, allora vescovo di Volterra, ed oggi cardinale, si trovava
a sorte in casa; il quale, subito sentito il romore e veduta la
turba, messosi i più onorevoli panni indosso, e di sopra il
roccetto episcopale, si fece incontro a quegli armati, e con la
presenzia e con le parole gli fermò; la quale cosa fu per
tutta la città per molti giorni notata e celebrata.
Conchiudo, adunque, come e' non è il più fermo
né il più necessario rimedio a frenare una moltitudine
concitata, che la presenzia d'uno uomo che per presenzia paia e sia
riverendo. Vedesi, adunque, per tornare al preallegato testo, con
quanta ostinazione la plebe romana accettava quel partito d'andare a
Veio, perché lo giudicava utile, né vi conosceva,
sotto, il danno vi era; e come, nascendone assai tumulti, ne sarebbe
nati scandoli, se il Senato con uomini gravi e pieni di riverenza
non avesse frenato il loro furore.
55
Quanto facilmente si conduchino
le cose in quella città dove la moltitudine
non è corrotta: e che, dove è equalità,
non si può fare principato;
e dove la non è, non si può
fare republica.
Ancora che di sopra si sia discorso assai quello è da temere
o sperare delle cittadi corrotte, nondimeno non mi pare fuori di
proposito considerare una diliberazione del Senato circa il voto che
Cammillo aveva fatto di dare la decima parte a Apolline della preda
de' Veienti: la quale preda sendo venuta nelle mani della Plebe
romana, né se ne potendo altrimenti rivedere conto, fece il
Senato uno editto, che ciascuno dovessi rappresentare in publico la
decima parte di quello ch'egli aveva predato. E benché tale
diliberazione non avesse luogo, avendo dipoi il Senato preso altro
modo, e per altra via sodisfatto a Apolline, in sodisfazione della
plebe; nondimeno si vede per tale diliberazione quanto quel Senato
confidava nella bontà di quella, e come ei giudicava che
nessuno fusse per non rappresentare appunto tutto quello che per
tale editto gli era comandato. E dall'altra parte si vede come la
plebe non pensò di fraudare in alcuna parte lo editto con il
dare meno che non doveva, ma di liberarsi di quello con il mostrarne
aperte indegnazioni. Questo esemplo, con molti altri che di sopra si
sono addotti, mostrano quanta bontà e quanta religione fusse
in quel popolo, e quanto bene fusse da sperare di lui. E veramente,
dove non è questa bontà, non si può sperare
nulla di bene; come non si può sperare nelle provincie che in
questi tempi si veggono corrotte: come è la Italia sopra
tutte l'altre, ed ancora la Francia e la Spagna di tale corrozione
ritengono parte. E se in quelle provincie non si vede tanti
disordini quanti nascono in Italia ogni dì, diriva non tanto
dalla bontà de' popoli, la quale in buona parte è
mancata, quanto dallo avere uno re che gli mantiene uniti, non
solamente per la virtù sua, ma per l'ordine di quegli regni,
che ancora non sono guasti. Vedesi bene, nella provincia della
Magna, questa bontà e questa religione ancora in quelli
popoli essere grande; la quale fa che molte republiche vi vivono
libere, ed in modo osservono le loro leggi che nessuno di fuori
né di dentro ardisce occuparle. E che e' sia vero che, in
loro, regni buona parte di quella antica bontà, io ne voglio
dare uno esemplo simile a questo, detto di sopra, del Senato e della
plebe romana. Usono quelle republiche, quando gli occorre loro
bisogno di avere a spendere alcuna quantità di danari per
conto publico, che quegli magistrati o consigli che ne hanno
autorità, ponghino a tutti gli abitanti della città
uno per cento, o due, di quello che ciascuno ha di valsente. E fatta
tale diliberazione, secondo l'ordine della terra si rappresenta
ciascuno dinanzi agli riscotitori di tale imposta; e, preso prima il
giuramento di pagare la conveniente somma, getta in una cassa a
ciò diputata quello che secondo la conscienza sua gli pare
dovere pagare: del quale pagamento non è testimone alcuno, se
non quello che paga. Donde si può conietturare quanta
bontà e quanta religione sia ancora in quegli uomini. E
debbesi stimare che ciascuno paghi la vera somma: perché,
quando la non si pagasse, non gitterebbe quella imposizione quella
quantità che loro disegnassero secondo le antiche che fossino
usitate riscuotersi, e non gittando, si conoscerebbe la fraude: e
conoscendo si arebbe preso altro modo che questo. La quale
bontà è tanto più da ammirare in questi tempi,
quanto ella è più rada: anzi si vede essere rimasa
solo in quella provincia.
Il che nasce da dua cose: l'una, non avere avute conversazioni
grandi con i vicini; perché né quelli sono iti a casa
loro, né essi sono iti a casa altrui, perché sono
stati contenti di quelli beni, vivere di quelli cibi, vestire di
quelle lane, che dà il paese; d'onde è stata tolta via
la cagione d'ogni conversazione, ed il principio d'ogni corruttela;
perché non hanno possuto pigliare i costumi, né
franciosi, né spagnuoli, né italiani; le quali nazioni
tutte insieme sono la corruttela del mondo. L'altra cagione
è, che quelle republiche dove si è mantenuto il vivere
politico ed incorrotto, non sopportono che alcuno loro cittadino
né sia né viva a uso di gentiluomo: anzi mantengono
intra loro una pari equalità, ed a quelli signori e
gentiluomini, che sono in quella provincia, sono inimicissimi; e se
per caso alcuni pervengono loro nelle mani, come principii di
corruttele e cagione d'ogni scandolo, gli ammazzono. E per chiarire
questo nome di gentiluomini quale e' sia, dico che gentiluomini sono
chiamati quelli che oziosi vivono delle rendite delle loro
possessioni abbondantemente, sanza avere cura alcuna o di
coltivazione o di altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono
perniziosi in ogni republica ed in ogni provincia, ma più
perniziosi sono quelli che, oltre alle predette fortune, comandano a
castella, ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste due
spezie di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, Terra di Roma, la
Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non
è mai surta alcuna republica né alcuno vivere
politico; perché tali generazioni di uomini sono al tutto
inimici d'ogni civilità. Ed a volere in provincie fatte in
simil modo introdurre una republica, non sarebbe possibile: ma a
volerle riordinare, se alcuno ne fusse arbitro, non arebbe altra via
che farvi uno regno. La ragione è questa che, dove è
tanto la materia corrotta che le leggi non bastano a frenarla, vi
bisogna ordinare insieme con quelle maggior forza; la quale è
una mano regia, che con la potenza assoluta ed eccessiva ponga freno
alla eccessiva ambizione e corruttela de' potenti. Verificasi questa
ragione con lo esemplo di Toscana: dove si vede in poco spazio di
terreno state lungamente tre republiche, Firenze, Siena e Lucca; e
le altre città di quella provincia essere in modo serve, che,
con lo animo e con l'ordine, si vede o che le mantengono o che le
vorrebbono mantenere la loro libertà. Tutto è nato per
non essere in quella provincia alcuno signore di castella, e nessuno
o pochissimi gentiluomini; ma esservi tanta equalità, che
facilmente da uno uomo prudente, e che delle antiche civilità
avesse cognizione, vi s'introdurrebbe uno vivere civile. Ma lo
infortunio suo è stato tanto grande, che infino a questi
tempi non si è abattuta a alcuno uomo che lo abbia possuto o
saputo fare.
Trassi adunque di questo discorso questa conclusione: che colui che
vuole fare dove sono assai gentiluomini una republica, non la
può fare se prima non gli spegne tutti: e che colui che,
dov'è assai equalità, vuole fare uno regno o uno
principato, non lo potrà mai fare se non trae di quella
equalità molti d'animo ambizioso ed inquieto, e quelli fa
gentiluomini in fatto, e non in nome, donando loro castella e
possessioni, e dando loro favore di sustanze e di uomini;
acciocché, posto in mezzo di loro, mediante quegli mantenga
la sua potenza; ed essi, mediante quello, la loro ambizione; e gli
altri siano constretti a sopportare quel giogo che la forza, e non
altro mai, può fare sopportare loro. Ed essendo per questa
via proporzione da chi sforza a chi è sforzato, stanno fermi
gli uomini ciascuno negli ordini loro. E perché il fare d'una
provincia atta a essere regno una republica, e d'una atta a essere
republica farne uno regno, è materia da uno uomo che per
cervello e per autorità sia raro: sono stati molti che lo
hanno voluto fare e pochi che lo abbino saputo condurre.
Perché la grandezza della cosa, parte sbigottisce gli uomini,
parte in modo gl'impedisce, che ne' principii primi mancano.
Credo che a questa mia opinione, che dove sono gentiluomini non si
possa ordinare republica, parrà contraria la esperienza della
Republica viniziana, nella quale non possono avere alcuno grado se
non coloro che sono gentiluomini. A che si risponde, come questo
esemplo non ci fa alcuna oppugnazione, perché i gentiluomini
in quella Republica sono più in nome che in fatto;
perché loro non hanno grandi entrate di possessioni, sendo le
loro ricchezze grandi fondate in sulla mercanzia e cose mobili, e di
più, nessuno di loro tiene castella, o ha alcuna iurisdizione
sopra gli uomini: ma quel nome di gentiluomo in loro è nome
di degnità e di riputazione, sanza essere fondato sopra
alcuna di quelle cose che fa che nell'altre città si chiamano
i gentiluomini. E come le altre republiche hanno tutte le loro
divisioni sotto vari nomi, così Vinegia si divide in
gentiluomini e popolari: e vogliono che quegli abbino, ovvero
possino avere, tutti gli onori; quelli altri ne siano al tutto
esclusi. Il che non fa disordine in quella terra, per le ragioni
altra volta dette. Constituisca, adunque, una republica colui dove
è, o è fatta, una grande equalità; ed
all'incontro ordini un principato dove è grande
inequalità: altrimenti farà cosa sanza proporzione e
poco durabile.
56
Innanzi che seguino i grandi accidenti
in una città o in una provincia,
vengono segni che gli pronosticono,
o uomini che gli predicano.
Donde ei si nasca io non so, ma ei si vede per gli antichi e per gli
moderni esempli, che mai non venne alcuno grave accidente in una
città o in una provincia, che non sia stato, o da indovini o
da rivelazioni o da prodigi o da altri segni celesti, predetto. E
per non mi discostare da casa nel provare questo, sa ciascuno quanto
da frate Girolamo Savonerola fosse predetta innanzi la venuta del re
Carlo VIII di Francia in Italia; e come, oltre a di questo, per
tutta Toscana si disse essere sentite in aria e vedute genti d'armi,
sopra Arezzo, che si azzuffavano insieme. Sa ciascuno, oltre a
questo, come, avanti alla morte di Lorenzo de' Medici vecchio, fu
percosso il duomo nella sua più alta parte con una saetta
celeste, con rovina grandissima di quello edifizio. Sa ciascuno
ancora, come, poco innanzi che Piero Soderini, quale era stato fatto
gonfalonieri a vita dal popolo fiorentino, fosse cacciato e privo
del suo grado, fu il palazzo medesimamente da uno fulgure percosso.
Potrebbonsi, oltre a di questo, addurre più esempli i quali,
per fuggire il tedio, lascerò. Narrerò solo quello che
Tito Livio dice, innanzi alla venuta de' Franciosi a Roma:
cioè, come uno Marco Cedicio plebeio riferì al Senato
avere udito di mezza notte, passando per la Via nuova, una voce,
maggiore che umana, la quale lo ammuniva che riferissi a' magistrati
come e' Franciosi venivano a Roma. La cagione di questo credo sia da
essere discorsa e interpretata da uomo che abbi notizia delle cose
naturali e soprannaturali: il che non abbiamo noi. Pure, potrebbe
essere che, sendo questo aere, come vuole alcuno filosofo, pieno di
intelligenze, le quali per naturali virtù preveggendo le cose
future, ed avendo compassione agli uomini, acciò si possino
preparare alle difese, gli avvertiscono con simili segni. Pure,
comunque e' si sia, si vede così essere la verità; e
che sempre dopo tali accidenti sopravvengono cose istraordinarie e
nuove alle provincie.
57
La Plebe insieme è gagliarda,
di per sé è debole.
Erano molti Romani, sendo seguita per la passata dei Franciosi la
rovina della loro patria, andati ad abitare a Veio, contro la
constituzione ed ordine del Senato: il quale, per rimediare a questo
disordine, comandò per i suoi editti publici che ciascuno,
infra certo tempo, e sotto certe pene, tornasse a abitare a Roma.
De' quali editti, da prima per coloro contro a chi e' venivano, si
fu fatto beffe; dipoi, quando si appressò il tempo dello
ubbidire, tutti ubbidirono. E Tito Livio dice queste parole
«Ex ferocibus universis singuli metu suo obedientes
fuere». E veramente, non si può mostrare meglio la
natura d'una moltitudine in questa parte, che si dimostri in questo
testo. Perché la moltitudine è audace nel parlare,
molte volte contro alle diliberazioni del loro principe; dipoi, come
ei veggono la pena in viso, non si fidando l'uno dell'altro, corrono
ad ubbidire. Talché si vede certo che, di quel che si dica
uno popolo circa la buona o mala disposizione sua, si debba tenere
non gran conto, quando tu sia ordinato in modo da poterlo mantenere,
s'egli è bene disposto; s'egli è male disposto, da
potere provedere che non ti offenda. Questo s'intende per quelle
male disposizioni che hanno i popoli, nate da qualunque altra
cagione che o per avere perduto la libertà o il loro principe
stato amato da loro e che ancora sia vivo: imperocché le male
disposizioni che nascono da queste cagioni sono sopra ogni cosa
formidabili, e che hanno bisogno di grandi rimedi a frenarle:
l'altre sue indisposizioni fiano facili, quando e' non abbia capi a
chi rifuggire. Perché non ci è cosa, dall'un canto,
più formidabile che una moltitudine sciolta e sanza capo; e,
dall'altra parte, non è cosa più debole:
perché, quantunque ella abbia l'armi in mano, fia facile
ridurla, purché tu abbi ridotto da poter fuggire il primo
empito; perché quando gli animi sono un poco raffreddi, e che
ciascuno vede di aversi a tornare a casa sua, cominciano a dubitare
di loro medesimi, e pensare alla salute loro o col fuggirsi o con
l'accordarsi. Però una moltitudine così concitata,
volendo fuggire questi pericoli, ha subito a fare infra sé
medesima uno capo che la corregga, tenghila unita e pensi alla sua
difesa; come fece la plebe romana, quando, dopo la morte di
Virginia, si partì da Roma, e per salvarsi feciono infra loro
venti Tribuni: e non faccendo questo, interviene loro sempre quel
che dice Tito Livio nelle soprascritte parole che tutti insieme sono
gagliardi, e, quando ciascuno poi comincia a pensare al proprio
pericolo, diventa vile e debole.
58
La moltitudine è più savia
e più costante che uno principe.
Nessuna cosa essere più vana e più incostante che la
moltitudine, così Tito Livio nostro, come tutti gli altri
istorici, affermano. Perché spesso occorre, nel narrare le
azioni degli uomini, vedere la moltitudine avere condannato alcuno a
morte, e quel medesimo dipoi pianto e sommamente desiderato: come si
vede aver fatto il popolo romano, di Manlio Capitolino, il quale
avendo condannato a morte, sommamente dipoi desiderava quello. E le
parole dello autore sono queste: «Populum brevi, posteaquam ab
eo periculum nullum erat, desiderium eius tenuit». Ed altrove,
quando mostra gli accidenti che nacquono in Siracusa dopo la morte
di Girolamo nipote di Ierone, dice: «Haec natura multitudinis
est: aut humiliter servit, aut superbe dominatur». Io non so
se io mi prenderò una provincia dura e piena di tanta
difficultà, che mi convenga o abbandonarla con vergogna, o
seguirla con carico; volendo difendere una cosa, la quale, come ho
detto, da tutti gli scrittori è accusata. Ma, comunque si
sia, io non giudico né giudicherò mai essere difetto
difendere alcuna opinione con le ragioni, sanza volervi usare o
l'autorità o la forza. Dico, adunque, come di quello difetto
di che accusano gli scrittori la moltitudine, se ne possono accusare
tutti gli uomini particularmente, e massime i principi;
perché ciascuno, che non sia regolato dalle leggi, farebbe
quelli medesimi errori che la moltitudine sciolta. E questo si
può conoscere facilmente, perché ei sono e sono stati
assai principi, e de' buoni e de' savi ne sono stati pochi: io dico
de' principi che hanno potuto rompere quel freno che gli può
correggere; intra i quali non sono quegli re che nascevano in
Egitto, quando, in quella antichissima antichità, si
governava quella provincia con le leggi; né quegli che
nascevano in Sparta; né quegli che a' nostri tempi nascano in
Francia; il quale regno è moderato più dalle leggi che
alcuno altro regno di che ne' nostri tempi si abbia notizia. E
questi re che nascono sotto tali constituzioni non sono da mettere
in quel numero, donde si abbia a considerare la natura di ciascuno
uomo per sé, e vedere s'egli è simile alla
moltitudine; perché a rincontro si debbe porre una
moltitudine medesimamente regolata dalle leggi come sono loro; e si
troverrà in lei essere quella medesima bontà che noi
vediamo essere in quelli, e vedrassi quella né superbamente
dominare né umilmente servire: come era il popolo romano, il
quale, mentre durò la Republica incorrotta, non servì
mai umilmente né mai dominò superbamente; anzi con li
suoi ordini e magistrati tenne il suo grado onorevolmente. E quando
era necessario commuoversi contro a un potente, lo faceva; come si
vide in Manlio, ne' Dieci ed in altri che cercorono opprimerla: e
quando era necessario ubbidire a' Dittatori ed a' Consoli per la
salute publica, lo faceva. E se il popolo romano desiderava Manlio
Capitolino morto, non è maraviglia, perché ei
desiderava le sue virtù, le quali erano state tali, che la
memoria di esse recava compassione a ciascuno, ed arebbono avuto
forza di fare quel medesimo effetto in un principe, perché la
è sentenzia di tutti gli scrittori, come la virtù si
lauda e si ammira ancora negli inimici suoi: e se Manlio, intra
tanto desiderio, fusse risuscitato, il popolo di Roma arebbe dato di
lui il medesimo giudizio, come ei fece, tratto che lo ebbe di
prigione, che poco di poi lo condannò a morte; nonostante che
si vegga de' principi, tenuti savi, i quali hanno fatto morire
qualche persona, e poi sommamente desideratola: come Alessandro,
Clito ed altri suoi amici; ed Erode, Marianne. Ma quello che lo
istorico nostro dice della natura della moltitudine, non dice di
quella che è regolata dalle leggi, come era la romana; ma
della sciolta, come era la siragusana: la quale fece quegli errori
che fanno gli uomini infuriati e sciolti, come fece Alessandro
Magno, ed Erode, ne' casi detti. Però non è più
da incolpare la natura della moltitudine che de' principi,
perché tutti equalmente errano, quando tutti sanza rispetto
possono errare. Di che, oltre a quel che ho detto, ci sono assai
esempli, ed intra gl'imperadori romani, ed intra gli altri tiranni e
principi; dove si vede tanta incostanzia e tanta variazione di vita,
quanta mai non si trovasse in alcuna moltitudine.
Conchiudo adunque, contro alla commune opinione; la quale dice come
i popoli, quando sono principi, sono varii, mutabili ed ingrati;
affermando che in loro non sono altrimenti questi peccati che siano
ne' principi particulari. Ed accusando alcuno i popoli ed i principi
insieme, potrebbe dire il vero; ma traendone i principi, s'inganna:
perché un popolo che comandi e sia bene ordinato, sarà
stabile, prudente e grato non altrimenti che un principe, o meglio
che un principe, eziandio stimato savio: e dall'altra parte, un
principe, sciolto dalle leggi, sarà ingrato, vario ed
imprudente più che un popolo. E che la variazione del
procedere loro nasce non dalla natura diversa, perché in
tutti è a un modo, e, se vi è vantaggio di bene,
è nel popolo; ma dallo avere più o meno rispetto alle
leggi, dentro alle quali l'uno e l'altro vive. E chi
considererà il popolo romano, lo vedrà essere stato
per quattrocento anni inimico del nome regio, ed amatore della
gloria e del bene commune della sua patria; vedrà tanti
esempli usati da lui, che testimoniano l'una cosa e l'altra. E se
alcuno mi allegasse la ingratitudine ch'egli usò contra a
Scipione, rispondo quello che di sopra lungamente si discorse in
questa materia, dove si mostrò i popoli essere meno ingrati
de' principi. Ma quanto alla prudenzia ed alla stabilità,
dico, come un popolo è più prudente, più
stabile e di migliore giudizio che un principe. E non sanza cagione
si assomiglia la voce d'un popolo a quella di Dio: perché si
vede una opinione universale fare effetti maravigliosi ne'
pronostichi suoi; talché pare che per occulta virtù ei
prevegga il suo male ed il suo bene. Quanto al giudicare le cose, si
vede radissime volte, quando egli ode duo concionanti che tendino in
diverse parti, quando ei sono di equale virtù, che non pigli
la opinione migliore, e che non sia capace di quella verità
che egli ode. E se nelle cose gagliarde, o che paiano utili, come di
sopra si dice, egli erra; molte volte erra ancora un principe nelle
sue proprie passioni, le quali sono molte più che quelle de'
popoli. Vedesi ancora, nelle sue elezioni ai magistrati, fare, di
lunga, migliore elezione che un principe, né mai si
persuaderà a un popolo, che sia bene tirare alle
degnità uno uomo infame e di corrotti costumi: il che
facilmente e per mille vie si persuade a un principe. Vedesi uno
popolo cominciare ad avere in orrore una cosa, e molti secoli stare
in quella opinione: il che non si vede in un principe. E dell'una e
dell'altra di queste due cose voglio mi basti per testimone il
popolo romano: il quale in tante centinaia d'anni, in tante elezioni
di Consoli e di Tribuni, non fece quattro elezioni di che quello si
avesse a pentire. Ed ebbe, come ho detto, tanto in odio il nome
regio, che nessuno obligo di alcuno suo cittadino, che tentasse quel
nome, poté fargli fuggire le debite pene. Vedesi, oltra di
questo, le città, dove i popoli sono principi, fare in
brevissimo tempo augumenti eccessivi, e molto maggiori che quelle
che sempre sono state sotto uno principe: come fece Roma dopo la
cacciata de' re, ed Atene da poi che la si liberò da
Pisistrato. Il che non può nascere da altro, se non che sono
migliori governi quegli de' popoli che quegli de' principi.
Né voglio che si opponga a questa mia opinione tutto quello
che lo istorico nostro ne dice nel preallegato testo, ed in
qualunque altro; perché, se si discorreranno tutti i
disordini de' popoli, tutti i disordini de' principi, tutte le
glorie de' popoli e tutte quelle de' principi, si vedrà il
popolo di bontà e di gloria essere, di lunga, superiore. E se
i principi sono superiori a' popoli nello ordinare leggi, formare
vite civili, ordinare statuti ed ordini nuovi; i popoli sono tanto
superiori nel mantenere le cose ordinate, ch'egli aggiungono sanza
dubbio alla gloria di coloro che l'ordinano.
Ed insomma, per conchiudere questa materia, dico come hanno durato
assai gli stati de' principi, hanno durato assai gli stati delle
republiche, e l'uno e l'altro ha avuto bisogno d'essere regolato
dalle leggi: perché un principe che può fare
ciò ch'ei vuole, è pazzo; un popolo che può
fare cio che vuole, non è savio. Se, adunque, si
ragionerà d'un principe obligato alle leggi, e d'un popolo
incatenato da quelle, si vedrà più virtù nel
popolo che nel principe: se si ragionerà dell'uno e
dell'altro sciolto, si vedrà meno errori nel popolo che nel
principe e quelli minori, ed aranno maggiori rimedi. Però che
a un popolo licenzioso e tumultuario, gli può da un uomo
buono essere parlato, e facilmente può essere ridotto nella
via buona: a un principe cattivo non è alcuno che possa
parlare né vi è altro rimedio che il ferro. Da che si
può fare coniettura della importanza della malattia dell'uno
e dell'altro: ché se a curare la malattia del popolo bastan
le parole, ed a quella del principe bisogna il ferro, non
sarà mai alcuno che non giudichi, che, dove bisogna maggior
cura, siano maggiori errori. Quando un popolo è bene sciolto,
non si temano le pazzie che quello fa, né si ha paura del
male presente, ma di quel che ne può nascere, potendo
nascere, infra tanta confusione, uno tiranno. Ma ne' principi
cattivi interviene il contrario: che si teme il male presente, e nel
futuro si spera; persuadendosi gli uomini che la sua cattiva vita
possa fare surgere una libertà. Sì che vedete la
differenza dell'uno e dell'altro, la quale è quanto, dalle
cose che sono, a quelle che hanno a essere. Le crudeltà della
moltitudine sono contro a chi ei temano che occupi il bene commune:
quelle d'un principe sono contro a chi ei temano che occupi il bene
proprio. Ma la opinione contro ai popoli nasce perché de'
popoli ciascuno dice male sanza paura e liberamente, ancora mentre
che regnano: de' principi si parla sempre con mille paure e mille
rispetti. Né mi pare fuor di proposito, poiché questa
materia mi vi tira, disputare, nel seguente capitolo, di quali
confederazioni altri si possa più fidare; o di quelle fatte
con una republica, o di quelle fatte con uno principe.
59
Di quale confederazione o lega
altri si può più fidare; o di quella fatta
con una republica, o di quella fatta
con uno principe.
Perché, ciascuno dì, occorre che l'uno principe con
l'altro, o l'una republica con l'altra, fanno lega ed amicizia
insieme: ed ancora similmente si contrae confederazione ed accordo
intra una republica ed uno principe: mi pare da esaminare qual fede
è più stabile, e di quale si debba tenere più
conto, o di quella d'una republica, o di quella d'uno principe. Io,
esaminando tutto, credo che in molti casi ei sieno simili ed in
alcuni vi sia qualche disformità. Credo, per tanto, che gli
accordi fatti per forza non ti saranno né da uno principe
né da una republica osservati; credo che, quando la paura
dello stato venga, l'uno e l'altro, per non lo perdere, ti
romperà la fede, e ti userà ingratitudine. Demetrio,
quel che fu chiamato espugnatore delle cittadi, aveva fatto agli
Ateniesi infiniti beneficii: occorse dipoi, che, sendo rotto da'
suoi inimici, e rifuggendosi in Atene come in città amica ed
a lui obligata, non fu ricevuto da quella: il che gli dolse assai
più che non aveva fatto la perdita delle genti e dello
esercito suo. Pompeio, rotto che fu da Cesare in Tessaglia, si
rifuggì in Egitto a Tolomeo, il quale era per lo adietro da
lui stato rimesso nel regno; e fu da lui morto. Le quali cose si
vede che ebbero le medesime cagioni: nondimeno fu più
umanità usata e meno ingiuria dalla republica, che dal
principe. Dove è, pertanto, la paura, si troverrà in
fatto la medesima fede. E se si troverrà o una republica o
uno principe, che, per osservarti la fede, aspetti di rovinare,
può nascere questo ancora da simili cagioni. E quanto al
principe, può molto bene occorrere che egli sia amico d'uno
principe potente, che, se bene non ha occasione allora di
difenderlo, ei può sperare che col tempo ei lo ristituisca
nel principato suo; o veramente che, avendolo seguito come
partigiano, ei non creda trovare né fede né accordi
con il nimico di quello. Di questa sorte sono stati quegli principi
del reame di Napoli, che hanno seguite le parti franciose. E quanto
alle republiche, fu di questa sorte Sagunto in Ispagna, che
aspettò la rovina per seguire le parti romane; e di questa
Firenze, per seguire nel 1512 le parti franciose. E credo, computato
ogni cosa, che in questi casi, dove è il pericolo urgente, si
troverrà qualche stabilità più nelle
republiche, che ne' principi. Perché, sebbene le republiche
avessero quel medesimo animo e quella medesima voglia che uno
principe, lo avere il moto loro tardo, farà che le perranno
sempre più a risolversi che il principe, e per questo
perranno più a rompere la fede di lui. Romponsi le
confederazioni per lo utile. In questo le republiche sono, di lunga,
più osservanti degli accordi, che i principi. E potrebbesi
addurre esempli, dove uno minimo utile ha fatto rompere la fede a
uno principe, e dove una grande utilità non ha fatto rompere
la fede a una republica: come fu quello partito che propose
Temistocle agli Ateniesi, a' quali nella concione disse che aveva
uno consiglio da fare alla loro patria grande utilità, ma non
lo poteva dire per non lo scoprire, perché, scoprendolo, si
toglieva la occasione del farlo. Onde il popolo di Atene elesse
Aristide, al quale si comunicasse la cosa, e secondo dipoi che
paresse a lui se ne diliberasse: al quale Temistocle mostrò
come l'armata di tutta Grecia, ancora che la stesse sotto la fede
loro, era in lato che facilmente si poteva guadagnare o distruggere;
il che faceva gli Ateniesi al tutto arbitri di quella provincia.
Donde Aristide riferì al popolo, il partito di Temistocle
essere utilissimo ma disonestissimo: per la quale cosa il popolo al
tutto lo ricusò. Il che non arebbe fatto Filippo Macedone, e
gli altri principi che più utile hanno cerco e guadagnato con
il rompere la fede, che con alcuno altro modo. Quanto a rompere i
patti per qualche cagione di inosservanzia, di questo io non parlo,
come di cosa ordinaria; ma parlo di quelli che si rompono per
cagioni istraordinarie: dove io credo, per le cose dette, che il
popolo facci minori errori che il principe, e per questo si possa
fidar più di lui che del principe.
60
Come il Consolato e qualunque
altro magistrato in Roma
si dava sanza rispetto di età.
Ei si vede per l'ordine della istoria, come la Republica romana,
poiché il Consolato venne nella Plebe, concesse quello ai
suoi cittadini sanza rispetto di età o di sangue; ancora che
il rispetto della età mai non fusse in Roma, ma sempre si
andò a trovare la virtù, o in giovane o in vecchio che
la fusse. Il che si vede per il testimone di Valerio Corvino, che fu
fatto Consolo in ventitré anni: e Valerio detto, parlando ai
suoi soldati, disse come il Consolato era «praemium virtutis,
non sanguinis». La quale cosa se fu bene considerata o no,
sarebbe da disputare assai. E quanto al sangue, fu concesso questo
per necessità; e quella necessità che fu in Roma,
sarebbe in ogni città che volesse fare gli effetti che fece
Roma, come altra volta si è detto: perché e' non si
può dare agli uomini disagio sanza premio, né si
può tôrre loro la speranza di conseguire il premio
sanza pericolo. E però a buona ora convenne che la Plebe
avessi speranza di avere il Consolato: e di questa speranza si
nutrì un pezzo sanza averlo; dipoi non bastò la
speranza, che e' convenne che si venisse allo effetto. Ma la
città che non adopera la sua plebe a alcuna cosa gloriosa, la
può trattare a suo modo come altrove si disputò: ma
quella che vuol fare quel che fe' Roma, non ha a fare questa
distinzione. E dato che così sia, quella del tempo non ha
replica anzi è necessaria: perché nello eleggere uno
giovane in un grado che abbi bisogno d'una prudenza di vecchio,
conviene, avendovelo a eleggere la moltitudine, che a quel grado lo
facci pervenire qualche sua notabilissima azione. E quando uno
giovane è di tanta virtù, che si sia fatto in qualche
cosa notabile conoscere; sarebbe cosa dannosissima che la
città non se ne potessi valere allora, e che l'avesse a
aspettare che fosse invecchiato con lui quel vigore dell'animo e
quella prontezza, della quale in quella età la patria sua si
poteva valere: come si valse Roma di Valerio Corvino, di Scipione e
di Pompeio, e di molti altri, che trionfarono giovanissimi.
LIBRO SECONDO
Laudano sempre gli uomini, ma non sempre ragionevolmente, gli
antichi tempi, e gli presenti accusano: ed in modo sono delle cose
passate partigiani, che non solamente celebrano quelle etadi che da
loro sono state, per la memoria che ne hanno lasciata gli scrittori,
conosciute; ma quelle ancora che, sendo già vecchi, si
ricordano nella loro giovanezza avere vedute. E quando questa loro
opinione sia falsa, come il più delle volte è, mi
persuado varie essere le cagioni che a questo inganno gli conducono.
E la prima credo sia, che delle cose antiche non s'intenda al tutto
la verità; e che di quelle il più delle volte si
nasconda quelle cose che recherebbono a quelli tempi infamia; e
quelle altre che possano partorire loro gloria, si rendino
magnifiche ed amplissime. Perché il più degli
scrittori in modo alla fortuna de' vincitori ubbidiscano, che, per
fare le loro vittorie gloriose, non solamente accrescano quello che
da loro è virtuosamente operato, ma ancora le azioni de'
nimici in modo illustrano, che, qualunque nasce dipoi in qualunque
delle due provincie, o nella vittoriosa o nella vinta, ha cagione di
maravigliarsi di quegli uomini e di quelli tempi, ed è
forzato sommamente laudarli ed amarli. Oltra di questo, odiando gli
uomini le cose o per timore o per invidia, vengono ad essere spente
due potentissime cagioni dell'odio nelle cose passate, non ti
potendo quelle offendere, e non ti dando cagione d'invidiarle. Ma al
contrario interviene di quelle cose che si maneggiano e veggono; le
quali, per la intera cognizione di esse, non ti essendo in alcuna
parte nascoste, e conoscendo in quelle insieme con il bene molte
altre cose che ti dispiacciono, sei forzato giudicarle alle antiche
molto inferiori, ancora che, in verità, le presenti molto
più di quelle di gloria e di fama meritassoro: ragionando,
non delle cose pertinenti alle arti, le quali hanno tanta chiarezza
in sé, che i tempi possono tôrre o dare loro poco
più gloria che per loro medesime si meritino; ma parlando di
quelle pertinenti alla vita e costumi degli uomini, delle quali non
se ne veggono sì chiari testimoni.
Replico, pertanto, essere vera quella consuetudine del laudare e
biasimare soprascritta: ma non essere già sempre vero che si
erri nel farlo. Perché qualche volta è necessario che
giudichino la verità; perché, essendo le cose umane
sempre in moto, o le salgano, o le scendano. E vedesi una
città o una provincia essere ordinata al vivere politico da
qualche uomo eccellente, ed, un tempo, per la virtù di quello
ordinatore, andare sempre in augumento verso il meglio. Chi nasce
allora in tale stato, ed ei laudi più gli antichi tempi che i
moderni, s'inganna; ed è causato il suo inganno da quelle
cose che di sopra si sono dette. Ma coloro che nascano dipoi, in
quella città o provincia, che gli è venuto il tempo
che la scende verso la parte più ria, allora non s'ingannano.
E pensando io come queste cose procedino, giudico il mondo sempre
essere stato ad uno medesimo modo, ed in quello essere stato tanto
di buono quanto di cattivo; ma variare questo cattivo e questo
buono, di provincia in provincia: come si vede per quello si ha
notizia di quegli regni antichi, che variavano dall'uno all'altro
per la variazione de' costumi; ma il mondo restava quel medesimo.
Solo vi era questa differenza, che dove quello aveva prima allogata
la sua virtù in Assiria, la collocò in Media, dipoi in
Persia, tanto che la ne venne in Italia ed a Roma; e se dopo lo
Imperio romano non è seguito Imperio che sia durato,
né dove il mondo abbia ritenuta la sua virtù insieme,
si vede nondimeno essere sparsa in di molte nazioni dove si viveva
virtuosamente; come era il regno de' Franchi, il regno de' Turchi,
quel del Soldano; ed oggi i popoli della Magna; e prima quella setta
Saracina che fece tante gran cose, ed occupò tanto mondo,
poiché la distrusse lo Imperio romano orientale. In tutte
queste provincie, adunque, poiché i Romani rovinorno, ed in
tutte queste sette è stata quella virtù, ed è
ancora in alcuna parte di esse, che si disidera, e che con vera
laude si lauda. E chi nasce in quelle, e lauda i tempi passati
più che i presenti, si potrebbe ingannare; ma chi nasce in
Italia ed in Grecia, e non sia diventato o in Italia oltramontano o
in Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi, e laudare gli
altri: perché in quelli vi sono assai cose che gli fanno
maravigliosi; in questi non è cosa alcuna che gli ricomperi
da ogni estrema miseria, infamia e vituperio: dove non è
osservanza di religione, non di leggi, non di milizia; ma sono
maculati d'ogni ragione bruttura. E tanto sono questi vizi
più detestabili, quanto ei sono più in coloro che
seggono pro tribunali, comandano a ciascuno, e vogliono essere
adorati.
Ma tornando al ragionamento nostro, dico che se il giudicio degli
uomini è corrotto in giudicare quale sia migliore, o il
secolo presente o l'antico, in quelle cose dove per
l'antichità e' non ne ha possuto avere perfetta cognizione
come egli ha de' suoi tempi; non doverebbe corrompersi ne' vecchi
nel giudicare i tempi della gioventù e vecchiezza loro avendo
quelli e questi equalmente conosciuti e visti. La quale cosa sarebbe
vera, se gli uomini per tutti i tempi della lor vita fossero di quel
medesimo giudizio, ed avessono quegli medesimi appetiti: ma variando
quegli ancora che i tempi non variino, non possono parere agli
uomini quelli medesimi, avendo altri appetiti, altri diletti, altre
considerazioni nella vecchiezza, che nella gioventù.
Perché, mancando gli uomini, quando gl'invecchiano, di forze,
e crescendo di giudizio e di prudenza, è necessario che
quelle cose che in gioventù parevano loro sopportabili e
buone, rieschino poi, invecchiando, insopportabili e cattive; e dove
quegli ne doverrebbono accusare il giudizio loro, ne accusano i
tempi. Sendo, oltra di questo, gli appetiti umani insaziabili,
perché, avendo, dalla natura, di potere e volere desiderare
ogni cosa, e, dalla fortuna, di potere conseguitarne poche; ne
risulta continuamente una mala contentezza nelle menti umane, ed uno
fastidio delle cose che si posseggono: il che fa biasimare i
presenti tempi, laudare i passati, e desiderare i futuri; ancora che
a fare questo non fussono mossi da alcuna ragionevole cagione. Non
so, adunque, se io meriterò d'essere numerato tra quelli che
si ingannano, se in questi mia discorsi io lauderò troppo i
tempi degli antichi Romani, e biasimerò i nostri. E
veramente, se la virtù che allora regnava, ed il vizio che
ora regna, non fussino più chiari che il sole andrei col
parlare più rattenuto, dubitando non incorrere in questo
inganno di che io accuso alcuni. Ma essendo la cosa sì
manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire
manifestamente quello che io intenderò di quelli e di questi
tempi; acciocché gli animi de' giovani che questi mia scritti
leggeranno, possino fuggire questi, e prepararsi ad imitar quegli,
qualunque volta la fortuna ne dessi loro occasione. Perché
gli è offizio di uomo buono, quel bene che per la
malignità de' tempi e della fortuna tu non hai potuto
operare, insegnarlo ad altri, acciocché, sendone molti
capaci, alcuno di quelli, più amato dal Cielo, possa
operarlo. Ed avendo ne' discorsi del superior libro, parlato delle
diliberazioni fatte da' Romani, pertinenti al di dentro della
città, in questo parleremo di quelle, che 'l Popolo romano
fece pertinenti allo augumento dello imperio suo.
1
Quale fu più cagione dello imperio
che acquistarono i romani, o la virtù,
o la fortuna.
Molti hanno avuta opinione, ed in tra' quali Plutarco, gravissimo
scrittore, che 'l popolo romano nello acquistare lo imperio fosse
più favorito dalla fortuna che dalla virtù. Ed intra
le altre ragioni che ne adduce, dice che per confessione di quel
popolo si dimostra, quello avere riconosciute dalla fortuna tutte le
sue vittorie, avendo quello edificati più templi alla Fortuna
che ad alcuno altro iddio. E pare che a questa opinione si accosti
Livio; perché rade volte è che facci parlare ad alcuno
Romano, dove ei racconti della virtù, che non vi aggiunga la
fortuna. La qual cosa io non voglio confessare in alcuno modo,
né credo ancora si possa sostenere. Perché, se non si
è trovata mai republica che abbi fatti i profitti che Roma,
è nato che non si è trovata mai republica che sia
stata ordinata a potere acquistare come Roma. Perché la
virtù degli eserciti gli fecero acquistare lo imperio; e
l'ordine del procedere, ed il modo suo proprio, e trovato dal suo
primo latore delle leggi gli fece mantenere lo acquistato: come di
sotto largamente in più discorsi si narrerà. Dicono
costoro, che non avere mai accozzate due potentissime guerre in uno
medesimo tempo, fu fortuna e non virtù del Popolo romano;
perché e' non ebbero guerra con i Latini, se non quando egli
ebbero, non tanto battuti i Sanniti, quanto che la guerra fu fatta
da' Romani in defensione di quelli; non combatterono con i Toscani,
se prima non ebbero soggiogati i Latini, ed enervati con le spesse
rotte quasi in tutto i Sanniti: che se due di queste potenze intere
si fossero, quando erano fresche, accozzate insieme, senza dubbio si
può facilmente conietturare che ne sarebbe seguito la rovina
della romana Republica. Ma, comunque questa cosa nascesse, mai non
intervenne che eglino avessero due potentissime guerre in uno
medesimo tempo: anzi parve sempre che, o, nel nascere dell'una,
l'altra si spegnesse, o nello spegnersi dell'una, l'altra nascesse.
Il che si può facilmente vedere per l'ordine delle guerre
fatte da loro: perché, lasciando stare quelle che fecero
prima che Roma fosse presa dai Franciosi, si vede che, mentre che
combatterno con gli Equi e con i Volsci, mai, mentre che questi
popoli furono potenti, non scesero contro di loro altre genti. Domi
costoro, nacque la guerra contro a' Sanniti; e benché,
innanzi che finisse tale guerra, i popoli latini si ribellassero da'
Romani; nondimeno, quando tale ribellione seguì, i Sanniti
erano in lega con Roma, e con i loro eserciti aiutarono i Romani
domare la insolenzia latina. I quali domi, risurse la guerra di
Sannio. Battute per molte rotte date a' Sanniti le loro forze,
nacque la guerra de' Toscani; la quale composta, si rilevarono di
nuovo i Sanniti per la passata di Pirro in Italia. Il quale come fu
ributtato, e rimandato in Grecia, appiccarono la prima guerra con i
Cartaginesi: né prima fu tale guerra finita, che tutti i
Franciosi, e di là e di qua dall'Alpi, congiurarono contro ai
Romani; tanto che intra Populonia e Pisa, dove è oggi la
torre a San Vincenti, furono con massima strage superati. Finita
questa guerra, per spazio di venti anni ebbero guerre di non molta
importanza; perché non combatterono con altri che con Liguri,
e con quel rimanente de' Franciosi che era in Lombardia. E
così stettero tanto che nacque la seconda guerra cartaginese,
la quale per sedici anni tenne occupata Italia. Finita questa con
massima gloria, nacque la guerra macedonica; la quale finita, venne
quella d'Antioco e d'Asia. Dopo la quale vittoria, non restò
in tutto il mondo né principe né republica che, di per
sé, o tutti insieme, che si potessero opporre alle forze
romane.
Ma innanzi a quella ultima vittoria chi considererà bene
l'ordine di queste guerre, ed il modo del procedere loro, vi
vedrà dentro mescolate con la fortuna una virtù e
prudenza grandissima. Talché, chi esaminassi la cagione di
tale fortuna, la ritroverebbe facilmente: perché gli è
cosa certissima, che come uno principe e uno popolo viene in tanta
riputazione, che ciascuno principe e popolo vicino abbia di per
sé paura ad assaltarlo e ne tema, sempre interverrà
che ciascuno d'essi mai lo assalterà, se non necessitato; in
modo che e' sarà quasi come nella elezione di quel potente,
fare guerra con quale di quei sua vicini gli parrà, e gli
altri con la sua industria quietare. E' quali, parte rispetto alla
potenza sua, parte ingannati da que' modi ch'egli terrà per
adormentargli, si quietano facilmente; quegli altri potenti, che
sono discosto e che non hanno commerzio seco, curano la cosa come
cosa longinqua, e che non appartenga a loro. Nel quale errore stanno
tanto che questo incendio venga loro presso: il quale venuto, non
hanno rimedio a spegnerlo se non con le forze proprie le quali dipoi
non bastono, sendo colui diventato potentissimo. Io voglio lasciare
andare come i Sanniti stettero a vedere vincere dal Popolo romano i
Volsci e gli Equi; e per non essere troppo prolisso, mi farò
da' Cartaginesi: i quali erano di gran potenza e di grande
estimazione, quando i Romani combattevano co' Sanniti e con i
Toscani; perché di già tenevano tutta l'Africa,
tenevano la Sardigna e la Sicilia, avevano dominio in parte della
Spagna. La quale potenza loro, insieme con lo essere discosto ne'
confini dal popolo romano, fece che non pensarono mai di assaltare
quello, né di soccorrere i Sanniti ed i Toscani: anzi fecero
come si fa nelle cose che crescano più tosto in loro favore,
collegandosi con quegli e cercando l'amicizia loro. Né si
avviddono prima dello errore fatto, che i Romani, domi tutti i
popoli mezzi in fra loro ed i Cartaginesi, cominciarono a combattere
insieme dello imperio di Sicilia e di Spagna. Intervenne questo
medesimo a' Franciosi che a' Cartaginesi, e così a Filippo re
de' Macedoni, e a Antioco; e ciascuno di loro credea, mentre che il
Popolo romano era occupato con l'altro, che quello altro lo
superasse, ed essere a tempo, o con pace o con guerra, difendersi da
lui. In modo che io credo che la fortuna che ebbero in questa parte
i Romani, l'arebbono tutti quegli principi che procedessono come i
Romani, e fossero della medesima virtù che loro.
Sarebbeci da mostrare a questo proposito il modo tenuto dal Popolo
romano nello entrare nelle provincie d'altrui, se nel nostro
trattato de' Principati non ne avessimo parlato a lungo:
perché, in quello, questa materia è diffusamente
disputata. Dirò solo questo lievemente, come sempre
s'ingegnarono avere nelle provincie nuove qualche amico che fussi
scala o porta a salirvi o entrarvi, o mezzo a tenerla: come si vede
che per il mezzo de' Capuani entrarono in Sannio, de' Camertini in
Toscana, de' Mamertini in Sicilia, de' Saguntini in Spagna, di
Massinissa in Africa, degli Etoli in Grecia, di Eumene ed altri
principi in Asia, de' Massiliensi e delli Edui in Francia. E
così non mancorono mai di simili appoggi, per potere
facilitare le imprese loro, e nello acquistare le provincie e nel
tenerle. Il che quegli popoli che osserveranno, vedranno avere meno
bisogno della fortuna, che quelli che ne saranno non buoni
osservatori. E perché ciascuno possa meglio conoscere, quanto
possa più la virtù che la fortuna loro ad acquistare
quello imperio, noi discorrereno, nel seguente capitolo, di che
qualità furono quelli popoli con e' quali egli ebbero a
combattere, e quanto erano ostinati a difendere la loro
libertà.
2
Con quali popoli i Romani
ebbero a combattere,
e come ostinatamente quegli difendevono
la loro libertà.
Nessuna cosa fe' più faticoso a' Romani superare i popoli
d'intorno e parte delle provincie discosto, quanto lo amore che in
quelli tempi molti popoli avevano alla libertà, la quale
tanto ostinatamente difendevano, che mai se non da una eccessiva
virtù sarebbono stati soggiogati. Perché, per molti
esempli si conosce a quali pericoli si mettessono per mantenere o
ricuperare quella; quali vendette ei facessono contro a coloro che
l'avessero loro occupata. Conoscesi ancora nella lezione delle
istorie, quali danni i popoli e le città ricevino per la
servitù. E dove in questi tempi ci è solo una
provincia, la quale si possa dire che abbi in sé città
libere, ne' tempi antichi in tutte le provincie erano assai popoli
liberissimi. Vedesi come in quelli tempi de' quali noi parliamo al
presente, in Italia, dall'Alpi che dividono ora la Toscana da
Lombardia, infino alla punta d'Italia, erano tutti popoli liberi;
come erano i Toscani, i Romani, i Sanniti, e molti altri popoli che
in quel resto d'Italia abitavano. Né si ragiona mai che vi
fusse alcuno re, fuora di quegli che regnorono in Roma, e Porsenna
re di Toscana; la stirpe del quale come si estinguesse, non ne parla
la istoria. Ma si vede bene, come in quegli tempi che i Romani
andarono a campo a Veio, la Toscana era libera: e tanto si godeva
della sua libertà, e tanto odiava il nome del principe, che,
avendo fatto i Veienti per loro difensione uno re in Veio, e
domandando aiuto a' Toscani contro a' Romani, quegli, dopo molte
consulte fatte, deliberarono di non dare aiuto a' Veienti, infino a
tanto che vivessono sotto il re; giudicando non essere bene
difendere la patria di coloro che l'avevano di già sottomessa
a altrui. E facil cosa è conoscere donde nasca ne' popoli
questa affezione del vivere libero; perché si vede per
esperienza, le cittadi non avere mai ampliato nè di dominio
né di ricchezza, se non mentre sono state in libertà.
E veramente maravigliosa cosa è a considerare, a quanta
grandezza venne Atene per spazio di cento anni, poiché la si
liberò dalla tirannide di Pisistrato. Ma sopra tutto
maravigliosissima è a considerare a quanta grandezza venne
Roma, poiché la si liberò da' suoi Re. La ragione
è facile a intendere; perché non il bene particulare,
ma il bene comune è quello che fa grandi le città. E
senza dubbio, questo bene comune non è osservato se non nelle
republiche; perché tutto quello che fa a proposito suo, si
esequisce; e quantunque e' torni in danno di questo o di quello
privato, e' sono tanti quegli per chi detto bene fa, che lo possono
tirare innanzi contro alla disposizione di quegli pochi che ne
fussono oppressi. Al contrario interviene quando vi è uno
principe; dove il più delle volte quello che fa per lui,
offende la città; e quello che fa per la città,
offende lui. Dimodoché, subito che nasce una tirannide sopra
uno vivere libero, il manco male che ne resulti a quelle
città è non andare più innanzi, né
crescere più in potenza o in ricchezze; ma il più
delle volte, anzi sempre, interviene loro, che le tornano indietro.
E se la sorte facesse che vi surgesse uno tiranno virtuoso il quale
per animo e per virtù d'arme ampliasse il dominio suo, non ne
risulterebbe alcuna utilità a quella republica, ma a lui
proprio: perché e' non può onorare nessuno di quegli
cittadini che siano valenti e buoni, che egli tiranneggia, non
volendo avere ad avere sospetto di loro. Non può ancora le
città che esso acquista, sottometterle o farle tributarie a
quella città di che egli è tiranno: perché il
farla potente non fa per lui; ma per lui fa tenere lo stato
disgiunto, e che ciascuna terra e ciascuna provincia riconosca lui.
Talché, de' suoi acquisti, solo egli ne profitta, e non la
sua patria. E chi volessi confermare questa opinione con infinite
altre ragioni, legga Senofonte nel suo trattato che fa De Tyrannide.
Non è maraviglia, adunque, che gli antichi popoli con tanto
odio perseguitassono i tiranni ed amassino il vivere libero, e che
il nome della libertà fusse tanto stimato da loro: come
intervenne quando Girolamo, nipote di Ierone siracusano, fu morto in
Siracusa, che, venendo le novelle della sua morte in nel suo
esercito, che non era molto lontano da Siracusa, cominciò
prima a tumultuare, e pigliare l'armi contro agli ucciditori di
quello; ma come ei sentì che in Siracusa si gridava
libertà, allettato da quel nome, si quietò tutto, pose
giù l'ira, contro a' tirannicidi, e pensò come in
quella città si potessi ordinare uno vivere libero. Non
è maraviglia ancora, che e' popoli faccino vendette
istraordinarie contro a quegli che gli hanno occupata la
libertà. Di che ci sono stati assai esempli, de' quali ne
intendo referire solo uno, seguito in Corcira, città di
Grecia, ne' tempi della guerra peloponnesiaca; dove, sendo divisa
quella provincia in due parti, delle quali l'una seguitava gli
Ateniesi l'altra gli Spartani, ne nasceva che di molte città,
che erano infra loro divise, l'una parte seguiva l'amicizia di
Sparta, l'altra di Atene: ed essendo occorso che nella detta
città prevalessono i nobili, e togliessono la libertà
al popolo, i popolari per mezzo degli Ateniesi ripresero le forze,
e, posto le mani addosso a tutta la Nobilità, gli rinchiusero
in una prigione capace di tutti loro; donde gli traevono a otto o
dieci per volta, sotto titolo di mandargli in esilio in diverse
parti, e quegli con molti crudeli esempli facevano morire. Di che
sendosi, quelli che restavano, accorti, deliberarono in quanto era a
loro possibile, fuggire quella morte ignominiosa: ed armatisi di
quello potevano, combattendo con quelli che vi volevano entrare, la
entrata della prigione difendevano; di modo che il popolo, a questo
romore fatto uno concorso, scoperse la parte superiore di quel
luogo, e quegli con quelle rovine suffocò. Seguirono ancora
in detta provincia molti altri simili casi orrendi e notabili;
talché si vede essere vero che con maggiore impeto si vendica
una libertà che ti è suta tolta, che quella che ti
è voluta tôrre.
Pensando dunque donde possa nascere, che, in quegli tempi antichi, i
popoli fossero più amatori della libertà che in
questi; credo nasca da quella medesima cagione che fa ora gli uomini
manco forti: la quale credo sia la diversità della educazione
nostra dall'antica. Perché, avendoci la nostra religione
mostro la verità e la vera via, ci fa stimare meno l'onore
del mondo: onde i Gentili, stimandolo assai, ed avendo posto in
quello il sommo bene, erano nelle azioni loro più feroci. Il
che si può considerare da molte loro constituzioni,
cominciandosi dalla magnificenza de' sacrifizi loro, alla
umiltà de' nostri; dove è qualche pompa più
delicata che magnifica, ma nessuna azione feroce o gagliarda. Qui
non mancava la pompa né la magnificenza delle cerimonie, ma
vi si aggiugneva l'azione del sacrificio pieno di sangue e di
ferocità, ammazzandovisi moltitudine d'animali; il quale
aspetto, sendo terribile, rendeva gli uomini simili a lui. La
religione antica, oltre a di questo, non beatificava se non uomini
pieni di mondana gloria; come erano capitani di eserciti e principi
di republiche. La nostra religione ha glorificato più gli
uomini umili e contemplativi, che gli attivi. Ha dipoi posto il
sommo bene nella umiltà, abiezione, e nel dispregio delle
cose umane: quell'altra lo poneva nella grandezza dello animo, nella
fortezza del corpo, ed in tutte le altre cose atte a fare gli uomini
fortissimi. E se la religione nostra richiede che tu abbi in te
fortezza, vuole che tu sia atto a patire più che a fare una
cosa forte. Questo modo di vivere, adunque, pare che abbi renduto il
mondo debole, e datolo in preda agli uomini scelerati; i quali
sicuramente lo possono maneggiare, veggendo come l'università
degli uomini, per andarne in Paradiso, pensa più a sopportare
le sue battiture che a vendicarle. E benché paia che si sia
effeminato il mondo, e disarmato il Cielo, nasce più sanza
dubbio dalla viltà degli uomini, che hanno interpretato la
nostra religione secondo l'ozio, e non secondo la virtù.
Perché, se considerassono come la ci permette la esaltazione
e la difesa della patria, vedrebbono come la vuole che noi l'amiamo
ed onoriamo, e prepariamoci a essere tali che noi la possiamo
difendere. Fanno adunque queste educazioni, e sì false
interpretazioni, che nel mondo non si vede tante republiche quante
si vedeva anticamente; né, per consequente, si vede ne'
popoli tanto amore alla libertà quanto allora: ancora che io
creda più tosto essere cagione di questo, che lo Imperio
romano con le sue arme e sua grandezza spense tutte le republiche e
tutti e' viveri civili. E benché poi tale Imperio si sia
risoluto, non si sono potute le città ancora rimettere
insieme né riordinare alla vita civile, se non in pochissimi
luoghi di quello Imperio. Pure, comunque si fusse, i Romani in ogni
minima parte del mondo trovarono una congiura di republiche
armatissime ed ostinatissime alla difesa della libertà loro.
Il che mostra che il popolo romano sanza una rara ed estrema
virtù mai non le arebbe potute superare.
E per darne esemplo di qualche membro, voglio mi basti lo esemplo
de' Sanniti: i quali pare cosa mirabile, e Tito Livio lo confessa,
che fussero sì potenti, e l'arme loro sì valide, che
potessono infino al tempo di Papirio Cursore consolo, figliuolo del
primo Papirio, resistere a' Romani (che fu uno spazio di quarantasei
anni), dopo tante rotte, rovine di terre, e tante strage ricevute
nel paese loro; massime veduto ora quel paese, dove erano tante
cittadi e tanti uomini, essere quasi che disabitato; ed allora vi
era tanto ordine e tanta forza, che gli era insuperabile, se da una
virtù romana non fosse stato assaltato. E facil cosa è
considerare donde nasceva quello ordine, e donde proceda questo
disordine; perché tutto viene dal vivere libero allora, ed
ora dal vivere servo. Perché tutte le terre e le provincie
che vivono libere in ogni parte, come di sopra dissi, fanno profitti
grandissimi. Perché quivi si vede maggiori popoli, per essere
e' connubi più liberi, più desiderabili dagli uomini:
perché ciascuno procrea volentieri quegli figliuoli che crede
potere nutrire, non dubitando che il patrimonio gli sia tolto; e
ch'ei conosce non solamente che nascono liberi e non schiavi, ma
ch'ei possono mediante la virtù loro diventare principi.
Veggonvisi le ricchezze multiplicare in maggiore numero, e quelle
che vengono dalla cultura, e quelle che vengono dalle arti.
Perché ciascuno volentieri multiplica in quella cosa, e cerca
di acquistare quei beni, che crede, acquistati, potersi godere. Onde
ne nasce che gli uomini a gara pensono a' privati e publici commodi;
e l'uno e l'altro viene maravigliosamente a crescere. Il contrario
di tutte queste cose segue in quegli paesi che vivono servi; e tanto
più scemono dal consueto bene, quanto più è
dura la servitù. E di tutte le servitù dure, quella
è durissima che ti sottomette a una republica: l'una,
perché la è più durabile, e manco si può
sperare d'uscirne; l'altra, perché il fine della republica
è enervare ed indebolire, per accrescere il corpo suo, tutti
gli altri corpi. Il che non fa uno principe che ti sottometta,
quando quel principe non sia qualche principe barbaro, destruttore
de' paesi e dissipatore di tutte le civiltà degli uomini,
come sono i principi orientali. Ma s'egli ha in sé ordini
umani ed ordinari, il più delle volte ama le città sue
suggette equalmente, ed a loro lascia l'arti tutte, e quasi tutti
gli ordini antichi. Talché, se le non possono crescere come
libere, elle non rovinano anche come schiave; intendendosi della
servitù in quale vengono le città servendo a un
forestiero, perché di quelle d'uno loro cittadino ne parlai
di sopra. Chi considererà, adunque, tutto quello che si
è detto, non si maraviglierà della potenza che i
Sanniti avevano, sendo liberi, e della debolezza in che e' vennono
poi, servendo: e Tito Livio ne fa fede in più luoghi, e
massime nella guerra di Annibale, dove e' mostra che, sendo i
Sanniti oppressi da una legione di uomini che era in Nola, mandarono
oratori ad Annibale, a pregarlo che gli soccorressi; i quali, nel
parlare loro, dissono, che avevano per cento anni combattuto con i
Romani con i propri loro soldati e propri loro capitani, e molte
volte aveano sostenuto dua eserciti consolari e dua consoli, e che
allora a tanta bassezza erano venuti, che non si potevano a pena
difendere da una piccola legione romana che era in Nola.
3
Roma divenne gran città
rovinando le città circunvicine,
e ricevendo i forestieri facilmente
a' suoi onori.
«Crescit interea Roma Albae ruinis». Quegli che
disegnono che una città faccia grande imperio, si debbono con
ogni industria ingegnare di farla piena di abitatori; perché,
sanza questa abbondanza di uomini, mai non riuscirà di fare
grande una città. Questo si fa in due modi: per amore e per
forza. Per amore, tenendo le vie aperte e sicure a' forestieri che
disegnassono venire ad abitare in quella, acciocché ciascuno
vi abiti volentieri: per forza, disfacendo le città vicine, e
mandando gli abitatori di quelle ad abitare nella tua città.
