Letteratura italiana del primo Novecento
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Luigi De Bellis
FINE SECOLO ED ETA' GIOLITTIANA
Negli ultimi decenni dell'Ottocento nel contesto europeo si verifica
una serie di trasformazioni dell'assetto economico-sociale, delle
quali partecipa naturalmente anche l'Italia. Un dato fondamentale è
il passaggio dal cosiddetto capitalismo concorrenziale al
capitalismo monopolistico o oligopolistico, che comporta un processo
di cencentrazione delle strutture produttive, di un determinato
settore e quindi il costituirsi di gruppi di pressione e di
interessi che innescano un'intensa competizione tra gli stati per la
conquista sia di materie prime sia di nuovi mercati. Da queste
solide motivazioni economiche nascono miti di supremazia nazionale,
di conquista (e quindi la teorizzazione dello "Stato forte"), di
"missione dell'uomo, branco", di violenza e di avventura. Dall'idea
di nazione, che nella prima metà dell'Ottocento era stata intesa
come legittima affermazione della propria identità nazionale, si
passa ora al nazional-imperialismo e al colonialismo, al disprezzo
dell'egualitarismo democratico, all'esaltazione della grande
personalità al vagheggiamento dello Stato forte. In questa complessa
trasformazione della società europea si intrecciano condizionamenti
economici e ideologie, si influenzano vîcendevolmente miti letterari
e comportamenti degli individui e dei gruppi.
In Italia negli ultimi decenni dell'Ottocento la costruzione di uno
Stato unitario pone problemi complessi: la repressione dei
malcontento meridionale sfociato nel banditismo; il pareggio del
bilancio raggiunto con una tassazione spesso esosa; l'organizzazione
scolastica e l'unificazione linguistica; l'avanzare del "quarto
stato" che si esprime ora in jacqueries e disperate proteste ora
nelle prime organizzazioni mutualistiche e socialiste; l'inserimento
del nuovo Stato nel gioco della politica europea. A confronto con le
speranze e le idealità risorgimentali la realtà nazionale di fine
Ottocento appare di una grigia mediocrità, la vita parlamentare
immiserita nei giochi trasformistici. Da ciò sorgono molteplici
atteggiamenti variamente legati però fra di loro: la cosiddetta
delusione risorgimentale (già presente in Carducci e in Verga); il
disprezzo per i princìpi e la pratica democratico-parlamentare; il
vagheggiamento di uno Stato forte (Fogazzaro e D'Annunzio se ne
faranno banditori); l'esaltazione delle grandi personalità e il
conseguente disprezzo per la "plebe". Siamo di fronte a una
revisione di fondo della cultura precedente, dei princìpi - in
sintesi, il positivismo - che nel corso del secolo avevano ispirato
l'ascesa della borghesia. Questa revisione o meglio questa crisi è
d'altra parte riscontrabile in tutta la cultura europea. Le certezze
positivistiche, la fiducia nella scienza liberatrice dall'ignoranza,
dalla malattia, dalla miseria, l'assoluta validità dei metodo
scientifico, fa convinzione che il progresso sia inarrestabile ora
vengono contestate; e il pensiero filosofico e scientifico
sottolinea la relatività della conoscenza scientifica (Einsteìn),
rivela l'incidenza, nei comportamenti dei singoli e delle
collettività, di componenti oscure e di pulsioni che sfuggono alla
consapevolezza (Freud), e tende alla demistificazione dei valori
fondati sul progresso scientista e sull'etica borghese che ora
vengono considerati falsi valori (Nietzsche). Questo orientamento
fondamentalmente razionalistico percorrerà a lungo l'Europa
generando inquietudini e ricerche, inciderà profondamente nelle
manifestazioni artistiche sia, per le tematiche sia per le tecniche,
e costituisce per così dire una "cifra" dell'arte novecentesca.