Il che fu in tanto osservato da Roma, che, nel tempo del sesto re,
in Roma abitavano ottantamila uomini da portare arme. Perché
i Romani vollono fare ad uso del buono cultivatore; il quale,
perché una pianta ingrossi, e possa produrre e maturare i
frutti suoi, gli taglia i primi rami che la mette, acciocché,
rimasa quella virtù nel piede di quella pianta, possano col
tempo nascervi più verdi e più fruttiferi. E che
questo modo, tenuto per ampliare e fare imperio, fusse necessario e
buono lo dimostra lo esemplo di Sparta e di Atene: le quali essendo
dua republiche armatissime, ed ordinate di ottime leggi, nondimeno
non si condussono alla grandezza dello Imperio romano; e Roma pareva
più tumultuaria, e non tanto bene ordinata come quelle. Di
che non se ne può addurre altra cagione, che la preallegata:
perché Roma, per avere ingrossato per quelle due vie il corpo
della sua città, potette di già mettere in arme
dugentottantamila uomini; e Sparta ed Atene non passarono mai
ventimila per ciascuna. Il che nacque, non da essere il sito di Roma
più benigno che quello di coloro, ma solamente da diverso
modo di procedere. Perché Licurgo, fondatore della republica
spartana, considerando nessuna cosa potere più facilmente
risolvere le sue leggi che la commistione di nuovi abitatori, fece
ogni cosa perché i forestieri non avessono a conversarvi: ed
oltre a non gli ricevere ne' matrimoni, alla civilità, ed
alle altre conversazioni che fanno convenire gli uomini insieme,
ordinò che in quella sua republica si spendesse monete di
cuoio, per tor via a ciascuno il disiderio di venirvi per portarvi
mercanzie, o portarvi alcuna arte; di qualità che quella
città non potette mai ingrossare di abitatori. E
perché tutte le azioni nostre imitano la natura, non è
possibile né naturale che uno pedale sottile sostenga uno
ramo grosso. Però una republica piccola non può
occupare città né regni che sieno più validi
né più grossi di lei; e, se pure gli occupa,
gl'interviene come a quello albero che avesse più grosso il
ramo che il piede, che, sostenendolo con fatica, ogni piccol vento
lo fiacca: come si vide che intervenne a Sparta; la quale avendo
occupate tutte le città di Grecia, non prima se gli
ribellò Tebe, che tutte le altre città se gli
ribellarono, e rimase il pedale solo sanza rami. Il che non potette
intervenire a Roma, avendo il piè sì grosso, che
qualunque ramo poteva facilmente sostenere. Questo modo adunque di
procedere, insieme con gli altri che di sotto si diranno, fece Roma
grande e potentissima. Il che dimostra Tito Livio in due parole,
quando disse: «Crescit interea Roma Albae ruinis».
4
Le republiche hanno tenuti
tre modi circa lo ampliare.
Chi ha osservato le antiche istorie, trova come le republiche hanno
tenuti tre modi circa lo ampliare. L'uno è stato quello che
osservarono i Toscani antichi, di essere una lega di più
republiche insieme, dove non sia alcuna che avanzi l'altra né
di autorità né di grado; e, nello acquistare, farsi
l'altre città compagne, in simil modo come in questo tempo
fanno i Svizzeri, e come ne' tempi antichi fecero in Grecia gli
Achei e gli Etoli. E perché i Romani feciono assai guerra co'
Toscani, per mostrare meglio le qualità di questo primo modo,
mi distenderò in dare notizia di loro particularmente. In
Italia, innanzi allo Imperio romano, furono i Toscani per mare e per
terra potentissimi: e benché delle cose loro non ce ne sia
particulare istoria, pure c'è qualche poco di memoria, e
qualche segno della grandezza loro; e si sa come e' mandarono una
colonia in su 'l mare di sopra, la quale chiamarono Adria, che fu
sì nobile, che la dette nome a quel mare che ancora i Latini
chiamono Adriatico. Intendesi ancora, come le loro armi furono
ubbidite dal Tevere per infino a piè delle Alpi che ora
cingono il grosso di Italia; non ostante che, dugento anni innanzi
che i Romani crescessono in molte forze, detti Toscani perderono lo
imperio di quel paese che oggi si chiama la Lombardia; la quale
provincia fu occupata da' Franciosi: i quali, mossi o da
necessità o dalla dolcezza dei frutti, e massime del vino
vennono in Italia sotto Belloveso loro duca; e rotti e cacciati i
provinciali, si posono in quello luogo, dove edificarono di molte
cittadi, e quella provincia chiamarono Gallia, dal nome che tenevano
allora; la quale tennono fino che da' Romani fussero domi. Vivevono,
adunque, i Toscani con quella equalità, e procedevano nello
ampliare in quel primo modo che di sopra si dice: e furono dodici
città, tra le quali era Chiusi, Veio, Arezzo, Fiesole,
Volterra, e simili: i quali per via di lega governavano lo Imperio
loro; né poterono uscire d'Italia con gli acquisti; e di
quella ancora rimase intatta gran parte, per le cagioni che di sotto
si diranno. L'altro modo è farsi compagni: non tanto
però che non ti rimanga il grado del comandare, la sedia
dello Imperio, ed il titolo delle imprese: il quale modo fu
osservato da' Romani. Il terzo modo è farsi immediate
sudditi, e non compagni; come fecero gli Spartani e gli Ateniesi.
De' quali tre modi, questo ultimo è al tutto inutile; come si
vide ch'ei fu nelle soprascritte due republiche: le quali non
rovinarono per altro, se non per avere acquistato quel dominio che
le non potevano tenere. Perché, pigliare cura di avere a
governare città con violenza, massime quelle che fussono
consuete a vivere libere, è una cosa difficile e faticosa. E
se tu non sei armato, e grosso d'armi, non le puoi né
comandare né reggere. Ed a volere essere così fatto,
è necessario farsi compagni che ti aiutino, e ingrossare la
tua città di popolo. E perché queste due città
non fecero né l'uno né l'altro, il modo di procedere
loro fu inutile. E perché Roma, la quale è nello
esemplo del secondo modo, fece l'uno e l'altro, però salse a
tanta eccessiva potenza. E perché la è stata sola a
vivere così, è stata ancora sola a diventare tanto
potente: perché, avendosi lei fatti di molti compagni per
tutta Italia, i quali in di molte cose con equali leggi vivevano
seco; e, dall'altro canto, come di sopra è detto, sendosi
riserbata sempre la sedia dello Imperio ed il titolo del comandare,
questi suoi compagni venivano, che non se ne avvedevano, con le
fatiche e con il sangue loro a soggiogare sé stessi.
Perché, come ei cominciarono a uscire con gli eserciti di
Italia, e ridurre i regni in provincie, e farsi suggetti coloro che,
per essere consueti a vivere sotto i re, non si curavano di essere
suggetti, ed avendo governatori romani, ed essendo stati vinti da
eserciti con il titolo romano, non riconoscevano per superiore altro
che Roma. Di modo che quegli compagni di Roma che erano in Italia,
si trovarono in un tratto cinti da' sudditi romani, ed oppressi da
una grossissima città come era Roma; e quando ei s'avviddono
dello inganno sotto il quale erano vissuti, non furono a tempo a
rimediarvi; tanta autorità aveva presa Roma con le provincie
esterne, e tanta forza si trovava in seno, avendo la sua
città grossissima ed armatissima. E benché quelli suoi
compagni, per vendicarsi delle ingiurie, le congiurassero contro,
furono in poco tempo perditori della guerra, peggiorando le loro
condizioni; perché, di compagni, diventarono ancora loro
sudditi. Questo modo di procedere, come è detto, è
stato solo osservato da' Romani: né può tenere altro
modo una republica che voglia ampliare; perché la esperienza
non ce ne ha mostro nessuno più certo o più vero.
Il modo preallegato delle leghe, come viverono i Toscani, gli Achei
e gli Etoli e come oggi vivono i Svizzeri è, dopo a quello
de' Romani, il migliore modo; perché, non si potendo con
quello ampliare assai, ne séguita due beni; l'uno, che
facilmente non ti tiri guerra a dosso; l'altro, che quel tanto che
tu pigli, lo tieni facilmente. La cagione del non potere ampliare
è lo essere una republica disgiunta e posta in varie sedie:
il che fa che difficilmente possono consultare e diliberare. Fa,
ancora, che non sono desiderosi di dominare: perché, essendo
molte comunità a participare di quel dominio, non stimano
tanto tale acquisto quanto fa una republica sola, che spera di
goderselo tutto. Governonsi, oltra di questo, per concilio, e
conviene che sieno più tardi ad ogni diliberazione, che
quelli che abitono drento a uno medesimo cerchio. Vedesi ancora per
sperienza, che simile modo di procedere ha un termine fisso, il
quale non ci è esemplo che mostri che si sia trapassato: e
questo è di aggiugnere a dodici o quattordici
comunità; dipoi, non cercare di andare più avanti:
perché, sendo giunti a grado che pare loro potersi difendere
da ciascuno, non cercono maggiore dominio; sì perché
la necessità non gli stringe di avere più potenza;
sì per non conoscere utile negli acquisti, per le cagioni
dette di sopra. Perché gli arebbono a fare una delle due
cose; o a seguitare di farsi compagni, e questa moltitudine farebbe
confusione; o egli arebbono a farsi sudditi, e perché e'
veggono in questo difficultà, e non molto utile nel tenergli,
non lo stimano. Pertanto, quando e' sono venuti a tanto numero che
paia loro vivere sicuri, si voltono a due cose: l'una a ricevere
raccomandati, e pigliare protezioni; e per questi mezzi trarre da
ogni parte danari, i quali facilmente infra loro si possono
distribuire: l'altra è militare per altrui, e pigliare soldo
da questo e da quel principe che per sue imprese gli solda; come si
vede che fanno oggi i Svizzeri, e come si legge che facevano i
preallegati. Di che n'è testimone Tito Livio, dove dice che,
venendo a parlamento Filippo re di Macedonia con Tito Quinzio
Flaminio, e ragionando d'accordo alla presenza d'uno pretore degli
Etoli, e venendo a parole detto pretore con Filippo, gli fu da
quello rimproverato la avarizia e la infidelità dicendo che
gli Etoli non si vergognavano militare con uno, e poi mandare loro
uomini ancora a servigio del nimico; talché molte volte intra
due contrari eserciti si vedevano le insegne di Etolia. Conoscesi,
pertanto, come questo modo di procedere per leghe, è stato
sempre simile, ed ha fatto simili effetti. Vedesi ancora, che quel
modo di fare sudditi è stato sempre debole, ed avere fatto
piccoli profitti; e quando pure egli hanno passato il modo, essere
rovinati tosto. E se questo modo di fare sudditi è inutile
nelle republiche armate, in quelle che sono disarmate è
inutilissimo: come sono state ne' nostri tempi le republiche
d'Italia. Conoscesi, pertanto, essere vero modo quello che tennono i
Romani, il quale è tanto più mirabile, quanto e' non
ce n'era innanzi a Roma esemplo, e dopo Roma non è stato
alcuno che gli abbi imitati. E quanto alle leghe, si trovano solo i
Svizzeri e la lega di Svezia che gli imita. E, come nel fine di
questa materia si dirà, tanti ordini osservati da Roma,
così pertinenti alle cose di dentro come a quelle di fuora,
non sono ne' presenti nostri tempi non solamente imitati, ma non
n'è tenuto alcuno conto: giudicandoli alcuni non veri, alcuni
impossibili, alcuni non a proposito ed inutili; tanto che, standoci
con questa ignoranzia, siamo preda di qualunque ha voluto correre
questa provincia. E quando la imitazione de' Romani paresse
difficile, non doverrebbe parere così quella degli antichi
Toscani, massime a' presenti Toscani. Perché, se quelli non
poterono, per le cagioni dette, fare uno Imperio simile a quel di
Roma, poterono acquistare in Italia quella potenza che quel modo del
procedere concesse loro. Il che fu, per un gran tempo, sicuro, con
somma gloria d'imperio e d'arme, e massime laude di costumi e di
religione. La quale potenza e gloria fu prima diminuita da'
Franciosi, dipoi spenta da' Romani: e fu tanto spenta, che, ancora
che, dumila anni fa, la potenza de' Toscani fusse grande, al
presente non ce n'è quasi memoria. La quale cosa mi ha fatto
pensare donde nasca questa oblivione delle cose: come nel seguente
capitolo si discorrerà.
5
Che la variazione delle sètte
e delle lingue, insieme con l'accidente
de' diluvii o della peste, spegne
le memorie delle cose.
A quegli filosofi che hanno voluto che il mondo sia stato eterno,
credo che si potesse replicare che, se tanta antichità fusse
vera, e' sarebbe ragionevole che ci fussi memoria di più che
cinquemila anni; quando e' non si vedesse come queste memorie de'
tempi per diverse cagioni si spengano: delle quali, parte vengono
dagli uomini, parte dal cielo. Quelle che vengono dagli uomini sono
le variazioni delle sètte e delle lingue. Perché,
quando e' surge una setta nuova, cioè una religione nuova, il
primo studio suo è, per darsi riputazione, estinguere la
vecchia; e, quando gli occorre che gli ordinatori della nuova setta
siano di lingua diversa, la spengono facilmente. La quale cosa si
conosce considerando e' modi che ha tenuti la setta Cristiana contro
alla Gentile; la quale ha cancellati tutti gli ordini, tutte le
cerimonie di quella, e spenta ogni memoria di quella antica
teologia. Vero è che non gli è riuscito spegnere in
tutto la notizia delle cose fatte dagli uomini eccellenti di quella:
il che è nato per avere quella mantenuta la lingua latina; il
che feciono forzatamente, avendo a scrivere questa legge nuova con
essa. Perché, se l'avessono potuta scrivere con nuova lingua,
considerato le altre persecuzioni gli feciono, non ci sarebbe
ricordo alcuno delle cose passate. E chi legge i modi tenuti da San
Gregorio, e dagli altri capi della religione cristiana, vedrà
con quanta ostinazione e' perseguitarono tutte le memorie antiche,
ardendo le opere de' poeti e degli istorici, ruinando le imagini e
guastando ogni altra cosa che rendesse alcun segno della
antichità. Talché, se a questa persecuzione egli
avessono aggiunto una nuova lingua, si sarebbe veduto in brevissimo
tempo ogni cosa dimenticare. È da credere, pertanto, che
quello che ha voluto fare la setta Cristiana contro alla setta
Gentile, la Gentile abbia fatto contro a quella che era innanzi a
lei. E perché queste sètte in cinque o in seimila anni
variano due o tre volte, si perde la memoria delle cose fatte
innanzi a quel tempo; e se pure ne resta alcun segno, si considera
come cosa favolosa, e non è prestato loro fede: come
interviene alla istoria di Diodoro Siculo, che, benché e'
renda ragione di quaranta o cinquantamila anni, nondimeno è
riputato, come io credo, che sia cosa mendace.
Quanto alle cause che vengono dal cielo, sono quelle che spengono la
umana generazione, e riducano a pochi gli abitatori di parte del
mondo. E questo viene o per peste o per fame o per una inondazione
d'acque: e la più importante è questa ultima,
sì perché la è più universale, sì
perché quegli che si salvono sono uomini tutti montanari e
rozzi, i quali, non avendo notizia di alcuna antichità, non
la possono lasciare a' posteri. E se infra loro si salvasse alcuno
che ne avessi notizia, per farsi riputazione e nome, la nasconde, e
la perverte a suo modo; talché ne resta solo a' successori
quanto ei ne ha voluto scrivere, e non altro. E che queste
inondazioni, peste e fami venghino, non credo sia da dubitarne;
sì perché ne sono piene tutte le istorie, sì
perché si vede questo effetto della oblivione delle cose,
sì perché e' pare ragionevole ch'e' sia: perché
la natura, come ne' corpi semplici, quando e' vi è ragunato
assai materia superflua, muove per sé medesima molte volte, e
fa una purgazione, la quale è salute di quel corpo;
così interviene in questo corpo misto della umana
generazione, che, quando tutte le provincie sono ripiene di
abitatori, in modo che non possono vivervi, né possono andare
altrove, per essere occupati e ripieni tutti i luoghi; e quando la
astuzia e la malignità umana è venuta dove la
può venire, conviene di necessità che il mondo si
purghi per uno de' tre modi; acciocché gli uomini, sendo
divenuti pochi e battuti, vivino più comodamente, e diventino
migliori. Era dunque, come di sopra è detto, già la
Toscana potente, piena di religione e di virtù, aveva i suoi
costumi e la sua lingua patria: il che tutto è suto spento
dalla potenza romana. Talché, come si è detto, di lei
ne rimane solo la memoria del nome.
6
Come i Romani procedevano
nel fare la guerra.
Avendo discorso come i Romani procedevano nello ampliare,
discorrereno ora come e' procedevano nel fare la guerra; ed in ogni
loro azione si vedrà con quanta prudenzia ei deviarono dal
modo universale degli altri, per facilitarsi la via a venire a una
suprema grandezza. La intenzione di chi fa guerra per elezione, o
vero per ambizione, è acquistare e mantenere lo acquistato; e
procedere in modo con essa, che l'arricchisca e non impoverisca il
paese e la patria sua. È necessario dunque, e nello
acquistare e nel mantenere, pensare di non spendere; anzi fare ogni
cosa con utilità del publico suo. Chi vuole fare tutte queste
cose, conviene che tenga lo stile e modo romano: il quale fu in
prima di fare le guerre, come dicano i Franciosi, corte e grosse;
perché, venendo in campagna con eserciti grossi, tutte le
guerre che gli ebbono con i Latini, Sanniti e Toscani, le spedirano
in brevissimo tempo. E se si noteranno tutte quelle che feciono dal
principio di Roma infino alla ossidione de' Veienti, tutte si
vedranno ispedite, quale in sei, quale in dieci, quale in venti
dì. Perché l'uso loro era questo: subito che era
scoperta la guerra, egli uscivano fuora con gli eserciti allo
incontro del nimico, e subito facevano la giornata. La quale vinta,
i nimici, perché non fosse guasto loro il contado affatto
venivano alle condizioni ed i Romani gli condannavano in terreni: i
quali terreni gli convertivano in privati commodi o gli consegnavano
ad una colonia; la quale posta in su le frontiere di coloro veniva
ad essere guardia de' confini romani, con utile di essi coloni, che
avevano quegli campi, e con utile del publico di Roma, che sanza
spesa teneva quella guardia. Né poteva questo modo essere
più sicuro, o più forte, o più utile:
perché mentre che i nimici non erano in su i campi, quella
guardia bastava: come e' fossono usciti fuori grossi per opprimere
quella colonia, ancora i Romani uscivano fuori grossi, e venivano a
giornata con quegli, e fatta e vinta la giornata, imponendo loro
più grave condizione, si tornavano in casa. Così
venivano ad acquistare di mano in mano riputazione sopra di loro, e
forze in sé medesimi. E questo modo vennono tenendo infino
che mutarono modo di procedere in guerra: il che fu dopo la
ossidione de' Veienti; dove, per potere fare guerra lungamente, gli
ordinarono di pagare i soldati, che prima, per non essere
necessario, essendo le guerre brevi, non gli pagavano. E
benché i Romani dessino il soldo, e che per virtù di
questo ei potessono fare le guerre più lunghe, e per farle
più discosto la necessità gli tenesse più in
su' campi; nondimeno non variarono mai dal primo ordine di finirle
presto, secondo il luogo ed il tempo; né variarono mai dal
mandare le colonie. Perché nel primo ordine gli tenne, circa
il fare le guerre brevi oltra a il loro naturale uso, l'ambizione
de' Consoli; i quali avendo a stare uno anno e di quello anno sei
mesi alle stanze, volevano finire la guerra per trionfare. Nel
mandare le colonie gli tenne l'utile e la commodità grande
che ne risultava. Variarono bene alquanto circa le prede, delle
quali non erano così liberali come erano stati prima;
sì perché e' non pareva loro tanto necessario, avendo
i soldati lo stipendio; sì perché, essendo le prede
maggiori, disegnavano d'ingrassare di quelle in modo il publico che
non fussono constretti a fare le imprese con tributi della
città. Il quale ordine in poco tempo fece il loro erario
ricchissimo. Questi dua modi, adunque, e circa il distribuire la
preda, e circa il mandare le colonie, feciono che Roma arricchiva
della guerra; dove gli altri principi e republiche non savie ne
impoveriscono. E si ridusse la cosa in termine, che a uno Consolo
non pareva potere trionfare, se non portava col suo trionfo assai
oro ed argento, e d'ogni altra sorta preda, nello erario.
Così i Romani, con i soprascritti termini, e con il finire le
guerre presto, sendo valenti con lunghezza straccare i nimici, e con
le rotte e con le scorrerie e con accordi a loro vantaggi,
diventarono sempre più ricchi e più potenti.
7
Quanto terreno i Romani
davano per colono.
Quanto terreno i Romani distribuissono per colono, credo sia
difficile trovarne la verità. Perché io credo ne
dessino più o manco, secondo i luoghi dove e' mandavano le
colonie. Giudicasi che ad ogni modo ed in ogni luogo la
distribuzione fussi parca: prima, per potere mandare più
uomini, sendo quelli diputati per guardia di quel paese; dipoi
perché, vivendo loro poveri a casa, non era ragionevole che
volessono che i loro uomini abbondassino troppo fuora. E Tito Livio
dice come, preso Veio, e' vi mandarono una colonia, e distribuirono
a ciascuno tre iugeri e sètte once di terra; che sono, al
modo nostro.... Perché, oltre alle cose soprascritte,
e'giudicavano che non lo assai terreno, ma il bene cultivato,
bastasse. È necessario bene, che tutta la colonia abbi campi
publici dove ciascuno possa pascere il suo bestiame, e selve dove
prendere del legname per ardere; sanza le quali cose non può
una colonia ordinarsi.
8
La cagione perché i popoli si partono
da' luoghi patrii, ed inondano
il paese altrui.
Poiché di sopra si è ragionato del modo nel procedere
nella guerra osservato da' Romani, e come i Toscani furono assaltati
da' Franciosi, non mi pare alieno dalla materia discorrere, come le
si fanno di dua generazioni guerre. L'una è fatta per
ambizione de' principi o delle republiche, che cercano di propagare
lo imperio; come furono le guerre che fece Alessandro Magno, e
quelle che fecero i Romani, e quelle che fanno, ciascuno dì,
l'una potenza con l'altra. Le quali guerre sono pericolose, ma non
cacciano al tutto gli abitatori d'una provincia; perché e'
basta, al vincitore, solo la ubbidienza de' popoli, e il più
delle volte gli lascia vivere con le loro leggi, e sempre con le
loro case, e ne' loro beni. L'altra generazione di guerra è
quando uno popolo intero con tutte le sue famiglie si lieva d'uno
luogo, necessitato o dalla fame o dalla guerra, e va a cercare nuova
sede e nuova provincia; non per comandarla, come quegli di sopra, ma
per possederla tutta particularmente, e cacciarne o ammazzare gli
abitatori antichi di quella. Questa guerra è crudelissima e
paventosissima. E di queste guerre ragiona Sallustio nel fine
dell'Iugurtino, quando dice che, vinto Iugurta, si sentì il
moto de' Franciosi che venivano in Italia: dove ei dice che il
Popolo romano con tutte le altre genti combatté solamente per
chi dovesse comandare, ma con i Franciosi combatté sempre per
la salute di ciascuno. Perché a un principe o a una
republica, che assalta una provincia, basta spegnere solo coloro che
comandano; ma a queste populazioni conviene spegnere ciascuno,
perché vogliono vivere di quello che altri viveva. I Romani
ebbero tre di queste guerre pericolosissime. La prima fu quella
quando Roma fu presa, la quale fu occupata da quei Franciosi che
avevano tolto, come di sopra si disse, la Lombardia a' Toscani, e
fattone loro sedia; della quale Tito Livio ne allega due cagioni: la
prima, come di sopra si disse, che furono allettati dalla dolcezza
delle frutte e del vino d'Italia, delle quali mancavano in Francia;
la seconda che, essendo quel regno francioso multiplicato in tanto
di uomini, che non vi si potevono più nutrire, giudicarono i
principi di quelli luoghi, che e' fusse necessario che una parte di
loro andasse a cercare nuova terra, e, fatta tale deliberazione,
elessono, per capitani di quegli che si avevano a partire, Belloveso
e Sicoveso, duoi re de' Franciosi: de' quali Belloveso venne in
Italia, e Sicoveso passò in Ispagna. Dalla passata del quale
Belloveso nacque la occupazione di Lombardia, e di quindi la guerra
che prima i Franciosi fecero a Roma. Dopo questa, fu quella che
fecero dopo la prima guerra cartaginese, quando intra Piombino e
Pisa ammazzarono più che dugentomila Franciosi. La terza, fu
quando i Tedeschi e' Cimbri vennero in Italia: i quali, avendo vinti
più eserciti romani, furono vinti da Mario. Vinsero adunque i
Romani queste tre guerre pericolosissime. Né era necessario
minore virtù a vincerle, perché si vide poi, come la
virtù romana mancò e che quelle armi perderono il loro
antico valore, fu quello imperio destrutto da simili popoli: i quali
furono Gotti, Vandali, e simili, che occuparono tutto lo Imperio
occidentale.
Escono tali popoli de' paesi loro, come di sopra si disse, cacciati
dalla necessità: e la necessità nasce o dalla fame, o
da una guerra ed oppressione che ne' paesi propri è loro
fatta: talché e' son constretti cercare nuove terre. E questi
tali, o e' sono gran numero; ed allora con violenza entrano ne'
paesi d'altrui, ammazzano gli abitatori, posseggono i loro beni,
fanno uno nuovo regno, mutano il nome della provincia: come fece
Moisè, e quelli popoli che occuparono lo Imperio romano.
Perché questi nomi nuovi che sono nella Italia e nelle altre
provincie, non nascono da altro che da essere state nomate
così da nuovi occupatori: come è la Lombardia, che si
chiamava Gallia Cisalpina: la Francia si chiamava Gallia
Transalpina, ed ora è nominata da' Franchi, che così
si chiamavono quelli popoli che la occuparono: la Schiavonia si
chiamava Illiria; l'Ungheria, Pannonia; l'Inghilterra, Britannia; e
molte altre provincie che hanno mutato nome, le quali sarebbe
tedioso raccontare. Moisè ancora chiamò Giudea quella
parte di Soria occupata da lui. E perché io ho detto, di
sopra, che qualche volta tali popoli sono cacciati dalla propria
sede per guerra, donde sono constretti cercare nuove terre; ne
voglio addurre lo esemplo de' Maurusii, popoli anticamente in Soria:
i quali, sentendo venire i popoli ebraici, e giudicando non potere
loro resistere, pensarono essere meglio salvare loro medesimi, e
lasciare il paese proprio, che, per volere salvare quello, perdere
ancora loro; e levatisi con loro famiglie, se ne andarono in Africa,
dove posero la loro sedia, cacciando via quelli abitatori che in
quegli luoghi trovarono. E così quegli che non avevano potuto
difendere il loro paese, potettono occupare quello d'altrui. E
Procopio, che scrive la guerra che fece Belisario coi Vandali,
occupatori della Africa, riferisce avere letto lettere scritte in
certe colonne, ne' luoghi dove questi Maurusii abitavano, le quali
dicevano: «Nos Maurusii, qui fugimus a facie Jesu latronis
filii Navae». Dove apparisce la cagione della partita loro di
Soria. Sono, pertanto, questi popoli formidolosissimi, sendo
cacciati da una ultima necessità; e se e' non riscontrano
buone armi, non mai saranno sostenuti. Ma quando quegli che sono
costretti abbandonare la loro patria non sono molti, non sono
sì pericolosi come quelli popoli di chi si è
ragionato; perché non possono usare tanta violenza, ma
conviene loro con arte occupare qualche luogo, e, occupatolo,
mantenervisi per via d'amici e di confederati: come si vede che fece
Enea, Didone, i Massiliesi e simili; i quali tutti, per
consentimento de' vicini, dov'e' posono, poterono mantenervisi.
Escono i popoli grossi, e sono usciti quasi tutti, de' paesi di
Scizia; luoghi freddi e poveri: dove, per essere assai uomini, ed il
paese di qualità da non gli potere nutrire, sono forzati
uscirne, avendo molte cose che gli cacciono, e nessuna che gli
ritenga. E se, da cinquecento anni in qua, non è occorso che
alcuni di questi popoli abbiano inondato alcuno paese, è nato
per più cagioni. La prima, la grande evacuazione che fece
quel paese nella declinazione dello Imperio, donde uscirono
più di trenta popoli. La seconda è che la Magna e
l'Ungheria, donde ancora uscivano di queste genti hanno ora il loro
paese bonificato in modo che vi possono vivere agiatamente;
talché non sono necessitati di mutare luogo. Dall'altra
parte, sendo loro uomini bellicosissimi, sono come uno bastione a
tenere che gli Sciti, i quali con loro confinano, non presumino di
potere vincergli o passarli. E spesse volte occorrono movimenti
grandissimi de' Tartari che sono dipoi dagli Ungheri e da quelli di
Polonia sostenuti; e spesso si gloriano, che, se non fussono l'armi
loro, la Italia e la Chiesa arebbe molte volte sentito il peso degli
eserciti tartari. E questo voglio basti quanto ai prefati popoli.
9
Quali cagioni comunemente faccino
nascere le guerre intra i potenti.
La cagione che fece nascere guerra intra i Romani ed i Sanniti, che
erano stati in lega gran tempo, è una cagione comune che
nasce infra tutti i principati potenti. La quale cagione o la viene
a caso o la è fatta nascere da colui che disidera muovere la
guerra. Quella che nacque intra i Romani ed i Sanniti fu a caso;
perché la intenzione de' Sanniti non fu, movendo guerra a'
Sidicini, e dipoi ai Campani, muoverla ai Romani. Ma, sendo i
Campani oppressati, e ricorrendo a Roma fuora della opinione de'
Romani e de' Sanniti, furono forzati, dandosi i Campani ai Romani,
come cosa loro defendergli, e pigliare quella guerra che a loro
parve non potere con loro onore fuggire. Perché e' pareva
bene ai Romani ragionevole non potere difendere i Campani come
amici, contro a' Sanniti amici, ma pareva ben loro vergogna non gli
difendere come sudditi ovvero raccomandati; giudicando, quando e'
non avessino presa tale difesa, tôrre la via a tutti quegli
che disegnassino venire sotto la potestà loro. Perché,
avendo Roma per fine lo imperio e la gloria, e non la quiete, non
poteva ricusare questa impresa. Questa medesima cagione dette
principio alla prima guerra contro ai Cartaginesi, per la defensione
che i Romani presono de' Messinesi in Sicilia: la quale fu ancora a
caso. Ma non fu già a caso, dipoi, la seconda guerra che
nacque infra loro; perché Annibale capitano cartaginese
assaltò i Saguntini amici de' Romani in Ispagna, non per
offendere quelli, ma per muovere l'armi romane, ed avere occasione
di combatterli, e passare in Italia. Questo modo nello appiccare
nuove guerre è stato sempre consueto intra i potenti, e che
si hanno, e della fede e d'altro, qualche rispetto. Perché,
se io voglio fare guerra con uno principe, ed infra noi siano fermi
capitoli per un gran tempo osservati, con altra giustificazione e
con altro colore assalterò io uno suo amico che lui proprio;
sappiendo, massime, che, nello assaltare lo amico, o ei si
risentirà, ed io arò lo intento mio di farli guerra,
o, non si risentendo, si scoprirà la debolezza o la
infidelità sua, di non difendere uno suo raccomandato. E
l'una e l'altra di queste due cose è per tôrli
riputazione, e per fare più facili i disegni miei. Debbesi
notare, adunque, e per la dedizione de' Campani, circa al muovere
guerra, quanto di sopra si è detto; e di più, quale
rimedio abbia una città che non si possa per sé stessa
difendere, e vogliasi difendere in ogni modo da quello che
l'assalta: il quale è darsi liberamente a quello che tu
disegni che ti difenda, come feciono i Capovani a' Romani, e i
Fiorentini a il re Ruberto di Napoli: il quale non gli volendo
difendere come amici, gli difese poi come sudditi contro alle forze
di Castruccio da Lucca, che gli opprimeva.
10
I danari non sono il nervo della guerra,
secondo che è la comune opinione.
Perché ciascuno può cominciare una guerra a sua posta,
ma non finirla, debbe uno principe, avanti che prenda una impresa,
misurare le forze sue, e secondo quelle governarsi. Ma debbe avere
tanta prudenza, che delle sue forze ei non s'inganni; ed ogni volta
s'ingannerà, quando le misuri o dai danari, o dal sito, o
dalla benivolenza degli uomini, mancando, dall'altra parte, d'armi
proprie. Perché le cose predette ti accrescono bene le forze,
ma ben non te le danno; e per sé medesime sono nulla; e non
giovono alcuna cosa sanza l'armi fedeli. Perché i danari
assai non ti bastano sanza quelle; non ti giova la fortezza del
paese e la fede e benivolenza degli uomini non dura, perché
questi non ti possono essere fedeli, non gli potendo difendere. Ogni
monte, ogni lago, ogni luogo inaccessibile diventa piano, dove i
forti difensori mancano. I danari ancora, non solo non ti difendono,
ma ti fanno predare più presto. Né può essere
più falsa quella comune opinione che dice, che i danari sono
il nervo della guerra. La quale sentenza è detta da Quinto
Curzio nella guerra che fu intra Antipatro macedone e il re
spartano: dove narra, che, per difetto di danari, il re di Sparta fu
necessitato azzuffarsi, e fu rotto; ché se ei differiva la
zuffa pochi giorni, veniva la nuova in Grecia della morte di
Alessandro, donde ei sarebbe rimaso vincitore sanza combattere: ma,
mancandogli i danari, e dubitando che lo esercito suo per difetto di
quegli non lo abbandonasse, fu constretto tentare la fortuna della
zuffa: talché Quinto Curzio per questa cagione afferma, i
danari essere il nervo della guerra. La quale sentenza è
allegata ogni giorno, e da' principi, non tanto prudenti che basti,
seguitata. Perché, fondatisi sopra quella, credono che basti
loro, a difendersi, avere tesoro assai, e non pensano che se il
tesoro bastasse a vincere, che Dario arebbe vinto Alessandro; i
Greci arebbono vinto i Romani; ne' nostri tempi il duca Carlo arebbe
vinti i Svizzeri; e pochi giorni sono, il Papa ed i Fiorentini
insieme non arebbono avuta difficultà in vincere Francesco
Maria, nipote di papa Iulio II, nella guerra di Urbino. Ma tutti i
soprannominati furono vinti da coloro che non il danaio ma i buoni
soldati stimano essere il nervo della guerra. Intra le altre cose
che Creso re de' Lidii mostrò a Solone ateniese, fu uno
tesoro innumerabile, e domandando quel che gli pareva della potenza
sua, gli rispose Solone, che per quello e' non lo giudicava
più potente; perché la guerra si faceva con il ferro e
non con l'oro, e che poteva venire uno che avessi più ferro
di lui, e torgliene. Oltre a di questo, quando, dopo la morte di
Alessandro Magno, una moltitudine di Franciosi passò in
Grecia, e poi in Asia, e, mandando i Franciosi oratori a il re di
Macedonia per trattare certo accordo; quel re, per mostrare la
potenza sua e per sbigottirli, mostrò loro oro ed ariento
assai: donde quelli Franciosi, che di già avevano come ferma
la pace, la ruppono; tanto desiderio in loro crebbe di torgli
quell'oro: e così fu quel re spogliato per quella cosa che
egli aveva per sua difesa accumulata. I Viniziani, pochi anni sono,
avendo ancora lo erario loro pieno di tesoro, perderno tutto lo
stato, sanza potere essere difesi da quello.
Dico pertanto, non l'oro, come grida la comune opinione, essere il
nervo della guerra, ma i buoni soldati: perché l'oro non
è sufficiente a trovare i buoni soldati, ma i buoni soldati
sono bene sufficienti a trovare l'oro. Ai Romani, s'eglino avessoro
voluto fare la guerra più con i danari che con il ferro, non
sarebbe bastato avere tutto il tesoro del mondo, considerato le
grandi imprese che feciono, e le difficultà che vi ebbono
dentro. Ma, faccendo le loro guerre con il ferro, non patirono mai
carestia dell'oro, perché da quegli che gli temevano era
portato loro infino ne' campi. E se quel re spartano per carestia di
danari ebbe a tentare la fortuna della zuffa, intervenne a lui
quello, per conto de' danari, che molte volte è intervenuto
per altre cagioni: perché si è veduto che, mancando a
uno esercito le vettovaglie, ed essendo necessitati o a morire di
fame o azzuffarsi, si piglia il partito sempre di azzuffarsi, per
essere più onorevole, e dove la fortuna ti può in
qualche modo favorire. Ancora è intervenuto molte volte, che,
veggendo uno capitano al suo esercito inimico venire soccorso, gli
conviene o azzuffarsi con quello e tentare la fortuna della zuffa;
o, aspettando ch'egli ingrossi, avere a combattere in ogni modo, con
mille suoi disavvantaggi. Ancora si è visto (come intervenne
a Asdrubale, quando nella Marca fu assaltato da Claudio Nerone,
insieme con l'altro console romano) che un capitano, necessitato o a
fuggirsi o a combattere, come sempre elegge il combattere;
parendogli in questo partito, ancora che dubbiosissimo, potere
vincere; ed in quello altro avere a perdere in ogni modo. Sono,
adunque, molte necessitadi che fanno a un capitano fuor della sua
intenzione pigliare partito di azzuffarsi, intra le quali qualche
volta può essere la carestia de' danari; né per questo
si debbono i danari giudicare essere il nervo della guerra,
più che le altre cose che inducano gli uomini a simile
necessità. Non è, adunque, replicandolo di nuovo,
l'oro il nervo della guerra, ma i buoni soldati. Son bene necessari
i danari in secondo luogo, ma è una necessità che i
soldati buoni per sé medesimi la vincono; perché
è impossibile che ai buoni soldati manchino i danari, come
che i danari per loro medesimi trovino i buoni soldati. Mostra,
questo che noi diciamo essere vero, ogni istoria in mille luoghi;
non ostante che Pericle consigliasse gli Ateniesi a fare guerra con
tutto il Peloponnesso, mostrando ch'e' potevano vincere quella
guerra con la industria e con la forza del danaio. E benché
in tale guerra gli Ateniesi prosperassino qualche volta, in ultimo
la perderono; e valson più il consiglio e li buoni soldati di
Sparta, che la industria ed il danaio di Atene. Ma Tito Livio
è di questa opinione più vero testimone che alcuno
altro, dove, discorrendo se Alessandro Magno fussi venuto in Italia,
s'egli avesse vinto i Romani, mostra essere tre cose necessarie
nella guerra; assai soldati e buoni, capitani prudenti, e buona
fortuna: dove, esaminando quali o i Romani o Alessandro prevalessero
in queste cose, fa dipoi la sua conclusione sanza ricordare mai i
danari. Doverono i Capovani, quando furono richiesti da' Sidicini
che prendessono l'armi per loro contro ai Sanniti, misurare la
potenza loro dai danari, e non da' soldati: perché, preso
ch'egli ebbero partito di aiutargli, dopo due rotte furono
constretti farsi tributari de' Romani, se si vollono salvare.
11
Non è partito prudente fare amicizia
con uno principe che abbia più opinione
che forze.
Volendo Tito Livio mostrare lo errore de' Sidicini a fidarsi dello
aiuto de' Campani, e lo errore de' Campani a credere potergli
difendere, non lo potrebbe dire con più vive parole, dicendo:
«Campani magis nomen in auxilium Sidicinorum, quam vires ad
praesidium attulerunt». Dove si debbe notare che le leghe che
si fanno coi principi, che non abbino o commodità di aiutarti
per la distanza del sito, o forze da farlo per suo disordine o altra
sua cagione, arrecono più fama che aiuto a coloro che se ne
fidano: come intervenne, ne' dì nostri, ai Fiorentini,
quando, nel 1479, il Papa ed il re di Napoli gli assaltarono:
ché, essendo amici del re di Francia, trassono di quella
amicizia «magis nomen, quam praesidium», come
interverrebbe ancora a quel principe, che, confidatosi di
Massimiliano imperadore, facesse qualche impresa; perché
questa è una di quelle amicizie che arrecherebbe a chi la
facesse «magis nomen, quam praesidium», come si dice, in
questo testo, che arrecò quella de' Capovani a' Sidicini.
Errarono, adunque, in questa parte i Capovani, per parere loro avere
più forze che non avevano. E così fa la poca prudenzia
degli uomini, qualche volta, che, non sappiendo né potendo
difendere sé medesimi, vogliono prendere impresa di difendere
altrui: come fecero ancora i Tarentini, i quali, sendo gli eserciti
romani allo incontro dello esercito Sannite, mandarono ambasciadori
al Console romano, a fargli intendere come ei volevano pace intra
quegli due popoli, e come erano per fare guerra contro a quello che
dalla pace si discostasse; talché il Console, ridendosi di
questa proposta, alla presenza di detti ambasciadori fece sonare a
battaglia, ed al suo esercito comandò che andasse a trovare
il nimico, mostrando ai Tarentini, con la opera e non con le parole,
di che risposta essi erano degni.
Ed avendo nel presente capitolo ragionato de' partiti che pigliono i
principi, al contrario, per la difesa d'altrui, voglio, nel
seguente, parlare di quegli che si pigliano per la difesa propria.
12
S'egli è meglio, temendo di essere
assaltato, inferire o aspettare la guerra.
Io ho sentito da uomini, assai pratichi nelle cose della guerra,
qualche volta disputare, se sono dua principi quasi di equali forze,
e quello più gagliardo abbi bandito la guerra contro a
quell'altro, quale sia migliore partito per l'altro, o aspettare il
nimico dentro a' confini suoi, o andarlo a trovare in casa ed
assaltare lui: e ne ho sentito addurre ragioni da ogni parte. E chi
difende lo andare assaltare altri, ne allega il consiglio che Creso
dette a Ciro, quando, arrivato in su' confini de' Massageti per fare
loro guerra, la loro regina Tamiri gli mandò a dire, che
eleggessi quale de' due partiti volesse; o entrare nel regno suo,
dove ella lo aspetterebbe; o volesse che ella venisse a trovare lui.
E venuta la cosa in discettazione, Creso, contro alla opinione degli
altri, disse che si andasse a trovare lei; allegando che, s'egli la
vincesse discosto a il suo regno, che non le torrebbe il regno,
perché ella arebbe tempo a rifarsi, ma se la vincesse dentro
ai suoi confini, potrebbe seguirla in su la fuga, e, non le dando
spazio a rifarsi, torle lo stato. Allegane ancora il consiglio che
dette Annibale ad Antioco, quando quel re disegnava fare guerra ai
Romani: dove ei mostra come i Romani non si potevano vincere se non
in Italia, perché quivi altrui si poteva valere delle armi e
delle ricchezze e degli amici loro; ma chi gli combatteva fuora
d'Italia, e lasciava loro la Italia libera, lasciava loro quella
fonte che mai le manca vita a somministrare forze dove bisogna; e
conchiuse che ai Romani si poteva prima tôrre Roma che lo
imperio, e prima la Italia che le altre provincie. Allega ancora
Agatocle che, non potendo sostenere la guerra di casa,
assaltò i Cartaginesi che gliene facevano, e gli ridusse a
domandare pace. Allega Scipione che, per levare la guerra di Italia,
assaltò la Africa.
Chi parla al contrario, dice che chi vuole fare capitare male uno
inimico, lo discosti da casa. Allegane gli Ateniesi, che, mentre che
feciono la guerra commoda alla casa loro, restarono superiori; e
come si discostarono, ed andarono con gli eserciti in Sicilia,
perderono la libertà. Allega le favole poetiche, dove si
mostra che Anteo, re di Libia, assaltato da Ercole Egizio, fu
insuperabile mentre che lo aspettò dentro a' confini del suo
regno; ma, come ei se ne discostò per astuzia di Ercole,
perdé lo stato e la vita. Onde è dato luogo alla
favola che Anteo, sendo in terra, ripigliava le forze da sua madre,
che era la Terra, e che Ercole, avvedutosi di questo, lo levò
in alto, e discostollo dalla terra. Allegane ancora i giudicii
moderni. Ciascuno sa come Ferrando re di Napoli fu ne' suoi tempi
tenuto uno savissimo principe: e venendo la fama, due anni davanti
la sua morte, come il re di Francia Carlo VIII voleva venire a
assaltarlo, avendo fatte assai preparazioni, ammalò; e,
venendo a morte, intra gli altri ricordi che lasciò a Alfonso
suo figliuolo, fu ch'egli aspettasse il nimico dentro a il regno; e
per cosa del mondo non traesse forze fuora dello stato suo, ma lo
aspettasse dentro a' suoi confini tutto intero: il che non fu
osservato da quello; ma, mandato uno esercito in Romagna, sanza
combattere perdé quello e lo stato.
Le ragioni che, oltre alle cose dette, da ogni parte si adducono,
sono: che chi assalta viene con maggiore animo che chi aspetta, il
che fa più confidente lo esercito: toglie, oltre a di questo,
molte commodità al nimico di potersi valere delle sue cose,
non si potendo valere di que' sudditi che siano saccheggiati; e, per
avere il nimico in casa, è constretto il signore avere
più rispetto a trarne da loro danari ed affaticargli:
sicché ei viene a seccare quella fonte, come disse Annibale,
che fa che colui può sostenere la guerra. Oltra di questo, i
suoi soldati, per trovarsi nel paese d'altrui, sono più
necessitati a combattere; e quella necessità fa virtù,
come più volte abbiamo detto. Dall'altra parte si dice: come,
aspettando il nimico, si aspetta con assai vantaggio, perché,
sanza disagio alcuno, tu puoi dare a quello molti disagi di
vettovaglie, e d'ogni altra cosa che abbia bisogno uno esercito:
puoi meglio impedirgli i disegni suoi, per la notizia del paese che
tu hai più di lui: puoi con più forze incontrarlo, per
poterle facilmente tutte unire, ma non potere già tutte
discostarle da casa: puoi, sendo rotto, rifarti facilmente;
sì perché del tuo esercito se ne salverà assai,
per avere i rifugi propinqui; sì perché il supplimento
non ha a venire discosto: tanto che tu vieni ad arristiare tutte le
forze, e non tutta la fortuna; e, discostandoti, arrischi tutta la
fortuna, e non tutte le forze. Ed alcuni sono stati che, per
indebolire meglio il suo nimico, lo lasciono entrare parecchi
giornate in su il paese loro, e pigliare assai terre; acciò
che, lasciando i presidii in tutte, indebolisca il suo esercito, e
possinlo dipoi combattere più facilmente.
Ma, per dire ora io quello che io ne intendo, io credo che si abbia
a fare questa distinzione: o io ho il mio paese armato, come i
Romani, o come hanno i Svizzeri, o io l'ho disarmato, come avevano i
Cartaginesi, o come l'hanno il re di Francia e gli Italiani. In
questo caso, si debbe tenere il nimico discosto a casa;
perché, sendo la tua virtù nel danaio e non negli
uomini, qualunque volta ti è impedita la via di quello, tu
sei spacciato; né cosa veruna te lo impedisce quanto la
guerra di casa. In esempli ci sono i Cartaginesi; i quali, mentre
che ebbono la casa loro libera, potettono con le rendite fare guerra
con i Romani; e quando l'avevano assaltata, non potevano resistere
ad Agatocle. I Fiorentini non avevano rimedio alcuno con Castruccio
signore di Lucca, perché ei faceva loro la guerra in casa;
tanto che gli ebbero a darsi, per essere difesi, al re Ruberto di
Napoli. Ma, morto Castruccio, quelli medesimi Fiorentini ebbono
animo di assaltare il duca di Milano in casa, ed operare di torgli
il regno: tanta virtù mostrarono nelle guerre longinque, e
tanta viltà nelle propinque. Ma quando i regni sono armati,
come era armata Roma e come sono i Svizzeri, sono più
difficili a vincere quanto più ti appressi loro:
perché questi corpi possono unire più forze a
resistere a uno impeto, che non possono ad assaltare altrui.
Né mi muove in questo caso l'autorità d'Annibale,
perché la passione e l'utile suo gli faceva così dire
a Antioco. Perché, se i Romani avessono avute in tanto spazio
di tempo quelle tre rotte in Francia ch'egli ebbero in Italia da
Annibale, sanza dubbio erano spacciati: perché non si
sarebbono valuti de' residui degli eserciti, come si valsono in
Italia; non arebbono avuto, a rifarsi, quelle commodità;
né potevono con quelle forze resistere al nimico, che
poterono. Non si truova, per assaltare una provincia, che loro
mandassino mai fuora eserciti che passassino cinquantamila persone;
ma per difendere la casa ne missero in arme contro ai Franciosi,
dopo la prima guerra punica, diciotto centinaia di migliaia.
Né arebbono potuto poi rompere quegli in Lombardia, come gli
ruppono in Toscana; perché contro a tanto numero di inimici
non arebbono potuto condurre tante forze sì discosto,
né combattergli con quella commodità. I Cimbri ruppono
uno esercito romano nella Magna, né vi ebbono i Romani
rimedio. Ma come gli arrivarono in Italia, e che ei poterono mettere
tutte le loro forze insieme, gli spacciarono. I Svizzeri è
facile vincergli fuori di casa, dove ei non possono mandare
più che un trenta o quarantamila uomini; ma vincergli in
casa, dove ei ne possono raccozzare centomila, è
difficilissimo. Conchiuggo adunque, di nuovo, che quel principe che
ha i suoi popoli armati ed ordinati alla guerra, aspetti sempre in
casa una guerra potente e pericolosa, e non la vadia a rincontrare:
ma quello che ha i suoi sudditi disarmati, ed il paese inusitato
alla guerra, se le discosti sempre da casa il più che
può. E così l'uno e l'altro, ciascuno nel suo grado si
difenderà meglio.
13
Che si viene di bassa a gran fortuna
più con la fraude; che con la forza.
Io stimo essere cosa verissima che rado, o non mai, intervenga che
gli uomini di piccola fortuna venghino a gradi grandi, sanza la
forza e sanza la fraude; pure che quel grado al quale altri è
pervenuto non li sia o donato o lasciato per eredità.
Né credo si truovi mai che la forza sola basti, ma si
troverrà bene che la fraude sola basterà: come chiaro
vedrà colui che leggerà la vita di Filippo di
Macedonia, quella di Agatocle siciliano, e di molti altri simili,
che d'infima ovvero di bassa fortuna, sono pervenuti o a regno o a
imperii grandissimi. Mostra Senofonte, nella sua vita di Ciro,
questa necessità dello ingannare, considerato che la prima
ispedizione che fe' fare a Ciro contro al re di Armenia è
piena di fraude, e come con inganno, e non con forza, gli fe'
occupare il suo regno; e non conchiude altro, per tale azione, se
non che a un principe che voglia fare gran cose, è necessario
imparare a ingannare. Fegli ingannare, oltra di questo, Ciassare, re
de' Medii, suo zio materno, in più modi; sanza la quale
fraude mostra che Ciro non poteva pervenire a quella grandezza che
venne. Né credo che si truovi mai alcuno, costituto in bassa
fortuna, pervenuto a grande imperio solo con la forza aperta ed
ingenuamente, ma sì bene solo con la fraude: come fece Giovan
Galeazzo per tôrre lo stato e lo imperio di Lombardia a messer
Bernabò suo zio. E quel che sono necessitati fare i principi
ne' principii degli augumenti loro, sono ancora necessitate a fare
le republiche, infino che le siano diventate potenti, e che basti la
forza sola. E perché Roma tenne in ogni parte, o per sorte o
per elezione, tutti i modi necessari a venire a grandezza, non
mancò ancora di questo. Né poté usare, nel
principio, il maggiore inganno, che pigliare il modo, discorso di
sopra da noi, di farsi compagni; perché sotto questo nome se
gli fece servi: come furono i Latini, ed altri popoli a lo intorno.
Perché prima si valse dell'armi loro in domare i popoli
convicini, e pigliare la riputazione dello stato; dipoi, domatogli,
venne in tanto augumento, che la poteva battere ciascuno. Ed i
Latini non si avvidono mai, di essere al tutto servi, se non poi che
vidono dare due rotte ai Sanniti, e constrettigli ad accordo. La
quale vittoria, come ella accrebbe gran riputazione ai Romani co'
principi longinqui, che mediante quella sentirono il nome romano, e
non l'armi, così generò invidia e sospetto in quelli
che vedevano e sentivano l'armi, intra i quali furono i Latini. E
tanto poté questa invidia e questo timore, che non solo i
Latini ma le colonie che essi avevano in Lazio, insieme con i
Campani, stati poco innanzi difesi, congiurarono contro a il nome
romano. E mossono questa guerra i Latini nel modo che si dice di
sopra che si muovono la maggior parte delle guerre, assaltando non i
Romani, ma difendendo i Sidicini contro ai Sanniti; a' quali i
Sanniti facevano guerra con licenza de' Romani. E che sia vero che i
Latini si movessono per avere conosciuto questo inganno, lo dimostra
Tito Livio nella bocca di Annio Setino pretore latino, il quale nel
concilio loro disse queste parole: «Nam si etiam nunc sub
umbra foederis aequi servitutem pati possumus etc.». Vedesi
pertanto i Romani ne' primi augumenti loro non essere mancati etiam
della fraude; la quale fu sempre necessaria a usare a coloro che di
piccoli principii vogliono a sublimi gradi salire: la quale è
meno vituperabile quanto è più coperta, come fu questa
de' Romani.
14
Ingannansi molte volte gli uomini,
credendo con la umiltà
vincere la superbia.
Vedesi molte volte come l'umiltà non solamente non giova ma
nuoce, massimamente usandola con gli uomini insolenti, che, o per
invidia o per altra cagione, hanno concetto odio teco. Di che ne fa
fede lo istorico nostro in questa cagione di guerra intra i Romani e
i Latini. Perché, dolendosi i Sanniti con i Romani che i
Latini gli avevano assaltati, i Romani non vollono proibire ai
Latini tale guerra, disiderando non gli irritare: il che non
solamente non gli irritò ma gli fece diventare più
animosi contro a loro, e si scopersono più presto inimici. Di
che ne fanno fede le parole usate dal prefato Annio pretore latino
nel medesimo concilio, dov'e' dice: «Tentastis patientiam
negando militem: quis dubitat exarsisse eos? Pertulerunt tamen hunc
dolorem. Exercitus nos parare adversus Samnites, foederatos suos,
audierunt, nec moverunt se ab urbe. Unde haec illis tanta modestia,
nisi conscientia virium, et nostrarum et suarum?». Conoscesi,
pertanto, chiarissimo per questo testo, quanto la pazienza de'
Romani accrebbe l'arroganza de' Latini. E però, mai un
principe debbe volere mancare del grado suo, e non debbe mai
lasciare alcuna cosa d'accordo, volendola lasciare onorevolmente, se
non quando e' la può, o ei si crede che la possa tenere:
perché gli è meglio, quasi sempre, sendosi condotta la
cosa in termine che tu non la possa lasciare nel modo detto,
lasciarsela tôrre con le forze, che con la paura delle forze.
Perché, se tu la lasci con la paura, lo fai per levarti la
guerra, ed il più delle volte non te la lievi: perché
colui a chi tu arai con una viltà scoperta concesso quella,
non istarà saldo, ma ti vorrà tôrre delle altre
cose, e si accenderà più contro a di te, stimandoti
meno; e, dall'altra parte, in tuo favore troverrai i difensori
più freddi, parendo loro che tu sia o debole o vile: ma se
tu, subito scoperta la voglia dello avversario, prepari le forze,
ancora che le siano inferiori a lui, quello ti comincerà a
stimare; stimanti più gli altri principi allo intorno; e a
tale viene voglia di aiutarti, sendo in su l'armi, che,
abbandonandoti, non ti aiuterebbe mai. Questo s'intende quando tu
abbia uno inimico; ma quando ne avessi più, rendere delle
cose che tu possedessi a alcuno di loro per riguadagnarselo, ancora
che fussi di già scoperta la guerra, e per ismembrarlo dagli
altri confederati tuoi nimici, fia sempre partito prudente.
15
Gli stati deboli
sempre fiano ambigui nel risolversi:
e sempre le diliberazioni lente
sono nocive.
In questa medesima materia, ed in questi medesimi principii di
guerra intra i Latini ed i Romani, si può notare come in ogni
consulta è bene venire allo individuo di quello che si ha a
diliberare, e non stare sempre in ambiguo né in su lo incerto
della cosa. Il che si vede manifesto nella consulta che feciono i
Latini, quando ei pensavano alienarsi dai Romani. Perché,
avendo i Romani presentito questo cattivo umore che ne' popoli
latini era entrato, per certificarsi della cosa, e per veder se
potevano sanza mettere mano alle armi riguadagnarsi quegli popoli,
fecero loro intendere, come e' mandassono a Roma otto cittadini
perché avevano a consultare con loro. I Latini, inteso
questo, ed avendo coscienza di molte cose fatte contro alla voglia
de' Romani, fecioro concilio per ordinare chi dovesse ire a Roma e
darli commissione di quello ch'egli avesse a dire. E stando nel
concilio in questa disputa, Annio loro pretore disse queste parole:
«Ad summam rerum nostrarum pertinere arbitror, ut cogitetis
magis, quid agendum nobis, quam quid loquendum sit. Facile erit,
explicatis consiliis, accommodare rebus verba». Sono, sanza
dubbio, queste parole verissime e debbono essere da ogni principe e
da ogni republica gustate: perché, nella ambiguità e
nella incertitudine di quello che altri voglia fare, non si sanno
accomodare le parole, ma, fermo una volta l'animo, e diliberato
quello sia da esequire, è facil cosa trovarvi le parole. Io
ho notata questa parte più volentieri, quanto io ho molte
volte conosciuto tale ambiguità avere nociuto alle publiche
azioni, con danno e con vergogna della republica nostra. E sempre
mal avverrà che ne' partiti dubbi e dove bisogna animo a
diliberargli, sarà questa ambiguità, quando abbiano a
essere consigliati e diliberati da uomini deboli.
Non sono meno nocive ancora le diliberazioni lente e tarde, che le
ambigue; massime quelle che si hanno a diliberare in favore di
alcuno amico; perché con la lentezza loro non si aiuta
persona, e nuocesi a sé medesimo. Queste diliberazioni
così fatte procedono o da debolezza d'animo e di forze, o da
malignità di coloro che hanno a diliberare i quali, mossi
dalla passione propria di volere rovinare lo stato o adempiere
qualche altro loro disiderio, non lasciano seguire la diliberazione,
ma la impediscono e la attraversono. Perché i buoni
cittadini, ancora che vegghino una foga popolare voltarsi alla parte
perniziosa, mai impediranno il diliberare, massime di quelle cose
che non aspettano tempo. Morto che fu Girolamo tiranno in Siragusa,
essendo la guerra grande intra i Cartaginesi ed i Romani, vennono i
Siracusani in disputa se dovevano seguire l'amicizia romana o la
cartaginese. E tanto era lo ardore delle parti, che la cosa stava
ambigua, né se ne prendeva alcuno partito: insino a tanto che
Apollonide, uno de' primi in Siracusa, con una sua orazione piena di
prudenza, mostrò come e' non era da biasimare chi teneva la
opinione di aderirsi ai Romani, né quelli che volevano
seguire la parte cartaginese; ma era bene da detestare quella
ambiguità e tardità di pigliare il partito,
perché vedeva al tutto in tale ambiguità la rovina
della republica; ma preso che si fussi il partito, qualunque si
fusse, si poteva sperare qualche bene. Né potrebbe mostrare
più Tito Livio, che si faccia in questa parte, il danno che
si tira dietro lo stare sospeso. Dimostralo ancora in questo caso
de' Latini: poiché, essendo i Lavinii ricerchi da loro
d'aiuto contro ai Romani, differirono tanto a diliberarlo, che,
quando eglino erano usciti appunto fuora della porta con le genti
per dare loro soccorso, venne la nuova i Latini essere rotti. Donde
Milionio loro pretore disse: - Questo poco della via ci
costerà assai col Popolo romano -. Perché, se si
diliberavano prima, o di aiutare o di non aiutare i Latini, non li
aiutando, ei non irritavano i Romani; aiutandogli, essendo lo aiuto
in tempo, potevono con la aggiunta delle loro forze fargli vincere;
ma differendo, venivano a perdere in ogni modo, come intervenne
loro. E se i Fiorentini avessono notato questo testo, non arebbono
avuto co' Franciosi né tanti danni né tante noie
quante ebbono nella passata che il re Luigi di Francia XII fece in
Italia contro a Lodovico duca di Milano. Perché, trattando il
re tale passata, ricercò i Fiorentini d'accordo: e gli
oratori, che erano appresso al re, accordarono con lui che si
stessino neutrali, e che il re venendo in Italia gli avesse a
mantenere nello stato e ricevere in protezione: e dette tempo un
mese alla città a ratificarlo. Fu differita tale
ratificazione da chi per poca prudenza favoriva le cose di Lodovico:
intanto che, il re già sendo in su la vittoria, e volendo poi
i Fiorentini ratificare, non fu la ratificazione accettata; come
quello che conobbe i Fiorentini essere venuti forzati e non
voluntari nella amicizia sua. Il che costò alla città
di Firenze assai danari, e fu per perdere lo stato: come poi altra
volta per simile causa le intervenne. E tanto più fu
dannabile quel partito, perché non si servì ancora a
il duca Lodovico; il quale, se avesse vinto, arebbe mostri molti
più segni d'inimicizia contro ai Fiorentini, che non fece il
re. E benché del male che nasce, alle republiche, di questa
debolezza, se ne sia di sopra in uno altro capitolo discorso,
nondimeno, avendone di nuovo occasione per uno nuovo accidente, ho
voluto replicarne parendomi, massime, materia che debba essere dalle
republiche, simili alla nostra, notata.
16
Quanto i soldati de' nostri tempi
si disformino dagli antichi ordini.
La più importante giornata che fu mai fatta in alcuna guerra
con alcuna nazione dal Popolo romano, fu questa che ei fece con i
popoli latini, nel consolato di Torquato e di Decio. Perché
ogni ragione vuole che, così come i Latini per averla perduta
diventarono servi, così sarebbero stati servi i Romani,
quando non l'avessino vinta. E di questa opinione è Tito
Livio; perché in ogni parte fa gli eserciti pari di ordine,
di virtù, d'ostinazione e di numero: solo vi fa differenza,
che i capi dello esercito romano furono più virtuosi che
quelli dello esercito latino. Vedesi ancora come nel maneggio di
questa giornata nacquono due accidenti, non prima nati, e che dipoi
hanno radi esempli: che, di due Consoli, per tenere fermi gli animi
de' soldati, ed ubbidienti a' comandamenti loro, e diliberati al
combattere l'uno ammazzò sé stesso, e l'altro il
figliuolo. La parità, che Tito Livio dice essere in questi
eserciti, era che, per avere militato gran tempo insieme, erano pari
di lingua, d'ordine e d'armi: perché nello ordinare la zuffa
tenevano uno modo medesimo; e gli ordini e i capi degli ordini
avevano i medesimi nomi. Era dunque necessario, sendo di pari forze
e di pari virtù, che nascesse qualche cosa istraordinaria,
che fermasse e facesse più ostinati gli animi dell'uno che
dell'altro: nella quale ostinazione consiste, come altre volte si
è detto, la vittoria; perché, mentre che la dura ne'
petti di quelli che combattono, mai non dànno volta gli
eserciti. E perché la durasse più ne' petti de' Romani
che de' Latini, parte la sorte, parte la virtù de' Consoli
fece nascere che Torquato ebbe a ammazzare il figliuolo, e Decio
sé stesso. Mostra Tito Livio, nel mostrare questa
parità di forze, tutto l'ordine che tenevono i Romani nelli
eserciti e nelle zuffe. Il quale esplicando egli largamente, non
replicherò altrimenti; ma solo discorrerò quello che
io vi giudico notabile, e quello che, per essere negletto da tutti i
capitani di questi tempi, ha fatto, negli eserciti e nelle zuffe, di
molti disordini. Dico, adunque, che per il testo di Livio si
raccoglie come lo esercito romano aveva tre divisioni principali, le
quali toscanamente si possono chiamare tre schiere; e nominavano la
prima astati, la seconda principi, la terza triari: e ciascuna di
queste aveva i suoi cavagli. Nello ordinare una zuffa, ei mettevano
gli astati innanzi; nel secondo luogo, per ritto, dietro alle spalle
di quelli, ponevano i principi; nel terzo, pure nel medesimo filo,
collocavano i triari. I cavagli di tutti questi ordini gli ponevano
a destra ed a sinistra di queste tre battaglie; le stiere de' quali
cavagli, dalla forma loro, e dal luogo, si chiamavano
«alae» perché parevano come due alie di quel
corpo. Ordinavono la prima stiera, degli astati, che era nella
fronte, serrata in modo insieme, che la potesse spignere e sostenere
il nimico. La seconda stiera, de' principi, perché non era la
prima a combattere, ma bene le conveniva soccorrere alla prima
quando fussi battuta o urtata, non la facevano stretta, ma
mantenevano i suoi ordini radi, e di qualità che la potessi
ricevere in sé, sanza disordinarsi, la prima, qualunque
volta, spinta dal nimico, fusse necessitata ritirarsi. La terza
stiera, de' triari, aveva ancora gli ordini più radi che la
seconda, per potere ricevere in sé, bisognando, le due prime
stiere, de' principi e degli astati. Collocate, dunque, queste
stiere in questa forma, appiccavano la zuffa: e, se gli astati erano
sforzati o vinti, si ritiravano nella radità degli ordini de'
principi; e, tutti uniti insieme, fatto di due stiere uno corpo,
rappiccavano la zuffa: se questi ancora erano ributtati, sforzati si
ritiravano tutti nella rarità degli ordini de' triari; e
tutt'a tre le stiere, diventate uno corpo, rinnovavano la zuffa:
dove essendo superati, per non avere più da rifarsi,
perdevono la giornata. E perché ogni volta che questa ultima
stiera de' triari si adoperava, lo esercito era in pericolo, ne
nacque quel proverbio: «Res redacta est ad triarios»,
che, a uso toscano, vuole dire:«Noi abbiamo messa l'ultima
posta». I capitani de' nostri tempi, come egli hanno
abbandonati tutti gli altri ordini, e della antica disciplina non ne
osservano parte alcuna, così hanno abbandonata questa parte,
la quale non è di poca importanza: perché chi si
ordina di potersi rifare nelle giornate tre volte, ha ad avere tre
volte inimica la fortuna a volere perdere, ed ha ad avere per
iscontro una virtù che sia atta tre volte a vincerlo. Ma chi
non sta se non in sul primo urto, come stanno oggi tutti gli
eserciti cristiani, può facilmente perdere; perché
ogni disordine, ogni mezzana virtù gli può tôrre
la vittoria. Quello che fa agli eserciti nostri mancare di potersi
rifare tre volte, è lo avere perduto il modo di ricevere
l'una stiera nell'altra. Il che nasce perché al presente
s'ordinano le giornate con uno di questi due disordini: o ei mettono
le loro stiere a spalle l'una dell'altra, e fanno la loro battaglia,
larga per traverso, e sottile per diritto; il che la fa più
debole, per avere poco dal petto alle stiene. E quando pure, per
farla più forte, ei riducano le stiere per il verso de'
Romani, se la prima fronte è rotta, non avendo ordine di
essere ricevuta dalla seconda, s'ingarbugliano insieme tutte, e
rompano sé medesime: perché, se quella dinanzi
è spinta, ella urta la seconda; se la seconda si vuole fare
innanzi, ella è impedita dalla prima: donde che, urtando la
prima la seconda, e la seconda la terza, ne nasce tanta confusione,
che spesso un minimo accidente rovina uno esercito. Gli eserciti
spagnuoli e franciosi nella zuffa di Ravenna, dove morì
monsignor de Fois capitano delle genti di Francia (la quale fu,
secondo i nostri tempi, assai bene combattuta giornata),
s'ordinarono con l'uno de' soprascritti modi; cioè che l'uno
e l'altro esercito venne con tutte le sue genti ordinate a spalle:
in modo che non venivano avere né l'uno né l'altro se
non una fronte, ed erano assai più per il traverso che per il
diritto. E questo avviene loro sempre, dove egli hanno la campagna
grande, come gli avevano a Ravenna: perché, conoscendo il
disordine che fanno nel ritirarsi, mettendosi per un filo, lo
fuggono, quando ei possono, col fare la fronte larga, come è
detto; ma quando il paese gli ristrigne, si stanno nel disordine
soprascritto, sanza pensare al rimedio. Con questo medesimo
disordine cavalcano per il paese inimico, o se ei predano, o se
fanno altro maneggio di guerra. Ed a Santo Regolo in quel di Pisa,
ed altrove, dove i Fiorentini furono rotti da' Pisani ne' tempi
della guerra che fu tra i Fiorentini e quella città, per la
sua ribellione dopo la passata di Carlo re di Francia in Italia, non
nacque tale rovina d'altronde che dalla cavalleria amica; la quale,
sendo davanti e ributtata da' nimici, percosse nella fanteria
fiorentina, e quella ruppe: donde tutto il restante delle genti
dierono volta: e messer Ciriaco dal Borgo, capo antico delle
fanterie fiorentine, ha affermato alla presenza mia molte volte, non
essere mai stato rotto se non dalla cavalleria degli amici. I
Svizzeri, che sono i maestri delle moderne guerre, quando ei
militano con i Franciosi, sopra tutte le cose hanno cura di mettersi
in lato, che la cavalleria amica, se fusse ributtata, non gli urti.
E benché queste cose paiano facili ad intendere, e
facilissime a farsi, nondimeno non si è trovato ancora alcuno
de' nostri contemporanei capitani, che gli antichi ordini imiti, e i
moderni corregga. E benché gli abbino ancora loro tripartito
lo esercito, chiamando l'una parte antiguardo, l'altra battaglia, e
l'altra retroguardo; non se ne servono ad altro che a comandarli
nelli alloggiamenti, ma nello adoperargli, rade volte è, come
di sopra è detto, che a tutti questi corpi non faccino
correre una medesima fortuna.
E perché molti, per scusarne la ignoranza loro, allegano che
la violenza delle artiglierie non patisce che in questi tempi si
usino molti ordini de gli antichi, voglio disputare nel seguente
capitolo questa materia, e vo' esaminare se le artiglierie
impediscano che non si possa usare l'antica virtù.
17
Quanto si debbino stimare dagli eserciti
ne' presenti tempi le artiglierie;
e se quella opinione,
che se ne ha in universale, è vera.
Considerando io, oltre alle cose soprascritte, quante zuffe campali
(chiamate ne' nostri tempi, con vocabolo francioso, giornate, e,
dagli Italiani, fatti d'arme) furono fatte da' Romani in diversi
tempi, mi è venuto in considerazione la opinione universale
di molti, che vuole che, se in quegli tempi fussono state le
artiglierie, non sarebbe stato lecito ai Romani, né sì
facile, pigliare le provincie, farsi tributari i popoli, come ei
fecero; né arebbono in alcuno modo fatto sì gagliardi
acquisti. Dicono ancora, che, mediante questi instrumenti de'
fuochi, gli uomini non possono usare né mostrare la
virtù loro, come ei potevano anticamente. E soggiungano una
terza cosa: che si viene con più difficultà alle
giornate che non si veniva allora, né vi si può tenere
dentro quegli ordini di quegli tempi; talché la guerra si
ridurrà col tempo in su le artiglierie. E giudicando non
fuora di proposito disputare se tali opinioni sono vere, e quanto le
artiglierie abbino accresciuto o diminuito di forze agli eserciti, e
se le tolgano o danno occasione ai buoni capitani di operare
virtuosamente, comincerò a parlare quanto alla prima loro
opinione: che gli eserciti antichi romani non arebbano fatto gli
acquisti che feciono, se le artiglierie fussono state. Sopra che,
rispondendo, dico come e' si fa guerra o per difendersi o per
offendere; donde si ha prima a esaminare a quale di questi due modi
di guerra le faccino più utile o più danno. E
benché sia che dire da ogni parte, nondimeno io credo che
sanza comparazione faccino più danno a chi si difende, che a
chi offende. La ragione che io ne dico è, che quel che si
difende, o egli è dentro a una terra, o egli è in su i
campi dentro a uno steccato. S'egli è dentro a una terra, o
questa terra è piccola, come sono la maggior parte delle
fortezze, o la è grande: nel primo caso, chi si difende
è al tutto perduto, perché l'impeto delle artiglierie
è tale che non truova muro, ancoraché grossissimo, che
in pochi giorni ei non abbatta; e se chi è dentro non ha
buoni spazi da ritirarsi e con fossi e con ripari, si perde;
né può sostenere l'impeto del nimico che volessi dipoi
entrare per la rottura del muro, né a questo gli giova
artiglieria che avessi: perché questa è una massima,
che dove gli uomini in frotta e con impeto possono andare, le
artiglierie non gli sostengono. Però i furori oltramontani
nella difesa delle terre non sono sostenuti: son bene sostenuti gli
assalti italiani, i quali, non in frotta ma spicciolati, si
conducano alle battaglie, le quali loro, per nome molto proprio,
chiamano scaramucce. E questi che vanno con questo disordine e
questa freddezza a una rottura d'un muro dove siano artiglierie,
vanno a una manifesta morte, e contro a loro le artiglierie
vagliano: ma quegli che in frotta condensati, e che l'uno spinge
l'altro, vengono a una rottura, se non sono sostenuti o da fossi o
da ripari, entrono in ogni luogo, e le artiglierie non gli tengono;
e, se ne muore qualcuno, non possono essere tanti che
gl'impedischino la vittoria.
Questo, essere vero, si è conosciuto in molte espugnazioni
fatte dagli oltramontani in Italia, e massime in quella di Brescia:
perché, sendosi quella terra ribellata da' Franciosi, e
tenendosi ancora per il re di Francia la fortezza, avevano i
Viniziani, per sostenere l'impeto che da quella potesse venire nella
terra, munita tutta la strada d'artiglierie, che dalla fortezza alla
città scendeva, e postene a fronte e ne' fianchi, ed in ogni
altro luogo opportuno. Delle quali monsignor di Fois non fece alcuno
conto; anzi, quello con il suo squadrone, disceso a piede, passando
per il mezzo di quelle, occupò la città, né per
quelle si sentì ch'egli avesse ricevuto alcuno memorabile
danno. Talché, chi si difende in una terra piccola, come
è detto, e truovisi le mura in terra, e non abbia spazio da
ritirarsi con i ripari e con fossi ed abbiasi a fidare in su le
artiglierie, si perde subito. Se tu difendi una terra grande, e che
tu abbia commodità di ritirarti, sono nondimanco sanza
comparazione più utili le artiglierie a chi è di
fuori, che a chi è dentro. Prima, perché, a volere che
una artiglieria nuoca a quegli che sono di fuora, tu se' necessitato
levarti con essa dal piano della terra; perché, stando in sul
piano, ogni poco d'argine e di riparo che il nimico faccia, rimane
sicuro, e tu non gli puoi nuocere. Tanto che, avendoti a alzare, e
tirarti in sul corridoio delle mura, o in qualunque modo levarti da
terra, tu ti tiri dietro due difficultà: la prima, che tu non
puoi condurvi artiglierie della grossezza e della potenza che
può trarre colui di fuora, non si potendo ne' piccoli spazii
maneggiare le cose grandi: l'altra è, quando bene tu ve le
potessi condurre, tu non puoi fare quegli ripari fedeli e sicuri,
per salvare detta artiglieria, che possono fare quegli di fuori,
essendo in sul terreno, ed avendo quelle commodità e quello
spazio che loro medesimi vogliono: talmenteché, gli è
impossibile, a chi difende una terra, tenere le artiglierie ne'
luoghi alti, quando quegli che sono di fuori abbino assai
artiglierie e potente; e se egli hanno a venire con essa ne' luoghi
bassi, ella diventa in buona parte inutile, come è detto.
Talché la difesa della città si ha a ridurre a
difenderla con le braccia, come anticamente si faceva, e con
l'artiglieria minuta: di che se si trae un poco di utilità,
rispetto a questa artiglieria minuta, se ne cava incommodità
che contrappesa alla commodità dell'artiglieria;
perché, rispetto a quella, si riducano le mura delle terre,
basse e quasi sotterrate ne' fossi: talché, come si viene
alla battaglia di mano, o per essere battute le mura o per essere
ripieni i fossi, ha, chi è dentro, molti più
disavvantaggi che non aveva allora. E però, come di sopra si
disse, giovano questi instrumenti molto più a chi campeggia
le terre, che a chi è campeggiato. Quanto alla terza cosa, di
ridursi in un campo dentro a uno steccato, per non fare giornata se
non a tua comodità o vantaggio, dico che in questa parte tu
non hai più rimedio, ordinariamente, a difenderti di non
combattere, che si avessono gli antichi; e qualche volta, per conto
delle artiglierie, hai maggiore disavvantaggio. Perché, se il
nimico ti giugne addosso, ed abbia un poco di vantaggio del paese,
come può facilmente intervenire, e truovisi più alto
di te; o che nello arrivare suo tu non abbia ancora fatti i tuoi
argini, e copertoti bene con quegli; subito, e sanza che tu abbia
alcun rimedio, ti disalloggia, e sei forzato uscire delle fortezze
tue, e venire alla zuffa. Il che intervenne agli Spagnuoli nella
giornata di Ravenna; i quali essendosi muniti tra 'l fiume del Ronco
ed uno argine, per non lo avere tirato tanto alto che bastasse, e
per avere i Franciosi un poco il vantaggio del terreno, furono
costretti dalle artiglierie uscire delle fortezze loro, e venire
alla zuffa. Ma dato, come il più delle volte debbe essere,
che il luogo che tu avessi preso con il campo fosse più
eminente che gli altri all'incontro, e che gli argini fussono buoni
e sicuri, talché, mediante il sito e l'altre tue preparazioni
il nimico non ardisse d'assaltarti; si verrà in questo caso a
quegli modi che anticamente si veniva, quando uno era con il suo
esercito in lato da non potere essere offeso: i quali sono, correre
il paese, pigliare o campeggiare le terre tue amiche, impedirti le
vettovaglie, tanto che tu sarai forzato da qualche necessità
a disalloggiare, e venire a giornata; dove le artiglierie, come di
sotto si dirà, non operano molto. Considerato, adunque, di
quali ragioni guerre feciono i Romani, e veggendo come ei feciono
quasi tutte le loro guerre per offendere altrui e non per difendere
loro, si vedrà, quando siano vere le cose dette di sopra,
come quelli arebbono avuto più vantaggio, e più presto
arebbono fatto i loro acquisti, se le fossono state in quelli tempi.
Quanto alla seconda cosa, che gli uomini non possono mostrare la
virtù loro, come ei potevano anticamente, mediante
l'artiglieria; dico ch'egli è vero, che, dove gli uomini
spicciolati si hanno a mostrare, che ei portano più pericoli
che allora, quando avessono a scalare una terra, o fare simili
assalti, dove gli uomini non ristretti insieme ma di per sé
l'uno dall'altro avessono a comparire. È vero ancora, che gli
capitani e capi degli eserciti stanno sottoposti più a il
pericolo della morte che allora, potendo essere aggiunti con le
artiglierie in ogni luogo; né giova loro lo essere nelle
ultime squadre, e muniti di uomini fortissimi. Nondimeno si vede che
l'uno e l'altro di questi dua pericoli fanno rade volte danni
istraordinari: perché le terre munite bene non si scalano,
né si va con assalti deboli ad assaltarle; ma, a volerle
espugnare, si riduce la cosa a una ossidione, come anticamente si
faceva. Ed in quelle che pure per assalto si espugnano, non sono
molto maggiori i pericoli che allora: perché non mancavano
anche in quel tempo, a chi difendeva le terre, cose da trarre; le
quali, se non erano così furiose, facevano, quanto allo
ammazzare gli uomini, il simile effetto. Quanto alla morte de'
capitani e condottieri, ce ne sono, in ventiquattro anni che sono
state le guerre ne' prossimi tempi in Italia, meno esempli che non
era in dieci anni di tempo appresso agli antichi. Perché, dal
conte Lodovico della Mirandola, che morì a Ferrara quando i
Viniziani, pochi anni sono, assaltarono quello stato, ed il Duca di
Nemors, che morì alla Cirignuola, in fuori, non è
occorso che d'artiglierie ne sia morto alcuno; perché
monsignore di Fois a Ravenna morì di ferro, e non di fuoco.
Tanto che, se gli uomini non dimostrano particularmente la loro
virtù, nasce, non dalle artiglierie, ma dai cattivi ordini e
dalla debolezza degli eserciti; i quali, mancando di virtù
nel tutto, non la possono mostrare nella parte.
Quanto alla terza cosa detta da costoro, che non si possa venire
alle mani, e che la guerra si condurrà tutta in su
l'artiglierie, dico questa opinione essere al tutto falsa; e
così fia sempre tenuta da coloro che secondo l'antica
virtù vorranno adoperare gli eserciti loro. Perché,
chi vuole fare uno esercito buono, gli conviene, con esercizi o
fitti o veri, assuefare gli uomini sua ad accostarsi al nimico, e
venire con lui al menare della spada ed a pigliarsi per il petto; e
si debbe fondare più in su le fanterie che in su' cavagli,
per le ragioni che di sotto si diranno. E quando si fondi in su i
fanti ed in su i modi predetti, diventono al tutto le artiglierie
inutili; perché con più facilità le fanterie,
nello accostarsi al nimico, possono fuggire il colpo delle
artiglierie, che non potevano anticamente fuggire l'impeto degli
elefanti, de' carri falcati, e d'altri riscontri inusitati, che le
fanterie romane riscontrarono; contro ai quali sempre trovarono il
rimedio: e tanto più facilmente lo arebbono trovato contro a
queste, quanto egli è più breve il tempo nel quale le
artiglierie ti possano nuocere, che non era quello nel quale
potevano nuocere gli elefanti ed i carri. Perché quegli nel
mezzo della zuffa ti disordinavano, queste, solo innanzi alla zuffa,
t'impediscano: il quale impedimento facilmente le fanterie fuggono,
o con andare coperte dalla natura del sito, o con abbassarsi in su
la terra quando le tirano. Il che anche, per isperienza, si è
visto non essere necessario, massime per difendersi dalle
artiglierie grosse; le quali non si possono in modo bilanciare, o
che, se le vanno alto, le non ti trovino, o che, se le vanno basso,
le non ti arrivino. Venuti poi gli eserciti alle mani, questo
è chiaro più che la luce, che né le grosse
né le piccole ti possono offendere: perché, se quello
che ha l'artiglierie è davanti, diventa tuo prigione; s'egli
è dietro, egli offende prima l'amico che te; a spalle ancora
non ti può ferire in modo che tu non lo possa ire a trovare,
e ne viene a seguitare lo effetto detto. Né questo ha molta
disputa; perché se ne è visto l'esemplo de' Svizzeri,
i quali a Novara nel 1513, sanza artiglierie e sanza cavagli,
andarono a trovare lo esercito francioso, munito d'artiglierie,
dentro alle fortezze sue, e lo roppono sanza avere alcuno
impedimento da quelle. E la ragione è, oltre alle cose dette
di sopra, che l'artiglieria ha bisogno di essere guardata, a volere
che la operi, o da mura o da fossi o da argini; e come le
mancherà una di queste guardie, ella è prigione, o la
diventa inutile: come le interviene quando la si ha a difendere con
gli uomini; il che le interviene nelle giornate e zuffe campali. Per
fianco le non si possono adoperare, se non in quel modo che
adoperavano gli antichi gli instrumenti da trarre; che gli mettevano
fuori delle squadre, perché ei combattessono fuori degli
ordini; ed ogni volta che o da cavalleria o da altri erano spinti,
il rifugio loro era dietro alle legioni. Chi altrimenti ne fa conto,
non la intende bene, e fidasi sopra una cosa che facilmente lo
può ingannare. E se il Turco, mediante l'artiglieria, contro
al Sofi ed il Soldano ha avuto vittoria, è nato non per altra
virtù di quella che per lo spavento che lo inusitato romore
messe nella cavalleria loro.
Conchiuggo pertanto, venendo al fine di questo discorso,
l'artiglieria essere utile in uno esercito quando vi sia mescolata
l'antica virtù; ma, sanza quella, contro a uno esercito
virtuoso è inutilissima.
18
Come per l'autorità de' Romani,
e per lo esemplo della antica milizia,
si debba stimare più le fanterie
che i cavagli.
E' si può per molte ragioni e per molti esempli dimostrare
chiaramente, quanto i Romani in tutte le militari azioni estimassono
più la milizia a piede che a cavallo, e sopra quella
fondassino tutti i disegni delle forze loro: come si vede per molti
esempli, ed infra gli altri, quando si azzuffarono con i Latini
appresso al lago Regillo; dove essendo già inclinato lo
esercito romano, per soccorrere ai suoi, fecero discendere, degli
uomini a cavallo, a piede, e per quella via, rinnovata la zuffa,
ebbono la vittoria. Dove si vede manifestamente, i Romani avere
più confidato in loro sendo a piede, che mantenendoli a
cavallo. Questo medesimo termine usarono in molte altre zuffe, e
sempre lo trovarono ottimo rimedio alli loro pericoli.
Né si opponga a questo la opinione d'Annibale, il quale,
veggendo in la giornata di Canne che i Consoli avevano fatto
discendere a piè li loro cavalieri, facendosi beffe di simile
partito, disse: «Quam mallem vinctos mihi traderent
equites!», cioè: - Io arei più caro che me gli
dessino legati -. La quale opinione, ancoraché la sia stata
in bocca d'un uomo eccellentissimo, nondimanco, se si ha ad ire
dietro alla autorità, si debbe più credere a una
Republica romana, e a tanti capitani eccellentissimi che furono in
quella, che a uno solo Annibale. Ancoraché, sanza le
autorità, ce ne sia ragioni manifeste: perché l'uomo a
piede può andare in di molti luoghi, dove non può
andare il cavallo; puossi insegnarli servare l'ordine, e, turbato
che fussi, come e' lo abbia a riassumere: a' cavagli è
difficile fare servare l'ordine, ed impossibile, turbati che sono,
riordinargli. Oltre a questo, si truova, come negli uomini, de'
cavagli che hanno poco animo, e di quegli che ne hanno assai: e
molte volte interviene che un cavallo animoso è cavalcato da
un uomo vile, e uno cavallo vile da uno animoso; ed in qualunque
modo che segua questa disparità, ne nasce inutilità e
disordine. Possono le fanterie, ordinate, facilmente rompere i
cavagli, e difficilmente essere rotte da quegli. La quale opinione
è corroborata, oltre a molti esempli antichi e moderni, dalla
autorità di coloro che danno delle cose civili regola: dove
ei mostrano come in prima le guerre si cominciarono a fare con i
cavagli, perché non era ancora l'ordine delle fanterie; ma
come queste si ordinarono, si conobbe subito quanto loro erano
più utili che quelli. Non è per questo però che
i cavagli non siano necessarii negli eserciti, e per fare scoperte,
per iscorrere e predare i paesi, per seguitare i nimici quando ei
sono in fuga, e per essere ancora in parte una opposizione ai
cavagli degli avversari: ma il fondamento e il nervo dello esercito,
e quello che si debbe più stimare, debbano essere le
fanterie.
Ed infra i peccati de' principi italiani, che hanno fatto Italia
serva de' forestieri, non ci è il maggiore che avere tenuto
poco conto di questo ordine, ed avere volto tutta la sua cura alla
milizia a cavallo. Il quale disordine è nato per la
malignità de' capi, e per la ignoranza di coloro che tenevano
stato. Perché, essendosi ridotta la milizia italiana da'
venticinque anni indietro, in uomini che non avevano stato, ma erano
come capitani di ventura, pensarono subito come potessero mantenersi
la riputazione, stando armati loro e disarmati i principi. E
perché uno numero grosso di fanti non poteva loro essere
continovamente pagato, e non avendo sudditi da potere valersene, ed
uno piccol numero non dava loro riputazione, si volsono a tenere
cavagli: perché dugento o trecento cavagli che erano pagati
ad uno condottiere, lo mantenevano riputato, ed il pagamento non era
tale, che dagli uomini che tenevono stato non potesse essere
adempiuto. E perché questo seguisse più facilmente, e
per mantenersi più in riputazione, levarono tutta l'affezione
e la riputazione da' fanti, e ridussonla in quelli loro cavagli: e
in tanto crebbono in questo disordine, che in qualunque grossissimo
esercito era una minima parte di fanteria. La quale usanza fece in
modo debole, insieme con molti altri disordini che si mescolarono
con quella, questa milizia italiana, che questa provincia è
stata facilmente calpesta da tutti gli oltramontani. Mostrasi
più apertamente questo errore, di stimare più i
cavagli che le fanterie, per uno altro esemplo romano. Erano i
Romani a campo a Sora, ed essendo uscito fuori della terra una turma
di cavagli per assaltare il campo, se gli fece allo incontro il
Maestro de' cavagli romano con la sua cavalleria; e datosi di petto,
la sorte dette che nel primo scontro i capi dell'uno e dell'altro
esercito morirono; e restati gli altri sanza governo, e durando
nondimeno la zuffa, i Romani, per superare più facilmente il
nimico, scesono a piede, e constrinsono i cavalieri inimici, se si
vollono difendere, a fare il simile: e, con tutto questo, i Romani
ne riportarono la vittoria. Non può essere questo esemplo
maggiore in dimostrare quanto sia più virtù nelle
fanterie che ne' cavagli: perché, se nelle altre fazioni i
Consoli facevano discendere i cavalieri romani, era per soccorrere
alle fanterie che pativano, e che avevano bisogno di aiuto; ma in
questo luogo e' discesono, non per soccorrere alle fanterie
né per combattere con uomini a piè de' nimici, ma
combattendo a cavallo, con cavagli, giudicarono, non potendo
superargli a cavallo, potere, scendendo, più facilmente
vincergli. Io voglio adunque conchiudere, che una fanteria ordinata
non possa sanza grandissima difficultà essere superata se non
da un'altra fanteria. Crasso e Marc'Antonio romani corsono per il
dominio de' Parti molte giornate con pochissimi cavagli ed assai
fanteria, ed allo incontro avevano innumerabili cavagli de' Parti.
Crasso vi rimase, con parte dello esercito, morto; Marc'Antonio
virtuosamente si salvò. Nondimanco in queste azioni romane si
vide quanto le fanterie prevalevano ai cavagli: perché,
essendo in uno paese largo, dove i monti sono radi, i fiumi
radissimi, le marine longinque, e discosto da ogni commodità,
nondimanco Marc'Antonio, al giudicio de' Parti medesimi,
virtuosissimamente si salvò; né mai ebbeno ardire
tutta la cavalleria partica tentare gli ordini dello esercito suo.
Se Crasso vi rimase, chi leggerà bene le sue azioni
vedrà come e' vi fu piuttosto ingannato che sforzato:
né mai, in tutti i suoi disordini, i Parti ardirono
d'urtarlo; anzi, sempre andando costeggiandolo, impedendogli le
vettovaglie, e promettendogli e non gli osservando, lo condussono a
una estrema miseria.
Io crederei avere a durare più fatica in persuadere quanto la
virtù delle fanterie è più potente che quella
de' cavalli se non ci fossono assai moderni esempli che ne rendano
testimonianza pienissima. E' si è veduto novemila Svizzeri a
Novara, da noi di sopra allegata, andare a affrontare diecimila
cavagli ed altrettanti fanti, e vincergli: perché i cavagli
non gli potevano offendere: i fanti, per essere gente in buona parte
guascona e male ordinata, la stimavano poco. Videsi di poi
ventiseimila Svizzeri andare a trovare sopra a Milano Francesco re
di Francia, che aveva seco ventimila cavagli, quarantamila fanti, e
cento carra d'artiglierie; e se non vinsono la giornata come a
Novara, ei la combatterono dua giorni virtuosamente e dipoi, rotti
ch'ei furono, la metà di loro si salvarono. Presunse Marco
Regolo Attilio, non solo con la fanteria sua sostenere i cavagli, ma
gli elefanti; e se il disegno non gli riuscì, non fu
però che la virtù della sua fanteria non fosse tanta,
ch' e' non confidasse tanto in lei che credesse superare quella
difficultà. Replico, pertanto, che, a volere superare i fanti
ordinati, è necessario opporre loro fanti meglio ordinati di
quegli: altrimenti, si va a una perdita manifesta. Ne' tempi di
Filippo Visconti, duca di Milano, scesono in Lombardia circa
sedicimila Svizzeri: donde quel Duca, avendo per suo capitano allora
il Carmignuola, lo mandò con circa mille cavagli e pochi
fanti all'incontro loro. Costui, non sappiendo l'ordine del
combattere loro, ne andò a incontrarli con i suoi cavagli,
presumendo poterli subito rompere. Ma trovatigli immobili, avendo
perduti molti de' suoi uomini, si ritirò: ed essendo
valentissimo uomo, e sappiendo negli accidenti nuovi pigliare nuovi
partiti, rifattosi di gente gli andò a trovare; e, venuto
loro all'incontro, fece smontare a piè tutte le sue genti
d'armi, e, fatto testa di quelle alle sue fanterie, andò ad
investire i Svizzeri. I quali non ebbono alcuno rimedio:
perché, sendo le genti d'armi del Carmignuola a piè e
bene armate, poterono facilmente entrare intra gli ordini de'
Svizzeri, sanza patire alcuna lesione ed entrati tra quegli poterono
facilmente offenderli: talché di tutto il numero di quegli,
ne rimase quella parte viva, che per umanità del Carmignuola
fu conservata.
Io credo che molti conoschino questa differenzia di virtù che
è intra l'uno e l'altro di questi ordini: ma è tanta
la infelicità di questi tempi, che né gli esempli
antichi né i moderni né la confessione dello errore
è sufficiente a fare che i moderni principi si ravvegghino; e
pensino che, a volere rendere riputazione alla milizia d'una
provincia o d'uno stato, sia necessario risuscitare questi ordini,
tenergli appresso, dare loro riputazione, dare loro vita,
acciocché a lui e vita e riputazione rendino. E come ei
deviano da questi modi, così deviano dagli altri modi, detti
di sopra: onde ne nasce che gli acquisti sono a danno, non a
grandezza, d'uno stato; come di sotto si dirà.
19
Che gli acquisti nelle republiche
non bene ordinate,
e che secondo la romana virtù
non procedano, sono a ruina,
non ad esaltazione di esse.
Queste contrarie opinioni alla verità fondate in su i mali
esempli che da questi nostri corrotti secoli sono stati introdotti,
fanno che gli uomini non pensono a deviare dai consueti modi. Quando
si sarebbe potuto persuadere uno Italiano, da trenta anni in dietro
che diecimila fanti potessono assaltare in un piano diecimila
cavagli ed altrettanti fanti, e con quelli non solamente combattere
ma vincergli, come si vide per lo esemplo da noi più volte
allegato, a Novara? E benché le istorie ne siano piene, tamen
non ci arebbero prestato fede; e se ci avessero prestato fede,
arebbero detto che in questi tempi s'arma meglio, e che una squadra
di uomini d'arme sarebbe atta ad urtare uno scoglio, non che una
fanteria: e così con queste false scuse corrompevano il
giudizio loro; né arebbero considerato che Lucullo con pochi
fanti ruppe cento cinquantamila cavalli di Tigrane, e che fra quelli
cavalieri era una sorte di cavalleria simile al tutto agli uomini
d'arme nostri: e così, come questa fallacia è stata
scoperta dallo esemplo delle genti oltramontane. E come e' si vede,
per quello, essere vero, quanto alla fanteria, quello che nelle
istorie si narra, così doverrebbero credere essere veri e
utili tutti gli altri ordini antichi. E quando questo fusse creduto,
le republiche ed i principi errerebbero meno; sariano più
forti a opporsi a uno impeto che venisse loro addosso; non
spererebbero nella fuga; e quegli che avessono nelle mani uno vivere
civile, lo saperebbono meglio indirizzare, o per la via dello
ampliare, o per la via del mantenere; e crederebbono che lo
accrescere la città sua di abitatori, farsi compagni e non
sudditi, mandare colonie a guardare i paesi acquistati, fare
capitale delle prede, domare il nimico con le scorrerie e con le
giornate e non con le ossidioni, tenere ricco il publico, povero il
privato, mantenere con sommo studio gli esercizi militari, fusse la
vera via a fare grande una republica, e ad acquistare imperio. E
quando questo modo dello ampliare non gli piacessi, penserebbe che
gli acquisti per ogni altra via sono la rovina delle republiche, e
porrebbe freno a ogni ambizione; regolando bene la sua città
dentro con le leggi e co' costumi, proibendole lo acquistare, e solo
pensando a difendersi, e le difese tenere ordinate bene: come fanno
le republiche della Magna, le quali in questi modi vivano e sono
vivute libere un tempo.
Nondimeno, come altra volta dissi quando discorsi la differenza che
era, da ordinarsi per acquistare e ordinarsi per mantenere; è
impossibile che ad una republica riesca lo stare quieta, e godersi
la sua libertà e gli pochi confini: perché, se lei non
molesterà altrui, sarà molestata ella; e dallo essere
molestata le nascerà la voglia e la necessità dello
acquistare; e quando non avessi il nimico fuora, lo troverrebbe in
casa: come pare necessario intervenga a tutte le gran cittadi. E se
le republiche della Magna possono vivere loro in quel modo, ed hanno
potuto durare un tempo, nasce da certe condizioni che sono in quel
paese, le quali non sono altrove, sanza le quali non potrebbero
tenere simile modo di vivere.
Era quella parte della Magna di che io parlo, sottoposta allo
Imperio romano come la Francia e la Spagna: ma venuto dipoi in
declinazione e ridottosi il titolo di tale Imperio in quella
provincia, cominciarono quelle città più potenti,
secondo la viltà o necessità degl'imperadori, a farsi
libere, ricomperandosi dallo Imperio, con riservargli un piccol
censo annuario; tanto che, a poco a poco, tutte quelle città
che erano immediate dello imperadore, e non erano suggette d'alcuno
principe, si sono in simil modo ricomperate. Occorse, in questi
medesimi tempi che queste città si ricomperavano, che certe
comunità sottoposte al duca di Austria si ribellarono da lui;
tra le quali fu Filiborg, e i Svizzeri, e simili; le quali
prosperando nel principio, pigliarono a poco a poco tanto augumento,
che, non che e' siano tornati sotto il giogo di Austria, sono in
timore a tutti i loro vicini: e questi sono quegli che si chiamano i
Svizzeri. È, adunque, questa provincia compartita in
Svizzeri, republiche che chiamano terre franche, principi, ed
imperadore. E la cagione che, intra tante diversità di
vivere, non vi nascano, o, se le vi nascano, non vi durano molto le
guerre, è quel segno dello imperadore; il quale, avvenga che
non abbi forze, nondimeno ha infra loro tanta riputazione ch'egli
è un loro conciliatore, e con l'autorità sua,
interponendosi come mezzano, spegne subito ogni scandolo. E le
maggiori e le più lunghe guerre vi siano state, sono quelle
che sono seguite intra i Svizzeri ed il duca d'Austria: e
benché da molti anni in qua lo imperadore ed il duca
d'Austria sia una medesima cosa, non pertanto non ha mai possuto
superare l'audacia de' Svizzeri; dove non è stato mai modo
d'accordo, se non per forza. Né il resto della Magna gli ha
porti molti aiuti; sì perché le comunità non
sanno offendere chi vuole vivere libero come loro; sì
perché quelli principi, parte non possono, per essere poveri,
parte non vogliono, per avere invidia alla potenza sua. Possono
vivere, adunque, quelle comunità contente del piccolo loro
dominio, per non avere cagione, rispetto all'autorità
imperiale, di disiderarlo maggiore: possono vivere unite dentro alle
mura loro, per avere il nimico propinquo, e che piglierebbe le
occasioni di occuparle, qualunque volta le discordassono.
Ché, se quella provincia fusse condizionata altrimenti,
converrebbe loro cercare di ampliare e rompere quella loro quiete. E
perché altrove non sono tali condizioni, non si può
prendere questo modo di vivere; e bisogna o ampliare per via di
leghe, o ampliare come i Romani. E chi si governa altrimenti, cerca
non la sua vita, ma la sua morte e rovina: perché in mille
modi e per molte cagioni gli acquisti sono dannosi; perché
gli sta molto bene, insieme acquistare imperio e non forze; e chi
acquista imperio e non forze insieme, conviene che rovini. Non
può acquistare forze chi impoverisce nelle guerre, ancora che
sia vittorioso, che ei mette più che non trae degli acquisti:
come hanno fatto i Viniziani ed i Fiorentini, i quali sono stati
molto più deboli, quando l'uno aveva la Lombardia e l'altro
la Toscana, che non erano quando l'uno era contento del mare, e
l'altro di sei miglia di confini.
Perché tutto è nato da avere voluto acquistare e non
avere saputo pigliare il modo: e tanto più meritano biasimo,
quanto eglino hanno meno scusa, avendo veduto il modo hanno tenuto i
Romani, ed avendo potuto seguitare il loro esemplo, quando i Romani,
sanza alcuno esemplo, per la prudenza loro, da loro medesimi lo
seppono trovare. Fanno, oltra di questo, gli acquisti qualche volta
non mediocre danno ad ogni bene ordinata republica, quando e' si
acquista una città o una provincia piena di delizie, dove si
può pigliare di quegli costumi per la conversazione che si ha
con quegli: come intervenne a Roma, prima, nello acquisto di Capova,
e dipoi, a Annibale. E se Capova fusse stata più longinqua
dalla città, che lo errore de' soldati non avesse avuto il
rimedio propinquo, o che Roma fusse stata in alcuna parte corrotta,
era, sanza dubbio, quello acquisto la rovina della romana
Repubblica. E Tito Livio fa fede di questo con queste parole:
«Iam tunc minime salubris militari disciplinae Capua,
instrumentum omnium voluptatum, delinitos militum animos avertit a
memoria patriae». E veramente, simili città o provincie
si vendicano contro al vincitore sanza zuffa e sanza sangue;
perché, riempiendogli de' suoi tristi costumi, gli espongono
a essere vinti da qualunque gli assalti. E Iuvenale non potrebbe
meglio, nelle sue satire, avere considerata questa parte, dicendo
che ne' petti romani per gli acquisti delle terre peregrine erano
entrati i costumi peregrini; ed in cambio di parsimonia e d'altre
eccellentissime virtù, «gula et luxuria incubuit,
victumque ulciscitur orbem». Se, adunque, lo acquistare fu per
essere pernizioso a' Romani ne' tempi che quegli con tanta prudenzia
e tanta virtù procedevono, che sarà adunque a quegli
che discosto dai modi loro procedono? e che, oltre agli altri errori
che fanno, di che se n'è di sopra discorso assai, si vagliano
de' soldati o mercenari o ausiliari? Donde ne risulta loro spesso
quelli danni di che nel seguente capitolo si farà menzione.
20
Quale pericolo porti quel principe
o quella republica che si vale
della milizia ausiliare o mercenaria.
Se io non avessi lungamente trattato, in altra mia opera, quanto sia
inutile la milizia mercenaria ed ausiliare, e quanto utile la
propria, io mi stenderei in questo discorso assai più che non
farò; ma avendone altrove parlato a lungo, sarò, in
questa parte, brieve. Né mi è paruto in tutto da
passarla, avendo trovato in Tito Livio, quanto a' soldati ausiliari,
sì largo esemplo; perché i soldati ausiliari sono
quegli che un principe o una republica manda, capitanati e pagati da
lei, in tuo aiuto. E venendo al testo di Livio, dico che, avendo i
Romani, in due diversi luoghi, rotti due eserciti de' Sanniti con
gli eserciti loro, i quali avevano mandati al soccorso de' Capovani;
e per questo liberi i Capovani da quella guerra che i Sanniti
facevano loro; e volendo ritornare verso Roma, ed a ciò che i
Capovani, spogliati di presidio, non diventassono di nuovo preda de'
Sanniti; lasciarono due legioni nel paese di Capova, che gli
difendesse. Le quali legioni marcendo nell'ozio, cominciarono a
dilettarsi in quello; tanto che, dimenticata la patria e la
reverenza del Senato, pensarono di prendere l'armi ed insignorirsi
di quel paese che loro con la loro virtù avevano difeso;
parendo loro che gli abitatori non fussono degni di possedere quegli
beni che non sapevano difendere. La quale cosa presentita, fu da'
Romani oppressa e corretta: come, dove noi parleremo delle congiure,
largamente si mosterrà. Dico pertanto, di nuovo, come di
tutte l'altre qualità de' soldati, gli ausiliari sono i
più dannosi: perché in essi quel principe o quella
repubblica che gli adopera in suo aiuto, non ha autorità
alcuna, ma vi ha solo l'autorità colui che gli manda.
Perché gli soldati ausiliarii sono quegli che ti sono mandati
da uno principe, come ho detto, sotto i suoi capitani, sotto sue
insegne e pagati da lui: come fu questo esercito che i Romani
mandarono a Capova. Questi tali soldati, vinto ch'eglino hanno, il
più delle volte predano così colui che gli ha
condotti, come colui contro a chi e' sono condotti; e lo fanno o per
malignità del principe che gli manda, o per ambizione loro. E
benché la intenzione de' Romani non fusse di rompere
l'accordo e le convenzioni avevano fatto co' Capovani; non per tanto
la facilità che pareva a quegli soldati di opprimergli fu
tanta, che gli potette persuadere a pensare di tôrre a'
Capovani la terra e lo stato. Potrebbesi di questo dare assai
esempli, ma voglio mi basti questo, e quello de' Regini, a' quali fu
tolto la vita e la terra da una legione che i Romani vi avevano
messa in guardia. Debbe, dunque, un principe o una republica
pigliare prima ogni altro partito, che ricorrere a condurre nello
stato suo per sua difesa genti ausiliarie, quando al tutto e' si
abbia a fidare sopra quelle; perché ogni patto, ogni
convenzione, ancora che dura, ch'egli arà col nimico gli
sarà più leggieri che tale partito. E se si leggeranno
bene le cose passate, e discorrerannosi le presenti, si
troverrà, per uno che ne abbi avuto buono fine, infiniti
esserne rimasi ingannati.
Ed un principe o una republica ambiziosa non può avere la
maggiore occasione di occupare una città o una provincia, che
essere richiesto che mandi gli eserciti suoi alla difesa di quella.
Pertanto, colui che è tanto ambizioso che, non solamente per
difendersi ma per offendere altri, chiama simili aiuti, cerca
d'acquistare quello che non può tenere, e che, da quello che
gliene acquista, gli può facilmente essere tolto. Ma
l'ambizione dell'uomo è tanto grande, che, per cavarsi una
presente voglia, non pensa al male che è in breve tempo per
risultargliene. Né lo muovono gli antichi esempli,
così in questo come nell'altre cose discorse; perché,
se e' fussono mossi da quegli, vedrebbero come, quanto più si
mostra liberalità con i vicini, e di essere più alieno
da occupargli, tanto più si gettono in grembo: come di sotto,
per lo esemplo de' Capovani, si dirà.
21
Il primo Pretore ch'e' Romani
mandarono in alcuno luogo, fu a Capova,
dopo quattrocento anni che cominciarono
a fare guerra.
Quanto i Romani, nel modo del procedere loro circa lo acquistare,
fossero differenti da quegli che ne' presenti tempi ampliano la
giurisdizione loro, si è assai di sopra discorso; e come e'
lasciavano quelle terre, che non disfacevano, vivere con le leggi
loro, eziandio quelle che, non come compagne, ma come suggette si
arrendevano loro; ed in esse non lasciavano alcuno segno d'imperio
per il Popolo romano, ma le obligavano a alcune condizioni, le quali
osservando le mantenevano nello stato e dignità loro. E
conoscesi questi modi essere stati osservati infino che gli uscirono
d'Italia, e che cominciarono a indurre i regni e gli stati in
provincie.
Di questo ne è chiarissimo esemplo, che il primo Pretore che
fussi mandato da loro in alcun luogo, fu a Capova: il quale vi
mandarono, non per loro ambizione, ma perché e' ne furono
ricerchi dai Capovani: i quali, essendo intra loro discordia,
giudicarono essere necessario avere dentro nella città uno
cittadino romano che gli riordinasse e riunisse. Da questo esemplo
gli Anziati mossi, e constretti dalla medesima necessità,
domandarono, ancora loro, uno Prefetto; e Tito Livio dice, in su
questo accidente, ed in su questo nuovo modo d'imperare «quod
jam non solum arma, sed iura romana pollebant». Vedesi,
pertanto, quanto questo modo facilitò lo augumento romano.
Perché quelle città, massime che sono use a vivere
libere, o consuete governarsi per sua provinciali, con altra quiete
stanno contente sotto uno dominio che non veggono, ancora ch'egli
avesse in sé qualche gravezza, che sotto quello che veggendo
ogni giorno, pare loro che ogni giorno sia rimproverata loro la
servitù. Appresso, ne seguita uno altro bene per il principe:
che, non avendo i suoi ministri in mano i giudicii ed i magistrati
che civilmente o criminalmente rendono ragione in quelle cittadi,
non può nascere mai sentenza con carico o infamia del
principe: e vengono per questa via a mancare molte cagioni di
calunnia e d'odio verso di quello. E che questo sia il vero, oltre
agli antichi esempli che se ne potrebbero addurre, ce n'è uno
esemplo fresco in Italia. Perché, come ciascuno sa, sendo
Genova stata più volte occupata da' Franciosi, sempre quel
re, eccetto che ne' presenti tempi, vi ha mandato uno governatore
francioso che in suo nome la governi. Al presente solo, non per
elezione del re, ma perché così ha ordinato la
necessità, ha lasciato governarsi quella città per
sé medesima, e da uno governatore genovese. E sanza dubbio,
chi ricercasse quali di questi due modi rechi più
sicurtà al re, dello imperio d'essa, e più contentezza
a quegli popolari, sanza dubbio approverebbe questo ultimo modo.
Oltre a di questo, gli uomini tanto più ti si gettono in
grembo, quanto più tu pari alieno dallo occupargli; e tanto
meno ti temano per conto della loro libertà, quanto
più se' umano e dimestico con loro. Questa dimestichezza e
liberalità fece i Capovani correre a chiedere il Pretore a'
Romani: ché se a' Romani si fusse dimostro una minima voglia
di mandarvelo, subito sariano ingelositi, e si sarebbero discostati
da loro.
Ma che bisogna ire per gli esempli a Capova ed a Roma, avendone in
Firenze ed in Toscana? Ciascuno sa quanto tempo è che la
città di Pistoia venne volontariamente sotto lo imperio
fiorentino. Ciascuno ancora sa quanta inimicizia è stata
intra i Fiorentini, e' Pisani, Lucchesi e Sanesi: e questa
diversità di animo non è nata, perché i
Pistolesi non prezzino la loro libertà come gli altri, e non
si giudichino da quanto gli altri; ma per essersi i Fiorentini
portati con loro sempre come frategli, e con gli altri come inimici.
Questo ha fatto che i Pistolesi sono corsi volontari sotto lo
imperio loro: gli altri hanno fatto e fanno ogni forza per non vi
pervenire. E sanza dubbio, se i Fiorentini o per vie di leghe o di
aiuti avessero dimesticati e non insalvatichiti i suoi vicini, a
questa ora, sanza dubbio, e' sarebbero signori di Toscana. Non
è per questo che io giudichi che non si abbia adoperare
l'armi e le forze; ma si debbono riservare in ultimo luogo dove e
quando gli altri modi non bastino.
22
Quanto siano false
molte volte le opinioni degli uomini
nel giudicare le cose grandi.
Quanto siano false molte volte le opinioni degli uomini, lo hanno
visto e veggono coloro che si truovono testimoni delle loro
diliberazioni: le quali, molte volte, se non sono diliberate da
uomini eccellenti, sono contrarie ad ogni verità. E
perché gli eccellenti uomini nelle republiche corrotte, nei
tempi quieti massime, e per invidia e per altre ambiziose cagioni,
sono inimicati, si va dietro a quello che o, da uno comune inganno
è giudicato bene, o, da uomini che più presto vogliono
i favori che il bene dello universale, è messo innanzi. Il
quale inganno dipoi si scuopre nei tempi avversi, e per
necessità si rifugge a quegli che nei tempi quieti erano come
dimenticati: come nel suo luogo in questa parte appieno si
discorrerà. Nascono ancora certi accidenti, dove facilmente
sono ingannati gli uomini che non hanno grande isperienza delle
cose, avendo in sé, quello accidente che nasce, molti
verisimili, atti a fare credere quello che gli uomini sopra tale
caso si persuadono. Queste cose si sono dette per quello che Numicio
pretore, poiché i Latini furono rotti dai Romani, persuase
loro, e per quello che, pochi anni sono si credeva per molti, quando
Francesco I re di Francia venne allo acquisto di Milano, che era
difeso da' Svizzeri. Dico pertanto che, sendo morto Luigi XII, e
succedendo nel regno di Francia Francesco d'Angolem, e desiderando
restituire al regno il ducato di Milano, stato, pochi anni davanti,
occupato da' Svizzeri mediante i conforti di Papa Iulio II,
desiderava avere aiuti in Italia che gli facilitassero la impresa;
ed oltre a' Viniziani, che Luigi si aveva riguadagnati, tentava i
Fiorentini e papa Leone X; parendogli la sua impresa più
facile, qualunque volta si avesse riguadagnati costoro, per essere
genti del re di Spagna in Lombardia, ed altre forze dello imperadore
in Verona. Non cedé Papa Leone alle voglie del re, ma fu
persuaso da quegli che lo consigliavano (secondo si disse) si stesse
neutrale, mostrandogli in questo partito consistere la vittoria
certa: perché per la Chiesa non si faceva avere potenti in
Italia né il re né i Svizzeri ma, volendola ridurre
nell'antica libertà, era necessario liberarla dalla
servitù dell'uno e dell'altro. E perché vincere l'uno
e l'altro, o di per sé o tutti a dua insieme, non era
possibile; conveniva che superassino l'uno l'altro, e che la Chiesa
con gli suoi amici urtasse quello, poi, che rimanesse vincitore. Ed
era impossibile trovare migliore occasione che la presente, sendo
l'uno e l'altro in su i campi, ed avendo il Papa le sue forze a
ordine da potere rappresentarsi in su i confini di Lombardia, e
propinquo a l'uno e l'altro esercito, sotto colore di volere
guardare le cose sue, e quivi stare tanto che venissono alla
giornata, la quale ragionevolmente, sendo l'uno e l'altro esercito
virtuoso, doverrebbe essere sanguinosa per tutte a due le parti, e
lasciare in modo debilitato il vincitore che fusse al Papa facile
assaltarlo e romperlo: e così verrebbe con sua gloria a
rimanere signore di Lombardia, ed arbitro di tutta Italia. E quanto
questa opinione fusse falsa, si vide per lo evento della cosa:
perché, sendo dopo una lunga zuffa suti superati i Svizzeri,
non che le genti del Papa e di Spagna presumessero assaltare i
vincitori, ma si prepararono alla fuga; la quale ancora non sarebbe
loro giovata, se non fusse stato o la umanità o la freddezza
del re, che non cercò la seconda vittoria, ma li bastò
fare accordo con la Chiesa.
Ha questa opinione certe ragioni che discosto paiono vere, ma sono
al tutto aliene dalla verità. Perché, rade volte
accade che il vincitore perda assai suoi soldati: perché de'
vincitori ne muore nella zuffa, non nella fuga; e nello ardore del
combattere, quando gli uomini hanno volto il viso l'uno all'altro,
ne cade pochi, massime perché la dura poco tempo, il
più delle volte; e quando pure durasse assai tempo e de'
vincitori ne morisse assai, è tanta la riputazione che si
tira dietro la vittoria, ed il terrore che la porta seco, che di
lungi avanza il danno che per la morte de' suoi soldati avesse
sopportato. Talché, se uno esercito il quale, in su la
opinione che fusse debilitato, andasse a trovarlo, si troverrebbe
ingannato; se già, e' non fusse lo esercito tale che d'ogni
tempo, e innanzi alla vittoria e poi, potesse combatterlo. In questo
caso ei potrebbe, secondo la sua fortuna e virtù, vincere e
perdere; ma quello che si fusse azzuffato prima, ed avesse vinto,
arebbe più tosto vantaggio dall'altro. Il che si conosce
certo per la isperienza de' Latini, e per la fallacia che Numizio
pretore prese, e per il danno che ne riportarono quegli popoli che
gli crederono: il quale, vinto che i Romani ebbero i Latini, gridava
per tutto il paese di Lazio, che allora era tempo assaltare i Romani
debilitati per la zuffa avevano fatta con loro; e che solo appresso
a' Romani era rimaso il nome della vittoria, ma tutti gli altri
danni avevano sopportati come se fussino stati vinti; e che ogni
poco di forza che di nuovo gli assaltasse, era per spacciargli.
Donde quegli popoli, che gli crederono, fecero nuovo esercito, e
subito furono rotti, e patirono quel danno che patiranno sempre
coloro che terranno simile opinione.
23
Quanto i Romani
nel giudicare i sudditi
per alcuno accidente che necessitasse
tale giudizio
fuggivano la via del mezzo.
«Iam Latio is status erat rerum, ut neque pacem neque bellum
pati possent». Di tutti gli stati infelici, è
infelicissimo quello d'uno principe o d'una republica che è
ridotto in termine che non può ricevere la pace o sostenere
la guerra: a che si riducono quegli che sono dalle condizioni della
pace troppo offesi; e dall'altro canto, volendo fare guerra,
conviene loro o gittarsi in preda di chi gli aiuti o rimanere preda
del nimico. Ed a tutti questi termini si viene, pe' cattivi consigli
e cattivi partiti, da non avere misurato bene le forze sue, come di
sopra si disse. Perché quella republica o quel principe che
bene le misurasse, con difficultà si condurrebbe nel termine
si condussono i Latini: i quali, quando non dovevano accordare con i
Romani, accordarono; e quando ei non dovevano rompere loro guerra,
la ruppono: e così seppono fare in modo, che la inimicizia ed
amicizia de' Romani fu loro equalmente dannosa. Erano, dunque, vinti
i Latini ed al tutto afflitti, prima da Manlio Torquato, e dipoi da
Cammillo: il quale, avendogli costretti a darsi e rimettersi nelle
braccia de' Romani, ed avendo messo la guardia per tutte le terre di
Lazio, e preso da tutte gli statichi; tornato in Roma, referì
al Senato come tutto Lazio era nelle mani del Popolo romano. E
perché questo giudizio è notabile, e merita di essere
osservato, per poterlo imitare quando simili occasioni sono date a'
principi, io voglio addurre le parole di Livio, poste in bocca di
Cammillo; le quali fanno fede e del modo che i Romani tennono in
ampliare, e come ne' giudizi di stato sempre fuggirono la via del
mezzo, e si volsono agli estremi. Perché uno governo non
è altro che tenere in modo i sudditi che non ti possano o
debbano offendere: questo si fa o con assicurarsene in tutto,
togliendo loro ogni via da nuocerti, o con benificarli in modo, che
non sia ragionevole ch'eglino abbiano a desiderare di mutare
fortuna. Il che tutto si comprende, e prima per la proposta di
Cammillo, e poi per il giudizio dato dal Senato sopra quella. Le
parole sue furono queste: «Dii immortales ita vos potentes
huius consilii fecerunt, ut, sit Latium an non sit, in vestra manu
posuerint. Itaque pacem vobis, quod ad Latinos attinet, parare in
perpetuum, vel saeviendo vel ignoscendo potestis. Vultis crudelius
consulere in dedititios victosque? licet delere omne Latium. Vultis,
exemplo maiorum, augere rem romanam, victos in civitatem accipiendo?
materia crescendi per summam gloriam suppeditat. Certe id
firmissimum imperium est, quo obedientes gaudent. Illorum igitur
animos, dum expectatione stupent, seu poena seu beneficio
praeoccupari oportet». A questa proposta successe la
diliberazione del Senato: la quale fu secondo le parole del Consolo,
che, recatosi innanzi, terra per terra, tutti quegli ch'erano di
momento, o e' gli benificarono o e' gli spensono, faccendo ai
beneficati esenzioni, privilegi, donando loro la città, e da
ogni parte assicurandogli; di quegli altri sfasciarono le terre,
mandoronvi colonie, ridussongli in Roma, dissiparongli talmente che
con l'armi e con il consiglio non potevono più nuocere.
Né usarono mai la via neutrale in quelli, come ho detto, di
momento. Questo giudizio debbono i principi imitare. A questo
dovevano accostarsi i Fiorentini, quando nel 1502 si ribellò
Arezzo, e tutta la Val di Chiana: il che se avessono fatto, arebbero
assicurato lo imperio loro, e fatto grandissima la città di
Firenze, e datogli quegli campi che per vivere gli mancono. Ma loro
usorono quella via del mezzo, la quale è dannosissima nel
giudicare gli uomini; e parte degli Aretini confinarono, parte ne
condennarono; a tutti tolsono gli onori e gli loro antichi gradi
nella città; e lasciarono la città intera. E se alcuno
cittadino nelle diliberazioni consigliava che Arezzo si disfacesse;
a quegli che pareva essere più savi, dicevano come e' sarebbe
poco onore della republica disfarla, perché e' parrebbe che
Firenze mancasse di forze da tenerli. Le quali ragioni sono di
quelle che paiono e non sono vere; perché con questa medesima
ragione non si arebbe a ammazzare uno parricida, uno scelerato e
scandoloso, sendo vergogna di quel principe mostrare di non avere
forze da potere frenare uno uomo solo. E non veggono, questi tali
che hanno simili opinioni, come gli uomini particularmente ed una
città tutta insieme pecca tal volta contro a uno stato, che,
per esemplo agli altri, per sicurtà di sé, non ha
altro rimedio uno principe che spegnerla. E l'onore consiste nel
potere e sapere gastigarla, non nel potere con mille pericoli
tenerla: perché quel principe che non gastiga chi erra, in
modo che non possa più errare, è tenuto o ignorante o
vile. Questo giudizio che i Romani dettero, quanto sia necessario si
conferma ancora per la sentenza che dettero de' Privernati. Dove si
debbe, per il testo di Livio, notare due cose: l'una, quello che di
sopra si dice, ch'e' sudditi si debbono o benificare o spegnere:
l'altra, quanto la generosità dell'animo, quanto il parlare
il vero giovi, quando egli è detto nel conspetto di uomini
prudenti. Era ragunato il Senato romano per giudicare de'
Privernati, i quali, sendosi ribellati, erano di poi per forza
ritornati sotto la ubbidienza romana. Erano mandati dal popolo di
Priverno molti cittadini per impetrare perdono dal Senato; ed
essendo venuti al conspetto di quello, fu detto a uno di loro da uno
de' Senatori, «quam poenam meritos Privernates
censeret». Al quale il Privernate rispose: «Eam, quam
merentur qui se libertate dignos censent». Al quale il Consolo
replicò: «Quid si poenam remittimus vobis, qualem nos
pacem vobiscum habituros speremus?». A che quello rispose:
«Si bonam dederitis, et fidelem et perpetuam, si malam, haud
diuturnam». Donde la più savia parte del Senato, ancora
che molti se ne alterassono, disse: «se audivisse vocem et
liberi et viri; nec credi posse ullum populum, aut hominem, denique
in ea conditione cuius eum poeniteat diutius quam necesse sit,
mansurum. Ibi pacem esse fidam, ubi voluntarii pacati sint, neque eo
loco ubi servitutem esse velint, fidem sperandam esse». Ed in
su queste parole, deliberarono che i Privernati fossero cittadini
romani, e de' privilegi della civilità gli onorarono,
dicendo: «eos demum qui nihil praeterquam de libertate
cogitant, dignos esse, qui Romani fiant». Tanto piacque agli
animi generosi questa vera e generosa risposta; perché ogni
altra risposta sarebbe stata bugiarda e vile.