In Italia questo clima novecentesco è ben evidente nel quindicennio
giolittiano, nel corso del quale prende avvio un processo di intensa
industrializzazione che comporta una serie di problemi: si accentua
il divario fra Nord e Sud; si intensifica lo scontro sociale per il
costituirsi di organizzazioni politiche di operai e braccianti; si
diffondono i miti della competitività, interna e internazionale, del
nazional-imperialismo, della conquista e dello Stato forte.
Lucidamente consapevole del nuovo clima, Giolitti tenta un
coraggioso disegno politico: quello di integrare nell'anemico stato
liberale italiano le nascenti forze operaie, di realizzare una
conciliazione, un blocco, tra le forze socialiste e il liberalismo
avanzato. Ma questo disegno, che nei primi tempi sembrava destinato
al successo, fallisce, in quanto egli si trova a dover combattere
con un'opposizione di destra e con una di sinistra. A destra le
esaltazioni nazionalistiche, la teorizzazione dello Stato forte, la
polemica contro una politica "pacifista" e imbelle assumono una
sempre più virulenta consistenza. Si distinguono in queste posizioni
- collegate anche ai desiderio di fare tabula rasa dei valori dei
passato, a un'inquieta disponibilità ai "nuovo" - le riviste
fiorentine e i futuristi: su «Hermes», sul «Leonardo», sul «Regno»,
nelle serate futuriste, folti gruppi di intellettuali esaltano
l'avventura, il rischio, la missione africana dell'Italia,
contaminando la dannunziana lezione di una vita d'eccezione col
torbido esplodere di posizioni irrazionalistiche e con gli interessi
espansionistici della grande industria. Da sinistra Giolitti viene
attaccato come gestore dello Stato "borghese", e la polemica trae
alimento dall'affermarsi, in campo socialista, di una corrente
massimalista e di una mitologia della violenza rivoluzionaria che
trovano alimento nella ferrea logica del processo di
industrializzazione ed espressione esemplare negli scritti di George
Sorel, che proprio in quegli anni si diffondono in Italia.
Con un'abile politica pendolare Giolitti riesce a tenersi in
equilibrio tra le due opposizioni: ora combatte il potere delle
concentrazioni bancarie, ora fa concessioni agli interessi
industriali e alle mitologie nazionalistiche con l'impresa di Libia,
ora con le leggi di tutela del lavoro e con la riforma elettorale
realizza fondamentali aspirazioni socialiste. Ma le lotte per
l'intervento e il prevalere - in dispregio della volontà del
parlamento - delle forze nazionalistiche, del mito della guerra come
"sola igiene del mondo", degli interessi della grande industria e
degli intrighi della monarchia portano l'Italia nella prima guerra
mondiale e pongono fine all'egomonia di Giolitti.
Prima di passare in rassegna la fisionomia letteraria di questa età,
sarà utile soffermarsi sulle caratteristiche che ha assunto in
questo periodo il "mercato delle lettere". Molteplici fattori
economici, sociali, culturali e ideologici determinano in questo
periodo un allargamento del pubblico dei lettori, che via via
comincia ad includere anche i ceti subalterni. Si tratta di fattori
che interagiscono fra di loro: la costruzione dello Stato unitario e
l'unificazione amministrativa comportano la diffusione di una
burocrazia e l'adozione di una lingua nazionale, ma per diffonderla
bisogna lottare contro l'analfabetismo e quindi avviare un processo
di larga scolarizzazione. Sono processi lenti, specie per quanto
riguarda le classi subalterne, ma che già nell'età giolittiana danno
frutti. Si aggiunga a questo - ma qui il discorso riguarda gli
strati borghesi - l'influenza che esercita D'Annunzio contaminando
la letteratura con la mondanità, intuendo che il giornalismo può
essere un veicolo per accostare il lettore alla letteratura e che il
romanzo è il genere più adatto all'allargamento del pubblico
potenziale. Si intreccia con questi fattori - causa ed effetto
insieme l'industria editoriale che sollecita e accontenta insieme i
bisogni di un pubblico che lentamente ma costantemente si allarga:
te case editrici Sonzogno e Treves con la loro produzione (popolare
e divulgativa quella di Sonzogno, più borghese e rivolta alla
narrativa contemporanea quella di Treves) testimoniano che in età
giolittiana si può già parlare di una produzione di consumo. di una
letteratura di massa.