E coloro che credono degli uomini altrimenti, massime di quegli che
sono usi o a essere o a parere loro essere liberi, se ne ingannono;
e sotto questo inganno pigliano partiti non buoni per sé, e
da non satisfare a loro. Di che nascano le spesse ribellioni, e le
rovine degli stati. Ma per tornare al discorso nostro, conchiudo, e
per questo e per quel giudizio dato de' Latini: quando si ha a
giudicare cittadi potenti e che sono use a vivere libere, conviene o
spegnerle o carezzarle; altrimenti, ogni giudizio è vano. E
debbesi fuggire al tutto la via del mezzo, la quale è
dannosa, come la fu ai Sanniti quando avevano rinchiusi i Romani
alle Forche Gaudine; quando non vollero seguire il parere di quel
vecchio, che consigliò che i Romani si lasciassero andare
onorati, o che si ammazzassero tutti; ma pigliando una via di mezzo,
disarmandogli e mettendogli sotto il giogo, gli lasciarono andare
pieni d'ignominia e di sdegno. Talché poco dipoi conobbono
con loro danno la sentenza di quel vecchio essere stata utile, e la
loro diliberazione dannosa: come nel suo luogo più a pieno si
discorrerà.
24
Le fortezze generalmente
sono molto più dannose che utili.
E' parrà forse a questi savi de' nostri tempi cosa non bene
considerata, che i Romani, nel volere assicurarsi de' popoli di
Lazio e della città di Priverno, non pensassono di edificarvi
qualche fortezza, la quale fosse uno freno a tenergli in fede;
sendo, massime, un detto in Firenze, allegato da' nostri savi, che
Pisa e l'altre simili città si debbono tenere con le
fortezze. E veramente, se i Romani fussono stati fatti come loro,
egli arebbero pensato di edificarle; ma perché gli erano
d'altra virtù, d'altro giudizio, d'altra potenza, e' non le
edificarono. E mentre che Roma visse libera, e che la seguì
gli ordini suoi e le sue virtuose constituzioni, mai
n'edificò per tenere o città o provincie, ma
salvò bene alcuna delle edificate. Donde veduto il modo del
procedere de' Romani in questa parte, e quello de' principi de'
nostri tempi, mi pare da mettere in considerazione, s'egli è
bene edificare fortezze, o se le fanno danno o utile a quello che
l'edifica. Debbesi, adunque, considerare come le fortezze si fanno o
per difendersi dagl'inimici o per difendersi da' suggetti. Nel primo
caso le non sono necessarie; nel secondo, dannose. E cominciando a
rendere ragione perché, nel secondo caso, le siano dannose,
dico che quel principe o quella republica che ha paura de' sudditi
suoi e della rebellione loro, prima conviene che tale paura nasca da
odio che abbiano i suoi sudditi seco; l'odio, da' mali suoi
portamenti; i mali portamenti nascono o da potere credere tenergli
con forza, o da poca prudenza di chi gli governa: ed una delle cose
che fa credere potergli forzare, è l'avere loro addosso le
fortezze; perché e' mali trattamenti, che sono cagione
dell'odio, nascono in buona parte per avere quel principe o quella
republica le fortezze: le quali, quando sia vero questo, di gran
lunga sono più nocive che utili. Perché in prima, come
è detto, le ti fanno essere più audace e più
violento ne' sudditi; dipoi, non vi è quella sicurtà,
dentro, che tu ti persuadi: perché tutte le forze, tutte le
violenze che si usono per tenere uno popolo, sono nulla, eccetto che
due; o che tu abbia sempre da mettere in campagna uno buono
esercito, come avevano i Romani, o che gli dissipi, spenga,
disordini e disgiunga, in modo che non possano convenire a
offenderti. Perché, se tu gl'impoverisci, «spoliatis
arma supersunt»; se tu gli disarmi, «furor arma
ministrat»; se tu ammazzi i capi, e gli altri segui d'
ingiuriare, rinascono i capi, come quelli della Idra, se tu fai le
fortezze, le sono utili ne' tempi di pace, perché ti
dànno più animo a fare loro male ma ne' tempi di
guerra sono inutilissime, perché le sono assaltate dal nimico
e da' sudditi, né è possibile che le faccino
resistenza ed all'uno ed all'altro. E se mai furono disutili, sono,
ne' tempi nostri, rispetto alle artiglierie; per il furore delle
quali i luoghi piccoli e dove altri non si possa ritirare con gli
ripari, è impossibile difendere, come di sopra discorremo.
Io voglio questa materia disputarla più tritamente. O tu,
principe, vuoi con queste fortezze tenere in freno il popolo della
tua città; o tu, principe, o republica, vuoi frenare una
città occupata per guerra. Io mi voglio voltare al principe,
e gli dico: che tale fortezza, per tenere in freno i suoi cittadini,
non può essere più inutile per le cagioni dette di
sopra; perché la ti fa più pronto e men rispettivo a
oppressargli; e quella oppressione gli fa sì disposti alla
tua rovina, e gli accende in modo, che quella fortezza, che ne
è cagione, non ti può poi difendere. Tanto che un
principe savio e buono, per mantenersi buono, per non dare cagione
né ardire a' figliuoli di diventare tristi, mai non
farà fortezza, acciocché quelli, non in su le
fortezze, ma in su la benivolenza degli uomini si fondino. E se il
conte Francesco Sforza, diventato duca di Milano, fu riputato savio,
e nondimeno fece in Milano una fortezza, dico che in questo ei non
fu savio, e lo effetto ha dimostro come tale fortezza fu a danno, e
non a sicurtà de' suoi eredi. Perché giudicando
mediante quella vivere sicuri, e potere offendere i cittadini e
sudditi loro, non perdonarono a alcuna generazione di violenza;
talché, diventati sopra modo odiosi, perderono quello stato
come prima il nimico gli assaltò: né quella fortezza
gli difese, né fece loro nella guerra utile alcuno, e nella
pace aveva fatto loro danno assai. Perché se non avessono
avuto quella, e se per poca prudenza avessono agramente maneggiati i
loro cittadini, arebbono scoperto il pericolo più tosto, e
sarebbonsene ritirati; e arebbono poi potuto più animosamente
resistere allo impeto francioso, co' sudditi amici sanza fortezza,
che, con quelli inimici, con la fortezza: le quali non ti giovano in
alcuna parte; perché, o le si perdono per fraude di chi le
guarda, o per violenza di chi le assalta, o per fame. E se tu vuoi
che le ti giovino, e ti aiutino ricuperare uno stato perduto, dove
ti sia rimasa solo la fortezza; ti conviene avere uno esercito, con
il quale tu possa assaltare colui che ti ha cacciato: e quando tu
abbi questo esercito, tu riaresti lo stato in ogni modo, eziandio la
fortezza non vi fosse; e tanto più facilmente, quanto gli
uomini ti fossono più amici che non ti erano avendogli male
trattati per l'orgoglio della fortezza. E per isperienza si è
visto, come questa fortezza di Milano, né agli Sforzeschi
né a' Franciosi, ne' tempi avversi dell'uno e dell'altro, non
ha fatto a alcuno di loro utile alcuno, anzi a tutti ha arrecato
danno e rovine assai, non avendo pensato, mediante quella, a
più onesto modo di tenere quello stato. Guidubaldo duca di
Urbino, figliuolo di Federigo, che fu ne' suoi tempi tanto stimato
capitano, sendo cacciato da Cesare Borgia, figliuolo di papa
Alessandro VI, dello stato; come dipoi, per uno accidente nato, vi
ritornò, fece rovinare tutte le fortezze che erano in quella
provincia, giudicandole dannose. Perché, sendo quello amato
dagli uomini, per rispetto di loro non le voleva; e, per conto de'
nimici, vedeva non le potere difendere, avendo quelle bisogno d'uno
esercito in campagna, che le difendesse: talché si volse a
rovinarle. Papa Iulio, cacciati i Bentivogli di Bologna fece in
quella città una fortezza; e dipoi faceva assassinare quel
popolo da uno suo governatore: talché quel popolo si
ribellò; e subito perdé la fortezza; e così non
gli giovò la fortezza; e l'offese, intanto che, portandosi
altrimenti, gli arebbe giovato. Niccolò da Castello, padre
de' Vitelli, tornato nella sua patria donde era esule, subito
disfece due fortezze vi aveva edificate papa Sisto IV, giudicando,
non la fortezza, ma la benivolenza del popolo lo avesse a tenere in
quello stato. Ma di tutti gli altri esempli il più fresco ed
il più notabile in ogni parte ed atto a mostrare la
inutilità dello edificarle e l'utilità del disfarle,
è quello di Genova, seguito ne' prossimi tempi. Ciascuno sa
come, nel 1507, Genova si ribellò da Luigi XII re di Francia,
il quale venne personalmente e con tutte le forze sue a
riacquistarla; e ricuperata che la ebbe, fece una fortezza,
fortissima di tutte le altre delle quali al presente si avesse
notizia: perché era, per sito e per ogni altra circunstanza,
inespugnabile, posta in su una punta di colle che si estende nel
mare, chiamato da' Genovesi Codefà; e, per questo, batteva
tutto il porto e gran parte della città di Genova. Occorse
poi, nel 1512, che, sendo cacciate le genti franciose d'Italia,
Genova, nonostante la fortezza, si ribellò, e prese lo stato
di quella Ottaviano Fregoso; il quale con ogni industria, in termine
di sedici mesi, per fame la espugnò. E ciascuno credeva, e da
molti n'era consigliato, che la conservasse per suo refugio in ogni
accidente; ma esso, come prudentissimo, conoscendo che non le
fortezze, ma la volontà degli uomini mantenevono i principi
in stato, la rovinò. E così, sanza fondare lo stato
suo in su la fortezza, ma in su la virtù e prudenza sua, lo
ha tenuto e tiene. E dove a variare lo stato di Genova solevano
bastare mille fanti, gli avversari suoi lo hanno assaltato con
diecimila, e non lo hanno potuto offendere. Vedesi adunque per
questo, come il disfare la fortezza non ha offeso Ottaviano, ed il
farla non difese il re. Perché, quando ei potette venire in
Italia con lo esercito, ei potette ricuperare Genova, non vi avendo
fortezza; ma quando ei non potette venire in Italia con lo esercito,
ei non potette tenere Genova, avendovi la fortezza. Fu, adunque, di
spesa a il re il farla, e vergognoso il perderla; a Ottaviano,
glorioso il riacquistarla, ed utile il rovinarla.
Ma vegnamo alle republiche che fanno le fortezze non nella patria,
ma nelle terre che le acquistano. Ed a mostrare questa fallacia,
quando e' non bastasse lo esemplo detto, di Francia e di Genova,
voglio mi basti Firenze e Pisa: dove i Fiorentini fecero le fortezze
per tenere quella città; e non conobbero che una città
stata sempre inimica del nome fiorentino, vissuta libera, e che ha
alla rebellione per rifugio la libertà, era necessario,
volendola tenere, osservare il modo romano; o farsela compagna, o
disfarla. Perché la virtù delle fortezze si vide nella
venuta del re Carlo; al quale si dettono o per poca fede di chi le
guardava o per timore di maggiore male: dove, se le non fussono
state, i Fiorentini non arebbero fondato il potere tenere Pisa sopra
quelle, e quel re non arebbe potuto per quella via privare i
Fiorentini di quella città; e i modi con gli quali si fusse
mantenuta infino a quel tempo, sarebbono stati per avventura
sufficienti conservarla, e sanza dubbio non arebbero fatto
più cattiva prova che le fortezze. Conchiudo adunque, che,
per tenere la patria propria, la fortezza è dannosa; per
tenere le terre che si acquistono, le fortezze sono inutili: e
voglio mi basti l'autorità de' Romani, i quali, nelle terre
che volevano tenere con violenza, smuravano, e non muravano. E chi
contro a questa opinione mi allegasse negli antichi tempi Taranto, e
ne' moderni Brescia, i quali luoghi mediante le fortezze furono
recuperati dalla ribellione de' sudditi, rispondo che alla
ricuperazione di Taranto, in capo di uno anno, fu mandato Fabio
Massimo con tutto lo esercito, il quale sarebbe stato atto a
ricuperarlo eziandio se non vi fusse stata la fortezza, e se Fabio
usò quella via, quando la non vi fusse stata, ne arebbe usata
un'altra che arebbe fatto il medesimo effetto. Ed io non so di che
utilità sia una fortezza che, a renderti la terra, abbia
bisogno, per la ricuperazione d'essa, d'uno esercito consolare e
d'uno Fabio Massimo per capitano. E che i Romani l'avessono ripresa
in ogni modo, si vede per l'esemplo di Capova; dove non era
fortezza, e per virtù dello esercito la riacquistarono. Ma
vegnamo a Brescia. Dico, come rade volte occorre quello che occorse
in quella rebellione, che la fortezza che rimane nelle forze tua,
sendo ribellata la terra, abbi uno esercito grosso e propinquo, come
era quel de' Franciosi: perché, sendo monsignor di Fois,
capitano del re, con lo esercito a Bologna, intesa la perdita di
Brescia, sanza differire ne andò a quella volta, ed in tre
giorni arrivato a Brescia, per la fortezza riebbe la terra. Ebbe,
pertanto, ancora la fortezza di Brescia, a volere che la giovasse,
bisogno d'un monsignor di Fois, e d'uno esercito francioso che in
tre dì la soccorresse. Sì che lo esemplo di questo,
allo incontro delli esempli contrari, non basta; perché assai
fortezze sono state, nelle guerre de' nostri tempi, prese e riprese
con la medesima fortuna che si è ripresa e presa la campagna,
non solamente in Lombardia, ma in Romagna, nel regno di Napoli, e
per tutte le parti d'Italia. Ma, quanto allo edificare fortezze per
difendersi da' nimici di fuori, dico che le non sono necessarie a
quelli popoli ed a quelli regni che hanno buoni eserciti; ed a
quegli che non hanno buoni eserciti, sono inutili: perché i
buoni eserciti sanza le fortezze sono sofficienti a difendersi; le
fortezze sanza i buoni eserciti non ti possono difendere. E questo
si vede per isperienza di quegli che sono stati e ne' governi e
nell'altre cose tenuti eccellenti; come si vede de' Romani e degli
Spartani: che, se i Romani non edificavano fortezze, gli Spartani,
non solamente si astenevano da quelle, ma non permettevano di avere
mura alle loro città; perché volevono che la
virtù dell'uomo particulare, non altro defensivo, gli
difendesse. Dond'è che, sendo domandato uno Spartano da uno
Ateniese, se le mura di Atene gli parevano belle, gli rispose: -
Sì, s'elle fussono abitate da donne -. Quello principe,
adunque, che abbi buoni eserciti, quando in sulle marine e alla
fronte dello stato suo abbia qualche fortezza che possa qualche
dì sostenere el nimico infino che sia a ordine, sarebbe cosa
utile, qualche volta, ma non è necessaria. Ma quando il
principe non ha buono esercito, avere le fortezze per il suo stato,
o alle frontiere, gli sono o dannose o inutili: dannose,
perché facilmente le perde, e perdute gli fanno guerra; o, se
pure le fussono sì forti che il nimico non le potessi
occupare, sono lasciate indietro dallo esercito inimico, e vengono a
essere di nessuno frutto; perché i buoni eserciti, quando non
hanno gagliardissimo riscontro, entrano ne' paesi inimici sanza
rispetto di città o di fortezze che si lascino indietro; come
si vede nelle antiche istorie, e come si vede fece Francesco Maria,
il quale, ne' prossimi tempi, per assaltare Urbino si lasciò
indietro dieci città inimiche, sanza alcuno rispetto. Quel
principe, adunque, che può fare buono esercito, può
fare sanza edificare fortezze; quello che non ha lo esercito buono,
non debbe edificarle. Debbe bene afforzare la città dove
abita, e tenerla munita, e bene disposti i cittadini di quella, per
potere sostenere tanto uno impeto inimico, o che accordo o che aiuto
esterno lo liberi. Tutti gli altri disegni sono di spesa ne' tempi
di pace, ed inutili ne' tempi di guerra. E così, chi
considererà tutto quello ho detto, conoscerà i Romani,
come savi in ogni altro loro ordine, così furono prudenti in
questo giudizio de' Latini e de' Privernati; dove, non pensando a
fortezze, con più virtuosi modi e più savi se ne
assicurarono.
25
Che lo assaltare una città disunita,
per occuparla mediante la sua disunione,
è partito contrario.
Era tanta disunione nella Republica romana intra la Plebe e la
Nobilità, che i Veienti, insieme con gli Etrusci, mediante
tale disunione, pensarono potere estinguere il nome romano. Ed
avendo fatto esercito, e corso sopra i campi di Roma, mandò
il Senato, loro contro, Gaio Manilio e Marco Fabio; i quali avendo
condotto il loro esercito propinquo allo esercito de' Veienti, non
cessavano i Veienti, e con assalti e con obbrobri, offendere e
vituperare il nome romano: e fu tanta la loro temerità ed
insolenzia, che i Romani, di disuniti diventarono uniti; e venendo
alla zuffa, gli ruppano e vinsono. Vedesi pertanto, quanto gli
uomini s'ingannano, come di sopra discorremo, nel pigliare de'
partiti; e come molte volte credono guadagnare una cosa, e la
perdono. Credettono i Veienti, assaltando i Romani disuniti,
vincergli; e quello assalto fu cagione della unione di quegli, e
della rovina loro. Perché la cagione della disunione delle
republiche il più delle volte è l'ozio e la pace; la
cagione della unione è la paura e la guerra. E però,
se i Veienti fussono stati savi, eglino arebbero, quanto più
disunita vedevon Roma, tanto più tenuta da loro la guerra
discosto, e con l'arti della pace cerco di oppressargli. Il modo
è cercare di diventare confidente di quella città che
è disunita; ed infino che non vengono all'armi, come arbitro
maneggiarsi intra le parti. Venendo alle armi, dare lenti favori
alla parte più debole; sì per tenergli più in
su la guerra, e fargli consumare; sì perché le assai
forze non gli facessero dubitare tutti, che tu volessi opprimergli e
diventare loro principe. E quando questa parte è governata
bene, interverrà, quasi sempre, che l'arà quel fine
che tu ti hai presupposto. La città di Pistoia, come in altro
discorso ed a altro proposito dissi, non venne sotto alla Republica
di Firenze con altra arte che con questa: perché sendo quella
divisa, e favorendo i Fiorentini ora l'una parte ora l'altra, sanza
carico dell'una e dell'altra la condussono in termine, che, stracca
in quel suo vivere tumultuoso, venne spontaneamente a gittarsi in le
braccia di Firenze. La città di Siena non ha mai mutato
stato, col favore de' Fiorentini, se non quando i favori sono stati
deboli e pochi. Perché, quando ei sono stati assai e
gagliardi, hanno fatto quella città unita alla difesa di
quello stato che regge. Io voglio aggiugnere ai soprascritti uno
altro esemplo. Filippo Visconti, duca di Milano, più volte
mosse guerra a' Fiorentini, fondatosi sopra le disunioni loro, e
sempre ne rimase perdente; talché gli ebbe a dire, dolendosi
delle sue imprese, come le pazzie de' Fiorentini gli avevano fatto
spendere inutilmente due milioni d'oro. Restarono adunque, come di
sopra si dice, ingannati i Veienti e gli Toscani da questa opinione,
e furano alfine in una giornata superati da' Romani. E così
per lo avvenire ne resterà ingannato qualunque per simile via
e per simile cagione crederrà oppressare uno popolo.
26
Il vilipendio e l'improperio genera odio
contro a coloro che l'usano,
sanza alcuna loro utilità.
Io credo che sia una delle grandi prudenze che usono gli uomini,
astenersi o dal minacciare o dallo ingiuriare alcuno con le parole:
perché l'una cosa e l'altra non tolgono forze al nimico; ma
l'una lo fa più cauto, l'altra gli fa avere maggiore odio
contro di te, e pensare con maggiore industria di offenderti. Vedesi
questo per lo esemplo de' Veienti, de' quali nel capitolo superiore
si è discorso; i quali alla ingiuria della guerra,
aggiunsono, contro a' Romani, l'obbrobrio delle parole; dal quale
ogni capitano prudente debbe fare astenere i suoi soldati;
perché le sono cose che infiammano ed accendano il nimico
alla vendetta, ed in nessuna parte lo impediscono, come è
detto, alla offesa; tanto che le sono tutte armi che vengono contro
a te. Di che ne seguì già uno esemplo notabile in
Asia: dove Gabade, capitano de' Persi, essendo stato a campo a Amida
più tempo, ed avendo deliberato, stracco dal tedio della
ossidione, partirsi; levandosi già con il campo, quegli della
terra, venuti tutti in su le mura, insuperbiti della vittoria, non
perdonarono a nessuna qualità d'ingiuria, vituperando,
accusando, e rimproverando la viltà e la poltroneria del
nimico. Da che Gabade irritato, mutò consiglio; e ritornato
alla ossidione tanta fu la indegnazione della ingiuria, che in pochi
giorni gli prese e saccheggiò. E questo medesimo intervenne
a' Veienti: a' quali, come è detto, non bastando il fare
guerra a' Romani, ancora con le parole gli vituperarono, ed andando
infino in su lo steccato del campo a dire loro ingiuria,
gl'irritarono molto più con le parole che con le armi: e
quegli soldati che prima combattevano mal volentieri, costrinsero i
Consoli a appiccare la zuffa, talché i Veienti portarono la
pena, come gli antedetti, della contumacia loro. Hanno dunque i
buoni principi di eserciti, ed i buoni governatori di republica, a
fare ogni opportuno rimedio, che queste ingiurie e rimproveri non si
usino o nella città o nello esercito suo, né infra
loro, né contro al nimico: perché, usati contro al
nimico, ne riescono gl'inconvenienti soprascritti; infra loro,
farebbero peggio, non vi si riparando, come vi hanno sempre gli
uomini prudenti riparato. Avendo le legioni romane, state lasciate a
Capova, congiurato contro a' Capovani, come nel suo luogo si
narrerà; ed essendone di questa congiura nata una sedizione,
la quale fu poi da Valerio Corvino quietata, intra le altre
constituzioni che nella convenzione si fece ordinarono pene
gravissime a coloro che rimproverassero mai a alcuni di quegli
soldati tale sedizione. Tiberio Gracco, fatto, nella guerra di
Annibale, capitano sopra certo numero di servi che i Romani, per
carestia d'uomini, avevano armati, ordinò, intra le prime
cose, pena capitale a qualunque rimproverasse la servitù a
alcuno di loro. Tanto fu stimato dai Romani, come di sopra si
è detto, cosa dannosa il vilipendere gli uomini ed il
rimproverare loro alcuna vergogna; perché non è cosa
che accenda tanto gli animi loro, né generi maggiore isdegno,
o da vero o da beffe che si dica: «Nam facetiae asperae,
quando nimium ex vero traxere, acrem sui memoriam relinquunt».
27
Ai principi e republiche prudenti
debbe bastare vincere;
perché, il più delle volte,
quando e' non basta, si perde.
Lo usare parole contro al nimico poco onorevoli, nasce il più
delle volte da una insolenzia che ti dà o la vittoria o la
falsa speranza della vittoria; la quale falsa speranza fa gli uomini
non solamente errare nel dire, ma ancora nello operare.
Perché questa speranza, quando la entra ne' petti degli
uomini, fa loro passare il segno; e perdere, il più delle
volte, quella occasione dell'avere uno bene certo, sperando di avere
un meglio incerto. E perché questo è un termine che
merita considerazione, ingannandocisi dentro gli uomini molto
spesso, e con danno dello stato loro, e' mi pare da dimostrarlo
particularmente con esempli antichi e moderni, non si potendo con le
ragioni così distintamente dimostrare. Annibale, poi ch'egli
ebbe rotti i Romani a Canne, mandò suoi oratori a Cartagine a
significare la vittoria, e chiedere sussidi. Disputossi in Senato di
quello che si avesse a fare. Consigliava Annone, uno vecchio e
prudente cittadino cartaginese, che si usasse questa vittoria
saviamente in fare pace con i Romani, potendola avere con condizioni
oneste, avendo vinto; e non si aspettasse di averla a fare dopo la
perdita: perché la intenzione de' Cartaginesi doveva essere,
mostrare a' Romani come e' bastavano a combatterli; ed avendosene
avuto vittoria, non si cercasse di perderla per la speranza d'una
maggiore. Non fu preso questo partito; ma fu bene poi, dal Senato
cartaginese, conosciuto savio, quando la occasione fu perduta.
Avendo Alessandro Magno già preso tutto l'oriente, la
republica di Tiro, nobile in quelli tempi, e potente per avere la
loro città in acqua come i Viniziani, veduta la grandezza di
Alessandro, gli mandarono oratori a dirli, come volevano essere suoi
buoni servidori e darli quella ubbidienza voleva, ma che non erano
già per accettare né lui né sue genti nella
terra; donde sdegnato Alessandro, che una città gli volesse
chiudere quelle porte che tutto il mondo gli aveva aperte, gli
ributtò, e, non accettate le condizioni loro vi andò a
campo. Era la terra in acqua, e benissimo, di vettovaglie e di altre
munizioni necessarie alla difesa, munita: tanto che Alessandro, dopo
quattro mesi, si avvide che una città gli toglieva quel tempo
alla sua gloria che non gli avevano tolto molti altri acquisti; e
diliberò di tentare lo accordo, e concedere loro quello che
per loro medesimi avevano domandato. Ma quegli di Tiro, insuperbiti,
non solamente non vollero accettare lo accordo, ma ammazzarono chi
venne a praticarlo. Di che Alessandro sdegnato, con tanta forza si
misse alla ispugnazione, che la prese, disfece, ed ammazzò e
fece schiavi gli uomini.
Venne, nel 1512, uno esercito spagnuolo in sul dominio fiorentino
per rimettere i Medici in Firenze, e taglieggiare la città,
condotti da cittadini d'entro, i quali avevano dato loro speranza,
che, subito fussono in sul dominio fiorentino, piglierebbero l'armi
in loro favore; ed essendo entrati nel piano, e non si scoprendo
alcuno, ed avendo carestia di vettovaglie, tentarono l'accordo: di
che insuperbito il popolo di Firenze, non lo accettò: donde
ne nacque la perdita di Prato, e la rovina di quello stato. Non
possono, pertanto, i principi, che sono assaltati, fare il maggiore
errore, quando lo assalto è fatto da uomini di gran lunga
più potenti di loro, che recusare ogni accordo, massime
quando egli è offerto: perché non sarà mai
offerto sì basso, che non vi sia dentro in qualche parte il
bene essere di colui che lo accetta, e vi sarà parte della
sua vittoria. Perché e' doveva bastare al popolo di Tiro, che
Alessandro accettasse quelle condizioni ch'egli aveva prima
rifiutate ed era assai vittoria la loro, quando con l'arme in mano
avevano fatto condiscendere uno tanto uomo alla voglia loro. Doveva
bastare ancora al popolo fiorentino, che gli era assai vittoria, se
lo esercito spagnuolo cedeva a qualcuna delle voglie di quello e le
sue non adempiva tutte: perché la intenzione di quello
esercito era mutare lo stato in Firenze, levarlo dalla divozione di
Francia, e trarre da lui danari. Quando di tre cose e' ne avesse
avute due, che son l'ultime, ed al popolo ne fusse restata una, che
era la conservazione dello stato suo, ci aveva dentro ciascuno
qualche onore e qualche satisfazione: né si doveva il popolo
curare delle due cose, rimanendo vivo; né doveva volere,
quando bene egli avesse veduta maggiore vittoria, e quasi certa,
mettere quella in alcuna parte a discrezione della fortuna,
andandone l'ultima posta sua: la quale qualunque prudente mai
arrischierà se non necessitato. Annibale, partito d'Italia,
dove era stato sedici anni glorioso, richiamato da' suoi Cartaginesi
a soccorrere la patria, trovò rotto Asdrubale e Siface;
trovò perduto il regno di Numidia e ristretta Cartagine intra
i termini delle sue mura, alla quale non restava altro refugio che
esso e lo esercito suo. Conoscendo come quella era l'ultima posta
della sua patria, non volle prima metterla a rischio, ch'egli ebbe
tentato ogni altro rimedio; e non si vergognò di domandare la
pace, giudicando, se alcuno rimedio aveva la sua patria, era in
quella e non nella guerra: la quale sendogli poi negata, non volle
mancare, dovendo perdere, di combattere; giudicando potere pur
vincere, o, perdendo, perdere gloriosamente. E se Annibale, il quale
era tanto virtuoso ed aveva il suo esercito intero, cercò
prima la pace che la zuffa, quando ei vidde che, perdendo quella, la
sua patria diveniva serva, che debbe fare un altro di manco
virtù e di manco isperienza di lui? Ma gli uomini fanno
questo errore, che non sanno porre termini alle speranze loro; ed in
su quelle fondandosi, sanza misurarsi altrimenti, rovinano.
28
Quanto sia pericoloso a una republica
o a uno principe
non vendicare una ingiuria
fatta contro al publico o contro
al privato.
Quello che facciano fare gli sdegni agli uomini, facilmente si
conosce per quello che avvenne ai Romani quando ei mandarono i tre
Fabii oratori a' Franciosi, che erano venuti a assaltare la Toscana,
ed in particulare Chiusi. Perché, avendo mandato il popolo di
Chiusi per aiuto a Roma contro a' Franciosi, i Romani mandarono
ambasciadori a' Franciosi, i quali, in nome del Popolo romano,
significassero loro che si astenessero di fare guerra a' Toscani. I
quali oratori, sendo in su 'l luogo, e più atti a fare che a
dire, venendo i Franciosi ed i Toscani alla zuffa, si messero in tra
i primi a combattere contro a quelli: onde ne nacque che, essendo
conosciuti da loro, tutto lo sdegno avevano contro a' Toscani,
volsero contro a' Romani. Il quale sdegno diventò maggiore,
perché, avendo i Franciosi per loro ambasciadori fatto
querela con il Senato romano di tale ingiuria, e domandato che in
soddisfazione del danno fussino loro dati i soprascritti Fabii, non
solamente non furono consegnati loro, o in altro modo gastigati, ma
venendo i comizi, furono fatti Tribuni con potestà consolare.
Talché, veggendo i Franciosi quelli onorati che dovevano
essere puniti, ripresono tutto essere fatto in loro dispregio e
ignominia; ed accesi di sdegno e d'ira, vennero a assaltare Roma, e
quella presono, eccetto il Campidoglio. La quale rovina nacque ai
Romani solo per la inosservanza della giustizia; perché,
avendo peccato i loro ambasciatori «contra ius gentium»,
e dovendo esserne gastigati, furono onorati. Però è da
considerare quanto ogni republica ed ogni principe debbe tenere
conto di fare simile ingiuria, non solamente contro a una
universalità, ma ancora contro a uno particulare.
Perché, se uno uomo è offeso grandemente o dal publico
o dal privato e non sia vendicato secondo la soddisfazione sua; se
e' vive in una republica, cerca, ancora che con la rovina di quella,
vendicarsi; se e' vive sotto un principe, ed abbi in sé
alcuna generosità, non si acquieta mai, in fino che in
qualunque modo si vendichi contro a di colui, come che egli vi
vedesse, dentro, il suo proprio male.
Per verificare questo, non ci è il più bello né
il più vero esemplo che quello di Filippo re di Macedonia,
padre d'Alessandro. Aveva costui in la sua corte Pausania, giovane
bello e nobile, del quale era inamorato Attalo, uno de' primi uomini
che fusse presso a Filippo ed avendolo più volte ricerco che
dovesse acconsentirgli, e trovandolo alieno da simili cose,
diliberò di avere con inganno e per forza quello che, per
altro verso, vedea di non potere avere. E fatto uno solenne convito,
nel quale Pausania e molti altri nobili baroni convennero, fece, poi
che ciascuno fu pieno di vivande e di vino, prendere Pausania, e,
condottolo allo stretto, non solamente per forza sfogò la sua
libidine, ma ancora, per maggiore ignominia, lo fece da molti degli
altri in simile modo vituperare. Della quale ingiuria Pausania si
dolse più volte con Filippo; il quale, avendolo tenuto un
tempo in speranza di vendicarlo, non solamente non lo
vendicò, ma prepose Attalo al governo d'una provincia di
Grecia: donde che Pausania, vedendo il suo nimico onorato e non
gastigato, volse tutto lo sdegno suo, non contro a quello che gli
aveva fatto ingiuria, ma contro a Filippo che non lo aveva
vendicato. Ed una mattina solenne, in su le nozze della figliuola di
Filippo, ch'egli aveva maritata a Alessandro di Epiro, andando
Filippo al tempio, a celebrarle, in mezzo de' due Alessandri, genero
e figliuolo, lo ammazzò. Il quale esemplo è molto
simile a quello de' Romani, e notabile a qualunque governa: che mai
non debbe tanto poco stimare un uomo, che ei creda, aggiugnendo
ingiuria sopra ingiuria, che colui che è ingiuriato non pensi
di vendicarsi con ogni suo pericolo e particulare danno.
29
La fortuna acceca gli animi degli uomini,
quando la non vuole
che quegli si opponghino a' disegni suoi.
Se e' si considererà bene come procedono le cose umane, si
vedrà molte volte nascere cose e venire accidenti, a' quali i
cieli al tutto non hanno voluto che si provvegga. E quando, questo
che io dico, intervenne a Roma, dove era tanta virtù, tanta
religione e tanto ordine, non è maraviglia che gli intervenga
molto più spesso in una città o in una provincia che
manchi delle cose sopradette. E perché questo luogo è
notabile assai, a dimostrare la potenza del cielo sopra le cose
umane, Tito Livio largamente e con parole efficacissime lo dimostra:
dicendo come, volendo il cielo a qualche fine, che i Romani
conoscessono la potenza sua, fece prima errare quegli Fabii che
andarono oratori a' Franciosi, e, mediante l'opera loro, gli
concitò a fare guerra a Roma; dipoi ordinò, che, per
reprimere quella guerra, non si facesse in Roma alcuna cosa degna
del Popolo romano; avendo prima ordinato che Cammillo, il quale
poteva essere solo unico remedio a tanto male, fusse mandato in
esilio a Ardea; dipoi, venendo i Franciosi verso Roma, coloro che,
per rimediare allo impeto de' Volsci ed altri finitimi loro inimici,
avevano creato molte volte uno Dittatore, venendo i Franciosi, non
lo crearono. Ancora nel fare la elezione de' soldati, la fecioro
debole e sanza alcuna istraordinaria diligenza; e furono tanto pigri
al pigliare l'arme, che a fatica furono a tempo a scontrare i
Franciosi sopra il fiume di Allia, discosto a Roma dieci miglia.
Quivi i Tribuni posero il loro campo, sanza alcuna consueta
diligenza; non prevedendo il luogo prima, e non si circundando con
fossa e con isteccato, non usando alcuno rimedio umano e divino; e
nello ordinare la zuffa, fecero gli ordini radi e deboli: in modo
che né i soldati né i capitani fecero cosa degna della
romana disciplina. Combattessi poi sanza alcuno sangue;
perché ei fuggirono prima che fussono assaltati, e la maggior
parte se n'andò a Veio, l'altra si ritirò a Roma; i
quali, sanza entrare altrimenti nelle case loro, se ne entrarono in
Campidoglio: in modo che il Senato, sanza pensare di difendere Roma,
non chiuse, non che altro, le porte; e parte se ne fuggì,
parte con gli altri se ne entrarono in Campidoglio. Pure, nel
difendere quello, usarono qualche ordine non tumultuario;
perché ei non aggravarono quello di gente inutile; messonvi
tutti i frumenti che poterono, acciocché potessono sopportare
l'ossidione; e della turba inutile de' vecchi, delle donne e de'
fanciugli, la maggior parte se ne fuggì nelle terre
circunvicine, il rimanente restò in Roma in preda de'
Franciosi. Talché, chi avesse letto le cose fatte da quel
popolo tanti anni innanzi, e leggessi dipoi quelli tempi, non
potrebbe a nessuno modo credere che fusse stato uno medesimo popolo.
E detto che Tito Livio ha tutti e' sopradetti disordini, conchiude
dicendo: «Adeo obcaecat animos fortuna, cum vim suam
ingruentem refringi non vult». Né può più
essere vera questa conclusione: onde gli uomini che vivono
ordinariamente nelle grandi avversità o prosperità,
meritano manco laude o manco biasimo. Perché il più
delle volte si vedrà quelli a una rovina ed a una grandezza
essere stati convinti da una commodità grande che gli hanno
fatto i cieli, dandogli occasione, o togliendogli, di potere operare
virtuosamente.
Fa bene la fortuna questo, che la elegge uno uomo, quando la voglia
condurre cose grandi, che sia di tanto spirito e di tanta
virtù, che ei conosca quelle occasioni che la gli porge.
Così medesimamente, quando la voglia condurre grandi rovine,
ella vi prepone uomini che aiutino quella rovina. E se alcuno fusse
che vi potesse ostare, o la lo ammazza o la lo priva di tutte le
facultà da potere operare alcuno bene. Conoscesi questo
benissimo per questo testo, come la fortuna, per fare maggiore Roma,
e condurla a quella grandezza venne, giudicò fussi necessario
batterla (come a lungo nel principio del seguente libro
discorrereno), ma non volle già in tutto rovinarla. E per
questo si vede che la fece esulare, e non morire, Cammillo; fece
pigliare Roma, e non il Campidoglio; ordinò che i Romani, per
riparare Roma, non pensassono alcuna cosa buona; per difendere poi
il Campidoglio, non mancarono di alcuno buono ordine. Fece,
perché Roma fusse presa, che la maggior parte de' soldati che
furono rotti a Allia, se ne andorono a Veio; e così, per la
difesa della città di Roma, tagliò tutte le vie. E
nell'ordinare questo, preparò ogni cosa alla sua
ricuperazione; avendo condotto uno esercito romano intero a Veio, e
Cammillo a Ardea, da potere fare grossa testa, sotto uno capitano
non maculato d'alcuna ignominia per la perdita, ed intero nella sua
riputazione per la recuperazione della patria sua.
Sarebbeci da addurre in confermazione delle cose dette qualche
esemplo moderno; ma, per non gli giudicare necessari, potendo questo
a qualunque satisfare, gli lascereno indietro. Affermo, bene, di
nuovo,questo essere verissimo, secondo che per tutte le istorie si
vede, che gli uomini possono secondare la fortuna e non opporsegli;
possono tessere gli orditi suoi, e non rompergli. Debbono, bene, non
si abbandonare mai; perché, non sappiendo il fine suo, e
andando quella per vie traverse ed incognite, hanno sempre a
sperare, e sperando non si abbandonare, in qualunque fortuna ed in
qualunque travaglio si truovino.
30
Le republiche
e gli principi veramente potenti
non comperono l'amicizie con danari,
ma con la virtù e con la riputazione
delle forze.
Erano i Romani assediati nel Campidoglio, e ancora ch'eglino
aspettassono il soccorso da Veio e da Cammillo, sendo cacciati dalla
fame, vennono a composizione con i Franciosi di ricomperarsi certa
quantità d'oro; e sopra tale convenzione pesandosi di
già l'oro, sopravvenne Cammillo con lo esercito suo: il che
fece, dice lo istorico, la fortuna, «ut Romani auro redempti
non viverent». La quale cosa non solamente è notabile
in questa parte, ma etiam nel processo delle azioni di questa
Republica; dove si vede che mai acquistarono terre con danari, mai
feciono pace con danari, ma sempre con la virtù dell'armi: il
che non credo sia mai intervenuto a alcuna altra republica. Ed intra
gli altri segni per gli quali si conosce la potenza d'uno stato
forte, è vedere come egli vive con gli vicini suoi. E quando
ei si governa in modo che i vicini, per averlo amico, sieno suoi
pensionari, allora è certo segno che quello stato è
potente: ma quando detti vicini, ancora che inferiori a lui,
traggono da quello danari, allora è segno grande della
debolezza di quello.
Legghinsi tutte le istorie romane, e vedrete come i Massiliensi, gli
Edui, i Rodiani, Ierone siracusano, Eumene e Massinissa regi, i
quali tutti erano vicini ai confini dello imperio romano, per avere
l'amicizia di quello concorrevono a spese ed a tributi ne' bisogni
d'esso, non cercando da lui altro premio che lo essere difesi. Al
contrario si vedrà negli stati deboli: e cominciandoci dal
nostro di Firenze, ne' tempi passati, nella sua maggiore
riputazione, non era signorotto in Romagna che non avessi da quello
provvisione; e di più la dava a' Perugini, a' Castellani, e a
tutti gli altri suoi vicini. Che se questa città fusse stata
armata e gagliarda, sarebbe tutto ito per il contrario;
perché molti, per avere la protezione di essa, arebbono dato
danari a lei; e cerco, non di vendere la loro amicizia, ma di
comperare la sua. Né sono in questa viltà vissuti soli
i Fiorentini, ma i Viniziani, ed il re di Francia, il quale, con un
tanto regno, vive tributario di Svizzeri, e del re d'Inghilterra. Il
che tutto nasce dallo avere disarmati i popoli suoi, ed avere
più tosto voluto, quel re e gli altri prenominati, godersi un
presente utile, di potere saccheggiare i popoli, e fuggire uno
immaginato più tosto che vero pericolo, che fare cose che gli
assicurino, e faccino i loro stati felici in perpetuo. Il quale
disordine, se partorisce qualche tempo qualche quiete, è
cagione col tempo di necessità, di danni e rovine
irrimediabili. E sarebbe lungo raccontare quante volte i Fiorentini,
Viniziani, e questo regno, si sono ricomperati in su le guerre, e
quante volte ei si sono sottomessi a una ignominia; a che i Romani
una sola volta furono per sottomettersi. Sarebbe lungo raccontare
quante terre i Fiorentini ed i Viniziani hanno comperate: di che si
è veduto poi il disordine, e come le cose che si acquistano
con l'oro, non si sanno difendere con il ferro. Osservarono i Romani
questa generosità e questo modo di vivere, mentre che ei
vissono liberi; ma poi che gli entrarono sotto gl'imperadori, e che
gl'imperadori cominciarono a essere cattivi, ed amare più
l'ombra che il sole, cominciarono ancora essi a ricomperarsi, ora
dai Parti, ora dai Germani, ora da altri popoli convicini: il che fu
principio della rovina di tanto Imperio.
Procedono, pertanto, simili inconvenienti dallo avere disarmati i
tuoi popoli: di che ne risulta uno altro, maggiore, che quanto il
nimico più ti si appressa, tanto ti truova più debole.
Perché chi vive ne' modi detti di sopra, tratta male quelli
sudditi che sono dentro allo imperio suo, e bene quegli che sono in
su i confini dello imperio suo, per avere uomini ben disposti a
tenere il nimico discosto. Da questo nasce che, per tenerlo
più discosto, ei dà provvisione a quelli signori e
popoli che sono propinqui ai confini suoi. Donde nasce che questi
stati così fatti fanno un poco di resistenza in sui confini,
ma, come il nimico gli ha passati, ei non hanno rimedio alcuno. E
non si avveggono, come questo modo del loro procedere è
contro a ogni buono ordine. Perché il cuore e le parti vitali
d'uno corpo si hanno a tenere armate, e non le estremità
d'esso; perché sanza quelle si vive, e, offeso questo, si
muore: e questi stati tengono il cuore disarmato, e le mani e li
piedi armati.
Quello che abbia fatto questo disordine a Firenze, si è
veduto, e vedesi ogni dì: e come uno esercito passa i
confini, e che gli entra dentro propinquo al cuore, non truova
più alcuno rimedio. De' Viniziani si vide, pochi anni sono,
la medesima pruova; e se la loro città non era fasciata dalle
acque, se ne sarebbe veduto il fine. Questa isperienza non si
è vista sì spesso in Francia, per essere quello
sì gran regno, ch'egli ha pochi inimici superiori:
nondimanco, quando gli Inghilesi, nel 1513, assaltarono quel regno,
tremò tutta quella provincia: ed il re medesimo, e ciascuno
altro, giudicava che una rotta sola gli potessi tôrre il regno
e lo stato. Ai Romani interveniva il contrario; perché,
quanto più il nimico s'appressava a Roma, tanto più
trovava potente quella città a resistergli. E si vide nella
venuta d'Annibale in Italia, che, dopo tre rotte e dopo tante morti
di capitani e di soldati, ei poterono, non solo sostenere il nimico,
ma vincere la guerra. Tutto nacque dallo avere bene armato il cuore,
e delle estremità tenere meno conto. Perché il
fondamento dello stato suo era il popolo di Roma, il nome latino, le
altre terre compagne in Italia, e le loro colonie; donde ei traevano
tanti soldati, che furono sufficienti con quegli a combattere e
tenere il mondo. E che sia vero, si vede per la domanda che fece
Annone cartaginese a quelli oratori d'Annibale dopo la rotta di
Canne, i quali avendo magnificato le cose fatte da Annibale, furono
domandati da Annone, se del popolo romano alcuno era venuto a
domandare pace, e se del nome latino e delle colonie alcuna terra si
era ribellata dai Romani; e negando quegli l'una e l'altra cosa,
replicò Annone: - Questa guerra è ancora intera come
prima -.
Vedesi, pertanto, e per questo discorso, e per quello che più
volte abbiamo altrove detto, quanta diversità sia, dal modo
del procedere delle republiche presenti, a quello delle antiche.
Vedesi ancora, per questo, ogni dì, miracolose perdite e
miracolosi acquisti. Perché, dove gli uomini hanno poca
virtù, la fortuna mostra assai la potenza sua; e,
perché la è varia, variano le republiche e gli stati
spesso; e varieranno sempre, infino che non surga qualcuno che sia
della antichità tanto amatore, che la regoli in modo, che la
non abbia cagione di mostrare, a ogni girare di sole, quanto ella
puote.
31
Quanto sia pericoloso credere
agli sbanditi.
E' non mi pare fuori di proposito ragionare, intra questi altri
discorsi, quanto sia cosa pericolosa credere a quelli che sono
cacciati della patria sua, essendo cose che ciascuno dì si
hanno a praticare da coloro che tengono stati; potendo, massime,
dimostrare questo con uno memorabile esemplo addotto da Tito Livio
nelle sue istorie, ancora che sia fuora del presupposto suo. Quando
Alessandro Magno passò con lo esercito suo in Asia,
Alessandro di Epiro, cognato e zio di quello, venne con gente in
Italia, chiamato dagli sbanditi Lucani, i quali gli dettono speranza
che potrebbe, mediante loro, occupare tutta quella provincia. Donde
che quello, sotto la fede e speranza loro venuto in Italia fu morto
da quelli, sendo loro promessa la ritornata nella patria dai loro
cittadini, se lo ammazzavano. Debbesi considerare, pertanto, quanto
sia vana e la fede e le promesse di quelli che si truovano privi
della loro patria. Perché, quanto alla fede, si ha a estimare
che, qualunque volta e' possano per altri mezzi che per gli tuoi
rientrare nella patria loro, che lasceranno te ed accosterannosi a
altri, nonostante qualunque promesse ti avessono fatte. E quanto
alle vane promesse e speranze, egli è tanta la voglia estrema
che è in loro di ritornare in casa, che ei credono
naturalmente molte cose che sono false e molte a arte ne aggiungano:
talché, tra quello che ei credono e quello che ei dicono di
credere, ti riempiono di speranza talmente che, fondatoti in su
quella, o tu fai una spesa in vano o tu fai una impresa dove tu
rovini.
Io voglio per esemplo mi basti Alessandro predetto, e di più
Temistocle ateniese; il quale, essendo fatto ribello, se ne
fuggì in Asia a Dario; dove gli promisse tanto, quando ei
volessi assaltare la Grecia, che Dario si volse alla impresa. Le
quali promesse non gli potendo poi Temistocle osservare, o per
vergogna o per tema di supplizio, avvelenò sé stesso.
E se questo errore fu fatto da Temistocle, uomo eccellentissimo, si
debbe stimare che tanto più vi errino coloro che, per minore
virtù, si lasceranno più tirare dalla voglia e dalla
passione loro. Debbe, adunque, uno principe andare adagio a pigliare
imprese sopra la relazione d'uno confinato, perché il
più delle volte se ne resta o con vergogna o con danno
gravissimo. E perché ancora rade volte riesce il pigliare le
terre di furto, e per intelligenzia che altri avesse in quelle, non
mi pare fuora di proposito discorrerne nel sequente capitolo;
aggiugnendovi con quanti modi i Romani le acquistavano.
32
In quanti modi i Romani
occupavano le terre.
Essendo i Romani tutti volti alla guerra, fecero sempremai quella
con ogni vantaggio, e quanto alla spesa, e quanto a ogni altra cosa
che in essa si ricerca. Da questo nacque che si guardarono da il
pigliare le terre per ossidione; perché giudicavano questo
modo di tanta spesa e di tanto scommodo, che superassi di gran lunga
la utilità che dello acquisto si potessi trarre: e per questo
pensarono che fosse meglio e più utile soggiogare le terre
per ogni altro modo che assediandole, donde in tante guerre ed in
tanti anni ci sono pochissimi esempli di ossidioni fatte da loro. I
modi, adunque, con i quali gli acquistavano le città, erano o
per espugnazione o per dedizione. La espugnazione era o per forza e
violenza aperta, o per forza mescolata con fraude. La violenza
aperta era o con assalto, sanza percuotere le mura (il che loro
chiamavano «aggredi urbem corona» perché con
tutto lo esercito circundavono la città, e da tutte le parti
la combattevano); e molte volte riuscì loro che in uno
assalto pigliarono una città, ancora che grossissima, come
quando Scipione prese Cartagine Nuova in Ispagna; o, quando questo
assalto non bastava, si dirizzavano a rompere le mura con arieti, o
con altre loro machine belliche: o ei facevano una cava, e per
quella entravano nella città (nel quale modo presono la
città de' Veienti); o, per essere equali a quegli che
difendevano le mura, facevono torri di legname, o ei facevono argini
di terra appoggiati alle mura di fuori, per venire all'altezza
d'esse sopra quegli. Contro a questi assalti, chi difendeva la
terra, nel primo caso, circa lo essere assaltato intorno intorno,
portava più subito pericolo, ed aveva più dubbi
rimedi: perché, bisognandogli in ogni luogo avere assai
difensori, o quegli ch'egli aveva non erano tanti che potessero o
sopperire per tutto o cambiarsi; o, se potevano, non erano tutti di
equale animo a resistere, e da una parte che fusse inchinata la
zuffa, si perdevano tutti. Però occorse, come io ho detto,
che molte volte questo modo ebbe felice successo. Ma quando non
riusciva al primo, non lo ritentavono molto, per essere modo
pericoloso per lo esercito; perché, distendendosi in tanto
spazio, restava per tutto debole a potere resistere a una eruzione
che quelli di dentro avessono fatta; ed anche si disordinavano e
straccavano i soldati; ma per una volta ed allo improvviso tentavano
tale modo. Quanto alla rottura delle mura, si opponevano, come ne'
presenti tempi, con ripari. E per resistere alle cave, facevano una
contracava, e per quella si opponevano al nimico, o con le armi o
con altri ingegni: intra i quali era questo, che gli empievano dogli
di penne, nelle quali appiccavano il fuoco, ed accesi gli mettevano
nella cava, i quali con il fumo e con il puzzo impedivano la entrata
a' nimici. E se con le torre gli assaltavano, s'ingegnavano con il
fuoco rovinarle. E quanto agli argini di terra, rompevano il muro da
basso, dove lo argine s'appoggiava, tirando dentro la terra che
quegli di fuori vi ammontavano; talché, ponendosi di fuora la
terra, e levandosi di drento, veniva a non crescere l'argine. Questi
modi di espugnare non si possono lungamente tentare: ma bisogna o
levarsi da campo o cercare per altri modi vincere la guerra; come
fe' Scipione, quando, entrato in Africa, avendo assaltato Utica e
non gli riuscendo pigliarla, si levò da campo, e cercò
di rompere gli eserciti cartaginesi: ovvero volgersi alla ossidione,
come fecero a Veio, Capova, Cartagine e Ierusalem e simili terre,
che per ossidione occuparono. Quanto allo acquistare le terre per
violenza furtiva, occorre come intervenne di Palepoli, che per
trattato di quelli di dentro i Romani la occuparono. Di questa sorte
espugnazioni, dai Romani e da altri ne sono state tentate molte, e
poche ne sono riuscite: la ragione è che ogni minimo
impedimento rompe il disegno, e gl'impedimenti vengano facilmente.
Perché, o la congiura si scuopre innanzi che si venga allo
atto, e scuopresi non con molta difficultà, sì per la
infedelità di coloro con chi la è communicata,
sì per la difficultà del praticarla, avendo a
convenire con i nimici, e con chi non ti è lecito, se non
sotto qualche colore, parlare. Ma quando la congiura non si
scoprisse nel maneggiarla, vi surgono poi, nel metterla in atto,
mille difficultà. Perché, o se tu vieni innanzi al
tempo disegnato, o se tu vieni dopo, si guasta ogni cosa: se si
lieva uno romore fortuito, come l'oche del Campidoglio, se si rompe
un ordine consueto; ogni minimo errore, ogni minima fallacia che si
piglia, rovina la impresa. Aggiungonsi a questo le tenebre della
notte, le quali mettono più paura a chi travaglia in quelle
cose pericolose. Ed essendo la maggiore parte degli uomini che si
conducono a simili imprese, inesperti del sito del paese, e de'
luoghi dove ei sono menati, si confondono, inviliscono ed implicano
per ogni minimo e fortuito accidente, ed ogni immagine falsa
è per fargli mettere in volta. Né si trovò mai
alcuno che fosse più felice in queste ispedizioni fraudolente
e notturne, che Arato Sicioneo; il quale, quanto valeva in queste,
tanto nelle diurne ed aperte fazioni era pusillanime: il che si
può giudicare fosse più tosto per una occulta
virtù che era in lui, che perché in quelle
naturalmente dovesse essere più felicità. Di questi
modi, adunque, se ne pratica assai, pochi se ne conduce alla pruova,
e pochissimi ne riescono.
Quanto allo acquistare le terre per dedizione, o le si danno
volontarie, o forzate. La volontà nasce, o per qualche
necessità estrinseca che gli costringe a rifuggirtisi sotto,
come fece Capova ai Romani, o per desiderio di essere governati
bene, sendo allettati da il governo buono che quel principe tiene in
coloro che se gli sono, volontari, rimessi in grembo, come fecero i
Rodiani, i Massiliensi ed altre simile cittadi, che si dettono al
Popolo romano. Quanto alla dedizione forzata, o tale forza nasce da
una lunga ossidione, come di sopra è detto; o la nasce da una
continova oppressione di scorrerie, di predazioni, ed altri mali
trattamenti; i quali volendo fuggire, una città si arrende.
Di tutti i modi detti, i Romani usarono più questo ultimo che
nessuno; ed attesono per più che quattrocento cinquanta anni
a straccare i vicini con le rotte e con le scorrerie, e pigliare,
mediante gli accordi, riputazione sopra di loro, come altre volte
abbiamo discorso. E sopra tale modo si fondarono sempre, ancora che
gli tentassino tutti; ma negli altri trovarono cose o pericolose o
inutili. Perché nella ossidione è la lunghezza e la
spesa; nella espugnazione, dubbio e pericolo; nelle congiure, la
incertitudine. E viddono che con una rotta di esercito inimico
acquistavano un regno in un giorno; e, nel pigliare per ossidione
una città ostinata, consumavano molti anni.
33
Come i Romani
davano agli loro capitani
degli eserciti le commissioni libere.
Io estimo che sia da considerare, leggendo questa liviana istoria,
volendone fare profitto, tutti e' modi del procedere del Popolo e
Senato romano. Ed intra le altre cose che meritano considerazione,
sono: vedere con quale autorità ei mandavano fuori i loro
Consoli, Dittatori ed altri capitani degli eserciti; de' quali si
vede l'autorità essere stata grandissima, ed il Senato non si
riservare altro che l'autorità di muovere nuove guerre e di
confirmare le paci; e tutte l'altre cose rimetteva nello arbitrio e
potestà del Consolo. Perché, deliberata ch'era dal
Popolo e dal Senato una guerra, verbigrazia contro a' Latini, tutto
il resto rimettevano nello arbitrio del Consolo, il quale poteva o
fare una giornata o non la fare, e campeggiare questa o quell'altra
terra, come a lui pareva. Le quali cose si verificano per molti
esempli, e massime per quello che occorse in una espedizione contro
a' Toscani. Perché, avendo Fabio consolo vinto quelli presso
a Sutri, e disegnando con lo esercito dipoi passare la selva Cimina
ed andare in Toscana, non solamente non si consigliò col
Senato, ma non gliene dette alcuna notizia, ancora che la guerra
fusse per aversi a fare in paese nuovo, dubbio e pericoloso. Il che
si testifica ancora per le deliberazioni che allo incontro di questo
furono fatte dal Senato: il quale avendo intesa la vittoria che
Fabio aveva avuta, e dubitando che quello non pigliasse partito di
passare per le dette selve in Toscana, giudicando che fosse bene non
tentare quella guerra e correre quel pericolo, mandò a Fabio
due Legati a fargli intendere non passasse in Toscana; i quali
arrivarono ch'e' vi era già passato, ed aveva avuta la
vittoria, ed in cambio di impeditori della guerra tornarono
ambasciadori dello acquisto e della gloria avuta. E chi
considererà bene questo termine, lo vedrà
prudentissimamente usato; perché, se il Senato avesse voluto
che un Consolo procedessi nella guerra di mano in mano, secondo che
quello gli commetteva, lo faceva meno circunspetto e più
lento: perché non gli sarebbe paruto che la gloria della
vittoria fusse tutta sua, ma che ne participasse il Senato, con el
consiglio del quale ei si fusse governato. Oltra di questo, il
Senato si obligava a volere consigliare una cosa che non se ne
poteva intendere; perché, nonostante che in quello fossono
tutti uomini esercitatissimi nella guerra nondimeno, non essendo in
sul luogo e non sappiendo infiniti particulari che sono necessari
sapere, a volere consigliare bene, arebbono, consigliando, fatti
infiniti errori. E per questo ei volevano che il Consolo per
sé facesse, e che la gloria fosse tutta sua; lo amore della
quale giudicavano che fusse freno e regola a farlo operare bene.
Questa parte si è più volentieri notata da me,
perché io veggo che le republiche de' presenti tempi, come
è la Viniziana e Fiorentina, la intendono altrimenti; e se
gli loro capitani, provveditori o commessari hanno a piantare una
artiglieria, lo vogliono intendere e consigliare. Il quale modo
merita quella laude che meritano gli altri, i quali tutti insieme le
hanno condotte ne' termini in che al presente si truovano.
LIBRO TERZO
1
A volere che una setta
o una republica viva lungamente,
è necessario ritirarla spesso
verso il suo principio.
Egli è cosa verissima, come tutte le cose del mondo hanno il
termine della vita loro; ma quelle vanno tutto il corso che è
loro ordinato dal cielo, generalmente, che non disordinano il corpo
loro, ma tengonlo in modo ordinato, o che non altera, o, s'egli
altera, è a salute, e non a danno suo. E perché io
parlo de' corpi misti, come sono le republiche e le sètte,
dico che quelle alterazioni sono a salute, che le riducano inverso i
principii loro. E però quelle sono meglio ordinate, ed hanno
più lunga vita, che mediante gli ordini suoi si possono
spesso rinnovare; ovvero che, per qualche accidente fuori di detto
ordine, vengono a detta rinnovazione. Ed è cosa più
chiara che la luce, che, non si rinnovando, questi corpi non durano.
Il modo del rinnovargli, è, come è detto, ridurgli
verso e' principii suoi. Perché tutti e' principii delle
sètte, e delle republiche e de' regni, conviene che abbiano
in sé qualche bontà, mediante la quale ripiglio la
prima riputazione ed il primo augumento loro. E perché nel
processo del tempo quella bontà si corrompe, se non
interviene cosa che la riduca al segno, ammazza di necessità
quel corpo. E questi dottori di medicina dicono, parlando de' corpi
degli uomini, «quod quotidie aggregatur aliquid, quod
quandoque indiget curatione». Questa riduzione verso il
principio, parlando delle republiche, si fa o per accidente
estrinseco o per prudenza intrinseca. Quanto al primo, si vede come
egli era necessario che Roma fussi presa dai Franciosi, a volere che
la rinascesse e rinascendo ripigliasse nuova vita e nuova
virtù; e ripigliasse la osservanza della religione e della
giustizia, le quali in lei cominciavano a macularsi. Il che
benissimo si comprende per la istoria di Livio, dove ei mostra che
nel trar fuori lo esercito contro ai Franciosi e nel creare e'
Tribuni con la potestà consolare, non osservorono alcuna
religiosa cerimonia. Così medesimamente, non solamente non
punirono i tre Fabii, i quali «contra ius gentium»
avevano combattuto contro ai Franciosi, ma gli crearono Tribuni. E
debbesi facilmente presuppore, che dell'altre constituzioni buone,
ordinate da Romolo e da quegli altri principi prudenti, si
cominciasse a tenere meno conto che non era ragionevole e necessario
a mantenere il vivere libero. Venne, dunque, questa battitura
estrinseca, acciocché tutti gli ordini di quella città
si ripigliassono, e si mostrasse a quel popolo, non solamente essere
necessario mantenere la religione e la giustizia, ma ancora stimare
i suoi buoni cittadini, e fare più conto della loro
virtù che di quegli commodi che e' paresse loro mancare,
mediante le opere loro. Il che si vede che successe appunto;
perché, subito ripresa Roma, rinnovarono tutti gli ordini
dell'antica religione loro; punirono quegli Fabii che avevano
combattuto «contra ius gentium»; ed appresso tanto
stimorono la virtù e bontà di Cammillo, che posposto,
il Senato e gli altri, ogni invidia, rimettevano in lui tutto il
pondo di quella republica. È necessario, adunque, come
è detto, che gli uomini che vivono insieme in qualunque
ordine, spesso si riconoschino, o per questi accidenti estrinseci o
per gl'intrinseci. E quanto a questi, conviene che nasca o da una
legge, la quale spesso rivegga il conto agli uomini che sono in quel
corpo; o veramente da uno uomo buono che nasca fra loro, il quale
con i suoi esempli e con le sue opere virtuose faccia il medesimo
effetto che l'ordine. Surge, adunque, questo bene nelle republiche,
o per virtù d'un uomo o per virtù d'uno ordine. E
quanto a questo ultimo, gli ordini che ritirarono la Republica
romana verso il suo principio furono i Tribuni della plebe, i
Censori, e tutte l'altre leggi che venivano contro all'ambizione ed
alla insolenzia degli uomini. I quali ordini hanno bisogno di essere
fatti vivi dalla virtù d'uno cittadino, il quale animosamente
concorre ad esequirli contro alla potenza di quegli che gli
trapassano. Delle quali esecuzioni, innanzi alla presa di Roma da'
Franciosi, furono notabili, la morte de' figliuoli di Bruto, la
morte de' dieci cittadini, quella di Melio frumentario: dopo la
presa di Roma, fu la morte di Manlio Capitolino, la morte del
figliuolo di Manlio Torquato, la esecuzione di Papirio Cursore
contro a Fabio suo Maestro de' cavalieri, l'accusa degli Scipioni.
Le quali cose, perché erano eccessive e notabili, qualunque
volta ne nasceva una, facevano gli uomini ritirare verso il segno: e
quando le cominciarono ad essere più rare, cominciarono anche
a dare più spazio agli uomini di corrompersi, e farsi con
maggiore pericolo e più tumulto. Perché dall'una
all'altra di simili esecuzioni non vorrebbe passare, il più,
dieci anni: perché, passato questo tempo, gli uomini
cominciano a variare con i costumi e trapassare le leggi; e se non
nasce cosa per la quale si riduca loro a memoria la pena, e
rinnuovisi negli animi loro la paura, concorrono tosto tanti
delinquenti, che non si possono più punire sanza pericolo.
Dicevano, a questo proposito quegli che hanno governato lo stato di
Firenze dal 1434 infino al 1494, come egli era necessario ripigliare
ogni cinque anni lo stato, altrimenti, era difficile mantenerlo: e
chiamavano ripigliare lo stato, mettere quel terrore e quella paura
negli uomini che vi avevano messo nel pigliarlo, avendo in quel
tempo battuti quegli che avevano, secondo quel modo del vivere, male
operato. Ma come di quella battitura la memoria si spegne, gli
uomini prendono ardire di tentare cose nuove, e di dire male; e
però è necessario provvedervi, ritirando quello verso
i suoi principii. Nasce ancora questo ritiramento delle republiche
verso il loro principio dalla semplice virtù d'un uomo, sanza
dependere da alcuna legge che ti stimoli ad alcuna esecuzione:
nondimanco sono di tale riputazione e di tanto esemplo, che gli
uomini buoni disiderano imitarle e gli cattivi si vergognano a
tenere vita contraria a quelle. Quegli che in Roma particularmente
feciono questi buoni effetti, furono Orazio Cocle, Scevola,
Fabrizio, i dua Deci, Regolo Attilio, ed alcuni altri i quali con i
loro esempli rari e virtuosi facevano in Roma quasi il medesimo
effetto che si facessino le leggi e gli ordini. E se le esecuzioni
soprascritte, insieme con questi particulari esempli, fossono almeno
seguite ogni dieci anni in quella città, ne seguiva di
necessità che la non si sarebbe mai corrotta: ma come ei
cominciorono a diradare l'una e l'altra di queste due cose,
cominciarono a multiplicare le corrozioni. Perché dopo Marco
Regolo non vi si vide alcuno simile esemplo: e benché in Roma
surgessono i due Catoni, fu tanta distanza da quello a loro, ed
intra loro dall'uno all'altro, e rimasono sì soli, che non
potettono con gli esempli buoni fare alcuna buona opera; e massime
l'ultimo Catone, il quale, trovando in buona parte la città
corrotta, non potette con lo esemplo suo fare che i cittadini
diventassino migliori. E questo basti quanto alle republiche.
Ma quanto alle sètte, si vede ancora queste rinnovazioni
essere necessarie, per lo esemplo della nostra religione, la quale,
se non fossi stata ritirata verso il suo principio da Santo
Francesco e da Santo Domenico sarebbe al tutto spenta. Perché
questi, con la povertà e con lo esemplo della vita di Cristo,
la ridussono nella mente degli uomini, che già vi era spenta:
e furono sì potenti gli ordini loro nuovi, che ei sono
cagione che la disonestà de' prelati e de' capi della
religione non la rovinino; vivendo ancora poveramente, ed avendo
tanto credito nelle confessioni con i popoli e nelle predicazioni,
che ci dànno loro a intendere come egli è male dir
male del male, e che sia bene vivere sotto la obedienza loro, e, se
fanno errore, lasciargli gastigare a Dio: e così quegli fanno
il peggio che possono, perché non temono quella punizione che
non veggono e non credono. Ha, adunque, questa rinnovazione
mantenuto, e mantiene, questa religione.
Hanno ancora i regni bisogno di rinnovarsi, e ridurre le leggi di
quegli verso i suoi principii. E si vede quanto buono effetto fa
questa parte nel regno di Francia; il quale regno vive sotto le
leggi e sotto gli ordini più che alcuno altro regno. Delle
quali leggi ed ordini ne sono mantenitori i parlamenti, e massime
quel di Parigi; le quali sono da lui rinnovate qualunque volta ei fa
una esecuzione contro ad un principe di quel regno, e che ei
condanna il Re nelle sue sentenze. Ed infino a qui si è
mantenuto per essere stato uno ostinato esecutore contro a quella
Nobilità: ma qualunque volta ei ne lasciassi alcuna impunita,
e che le venissono a multiplicare, sanza dubbio ne nascerebbe o che
le si arebbono a correggere con disordine grande, o che quel regno
si risolverebbe.
Conchiudesi, pertanto, non essere cosa più necessaria in uno
vivere comune, o setta o regno o republica che sia, che rendergli
quella riputazione ch'egli aveva ne' principii suoi; ed ingegnarsi
che siano o gli ordini buoni o i buoni uomini che facciano questo
effetto, e non lo abbia a fare una forza estrinseca. Perché,
ancora che qualche volta la sia ottimo rimedio, come fu a Roma, ella
è tanto pericolosa, che non è in modo alcuno da
disiderarla. E per dimostrare a qualunque, quanto le azioni degli
uomini particulari facessono grande Roma, e causassino in quella
città molti buoni effetti, verrò alla narrazione e
discorso di quegli: intra e' termini de' quali questo terzo libro,
ed ultima parte di questa prima Deca, si concluderà. E
benché le azioni degli re fossono grandi e notabili
nondimeno, dichiarandole la istoria diffusamente, le lascerò
indietro; né parlereno altrimenti di loro, eccetto che di
alcuna cosa che avessono operata appartenente alli loro privati
commodi; e comincerenci da Bruto, padre della romana libertà.
2
Come egli è cosa sapientissima
simulare in tempo la pazzia.
Non fu alcuno mai tanto prudente, né tanto estimato savio per
alcuna sua egregia operazione, quanto merita d'esser tenuto Iunio
Bruto nella sua simulazione della stultizia. Ed ancora che Tito
Livio non esprima altro che una cagione che lo inducesse a tale
simulazione, quale fu di potere più sicuramente vivere e
mantenere il patrimonio suo; nondimanco, considerato il suo modo di
procedere, si può credere che simulasse ancora questo per
essere manco osservato, ed avere più commodità di
opprimere i Re e di liberare la sua patria, qualunque volta gliele
fosse data occasione. E, che pensassi a questo, si vide, prima,
nello interpetrare l'oracolo d'Apolline, quando simulò cadere
per baciare la terra, giudicando per quello avere favorevole
gl'Iddii a' pensieri suoi; e dipoi, quando, sopra la morta Lucrezia,
intra 'l padre ed il marito ed altri parenti di lei, ei fu il primo
a trarle il coltello della ferita, e fare giurare ai circustanti,
che mai sopporterebbono che, per lo avvenire, alcuno regnasse in
Roma. Dallo esemplo di costui hanno ad imparare tutti coloro che
sono male contenti d'uno principe: e debbono prima misurare e prima
pesare le forze loro; e, se sono sì potenti che possino
scoprirsi suoi inimici e fargli apertamente guerra, debbono entrare
per questa via, come manco pericolosa e più onorevole. Ma se
sono di qualità che a fargli guerra aperta le forze loro non
bastino, debbono con ogni industria cercare di farsegli amici: ed a
questo effetto, entrare per tutte quelle vie che giudicano essere
necessarie, seguendo i piàciti suoi, e pigliando dilettazione
di tutte quelle cose che veggono quello dilettarsi. Questa
dimestichezza, prima, ti fa vivere sicuro; e, sanza portare alcuno
pericolo, ti fa godere la buona fortuna di quel principe insieme con
esso lui, e ti arreca ogni comodità di sodisfare allo animo
tuo. Vero è che alcuni dicono che si vorrebbe con gli
principi non stare sì presso che la rovina loro ti coprisse,
né sì discosto che, rovinando quegli, tu non fosse a
tempo a salire sopra la rovina loro: la quale via del mezzo sarebbe
la più vera, quando si potesse osservare; ma perché io
credo che sia impossibile, conviene ridursi a' duoi modi
soprascritti, cioè o di allargarsi o di stringersi con loro.
Chi fa altrimenti, e sia uomo, per la qualità sua, notabile,
vive in continovo pericolo. Né basta dire: - Io non mi curo
di alcuna cosa, non disidero né onori né utili, io mi
voglio vivere quietamente e sanza briga! - perché queste
scuse sono udite e non accettate: né possono gli uomini che
hanno qualità, eleggere lo starsi, quando bene lo eleggessono
veramente e sanza alcuna ambizione, perché non è loro
creduto; talché, se si vogliono stare loro, non sono lasciati
stare da altri. Conviene adunque fare il pazzo, come Bruto; ed assai
si fa il matto, laudando, parlando, veggendo, faccendo cose contro
allo animo tuo, per compiacere al principe. E poiché noi
abbiamo parlato della prudenza di questo uomo per ricuperare la
libertà a Roma, parlereno ora della sua severità nel
mantenerla.
3
Come egli è necessario,
a volere mantenere una libertà
acquistata di nuovo,
ammazzare i figliuoli di Bruto.
Non fu meno necessaria che utile la severità di Bruto nel
mantenere in Roma quella libertà che elli vi aveva
acquistata; la quale è di uno esemplo raro in tutte le
memorie delle cose: vedere il padre sedere pro tribunali, e non
solamente condennare i suoi figliuoli a morte ma essere presente
alla morte loro. E sempre si conoscerà questo per coloro che
le cose antiche leggeranno: come, dopo una mutazione di stato, o da
republica in tirannide o da tirannide in republica è
necessaria una esecuzione memorabile contro a' nimici delle
condizioni presenti. E chi piglia una tirannide e non ammazza Bruto,
e chi fa uno stato libero e non ammazza i figliuoli di Bruto, si
mantiene poco tempo. E perché di sopra è discorso
questo luogo largamente, mi rimetto a quello che allora se ne disse:
solo ci addurrò uno esemplo, stato, ne' dì nostri e
nella nostra patria, memorabile. E questo è Piero Soderini,
il quale si credeva superare con la pazienza e bontà sua
quello appetito che era ne' figliuoli di Bruto, di ritornare sotto
un altro governo e se ne ingannò. E benché quello, per
la sua prudenza, conoscesse questa necessità; e che la sorte
e l'ambizione di quelli che lo urtavano, gli dessi occasione a
spegnerli; nondimeno non volse mai l'animo a farlo. Perché,
oltre al credere di potere con la pazienza e con la bontà
estinguere i mali omori, e con i premii verso qualcuno consummare
qualche sua inimicizia; giudicava (e molte volte ne fece con gli
amici fede) che, a volere gagliardamente urtare le sue opposizioni,
e battere suoi avversari, gli bisognava pigliare istraordinaria
autorità, e rompere con le leggi la civile equalità:
la quale cosa, ancora che dipoi non fosse da lui usata
tirannicamente, arebbe tanto sbigottito l'universale, che non
sarebbe mai poi concorso, dopo la morte di quello, a rifare un
gonfalonieri a vita; il quale ordine elli giudicava fosse bene
augumentare e mantenere. Il quale rispetto era savio e buono:
nondimeno, e' non si debbe mai lasciare scorrere un male, rispetto
ad uno bene, quando quel bene facilmente possa essere, da quel male,
oppressato. E doveva credere che, avendosi a giudicare l'opere sue e
la intenzione sua dal fine, quando la fortuna e la vita l'avessi
accompagnato, che poteva certificare ciascuno, come, quello l'aveva
fatto, era per salute della patria, e non per ambizione sua; e
poteva regolare le cose in modo, che uno suo successore non potesse
fare per male quello che elli avessi fatto per bene. Ma lo
ingannò la prima opinione, non conoscendo che la
malignità non è doma da tempo né placata da
alcuno dono. Tanto che, per non sapere somigliare Bruto, e'
perdé, insieme con la patria sua, lo stato e la riputazione.
E come egli è cosa difficile salvare uno stato libero,
così è difficile salvarne uno regio; come nel sequente
capitolo si mosterrà.
4
Non vive sicuro uno principe
in uno principato, mentre vivono coloro
che ne sono stati spogliati.
La morte di Tarquinio Prisco causata dai figliuoli di Anco, e la
morte di Servio Tullo causata da Tarquinio Superbo, mostra quanto
difficil sia, e pericoloso, spogliare uno del regno, e quello
lasciare vivo, ancora che cercassi con merito guadagnarselo. E
vedesi come Tarquinio Prisco fu ingannato da parergli possedere quel
regno giuridicamente, essendogli stato dato dal Popolo e confermato
dal Senato: né credette che ne' figliuoli di Anco potesse
tanto lo sdegno, che non avessono a contentarsi di quello che si
contentava tutta Roma. E Servio Tullo s'ingannò, credendo
potere con nuovi meriti guadagnarsi i figliuoli di Tarquinio.
Dimodoché, quanto al primo, si può avvertire ogni
principe, che non viva mai sicuro del suo principato, finché
vivono coloro che ne sono stati spogliati. Quanto al secondo, si
può ricordare ad ogni potente, che mai le ingiurie vecchie
furono cancellate da' beneficii nuovi; e, tanto meno, quanto il
beneficio nuovo è minore che non è stata la ingiuria.
E sanza dubbio, Servio Tullo fu poco prudente a credere che i
figliuoli di Tarquinio fussono pazienti ad essere generi di colui di
chi e' giudicavano dovere essere re. E questo appitito del regnare
è tanto grande, che non solamente entra ne' petti di coloro a
chi si aspetta il regno, ma di quelli a chi e' non si aspetta: come
fu nella moglie di Tarquinio, giovane, figliuola di Servio; la
quale, mossa da questa rabbia, contro ogni piatà paterna,
mosse il marito contro al padre a torgli la vita ed il regno: tanto
stimava più essere regina che figliuola di re. Se, adunque,
Tarquinio Prisco e Servio Tullo, perderono il regno per non si
sapere assicurare di coloro a chi ei lo avevano usurpato, Tarquinio
Superbo lo perdé per non osservare gli ordini degli antichi
re: come nel sequente capitolo si mosterrà.
5
Quello che fa perdere uno regno
ad uno re che sia, di quello, ereditario.
Avendo Tarquinio Superbo morto Servio Tullo, e di lui non rimanendo
eredi, veniva a possedere il regno sicuramente, non avendo a temere
di quelle cose che avevano offeso i suoi antecessori. E,
benché il modo dell'occupare il regno fosse stato
istraordinario ed odioso, nondimeno quando elli avesse osservato gli
antichi ordini delli altri re, sarebbe stato comportato, né
si sarebbe concitato il Senato e la plebe contro di lui per torgli
lo stato. Non fu, adunque, cacciato costui per avere Sesto suo
figliuolo stuprata Lucrezia, ma per avere rotte le leggi del regno,
e governatolo tirannicamente; avendo tolto al Senato ogni
autorità, e ridottola a sé proprio; e quelle faccende
che ne' luoghi publici con sodisfazione del Senato romano si
facevano, le ridusse a fare nel palazzo suo, con carico ed invidia
sua; talché in breve tempo gli spoliò Roma di tutta
quella libertà ch'ella aveva sotto gli altri re mantenuta.
Né gli bastò farsi inimici i Padri, che si
concitò ancora, contro, la Plebe, affaticandola in cose
mecaniche e tutte aliene da quello a che gli avevano adoperati i
suoi antecessori: talché, avendo ripiena Roma di esempli
crudeli e superbi, aveva disposto già gli animi di tutti i
Romani alla ribellione, qualunque volta ne avessono occasione. E, se
lo accidente di Lucrezia non fosse venuto, come prima ne fosse nato
un altro, arebbe partorito il medesimo effetto. Perché se
Tarquinio fosse vissuto come gli altri re, e Sesto suo figliuolo
avessi fatto quello errore, sarebbono Bruto e Collatino ricorsi a
Tarquinio, per la vendetta contro a Sesto, e non al Popolo romano.
Sappino adunque i principi, come a quella ora ei cominciano a
perdere lo stato che cominciano a rompere le leggi, e quelli modi e
quelle consuetudini che sono antiche, e sotto le quali lungo tempo
gli uomini sono vivuti. E se, privati che ei sono dello stato, ei
diventassono mai tanto prudenti che ei conoscessono con quanta
facilità i principati si tenghino da coloro che saviamente si
consigliano, dorrebbe molto più loro tale perdita, ed a
maggiore pena si condannerebbono, che da altri fossono condannati.
Perché egli è molto più facile essere amato dai
buoni che dai cattivi, ed ubidire alle leggi che volere comandare
loro. E volendo intendere il modo avessono a tenere a fare questo,
non hanno a durare altra fatica che pigliare per loro specchio la
vita de' principi buoni, come sarebbe Timoleone Corintio, Arato
Sicioneo, e simili: nella vita dei quali ei troveria tanta
sicurtà e tanta sodisfazione di chi regge e di chi è
retto, che doverrebbe venirgli voglia di imitargli, potendo
facilmente, per le ragioni dette, farlo. Perché gli uomini,
quando sono governati bene, non cercono né vogliono altra
libertà: come intervenne a' popoli governati dai dua
prenominati; che gli costrinsono ad essere principi mentre che
vissono, ancora che da quegli più volte fosse tentato di
ridursi in vita privata. E perché in questo, e ne' due
antecedenti capitoli, si è ragionato degli omori concitati
contro a' principi, e delle congiure fatte da' figliuoli di Bruto
contro alla patria, e di quelle fatte contro a Tarquinio Prisco ed a
Servio Tullo; non mi pare cosa fuor di proposito, nel sequente
capitolo, parlarne diffusamente, sendo materia degna d'essere notata
da' principi e da' privati.
6
Delle congiure.
Ei non mi è parso da lasciare indietro il ragionare delle
congiure, essendo cosa tanto pericolosa ai principi ed ai privati;
perché si vede per quelle molti più principi avere
perduta la vita e lo stato, che per guerra aperta. Perché il
poter fare aperta guerra ad uno principe, è conceduto a
pochi: il poterli congiurare contro, è concesso a ciascuno.
Dall'altra parte, gli uomini privati non entrano in impresa
più pericolosa né più temeraria di questa;
perché la è difficile e pericolosissima in ogni sua
parte. Donde ne nasce che molte se ne tentino, e pochissime hanno il
fine desiderato. Acciocché, adunque, i principi imparino a
guardarsi da questi pericoli, e che i privati più timidamente
vi si mettino, anzi imparino ad essere contenti a vivere sotto
quello imperio che dalla sorte è stato loro proposto; io ne
parlerò diffusamente, non lasciando indietro alcuno caso
notabile in documento dell'uno e dell'altro. E veramente, quella
sentenzia di Cornelio Tacito è aurea, che dice: che gli
uomini hanno ad onorare le cose passate e ad ubbidire alle presenti;
e debbono desiderare i buoni principi, e, comunque ei si sieno
fatti, tollerargli. E veramente, chi fa altrimenti, il più
delle volte rovina sé e la sua patria.
Dobbiamo adunque, entrando nella materia, considerare prima contro a
chi si fanno le congiure; e troverreno farsi o contro alla patria, o
contro ad uno principe: delle quali due voglio che al presente
ragioniamo; perché, di quelle che si fanno per dare una terra
a' nimici che la assediano, o che abbino, per qualunque cagione,
similitudine con questa, se n'è parlato di sopra a
sufficienza. E trattereno, in questa prima parte, di quelle contro
al principe, e prima esaminereno le cagioni di esse: le quali sono
molte, ma una ne è importantissima più che tutte le
altre. E questa è lo essere odiato dallo universale,
perché il principe che si è concitato questo
universale odio, è ragionevole che abbi de' particulari i
quali da lui siano stati più offesi, e che desiderino
vendicarsi. Questo desiderio è accresciuto loro da quella
mala disposizione universale che veggono essergli concitata contro.
Debbe, adunque, un principe fuggire questi carichi privati; e come
debba fare a fuggirli, avendone altrove trattato, non ne voglio
parlare qui; perché, guardandosi da questo, le semplice
offese particulari gli faranno meno guerra. L'una, perché si
riscontra rade volte in uomini che stimino tanto una ingiuria, che
si mettino a tanto pericolo per vendicarla; l'altra, che, quando
pure ei fossono d'animo e di potenza da farlo, sono ritenuti da
quella benivolenza universale che veggono avere ad uno principe. Le
ingiurie, conviene che siano nella roba, nel sangue o nell'onore. Di
quelle del sangue sono più pericolose le minacce che le
esecuzioni; anzi, le minacce sono pericolosissime, e nelle
esecuzioni non vi è pericolo alcuno; perché chi
è morto non può pensare alla vendetta; quelli che
rimangono vivi, il più delle volte ne lasciano il pensiero a
te. Ma colui che è minacciato, e che si vede costretto da una
necessità o di fare o di patire, diventa uno uomo
pericolosissimo per il principe: come nel suo luogo particularmente
direno. Fuora di questa necessità, la roba e l'onore sono
quelle due cose che offendono più gli uomini che alcun'altra
offesa, e dalle quali il principe si debbe guardare: perché
e' non può mai spogliare uno, tanto, che non gli rimanga uno
coltello da vendicarsi; non può mai tanto disonorare uno, che
non gli resti uno animo ostinato alla vendetta. E degli onori che si
tolgono agli uomini, quello delle donne importa più; dopo
questo, il vilipendio della sua persona. Questo armò Pausania
contro a Filippo di Macedonia, questo ha armato molti altri contro a
molti altri principi: e ne' nostri tempi Luzio Belanti non si mosse
a congiurare contro a Pandolfo tiranno di Siena, se non per averli
quello data e poi tolta per moglie una sua figliuola; come nel suo
loco direno. La maggiore cagione che fece che i Pazzi congiurarono
contro ai Medici, fu la eredità di Giovanni Bonromei, la
quale fu loro tolta per ordine di quegli. Un'altra cagione ci
è, e grandissima, che fa gli uomini congiurare contro al
principe; la quale è il desiderio di liberare la patria,
stata da quello occupata. Questa cagione mosse Bruto e Cassio contro
a Cesare; questa ha mosso molti altri contro a' Falari, Dionisii, ed
altri occupatori della patria loro. Né può, da questo
omore, alcuno tiranno guardarsi, se non con diporre la tirannide. E
perché non si truova alcuno che faccia questo, si truova
pochi che non capitino male; donde nacque quel verso di Iuvenale:
Ad generum Cereris sine caede et vulnere pauci
Descendunt reges, et sicca morte tiranni.
I pericoli che si portano, come io dissi di sopra, nelle congiure,
sono grandi, portandosi per tutti i tempi; perché in tali
casi si corre pericolo nel maneggiarli, nello esequirli, ed esequiti
che sono. Quegli che congiurano, o ei sono uno, o ei sono
più. Uno, non si può dire che sia congiura, ma
è una ferma disposizione nata in uno uomo di ammazzare il
principe. Questo solo, de' tre pericoli che si corrono nelle
congiure, manca del primo; perché, innanzi alla esecuzione
non porta alcuno pericolo, non avendo altri il suo secreto,
né portando pericolo che torni il disegno suo all'orecchio
del principe. Questa deliberazione così fatta può
cadere in qualunque uomo, di qualunque sorte, grande, piccolo,
nobile, ignobile, familiare e non familiare al principe;
perché ad ognuno è lecito qualche volta parlarli; ed a
chi è lecito parlare, è lecito sfogare l'animo suo.
Pausania, del quale altre volte si è parlato, ammazzò
Filippo di Macedonia che andava al tempio, con mille armati
d'intorno, ed in mezzo intra il figliuolo ed il genero. Ma costui fu
nobile e cognito al principe. Uno spagnuolo, povero ed abietto,
dette una coltellata in su el collo al re Ferrando, re di Spagna:
non fu la ferita mortale, ma per questo si vide che colui ebbe animo
e commodità a farlo. Uno dervis, sacerdote turchesco, trasse
d'una scimitarra a Baisit, padre del presente Turco: non lo
ferì, ma ebbe pure animo e commodità a volerlo fare.
Di questi animi fatti così, se ne truova, credo, assai che lo
vorrebbono fare, perché nel volere non è pena
né pericolo alcuno; ma pochi che lo facciano: ma di quelli
che lo fanno, pochissimi o nessuno che non siano ammazzati in sul
fatto; però non si truova chi voglia andare ad una certa
morte. Ma lasciamo andare queste uniche volontà, e veniamo
alle congiure intra i più. Dico, trovarsi nelle istorie,
tutte le congiure essere fatte da uomini grandi, o familiarissimi
del principe: perché gli altri, se non sono matti affatto,
non possono congiurare; perché gli uomini deboli, e non
familiari al principe, mancano di tutte quelle speranze e di tutte
quelle commodità che si richiede alla esecuzione d'una
congiura. Prima, gli uomini deboli non possono trovare riscontro di
chi tenga loro fede; perché uno non può consentire
alla volontà loro, sotto alcuna di quelle speranze che fa
entrare gli uomini ne' pericoli grandi: in modo che, come ei si sono
allargati in dua o in tre persone, ci trovono lo accusatore e
rovinano: ma quando pure si fossono tanto felici che mancassino di
questo accusatore, sono nella esecuzione intorniati da tale
difficultà, per non avere l'entrata facile al principe, che
gli è impossibile che in essa esecuzione ei non rovinino.
Perché, se gli uomini grandi, e che hanno l'entrata facile,
sono oppressi da quelle difficultà che di sotto si diranno,
conviene che in costoro quelle difficultà sanza fine
creschino. Pertanto gli uomini (perché, dove ne va la vita e
la roba, non sono al tutto insani) quando e' si veggono deboli, se
ne guardano; e quando egli hanno a noia uno principe, attendono a
bestemmiarlo, ed aspettono che quelli che hanno maggiore
qualità di loro, gli vendichino. E se pure si trovasse che
alcuno di questi simili avessi tentato qualche cosa, si debbe
laudare in loro la intenzione, e non la prudenza. Vedesi, pertanto,
quelli che hanno congiurato, essere stati tutti uomini grandi, o
familiari, del principe; de' quali molti hanno congiurato, mossi
così da troppi beneficii, come dalle troppe ingiurie: come fu
Perennio contro a Commodo, Plauziano contro a Severo, Seiano contro
a Tiberio. Costoro tutti furono dai loro imperadori constituiti in
tanta ricchezza, onore e grado, che non pareva che mancasse loro,
alla perfezione della potenza, altro che lo imperio; e di questo non
volendo mancare, si mossono a congiurare contro al principe; ed
ebbono le loro congiure tutte quel fine che meritava la loro
ingratitudine: ancora che di queste simili ne' tempi più
freschi ne avessi buono fine quella di Iacopo di Appiano contro a
messer Piero Gambacorti, principe di Pisa: il quale Iacopo, allevato
e nutrito e fatto riputato da lui, gli tolse poi lo stato. Fu di
queste quella del Coppola, ne' nostri tempi, contro il re Ferrando
d'Aragona; il quale Coppola, venuto a tanta grandezza che non gli
pareva gli mancassi se non il regno, per volere ancora quello,
perdé la vita. E veramente, se alcuna congiura contro ai
principi, fatta da uomini grandi, dovesse avere buono fine,
doverrebbe essere questa; essendo fatta da un altro re, si
può dire, e da chi ha tanta commodità di adempiere il
suo disiderio: ma quella cupidità del dominare che gli
accieca, gli accieca ancora nel maneggiare questa impresa;
perché, se ei sapessono fare questa cattività con
prudenza, sarebbe impossibile non riuscisse loro. Debbe, adunque,
uno principe che si vuole guardare dalle congiure, temere più
coloro a chi elli ha fatto troppi piaceri, che quelli a chi egli
avesse fatte troppe ingiurie. Perché questi mancono di
commodità, quelli ne abondano; e la voglia è simile,
perché gli è così grande o maggiore il
desiderio del dominare, che non è quello della vendetta.
Debbono, pertanto, dare tanta autorità agli loro amici, che
da quella al principato sia qualche intervallo, e che vi sia in
mezzo qualche cosa da desiderare: altrimenti, sarà cosa rada
se non interverrà loro, come a' principi soprascritti. Ma
torniamo all'ordine nostro.
Dico che, avendo ad essere, quelli che congiurano, uomini grandi, e
che abbino l'adito facile al principe, si ha a discorrere i successi
di queste loro imprese quali siano stati, e vedere la cagione che
gli ha fatti essere felici ed infelici. E come io dissi di sopra ci
si truovano dentro, in tre tempi, pericoli: prima, in su 'l fatto e
poi. Se ne truova poche che abbino buono esito, perché gli
è impossibile, quasi, passarli tutti felicemente. E
cominciando a discorrere e' pericoli di prima, che sono i più
importanti, dico, come e' bisogna essere molto prudente, ed avere
una gran sorte, che, nel maneggiare una congiura, la non si scuopra.
E si scuoprono o per relazione, o per coniettura. La relazione nasce
da trovare poca fede, o poca prudenza, negli uomini con chi tu la
comunichi. La poca fede si truova facilmente, perché tu non
puoi comunicarla se non con tuoi fidati, che per tuo amore si
mettino alla morte, o con uomini che siano male contenti del
principe. De' fidati se ne potrebbe trovare uno o due; ma, come tu
ti distendi in molti, è impossibile gli truovi: dipoi, e'
bisogna bene che la benivolenza che ti portano sia grande, a volere
che non paia loro maggiore il pericolo e la paura della pena. Dipoi
gli uomini s'ingannano, il più delle volte, dello amore che
tu giudichi che uno uomo ti porti; né te ne puoi mai
assicurare, se tu non ne fai esperienza: e farne esperienza in
questo è pericolosissimo. E sebbene ne avessi fatto
esperienza in qualche altra cosa pericolosa dove e' ti fossono stati
fedeli, non puoi da quella fede misurare questa, passando, questo,
di gran lunga, ogni altra qualità di pericolo. Se misuri la
fede dalla mala contentezza che uno abbia del principe, in questo tu
ti puoi facilmente ingannare: perché, subito che tu hai
manifestato a quel male contento l'animo tuo, tu gli dài
materia di contentarsi, e conviene bene, o che l'odio sia grande, o
che l'autorità tua sia grandissima a mantenerlo in fede.
Di qui nasce che assai ne sono rivelate, ed oppresse ne' primi
principii loro; e che, quando una è stata infra molti uomini
segreta lungo tempo, è tenuta cosa miracolosa: come fu quella
di Pisone contro a Nerone, e, ne' nostri tempi, quella de' Pazzi
contro a Lorenzo e Giuliano de' Medici: delle quali erano
consapevoli più che cinquanta uomini; e condussonsi, alla
esecuzione, a scoprirsi. Quanto a scoprirsi per poca prudenza, nasce
quando uno congiurato ne parla poco cauto, in modo che uno servo o
altra terza persona t'intenda, come intervenne ai figliuoli di
Bruto, che, nel maneggiare la cosa con i legati di Tarquinio, furono
intesi da uno servo, che gli accusò: ovvero quando per
leggerezza ti viene communicata a donna o a fanciullo che tu ami o a
simile leggieri persona; come fece Dimmo, uno de' congiurati con
Filota contro a Alessandro Magno, il quale communicò la
congiura a Nicomaco, fanciullo amato da lui; il quale subito la
disse a Ciballino suo fratello, e Ciballino ad el re. Quanto a
scoprirsi per coniettura, ce n'è in esemplo la congiura
Pisoniana contro a Nerone; nella quale Scevino, uno de' congiurati,
il dì dinanzi ch'egli aveva ad ammazzare Nerone, fece
testamento, ordinò che Milichio, suo liberto, facessi
arrotare un suo pugnale vecchio e rugginoso, liberò tutti i
suoi servi e dette loro danari, fece ordinare fasciature da legare
ferite: per le quali conietture accortosi Milichio della cosa, lo
accusò a Nerone. Fu preso Scevino, e con lui Natale un altro
congiurato, i quali erano stati veduti parlare a lungo e di segreto
insieme, il dì davanti; e non si accordando del ragionamento
avuto, furono forzati a confessare il vero talché la congiura
fu scoperta, con rovina di tutti i congiurati.
Da queste cagioni dello scoprire le congiure è impossibile
guardarsi che, per malizia, per imprudenza o per leggerezza, la non
si scuopra, qualunque volta i conscii d'essa passono il numero di
tre o di quattro. E come e' ne è preso più che uno,
è impossibile non riscontrarla, perché due non possano
essere convenuti insieme di tutti e' ragionamenti loro. Quando e' ne
sia preso solo uno, che sia uomo forte, può elli, con la
fortezza dello animo, tacere i congiurati; ma conviene che i
congiurati non abbiano meno animo di lui a stare saldi, e non si
scoprire con la fuga: perché da una parte che l'animo manca o
da chi è sostenuto o da chi è libero, la congiura
è scoperta. Ed è rado lo esemplo indotto da Tito Livio
nella congiura fatta contro a Girolamo, re di Siracusa; dove, sendo
Teodoro, uno de' congiurati, preso, celò con una virtù
grande tutti i congiurati, ed accusò gli amici del re, e
dall'altra parte, i congiurati confidarono tanto nella virtù
di Teodoro, che nessuno si partì di Siracusa, o fece alcuno
segno di timore. Passasi, adunque, per tutti questi pericoli nel
maneggiare una congiura innanzi che si venga alla esecuzione di
essa: i quali volendo fuggire, ci sono questi rimedi. Il primo ed il
più vero, anzi, a dire meglio, unico, è non dare tempo
ai congiurati di accusarti; e comunicare loro la cosa quando tu la
vuoi fare, e non prima. Quelli che hanno fatto così, fuggono
al certo i pericoli che sono nel praticarla, e, il più delle
volte, gli altri; anzi hanno tutte avuto felice fine: e qualunque
prudente arebbe commodità di governarsi in questo modo. Io
voglio che mi basti addurre due esempli.
Nelemato, non potendo sopportare la tirannide di Aristotimo, tiranno
di Epiro, ragunò in casa sua molti parenti ed amici, e,
confortatogli a liberare la patria, alcuni di loro chiesono tempo a
diliberarsi ed ordinarsi, donde Nelemato fece a' suoi servi serrare
la casa, ed a quelli che esso aveva chiamati disse: - O voi
giurerete di andare ora a fare questa esecuzione, o io vi
darò tutti prigioni ad Aristotimo -. Dalle quali parole mossi
coloro, giurarono; ed andati, sanza intermissione di tempo,
felicemente l'ordine di Nelemato esequirono. Avendo uno Mago, per
inganno, occupato il regno de' Persi, ed avendo Ortano, uno de'
grandi uomini del regno, intesa e scoperta la fraude, lo
conferì con sei altri principi di quello stato, dicendo come
gli era da vendicare il regno dalla tirannide di quel Mago; e
domandando, alcuno di loro, tempo, si levò Dario, uno de' sei
chiamati da Ortano, e disse: - O noi andreno ora a fare questa
esecuzione, o io vi andrò ad accusare tutti -. E così
d'accordo levatisi, sanza dare tempo ad alcuno di pentirsi,
esequirono felicemente i disegni loro. Simile a questi due esempli
ancora è il modo che gli Etoli tennono ad ammazzare Nabide,
tiranno spartano; i quali mandarono Alessameno loro cittadino, con
trenta cavagli e dugento fanti, a Nabide, sotto colore di mandargli
aiuto; ed il segreto solamente comunicorono ad Alessameno; ed agli
altri imposono che lo ubbidissoro in ogni e qualunque cosa, sotto
pena di esilio. Andò costui in Sparta, e non comunicò
mai la commissione sua se non quando e' la volle esequire: donde gli
riuscì d'ammazzarlo. Costoro, adunque per questi modi, hanno
fuggiti quelli pericoli che si portano nel maneggiare le congiure; e
chi imiterà loro, sempre gli fuggirà.
E che ciascuno possa fare come loro io ne voglio dare lo esemplo di
Pisone preallegato di sopra. Era Pisone grandissimo e riputatissimo
uomo, e familiare di Nerone, ed in chi elli confidava assai. Andava
Nerone ne' suoi orti spesso a mangiare seco. Poteva, adunque, Pisone
farsi amici uomini, d'animo e di cuore e di disposizione atti ad una
tale esecuzione (il che ad uno grande è facilissimo); e
quando Nerone fosse stato ne' i suoi orti, comunicare loro la cosa,
e con le parole convenienti inanimarli a fare quello che loro non
avevano tempo a ricusare, e che era impossibile che non riuscisse. E
così, se si esamineranno tutte l'altre, si troverrà
poche non essere potute condursi nel medesimo modo: ma gli uomini,
per l'ordinario, poco intendenti delle azioni del mondo, spesso
fanno errori gravissimi, e tanto maggiori in quelle che hanno
più dello istraordinario, come è questa. Debbesi,
adunque, non comunicare mai la cosa se non necessitato ed in sul
fatto; e se pure la vuoi comunicare, comunicarla ad uno solo, del
quale abbia fatto lunghissima isperienza, o che sia mosso dalle
medesime cagioni che tu. Trovarne uno così fatto è
molto più facile che trovarne più, e per questo vi
è meno pericolo, dipoi, quando pure ei ti ingannassi, vi
è qualche rimedio a difendersi, che non è dove siano
congiurati assai: perché da alcuno prudente ho sentito dire
che con uno si può parlare ogni cosa, perché tanto
vale, se tu non ti lasci condurre a scrivere di tua mano, il
sì dell'uno quanto il no dell'altro; e dallo scrivere
ciascuno debbe guardarsi come da uno scoglio, perché non
è cosa che più facilmente ti convinca, che lo scritto
di tua mano. Plauziano, volendo fare ammazzare Severo imperadore ed
Antonino suo figliuolo, commisse la cosa a Saturnino tribuno; il
quale, volendo accusarlo e non ubbidirlo, e dubitando che, venendo
all'accusa, e' non fussi più creduto a Plauziano che a lui,
gli chiese una cedola di sua mano, che facessi fede di questa
commissione; la quale Plauziano, accecato dall'ambizione, gli fece:
donde seguì che fu, dal tribuno, accusato e convinto; e sanza
quella cedola, e certi altri contrassegni, sarebbe stato Plauziano
superiore; tanto audacemente negava. Truovasi, adunque, nell'accusa
d'uno, qualche rimedio, quando tu non puoi essere da una scrittura,
o altri contrasegni, convinto: da che uno si debbe guardare.
Era nella congiura Pisoniana una femina chiamata Epicari, stata per
lo adietro amica di Nerone; la quale giudicando che fussi a
proposito mettere tra i congiurati uno capitano di alcune trireme
che Nerone teneva per sua guardia, gli comunicò la congiura
ma non i congiurati. Donde, rompendogli quello capitano la fede ed
accusandola a Nerone, fu tanta l'audacia di Epicari nel negarlo, che
Nerone, rimaso confuso, non la condannò. Sono, adunque, nel
comunicare la cosa ad uno solo, due pericoli: l'uno, che non ti
accusi in pruova; l'altro, che non ti accusi convinto e constretto
dalla pena, sendo egli preso per qualche sospetto o per qualche
indizio avuto di lui. Ma nell'uno e nell'altro di questi due
pericoli è qualche rimedio, potendosi negare l'uno,
allegandone l'odio che colui avesse teco; e negare l'altro,
allegandone la forza che lo constringesse a dire le bugie. È,
adunque, prudenza non comunicare la cosa a nessuno, ma fare secondo
gli esempli soprascritti; o, quando pure la comunichi, non passare
uno; dove, se è qualche più pericolo, ve n'è
meno assai che comunicarla con molti. Propinquo a questo modo
è quando una necessità ti costringa a fare quello al
principe che tu vedi che 'l principe vorrebbe fare a te, la quale
sia tanto grande che non ti dia tempo se non a pensare ad
assicurarti. Questa necessità conduce quasi sempre la cosa al
fine desiderato: ed a provarlo voglio bastino due esempli. Aveva
Commodo, imperadore, Leto ed Eletto, capi de' soldati pretoriani, ed
intra' primi amici e familiari suoi; aveva Marzia in nelle prime sue
concubine o amiche; e perché egli era da costoro qualche
volta ripreso de' modi con i quali maculava la persona sua e lo
Imperio, diliberò di farli morire; e scrisse in su una listra
Marzia, Leto ed Eletto ed alcuni altri che voleva, la notte sequente
fare morire; e quella listra messe sotto il capezzale del suo letto.
Ed essendo ito a lavarsi, un fanciullo favorito da lui, scherzando
per camera e su pel letto, gli venne trovato questa listra, ed
uscendo fuora con essa in mano, riscontrò Marzia; la quale
gliene tolse, e, lettala, e veduto il contenuto di essa, subito
mandò per Leto ed Eletto; e conosciuto tutti a tre il
pericolo in quale erano, deliberorono prevenire; e, sanza mettere
tempo in mezzo, la notte sequente ammazzorono Commodo. Era Antonino
Caracalla, imperadore, con gli eserciti suoi in Mesopotamia, ed
aveva per suo prefetto Macrino, uomo più civile che armigero;
e, come avviene ch'e' principi non buoni temono sempre che altri non
operi, contro a loro, quello che par loro meritare, scrisse Antonino
a Materniano suo amico a Roma, che intendessi dagli astrologi,
s'egli era alcuno che aspirasse allo imperio, e gliene avvisasse.
Donde Materniano gli scrisse, come Macrino era quello che vi
aspirava; e pervenuta la lettera, prima alle mani di Macrino che
dello imperadore, e, per quella, conosciuta la necessità o
d'ammazzare lui prima che nuova lettera venisse da Roma o di morire,
commisse a Marziale centurione, suo fidato, ed a chi Antonino aveva
morto, pochi giorni innanzi uno fratello, che lo ammazzasse: il che
fu esequito da lui felicemente. Vedesi, adunque, che questa
necessità che non dà tempo, fa quasi quel medesimo
effetto che il modo, da me sopra detto, che tenne Nelemato di Epiro.
Vedesi ancora quello che io dissi, quasi nel principio di questo
discorso, come le minacce offendono più i principi, e sono
cagione di più efficace congiure che le offese: da che uno
principe si debbe guardare; perché gli uomini si hanno o
accarezzare o assicurarsi di loro; e non li ridurre mai in termine
che gli abbiano a pensare che bisogni loro o morire o far morire
altrui.
Quanto ai pericoli che si corrono in su la esecuzione, nascono
questi o da variare l'ordine, o da mancare l'animo a colui che
esequisce, o da errore che lo esecutore faccia per poca prudenza, o
per non dare perfezione alla cosa, rimanendo vivi parte di quelli
che si disegnavano ammazzare. Dico, adunque, come e' non è
cosa alcuna che faccia tanto sturbo o impedimento a tutte le azioni
degli uomini, quanto è in uno instante, sanza avere tempo,
avere a variare un ordine e a pervertirlo da quello che si era
ordinato prima. E se questa variazione fa disordine in cosa alcuna,
lo fa nelle cose della guerra, ed in cose simili a quelle di che noi
parliano; perché in tali azioni non è cosa tanto
necessaria a fare, quanto che gli uomini fermino gli animi loro ad
esequire quella parte che tocca loro: e se gli uomini hanno volto la
fantasia per più giorni ad uno modo e ad uno ordine, e quello
subito varii, è impossibile che non si perturbino tutti, e
non rovini ogni cosa; in modo che gli è meglio assai esequire
una cosa secondo l'ordine dato, ancora che vi si vegga qualche
inconveniente, che non è, per volere cancellare quello,
entrare in mille inconvenienti. Questo interviene quando e' non si
ha tempo a riordinarsi; perché, quando si ha tempo, si
può l'uomo governare a suo modo.
La congiura de' Pazzi contro a Lorenzo e Giuliano de' Medici,
è nota. L'ordine dato era che dessino desinare al cardinale
di San Giorgio, ed a quel desinare ammazzargli: dove si era
distribuito chi aveva a ammazzargli, chi aveva a pigliare il
palazzo, e chi correre la città e chiamare alla
libertà il popolo. Accadde che, essendo nella chiesa
cattedrale in Firenze i Pazzi, i Medici ed il Cardinale ad uno
ufficio solenne, s'intese come Giuliano la mattina non vi desinava:
il che fece che i congiurati s'adunorono insieme e quello che gli
avevano a fare in casa i Medici, deliberarono di farlo in chiesa. Il
che venne a perturbare tutto l'ordine, perché Giovambatista
da Montesecco non volle concorrere all'omicidio, dicendo non lo
volere fare in chiesa: talché gli ebbono a mutare nuovi
ministri in ogni azione; i quali, non avendo tempo a fermare
l'animo, fecero tali errori, che in essa esecuzione furono oppressi.
Manca l'animo a chi esequisce, o per riverenza, o per propria
viltà dello esecutore. È tanta la maestà e la
riverenza che si tira dietro la presenza d'uno principe, ch'egli
è facil cosa o che mitighi o che gli sbigottisca uno
esecutore. A Mario, essendo preso da' Minturnesi, fu mandato uno
servo che lo ammazzasse; il quale, spaventato dalla presenza di
quello uomo e dalla memoria del nome suo, divenuto vile,
perdé ogni forza ad ucciderlo. E se questa potenza è
in uomo legato e prigione, ed affogato nella mala fortuna; quanto si
può tenere che la sia maggiore in uno principe sciolto, con
la maestà degli ornamenti, della pompa e della comitiva sua!
talché ti può questa tale pompa spaventare, o vero con
qualche grata accoglienza raumiliare. Congiurorono alcuni contro a
Sitalce re di Tracia, deputorono il dì della esecuzione;
convennono al luogo diputato, dove era il principe; nessuno di loro
si mosse per offenderlo: tanto che si partirono sanza avere tentato
alcuna cosa e sanza sapere quello che se gli avessi impediti; ed
incolpavano l'uno l'altro. Caddono in tale errore più volte;
tanto che, scopertasi la congiura, portarono pena di quello male che
potettono e non vollono fare. Congiurarono contro a Alfonso, duca di
Ferrara, due sui frategli, ed usarono mezzano Giannes, prete e
cantore del duca; il quale più volte, a loro richiesta,
condusse il duca fra loro, talché gli avevano arbitrio
d'ammazzarlo: nondimeno, mai nessuno di loro non ardì di
farlo; tanto che, scoperti, portarono la pena della cattività
e poca prudenza loro. Questa negligenza non potette nascere da
altro, se non che convenne o che la presenza gli sbigottisse o che
qualche umanità del principe gli umiliasse. Nasce in tali
esecuzioni inconveniente o errore per poca prudenza o per poco
animo; perché l'una e l'altra di queste due cose ti invasa, e
portato da quella confusione di cervello ti fa dire e fare quello
che tu non debbi.
E che gli uomini invasino e si confondino, non lo può meglio
dimostrare Tito Livio quando discrive di Alessameno etolo, quando ei
volle ammazzare Nabide spartano, di che abbiamo di sopra parlato;
che, venuto il tempo della esecuzione, scoperto che egli ebbe ai
suoi quello che si aveva a fare, dice Tito Livio queste parole:
«Collegit et ipse animum, confusum tantae cogitatione
rei». Perché gli è impossibile che alcuno,
ancora che di animo fermo, ed uso alla morte degli uomini e
adoperare il ferro, non si confunda. Però si debba eleggere
uomini isperimentati in tali maneggi, ed a nessuno altro credere,
ancora che tenuto animosissimo. Perché, dello animo nelle
cose grandi, sanza averne fatto isperienza, non sia alcuno che se ne
prometta cosa certa. Può, adunque, questa confusione o farti
cascare l'armi di mano, o farti dire cose che facciano il medesimo
effetto. Lucilla, sirocchia di Commodo, ordinò che Quinziano
lo ammazzassi. Costui aspettò Commodo nella entrata dello
anfiteatro e con un pugnale ignudo accostandosegli, gridò: -
Questo ti manda il Senato! - le quali parole fecero che fu prima
preso ch'egli avesse calato il braccio per ferire. Messer Antonio da
Volterra, diputato, come di sopra si disse, ad ammazzare Lorenzo de'
Medici, nello accostarsegli disse: - Ah traditore! - la quale voce
fu la salute di Lorenzo, e la rovina di quella congiura. Può
non si dare perfezione alla cosa, quando si congiura contro ad uno
capo, per le cagioni dette: ma facilmente non se le dà
perfezione quando si congiura contro a due capi, anzi è tanto
difficile, che gli è quasi impossibile che la riesca.
Perché fare una simile azione in uno medesimo tempo in
diversi luoghi, è quasi impossibile; perché in diversi
tempi non si può fare, non volendo che l'una guasti l'altra.
In modo che, se il congiurare contro ad uno principe è cosa
dubbia, pericolosa e poco prudente; congiurare contro a due,
è al tutto vana e leggieri. E se non fosse la riverenza dello
istorico, io non crederrei mai che fosse possibile quello che
Erodiano dice di Plauziano, quando ei commisse a Saturnino
centurione, che elli solo ammazzasse Severo ed Antonino, abitanti in
diversi paesi: perché la è cosa tanto discosto da il
ragionevole che altro che questa autorità non me lo farebbe
credere.
Congiurorono certi giovani ateniesi contro a Diocle ed Ippia,
tiranni di Atene. Ammazzarono Diocle ed Ippia, che rimase, lo
vendicò. Chione e Leonide eraclensi e discepoli di Platone,
congiurarono contro a Clearco e Satiro, tiranni; ammazzarono
Clearco; e Satiro, che restò vivo, lo vendicò. Ai
Pazzi, più volte da noi allegati, non successe di ammazzare
se non Giuliano. In modo che di simili congiure contro a più
capi, se ne debbe astenere ciascuno, perché non si fa bene
né a sé né alla patria né ad alcuno:
anzi quelli che rimangono, diventono più insopportabili e
più acerbi; come sa Firenze, Atene ed Eraclea, state da me
preallegate. È vero che la congiura che Pelopida fece per
liberare Tebe sua patria, ebbe tutte le difficultà: nondimeno
ebbe felicissimo fine; perché Pelopida non solamente
congiurò contro a due tiranni, ma contro a dieci, non
solamente non era confidente e non gli era facile la entrata a e'
tiranni, ma era ribello: nondimanco ei poté venire in Tebe,
ammazzare i tiranni, e liberare la patria. Pure nondimanco fece
tutto, con l'aiuto d'uno Carione, consigliere de' tiranni, dal quale
ebbe l'entrata facile alla esecuzione sua. Non sia alcuno,
nondimanco, che pigli lo esemplo da costui: perché come ella
fu impresa impossibile, e cosa maravigliosa a riuscire, così
fu, ed è tenuta dagli scrittori, i quali la celebrano, come
cosa rara e quasi sanza esemplo. Può essere interrotta tale
esecuzione da una falsa immaginazione o da uno accidente imprevisto
che nasca in su 'l fatto. La mattina che Bruto e gli altri
congiurati volevano ammazzare Cesare, accadde che quello
parlò a lungo con Gneo Popilio Lenate, uno de' congiurati; e
vedendo gli altri questo lungo parlamento, dubitarono che detto
Popilio non rivelasse a Cesare la congiura: e furono per tentare di
ammazzare Cesare quivi, e non aspettare che fosse in Senato; ed
arebbonlo fatto, se non che il ragionamento finì, e, visto
non fare a Cesare moto alcuno istraordinario, si rassicurarono. Sono
queste false immaginazioni da considerarle, ed avervi, con prudenza,
rispetto; e tanto più, quanto egli è facile ad averle.
Perché chi ha la sua conscienza macchiata, facilmente crede
che si parli di lui: puossi sentire una parola, detta ad uno altro
fine, che ti faccia perturbare l'animo, e credere che la sia detta
sopra il caso tuo, e farti o con la fuga scoprire la congiura da te,
o confondere l'azione con acceleralla fuora di tempo. E questo tanto
più facilmente nasce, quando ei sono molti ad essere conscii
della congiura.
Quanto alli accidenti, perché sono inisperati, non si
può se non con gli esempli mostrarli, e fare gli uomini cauti
secondo quegli. Luzio Belanti da Siena, del quale di sopra abbiamo
fatto menzione, per lo sdegno aveva contro a Pandolfo, che gli aveva
tolto la figliuola che prima gli aveva data per moglie,
diliberò d'ammazzarlo, ed elesse questo tempo. Andava
Pandolfo quasi ogni giorno a vicitare uno suo parente infermo, e
nello andarvi passava dalle case di Iulio. Costui, adunque, veduto
questo, ordinò di avere i suoi congiurati in casa ad ordine
per ammazzare Pandolfo nel passare; e, messisi dentro all'uscio
armati, teneva uno alla finestra, che, passando Pandolfo, quando ei
fussi presso all'uscio, facessi un cenno. Accadde che, venendo
Pandolfo, ed avendo fatto colui il cenno, riscontrò uno amico
che lo fermò; ed alcuni di quelli che erano con lui, vennono
a trascorrere innanzi; e veduto, e sentito il romore d'arme,
scopersono l' agguato; in modo che Pandolfo si salvò, e Iulio
ed i compagni si ebbono a fuggire di Siena. Impedì quello
accidente di quello scontro quella azione, e fece a Iulio rovinare
la sua impresa. Ai quali accidenti, perché e' son rari, non
si può fare alcuno rimedio. È bene necessario
esaminare tutti quegli che possono nascere, e rimediarvi.
Restaci al presente, solo a disputare de' pericoli che si corrono
dopo la esecuzione: i quali sono solamente uno; e questo è,
quando e' rimane alcuno che vendichi il principe morto. Possono,
adunque, rimanere suoi frategli, o suoi figliuoli, o altri aderenti,
a chi si aspetti il principato; e possono rimanere o per tua
negligenzia o per le cagioni dette di sopra, che faccino questa
vendetta: come intervenne a Giovanni Andrea da Lampognano, il quale,
insieme con i suoi congiurati, avendo morto il duca di Milano, ed
essendo rimaso uno suo figliuolo e due suoi frategli, furono a tempo
a vendicare il morto. E veramente, in questi casi, i congiurati sono
scusati, perché non ci hanno rimedio; ma quando ne rimane
vivo alcuno, per poca prudenza, o per loro negligenza, allora
è che non meritano scusa. Ammazzarono alcuni congiurati
Forlivesi il conte Girolamo loro signore, presono la moglie, ed i
suoi figliuoli, che erano piccoli; e non parendo loro potere vivere
sicuri se non si insignorivano della fortezza, e non volendo il
castellano darla loro, Madonna Caterina (che così si chiamava
la contessa) promisse ai congiurati, che, se la lasciavano entrare
in quella, di farla consegnare loro, e che ritenessono a presso di
loro i suoi figliuoli per istatichi. Costoro, sotto questa fede, ve
la lasciarono entrare; la quale, come fu dentro, dalle mura
rimproverò loro la morte del marito, e minacciogli d'ogni
qualità di vendetta. E per mostrare che de' suoi figliuoli
non si curava, mostrò loro le membra genitali, dicendo che
aveva ancora il modo a rifarne. Così costoro, scarsi di
consiglio e tardi avvedutisi del loro errore, con uno perpetuo
esilio patirono pena della poca prudenza loro. Ma di tutti i
pericoli che possono dopo la esecuzione avvenire, non ci è il
più certo né quello che sia più da temere, che
quando il popolo è amico del principe che tu hai morto:
perché a questo i congiurati non hanno rimedio alcuno,
perché e' non se ne possono mai assicurare. In esemplo ci
è Cesare, il quale, per avere il popolo di Roma amico, fu
vendicato da lui; perché, avendo cacciati i congiurati, di
Roma, fu cagione che furono tutti, in varii tempi e in varii luoghi,
ammazzati.
Le congiure che si fanno contro alla patria sono meno pericolose,
per coloro che le fanno, che non sono quelle contro ai principi:
perché nel maneggiarle vi sono meno pericoli che in quelle;
nello esequirle vi sono quelli medesimi; dopo la esecuzione non ve
ne è alcuno. Nel maneggiarle non vi è pericoli molti:
perché uno cittadino può ordinarsi alla potenza sanza
manifestare lo animo e disegno suo ad alcuno; e, se quegli suoi
ordini non gli sono interrotti, seguire felicemente la impresa sua;
se gli sono interrotti con qualche legge, aspettare tempo ed entrare
per altra via. Questo s'intende in una republica dove è
qualche parte di corrozione; perché, in una non corrotta, non
vi avendo luogo nessuno principio cattivo, non possono cadere in uno
suo cittadino questi pensieri. Possono, adunque, i cittadini per
molti mezzi e molte vie aspirare al principato dove e' non portano
pericolo di essere oppressi: sì perché le republiche
sono più tarde che uno principe, dubitano meno, e per questo
sono manco caute; sì perché hanno più rispetto
ai loro cittadini grandi, e per questo quelli sono più audaci
e più animosi a fare loro contro. Ciascuno ha letto la
congiura di Catilina scritta da Sallustio, e sa come, poi che la
congiura fu scoperta, Catilina non solamente stette in Roma, ma
venne in Senato, e disse villania al Senato ed al Consolo, tanto era
il rispetto che quella città aveva ai suoi cittadini. E
partito che fu di Roma, e ch'egli era di già in su gli
eserciti, non si sarebbe preso Lentulo e quelli altri, se non si
fossoro avute lettere di loro mano che gli accusavano
manifestamente. Annone, grandissimo cittadino in Cartagine,
aspirando alla tirannide, aveva ordinato nelle nozze d'una sua
figliuola di avvelenare tutto il Senato, e dipoi farsi principe.
Questa cosa intesasi, non vi fece il Senato altra provisione che
d'una legge, la quale poneva termini alle spese de' conviti e delle
nozze: tanto fu il rispetto che gli ebbero alle qualità sue.