Passando ora agli aspetti specificamente letterari, la profonda
crisi epocale di cui abbiamo parlato all'inizio dà luogo a quella
fase dell'arte e della cultura europea che viene definita
unitariamente decadentismo. ma che presenta una gamma assai
variegata di soluzioni in rapporto alle singole aree nazionali e ai
singoli autori. Sono certamente comuni a tanti artisti decadenti un
cupo senso di stanchezza, una lucida consapevolezza di estraneità
alla vita normale, di "inettitudine", un'insuperabile sfiducia
nell'agire umano, quasi un'ebbrezza di rovina, dovuta alla coscienza
di essere degli epigoni, la voce di un'età che vive il suo tramonto
(era stato Verlaine il primo a paragonarsi, in un verso che ora
diventa un emblema, all'impero romano sul finire della sua
decadenza). Questa coscienza di epigoni e questa predilezione per le
epoche in disfacimento costituiscono un terreno comune a tanti
artisti del decadentismo, dal quale deriva tutta una serie di temi
ricorrenti: gusto delle esperienze "estreme" e ricerca della
lussuria; stanchezza ed estenuazione dei sensi; femminilità ambigua
e perversa (da Salomè - rappresentata dal pittore Moreau, da
Huysmans e da Wilde - a tutte le donne che popolano la prosa e la
poesia dannunziana); contemplazione della morte delle cose e della
società. Nato da una frattura fra l'artista e la società, che col
progressivo affermarsi della civiltà di massa era destinata ad
accentuarsi, il decadentismo si esprimeva anzitutto
nell'enfatizzazione della diversità (da Huvsmans a D'Annunzio),
nell'angoscia della solitudine o dell'inconoscibilità del reale
(Pascoli, Pirandello), nel privilegiamento della "malattia" rispetto
alla "salute" (Mann, Svevo), nel compiacimento vittimistico.
Ma c'è un'altra espressione, sia pure minoritaria, del decadentismo:
la coscienza della diversità, l'assenza di legami con la comunità
poteva costituire la premessa per lo scatenarsi di uria volontà di
affermazione individualistica, per ila celebrazione delle valenze
vitalistiche e irrazionali, per la supremazia dell'uomo d'eccezione,
(lei superuomo (che Nietzsche teorizzava in quegli anni) sulla
"plebe".
Nella letteratura italiana il decadentismo trova parecchie - e
ovviamente differenziate - espressioni. Pascoli, deluso nelle
iniziali speranze laiche di estrazione positivistica fil progresso
scientifico e il socialismo), smarrito di fronte al mistero del
mondo e al dolore dell'uomo, tenta di carpire alle cose di ogni
giorno il loro senso riposto, ne esprime il mistero ricorrendo al
simbolo, scruta e si scruta con voluttà di pianto. La posizione di
D'Annunzio è più vistosa ma meno profonda: il suo decadentismo
saturo di compiacimenti estetizzanti è soprattutto - ma non sempre -
giocato sul versante attivistico e diventa celebrazione di
vitalistica ferinità, mito del superuomo, culto del bel gesto. In
Pirandello la sfiducia nella possibilità di conoscere la realtà, il
relativismo gnoseologico approdano alta coscienza della solitudine e
dell'incomunicabilità dell'io, al frantumarsi della personalità:
nella rappresentazione che nella narrativa e nel teatro egli dà
della vicenda umana c'è posto per l'assurdo e il grottesco, ma anche
per una dolente pietà della condizione-umana, per la «pena di vivere
cosi». Sul fallimento, sullo scacco, sulla `senilità" come
inettitudine alla vita normale, sulla malattia è centrata la
narrativa di Svevo, che nella Coscienza di Zeno stempera il suo
pessimismo in una distaccata e superiore ironia.