È bene vero, che nello esequire una congiura contro alla
patria, vi è difficultà più, e maggiori
pericoli, perché rade volte è che bastino le tue forze
proprie conspirando contro a tanti; e ciascuno non è principe
d'uno esercito, come era Cesare o Agatocle o Cleomene, e simili, che
hanno ad un tratto e con le forze loro occupato la patria.
Perché a simili è la via assai facile ed assai sicura,
ma gli altri, che non hanno tante aggiunte di forze, conviene che
facciano le cose, o con inganno ed arte, o con forze forestiere.
Quanto allo inganno ed all'arte, avendo Pisistrato ateniese vinti i
Megarensi, e per questo acquistata grazia nel popolo, uscì
una mattina fuora, ferito, dicendo che la Nobilità per
invidia lo aveva ingiuriato, e domandò di potere menare
armati seco per guardia sua. Da questa autorità facilmente
salse a tanta grandezza, che diventò tiranno di Atene.
Pandolfo Petrucci tornò, con altri fuora usciti, in Siena, e
gli fu data la guardia della piazza con governo, come cosa mecanica,
e che gli altri rifiutarono; nondimanco quelli armati, con il tempo,
gli dierono tanta riputazione, che, in poco tempo, ne diventò
principe. Molti altri hanno tenute altre industrie ed altri modi, e
con ispazio di tempo e sanza pericolo vi si sono condotti. Quegli
che con forze loro, o con eserciti esterni, hanno congiurato per
occupare la patria, hanno avuti varii eventi, secondo la fortuna.
Catilina preallegato vi rovinò sotto. Annone, di chi di sopra
facemo menzione, non gli essendo riuscito il veleno, armò, di
suoi partigiani, molte migliaia di persone, e loro ed elli furono
morti. Alcuni primi cittadini di Tebe per farsi tiranni chiamorono
in aiuto uno esercito spartano, e presono la tirannide di quella
città. Tanto che, esaminate tutte le congiure fatte contro
alla patria, non ne troverrai alcuna, o poche, che, nel maneggiarle,
siano oppresse; ma tutte, o sono riuscite o sono rovinate, nella
esecuzione. Esequite che le sono, ancora non portano altri periculi
che si porti la natura del principato in sé: perché
divenuto che uno è tiranno, ha i suoi naturali ed ordinari
pericoli che gli arreca la tirannide, alli quali non ha altri rimedi
che si siano di sopra discorsi.
Questo è quanto mi è occorso scrivere delle congiure;
e se io ho ragionato di quelle che si fanno con il ferro, e non col
veneno, nasce che le hanno tutte uno medesimo ordine. Vero è
che quelle del veneno sono più pericolose, per essere
più incerte, perché non si ha commodità per
ognuno; e bisogna conferirlo con chi la ha, e questa
necessità del conferire ti fa pericolo. Dipoi, per molte
cagioni, uno beveraggio di veleno non può essere mortale:
come intervenne a quelli che ammazzarono Commodo, che, avendo quello
ributtato il veleno che gli avevano dato, furono forzati a
strangolarlo, se vollono che morisse. Non hanno, pertanto, i
principi il maggiore nimico che la congiura: perché, fatta
che è una congiura loro contro, o la gli ammazza, o la gli
infama. Perché, se la riesce, e' muoiono; se la si scuopre, e
loro ammazzino i congiurati, si crede sempre che la sia stata
invenzione di quel principe, per isfogare l'avarizia e la
crudeltà sua contro al sangue e la roba di quegli che egli ha
morti. Non voglio però mancare di avvertire quel principe o
quella republica contro a chi fosse congiurato, che abbino
avvertenza, quando una congiura si manifesta loro, innanzi che
facciano impresa di vendicarla, cercare ed intendere molto bene la
qualità di essa, e misurino bene le condizioni de' congiurati
e le loro; e quando la truovino grossa e potente, non la scuoprino
mai, infino a tanto che si siano preparati con forze sufficienti ad
opprimerla: altrimenti facendo, scoprirebbono la loro rovina.
Però, debbono con ogni industria dissimularla; perché
i congiurati, veggendosi scoperti, cacciati da necessità,
operano sanza rispetto. In esemplo ci sono i Romani; i quali, avendo
lasciate due legioni di soldati a guardia de' Capovani contro ai
Sanniti, come altrove dicemo, congiurarono quelli capi delle legioni
insieme di opprimere i Capovani: la quale cosa intesasi a Roma,
commissono a Rutilio nuovo Consolo che vi provvedesse; il quale, per
addormentare i congiurati, pubblicò come il Senato aveva
raffermo le stanze alle legioni capovane. Il che credendosi quelli
soldati, e parendo loro avere tempo ad esequire il disegno loro, non
cercarono di accelerare la cosa; e così stettono infino che
cominciarono a vedere che il Consolo gli separava l'uno dall'altro:
la quale cosa generò in loro sospetto, fece che si scopersono
e mandarono ad esecuzione la voglia loro. Né può
essere questo maggiore esemplo nell'una e nell'altra parte:
perché per questo si vede, quanto gli uomini sono lenti nelle
cose dove credono avere tempo, e quanto e' sono presti dove la
necessità gli caccia. Né può uno principe o una
republica, che vuole differire lo scoprire una congiura a suo
vantaggio, usare termine migliore che offerire, di prossimo,
occasione con arte ai congiurati acciocché, aspettando
quella, o parendo loro avere tempo, diano tempo a quello o a quella
a gastigarli. Chi ha fatto altrimenti, ha accelerato la sua rovina:
come fece il duca di Atene, e Guglielmo de' Pazzi. Il duca,
diventato tiranno di Firenze, ed intendendo esserli congiurato
contro, fece, sanza esaminare altrimenti la cosa, pigliare uno de'
congiurati: il che fece subito pigliare l'armi agli altri; e torgli
lo stato. Guglielmo, sendo commessario in Val di Chiana nel 1501, ed
avendo inteso come in Arezzo era una congiura in favore de' Vitelli
per tôrre quella terra ai Fiorentini, subito se n'andò
in quella città, e sanza pensare alle forze de' congiurati o
alle sue, e, sanza prepararsi di alcuna forza, con il consiglio del
vescovo suo figliuolo, fece pigliare uno de' congiurati: dopo la
quale presura, gli altri subito presono l'armi, e tolsono la terra
ai Fiorentini; e Guglielmo, di commessario, diventò prigione.
Ma quando le congiure sono deboli, si possono e debbono sanza
rispetto opprimerle. Non è ancora da imitare in alcuno modo
due termini usati, quasi contrari l'uno all'altro, l'uno dal
prenominato duca di Atene, il quale, per mostrare di credere di
avere la benivolenza de' cittadini fiorentini, fece morire uno che
gli manifestò una congiura; l'altro da Dione siragusano, il
quale, per tentare l'animo di alcuno che elli aveva a sospetto,
consentì a Callippo, nel quale ei confidava, che mostrasse di
farli una congiura contro. E tutti a due questi capitorono male:
perché l'uno tolse l'animo agli accusatori, e dettelo a chi
volesse congiurare, l'altro dette la via facile alla morte sua, anzi
fu elli proprio capo della sua congiura; come per isperienza
gl'intervenne, perché Callippo, potendo sanza rispetto
praticare contro a Dione, praticò tanto che gli tolse lo
stato e la vita.
7
Donde nasce che le mutazioni
dalla libertà alla servitù, e dalla
servitù
alla libertà, alcuna ne è sanza sangue,
alcuna ne è piena.
Dubiterà forse alcuno donde nasca che molte mutazioni, che si
fanno dalla vita libera alla tirannica, e per contrario, alcuna se
ne faccia con sangue, alcuna sanza; perché, come per le
istorie si comprende, in simili variazioni alcuna volta sono stati
morti infiniti uomini, alcuna volta non è stato ingiurato
alcuno: come intervenne nella mutazione che fe' Roma dai Re a'
Consoli, dove non furono cacciati altri che i Tarquinii, fuora della
offensione di qualunque altro. Il che depende da questo:
perché quello stato che si muta, nacque con violenza, o no: e
perché, quando e' nasce con violenza, conviene nasca con
ingiuria di molti, è necessario poi, nella rovina sua, che
gl'ingiuriati si voglino vendicare; e da questo desiderio di
vendetta nasce il sangue e la morte degli uomini. Ma quando quello
stato è causato da uno comune consenso d'una
universalità che lo ha fatto grande, non ha cagione poi,
quando rovina detta universalità, di offendere altri che il
capo. E di questa sorte fu lo stato di Roma, e la cacciata de'
Tarquinii; come fu ancora in Firenze lo stato de' Medici, che poi
nelle rovine loro, nel 1494, non furono offesi altri che loro. E
così tali mutazioni non vengono ad essere molto pericolose:
ma sono bene pericolosissime quelle che sono fatte da quegli che si
hanno a vendicare; le quali furono sempre mai di sorte, da fare, non
che altro, sbigottire chi le legge. E perché di questi
esempli ne sono piene le istorie, io le voglio lasciare indietro.
8
Chi vuole alterare una republica,
debbe considerare il suggetto di quella.
Egli si è di sopra discorso, come uno tristo cittadino non
può male operare in una republica che non sia corrotta: la
quale conclusione si fortifica, oltre alle ragioni che allora si
dissono, con lo esemplo di Spurio Cassio e di Manlio Capitolino. Il
quale Spurio, essendo uomo ambizioso, e volendo pigliare
autorità istraordinaria in Roma, e guadagnarsi la plebe con
il fargli molti beneficii, come era dividergli quegli campi che i
Romani avevano tolto agli Ernici; fu scoperta dai Padri questa sua
ambizione, ed in tanto recata a sospetto, che, parlando egli al
popolo, ed offerendo di darli quelli danari che si erano ritratti
dei grani che il publico aveva fatti venire di Sicilia, al tutto gli
recusò, parendo a quello che Spurio volessi dare loro il
prezzo della loro libertà. Ma se tale popolo fusse stato
corrotto, non arebbe recusato detto prezzo, e gli arebbe aperta alla
tirannide quella via che gli chiuse. Fa molto maggiore essemplo di
questo, Manlio Capitolino: perché mediante costui si vede
quanta virtù d'animo e di corpo, quante buone opere fatte in
favore della patria, cancella dipoi una brutta cupidità di
regnare: la quale, come si vede, nacque in costui per la invidia che
lui aveva degli onori erano fatti a Cammillo; e venne in tanta
cecità di mente, che, non pensando al modo del vivere della
città, non esaminando il suggetto, quale esso aveva, non atto
a ricevere ancora trista forma, si misse a fare tumulti in Roma
contro al Senato e contro alle leggi patrie. Dove si conosce la
perfezione di quella città, e la bontà della materia
sua: perché nel caso suo nessuno della Nobilità, come
che fossero agrissimi difensori l'uno dell'altro, si mosse a
favorirlo; nessuno de' parenti fece impresa in suo favore: e con gli
altri accusati solevano comparire, sordidati, vestiti di nero, tutti
mesti per accattare misericordia in favore dello accusato, e con
Manlio non se ne vide alcuno. I Tribuni della plebe, che solevano
sempre favorire le cose che pareva venissono in beneficio del
popolo; e quanto erano più contro a' nobili, tanto più
le tiravano innanzi; in questo caso si unirono co' nobili, per
opprimere una comune peste. Il popolo di Roma desiderosissimo
dell'utile proprio, ed amatore delle cose che venivano contro alla
Nobilità, avvenga che facesse a Manlio assai favori,
nondimeno, come i Tribuni lo citarono, e che rimessono la causa sua
al giudicio del popolo, quel popolo, diventato di difensore giudice,
sanza rispetto alcuno lo condannò a morte. Pertanto io non
credo che sia esemplo in questa istoria, più atto a mostrare
la bontà di tutti gli ordini di quella Republica, quanto
è questo; veggendo che nessuno di quella città si
mosse a difendere uno cittadino pieno d'ogni virtù, e che
publicamente e privatamente aveva fatte moltissime opere laudabili.
Perché in tutti loro poté più lo amore della
patria che alcuno altro rispetto; e considerarono molto più
a' pericoli presenti che da lui dependevano che a' meriti passati:
tanto che con la morte sua e' si liberarono. E Tito Livio dice:
«Hunc exitum habuit vir, nisi in libera civitate natus esset,
memorabilis». Dove sono da considerare due cose: l'una, che
per altri modi si ha a cercare gloria in una città corrotta,
che in una che ancora viva politicamente; l'altra (che è
quasi quel medesimo che la prima), che gli uomini nel procedere
loro, è tanto più nelle azioni grandi, debbono
considerare i tempi, e accommodarsi a quegli.
E coloro che, per cattiva elezione o per naturale inclinazione, si
discordono dai tempi, vivono, il più delle volte, infelici,
ed hanno cattivo esito le azioni loro, al contrario l'hanno quegli
che si concordano col tempo. E sanza dubbio, per le parole
preallegate dello istorico, si può conchiudere, che, se
Manlio fusse nato ne' tempi di Mario e di Silla, dove già la
materia era corrotta e dove esso arebbe potuto imprimere la forma
dell'ambizione sua, arebbe avuti quegli medesimi séguiti e
successi che Mario e Silla, e gli altri poi, che, dopo loro, alla
tirannide aspirarono. Così medesimamente, se Silla e Mario
fussono stati ne' tempi di Manlio, sarebbero stati, in tra le prime
loro imprese, oppressi. Perché un uomo può bene
cominciare con suoi modi e con suoi tristi termini a corrompere uno
popolo di una città, ma gli è impossibile che la vita
d'uno basti a corromperla in modo che egli medesimo ne possa trarre
frutto; e quando bene e' fussi possibile, con lunghezza di tempo,
che lo facesse, sarebbe impossibile, quanto al modo del procedere
degli uomini, che sono impazienti, e non possono lungamente
differire una loro passione. Appresso, s'ingannano nelle cose loro,
ed in quelle, massime, che desiderono assai; talché, o per
poca pazienza o per ingannarsene, entrerebbero in impresa contro a
tempo, e capiterebbono male. Però è bisogno, a volere
pigliare autorità in una republica e mettervi trista forma,
trovare la materia disordinata dal tempo, e che, a poco a poco, e di
generazione in generazione, si sia condotta al disordine: la quale
vi si conduce di necessità, quando la non sia, come di sopra
si discorse, spesso rinfrescata di buoni esempli, o con nuove leggi
ritirata verso i principii suoi. Sarebbe, dunque, stato Manlio uno
uomo raro e memorabile, se e' fussi nato in una città
corrotta. E però debbeno i cittadini che nelle republiche
fanno alcuna impresa o in favore della libertà o in favore
della tirannide, considerare il suggetto che eglino hanno, e
giudicare da quello la difficultà delle imprese loro.
Perché tanto è difficile e pericoloso volere fare
libero uno popolo che voglia vivere servo, quanto è volere
fare servo uno popolo che voglia vivere libero. E perché di
sopra si dice, che gli uomini nell'operare debbono considerare le
qualità de' tempi e procedere secondo quegli, ne parlereno a
lungo nel sequente capitolo.
9
Come conviene variare co' tempi
volendo sempre avere buona fortuna.
Io ho considerato più volte come la cagione della trista e
della buona fortuna degli uomini è riscontrare il modo del
procedere suo con i tempi: perché e' si vede che gli uomini
nelle opere loro procedono, alcuni con impeto, alcuni con rispetto e
con cauzione. E perché nell'uno e nell'altro di questi modi
si passano e' termini convenienti, non si potendo osservare la vera
via, nell'uno e nell'altro si erra. Ma quello viene ad errare meno,
ed avere la fortuna prospera, che riscontra, come ho detto, con il
suo modo il tempo, e sempre mai si procede, secondo ti sforza la
natura. Ciascuno sa come Fabio Massimo procedeva con lo esercito suo
rispettivamente e cautamente, discosto da ogni impeto e da ogni
audacia romana, e la buona fortuna fece che questo suo modo
riscontrò bene con i tempi. Perché, sendo venuto
Annibale in Italia, giovane e con una fortuna fresca, ed avendo
già rotto il popolo romano due volte; ed essendo quella
republica priva quasi della sua buona milizia, e sbigottita; non
potette sortire migliore fortuna, che avere uno capitano il quale,
con la sua tardità e cauzione, tenessi a bada il nimico.
Né ancora Fabio potette riscontrare tempi più
convenienti a' modi suoi: di che ne nacque che fu glorioso. E che
Fabio facessi questo per natura, e non per elezione, si vide, che,
volendo Scipione passare in Affrica con quegli eserciti per ultimare
la guerra, Fabio la contradisse assai, come quello che non si poteva
spiccare da' suoi modi e dalla consuetudine sua; talché, se
fusse stato a lui Annibale sarebbe ancora in Italia; come quello che
non si avvedeva che gli erano mutati i tempi, e che bisognava mutare
modo di guerra. E se Fabio fusse stato re di Roma, poteva facilmente
perdere quella guerra; perché non arebbe saputo variare, col
procedere suo, secondo che variavono i tempi: ma essendo nato in una
republica dove erano diversi cittadini e diversi umori, come la ebbe
Fabio, che fu ottimo ne' tempi debiti a sostenere la guerra,
così ebbe poi Scipione, ne' tempi atti a vincerla.
Quinci nasce che una republica ha maggiore vita, ed ha più
lungamente buona fortuna, che uno principato, perché la
può meglio accomodarsi alla diversità de' temporali,
per la diversità de' cittadini che sono in quella, che non
può uno principe. Perché un uomo che sia consueto a
procedere in uno modo, non si muta mai, come è detto; e
conviene di necessità che, quando e' si mutano i tempi
disformi a quel suo modo, che rovini.
Piero Soderini, altre volte preallegato, procedeva in tutte le cose
sue con umanità e pazienza. Prosperò egli e la sua
patria, mentre che i tempi furono conformi al modo del procedere
suo: ma come e' vennero dipoi tempi dove e' bisognava rompere la
pazienza e la umiltà, non lo seppe fare; talché
insieme con la sua patria rovinò. Papa Iulio II procedette in
tutto il tempo del suo pontificato con impeto e con furia; e
perché gli tempi l'accompagnarono bene gli riuscirono le sua
imprese tutte. Ma se fossero venuti altri tempi che avessono ricerco
altro consiglio, di necessità rovinava; perché no
arebbe mutato né modo né ordine nel maneggiarsi. E che
noi non ci possiamo mutare, ne sono cagioni due cose: l'una, che noi
non ci possiamo opporre a quello che ci inclina la natura; l'altra,
che, avendo uno con uno modo di procedere prosperato assai, non
è possibile persuadergli che possa fare bene a procedere
altrimenti: donde ne nasce che in uno uomo la fortuna varia,
perché ella varia i tempi, ed elli non varia i modi. Nascene
ancora le rovine delle cittadi, per non si variare gli ordini delle
republiche co' tempi; come lungamente di sopra discorremo: ma sono
più tarde, perché le penono più a variare,
perché bisogna che venghino tempi che commuovino tutta la
republica, a che uno solo, col variare il modo del procedere, non
basta.
E perché noi abbiamo fatto menzione di Fabio Massimo che
tenne a bada Annibale, mi pare da discorrere nel capitolo sequente,
se uno capitano, volendo fare la giornata in ogni modo col nimico,
può essere impedito, da quello, che non lo faccia.
10
Che uno capitano
non può fuggire la giornata,
quando l'avversario la vuol fare
in ogni modo.
«Cneus Sulpitius dictator adversus Gallos bellum trahebat,
nolens se fortunae committere adversus hostem, quem tempus
deteriorem in dies, et locus alienus, faceret». Quando e'
séguita uno errore, dove tutti gli uomini o la maggiore parte
s'ingannino, io non credo che sia male molte volte riprovarlo.
Pertanto, come che io abbia di sopra più volte mostro quanto
le azioni circa le cose grandi sieno disformi a quelle delli antichi
tempi, nondimeno non mi pare superfluo al presente replicarlo.
Perché, se in alcuna parte si devia dagli antichi ordini si
devia massime nelle azioni militari, dove al presente non è
osservata alcuna di quelle cose che dagli antichi erano stimate
assai. Ed è nato questo inconveniente, perché le
republiche ed i principi hanno imposta questa cura ad altrui; e per
fuggire i pericoli si sono discostati da questo esercizio: e se pure
si vede qualche volta uno re de' tempi nostri andare in persona, non
si crede, però, che da lui nasca altri modi che meritino
più laude. Perché quello esercizio, quando pure lo
fanno, lo fanno a pompa, e non per alcuna altra laudabile cagione.
Pure, questi fanno minori errori rivedendo i loro eserciti qualche
volta in viso, tenendo a presso di loro il titolo dello imperio, che
non fanno le republiche, e massime le italiane; le quali, fidandosi
d'altrui, né s'intendendo in alcuna cosa di quello che
appartenga alla guerra; e, dall'altro canto, volendo, per parere
d'essere loro il principe, deliberarne, fanno in tale deliberazione
mille errori. E benché di alcuno ne abbi discorso altrove,
voglio al presente non ne tacere uno importantissimo. Quando questi
principi oziosi, o republiche effeminate, mandono fuora uno loro
capitano, la più savia commissione che paia loro dargli,
è quando gl'impongono che per alcuno modo venga a giornata,
anzi, sopra ogni cosa, si guardi dalla zuffa; e parendo loro, in
questo, imitare la prudenza di Fabio Massimo, che, differendo il
combattere, salvò lo stato ai Romani, non intendono che, la
maggiore parte delle volte, questa commissione è nulla o
è dannosa. Per che si debbe pigliare questa conclusione: che
uno capitano, che voglia stare alla campagna, non può fuggire
la giornata, qualunque volta il nemico la vuole fare in ogni modo. E
non è altro questa commissione che dire: fa' la giornata a
posta del nimico, e non a tua. Perché a volere stare in
campagna, e non fare la giornata, non ci è altro rimedio
sicuro che porsi cinquanta miglia almeno discosto al nimico; e di
poi tenere buone spie, che, venendo quello verso di te, tu abbi
tempo a discostarti. Uno altro partito ci è; inchiudersi in
una città. E l'uno e l'altro di questi due partiti è
dannosissimo. Nel primo si lascia in preda il paese suo al nimico;
ed uno principe valente vorrà più tosto tentare la
fortuna della zuffa, che allungare la guerra con tanto danno de'
sudditi. Nel secondo partito è la perdita manifesta;
perché e' conviene che, riducendoti con uno esercito in una
città, tu venga ad essere assediato, ed in poco tempo patire
fame, e venire a dedizione. Talché fuggire la giornata, per
queste due vie, è dannosissimo. Il modo che tenne Fabio
Massimo, di stare ne' luoghi forti, è buono quando tu hai
sì virtuoso esercito, che il nimico non abbia ardire di
venirti a trovare dentro a' tuoi vantaggi. Né si può
dire che Fabio fuggissi la giornata, ma più tosto che la
volessi fare a suo vantaggio. Perché, se Annibale fusse ito a
trovarlo, Fabio l'arebbe aspettato, e fatto la giornata seco: ma
Annibale non ardì mai di combattere con lui a modo di quello.
Tanto che la giornata fu fuggita così da Annibale come da
Fabio: ma se uno di loro l'avessi voluta fare in ogni modo, l'altro
non vi aveva se non uno de' tre rimedi; i due sopradetti, o
fuggirsi.
E che questo che io dico sia vero, si vede manifestamente con mille
esempli, e massime nella guerra che i Romani feciono con Filippo di
Macedonia, padre di Perse: perché Filippo, sendo assaltato
dai Romani, deliberò non venire alla zuffa; e, per non vi
venire, volle fare prima come aveva fatto Fabio Massimo in Italia; e
si pose con il suo esercito sopra la sommità d'uno monte,
dove si afforzò assai, giudicando ch'e' Romani non avessero
ardire di andare a trovarlo. Ma, andativi e combattutolo, lo
cacciarono di quel monte; ed egli, non potendo resistere, si
fuggì con la maggiore parte delle genti. E quel che lo
salvò che non fu consumato in tutto, fu la iniquità
del paese, qual fece che i Romani non poterono seguirlo. Filippo,
adunque, non volendo azzuffarsi, ed essendosi posto con il campo
presso a' Romani, si ebbe a fuggire; ed avendo conosciuto per questa
isperienza, come, non volendo combattere, non gli bastava stare
sopra i monti, e nelle terre non volendo rinchiudersi,
deliberò pigliare l'altro modo, di stare discosto molte
miglia al campo romano. Donde, se i Romani erano in una provincia,
e' se ne andava nell'altra, e così sempre, donde i Romani
partivano esso entrava. E veggendo, alla fine, come nello allungare
la guerra per questa via, le sue condizioni peggioravano, e che i
suoi suggetti ora da lui ora dai nimici erano oppressi,
deliberò di tentare la fortuna della zuffa; e così
venne con i Romani ad una giornata giusta. È utile adunque
non combattere, quando gli eserciti hanno queste condizioni che
aveva lo esercito di Fabio, e che ora ha quello di Gneo Sulpizio,
cioè avere uno esercito sì buono, che il nimico non
ardisca venirti a trovare drento alle fortezze tue; e che il nimico
sia in casa tua sanza avere preso molto piè, dove e' patisca
necessità del vivere. Ed è in questo caso il partito
utile, per le ragioni che dice Tito Livio: «nolens se fortunae
committere adversus hostem, quem tempus deteriorem in dies, et locus
alienus, faceret». Ma in ogni altro termine non si può
fuggire giornata, se non con tuo disonore e pericolo. Perché
fuggirsi, come fece Filippo, è come essere rotto; e con
più vergogna, quanto meno si è fatto pruova della tua
virtù. E se a lui riuscì salvarsi, non riuscirebbe ad
uno altro che non fussi aiutato dal paese come egli. Che Annibale
non fussi maestro di guerra, alcuno mai non lo dirà ed
essendo allo incontro di Scipione in Affrica, s'egli avessi veduto
vantaggio in allungare la guerra, ei lo arebbe fatto; e per
avventura, sendo lui buono capitano, ed avendo buono esercito, lo
arebbe potuto fare, come fece Fabio in Italia: ma non lo avendo
fatto, si debbe credere che qualche cagione importante lo movessi.
Perché uno principe che abbi uno esercito messo insieme, e
vegga che per difetto di danari o d'amici e' non può tenere
lungamente tale esercito, è matto al tutto se non tenta la
fortuna innanzi che tale esercito si abbia a risolvere:
perché, aspettando e' perde il certo; tentando, potrebbe
vincere.
Un'altra cosa ci è ancora da stimare assai: la quale è
che si debbe, eziandio perdendo, volere acquistare gloria; e
più gloria si ha, ad essere vinto per forza, che per altro
inconveniente che ti abbi fatto perdere. Sì che Annibale
doveva essere constretto da queste necessità. E dall'altro
canto, Scipione, quando Annibale avessi differita la giornata, e non
gli fusse bastato l'animo irlo a trovare ne' luoghi forti, non
pativa, per avere di già vinto Siface ed acquistato tante
terre in Affrica, che vi poteva stare sicuro e con commodità
come in Italia. Il che non interveniva ad Annibale, quando era
all'incontro di Fabio; né a questi Franciosi, che erano allo
incontro di Sulpizio.
Tanto meno ancora può fuggire la giornata colui che con lo
esercito assalta il paese altrui; perché, se vuole entrare
nel paese del nimico, gli conviene, quando il nimico se gli facci
incontro, azzuffarsi seco, e se si pone a campo ad una terra, si
obliga tanto più alla zuffa: come ne' tempi nostri intervenne
al duca Carlo di Borgogna, che, sendo accampato a Moratto, terra de'
Svizzeri, fu da' Svizzeri assaltato e rotto, e come intervenne allo
esercito di Francia, che, campeggiando Novara, fu medesimamente da'
Svizzeri rotto.
11
Che chi ha a fare con assai,
ancora che sia inferiore,
pure che possa sostenere gli primi impeti,
vince.
La potenza de' Tribuni della plebe nella città di Roma fu
grande; e fu necessaria, come molte volte da noi è stato
discorso, perché altrimenti non si sarebbe potuto porre freno
all'ambizione della Nobilità, la quale arebbe molto tempo
innanzi corrotta quella republica, che la non si corroppe.
Nondimeno, perché in ogni cosa, come altre volte si è
detto, è nascoso qualche proprio male, che fa surgere nuovi
accidenti, è necessario a questo con nuovi ordini provvedere.
Essendo, pertanto, divenuta l'autorità tribunizia insolente,
e formidabile alla Nobilità e a tutta Roma, e' ne sarebbe
nato qualche inconveniente, dannoso alla libertà romana, se
da Appio Claudio non fosse stato mostro il modo con il quale si
avevano a difendere contro all'ambizione de' Tribuni: il quale fu
che trovarono sempre infra loro qualcuno che fussi, o pauroso, o
corrottibile, o amatore del comune bene; talmente che lo disponevano
ad opporsi alla volontà di quegli altri, che volessono tirare
innanzi alcuna deliberazione contro alla volontà del Senato.
Il quale rimedio fu un grande temperamento a tanta autorità,
e per molti tempi giovò a Roma. La quale cosa mi ha fatto
considerare che, qualunche volta e' sono molti potenti uniti contro
a un altro potente ancora che tutti insieme siano molto più
potenti di quello, nondimanco si debbe sempre sperare più in
quel solo e men gagliardo che in quelli assai, ancora che
gagliardissimi. Perché, lasciando stare tutte quelle cose
delle quali uno solo si può, più che molti, prevalere
(che sono infinite), sempre occorrerà questo: che
potrà, usando un poco d'industria, disunire gli assai; e quel
corpo, ch'era gagliardo, fare debole. Io non voglio in questo
addurre antichi esempli, che ce ne sarebbono assai; ma voglio mi
bastino i moderni, seguiti ne' tempi nostri.
Congiurò nel 1483 tutta Italia contro ai Viniziani; e
poiché loro al tutto erano persi, e non potevano stare
più con lo esercito in campagna, corruppono il signor
Lodovico che governava Milano, e per tale corrozione feciono uno
accordo, nel quale non solamente riebbono le terre perse ma
usurparono parte dello stato di Ferrara. E così coloro che
perdevano nella guerra, restarono superiori nella pace. Pochi anni
sono, congiurò contro a Francia tutto il mondo: nondimeno,
avanti che si vedesse il fine della guerra, Spagna si ribellò
da' confederati, e fece accordo seco; in modo che gli altri
confederati furono constretti, poco dipoi, ad accordarsi ancora
essi. Talché, sanza dubbio, si debbe sempre mai fare
giudicio, quando e' si vede una guerra mossa da molti contro ad uno,
che quello uno abbia a restare superiore, quando sia di tale
virtù, che possa sostenere i primi impeti, e col
temporeggiarsi aspettare tempo. Perché, quando ei non fosse
così, porterebbe mille pericoli: come intervenne a' Viniziani
nell'otto, i quali, se avessero potuto temporeggiare con lo esercito
francioso, ed avere tempo a guadagnarsi alcuno di quegli che gli
erano collegati contro, averiano fuggita quella rovina; ma, non
avendo virtuose armi da potere temporeggiare il nimico, e per questo
non avendo avuto tempo a separarne alcuno, rovinarono. Per che si
vide che il Papa, riavuto ch'egli ebbe le cose sue, si fece loro
amico, e così Spagna: e molto volentieri l'uno e l'altro di
questi due principi arebbero salvato loro lo stato di Lombardia
contro a Francia, per non la fare sì grande in Italia, se gli
avessono potuto. Potevano, dunque, i Viniziani dare parte per
salvare il resto: il che se loro avessono fatto in tempo che paressi
che la non fussi stata necessità, ed innanzi ai moti della
guerra, era savissimo partito; ma in su' moti era vituperoso, e per
avventura di poco profitto. Ma, innanzi a tali moti, pochi in
Vinegia de' cittadini potevano vedere il pericolo, pochissimi vedere
il rimedio, e nessuno consigliarlo. Ma, per tornare al principio di
questo discorso, conchiudo: che così come il Senato romano
ebbe rimedio per la salute della patria contro all'ambizione de'
Tribuni, per essere molti, così arà rimedio qualunque
principe che sia assaltato da molti, qualunque volta ei saprà
con prudenza usare termini convenienti a disgiungerli.
12
Come uno capitano prudente
debbe imporre ogni necessità
di combattere a' suoi soldati,
e, a quegli degli inimici, torla.
Altre volte abbiamo discorso quanto sia utile alle umane azioni la
necessità, ed a quale gloria siano sute condutte da quella;
e, come da alcuni morali filosofi è stato scritto, le mani e
la lingua degli uomini, duoi nobilissimi instrumenti a nobilitarlo,
non arebbero operato perfettamente, né condotte le opere
umane a quella altezza si veggono condotte, se dalla
necessità non fussoro spinte. Sendo conosciuta, adunque,
dagli antichi capitani degli eserciti la virtù di tale
necessità, e quanto per quella gli animi de' soldati
diventavono ostinati al combattere; facevano ogni opera
perché i soldati loro fussero constretti da quella; e,
dall'altra parte, usavono ogni industria perché gli nimici se
ne liberassero: e per questo molte volte apersono al nimico quella
via che loro gli potevano chiudere; ed a' suoi soldati propri
chiusono quella che potevano lasciare aperta. Quello, adunque, che
desidera o che una città si defenda ostinatamente, o che uno
esercito in campagna ostinatamente combatta, debbe, sopra ogni altra
cosa, ingegnarsi di mettere, ne' petti di chi ha a combattere, tale
necessità. Onde uno capitano prudente, che avesse a andare ad
una espugnazione d'una città, debbe misurare la
facilità o la difficultà dello espugnarla, dal
conoscere e considerare quale necessità constringa gli
abitatori di quella a difendersi: e quando vi truovi assai
necessità che gli constringa alla difesa, giudichi la
espugnazione difficile; altrimenti, la giudichi facile. Quinci nasce
che le terre, dopo la rebellione, sono più difficili ad
acquistare, che le non sono nel primo acquisto; perché, nel
principio, non avendo cagione di temere di pena, per non avere
offeso, si arrendono facilmente; ma parendo loro, sendosi dipoi
ribellate, avere offeso, e per questo temendo la pena, diventono
difficili ad essere espugnate. Nasce ancora tale ostinazione da e'
naturali odii che hanno i principi vicini, e le republiche vicine,
l'uno con l'altro: il che procede da ambizione di dominare e gelosia
del loro stato, massimamente se le sono republiche, come interviene
in Toscana; la quale gara e contenzione ha fatto e farà
sempre difficile la espugnazione l'una dell'altra. Pertanto, chi
considera bene i vicini della città di Firenze ed i vicini
della città di Vinegia, non si maraviglierà, come
molti fanno, che Firenze abbia più speso nelle guerre, ed
acquistato meno di Vinegia: perché tutto nasce da non avere
avuto i Viniziani le terre vicine sì ostinate alla difesa,
quanto ha avuto Firenze; per essere state tutte le cittadi finitime
a Vinegia use a vivere sotto uno principe, e non libere; e quegli
che sono consueti a servire, stimono molte volte poco il mutare
padrone, anzi molte volte lo desiderano. Talché Vinegia,
benché abbia avuto i vicini più potenti che Firenze,
per avere trovato le terre meno ostinate, le ha potuto più
tosto vincere, che non ha fatto quella sendo circundata da tutte
città libere.
Debbe adunque uno capitano, per tornare al primo discorso, quando
egli assalta una terra, con ogni diligenza ingegnarsi di levare, a'
difensori di quella, tale necessità, e, per consequenzia,
tale ostinazione; promettendo perdono, se gli hanno paura della
pena; e se gli avessono paura della libertà, mostrare di non
andare contro al comune bene, ma contro a pochi ambiziosi della
città; la quale cosa molte volte ha facilitato le imprese e
le espugnazioni delle terre. E benché simili colori sieno
facilmente conosciuti, e massime dagli uomini prudenti; nondimeno vi
sono spesso ingannati i popoli, i quali, cupidi della presente pace,
chiuggono gli occhi a qualunque altro laccio che sotto le larghe
promesse si tendesse. E per questa via infinite città sono
diventate serve: come intervenne a Firenze ne' prossimi tempi; e
come intervenne a Crasso ed allo esercito suo: il quale, come che
conoscesse le vane promesse de' Parti, le quali erano fatte per
tôrre via la necessità a' suoi soldati del difendersi,
non per tanto non potette tenergli ostinati, accecati dalle offerte
della pace che erano fatte loro da' loro inimici; come si vede
particularmente leggendo la vita di quello. Dico pertanto, che
avendo i Sanniti, fuora delle convenzioni dello accordo, per
l'ambizione di pochi, corso e predato sopra i campi de' confederati
romani; ed avendo dipoi mandati imbasciadori a Roma a chiedere pace,
offerendo di ristituire le cose predate, e di dare prigioni gli
autori de' tumulti e della preda; furono ributtati dai Romani. E
ritornati in Sannio sanza speranza di accordo, Claudio Ponzio,
capitano allora dello esercito de' Sanniti, con una sua notabile
orazione mostrò come i Romani volevono in ogni modo guerra,
e, benché per loro si desiderasse la pace, necessità
gli faceva seguire la guerra dicendo queste parole: «Iustum
est bellum quibus necessarium, et pia arma quibus nisi in armis spes
est»; sopra la quale necessità egli fondò con
gli suoi soldati la speranza della vittoria. E per non avere a
tornare più sopra questa materia, mi pare di addurci quelli
esempli romani che sono più degni di notazione. Era Gaio
Manilio con lo esercito, all'incontro de' Veienti; ed essendo parte
dello esercito veientano entrato dentro agli steccati di Manilio,
corse Manilio con una banda al soccorso di quegli; e perché i
Veienti non potessino salvarsi, occupò tutti gli aditi del
campo; donde veggendosi i Veienti rinchiusi, cominciarono a
combattere con tanta rabbia, che gli ammazzarono Manilio; ed
arebbero tutto il resto de' Romani oppressi, se dalla prudenza d'uno
Tribuno non fusse stato loro aperta la via ad andarsene. Dove si
vede come, mentre la necessità costrinse i Veienti a
combattere, e' combatterono ferocissimamente; ma quando viddero
aperta la via, pensarono più a fuggire che a combattere.
Erano entrati i Volsci e gli Equi con gli eserciti loro ne' confini
romani. Mandossi loro allo incontro i Consoli. Talché, nel
travagliare la zuffa, lo esercito de' Volsci, del quale era capo
Vezio Messio, si trovò, ad un tratto, rinchiuso intra gli
steccati suoi, occupati dai Romani, e l'altro esercito romano; e
veggendo come gli bisognava o morire o farsi la via con il ferro,
disse a' suoi soldati queste parole: «Ite mecum; non murus nec
vallum, armati armatis obstant; virtute pares, quae ultimum ac
maximum telum est, necessitate superiores estis». Sì
che questa necessità è chiamata da Tito Livio
«ultimum ac maximum telum». Cammillo, prudentissimo di
tutti i capitani romani, sendo già dentro nella città
de' Veienti con il suo esercito, per facilitare il pigliare quella,
e tôrre ai nimici una ultima necessità di difendersi,
comandò, in modo che i Veienti udirono, che nessuno
offendessi quegli che fussono disarmati; talché, gittate
l'armi in terra, si prese quella città quasi sanza sangue. Il
quale modo fu dipoi da molti capitani osservato.
13
Dove sia più da confidare,
o in uno buono capitano
che abbia lo esercito debole,
o in uno buono esercito che abbia
il capitano debole.
Essendo diventato Coriolano esule di Roma, se n'andò ai
Volsci; dove contratto uno esercito per vendicarsi contro ai suoi
cittadini, se ne venne a Roma; donde dipoi si partì,
più per la piatà della sua madre, che per le forze de'
Romani. Sopra il quale luogo Tito Livio dice, essersi per questo
conosciuto, come la Republica romana crebbe più per la
virtù de' capitani che de' soldati; considerato come i Volsci
per lo addietro erano stati vinti, e solo poi avevano vinto che
Coriolano fu loro capitano. E benché Livio tenga tale
opinione, nondimeno si vede in molti luoghi della sua istoria la
virtù de' soldati sanza capitano avere fatto maravigliose
pruove, ed essere stati più ordinati e più feroci dopo
la morte de' Consoli loro, che innanzi che morissono: come occorse
nello esercito che i Romani avevano in Ispagna sotto gli Scipioni;
il quale, morti i due capitani, poté, con la virtù
sua, non solamente salvare sé stesso, ma vincere il nimico, e
conservare quella provincia alla Republica. Talché,
discorrendo tutto, si troverrà molti esempli, dove solo la
virtù de' soldati arà vinta la giornata; e molti
altri, dove solo la virtù de' capitani arà fatto il
medesimo effetto: in modo che si può giudicare, l'uno abbia
bisogno dell'altro, e l'altro dell'uno.
Ècci bene da considerare, prima, quale sia più da
temere, o d'uno buono esercito male capitanato, o d'uno buono
capitano accompagnato da cattivo esercito. E seguendo in questo la
opinione di Cesare, si debbe estimare poco l'uno e l'altro.
Perché, andando egli in Ispagna contro a Afranio e Petreio,
che avevano uno ottimo esercito, disse che gli stimava poco,
«quia ibat ad exercitum sine duce», mostrando la
debolezza de' capitani. Al contrario, quando andò in
Tessaglia contro a Pompeio, disse: «Vado ad ducem sine
exercitu».
Puossi considerare un'altra cosa: a quale è più
facile, o ad uno buono capitano fare uno buono esercito, o ad uno
buono esercito fare uno buono capitano. Sopra che dico che tale
questione pare decisa: perché più facilmente molti
buoni troverranno o instruiranno uno, tanto che diventi buono, che
non farà uno molti. Lucullo, quando fu mandato contro a
Mitridate, era al tutto inesperto della guerra; nondimanco quel
buono esercito, dove era assai capi ottimi, lo feciono tosto uno
buono capitano. Armorono i Romani, per difetto di uomini, assai
servi, e gli dieno ad esercitare a Sempronio Gracco, il quale in
poco tempo fece uno buon esercito. Pelopida ed Epaminonda, come
altrove dicemo, poi che gli ebbono tratta Tebe loro patria della
servitù degli Spartani, in poco tempo fecero, de' contadini
tebani, soldati ottimi, che poterono non solamente sostenere la
milizia spartana ma vincerla. Sì che la cosa è pari,
perché l'uno buono può trovare l'altro. Nondimeno uno
esercito buono sanza capo buono suole diventare insolente e
pericoloso; come diventò lo esercito di Macedonia dopo la
morte di Alessandro, e come erano i soldati veterani nelle guerre
civili. Tanto che io credo che sia più da confidare assai in
uno capitano che abbi tempo ad instruire uomini e commodità
di armargli, che in uno esercito insolente con uno capo tumultuario
fatto da lui. Però è da addoppiare la gloria e la
laude a quelli capitani che, non solamente hanno avuto a vincere il
nimico, ma, prima che venghino alle mani con quello, è
convenuto loro instruire lo esercito loro, e farlo buono:
perché in questi si mostra doppia virtù, e tanto rada,
che, se tale ferità fosse stata data a molti, ne sarebbono
stimati e riputati meno assai che non sono.
14
Le invenzioni nuove,
che appariscono nel mezzo della zuffa,
e le voci nuove che si odino,
quali effetti facciano.
Di quanto momento sia ne' conflitti e nelle zuffe uno nuovo
accidente che nasca per cosa che di nuovo si vegga o oda, si
dimostra in assai luoghi: e massime per questo esemplo che occorse
nella zuffa che i Romani fecero con i Volsci: dove Quinzio, veggendo
inclinare uno de' corni del suo esercito, cominciò a gridare
forte, che gli stessono saldi perché l'altro corno dello
esercito era vittorioso: con la quale parola avendo dato animo ai
suoi e sbigottimento a' nimici, vinse. E se tali voci in uno
esercito bene ordinato fanno effetti grandi, in uno tumultuario e
male ordinato gli fanno grandissimi, perché il tutto è
mosso da simile vento. Io ne voglio addurre uno esemplo notabile,
occorso ne' tempi nostri. Era la città di Perugia, pochi anni
sono, divisa in due parti, Oddi e Baglioni. Questi regnavano; quelli
altri erano esuli: i quali avendo, mediante loro amici, ragunato
esercito, e ridottisi in alcuna loro terra propinqua a Perugia, con
il favore della parte, una notte entrarono in quella città,
e, sanza essere iscoperti, se ne venivano per pigliare la piazza. E
perché quella città in su tutti i canti delle vie ha
catene che la tengono sbarrata, avevano le genti oddesche, davanti,
uno che con una mazza di ferro rompea i serrami di quelle,
acciocché i cavagli potessero passare; e restandogli a
rompere solo quella che sboccava in piazza, ed essendo già
levato il romore all'armi, ed essendo colui che rompeva oppresso
dalla turba che gli veniva dietro, né potendo per questo
alzare bene le braccia per rompere; per potersi maneggiare, gli
venne detto: - Fatevi indietro! - la quale voce andando di grado in
grado dicendo «addietro!», cominciò a fare
fuggire gli ultimi, e di mano in mano gli altri, con tanta furia,
che per loro medesimi si ruppono: e così restò vano il
disegno degli Oddi, per cagione di sì debole accidente.
Dove è da considerare che, non tanto gli ordini in uno
esercito sono necessari per potere ordinatamente combattere quanto
perché ogni minimo accidenti non ti disordini. Perché,
non per altro le moltitudini popolari sono disutili per la guerra,
se non perché ogni romore ogni voce, ogni strepito, gli
altera e fagli fuggire. E però uno buono capitano in tra gli
altri suoi ordini debbe ordinare chi sono quegli che abbino a
pigliare la sua voce e rimetterla ad altri, ed assuefare gli suoi
soldati che non credino se non a quelli; e gli suoi capitani, che
non dichino se non quel che da lui è commesso; perché,
non osservata bene questa parte, si è visto molte volte avere
fatti disordini grandissimi.
Quanto al vedere cose nuove, debbe ogni capitano ingegnarsi di farne
apparire alcuna, mentre che gli eserciti sono alle mani, che dia
animo a' suoi e tolgalo agli inimici; perché, intra gli
accidenti che ti diano la vittoria, questo è efficacissimo.
Di che se ne può addurre per testimone Caio Sulpizio,
dittatore romano; il quale venendo a giornata con i Franciosi,
armò tutti i saccomanni e gente vile del campo; e quegli
fatti salire sopra i muli ed altri somieri con armi ed insegne da
parere gente a cavallo, gli messe sotto le insegne, dietro ad uno
colle, e comandò che, ad uno segno dato, nel tempo che la
zuffa fosse più gagliarda, si scoprissono e mostrassinsi a'
nimici. La quale cosa così ordinata e fatta, dette tanto
terrore ai Franciosi, che perderono la giornata. E però uno
buono capitano debbe fare due cose: l'una, di vedere, con alcune di
queste nuove invenzioni, di sbigottire il nimico; l'altra, di stare
preparato che, essendo fatte dal nimico contro di lui, le possa
scoprire, e fargliene tornare vane. Come fece il re d'India a
Semiramis; la quale, veggendo come quel re aveva buono numero di
elefanti, per isbigottirlo, e per mostrargli che ancora essa n'era
copiosa, ne formò assai con cuoia di bufoli e di vacche, e,
quegli messi sopra i cammegli, gli mandò davanti; ma
conosciuto da il re lo inganno, le tornò quel suo disegno,
non solamente vano, ma dannoso. Era Mamerco, dittatore, contro ai
Fidenati, i quali, per isbigottire lo esercito romano, ordinarono
che, in su l'ardore della zuffa, uscisse fuori di Fidene numero di
soldati con fuochi in su le lance, acciocché i Romani,
occupati dalla novità della cosa, rompessono intra loro gli
ordini. Sopra che è da notare, che, quando tali invenzioni
hanno più del vero che del fitto, si può bene allora
rappresentarle agli uomini, perché, avendo assai del
gagliardo, non si può scoprire così presto la
debolezza loro: ma quando le hanno più del fitto che del
vero, è bene, o non le fare o, faccendole, tenerle discosto,
di qualità che le non possino essere così presto
scoperte; come fece Caio Sulpizio de' mulattieri. Perché,
quando vi è dentro debolezza, appressandosi, le si scuoprono
tosto, e ti fanno danno, e non favore; come fero gli elefanti a
Semiramis, e ai Fidenati i fuochi: i quali benché nel
principio turbassono un poco lo esercito, nondimeno, come e'
sopravenne il Dittatore, e cominciò a gridargli, dicendo che
non si vergognavano a fuggire il fumo come le pecchie, e che
dovessono rivoltarsi a loro; gridando: «Suis flammis delete
Fidenas, quas vestris beneficiis placare non potuistis»;
tornò quello trovato ai Fidenati inutile, e restarono
perditori della zuffa.
15
Che uno e non molti
sieno preposti ad uno esercito,
e come i più comandatori offendono.
Essendosi ribellati i Fidenati, ed avendo morto quella colonia che i
Romani avevano mandata in Fidene, crearono i Romani, per rimediare a
questo insulto, quattro Tribuni con potestà consolare de'
quali lasciatone uno alla guardia di Roma, ne mandarono tre contro
ai Fidenati ed i Veienti: i quali, per essere divisi infra loro e
disuniti, ne riportarono disonore, e non danno: perché, del
disonore, ne furono cagione loro; del non ricevere danno, ne fu
cagione la virtù de' soldati. Donde i Romani, veggendo questo
disordine, ricorsono alla creazione del Dittatore, acciocché
un solo riordinasse quello che tre avevano disordinato. Donde si
conosce la inutilità di molti comandadori in uno esercito, o
in una terra che si abbia a difendere; e Tito Livio non lo
può più chiaramente dire che con le infrascritte
parole: «Tres Tribuni potestate consulari documento fuere,
quam plurium imperium bello inutile esset, tendendo ad sua quisque
consilia, cum alii aliud videretur, aperuerunt ad occasionem locum
hosti».
E benché questo sia assai esemplo a provare il disordine che
fanno nella guerra i più comandatori, ne voglio addurre
alcuno altro, e moderno ed antico, per maggiore dichiarazione della
cosa.
Nel 1500, dopo la ripresa che fece il re di Francia Luigi XII, di
Milano, mandò le sue genti a Pisa per ristituirla ai
Fiorentini; dove furono mandati commessari Giovambatista Ridolfi e
Luca di Antonio degli Albizi. E perché Giovambatista era uomo
di riputazione, e di più tempo, Luca al tutto lasciava
governare ogni cosa a lui: e s'egli non dimostrava la sua ambizione
con opporsegli, la dimostrava col tacere, e con lo straccurare e
vilipendere ogni cosa, in modo che non aiutava le azioni del campo
né con l'opere né con il consiglio, come se fusse
stato uomo di nessuno momento. Ma si vide poi tutto il contrario;
quando Giovambatista, per certo accidente seguito, se n'ebbe a
tornare a Firenze; dove Luca, rimasto solo, dimostrò quanto
con l'animo, con la industria e col consiglio, valeva: le quali
tutte cose, mentre vi fu la compagnia, erano perdute. Voglio di
nuovo addurre, in confermazione di questo, parole di Tito Livio; il
quale, referendo come, essendo mandato da' Romani contro agli Equi
Quinzio ed Agrippa suo collega, Agrippa volle che tutta
l'amministrazione della guerra fosse appresso a Quinzio, e' dice:
«Saluberrimum in administratione magnarum rerum est, summam
imperii apud unum esse». Il che è contrario a quello
che oggi fanno queste nostre republiche e principi di mandare ne'
luoghi, per amministrargli meglio, più d'uno commessario e
più d'uno capo: il che fa una inestimabile confusione. E se
si cercassi le cagioni della rovina degli eserciti italiani e
franciosi ne' nostri tempi, si troveria la potissima essere stata
questa. E puossi conchiudere veramente, come egli è meglio
mandare in una ispedizione uno uomo solo di comunale prudenzia, che
due valentissimi uomini insieme con la medesima autorità.
16
Che la vera virtù si va
ne' tempi difficili, a trovare;
e ne' tempi facili, non gli uomini virtuosi,
ma quegli che per ricchezze
o per parentado hanno più grazia.
Egli fu sempre, e sempre sarà, che gli uomini grandi e rari
in una republica, ne' tempi pacifichi, sono negletti; perché,
per la invidia che si ha tirato dietro la riputazione che la
virtù d'essi ha dato loro, si truova in tali tempi assai
cittadini che vogliono, non che essere loro equali, ma essere loro
superiori. E di questo ne è uno luogo buono in Tucidide,
istorico greco; il quale mostra come, sendo la republica ateniese
rimasa superiore in la guerra peloponnesiaca, ed avendo frenato
l'orgoglio degli Spartani, e quasi sottomessa tutta l'altra Grecia,
salse in tanta riputazione che la disegnò di occupare la
Sicilia. Venne questa impresa in disputa in Atene. Alcibiade e
qualche altro cittadino consigliavano che la si facesse, come quelli
che, pensando poco al bene publico, pensavono all'onore loro,
disegnando essere capi di tale impresa. Ma Nicia, che era il primo
intra i reputati di Atene, la dissuadeva; e la maggiore ragione che,
nel concionare al popolo, perché gli fusse prestato fede,
adducesse, fu questa: che, consigliando esso che non si facesse
questa guerra, e' consigliava cosa che non faceva per lui;
perché, stando Atene in pace, sapeva come vi era infiniti
cittadini che gli volevano andare innanzi; ma, faccendosi guerra,
sapeva che nessuno cittadino gli sarebbe superiore o equale.
Vedesi, pertanto, adunque, come nelle republiche è questo
disordine, di fare poca stima de' valenti uomini, ne' tempi quieti.
La quale cosa gli fa indegnare in due modi: l'uno per vedersi
mancare del grado loro; l'altro, per vedersi fare compagni e
superiori uomini indegni e di manco sofficienza di loro. Il quale
disordine nelle republiche ha causato di molte rovine; perché
quegli cittadini che immeritamente si veggono disprezzare, e
conoscono che e' ne sono cagione i tempi facili e non pericolosi,
s'ingegnano di turbargli, movendo nuove guerre in pregiudicio della
republica. E pensando quali potessono essere e' rimedi, ce ne truovo
due: l'uno, mantenere i cittadini poveri, acciocché con le
ricchezze sanza virtù e' non potessino corrompere né
loro né altri, l'altro, di ordinarsi in modo alla guerra, che
sempre si potesse fare guerra, e sempre si avesse bisogno di
cittadini riputati, come e' Romani ne' suoi primi tempi.
Perché, tenendo fuori quella città sempre eserciti,
sempre vi era luogo alla virtù degli uomini; né si
poteva tôrre il grado a uno che lo meritasse, e darlo ad uno
che non lo meritasse: perché, se pure lo faceva qualche
volta, per errore o per provare, ne seguiva tosto tanto suo
disordine e pericolo, che la ritornava subito nella vera via. Ma le
altre republiche, che non sono ordinate come quella, e che fanno
solo guerra quando la necessità le costringe, non si possono
difendere da tale inconveniente: anzi sempre v'incorreranno dentro;
e sempre ne nascerà disordine, quando quello cittadino,
negletto e virtuoso, sia vendicativo, ed abbia nella città
qualche riputazione e aderenzia. E la città di Roma uno tempo
fece difesa; ma a quella ancora, poiché l'ebbe vinto
Cartagine ed Antioco (come altrove si disse), non temendo più
le guerre, pareva potere commettere gli eserciti a qualunque la
voleva; non riguardando tanto alla virtù, quanto alle altre
qualità che gli dessono grazia nel popolo. Perché si
vide che Paulo Emilio ebbe più volte la ripulsa nel
consolato, né fu prima fatto consolo che surgesse la guerra
macedonica; la quale giudicandosi pericolosa, di consenso di tutta
la città fu commessa a lui.
Sendo nella nostra città di Firenze seguite dopo il 1494 di
molte guerre, ed avendo fatto i cittadini fiorentini tutti una
cattiva pruova, si riscontrò a sorte la città in uno
che mostrò come si aveva a comandare agli eserciti; il quale
fu Antonio Giacomini. E mentre che si ebbe a fare guerre pericolose,
tutta l'ambizione degli altri cittadini cessò, e nella
elezione del commessario e capo degli eserciti non aveva competitore
alcuno; ma come si ebbe a fare una guerra dove non era alcuno
dubbio, ed assai onore e grado, e' vi trovò tanti
competitori, che, avendosi ad eleggere tre commessari per
campeggiare Pisa, e' fu lasciato indietro. E benché e' non si
vedesse evidentemente che male ne seguisse al publico per non vi
avere mandato Antonio, nondimeno se ne potette fare facilissima
coniettura; perché, non avendo più i Pisani da
defendersi né da vivere, se vi fusse stato Antonio, sarebbero
stati tanto innanzi stretti, che si sarebbero dati a discrezione de'
Fiorentini. Ma, sendo loro assediati da capi che non sapevano
né stringergli né sforzargli, furono tanto
intrattenuti che la città di Firenze gli comperò, dove
la gli poteva avere a forza. Convenne che tale sdegno potesse assai
in Antonio; e bisognava ch'e' fussi bene paziente e buono, a non
disiderare di vendicarsene, o con la rovina della città,
potendo, o con l'ingiuria di alcuno particulare cittadino. Da che si
debbe una republica guardare; come nel seguente capitolo si
discorrerà.
17
Che non si offenda uno,
e poi quel medesimo si mandi
in amministrazione e governo
d'importanza.
Debbe una republica assai considerare di non preporre alcuno ad
alcuna importante amministrazione, al quale sia stato fatto da altri
alcuna notabile ingiuria. Claudio Nerone, il quale si partì
dallo esercito che lui aveva a fronte ad Annibale, e con parte
d'esso ne andò nella Marca, a trovare l'altro Consolo per
combattere con Asdrubale avanti ch'e' si congiugnesse con Annibale,
s'era trovato per lo addietro in Ispagna a fronte di Asdrubale, ed
avendolo serrato in luogo con lo esercito, che bisognava o che
Asdrubale combattesse con suo disavvantaggio o si morisse di fame,
fu da Asdrubale astutamente tanto intrattenuto con certe pratiche
d'accordo, che gli uscì di sotto, e tolsegli quella occasione
di oppressarlo. La quale cosa, saputa a Roma, gli dette carico
grande appresso a il Senato ed al popolo; e di lui fu parlato
inonestamente per tutta quella città, non sanza suo grande
disonore e disdegno. Ma, sendo poi fatto Consolo, e mandato allo
incontro di Annibale, prese il soprascritto partito, il quale fu
pericolosissimo, talmente che Roma stette tutta dubbia e sollevata
infino a tanto che vennono le nuove della rotta di Asdrubale. Ed
essendo poi domandato Claudio, per quale cagione avesse preso
sì pericoloso partito, dove sanza una estrema
necessità egli aveva giucato quasi la libertà di Roma;
rispose che lo aveva fatto perché sapeva che, se gli
riusciva, riacquistava quella gloria che si aveva perduta in
Ispagna; e se non gli riusciva, e che questo suo partito avesse
avuto contrario fine, sapeva come e' si vendicava contro a quella
città ed a quegli cittadini che lo avevano tanto ingratamente
ed indiscretamente offeso. E quando queste passioni di tali offese
possono tanto in uno cittadino romano, e in quegli tempi che Roma
ancora era incorrotta, si debbe pensare quanto elle possano in uno
cittadino d'un'altra città che non sia fatta come era allora
quella. E perché a simili disordini che nascano nelle
republiche non si può dare certo rimedio, ne seguita che gli
è impossibile ordinare una republica perpetua, perché
per mille inopinate vie si causa la sua rovina.
18
Nessuna cosa è più degna d'uno capitano,
che presentire i partiti del nimico.
Diceva Epaminonda tebano, nessuna cosa essere più necessaria
e più utile ad uno capitano, che conoscere le diliberazioni
e' partiti del nimico. E perché tale cognizione è
difficile, merita tanto più laude quello che adopera in modo
che le coniettura. E non tanto è difficile intendere i
disegni del nimico, ch'egli è qualche volta difficile
intendere le azioni sue; e non tanto le azioni che per lui si fanno
discosto, quanto le presenti e le propinque. Perché molte
volte è accaduto che, sendo durata una zuffa infino a notte,
chi ha vinto crede avere perduto, e chi ha perduto crede avere
vinto. Il quale errore ha fatto diliberare cose contrarie alla
salute di colui che ha diliberato: come intervenne a Bruto e Cassio,
i quali per questo errore perderono la guerra; perché, avendo
vinto Bruto dal corno suo, credette Cassio, che aveva perduto, che
tutto lo esercito fusse rotto; e disperatosi, per questo errore,
della salute, ammazzò sé stesso. Ne' nostri tempi,
nella giornata che fece in Lombardia, a Santa Cecilia, Francesco re
di Francia, con i Svizzeri, sopravvenendo la notte, credettero,
quella parte de' Svizzeri che erano rimasti interi, avere vinto, non
sappiendo di quegli che erano stati rotti e morti: il quale errore
fece che loro medesimi non si salvarono, aspettando di ricombattere
la mattina con tanto loro disavantaggio; e fecero anche errare, e
per tale errore presso che rovinare, lo esercito del Papa e di
Ispagna, il quale, in su la falsa nuova della vittoria, passò
il Po, e, se procedeva troppo innanzi, restava prigione de'
Franciosi che erano vittoriosi.
Questo simile errore occorse ne' campi romani e in quegli degli
Equi. Dove, sendo Sempronio consolo con lo esercito allo incontro
degl'inimici, ed appiccandosi la zuffa, si travagliò quella
giornata infino a sera, con varia fortuna dell'uno e dell'altro: e
venuta la notte, sendo l'uno e l'altro esercito mezzo rotto, non
ritornò alcuno di loro ne' suoi alloggiamenti; anzi ciascuno
si ritrasse ne' prossimi colli, dove credevano essere più
sicuri; e lo esercito romano si divise in due parti: l'una ne
andò col Console; l'altra, con uno Tempanio centurione, per
la virtù del quale lo esercito romano quel giorno non era
stato rotto interamente. Venuta la mattina, il Consolo romano, sanza
intendere altro de' nimici, si tirò verso Roma; il simile
fece lo esercito degli Equi: perché ciascuno di questi
credeva che il nimico avesse vinto, e però ciascuno si
ritrasse sanza curare di lasciare i suoi alloggiamenti in preda.
Accadde che Tempanio, ch'era con il resto dello esercito romano,
ritirandosi ancora esso, intese, da certi feriti degli Equi, come i
capitani loro s'erano partiti, ed avevano abbandonati gli
alloggiamenti: donde che egli, in su questa nuova, se n'entrò
negli alloggiamenti romani, e salvogli; e dipoi saccheggiò
quegli degli Equi, e se ne tornò a Roma vittorioso. La quale
vittoria come si vede, consisté solo in chi prima di loro
intese i disordini del nimico. Dove si debbe notare, come e'
può spesso occorrere che due eserciti, che siano a fronte
l'uno dell'altro, siano nel medesimo disordine, e patischino le
medesime necessità; e che quello resti poi vincitore che
è il primo ad intendere le necessità dello altro.
Io voglio dare di questo uno esemplo domestico e moderno. Nel 1498,
quando i Fiorentini avevano uno esercito grosso in quel di Pisa, e
stringevano forte quella città; della quale avendo i
Viniziani presa la protezione, non veggendo altro modo a salvarla,
diliberarono di divertire quella guerra, assaltando da un'altra
banda il dominio di Firenze; e, fatto uno esercito potente,
entrarono per la Val di Lamona, ed occuparono il borgo di Marradi,
ed assediarono la rocca di Castiglione, che è in sul colle di
sopra. Il che sentendo i Fiorentini, diliberarono soccorrere
Marradi, e non diminuire le forze avevano in quel di Pisa; e fatte
nuove fanterie, ed ordinate nuove genti a cavallo, le mandarono a
quella volta: delle quali ne furono capi Iacopo IV d'Appiano,
signore di Piombino, ed il conte Rinuccio da Marciano. Sendosi
adunque, condotte queste genti in su il colle sopra Marradi, si
levarono i nimici d'intorno a Castiglione, e ridussersi tutti nel
borgo. Ed essendo stato l'uno e l'altro di questi due eserciti a
fronte qualche giorno, pativa l'uno e l'altro assai e di vettovaglie
e d'ogni altra cosa necessaria: e non avendo ardire l'uno
d'affrontare l'altro, né sappiendo i disordini l'uno
dell'altro, deliberarono in una sera medesima l'uno e l'altro di
levare gli alloggiamenti la mattina vegnente, e ritirarsi in dietro;
il Viniziano verso Bersighella e Faenza, il Fiorentino verso
Casaglia e il Mugello. Venuta adunque la mattina, ed avendo ciascuno
de' campi incominciato ad avviare i suoi impedimenti; a caso una
donna si partì del borgo di Marradi, e venne verso il campo
fiorentino, sicura per la vecchiezza e per la povertà,
desiderosa di vedere certi suoi che erano in quel campo: dalla quale
intendendo i capitani delle genti fiorentine, come il campo
viniziano partiva, si fecero, in su questa nuova, gagliardi; e
mutato consiglio, come se gli avessono disalloggiati i nimici, ne
andarono sopra di loro, e scrissero a Firenze avergli ributtati e
vinta la guerra. La quale vittoria non nacque da altro che dallo
avere inteso prima dei nimici come e' se n'andavano: la quale
notizia, se fusse prima venuta dall'altra parte, arebbe fatto contro
a' nostri il medesimo effetto.
19
Se a reggere una moltitudine
è più necessario l'ossequio che la pena.
Era la Republica romana sollevata per le inimicizie de' nobili e de'
plebei: nondimeno, soprastando loro la guerra, mandarono fuori con
gli eserciti Quinzio ed Appio Claudio. Appio, per essere crudele e
rozzo nel comandare, fu male ubidito da' suoi, tanto che quasi rotto
si fuggì della sua provincia; Quinzio, per essere benigno e
di umano ingegno ebbe i suoi soldati ubbidienti, e riportonne la
vittoria. Donde e' pare che e' sia meglio, a governare una
moltitudine, essere umano che superbo, pietoso che crudele.
Nondimeno, Cornelio Tacito, al quale molti altri scrittori
acconsentano in una sua sentenza conchiude il contrario, quando ait:
«In multitudine regenda plus poena quam obsequium
valet». E considerando come si possa salvare l'una e l'altra
di queste opinioni dico: o che tu hai a reggere uomini che ti sono
per l'ordinario compagni, o uomini che ti sono sempre suggetti.
Quando ti sono compagni, non si può interamente usare la
pena, né quella severità di che ragiona Cornelio; e
perché la plebe romana aveva in Roma equale imperio con la
Nobilità, non poteva uno, che ne diventava principe a tempo,
con crudeltà e rozzezza maneggiarla. E molte volte si vide
che migliore frutto fecero i capitani romani che si facevano amare
dagli eserciti, e che con ossequio gli maneggiavano, che quegli che
si facevano istraordinariamente temere; se già e' non erano
accompagnati da una eccessiva virtù, come fu Manlio Torquato.
Ma chi comanda a' sudditi, de' quali ragiona Cornelio,
acciocché non doventino insolenti, e che per troppa tua
facilità non ti calpestino, debbe volgersi più tosto
alla pena che all'ossequio. Ma questa anche debbe essere in modo
moderata, che si fugga l'odio; perché farsi odiare non
tornò mai bene ad alcuno principe. Il modo del fuggirlo
è lasciare stare la roba de' sudditi: perché del
sangue, quando non vi sia sotto ascosa la rapina, nessuno principe
ne è desideroso, se non necessitato, e questa
necessità viene rade volte; ma, sendovi mescolata la rapina
viene sempre, né mancano mai le cagioni ed il desiderio di
spargerlo; come in altro trattato sopra questa materia si è
largamente discorso. Meritò adunque, più laude Quinzio
che Appio, e la sentenza di Cornelio, dentro ai termini suoi, e non
ne' casi osservati di Appio, merita d'essere approvata.
E perché noi abbiamo parlato della pena e dell'ossequio non
mi pare superfluo mostrare, come uno esemplo di umanità
poté appresso i Falisci più che l'armi.
20
Uno esemplo di umanità
appresso i Falisci
potette più che ogni forza romana.
Essendo Cammillo con lo esercito intorno alla città de'
Falisci, e quella assediando, uno maestro di scuola de' più
nobili fanciulli di quella città, pensando di gratificarsi
Cammillo ed il popolo romano, sotto colore di esercizio uscendo con
quegli fuori della terra, gli condusse tutti nel campo innanzi a
Cammillo, e presentandogli, disse, come, mediante loro quella terra
si darebbe nelle sue mani. Il quale presente non solamente non fu
accettato da Cammillo; ma, fatto spogliare quel maestro, e legatogli
le mani di dietro, e dato a ciascuno di quegli fanciulli una verga
in mano, lo fece da quegli con di molte battiture accompagnare nella
terra. La quale cosa intesa da quegli cittadini, piacque tanto loro
la umanità ed integrità di Cammillo, che, sanza volere
più difendersi, diliberarono di darli la terra. Dove è
da considerare, con questo vero esemplo, quanto qualche volta possa
più negli animi degli uomini uno atto umano e pieno di
carità, che uno atto feroce e violento; e come molte volte
quelle provincie e quelle città che le armi, gl'instrumenti
bellici ed ogni altra umana forza non ha potuto aprire, uno esemplo
di umanità e di piatà, di castità o di
liberalità, ha aperte. Di che ne sono nelle istorie, oltre a
questo, molti altri esempli. E vedesi come l'armi romane non
potevano cacciare Pirro d'Italia, e ne lo cacciò la
liberalità di Fabrizio, quando gli manifestò l'offerta
che aveva fatta ai Romani quello suo familiare, di avvelenarlo.
Vedesi ancora, come a Scipione Affricano non dette tanta riputazione
in Ispagna la espugnazione di Cartagine Nuova, quanto gli dette
quello esemplo di castità, di avere renduto la moglie,
giovane, bella, ed intatta al suo marito; la fama della quale azione
gli fece amica tutta la Ispagna. Vedesi ancora, questa parte quanto
la sia desiderata da' popoli negli uomini grandi, e quanto sia
laudata dagli scrittori; e da quegli che descrivano la vita de'
principi, e da quegli che ordinano come ei debbano vivere. Intra i
quali Senofonte si affatica assai in dimostrare quanti onori, quante
vittorie, quanta buona fama arrecasse a Ciro lo essere umano ed
affabile, e non dare alcuno esemplo di sé, né di
superbo, né di crudele, né di lussurioso né di
nessuno altro vizio che macchi la vita degli uomini. Pure nondimeno,
veggendo Annibale, con modi contrari a questi, avere conseguito gran
fama e gran vittorie, mi pare da discorrere, nel seguente capitolo,
donde questo nasca.
21
Donde nacque che Annibale,
con diverso modo di procedere
da Scipione
fece quelli medesimi effetti in Italia
che quello in Ispagna.
Io estimo che alcuni si potrebbono maravigliare veggendo come
qualche capitano, nonostante ch'egli abbia tenuto contraria vita,
abbia nondimeno fatti simili effetti a coloro che sono vissuti nel
modo soprascritto: talché pare che la cagione delle vittorie
non dependa dalle predette cause; anzi pare che quelli modi non ti
rechino né più forza né più fortuna,
potendosi per contrari modi acquistare gloria e riputazione. E per
non mi partire dagli uomini soprascritti, e per chiarire meglio
quello che io ho voluto dire, dico come e' si vede Scipione entrare
in Ispagna, e con quella sua umanità e piatà subito
farsi amica quella provincia, ed adorare ed ammirare da' popoli.
Vedesi, allo incontro, entrare Annibale in Italia, e con modi tutti
contrari, cioè con crudeltà, violenza e rapina ed ogni
ragione infideltà, fare il medesimo effetto che aveva fatto
Scipione in Ispagna; perché, a Annibale, si ribellarono tutte
le città d'Italia, tutti i popoli lo seguirono.
E pensando donde questa cosa possa nascere, ci si vede dentro
più ragioni. La prima è, che gli uomini sono
desiderosi di cose nuove; in tanto che così disiderano il
più delle volte novità quegli che stanno bene, come
quegli che stanno male: perché, come altra volta si disse, ed
è il vero, gli uomini si stuccono nel bene, e nel male si
affliggano. Fa, adunque, questo desiderio aprire le porte a ciascuno
che in una provincia si fa capo d'una innovazione; e s'egli è
forestiero, gli corrono dietro; s'egli è provinciale, gli
sono intorno, augumentanlo e favorisconlo: talmenteché, in
qualunque modo elli proceda, gli riesce il fare progressi grandi in
quegli luoghi. Oltre a questo, gli uomini sono spinti da due cose
principali; o dallo amore, o dal timore: talché, così
gli comanda chi si fa amare, come lui che si fa temere; anzi, il
più delle volte è più seguito e più
ubbidito chi si fa temere che chi si fa amare.
Importa, pertanto, poco ad uno capitano, per qualunque di queste vie
e' si cammini, pure che sia uomo virtuoso, e che quella virtù
lo faccia riputato intra gli uomini. Perché, quando la
è grande, come la fu in Annibale ed in Scipione, ella
cancella tutti quegli errori che si fanno per farsi troppo amare o
per farsi troppo temere. Perché dall'uno e dall'altro di
questi due modi possono nascere inconvenienti grandi, ed atti a fare
rovinare uno principe: perché colui che troppo desidera
essere amato, ogni poco che si parte dalla vera via, diventa
disprezzabile: quell'altro che desidera troppo di essere temuto,
ogni poco ch'egli eccede il modo, diventa odioso. E tenere la via
del mezzo non si può appunto, perché la nostra natura
non ce lo consente: ma è necessario queste cose che eccedono
mitigare con una eccessiva virtù, come faceva Annibale e
Scipione. Nondimeno si vide come l'uno e l'altro furono offesi da
questi loro modi di vivere, e così furono esaltati.
La esaltazione di tutti a due si è detta. L'offesa, quanto a
Scipione, fu che gli suoi soldati in Ispagna se gli ribellarono,
insieme con parte de' suoi amici: la quale cosa non nacque da altro
che da non lo temere; perché gli uomini sono tanto inquieti,
che, ogni poco di porta che si apra loro all'ambizione, dimenticano
subito ogni amore che gli avessero posto al principe per la
umanità sua; come fecero i soldati ed amici predetti: tanto
che Scipione, per rimediare a questo inconveniente, fu costretto
usare parte di quella crudeltà che elli aveva fuggita. Quanto
ad Annibale, non ci è esemplo alcuno particulare, dove quella
sua crudeltà e poca fede gli nocesse: ma si può bene
presupporre che Napoli, e molte altre terre che stettero in fede del
popolo romano, stessero per paura di quella. Viddesi bene questo che
quel suo modo di vivere impio, lo fece più odioso al popolo
romano, che alcuno altro inimico che avesse mai quella Republica: in
modo che, dove a Pirro mentre che egli era con lo esercito in
Italia, manifestarono quello che lo voleva avvelenare, ad Annibale
mai, ancora che disarmato e disperso, perdonarono, tanto che lo
fecioro morire. Nacquene, adunque, ad Annibale, per essere tenuto
impio e rompitore di fede e crudele, queste incommodità; ma
gliene risultò allo incontro una commodità
grandissima, la quale è ammirata da tutti gli scrittori: che,
nel suo esercito, ancoraché composto di varie generazioni di
uomini, non nacque mai alcuna dissensione, né infra loro
medesimi, né contro di lui. Il che non potette dirivare da
altro, che dal terrore che nasceva dalla persona sua: il quale era
tanto grande, mescolato con la riputazione che gli dava la sua
virtù, che teneva i suoi soldati quieti ed uniti. Conchiudo,
dunque, come e' non importa molto in quale modo uno capitano si
proceda, pure che in esso sia virtù grande che condisca bene
l'uno e l'altro modo di vivere: perché, come è detto,
nell'uno e nell'altro è difetto e pericolo, quando da una
virtù istraordinaria non sia corretto. E se Annibale e
Scipione, l'uno con cose laudabili, l'altro con detestabili, feciono
il medesimo effetto; non mi pare da lasciare indietro il discorrere
ancora di due cittadini romani, che conseguirono con diversi modi,
ma tutti a due laudabili, una medesima gloria.
22
Come la durezza di Manlio Torquato
e la comità di Valerio Corvino
acquistò a ciascuno la medesima gloria.
E' furno in Roma in uno medesimo tempo due capitani eccellenti,
Manlio Torquato e Valerio Corvino; i quali, di pari virtù, di
pari trionfi e gloria, vissono in Roma, e ciascuno di loro, in
quanto si apparteneva al nimico, con pari virtù
l'acquistarono, ma quanto si apparteneva agli eserciti ed
agl'intrattenimenti de' soldati, diversissimamente procederono:
perché Manlio con ogni generazione di severità sanza
intermettere a' suoi soldati o fatica o pena, gli comandava:
Valerio, dall'altra parte, con ogni modo e termine umano, e pieno di
una familiare domestichezza, gl'intratteneva. Per che si vide, che,
per avere l'ubbidienza de' soldati, l'uno ammazzò il
figliuolo, e l'altro non offese mai alcuno. Nondimeno, in tanta
diversità di procedere, ciascuno fece il medesimo frutto, e
contro a' nimici ed in favore della republica e suo. Perché
nessuno soldato non mai o detrattò la zuffa o si
ribellò da loro o fu, in alcuna parte, discrepante dalla
voglia di quegli; quantunque gl'imperi di Manlio fussero sì
aspri, che tutti gli altri imperi che eccedevano il modo, erano
chiamati «manliana imperia». Dove è da
considerare, prima, donde nacque che Manlio fu costretto procedere
sì rigidamente; l'altro, donde avvenne che Valerio potette
procedere sì umanamente l'altro, quale cagione fe' che questi
diversi modi facessero il medesimo effetto; ed in ultimo, quale sia
di loro meglio, e, imitare, più utile. Se alcuno considera
bene la natura di Manlio d'allora che Tito Livio ne comincia a fare
menzione, lo vedrà uomo fortissimo, pietoso verso il padre e
verso la patria, e reverentissimo a' suoi maggiori. Queste cose si
conoscono dalla morte di quel Francioso, dalla difesa del padre
contro al Tribuno; e come, avanti ch'egli andasse alla zuffa del
Francioso, e' n'andò al Consolo con queste parole:
«Iniussu tuo adversus hostem nunquam pugnabo, non si certam
victoriam videam». Venendo, dunque, un uomo così fatto
a grado che comandi, desidera di trovare tutti gli uomini simili a
sé; e l'animo suo forte gli fa comandare cose forti; e quel
medesimo, comandate che le sono, vuole si osservino. Ed è una
regola verissima, che, quando si comanda cose aspre, conviene con
asprezza farle osservare; altrimenti, te ne troverresti ingannato.
Dove è da notare, che a volere essere ubbidito, è
necessario saper comandare: e coloro sanno comandare, che fanno
comparazione dalle qualità loro a quelle di chi ha ad
ubbidire; e quando vi veggono proporzione, allora comandino; quando
sproporzione, se ne astenghino.
E però diceva un uomo prudente, che, a tenere una republica,
con violenza, conveniva fusse proporzione da chi sforzava a quel che
era sforzato. E qualunque volta questa proporzione vi era, si poteva
credere che quella violenza fusse durabile; ma quando il violentato
fusse più forte che il violentante, si poteva dubitare che
ogni giorno quella violenza cessasse.
Ma tornando al discorso nostro, dico che, a comandare le cose forti,
conviene essere forte; e quello che è di questa fortezza e
che le comanda, non può poi con dolcezza farle osservare. Ma
chi non è di questa fortezza d'animo, si debbe guardare
dagl'imperi istraordinari, e negli ordinari può usare la sua
umanità. Perché le punizioni ordinarie non sono
imputate al principe, ma alle leggi ed a quegli ordini. Debbesi,
dunque, credere che Manlio fusse costretto procedere sì
rigidamente dagli straordinari suoi imperi, a' quali lo inclinava la
sua natura: i quali sono utili in una republica, perché e'
riducono gli ordini di quella verso il principio loro, e nella sua
antica virtù. E se una republica fusse sì felice,
ch'ella avesse spesso, come di sopra dicemo, chi con lo esemplo suo
le rinnovasse le leggi; e non solo la ritenesse che la non corresse
alla rovina, ma la ritirasse indietro; la sarebbe perpetua.
Sì che Manlio fu uno di quelli che con l'asprezza de' suoi
imperi ritenne la disciplina militare in Roma; costretto prima dalla
natura sua, dipoi dal desiderio aveva, si osservasse quello che il
suo naturale appetito gli aveva fatto ordinare. Dall'altro canto,
Valerio potette procedere umanamente, come colui a cui bastava si
osservassono le cose consuete osservarsi negli eserciti romani. La
quale consuetudine, perché era buona, bastava ad onorarlo; e
non era faticosa a osservarla, e non necessitava Valerio a punire i
transgressori: sì perché non ve n'era; sì
perché, quando e' ve ne fosse stati, imputavano, come
è detto, la punizione loro agli ordini e non alla
crudeltà del principe. In modo che, Valerio poteva fare
nascere da lui ogni umanità, dalla quale ei potesse
acquistare grado con i soldati, e la contentezza loro. Donde nacque
che, avendo l'uno e l'altro la medesima ubbidienza, potettono,
diversamente operando, fare il medesimo effetto. Possono quelli che
volessero imitare costoro, cadere in quelli vizi di dispregio e di
odio che io dico, di sopra, di Annibale e di Scipione: il che si
fugge con una virtù eccessiva che sia in te, e non
altrimenti.
Resta ora a considerare quale di questi modi di procedere sia
più laudabile. Il che credo sia disputabile, perché
gli scrittori lodano l'uno modo e l'altro. Nondimeno, quegli che
scrivono come uno principe si abbia a governare, si accostano
più a Valerio che a Manlio; e Senofonte, preallegato da me,
dando di molti esempli della umanità di Ciro, si conforma
assai con quello che dice di Valerio, Tito Livio. Perché,
essendo fatto Consolo contro ai Sanniti, e venendo il dì che
doveva combattere, parlò a' suoi soldati con quella
umanità con la quale ei si governava; e dopo tale parlare,
Tito Livio dice quelle parole: «Non alias militi familiarior
dux fuit, inter infimos milites omnia haud gravate mundia obeundo.
In ludo praeterea militari, cum velocitatis viriumque inter se
aequales certamina ineunt, comiter facilis vincere ac vinci vultu
eodem; nec quemquam aspernari parem qui se offerret; factis benignus
pro re; dictis haud minus libertatis alienae, quam suae dignitatis
memor; et (quo nihil popularius est) quibus artibus petierat
magistratus, iisdem gerebat». Parla medesimamente, di Manlio,
Tito Livio onorevolmente, mostrando che la sua severità nella
morte del figliuolo fece tanto ubbidiente lo esercito al Consolo,
che fu cagione della vittoria che il popolo romano ebbe contro ai
Latini; ed in tanto procede in laudarlo, che, dopo tale vittoria,
descritto ch'egli ha tutto l'ordine di quella zuffa, e mostri tutti
i pericoli che il popolo romano vi corse, e le difficultà che
vi furono a vincere fa questa conclusione: che solo la virtù
di Manlio dette quella vittoria ai Romani. E faccendo comparazione
delle forze dell'uno e dell'altro esercito, afferma come quella
parte arebbe vinto che avesse avuto per consolo Manlio.
Talché considerato tutto quello che gli scrittori ne parlano,
sarebbe difficile giudicarne. Nondimeno, per non lasciare questa
parte indecisa, dico come in uno cittadino che viva sotto le leggi
d'una republica, credo sia più laudabile e meno pericoloso il
procedere di Manlio: perché questo modo tutto è in
favore del publico, e non risguarda in alcuna parte all'ambizione
privata; perché tale modo non si può acquistare
partigiani, mostrandosi sempre aspro a ciascuno, ed amando solo il
bene commune; perché chi fa questo, non si acquista
particulari amici, quali noi chiamiamo, come di sopra si disse,
partigiani. Talmenteché, simile modo di procedere non
può essere più utile né più disiderabile
in una republica; non mancando in quello la utilità publica,
e non vi potendo essere alcun sospetto della potenza privata. Ma nel
modo del procedere di Valerio è il contrario: perché,
se bene in quanto al publico si fanno e' medesimi effetti, nondimeno
vi surgono molte dubitazioni per la particulare benivolenza che
colui si acquista con i soldati, da fare in uno lungo imperio
cattivi effetti contro alla libertà.
E se in Publicola questi cattivi effetti non nacquono, ne fu cagione
non essere ancora gli animi de' Romani corrotti, e quello non essere
stato lungamente e continovamente al governo loro. Ma se noi abbiamo
a considerare uno principe, come considera Senofonte, noi ci
accostereno al tutto a Valerio, e lasceremo Manlio perché uno
principe debbe cercare ne' soldati e ne' sudditi l'ubbidienza e lo
amore. La ubbidienza gli dà lo essere osservatore degli
ordini e lo essere tenuto virtuoso; lo amore gli dà
l'affabilità, l'umanità, la piatà, e l'altre
parti che erano in Valerio, e che Senofonte scrive essere in Ciro.
Perché lo essere uno principe bene voluto particularmente, ed
avere lo esercito suo partigiano, si conforma con tutte l'altre
parti dello stato suo: ma in uno cittadino che abbia lo esercito suo
partigiano, non si conforma già questa parte con l'altre sue
parti, che lo hanno a fare vivere sotto le leggi ed ubidire ai
magistrati.
Leggesi intra le cose antiche della Republica viniziana, come,
essendo le galee viniziane tornate in Vinegia, e venendo certa
differenza intra quegli delle galee ed il popolo, donde si venne al
tumulto ed all'armi, né si potendo la cosa quietare né
per forza di ministri né per riverenza di cittadini né
timore de' magistrati; subito a quelli marinai apparve innanzi uno
gentiluomo che era, l'anno davanti, stato capitano loro, per amore
di quello si partirono, e lasciarono la zuffa. La quale ubbidienza
generò tanta suspizione al Senato, che, poco tempo dipoi, i
Viniziani, o per prigione o per morte, se ne assicurarono. Conchiudo
pertanto, il procedere di Valerio essere utile in uno principe e
pernizioso in uno cittadino; non solamente alla patria, ma a
sé a lei, perché quelli modi preparano la via alla
tirannide; a sé, perché in sospettando la sua
città del modo del procedere suo è costretta
assicurarsene con suo danno. E così, per il contrario,
affermo il procedere di Manlio in uno principe essere dannoso, ed in
uno cittadino utile, e massime alla patria: ed ancora rade volte
offende; se già questo odio che ti reca la tua
severità, non è accresciuto da sospetto che l'altre
tue virtù per la gran riputazione ti arrecassono: come, di
sotto, di Cammillo si discorrerà.
23
Per quale cagione Cammillo
fusse cacciato di Roma.
Noi abbiamo conchiuso di sopra, come, procedendo come Valerio, si
nuoce alla patria ed a sé; e, procedendo come Manlio, si
giova alla patria, e nuocesi qualche volta a sé. Il che si
pruova assai bene per lo esemplo di Cammillo, il quale nel procedere
suo simigliava più tosto Manlio che Valerio. Donde Tito
Livio, parlando di lui, dice, come «eius virtutem milites
oderant, et mirabantur».
Quello che lo faceva tenere maraviglioso era la sollicitudine, la
prudenza, la grandezza dello animo, il buon ordine che lui servava
nello adoperarsi, e nel comandare agli eserciti: quello che lo
faceva odiare, era essere più severo nel gastigargli che
liberale nel rimunerargli. E Tito Livio ne adduce di questo odio
queste cagioni: la prima, che i danari che si trassono de' beni de'
Veienti che si venderono, esso gli applicò al publico, e non
gli divise con la preda: l'altra, che nel trionfo ei fece tirare il
suo carro trionfale da quattro cavagli bianchi, dove essi dissero
che per la superbia e' si era voluto agguagliare al Sole: la terza,
che ei fece voto di dare a Apolline la decima parte della preda de'
Veienti, la quale, volendo sodisfare al voto, si aveva a trarre
delle mani de' soldati che l'avevano di già occupata. Dove si
notano bene e facilmente quelle cose che fanno uno principe odioso
appresso il popolo; delle quali la principale è privarlo
d'uno utile. La quale è cosa d'importanza assai,
perché le cose che hanno in sé utilità, quando
l'uomo n'è privo, non le dimentica mai, ed ogni minima
necessità te ne fa ricordare; e perché le
necessità vengono ogni giorno, tu te ne ricordi ogni giorno.
L'altra cosa è lo apparire superbo ed enfiato; il che non
può essere più odioso a' popoli, e massime a' liberi.
E benché da quella superbia e da quel fasto non ne nascesse
loro alcuna incommodità, nondimeno hanno in odio chi l'usa:
da che uno principe si debbe guardare come da uno scoglio:
perché tirarsi odio addosso senza suo profitto, è al
tutto partito temerario e poco prudente.
24
La prolungazione degl'imperii
fece serva Roma.
Se si considera bene il procedere della Republica romana, si
vedrà due cose essere state cagione della risoluzione di
quella Republica: l'una furon le contenzioni che nacquono dalla
legge agraria; l'altra, la prolungazione degli imperii: le quali
cose se fussono state conosciute bene da principio, e fattovi i
debiti rimedi, sarebbe stato il vivere libero più lungo, e
per avventura più quieto. E benché, quanto alla
prolungazione dello imperio, non si vegga che in Roma nascessi mai
alcuno tumulto; nondimeno si vide in fatto, quanto nocé alla
città quella autorità che i cittadini per tali
diliberazioni presono. E se gli altri cittadini a chi era prorogato
il magistrato, fussono stati savi e buoni come fu Lucio Quinzio, non
si sarebbe incorso in questo inconveniente. La bontà del
quale è di uno esemplo notabile, perché, essendosi
fatto intra la Plebe ed il Senato convenzione d'accordo, ed avendo
la Plebe prolungato in uno anno lo imperio ai Tribuni, giudicandogli
atti a potere resistere all'ambizione de' nobili, volle il Senato,
per gara della Plebe e per non parere da meno di lei, prolungare il
consolato a Lucio Quinzio: il quale al tutto negò questa
diliberazione, dicendo che i cattivi esempli si voleva cercare di
spegnergli, non di accrescergli con uno altro più cattivo
esemplo, e volle si facessono nuovi Consoli. La quale bontà e
prudenza se fosse stata in tutti i cittadini romani, non arebbe
lasciata introdurre quella consuetudine di prolungare i magistrati,
e da quelli non si sarebbe venuto alla prolungazione delli imperii:
la quale cosa, col tempo, rovinò quella Republica. Il primo a
chi fu prorogato lo imperio, fu a Publio Philone; il quale essendo a
campo alla città di Palepoli, e venendo la fine del suo
consolato, e parendo al Senato ch'egli avesse in mano quella
vittoria, non gli mandarono il successore, ma lo fecero Proconsolo;
talché fu il primo Proconsolo. La quale cosa, ancora che
mossa dal Senato per utilità publica, fu quella che con il
tempo fece serva Roma. Perché, quanto più i Romani si
discostarono con le armi, tanto più parve loro tale
prorogazione necessaria, e più la usarono. La quale cosa fece
due inconvenienti: l'uno, che meno numero di uomini si esercitarono
negl'imperii, e si venne per questo a ristringere la riputazione in
pochi: l'altro, che, stando uno cittadino assai tempo comandatore
d'uno esercito, se lo guadagnava e facevaselo partigiano;
perché quello esercito col tempo dimenticava il Senato e
riconosceva quello capo. Per questo Silla e Mario poterono trovare
soldati che contro al bene publico gli seguitassono: per questo,
Cesare potette occupare la patria. Che se mai i Romani non avessono
prolungati i magistrati e gli imperii, se non venivano sì
tosto a tanta potenza, e se fussono stati più tardi gli
acquisti loro, sarebbono ancora più tardi venuti nella
servitù.
25
Della povertà di Cincinnato
e di molti cittadini romani.
Noi abbiamo ragionato altrove come la più utile cosa che si
ordini in uno vivere libero è che si mantenghino i cittadini
poveri. E benché in Roma non apparisca quale ordine fusse
quello che facesse questo effetto, avendo, massime, la legge agraria
avuta tanta oppugnazione; nondimeno per esperienza si vide, che,
dopo quattrocento anni che Roma era stata edificata, vi era una
grandissima povertà; né si può credere che
altro ordine maggiore facesse questo effetto, che vedere come per la
povertà non ti era impedita la via a qualunque grado ed a
qualunque onore, e come e' si andava a trovare la virtù in
qualunque casa l'abitasse. Il quale modo di vivere faceva manco
desiderabili le ricchezze. Questo si vede manifesto; perché,
sendo Minuzio consolo assediato con lo esercito suo dagli Equi, si
empié di paura Roma, che quello esercito non si perdesse;
tanto che ricorsero a creare il Dittatore, ultimo rimedio nelle loro
cose afflitte. E crearono Lucio Quinzio Cincinnato, il quale allora
si trovava nella sua piccola villa, la quale lavorava di sua mano.
La quale cosa con parole auree e celebrata da Tito Livio, dicendo:
«Operae pretium est audire, qui omnia prae divitiis humana
spernunt, neque honori magno locum, neque virtuti putant esse, nisi
effusae affluant opes». Arava Cincinnato la sua piccola villa,
la quale non trapassava il termine di quattro iugeri quando da Roma
vennero i Legati del Senato a significargli la elezione della sua
dittatura, a mostrargli in quale pericolo si trovava la romana
Republica. Egli, presa la sua toga, venuto in Roma e ragunato uno
esercito ne andò a liberare Minuzio, ed avendo rotti e
spogliati i nimici, e liberato quello, non volle che lo esercito
assediato fusse partecipe della preda, dicendogli queste parole: -
Io non voglio che tu participi della preda di coloro de' quali tu
se' stato per essere preda; - e privò Minuzio del consolato,
e fecelo Legato, dicendogli: - Starai in questo grado tanto, che tu
impari a sapere essere Consolo -. Aveva fatto suo Maestro de'
cavagli Lucio Tarquinio, il quale per la povertà militava a
piede. Notasi, come è detto, l'onore che si faceva in Roma
alla povertà; e come a un uomo buono e valente, quale era
Cincinnato, quattro iugeri di terra bastavano a nutrirlo. La quale
povertà si vede come era ancora ne' tempi di Marco Regolo;
perché, sendo in Affrica con gli eserciti, domandò
licenza al Senato per potere tornare a custodire la sua villa, la
quale gli era guasta da' suoi lavoratori. Dove si vede due cose
notabilissime: l'una, la povertà, e come vi stavano dentro
contenti, e come e' bastava a quelli cittadini trarre della guerra
onore, e l'utile tutto lasciavano al publico. Perché, s'egli
avessero pensato d'arricchire della guerra, gli sarebbe dato poca
briga che i suoi campi fussono stati guasti. L'altra è
considerare la generosità dell'animo di quelli cittadini, i
quali, preposti ad uno esercito, saliva la grandezza dello animo
loro sopra ogni principe, non stimavono i re, non le republiche; non
gli sbigottiva né spaventava cosa alcuna; e tornati dipoi
privati, diventavano parchi, umili, curatori delle piccole
facultà loro, ubbidienti a' magistrati, reverenti alli loro
maggiori: talché pare impossibile che uno medesimo animo
patisca tale mutazione.
Durò questa povertà ancora infino a' tempi di Paulo
Emilio, che furono quasi gli ultimi felici tempi di quella
Republica, dove uno cittadino, che col trionfo suo arricchì
Roma, nondimeno mantenne povero sé. Ed in tanto si stimava
ancora la povertà, che Paulo, nell'onorare chi si era portato
bene nella guerra, donò a uno suo genero una tazza d'ariento,
il quale fu il primo ariento che fusse nella sua casa. Potrebbesi,
con un lungo parlare, mostrare quanto migliori frutti produca la
povertà che la ricchezza, e come l'una ha onorato le
città, le provincie, le sétte, e l'altra le ha
rovinate; se questa materia non fusse stata molte volte da altri
uomini celebrata.
26
Come per cagione di femine
si rovina uno stato.
Nacque nella città d'Ardea intra i patrizi e gli plebei una
sedizione per cagione d'uno parentado: dove, avendosi a maritare una
femina ricca, la domandarono parimente uno plebeo ed uno nobile; e
non avendo quella padre, i tutori la volevono congiugnere al plebeo,
la madre al nobile: di che nacque tanto tumulto, che si venne alle
armi; dove tutta la Nobilità si armò in favore del
nobile, e tutta la plebe in favore del plebeo. Talché,
essendo superata la plebe, si uscì d'Ardea, e mandò a'
Volsci per aiuto: i nobili mandarono a Roma. Furono prima i Volsci,
e, giunti intorno ad Ardea, si accamparono. Sopravvennono i Romani,
e rinchiusono i Volsci infra la terra e loro; tanto che gli
costrinsono, essendo stretti dalla fame, a darsi a discrezione. Ed
entrati i Romani in Ardea, e morti tutti i capi della sedizione,
composono le cose di quella città.
Sono in questo testo più cose da notare. Prima, si vede come
le donne sono state cagioni di molte rovine, ed hanno fatti gran
danni a quegli che governano una città, ed hanno causato di
molte divisioni in quelle: e, come si è veduto in questa
nostra istoria, lo eccesso fatto contro a Lucrezia tolse lo stato ai
Tarquinii; quell'altro, fatto contro a Virginia, privò i
Dieci dell'autorità loro. Ed Aristotile, intra le prime cause
che mette della rovina de' tiranni, è lo avere ingiuriato
altrui per conto delle donne, o con stuprarle, o con violarle, o con
rompere i matrimonii; come di questa parte, nel capitolo dove noi
trattamo delle congiure, largamente si parlò. Dico, adunque,
come i principi assoluti ed i governatori delle republiche non hanno
a tenere poco conto di questa parte; ma debbono considerare i
disordini che per tale accidente possono nascere, e rimediarvi in
tempo che il rimedio non sia con danno e vituperio dello stato loro
o della loro republica: come intervenne agli Ardeati; i quali, per
avere lasciato crescere quella gara intra i loro cittadini, si
condussero a dividersi infra loro; e, volendo riunirsi, ebbono a
mandare per soccorsi esterni: il che è uno grande principio
d'una propinqua servitù.
Ma veniamo allo altro notabile, del modo del riunire le
città; del quale nel futuro capitolo parlereno.
27
Come e' si ha ad unire una città divisa;
e come e' non è vera quella opinione,
che, a tenere le città,
bisogni tenerle divise.
Per lo esemplo de' Consoli romani che riconciliorono insieme gli
Ardeati, si nota il modo come si debbe comporre una città
divisa: il quale non è altro, né altrimenti si debbe
medicare, che ammazzare i capi de' tumulti, perché gli
è necessario pigliare uno de' tre modi: o ammazzargli, come
feciono costoro; o rimuovergli della città; o fare loro fare
pace insieme, sotto oblighi di non si offendere. Di questi tre modi,
questo ultimo è più dannoso, meno certo e più
inutile. Perché gli è impossibile, dove sia corso
assai sangue, o altre simili ingiurie, che una pace, fatta per
forza, duri, riveggendosi ogni dì insieme in viso; ed
è difficile che si astenghino dallo ingiuriare l'uno l'altro,
potendo nascere infra loro ogni dì, per la conversazione,
nuove cagioni di querele.
Sopra che non si può dare il migliore esemplo che la
città di Pistoia. Era divisa quella città, come
è ancora, quindici anni sono, in Panciatichi e Cancellieri;
ma allora era in sull'armi, ed oggi le ha posate. E dopo molte
dispute infra loro vennono al sangue, alla rovina delle case, al
predarsi la roba, e ad ogni altro termine di nimico. Ed i
Fiorentini, che gli avevano a comporre, sempre vi usarono quel terzo
modo; e sempre ne nacque maggiori tumulti e maggiori scandali: tanto
che, stracchi, e' si venne al secondo modo, di rimuovere i capi
delle parti; de' quali alcuni messono in prigione alcuni altri
confinarono in vari luoghi: tanto che l'accordo fatto potette stare,
ed è stato infino a oggi. Ma sanza dubbio più sicuro
saria stato il primo. Ma perché simili esecuzioni hanno il
grande ed il generoso, una republica debole non le sa fare, ed
ènne tanto discosto, che a fatica la si conduce al rimedio
secondo. E questi sono di quegli errori che io dissi nel principio,
che fanno i principi de' nostri tempi, che hanno a giudicare le cose
grandi; perché doverrebbono volere udire come si sono
governati coloro che hanno avuto a giudicare anticamente simili
casi. Ma la debolezza de' presenti uomini, causata dalla debole
educazione loro e dalla poca notizia delle cose, fa che si giudicano
i giudicii antichi, parte inumani, parte impossibili. Ed hanno certe
loro moderne opinioni, discosto al tutto dal vero, come è
quella che dicevano e' savi della nostra città, un tempo fa:
che bisognava tenere Pistoia con le parti, e Pisa con le fortezze; e
non si avveggono, quanto l'una e l'altra di queste due cose è
inutile.
Io voglio lasciare le fortezze, perché di sopra ne parlamo a
lungo; e voglio discorrere la inutilità che si trae del
tenere le terre, che tu hai in governo, divise. In prima, egli
è impossibile che tu ti mantenga tutte a due quelle parti
amiche, o principe o republica che le governi. Perché dalla
natura è dato agli uomini pigliare parte in qualunque cosa
divisa, e piacergli più questa che quella. Talché,
avendo una parte di quella terra male contenta, fa che, la prima
guerra che viene, te la perdi; perché gli è
impossibile guardare una città che abbia e' nimici fuori e
dentro. Se la è una republica che la governi, non ci è
il più bel modo a fare cattivi i tuoi cittadini ed a fare
dividere la tua città, che avere in governo una città
divisa; perché ciascuna parte cerca di avere favori, e
ciascuna si fa amici con varie corruttele: talché ne nasce
due grandissimi inconvenienti; l'uno, che tu non ti gli fai mai
amici, per non gli potere governare bene, variando il governo
spesso, ora con l'uno, ora con l'altro omore; l'altro, che tale
studio di parte divide di necessità la tua republica. Ed il
Biondo, parlando de' Fiorentini e de' Pistolesi, ne fa fede,
dicendo: «Mentre che i Fiorentini disegnavono di riunire
Pistoia, divisono sé medesimi». Pertanto, si può
facilmente considerare il male che da questa divisione nasca.
Nel 1502, quando si perdé Arezzo, e tutto Val di Tevere e Val
di Chiana, occupatoci dai Vitelli e dal duca Valentino, venne un
monsignor di Lant, mandato dal re di Francia a fare ristituire ai
Fiorentini tutte quelle terre perdute; e trovando Lant in ogni
castello uomini che, nel vicitarlo, dicevano che erano della parte
di Marzocco, biasimò assai questa divisione: dicendo, che, se
in Francia uno di quegli sudditi del re dicesse di essere della
parte del re, sarebbe gastigato, perché tale voce non
significherebbe altro, se non che in quella terra fusse gente
inimica del re, e quel re vuole che le terre tutte sieno sue amiche,
unite e sanza parte. Ma tutti questi modi e queste opinioni diverse
dalla verità, nascono dalla debolezza di chi è
signore; i quali, veggendo di non potere tenere gli stati con forza
e con virtù, si voltono a simili industrie: le quali qualche
volta ne' tempi quieti giovano qualche cosa, ma, come e' vengono le
avversità ed i tempi forti, le mostrano la fallacia loro.
28
Che si debbe por mente
alle opere de' cittadini,
perché molte volte sotto una opera pia
si nasconde uno principio di tirannide.
Essendo la città di Roma aggravata dalla fame, e non bastando
le provisioni publiche a cessarla, prese animo uno Spurio Melio,
essendo assai ricco, secondo quegli tempi, di fare provisione
privatamente di frumento, e pascerne col suo grado la plebe. Per la
quale cosa, egli ebbe tanto concorso di popolo in suo favore, che il
Senato, pensando all' inconveniente che di quella sua
liberalità poteva nascere, per opprimerla avanti che la
pigliasse più forze, gli creò uno Dittatore addosso, e
fecelo morire. Qui è da notare, come molte volte le opere che
paiono pie e da non le potere ragionevolmente dannare, diventono
crudeli, e per una republica sono pericolosissime, quando le non
siano a buona ora corrette. E per discorrere questa cosa più
particularmente, dico che una republica sanza i cittadini riputati
non può stare, né può governarsi in alcuno modo
bene. Dall'altro canto, la riputazione de' cittadini è
cagione della tirannide delle republiche. E volendo regolare questa
cosa, bisogna ordinarsi talmente, che i cittadini siano riputati, di
riputazione che giovi, e non nuoca, alla città ed alla
libertà di quella. E però si debbe esaminare i modi
con i quali e' pigliano riputazione; che sono in effetto due: o
publici o privati. I modi publici sono, quando uno, consigliando
bene, operando meglio, in beneficio comune, acquista riputazione. A
questo onore si debba aprire la via ai cittadini, e preporre premii
ed ai consigli ed alle opere, talché se ne abbiano ad onorare
e sodisfare. E quando queste riputazioni, prese per queste vie,
siano stiette e semplici, non saranno mai pericolose: ma quando le
sono prese per vie private, che è l'altro modo preallegato,
sono pericolosissime ed in tutto nocive. Le vie private sono,
faccendo beneficio a questo ed a quello altro privato, col
prestargli danari, maritargli le figliuole, difenderlo dai
magistrati, e faccendogli simili privati favori, i quali si fanno
gli uomini partigiani, e danno animo, a chi è così
favorito, di potere corrompere il publico e sforzare le leggi.
Debbe, pertanto, una republica bene ordinata aprire le vie come
è detto, a chi cerca favori per vie publiche, e chiuderle a
chi li cerca per vie private, come si vede che fece Roma
perché in premio di chi operava bene per il publico,
ordinò i trionfi, e tutti gli altri onori che la dava ai suoi
cittadini, ed in danno di chi sotto vari colori per vie private
cercava di farsi grande, ordinò l'accuse; e quando queste non
bastassero, per essere accecato il popolo da una spezie di falso
bene, ordinò il Dittatore, il quale con il braccio regio
facesse ritornare dentro al segno chi ne fosse uscito, come la fece
per punire Spurio Melio. Ed una che di queste cose si lasci
impunita, è atta a rovinare una republica; perché
difficilmente con quello esemplo si riduce dipoi in la vera via.
29
Che gli peccati de' popoli
nascono dai principi.
Non si dolghino i principi di alcuno peccato che facciono i popoli
ch'egli abbiano in governo; perché tali peccati conviene che
naschino o per la sua negligenza, o per essere lui macchiato di
simili errori. E chi discorrerà i popoli che ne' nostri tempi
sono stati tenuti pieni di ruberie e di simili peccati, vedrà
che sarà al tutto nato da quegli che gli governavano, che
erano di simile natura. La Romagna, innanzi che in quella fussono
spenti da papa Alessandro VI quegli signori che la comandavano, era
un esempio d'ogni sceleratissima vita, perché quivi si vedeva
per ogni leggiere cagione seguire occisioni e rapine grandissime. Il
che nasceva dalla tristitia di quelli principi; non dalla natura
trista degli uomini, come loro dicevano. Perché, sendo quegli
principi poveri, e volendo vivere da ricchi, erano necessitati
volgersi a molte rapine, e quelle per vari modi usare. Ed intra
l'altre disoneste vie che tenevano, e' facevano leggi, e proibivono
alcuna azione; dipoi erano i primi che davano cagione della
inosservanza di esse, né mai punivano gli inosservanti, se
non poi, quando vedevano assai essere incorsi in simile pregiudizio;
ed allora si voltavano alla punizione, non per zelo della legge
fatta, ma per cupidità di riscuotere la pena. Donde nasceva
molti inconvenienti, e sopra tutto, questo, che i popoli
s'impoverivano, e non si correggevano; e quegli che erano
impoveriti, s'ingegnavano, contro a' meno potenti di loro,
prevalersi. Donde surgevano tutti quelli mali che di sopra si
dicano, de' quali era cagione il principe. E che questo sia vero, lo
mostra Tito Livio quando e' narra che, portando i Legati romani il
dono della preda de' Veienti ad Apolline, furono presi da' corsali
di Lipari in Sicilia, e condotti in quella terra: ed inteso
Timasiteo, loro principe, che dono era questo, dove gli andava e chi
lo mandava, si portò, quantunque nato a Lipari, come uomo
romano, e mostrò al popolo quanto era impio occupare simile
dono; tanto che, con il consenso dello universale, ne lasciò
andare i Legati con tutte le cose loro. E le parole dello istorico
sono queste: «Timasitheus multitudinem religione implevit,
quae semper regenti est similis». E Lorenzo de' Medici, a
confermazione di questa sentenza, dice:
E quel che fa 'l signor, fanno poi molti;
Che nel signor son tutti gli occhi volti.
30
A uno cittadino
che voglia nella sua republica
fare di sua autorità alcuna opera buona,
è necessario, prima, spegnere l'invidia:
e come, vedendo il nimico,
si ha a ordinare la difesa d'una città.
Intendendo il Senato romano come la Toscana tutta aveva fatto nuovo
deletto per venire a' danni di Roma; e come i Latini e gli Ernici,
stati per lo addietro amici del Popolo romano, si erano accostati
con i Volsci, perpetui inimici di Roma; giudicò questa guerra
dovere essere pericolosa. E trovandosi Cammillo tribuno di
potestà consolare, pensò che si potesse fare sanza
creare il Dittatore, quando gli altri Tribuni suoi collegi volessono
cedergli la somma dello imperio. Il che detti Tribuni fecero
volontariamente: «Nec quicquam (dice Tito Livio) de maiestate
sua detractum credebant, quod maiestati eius concessissent».
Onde Cammillo, presa a parole questa ubbidienza, comandò che
si scrivesse tre eserciti. Del primo volle essere capo lui, per ire
contro a' Toscani. Del secondo fece capo Quinto Servilio, il quale
volle stesse propinquo a Roma, per ostare ai Latini ed agli Ernici,
se si movessono. Al terzo esercito prepose Lucio Quinzio, il quale
scrisse per tenere guardata la città e difese le porte e la
curia, in ogni caso che nascesse. Oltre a di questo, ordinò
che Orazio, uno de' suoi collegi, provedesse l'armi ed il frumento e
l'altre cose che richieggono i tempi della guerra. Prepose Cornelio,
ancora, suo collega, al Senato ed al publico consiglio,
acciocché potesse consigliare le azioni che giornalmente si
avevano a fare ed esequire: in modo furono quegli Tribuni, in quelli
tempi, per la salute della patria, disposti a comandare ed a
ubbidire. Notasi per questo testo, quello che faccia uno uomo buono
e savio, e di quanto bene sia cagione, e quanto utile e' possa fare
alla sua patria, quando, mediante la sua bontà e
virtù, egli ha spenta la invidia; la quale è molte
volte cagione che gli uomini non possono operare bene, non
permettendo detta invidia che gli abbino quella autorità la
quale è necessaria avere nelle cose d'importanza. Spegnesi
questa invidia in due modi. O per qualche accidente forte e
difficile, dove ciascuno, veggendosi perire, posposta ogni
ambizione, corre volontariamente ad ubbidire a colui che crede che
con la sua virtù lo possa liberare: come intervenne a
Cammillo, il quale avendo dato di sé tanti saggi di uomo
eccellentissimo, ed essendo stato tre volte Dittatore, ed avendo
amministrato sempre quel grado ad utile publico, e non a propria
utilità aveva fatto che gli uomini non temevano della
grandezza sua; e per esser tanto grande e tanto riputato, non
stimavano cosa vergognosa essere inferiori a lui (e però dice
Tito Livio saviamente quelle parole «Nec quicquam» ecc.)
in un altro modo si spegne l'invidia quando, o per violenza o per
ordine naturale, muoiono coloro che sono stati tuoi concorrenti nel
venire a qualche riputazione ed a qualche grandezza; quali,
veggendoti riputato più di loro, è impossibile che mai
acquieschino, e stieno pazienti. E quando e' sono uomini che siano
usi a vivere in una città corrotta, dove la educazione non
abbia fatto in loro alcuna bontà, è impossibile che
per accidente alcuno, mai si ridichino; e per ottenere la voglia
loro, e satisfare alla loro perversità d'animo sarebbero
contenti vedere la rovina della loro patria. A vincere questa
invidia non ci è altro rimedio che la morte di coloro che
l'hanno; e quando la fortuna è tanto propizia a quell'uomo
virtuoso, che si muoiano ordinariamente, diventa, sanza scandalo,
glorioso, quando sanza ostacolo e sanza offesa e' può
mostrare la sua virtù; ma quando e' non abbi questa ventura,
gli conviene pensare per ogni via a torsegli dinanzi; e prima che e'
facci cosa alcuna, gli bisogna tenere modi che vinca questa
difficultà. E chi legge la Bibbia sensatamente, vedrà
Moisè essere stato forzato, a volere che le sue leggi e che i
suoi ordini andassero innanzi, ad ammazzare infiniti uomini, i
quali, non mossi da altro che dalla invidia, si opponevano a'
disegni suoi. Questa necessità conosceva benissimo frate
Girolamo Savonerola; conoscevala ancora Piero Soderini, gonfaloniere
di Firenze. L'uno non potette vincerla, per non avere
autorità a poterlo fare (che fu il frate), e per non essere
inteso bene da coloro che lo seguitavano, che ne arebbero avuto
autorità. Nonpertanto per lui non rimase, e le sue prediche
sono piene di accuse de' savi del mondo e d'invettive contro a loro:
perché chiamava così questi invidi, e quegli che si
opponevano agli ordini suoi. Quell'altro credeva, col tempo, con la
bontà, con la fortuna sua, col benificare alcuno, spegnere
questa invidia; vedendosi di assai fresca età, e con tanti
nuovi favori che gli arrecava el modo del suo procedere, che credeva
potere superare quelli tanti che per invidia se gli opponevano,
sanza alcuno scandolo, violenza e tumulto: e non sapeva che il tempo
non si può aspettare, la bontà non basta, la fortuna
varia, e la malignità non truova dono che la plachi. Tanto
che l'uno e l'altro di questi due rovinarono, e la rovina loro fu
causata da non avere saputo o potuto vincere questa invidia.
L'altro notabile è l'ordine che Cammillo dette, dentro e
fuori, per la salute di Roma. E veramente, non sanza cagione gli
istorici buoni, come è questo nostro, mettono particularmente
e distintamente certi casi, acciocché i posteri imparino come
gli abbino in simili accidenti difendersi. E debbesi in questo testo
notare, che non è la più pericolosa né la
più inutile difesa, che quella che si fa tumultuariamente e
sanza ordine. E questo si mostra per quello terzo esercito che
Cammillo fece scrivere per lasciarlo, in Roma, a guardia della
città: perché molti arebbero giudicato e
giudicherebbero questa parte superflua, sendo quel popolo, per
l'ordinario, armato e bellicoso; e per questo, che non bisognasse di
scriverlo altrimenti, ma bastasse farlo armare quando il bisogno
venisse. Ma Cammillo, e qualunque fusse savio come era esso, la
giudica altrimenti; perché non permette mai che una
moltitudine pigli l'arme, se non con certo ordine e certo modo. E
però, in su questo esemplo, uno che sia preposto a guardia
d'una città, debba fuggire come uno scoglio il fare armare
gli uomini tumultuosamente; ma debba avere prima scritti e scelti
quegli che voglia si armino, chi gli abbino ad ubbidire, dove a
convenire, dove a andare; e, quegli che non sono scritti, comandare
che stieno ciascuno alle case sue, a guardia di quelle. Coloro che
terranno questo ordine in una città assaltata, facilmente si
potranno difendere: chi farà altrimenti, non imiterà
Cammillo, e non si difenderà.
31
Le republiche forti
e gli uomini eccellenti
ritengono in ogni fortuna
il medesimo animo
e la loro medesima dignità.
Intra l'altre magnifiche cose che 'l nostro istorico fa dire e fare
a Cammillo, per mostrare come debbe essere fatto un uomo eccellente,
gli mette in bocca queste parole: «Nec mihi dictatura animos
fecit, nec exilium ademit». Per le quali si vede, come gli
uomini grandi sono sempre in ogni fortuna quelli medesimi; e se la
varia, ora con esaltarli, ora con opprimerli, quegli non variano, ma
tengono sempre lo animo fermo, ed in tale modo congiunto con il modo
del vivere loro, che facilmente si conosce per ciascuno, la fortuna
non avere potenza sopra di loro. Altrimenti si governano gli uomini
deboli perché invaniscono ed inebriano nella buona fortuna,
attribuendo tutto il bene che gli hanno a quella virtù che
non conobbono mai. D'onde nasce che diventano insopportabili ed
odiosi a tutti coloro che gli hanno intorno. Da che poi depende la
subita variazione della sorte; la quale come veggono in viso,
caggiono subito nell'altro difetto, e diventano vili ed abietti. Di
qui nasce che i principi così fatti pensano nelle
avversità più a fuggirsi che a difendersi, come quelli
che, per avere male usata la buona fortuna, sono ad ogni difesa
impreparati.
Questa virtù, e questo vizio, che io dico trovarsi in un uomo
solo, si truova ancora in una republica, ed in esemplo ci sono i
Romani ed i Viniziani. Quelli primi, nessuna cattiva sorte gli fece
mai diventare abietti né nessuna buona fortuna gli fece mai
essere insolenti; come si vide manifestamente dopo la rotta ch'egli
ebbero a Canne, e dopo la vittoria ch'egli ebbero contro a Antioco;
perché, per quella rotta, ancora che gravissima per essere
stata la terza, non invilirono mai; e mandarono fuori eserciti; non
vollono riscattare i loro prigioni contro agli ordini loro; non
mandarono ad Annibale o a Cartagine a chiedere pace: ma, lasciate
stare tutte queste cose abiette indietro, pensarono sempre alla
guerra armando, per carestia di uomini, i vecchi ed i servi loro. La
quale cosa conosciuta da Annone cartaginese, come di sopra si disse,
mostrò a quel Senato quanto poco conto si aveva a tenere
della rotta di Canne. E così si vide come i tempi difficili
non gli sbigottivono, né gli rendevono umili. Dall'altra
parte, i tempi prosperi non gli facevano insolenti: perché,
mandando Antioco oratori a Scipione, a chiedere accordo, avanti che
fussono venuti alla giornata, e ch'egli avesse perduto Scipione gli
dette certe condizioni della pace; quali erano, che si ritirasse
dentro alla Soria, ed il resto lasciasse nello arbitrio del Popolo
romano. Il quale accordo recusando Antioco, e venendo alla giornata,
e perdendola, rimandò imbasciadori a Scipione, con
commissione che pigliassero tutte quelle condizioni erano date loro
dal vincitore: alli quali non propose altri patti che quegli si
avesse offerti innanzi che vincesse; soggiugnendo queste parole:
«Quod Romani, si vincuntur, non minuuntur animis; nec, si
vincunt, insolescere solent».
Al contrario appunto di questo si è veduto fare ai Viniziani:
i quali nella buona fortuna, parendo loro aversela guadagnata con
quella virtù che non avevano, erano venuti a tanta insolenza
che chiamavano il re di Francia figliuolo di San Marco; non
stimavano la Chiesa; non capivano in modo alcuno in Italia; ed
eronsi presupposti nello animo di avere a fare una monarchia simile
alla romana. Dipoi, come la buona sorte gli abbandonò e
ch'egli ebbono una mezza rotta a Vailà, dal re di Francia,
perderono non solamente tutto lo stato loro per ribellione, ma buona
parte ne dettero al papa ed al re di Spagna per viltà ed
abiezione d'animo; ed in tanto invilirono, che mandarono
imbasciadori allo imperadore a farsi tributari, scrissono al papa
lettere piene di viltà e di sommissione per muoverlo a
compassione. Alla quale infelicità pervennono in quattro
giorni, e dopo una mezza rotta: perché, avendo combattuto il
loro esercito, nel ritirarsi venne a combattere ed essere oppresso
circa la metà, in modo che, l'uno de' Provveditori, che si
salvò, arrivò a Verona con più di
venticinquemila soldati, intr'a piè ed a cavallo.
Talmenteché, se a Vinegia e negli ordini loro fosse stata
alcuna qualità di virtù, facilmente si potevano
rifare, e rimostrare di nuovo il viso alla fortuna, ed essere a
tempo o a vincere o a perdere più gloriosamente, o ad avere
accordo più onorevole. Ma la viltà dello animo loro,
causata dalla qualità de' loro ordini non buoni nelle cose
della guerra, gli fece ad un tratto perdere lo stato e l'animo. E
sempre interverrà così a qualunque si governa come
loro. Perché questo diventare insolente nella buona fortuna
ed abietto nella cattiva, nasce dal modo del procedere tuo, e dalla
educazione nella quale ti se' nutrito: la quale, quando è
debole e vana, ti rende simile a sé; quando è stata
altrimenti, ti rende anche d'un'altra sorte; e, faccendoti migliore
conoscitore del mondo, ti fa meno rallegrare del bene, e meno
rattristare del male. E quello che si dice d'uno solo, si dice di
molti che vivono in una republica medesima; i quali si fanno di
quella perfezione, che ha il modo del vivere di quella.
E benché altra volta si sia detto come il fondamento di tutti
gli stati è la buona milizia; e come, dove non è
questa, non possono essere né leggi buone né alcuna
altra cosa buona, non mi pare superfluo riplicarlo: perché ad
ogni punto nel leggere questa istoria si vede apparire questa
necessità; e si vede come la milizia non puoté essere
buona, se la non è esercitata; e come la non si può
esercitare, se la non è composta di tuoi sudditi.