Sono, questi autori, espressioni esemplari di un'età di crisi e di
profondo malessere, che sarebbe durata ben oltre il quindicennio
giolittiano e che però trova una sua ulteriore espressione - non
intimistica e riflessiva ma aggressiva, urlata, nichilistica - nelle
avanguardie: l'espressionismo, che si sviluppa nell'area germanica
già in questo periodo e troverà significative espressioni
nell'immediato dopoguerra, è una violenta reazione al buonsenso e
all'ottimismo borghese, è «la poetica della vita tramontata;
violentata, della disperazione, della morte e dell'assurdo che ne
hanno preso il posto» (Bonesio) e predilige forme espressive
"urlate", grottescamente deformanti, violente, dissonanti; il
futurismo, l'unica avanguardia italiana, intende fare piazza pulita
delle tematiche e delle modalità dell'arte del passato, ripudia le
complicazioni intimistiche e i "chiari di luna", esalta
l'aggressività, le valenze istintuali e vitalistiche, la velocità, e
propugna un radicale scardinamento delle modalità espressive
tradizionali (è difficile comprenderlo senza collegarlo al clima di
aggressiva competitività conseguente allo sviluppo capitalistico
della società italiana); il dadaismo; sorto a Zurigo nel 1916, si
fonda sull'alogicità, sul nonsense, sulla provocazione fine a se
stessa: ma questa vocazione distruttiva, nichilistica, finisce col
diventare un vicolo cieco che non dà adito ad alcuna realizzazione.
Se ora rivolgiamo l'attenzione ai singoli generi letterari, non sarà
difficile cogliere i segni di quel processo di superamento della
tradizione, di inquieta ricerca di novità che caratterizza
quest'epoca. Nell'ambito della produzione poetica Pascoli e
D'Annunzio, di contro alla poesia tradizionale che aveva avuto in
Carducci il suo ultimo aulico esponente, danno inizio al
rinnovamento ma con vistose differenze: Pascoli crea il nuovo nel
rispetto delle strutture metriche tradizionali, dissolvendole
dall'interno, spezzando i ritmi tradizionali in una musica nuova,
ricca di pause e di silenzi, e col ricorso, da un lato, agli effetti
fonosimbolici e, dall'altro, al simbolo, cerca di dar voce al
mistero che ci circonda; D'Annunzio supera le strutture metriche
tradizionali, adotta con varietà il verso libero, dà voce con una
lingua ricercata e fastosa all'inesauribile trama di rapporti tra
l'uomo e il mondo della natura. Al rinnovamento, alla
destrutturazione delle forme tradizionali contribuiscono in vario
modo i futuristi più con enunciazioni di poetica che con durevoli
realizzazioni di poesia (ma L'Allegria di Ungaretti si spiega solo
tenendo conto dell'esperienza futurista) e i crepuscolari con
l'adozione di un linguaggio antiletterario o con un'abile
contaminazione di letterario e di parlato e con l'ironico
trattamento a cui sottopongono strutture metriche e rime. Intanto,
esiti di grande interesse e suggestione raggiungono Clemente Rebora
con le sue asprezze espressionistiche e Dino Campana con la sua
dimensione favolosa e onirica. Saba realizza già risultati notevoli,
ma la sua fisionomia si chiarirà meglio in seguito.
Meno ricco il panorama della narrativa, dove per l'ampliamento del
pubblico al quale si è accennato prevale una produzione di
intrattenimento, di consumo (Guido Da Verona volgarizza in
accattivante erotismo le tematiche dannunziane): ma due opere
fondamentali sconvolgono le modalità narrative tradizionali: le
novelle e soprattutto Il fu Mattia Pascal di Pirandello e
l'antiromanzo il codice di Perelà di Palazzeschi.
Nella produzione teatrale, accanto alla persistenza di modalità
veristiche o naturalistiche, sono presenti indicazioni e
realizzazioni orientate verso il nuovo. Il superamento del teatro
naturalistico avviene o attraverso una particolare attenzione
dedicata ai valori poetici del testo (è il cosiddetto "teatro di
parola" o "teatro di poesia", di cui D'Annunzio è in Italia il
maggior esponente) o attraverso l'utilizzazione di suggestioni che
derivano dalle avanguardie (è in parte il caso del cosiddetto
"teatro del grottesco").
L'autore di rivoluzionaria originalità è Pirandello, la cui
definitiva affermazione si avrà negli anni Venti, ma che già negli
anni 1916-18 ha dato, fra l'altro, due testi fondamentali della sua
produzione: Il berretto a sonagli e Così è (se vi pare).
DIBATTITO POLITICO-CULTURALE NELLE RIVISTE
IIl primo quindicennio del Novecento è un periodo di vivi fermenti
non solo in ambito letterario, ma anche in ambito politico: il - sia
pur tardo - processo di industrializzazione e il conseguente
accentuarsi dei conflitti di classe, il progressivo formarsi di
un'opinione pubblica nazionale, la maggiore conoscenza delle
esperienze culturali straniere sollecitata dal decadentismo sono
alla base di questa particolare "vivacità" del periodo, vivacità che
trova nelle riviste canali e strumenti di espressione
particolarmente efficaci. Procederemo ora a un'essenziale
ricognizione delle più significative, di quelle cioè che, al di là
di interessi specifici e settoriali, hanno maggiormente inciso sul
dibattito politico-culturale.
La prima di esse è «La Critica» che, fondata da Croce nel 1903, è
quella che è durata più a lungo (sino al 1944), probabilmente perché
legata non ad un gruppo ma .ad un uomo («rivista persona che esprime
solo e sempre un uomo», come dirà Renato Serra). Croce ha spiegato
nel Contributo alla critica di me stesso del 1915, in pagine di
notevole interesse, le motivazioni etico-politiche di questa sua
iniziativa («compiere opera politica, di politica in senso lato:
opera di studioso e di cittadino insieme, così da non arrossire del
tutto, come più volte m'era accaduto in passato, innanzi a uomini
politici e cittadini socialmente operosi»). In quanto agli obiettivi
culturali, attraverso la discussione di «libri italiani e stranieri,
di filosofia, storia e letteratura» Croce dichiarava di indirizzare
« le sue censure e le sue polemiche per una parte contro i
dilettanti e i lavoratori antimetodici, e per l'altra contro gli
accademici adagiati in pregiudizi e ozianti nella esteriorità
dell'arte e della scienza».
Ciò significa che per un verso l'obiettivo polemico saranno i
giovani intellettuali inquieti e "geniali", vogliosi di novità,
spesso irrazionalisticamente velleitari e troppo disponibili alle
avventure intellettuali (i Papini, i futuristi, i "rivoluzionari"),
per l'altro sarà la cultura positivistica attardata su posizioni
ottocentesche. Nell'impossibilità di dar conto qui di un'attività di
mezzo secolo, ci limitiamo a dire che nei primi due decenni Croce
procede all'esame critico della letteratura di tardo Ottocento (in
saggi che confluiranno nei volumi de La letteratura della nuova
Italia) e Gentile si interessa soprattutto di filosofia. Quando, con
l'avvento del fascismo, l'operosa amicizia tra i due si spezzerà,
«La Critica» - che aveva preso posizione contro l'in-7 terventismo -
assolse il ruolo di cittadella dell'antifascismo liberale: Croce con
i suoi seguaci (Adolfo Omodeo, Guido De Ruggiero, Francesco Flora
ecc.) si batte - pur nei limiti che la situazione politica imponeva
- contro le mitologie del tempo, prima fra tutte il razzismo.