Perché sempre non si sta in guerra, né si può
starvi. Però conviene poterla esercitare a tempo di pace; e
con altri che con sudditi non si può fare questo esercizio,
rispetto alla spesa. Era Cammillo andato, come di sopra dicemo, con
lo esercito contro ai Toscani; ed avendo i suoi soldati veduto la
grandezza dello esercito de' nimici, si erano tutti sbigottiti,
parendo loro essere tanto inferiori da non potere sostenere l'impeto
di quegli. E pervenendo questa mala disposizione del campo agli
orecchi di Cammillo, si mostrò fuora, ed andando parlando per
il campo a questi e quelli soldati, trasse loro del capo questa
opinione; e nello ultimo, sanza ordinare altrimenti il campo, disse:
«Quod quisque didicit, aut consuevit, faciet». E chi
considera bene questo termine, e le parole disse loro, per
inanimirli ad ire contro a' nimici, considerasi come e' non si
poteva né dire né fare fare alcuna di quelle cose a
uno esercito che prima non fosse stato ordinato ed esercitato ed in
pace ed in guerra. Perché di quegli soldati che non hanno
imparato a fare cosa alcuna, non può uno capitano fidarsi, e
credere che faccino alcuna cosa che stia bene; e se gli comandasse
uno nuovo Annibale, vi rovinerebbe sotto. Perché, non potendo
uno capitano essere, mentre si fa la giornata, in ogni parte; se non
ha prima in ogni parte ordinato di potere avere uomini che abbino lo
spirito suo e bene gli ordini e modi del procedere suo, conviene di
necessità che ci rovini. Se, adunque, una città
sarà armata ed ordinata come Roma; e che ogni dì ai
suoi cittadini, ed in particulare ed in publico, tocchi a fare
isperienza e della virtù loro, e della potenza della fortuna;
interverrà sempre che in ogni condizione di tempo ei fiano
del medesimo animo, e manterranno la medesima loro degnità:
ma quando e' fiano disarmati, e che si appoggeranno solo agl'impeti
della fortuna e non alla propria virtù, varieranno col
variare di quella, e daranno sempre, di loro, esemplo tale che hanno
dato i Viniziani.
32
Quali modi hanno tenuti alcuni
a turbare una pace.
Essendosi ribellate dal Popolo romano Circei e Velitre, due sue
colonie, sotto speranza di essere difese dai Latini, ed essendo di
poi i Latini, vinti, e mancando di quella speranza, consigliavano
assai cittadini che si dovesse mandare a Roma oratori a
raccomandarsi al Senato: il quale partito fu turbato da coloro che
erano stati autori della ribellione; i quali temevano che tutta la
pena non si voltasse sopra le teste loro. E per tôrre via ogni
ragionamento di pace, incitarono la moltitudine ad amarsi, ed a
correre sopra i confini romani. E veramente, quando alcuno vuole o
che uno popolo o uno principe lievi al tutto l'animo da uno accordo,
non ci è altro rimedio più vero né più
stabile, che farli usare qualche grave sceleratezza contro a colui
con il quale tu non vuoi che l'accordo si faccia: perché
sempre lo terrà discosto quella paura di quella pena che a
lui parrà per lo errore commesso avere meritata. Dopo la
prima guerra che i Cartaginesi ebbono con i Romani, quelli soldati
che dai Cartaginesi erano stati adoperati in quella guerra in
Sicilia ed in Sardigna, fatta che fu la pace, se ne andarono in
Affrica; dove non essendo sodisfatti del loro stipendio, mossono
l'armi contro ai Cartaginesi; e fatti, di loro, due capi, Mato e
Spendio, occuparono molte terre ai Cartaginesi, e molte ne
saccheggiarono. I Cartaginesi, per tentare prima ogni altra via che
la zuffa, mandarono, a quelli, ambasciadore Asdrubale loro
cittadino, il quale pensavano avesse alcuna autorità con
quelli, essendo stato per lo adietro loro capitano. Ed arrivato
costui, e volendo Spendio e Mato obligare tutti quelli soldati a non
sperare di avere mai più pace con i Cartaginesi e per questo
obligarli alla guerra; persuasono loro, ch'egli era meglio ammazzare
costui, con tutti i cittadini cartaginesi, quali erano appresso loro
prigioni. Donde, non solamente gli ammazzarono, ma con mille
supplicii in prima gli straziorono; aggiugnendo a questa
sceleratezza uno editto che tutti i Cartaginesi, che per lo avvenire
si pigliassono, si dovessono in simile modo uccidere. La quale
diliberazione ed esecuzione fece quello esercito crudele ed ostinato
contro ai Cartaginesi.
33
Egli è necessario,
a volere vincere una giornata,
fare lo esercito confidente
ed infra loro e con il capitano.
A volere che uno esercito vinca la giornata, è necessario
farlo confidente, in modo che creda dovere in ogni modo vincere. Le
cose che lo fanno confidente sono: che sia armato ed ordinato bene;
conoschinsi l'uno l'altro. Né può nascere questa
confidenza o questo ordine, se non in quelli soldati che sono nati e
vissuti insieme. Conviene che il capitano sia stimato di
qualità che confidino nella prudenza sua: e sempre
confideranno, quando lo vegghino ordinato, sollecito ed animoso, e
che tenga bene e con riputazione la maestà del grado suo: e
sempre la manterrà, quando gli punisca degli errori, e non
gli affatichi invano; osservi loro le promesse; mostri facile la via
del vincere; quelle cose che discosto potessino mostrare i pericoli,
le nasconda o le alleggerisca. Le quali cose, osservate bene, sono
cagione grande che lo esercito confida, e confidando vince. Usavano
i Romani di fare pigliare agli eserciti loro questa confidenza per
via di religione: donde nasceva, che con gli augurii ed auspicii
creavano i Consoli, facevano il deletto, partivano con gli eserciti,
e venivano alla giornata. E sanza avere fatto alcuna di queste cose,
non mai arebbe uno buono capitano e savio tentata alcuna fazione,
giudicando di averla potuta perdere facilmente, s'e' suoi soldati
non avessoro prima intesi gli Dii essere da parte loro. E quando
alcuno Consolo, o altro loro capitano, avesse combattuto, contro
agli auspicii, lo arebbero punito; come ei punirono Claudio Pulcro.
E benché questa parte in tutte le istorie romane si conosca,
nondimeno si pruova più certo per le parole che Livio usa
nella bocca di Appio Claudio; il quale, dolendosi col popolo della
insolenzia de' Tribuni della plebe, e mostrando che, mediante
quelli, gli auspicii e le altre cose pertinenti alla religione si
corrompevano, dice così: «Eludant nunc licet
religiones. Quid enim interest, si pulli non pascentur, si ex cavea
tardius exiverint, si occinuerit avis? Parva sunt haec; sed parva
ista non contemnendo, maiores nostri maximam hanc rempublicam
fecerunt». Perché in queste cose piccole è
quella forza di tenere uniti e confidenti i soldati: la quale cosa
è prima cagione d'ogni vittoria. Nonpertanto, conviene con
queste cose sia accompagnata la virtù: altrimenti, le non
vagliano. I Prenestini, avendo contro ai Romani fuori el loro
esercito, se n'andarono ad alloggiare in sul fiume d'Allia, il luogo
dove i Romani furono vinti da i Franciosi; il che fecero per mettere
fiducia ne' loro soldati, e sbigottire i Romani per la fortuna del
luogo. E benché questo loro partito fusse probabile, per
quelle ragioni che di sopra si sono discorse; nientedimeno il fine
della cosa mostrò che la vera virtù non teme ogni
minimo accidente. Il che lo istorico benissimo dice con queste
parole, in bocca poste del Dittatore, che parla così al suo
Maestro de' cavagli: «Vides tu, fortuna illos fretos ad Alliam
consedisse; at tu, fretus armis animisque, invade mediam
aciem». Perché una vera virtù, un ordine buono,
una sicurtà presa da tante vittorie, non si può con
cose di poco momento spegnere; né una cosa vana fa loro
paura, né un disordine gli offende: come si vede certo, che,
essendo due Manlii consoli contro a' Volsci, per avere mandato
temerariamente parte del campo a predare, ne seguì che, in un
tempo, e quelli che erano iti e quelli che erano rimasti si
trovavono assediati; dal quale pericolo, non la prudenza de'
Consoli, ma la virtù de' propri soldati gli liberò.
Dove Tito Livio dice queste parole: «Militum, etiam sine
rectore, stabilis virtus tutata est».
Non voglio lasciare indietro uno termine usato da Fabio, sendo
entrato di nuovo con lo esercito in Toscana, per farlo confidente,
giudicando quella tale fidanza essere più necessaria per
averlo condotto in paese nuovo, incontro a nimici nuovi: che,
parlando avanti la zuffa a' soldati, e detto ch'ebbe molte ragioni,
mediante le quali ei potevono sperare la vittoria, disse che
potrebbe ancora dire loro certe cose buone, e dove ei vedrebbono la
vittoria certa, se non fusse pericoloso il manifestarle. Il quale
modo, come e' fu saviamente usato, così merita di essere
imitato.
34
Quale fama o voce o opinione
fa che il popolo
comincia a favorire uno cittadino:
e se ei distribuisce i magistrati
con maggiore prudenza che un principe.
Altra volta parlamo come Tito Manlio, che fu poi detto Torquato,
salvò Lucio Manlio suo padre da una accusa che gli aveva
fatta Marco Pomponio tribuno della plebe. E benché il modo
del salvarlo fosse alquanto violento ed istraordinario, nondimeno
quella filiale piatà verso del padre fu tanto grata allo
universale, che, non solamente non ne fu ripreso, ma, avendosi a
fare i Tribuni delle legioni, fu fatto Tito Manlio nel secondo
luogo. Per il quale successo, credo che sia bene considerare il modo
che tiene il popolo a giudicare gli uomini nelle distribuzioni sue;
e che, per quello noi veggiamo, s'egli è vero quanto di sopra
si conchiuse, che il popolo sia migliore distributore che uno
principe.
Dico, adunque, come il popolo nel suo distribuire va dietro a quello
che si dice d'uno per publica voce e fama, quando per sue opere note
non lo conosce altrimenti, o per presunzione o opinione che si ha di
lui. Le quali due cose sono causate o da' padri di quelli tali che,
per essere stati grandi uomini e valenti nella città, si
crede che i figliuoli debbeno essere simili a loro, infino a tanto
che per le opere di quegli non s'intenda il contrario; o la è
causata dai modi che tiene quello di chi si parla. I modi migliori
che si possino tenere, sono: avere compagnia di uomini gravi, di
buoni costumi, e riputati savi da ciascuno. E perché nessuno
indizio si può avere maggiore d'un uomo, che le compagnie con
quali egli usa; meritamente uno che usa con compagnie oneste,
acquista buono nome, perché è impossibile che non
abbia qualche similitudine di quelle. O veramente si acquista questa
publica fama per qualche azione istraordinaria e notabile ancora che
privata, la quale ti sia riuscita onorevolmente. E di tutte a tre
queste cose che danno nel principio buona riputazione ad uno,
nessuna la dà maggiore che questa ultima: perché
quella prima de' parenti e de' padri è sì fallace, che
gli uomini vi vanno a rilento; ed in poco si consuma, quando la
virtù propria di colui che ha a essere giudicato non
l'accompagna. La seconda, che ti fa conoscere per via delle pratiche
tue, è meglio della prima, ma è molto inferiore alla
terza, perché, infino a tanto che non si vede qualche segno
che nasca da te sta la riputazione tua fondata in su l'opinione, la
quale è facilissima a cancellarla. Ma quella terza, essendo
principiata e fondata in sul fatto ed in su la opera tua, ti
dà nel principio tanto nome, che bisogna bene che operi poi
molte cose contrarie a questa, volendo annullarla. Debbono, adunque,
gli uomini che nascono in una republica pigliare questo verso, ed
ingegnarsi, con qualche operazione istraordinaria, cominciare a
rilevarsi. Il che molti a Roma in gioventù fecero o con il
promulgare una legge che venisse in comune utilità; o con
accusare qualche potente cittadino come transgressore delle leggi; o
col fare simili cose notabili e nuove, di che si avesse a parlare.
Né solamente sono necessarie simili cose per cominciare a
darsi la riputazione ma sono ancora necessarie per mantenerla ed
accrescerla. Ed a volere fare questo, bisogna rinnovarle; come per
tutto il tempo della sua vita fece Tito Manlio: perché,
difeso ch'egli ebbe il padre tanto virtuosamente e
istraordinariamente, e per questa azione presa la prima riputazione
sua, dopo certi anni combatté con quel Francioso, e, morto,
gli trasse quella collana d'oro che gli dette il nome di Torquato.
Non bastò questo, che dipoi, già in età matura,
ammazzò il figliuolo per avere combattuto sanza licenza,
ancora ch'egli avesse superato il nimico. Le quali tre azioni allora
gli dettero più nome e per tutti i secoli lo fanno più
celebre, che non lo fece alcuno trionfo ed alcuna altra vittoria, di
che elli fu ornato quanto alcuno altro Romano. E la cagione
è, perché in quelle vittorie Manlio ebbe moltissimi
simili; in queste particulari azioni n'ebbe o pochissimi o nessuno.
A Scipione maggiore non arrecarono tanta gloria tutti i suoi
trionfi, quanto gli dette lo avere, ancora giovinetto, in sul
Tesino, difeso il padre; e lo avere, dopo la rotta di Canne,
animosamente con la spada sguainata fatto giurare più giovani
romani che ei non abbandonerebbero l'Italia, come di già
infra loro avevano diliberato: le quali due azioni furono principio
alla riputazione sua, e gli feciono scala ai trionfi della Spagna e
dell'Affrica. La quale opinione da lui fu ancora accresciuta, quando
ei rimandò la sua figliuola al padre, e la moglie al marito,
in Ispagna. Questo modo del procedere non è necessario
solamente a quelli cittadini che vogliono acquistare fama per
ottenere gli onori nella loro republica, ma è ancora
necessario ai principi per mantenersi la riputazione nel principato
loro: perché nessuna cosa gli fa tanto stimare, quanto dare
di sé rari esempli con qualche fatto o detto rado, conforme
al bene comune, il quale mostri il signore o magnanimo o liberale o
giusto, e che sia tale che si riduca come in proverbio intra i suoi
suggetti.
Ma, per tornare donde noi cominciamo questo discorso, dico come il
popolo, quando ei comincia a dare uno grado a uno suo cittadino,
fondandosi sopra quelle tre cagioni soprascritte, non si fonda male;
ma poi, quando gli assai esempli de' buoni portamenti d'uno lo fanno
più noto, si fonda meglio, perché in tale caso non
può essere che quasi mai s'inganni. Io parlo solamente di
quelli gradi che si dànno agli uomini nel principio, avanti
che per ferma isperienza siano conosciuti, o che passino da
un'azione a un'altra dissimile: dove, e quanto alla falsa opinione,
e quanto alla corrozione, sempre faranno minori errori che i
principi. E perché e' può essere che i popoli
s'ingannerebbono della fama, della opinione e delle opere d'uno
uomo, stimandole maggiori che in verità non sono, il che non
interverrebbe a uno principe, perché gli sarebbe detto, e
sarebbe avvertito da chi lo consigliasse; perché ancora i
popoli non manchino di questi consigli, i buoni ordinatori delle
republiche hanno ordinato, che, avendosi a creare i supremi gradi
nelle città, dove fosse pericoloso mettervi uomini
insufficienti, e veggendosi la voga popolare essere diritta a creare
alcuno che fosse insufficiente, sia lecito a ogni cittadino, e gli
sia imputato a gloria, di publicare nelle concioni i difetti di
quello, acciocché il popolo, non mancando della sua
conoscenza, possa meglio giudicare.
E che questo si usasse a Roma, ne rende testimonio l'orazione di
Fabio Massimo, la quale ei fece al popolo nella seconda guerra
punica, quando nella creazione de' Consoli i favori si volgevano a
creare Tito Ottacilio; e giudicandolo Fabio insufficiente a
governare in quelli tempi il consolato, gli parlò contro,
mostrando la insufficienza sua; tanto che gli tolse quel grado, e
volse i favori del popolo a chi più lo meritava che lui.
Giudicano, adunque, i popoli, nella elezione a' magistrati, secondo
quelli contrassegni che degli uomini si possono avere più
veri; e quando ei possono essere consigliati come i principi, errano
meno de' principi: e quel cittadino che voglia cominciare a avere i
favori del popolo, debbe con qualche fatto notabile, come fece Tito
Manlio, guadagnarseli.
35
Quali pericoli si portano
nel farsi capo a consigliare una cosa;
e, quanto ella ha più dello istraordinario,
maggiori pericoli vi si corrono.
Quanto sia cosa pericolosa farsi capo d'una cosa nuova che
appartenga a molti, e quanto sia difficile a trattarla ed a
condurla, e, condotta, a mantenerla, sarebbe troppo lunga e troppo
alta materia a discorrerla: però, riserbandola a luogo
più conveniente, parlerò solo di quegli pericoli che
portano i cittadini, o quelli che consigliano uno principe a farsi
capo d'una diliberazione grave ed importante, in modo che tutto il
consiglio di essa sia imputato a lui. Perché, giudicando gli
uomini le cose dal fine, tutto il male che ne risulta s'imputa allo
autore del consiglio; e, se ne risulta bene, ne è commendato:
ma di lunge il premio non contrappesa a il danno. Il presente Sultan
Salì, detto Gran Turco, essendosi preparato (secondo che ne
riferiscono alcuni che vengono de' suoi paesi) di fare la impresa di
Soria e di Egitto, fu confortato da uno suo Bascià, quale ei
teneva ai confini di Persia, di andare contro al Sofì: dal
quale consiglio mosso andò con esercito grossissimo a quella
impresa; e arrivando in uno paese larghissimo, dove sono assai
diserti e le fiumare rade, e trovandovi quelle difficultà che
già fecero rovinare molti eserciti romani, fu in modo
oppressato da quelle, che vi perdé, per fame e per peste,
ancora che nella guerra fosse superiore, gran parte delle sue genti:
talché, irato contro allo autore del consiglio, lo
ammazzò. Leggesi, assai cittadini stati confortatori d'una
impresa, e, per avere avuto quella tristo fine, essere stati mandati
in esilio. Fecionsi capi alcuni cittadini romani, che si facesse in
Roma il Consule plebeio. Occorse che il primo che uscì fuori
con gli eserciti, fu rotto; onde a quegli consigliatori sarebbe
avvenuto qualche danno, se non fosse stata tanto gagliarda quella
parte, in onore della quale tale diliberazione era venuta.
È cosa adunque certissima, che quegli che consigliano una
republica, e quegli che consigliano uno principe, sono posti intra
queste angustie, che, se non consigliano le cose che paiono loro
utili, o per la città o per il principe, sanza rispetto, e'
mancano dell'ufficio loro; se le consigliano, e' gli entrano in
pericolo della vita e dello stato: essendo tutti gli uomini in
questo ciechi, di giudicare i buoni e i cattivi consigli dal fine. E
pensando in che modo ei potessono fuggire o questa infamia o questo
pericolo, non ci veggo altra via che pigliare le cose moderatamente,
e non ne prendere alcuna per sua impresa, e dire la opinione sua
sanza passione, e sanza passione con modestia difenderla: in modo
che, se la città o il principe la segue, che la segua
voluntario, e non paia che vi venga tirato dalla tua
importunità. Quando tu faccia così, non è
ragionevole che uno principe ed uno popolo del tuo consiglio ti
voglia male, non essendo seguito contro alla voglia di molti:
perché quivi si porta pericolo dove molti hanno contradetto,
i quali poi nello infelice fine concorrono a farti rovinare. E se in
questo caso si manca di quella gloria che si acquista nello essere
solo contro a molti a consigliare una cosa, quando ella sortisce
buono fine, ci sono a rincontro due beni: il primo, del mancare di
pericolo; il secondo, che, se tu consigli una cosa modestamente, e
per la contradizione il tuo consiglio non sia preso e per il
consiglio d'altrui ne seguiti qualche rovina, ne risulta a te gloria
grandissima.
E benché la gloria che si acquista de' mali che abbia o la
tua città o il tuo principe, non si possa godere, nondimeno
è da tenerne qualche conto.
Altro consiglio non credo si possa dare agli uomini in questa parte:
perché consigliandogli che tacessono, e che non dicessono
l'opinione loro, sarebbe cosa inutile alla republica o al loro
principe, e non fuggirebbono il pericolo; perché in poco
tempo diventerebbono sospetti: ed ancora potrebbe loro intervenire
come a quegli amici di Perse re de' Macedoni, il quale essendo stato
rotto da Paulo Emilio, e fuggendosi con pochi amici, accadde che,
nel replicare le cose passate, uno di loro cominciò a dire a
Perse molti errori fatti da lui, che erano stati cagione della sua
rovina; al quale Perse rivoltosi, disse: - Traditore, sì che
tu hai indugiato a dirmelo ora che io non ho più rimedio! - e
sopra queste parole di sua mano lo ammazzò. E così
colui portò la pena d'essere stato cheto quando e' doveva
parlare, e di avere parlato quando e' doveva tacere; non
fuggì il pericolo per non avere dato il consiglio.
Però credo che sia da tenere ed osservare i termini
soprascritti.
36
Le cagioni perché i Franciosi
siano stati e siano ancora giudicati
nelle zuffe, da principio più che uomini,
La ferocità di quello Francioso che provocava qualunque
Romano, appresso al fiume Aniene, a combattere seco, dipoi la zuffa
fatta intra lui e Tito Manlio, mi fa ricordare di quello che Tito
Livio più volte dice, che i Franciosi sono nel principio
della zuffa più che uomini, e nel successo del combattere
riescono poi meno che femine. E pensando donde questo nasca, si
crede per molti che sia la natura loro così fatta: il che
credo sia vero; ma non è per questo che questa loro natura,
che gli fa feroci nel principio, non si potesse in modo con l'arte
ordinare, che la gli mantenesse feroci infino nello ultimo.
Ed a volere provare questo, dico come e' sono di tre ragioni
eserciti: l'uno dove è furore ed ordine; perché
dall'ordine nasce il furore e la virtù, come era quello de'
Romani: perché si vede in tutte le istorie, che in quello
esercito era un ordine buono, che vi aveva introdotto una disciplina
militare per lungo tempo. Perché in uno esercito, bene
ordinato, nessuno debbe fare alcuna opera se non regolarlo: e si
troverrà, per questo, che nello esercito romano, dal quale,
avendo elli vinto il mondo, debbono prendere esemplo tutti gli altri
eserciti, non si mangiava, non si dormiva, non si meritricava, non
si faceva alcuna azione o militare o domestica sanza l'ordine del
console. Perché quegli eserciti che fanno altrimenti, non
sono veri eserciti; e se fanno alcuna pruova, la fanno per furore e
per impeto, e non per virtù. Ma dove la virtù ordinata
usa il furore suo con i modi e co' tempi, né
difficultà veruna lo invilisce, né li fa mancare
l'animo: perché gli ordini buoni gli rinfrescono l'animo ed
il furore, nutriti dalla speranza del vincere; la quale mai non
manca, infino a tanto che gli ordini stanno saldi. Al contrario
interviene in quelli eserciti dove è furore e non ordine,
come erano i Franciosi, i quali tuttavia nel combattere mancavano,
perché, non riuscendo loro con il primo impeto vincere, e non
essendo sostenuto da una virtù ordinata quello loro furore
nel quale egli speravano né avendo fuori di quello cosa in la
quale ei cunfidassono come quello era raffreddo, mancavano. Al
contrario i Romani, dubitando meno de' pericoli per gli ordini loro
buoni non diffidando della vittoria, fermi ed ostinati combattevano
col medesimo animo e con la medesima virtù nel fine che nel
principio: anzi, agitati dalle armi, sempre si accendevano. La terza
qualità di eserciti è dove non è furore
naturale né ordine accidentale: come sono gli eserciti
italiani de' nostri tempi, i quali sono al tutto inutili; e se non
si abbattano a uno esercito che per qualche accidente si fugga, mai
non vinceranno. E sanza addurre altri esempli, si vede, ciascuno
dì, come ei fanno pruove di non avere alcuna virtù. E
perché, con il testimonio di Tito Livio, ciascuno intenda
come debbe essere fatta la buona milizia, e come è fatta la
rea; io voglio addurre le parole di Papirio Cursore, quando ei
voleva punire Fabio, Maestro de' cavalli, quando disse: «Nemo
hominum, nemo Deorum, verecundiam habeat; non edicta imperatorum,
non auspicia observentur; sine commeatu vagi milites in pacato, in
hostico errent; immemores sacramenti, licentia sola se ubi velint
exauctorent; infrequentia deserant signa; neque conveniatur ad
edictum, nec discernantur, interdiu nocte; aequo iniquo loco, iussu
iniussu imperatoris pugnent; et non signa, non ordines servent:
latrocinii modo, caeca et fortuita pro sollemni et sacrata militia
sit». E puossi per questo testo adunque, facilmente vedere se
la milizia de' nostri tempi è cieca e fortuita, o sacrata e
solenne; e quanto le manca a essere simile a quella che si
può chiamare milizia; e quanto ella è discosto da
essere furiosa ed ordinata, come la romana, o furiosa solo, come la
franciosa.
37
Se le piccole battaglie
innanzi alla giornata sono necessarie;
e come si debbe fare a conoscere
uno inimico nuovo,
volendo fuggire quelle.
E' pare che nelle azioni degli uomini, come altra volta abbiamo
discorso, si truovi, oltre alle altre difficultà, nel volere
condurre la cosa alla sua perfezione, che sempre propinquo al bene
sia qualche male, il quale con quel bene sì facilmente nasca
che pare impossibile potere mancare dell'uno, volendo l'altro. E
questo si vede in tutte le cose che gli uomini operano. E
però si acquista il bene con difficultà, se dalla
fortuna tu non se' aiutato in modo, che ella con la sua forza vinca
questo ordinario e naturale inconveniente. Di questo mi ha fatto
ricordare la zuffa di Manlio e del Francioso, dove Tito Livio dice:
«Tanti ea dimicatio ad universi belli eventum momenti fuit, ut
Gallorum exercitus, relictis trepide Castris, in Tiburtem agrum mox
in Campaniam transierit». Perché io considero, dall'uno
canto, che uno buono capitano debbe fuggire, al tutto, di operare
alcuna cosa, che, essendo di poco momento, possa fare cattivi
effetti nel suo esercito: perché cominciare una zuffa dove
non si operino tutte le forze e vi si arrischi tutta la fortuna,
è cosa al tutto temeraria; come io dissi di sopra, quando io
dannai il guardare de' passi.
Dall'altra parte, io considero come i capitani savi, quando vengono
allo incontro d'uno nuovo nimico, e ch'e' sia riputato, ei sono
necessitati, prima che venghino alla giornata, fare provare, con
leggieri zuffe, ai loro soldati, tali nimici; acciocché,
cominciandogli a conoscere e maneggiare, perdino quel terrore che la
fama e la riputazione aveva dato loro. E questa parte in uno
capitano è importantissima; perché ella ha in
sé quasi una necessità che ti costringe a farla,
parendoti andare ad una manifesta perdita, sanza avere prima fatto,
con piccole isperienze, di tôrre ai tuoi soldati quello
terrore che la riputazione del nimico aveva messo negli animi loro.
Fu Valerio Corvino mandato dai Romani con gli eserciti contro ai
Sanniti nuovi inimici, e che per lo addietro mai non avevano provate
l'armi l'uno dell'altro, dove dice Tito Livio, che Valerio fece fare
ai Romani con i Sanniti alcune leggieri zuffe «ne eos novum
bellum, ne novus hostis terreret». Nondimeno è pericolo
gravissimo, che, restando i tuoi soldati in quelle battaglie vinti,
la paura e la viltà non cresca loro, e ne conseguitino
contrari effetti a' disegni tuoi: cioè, che tu gli
sbigottisca, avendo disegnato di assicurargli: tanto che questa
è una di quelle cose che ha il male sì propinquo al
bene, e tanto sono congiunti insieme, che gli è facil cosa
prendere l'uno, credendo pigliare l'altro. Sopra che io dico, che
uno buono capitano debbe osservare con ogni diligenza, che non surga
alcuna cosa che per alcuno accidente possa tôrre l'animo allo
esercito suo. Quello che gli può tôrre l'animo è
cominciare a perdere; e però si debbe guardare dalle zuffe
piccole, e non le permettere se non con grandissimo vantaggio, e con
speranza di certa vittoria: non debbe fare imprese di guardare
passi, dove non possa tenere tutto lo esercito suo: non debbe
guardare terre, se non quelle che, perdendole, di necessità
ne seguisse la rovina sua; e quelle che guarda, ordinarsi in modo, e
con le guardie di esse e con lo esercito, che, trattandosi della
ispugnazione di esse, ei possa adoperare tutte le forze sue; l'altre
debbe lasciare indifese. Perché ogni volta che si perde una
cosa che si abbandoni, e lo esercito sia ancora insieme, non si
perde la riputazione della guerra né la speranza del
vincerla: ma quando si perde una cosa che tu hai disegnata
difendere, e ciascuno crede che tu la difenda, allora è il
danno e la perdita; ed hai quasi, come i Franciosi, con una cosa di
piccolo momento perduta la guerra.
Filippo di Macedonia, padre di Perse, uomo militare e di gran
condizione ne' tempi suoi, essendo assaltato dai Romani, assai de'
suoi paesi, i quali elli giudicava non potere guardare,
abbandonò e guastò: come quello che, per essere
prudente, giudicava più pernizioso perdere la riputazione col
non potere difendere quello che si metteva a difendere, che,
lasciandolo in preda al nimico perderlo come cosa negletta. I
Romani, quando dopo la rotta di Canne le cose loro erano afflitte,
negarono a molti loro raccomandati e sudditi gli aiuti, commettendo
loro che si difendessono il meglio potessono. I quali partiti sono
migliori assai, che pigliare difese e poi non le difendere:
perché in questo partito si perde amici e forze; in quello,
amici solo. Ma tornando alle piccole zuffe, dico che, se pure uno
capitano è costretto per la novità del nimico fare
qualche zuffa, debbe farla con tanto suo vantaggio, che non vi sia
alcuno pericolo di perderla: o veramente fare come Mario (il che
è migliore partito), il quale, andando contro a' Cimbri,
popoli ferocissimi, che venivano a predare Italia, e venendo con uno
spavento grande per la ferocità e moltitudine loro, e per
avere di già vinto uno esercito romano, giudicò Mario
essere necessario, innanzi che venisse alla zuffa, operare alcuna
cosa per la quale lo esercito suo deponesse quel terrore che la
paura del nimico gli aveva dato; e, come prudentissimo capitano,
più che una volta collocò lo esercito suo in luogo
donde i Cimbri con lo esercito loro dovessono passare. E
così, dentro alle fortezze del suo campo, volle che i suoi
soldati gli vedessono, ed assuefacessono li occhi alla vista di
quello nimico; acciocché, vedendo una moltitudine inordinata,
piena d'impedimenti, con armi inutili, e parte disarmati, si
rassicurassono, e diventassono desiderosi della zuffa. Il quale
partito, come fu da Mario saviamente preso, così dagli altri
debbe essere diligentemente imitato, per non incorrere in quelli
pericoli che io dico disopra, e non avere a fare come i Franciosi,
«qui ob rem parvi ponderis trepidi, in Tiburtem agrum et in
Campaniam transierunt». E perché noi abbiamo allegato
in questo discorso Valerio Corvino, voglio, mediante le parole sue,
nel seguente capitolo, come debbe essere fatto uno capitano,
dimostrare.
38
Come debbe essere fatto uno capitano
nel quale lo esercito suo possa confidare.
Era, come di sopra dicemo, Valerio Corvino con lo esercito contro ai
Sanniti, nuovi nimici del Popolo romano: donde che, per assicurare i
suoi soldati, e per farli conoscere i nimici, fece fare a' suoi
certe leggieri zuffe; e non gli bastando questo, volle, avanti alla
giornata, parlare loro, e mostrò, con ogni efficacia, quanto
ei dovevano stimare poco tali nimici, allegando la virtù de'
suoi soldati, e la propria. Dove si può notare, per le parole
che Livio gli fa dire, come debbe essere fatto uno capitano in chi
lo esercito abbia a confidare; le quali parole sono queste:
«Tum etiam intueri, cuius ductu auspicioque ineunda pugna sit,
utrum, qui audiendus dumtaxat magnificus adhortator sit, verbis
tantum ferox, operum militarium expers, an qui et ipse tela
tractare, procedere ante signa, versari media in mole pugnae sciat.
Facta mea, non dicta, vos, milites, sequi volo; nec disciplinam
modo, sed exemplum etiam a me petere, qui hac dextra mihi tres
consulatus, summamque laudem peperi». Le quali parole,
considerate bene, insegnano a qualunque, come ei debbe procedere a
volere tenere il grado del capitano: e quello che sarà fatto
altrimenti, troverrà, con il tempo, quel grado, quando per
fortuna o per ambizione vi sia condotto, torgli e non dargli
riputazione; perché non i titoli illustrono gli uomini, ma
gli uomini i titoli. Debbesi ancora dal principio di questo discorso
considerare che, se gli capitani grandi hanno usati termini
istraordinari a fermare gli animi d'uno esercito veterano quando con
i nimici inconsueti debbe affrontarsi; quanto maggiormente si abbia
a usare la industria quando si comandi uno esercito nuovo, che non
abbia mai veduto il nimico in viso! Perché, se lo inusitato
inimico allo esercito vecchio dà terrore, tanto maggiormente
lo debbe dare ogni inimico a uno esercito nuovo. Pure, si è
veduto molte volte dai buoni capitani tutte queste difficultà
con somma prudenza essere vinte: come fece quel Gracco romano, ed
Epaminonda tebano, de' quali altra volta abbiamo parlato, che con
eserciti nuovi vinsono eserciti veterani ed esercitatissimi.
I modi che ei tenevano, era: parecchi mesi esercitargli in battaglie
fitte e assuefargli alla ubbidienza ed allo ordine; e da quelli poi,
con massima confidenza, nella vera zuffa gli adoperavano. Non si
debba, adunque, diffidare alcuno uomo militare di non potere fare
buoni eserciti, quando non gli manchi uomini; perché quel
principe, che abbonda di uomini e manca di soldati, debbe solamente,
non della viltà degli uomini, ma della sua pigrizia e poca
prudenza, dolersi.
39
Che uno capitano
debbe essere conoscitore de' siti.
Intra le altre cose che sono necessarie a uno capitano di eserciti,
è la cognizione de' siti e de' paesi; perché, sanza
questa cognizione generale e particulare, uno capitano di eserciti
non può bene operare alcuna cosa. E perché tutte le
scienze vogliono pratica a volere perfettamente possederle, questa
è una che ricerca pratica grandissima. Questa pratica, ovvero
questa particulare cognizione, si acquista più mediante le
cacce che per veruno altro esercizio. Però gli antichi
scrittori dicono che quelli eroi che governarono nel loro tempo il
mondo, si nutrirono nelle selve e nelle cacce; perché la
caccia, oltre a questa cognizione, c'insegna infinite cose che sono
nella guerra necessarie. E Senofonte, nella vita di Ciro, mostra
che, andando Ciro ad assaltare il re d'Armenia, nel divisare quella
fazione, ricordò a quegli suoi, che questa non era altro che
una di quelle cacce le quali molte volte avevano fatte seco. E
ricordava a quelli che mandava in agguato in su e' monti, che gli
erano simili a quelli che andavano a tendere le reti in su e'
gioghi; ed a quelli che scorrevano per il piano, erano simili a
quegli che andavano a levare del suo covile la fiera,
acciocché, cacciata, desse nelle reti.
Questo si dice per mostrare come le cacce, secondo che Senofonte
appruova, sono una immagine d'una guerra: e per questo agli uomini
grandi tale esercizio è onorevole e necessario. Non si
può ancora imparare questa cognizione de' paesi in altro
commodo modo, che per via di caccia, perché la caccia fa, a
colui che la usa sapere come sta particularmente quel paese dove
elli la esercita. E fatto che uno si è familiare bene una
regione, con facilità comprende poi tutti i paesi nuovi;
perché ogni paese ed ogni membro di quelli hanno insieme
qualche conformità, in modo che dalla cognizione d'uno
facilmente si passa alla cognizione dell'altro. Ma chi non ne ha
bene pratico uno, con difficultà, anzi non mai se non con un
lungo tempo, può conoscere l'altro. E chi ha questa pratica,
in uno voltare d'occhio sa come giace quel piano, come surge quel
monte, dove arriva quella valle, e tutte le altre simili cose, di
che elli ha per lo addietro fatto una ferma scienza. E che questo
sia vero, ce lo mostra Tito Livio con lo esemplo di Publio Decio; il
quale, essendo Tribuno de' soldati nello esercito che Cornelio
consolo conduceva contro ai Sanniti, ed essendosi il Consolo ridotto
in una valle, dove lo esercito de' Romani poteva dai Sanniti essere
rinchiuso, e vedendosi in tanto pericolo, disse al Consolo:
«Vides tu, Aule Corneli, cacumen illud supra hostem? arx illa
est spei salutisque nostrae, si eam (quoniam caeci reliquere
Samnites) impigre capimus». Ed innanzi a queste parole, dette
da Decio, Tito Livio dice: «Publius Decius tribunus militum,
conspicit unum editum in saltu collem, imminentem hostium castris
aditu arduum impedito agmini, expeditis haud difficilem».
Donde, essendo stato mandato sopra esso dal Consolo con tremila
soldati, ed avendo salvo lo esercito romano e disegnando, venente la
notte, di partirsi, e salvare ancora sé ed i suoi soldati,
gli fa dire queste parole: «Ite mecum, ut, dum lucis aliquid
superest, quibus locis hostes praesidia ponant, qua pateat hinc
exitus, exploremus. Haec omnia sagulo militari amicus ne ducem
circumire hostes notarent, perlustravit». Chi
considerrà, adunque, tutto questo testo, vedrà quanto
sia utile e necessario a uno capitano sapere la natura de' paesi:
perché, se Decio non gli avesse saputi e conosciuti, non
arebbe potuto giudicare quale utile faceva pigliare quel colle, allo
esercito Romano, né arebbe potuto conoscere di discosto, se
quel colle era accessibile o no; e condotto che si fu poi sopra
esso, volendosene partire per ritornare al Consolo, avendo i nimici
intorno, non arebbe dal discosto potuto speculare le vie dello
andarsene, e gli luoghi guardati da' nimici. Tanto che, di
necessità conveniva, che Decio avesse tale cognizione
perfetta: la quale fece che, con il pigliare quel colle, ei
salvò lo esercito romano; dipoi seppe, sendo assediato,
trovare la via a salvare sé e quegli che erano stati seco.
40
Come usare la fraude
nel maneggiare la guerra
è cosa gloriosa.
Ancora che lo usare la fraude in ogni azione sia detestabile,
nondimanco nel maneggiare la guerra è cosa laudabile e
gloriosa; e, parimente è laudato colui che con fraude supera
il nimico, come quello che lo supera con le forze. E vedesi questo
per il giudicio che ne fanno coloro che scrivono le vite degli
uomini grandi; i quali lodono Annibale e gli altri che sono stati
notabilissimi in simili modi di procedere. Di che per leggersi assai
esempli, non ne replicherò alcuno. Dirò solo questo,
che io non intendo quella fraude essere gloriosa, che ti fa rompere
la fede data ed i patti fatti; perché questa, ancora che la
ti acquisti, qualche volta, stato e regno, come di sopra si
discorse, la non ti acquisterà mai gloria. Ma parlo di quella
fraude che si usa con quel nimico che non si fida di te, e che
consiste proprio nel maneggiare la guerra; come fu quella di
Annibale quando in sul lago di Perugia simulò la fuga per
rinchiudere il Consolo e lo esercito romano, e quando, per uscire di
mano di Fabio Massimo, accese le corna dello armento suo.
Alle quali fraudi fu simile questa che usò Ponzio capitano
dei Sanniti, per rinchiudere lo esercito romano dentro alle Forche
Caudine: il quale, avendo messo lo esercito suo a ridosso de' monti,
mandò più suoi soldati sotto veste di pastori con
assai armento per il piano; i quali sendo presi dai Romani, e
domandati dove era lo esercito de' Sanniti, convennono tutti,
secondo l'ordine dato da Ponzio, a dire come egli era allo assedio
di Nocera. La quale cosa, creduta dai Consoli, fece che ei si
rinchiusono dentro ai balzi caudini; dove entrati, furono subito
assediati dai Sanniti. E sarebbe stata questa vittoria, avuta per
fraude, gloriosissima a Ponzio, se egli avesse seguitati i consigli
del padre il quale voleva che i Romani o ei si salvassono
liberamente o ei si ammazzassono tutti, e che non si pigliasse la
via del mezzo, «quae, neque amicos parat neque inimicos
tollit». La quale via fu sempre perniziosa nelle cose di stato
come di sopra in altro luogo si discorse.
41
Che la patria si debbe difendere
o con ignominia o con gloria;
ed in qualunque modo è bene difesa.
Era, come di sopra si è detto, il Consolo e lo esercito
romano assediato da' Sanniti: i quali avendo posto ai Romani
condizioni ignominiosissime (come era volergli mettere sotto il
giogo, e disarmati rimandargli a Roma), e per questo stando i
Consoli come attoniti, e tutto lo esercito disperato; Lucio Lentolo,
legato romano, disse che non gli pareva che fosse da fuggire
qualunque partito per salvare la patria: perché, consistendo
la vita di Roma nella vita di quello esercito, gli pareva da
salvarlo in ogni modo; e che la patria è bene difesa in
qualunque modo la si difende, o con ignominia o con gloria:
perché, salvandosi quello esercito, Roma era a tempo a
cancellare la ignominia; non si salvando, ancora che gloriosamente
morisse, era perduto Roma e la libertà sua. E così fu
seguitato il suo consiglio. La quale cosa merita di essere notata ed
osservata da qualunque cittadino si truova a consigliare la patria
sua: perché dove si dilibera al tutto della salute della
patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di
giusto né d'ingiusto, né di piatoso né di
crudele, né di laudabile né d'ignominioso; anzi,
posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le
salvi la vita e mantenghile la libertà. La quale cosa
è imitata con i detti e con i fatti dai Franciosi, per
difendere la maestà del loro re e la potenza del loro regno;
perché nessuna voce odono più impazientemente che
quella che dicesse: - Il tale partito è ignominioso per il re
-; perché dicono che il loro re non può patire
vergogna in qualunque sua diliberazione, o in buona o in avversa
fortuna: perché, se perde, se vince, tutto dicono essere cose
da re.
42
Che le promesse fatte per forza,
non si debbono osservare.
Tornati i Consoli con lo esercito disarmato e con la ricevuta
ignominia a Roma, il primo che in Senato disse che la pace fatta a
Caudio non si doveva osservare, fu il consolo Spurio Postumio;
dicendo, come il popolo romano non era obligato, ma ch'egli era bene
obligato esso e gli altri che avevano promessa la pace: e
però il popolo, volendosi liberare da ogni obligo, aveva a
dare prigioni nelle mani de' Sanniti lui e tutti gli altri che
l'avevano promessa. E con tanta ostinazione tenne questa
conclusione, che il Senato ne fu contento; e mandando prigioni lui e
gli altri in Sannio, protestarono ai Sanniti la pace non valere. E
tanto fu in questo caso, a Postumio, favorevole la fortuna, che i
Sanniti non lo ritennono; e ritornato in Roma, fu Postumio appresso
ai Romani più glorioso per avere perduto, che non fu Ponzio
appresso ai Sanniti per avere vinto. Dove sono da notare due cose:
l'una, che in qualunque azione si può acquistare gloria,
perché nella vittoria si acquista ordinariamente; nella
perdita si acquista o col mostrare tale perdita non essere venuta
per tua colpa, o per fare subito qualche azione virtuosa che la
cancelli: l'altra è, che non è vergognoso non
osservare quelle promesse che ti sono state fatte promettere per
forza; e sempre le promesse forzate che riguardano il publico,
quando e' manchi la forza, si romperanno, e fia sanza vergogna di
chi le rompe. Di che si leggono in tutte le istorie vari esempli; e
ciascuno dì, ne' presenti tempi, se ne veggono. E non
solamente non si osservano intra i principi le promesse forzate,
quando e' manca la forza; ma non si osservano ancora tutte le altre
promesse, quando e' mancano le cagioni che le feciono promettere. Il
che se è cosa laudabile o no, o se da uno principe si debbono
osservare simili modi o no, largamente è disputato da noi nel
nostro trattato De Principe: però al presente lo tacereno.
43
Che gli uomini,
che nascono in una provincia,
osservino per tutti i tempi
quasi quella medesima natura.
Sogliono dire gli uomini prudenti, e non a caso né
immeritamente, che chi vuole vedere quello che ha a essere,
consideri quello che è stato; perché tutte le cose del
mondo, in ogni tempo, hanno il proprio riscontro con gli antichi
tempi. Il che nasce perché, essendo quelle operate dagli
uomini, che hanno ed ebbono sempre le medesime passioni, conviene di
necessità che le sortischino il medesimo effetto. Vero
è, che le sono le opere loro ora in questa provincia
più virtuose che in quella, ed in quella più che in
questa, secondo la forma della educazione nella quale quegli popoli
hanno preso il modo del vivere loro. Fa ancora facilità il
conoscere le cose future per le passate; vedere una nazione lungo
tempo tenere i medesimi costumi, essendo o continovamente avara, o
continovamente fraudolente, o avere alcuno altro simile vizio o
virtù. E chi leggerà le cose passate della nostra
città di Firenze, e considererà quelle ancora che sono
ne' prossimi tempi occorse, troverrà i popoli tedeschi e
franciosi pieni di avarizia, di superbia, di ferocità e
d'infidelità; perché tutte queste quattro cose in
diversi tempi hanno offeso molto la nostra città. E quanto
alla poca fede, ognuno sa quante volte si dette danari a re Carlo
VIII, ed elli prometteva rendere le fortezze di Pisa, e non mai le
rendé. In che quel re mostrò la poca fede, e l'assai
avarizia sua. Ma lasciamo andare queste cose fresche. Ciascuno
può avere inteso quello che seguì nella guerra che
fece il popolo fiorentino contro a' Visconti duchi di Milano; ed
essendo Firenze privo degli altri ispedienti, pensò di
condurre lo imperadore in Italia, il quale con la riputazione e
forze sue assaltasse la Lombardia. Promisse lo imperadore venire con
assai genti, e fare quella guerra contro a' Visconti, e difendere
Firenze dalla potenza loro, quando i Fiorentini gli dessono
centomila ducati per levarsi, e centomila poi ch'ei fosse in Italia.
Ai quali patti consentirono i Fiorentini; e pagatigli i primi
danari, e dipoi i secondi, giunto che fu a Verona, se ne
tornò indietro sanza operare alcuna cosa, causando essere
restato da quegli che non avevano osservate le convenzioni erano fra
loro. In modo che, se Firenze non fosse stata o costretta dalla
necessità o vinta dalla passione, ed avesse letti e
conosciuti gli antichi costumi de' barbari, non sarebbe stata
né questa né molte altre volte ingannata da loro;
essendo loro stati sempre a un modo, ed avendo in ogni parte e con
ognuno usati i medesimi termini. Come ei si vede ch'ei fecero
anticamente a' Toscani, i quali essendo oppressi dai Romani, per
essere stati da loro più volte messi in fuga e rotti; e
veggendo mediante le loro forze non potere resistere allo impeto di
quegli; convennono, con i Franciosi che di qua dall'Alpi abitavano
in Italia, di dare loro somma di danari, e che fussono obligati
congiugnere gli eserciti con loro, ed andare contro ai Romani: donde
ne seguì che i Franciosi, presi i danari, non vollono dipoi
pigliare l'armi per loro, dicendo avergli avuti, non per fare guerra
con i loro nimici, ma perché si astenessino di predare il
paese toscano. E così i popoli toscani, per l'avarizia e poca
fede de' Franciosi, rimasono ad un tratto privi de' loro danari, e
degli aiuti che gli speravono da quegli. Talché si vede, per
questo esemplo de' Toscani antichi, e per quello de' Fiorentini, i
Franciosi avere usati i medesimi termini; e per questo facilmente si
può conietturare, quanto i principi si possono fidare di
loro.
44
E' si ottiene con l'impeto e con l'audacia
molte volte
quello che con modi ordinarii
non si otterrebbe mai.
Essendo i Sanniti assaltati dallo esercito di Roma, e non potendo
con lo esercito loro stare alla campagna a petto ai Romani,
diliberarono lasciare guardate le terre in Sannio e di passare con
tutto lo esercito loro in Toscana, la quale era in triegua con i
Romani; e vedere, per tale passata, se ei potessono con la presenzia
dello esercito loro indurre i Toscani a ripigliare l'armi; il che
avevano negato ai loro ambasciadori. E nel parlare che feciono i
Sanniti ai Toscani, nel mostrare, massime, qual cagione gli aveva
indotti a pigliare l'armi, usarono uno termine notabile, dove
dissono: «rebellasse, quod pax servientibus gravior, quam
liberis bellum esset». E così, parte con le
persuasioni, parte con la presenza dello esercito loro, gl'indussono
a ripigliare l'armi. Dove è da notare che quando uno principe
desidera ottenere una cosa da uno altro, debbe, se la occasione lo
patisce, non gli dare spazio a diliberarsi, e fare in modo che vegga
la necessità della presta diliberazione; la quale è
quando colui che è domandato vede che dal negare o dal
differire ne nasca una subita e pericolosa indegnazione.
Questo termine si è veduto bene usare ne' nostri tempi da
papa Iulio con i Franciosi, e da monsignore di Fois capitano del re
di Francia col marchese di Mantova: perché papa Iulio,
volendo cacciare i Bentivogli di Bologna, e giudicando, per questo,
avere bisogno delle forze franciose, e che i Viniziani stessono
neutrali; ed avendone ricerco l'uno e l'altro, e traendo da loro
risposta dubbia e varia; diliberò col non dare loro tempo
fare venire l'uno e l'altro nella sentenza sua: e partitosi da Roma
con quelle tante genti ch'ei poté raccozzare, ne andò
verso Bologna; ed ai Viniziani mandò a dire che stessono
neutrali, ed al re di Francia, che gli mandasse le forze.
Talché, rimanendo tutti distretti dal poco spazio di tempo, e
veggendo come nel papa doveva nascere una manifesta indegnazione
differendo o negando, cederono alle voglie sue, ed il re gli
mandò aiuto, ed i Viniziani si stettono neutrali. Monsignor
di Fois, ancora, essendo con lo esercito in Bologna, ed avendo
intesa la ribellione di Brescia, e volendo ire alla ricuperazione di
quella, aveva due vie; l'una per il dominio del re, lunga e tediosa;
l'altra, breve, per il dominio di Mantova: e non solamente era
necessitato passare per il dominio di quel marchese, ma gli
conveniva entrare per certe chiuse intra paludi e laghi, di che
è piena quella regione, le quali con fortezze ed altri modi
erano serrate e guardate da lui. Onde che Fois, diliberato d'andare
per la più corta, e per vincere ogni difficultà
né dare tempo al marchese a diliberarsi, a un tratto mosse le
sue genti per quella via, ed al marchese significò gli
mandasse le chiavi di quel passo. Talché il marchese,
occupato da questa subita diliberazione, gli mandò le chiavi:
le quali mai gli arebbe mandate se Fois più trepidamente si
fosse governato, essendo quello marchese in lega con il Papa e con i
Viniziani, ed avendo uno suo figliuolo nelle mani del Papa; le quali
cose gli davano molte oneste scuse a negarle. Ma assaltato dal
subito partito, per le cagioni che di sopra si dicono, le concesse.
Così feciono i Toscani coi Sanniti, avendo, per la presenza
dello esercito di Sannio, preso quelle armi che gli avevano negato,
per altri tempi, pigliare.
45
Quale sia migliore partito nelle giornate,
o sostenere l'impeto de' nimici,
e, sostenuto, urtargli;
ovvero da prima con furia assaltargli.
Erano Decio e Fabio, consoli romani, con due eserciti all'incontro
degli eserciti de' Sanniti e de' Toscani; e venendo alla zuffa ed
alla giornata insieme, è da notare, in tale fazione, quale
de' due diversi modi di procedere tenuti dai due Consoli sia
migliore. Perché Decio con ogni impeto e con ogni suo sforzo
assaltò il nimico; Fabio solamente lo sostenne, giudicando lo
assalto lento essere più utile, riserbando l'impeto suo nello
ultimo, quando il nimico avesse perduto el primo ardore del
combattere, e, come noi diciamo, la sua foga. Dove si vede, per il
successo della cosa, che a Fabio riuscì molto meglio il
disegno che a Decio: il quale si straccò ne' primi impeti; in
modo che, vedendo la banda sua più tosto in volta che
altrimenti, per acquistare con la morte quella gloria alla quale con
la vittoria non aveva potuto aggiugnere, ad imitazione del padre
sacrificò sé stesso per le romane legioni. La quale
cosa intesa da Fabio, per non acquistare manco onore vivendo, che si
avesse il suo collega acquistato morendo, spinse innanzi tutte
quelle forze che si aveva a tale necessità riservate; donde
ne riportò una felicissima vittoria. Donde si vede che il
modo del procedere di Fabio è più sicuro e più
imitabile.
46
Donde nasce
che una famiglia in una città
tiene un tempo i medesimi costumi.
E' pare che non solamente l'una città dall'altra abbia certi
modi ed instituti diversi, e procrei uomini o più duri o
più effeminati, ma nella medesima città si vede tale
differenza essere nelle famiglie, l'una dall'altra. Il che si
riscontra essere vero in ogni città, e nella città di
Roma se ne leggono assai esempli: perché e' si vede i Manlii
essere stati duri ed ostinati, i Publicoli uomini benigni ed amatori
del popolo, gli Appii ambiziosi e nimici della Plebe: e così
molte altre famiglie avere avute ciascuna le qualità sue
spartite dall'altre. Le quali cose non possono nascere solamente dal
sangue, perché conviene che varii mediante la
diversità de' matrimonii; ma è necessario venga dalla
diversa educazione che ha l'una famiglia dall'altra. Perché
gl'importa assai che un giovanetto da' teneri anni cominci a sentire
dire bene o male d'una cosa; perché conviene di
necessità ne faccia impressione, e da quella poi regoli il
modo del procedere in tutti i tempi della sua vita. E se questo non
fusse, sarebbe impossibile che tutti gli Appii avessono avuto la
medesima voglia, e fossono stati agitati dalle medesime passioni,
come nota Tito Livio in molti di loro: e per ultimo, essendo uno di
loro fatto Censore ed avendo il suo collega alla fine de' diciotto
mesi, come ne disponeva la legge, diposto il magistrato, Appio non
lo volle diporre, dicendo che lo poteva tenere cinque anni, secondo
la prima legge ordinata da' Censori. E benché sopra questo se
ne facessero assai concioni, e generassissene assai tumulti, non
pertanto non ci fu mai rimedio che volesse diporlo, contro alla
volontà del Popolo e della maggiore parte del Senato. E chi
leggerà la orazione gli fece contro Publio Sempronio tribuno
della plebe, vi noterà tutte le insolenzie appiane, e tutte
le bontà ed umanità usate da infiniti cittadini per
ubbidire alle leggi ed agli auspicii della loro patria.
47
Che uno buono cittadino
per amore della patria
debbe dimenticare le ingiurie private.
Era Marzio consolo con lo esercito contro ai Sanniti, ed essendo
stato in una zuffa ferito, e per questo portando le genti sue
pericolo, giudicò il Senato essere necessario mandarvi
Papirio Cursore dittatore per sopperire ai difetti del consolo. Ed
essendo necessario che il Dittatore fosse nominato da Fabio, quale
era consolo con gli eserciti in Toscana; e dubitando, per essergli
nimico, che non volesse nominarlo; gli mandarono i Senatori due
ambasciadori a pregarlo, che, posto da parte i privati odii, dovesse
per beneficio publico nominarlo. Il che Fabio fece, mosso dalla
carità della patria; ancora che col tacere e con molti altri
modi facesse segno che tale nominazione gli premesse. Dal quale
debbono pigliare esemplo tutti quelli che cercano di essere tenuti
buoni cittadini.
48
Quando si vede fare
uno errore grande a uno nimico,
si debbe credere
che vi sia sotto inganno.
Essendo rimaso Fulvio Legato nello esercito che e' Romani avevano in
Toscana, essendo ito il Consolo per alcune cerimonie a Roma, i
Toscani, per vedere se potevano avere quello alla tratta, posono uno
aguato propinquo a' campi romani, e mandarono alcuni soldati con
veste di pastori con assai armento, e li feciono venire alla vista
dello esercito romano: i quali così travestiti si accostarono
allo steccato del campo; onde che il Legato, maravigliatosi di
questa loro presunzione, non gli parendo ragionevole, tenne modo
ch'egli scoperse la fraude; e così restò il disegno
de' Toscani rotto. Qui si può commodamente notare, che uno
capitano di eserciti non debbe prestare fede ad uno errore che
evidentemente si vegga fare al nimico: perché sempre vi
sarà sotto fraude, non sendo ragionevole che gli uomini siano
tanto incauti. Ma spesso il disiderio del vincere acceca gli animi
degli uomini, che non veggono altro che quello pare facci per loro.
I Franciosi, avendo vinto i Romani ad Allia, e venendo a Roma, e
trovando le porte aperte e sanza guardia, stettero tutto quel giorno
e la notte sanza entrarvi, temendo di fraude, e non potendo credere
che fusse tanta viltà e tanto poco consiglio ne' petti
romani, che gli abbandonassono la patria. Quando nel 1508, stando li
Fiorentini, a campo a Pisa, Alfonso Del Mutolo, cittadino pisano, si
trovava prigione de' Fiorentini e' promisse che, s'egli era libero,
che darebbe una porta di Pisa allo esercito fiorentino. Fu costui
libero: dipoi, per praticare la cosa, venne molte volte a parlare
con i legati de' commessari; e veniva non di nascosto ma scoperto ed
accompagnato da' Pisani; i quali lasciava da parte, quando parlava
con i Fiorentini. Talmenteché si poteva conietturare il suo
animo doppio; perché non era ragionevole, se la pratica fosse
stata fedele, ch'elli l'avesse trattata sì alla scoperta. Ma
il disiderio che si aveva di avere Pisa, accecò in modo i
Fiorentini, che, condottisi con l'ordine suo alla porta a Lucca, vi
lasciarono più loro capi ed altre genti, con disonore loro,
per il tradimento doppio che fece detto Alfonso.
49
Una republica,
a volerla mantenere libera,
ha ciascuno dì
bisogno di nuovi provvedimenti;
e per quali meriti Quinto Fabio
fu chiamato Massimo.
È di necessità, come altre volte si è detto,
che ciascuno dì in una città grande naschino accidenti
che abbiano bisogno del medico; e secondo che gl'importano
più, conviene trovare il medico più savio. E se in
alcuna città nacquono mai simili accidenti, nacquono in Roma
e strani ed insperati; come fu quello quando e' parve che tutte le
donne romane avessono congiurato contro ai loro mariti di
ammazzargli: tante se ne trovò che gli avevano avvelenati, e
tante che avevano preparato il veleno per avvelenargli. Come fu
ancora quella congiura de' Baccanali, che si scoprì nel tempo
della guerra macedonica, dove erano già inviluppati molte
migliaia di uomini e di donne; e, se la non si scopriva, sarebbe
stata pericolosa per quella città, o se pure i Romani non
fussono stati consueti a gastigare le moltitudini degli erranti:
perché, quando e' non si vedesse per altri infiniti segni la
grandezza di quella Republica, e la potenza delle esecuzioni sue, si
vede per le qualità della pena che la imponeva a chi errava.
Né dubitò fare morire per via di giustizia una legione
intera per volta, ed una città; e di confinare otto o
diecimila uomini con condizioni istraordinarie, da non essere
osservate da uno solo, non che da tanti: come intervenne a quelli
soldati che infelicemente avevano combattuto a Canne; i quali
confinò in Sicilia, ed impose loro che non albergassono in
terra, e che mangiassono ritti.
Ma di tutte le altre esecuzioni era terribile il decimare gli
eserciti, dove a sorte, di tutto uno esercito, era morto di ogni
dieci uno. Né si poteva, a gastigare una moltitudine, trovare
più spaventevole punizione di questa. Perché quando
una moltitudine erra, dove non sia l'autore certo, tutti non si
possono gastigare, per essere troppi; punirne parte, e parte
lasciarne impuniti, si farebbe torto a quegli che si punissono, e
gli impuniti arebbono animo di errare un'altra volta. Ma
ammazzandone la decima parte a sorte, quando tutti lo meritano, chi
è punito si duole della sorte, chi non è punito ha
paura che un'altra volta non tocchi a lui, e guardasi da errare.
Furono punite, adunque, le venefiche e le baccanali, secondo che
meritavano i peccati loro. E benché questi morbi in una
republica faccino cattivi effetti, non sono a morte, perché
sempre quasi si ha tempo a correggergli: ma non si ha già
tempo in quelli che riguardano lo stato, i quali, se non sono da uno
prudente corretti, rovinano la città.
Erano in Roma, per la liberalità che i Romani usavano di
donare la civiltà a' forestieri, nate tante genti nuove, che
le cominciavano avere tanta parte ne' suffragi, che il governo
cominciava variare, e partivasi da quelle cose e da quelli uomini
dove era consueto andare. Di che accorgendosi Quinto Fabio, che era
Censore, messe tutte queste genti nuove, da chi dipendeva questo
disordine, sotto quattro Tribù acciocché non
potessono, ridutti in sì piccoli spazi, corrompere tutta
Roma. Fu questa cosa bene conosciuta da Fabio, e postovi, sanza
alterazione, conveniente rimedio; il quale fu tanto accetto a quella
civiltà, ch'e' meritò di essere chiamato Massimo.