«Leonardo»
I dilettanti e i geniali contro i quali polemizzava Croce si
esprimevano, con una variegata gamma di posizioni, in parecchie
riviste che, dalla sede di pubblicazione, vengono complessivamente
indicate come "le riviste fiorentine". La prima di queste è il
«Leonardo» che, fondata da Giovanni Papini, si pubblica con varia
periodicità dal 1903 al 1907, e si distingue per le suggestioni
dannunziane che accoglie, per le sprezzanti posizioni
antidemocratiche e antisocialiste, per la polemica contro il
positivisismo (che poteva coincidere con gli obiettivi polemici di
Croce, ma finiva per sfociare in una concezione misticheggiante, e
irrazionalistica dell'arte). Al «Leonardo» - come dichiarava il
direttore sul primo numero - aveva dato vita «un gruppo di giovini,
desiderosi di liberazione, vogliosi di universalità, anelanti ad una
superior vita intellettuale [...] pagani ed individualisti, amanti
della bellezza e dell'intelligenza, adoratori della profonda natura
e delle vita piena, nemici di ogni forma dì pecorismo nazareno e
servitù plebea». Di chiarezza ideologica, al di fuori del
superomismo pagano anticristiano. («pecorismo nazareno») e
antidemocratico(«servitù plebea» la rivista ne ebbe poca, ma
probabilmente fu questo a permetterle di ospitare voci che in
direzioni disparate cercavano la novità, ad allargare, con interessi
verso le manifestazioni straniere, gli orizzonti culturali
dell'Italia giolittiana.
«Hermes» e «II Regno»
Il « Leonardo» non è però la sola rivista fiorentina di quegli anni,
che vedono contemporaneamente la pubblicazione di «Hermes» (fondata
da Giuseppe Antonio Borgese nel 1904) e de «II Regno» (fondata da
Enrico Corradini alla fine del 1903).
«Hèrmès» nel complesso fu, come scrive la Frigessi, «una rvista
disorganica e frammentaria; le sono mancate così l'audacia
antiaccademica, la libertà di discorso, la capacità e
il'assimilazione e la vitalità culturale del "Leonardo" come la
definita funzione politica del "Regno"»; va sottolineato comunque
che anche essa si colloca nell'ambito delle suggestioni dannunziane
(delle quali proprio il direttore, Borgese, avrebbe fatto
un'inclemente demistificazione nel suo Rubé del 1921), che i suoi
collaboratori si autodefiniscono «imperialisti» , che sulle sue
pagine viene vaticinato «un prossimo risorgimento di tutte lè
àttività nazionali; tanto intellettuali quanto fantastiche, così
politiche come industriali ed economiche».
È comunque «II Regno» la rivista di giù accesi spiriti
nazionalistici e antidemocratici; è sulle sue pagine che si comincia
a parlare di «missione africana» dell'Italia, e della Francia come
della «rivale naturale» nel Mediterraneo, ed è su essa che si
insiste sulla concezione di uno Stato come strumento per la
realizzazione dei «migliori». In altre parole, l'esaltazione della
forte personalità la mitologia individualisticà - alle quali avevano
contribuito il decadentismo, l'interpretazione "sociale" delle
teorie di Darwin, Nietzsche, la teoria delle élites di Gaetano Mosca
e parecchi altri fattori - ora non sono concepite come
antagonistiche nei riguardi dello Stato, e trovano invece in uno
Stato autoritario al servizio dei migliori lo strumento per meglio
realizzarsi ed espandersi. È chiaro che da una prospettiva simile
gli obiettivi polemici sono il socialismo, i principi democratici e
persino certe posizioni di cattolici avanzati, come ad esempio don
Romolo Murri, nei riguardi dei quali Papini - con una posizione
autenticamente "forcaiola" - scriveva: «Essi vanno rodendo quello
che c'era di più saldo nel popolo non ancora impestato: il rispetto
dell'autorità, del
prete e del padrone».
«La Voce»
La più importante rivista del periodo è però «La Voce» che Giuseppe
Prezzolini fonda nel dicembre del 1908 (durerà silo al 1916).
Definire sinteticamente la fisionomia non è facile, anche perché
essa ebbe varie fasi, cioè direttori e orientamenti diversi. Nella
prima fase (1908-1911) diretta da Prezzolini - Tra i collaboratori
Croce, Amendola, Salvemini, Cecchi, Einaudi - « La Voce» affronta i
problemi di un rinnovamento culturale compiendo analisi concrete
(sulla scuola, sulla questione meridionale ecc.) e collegando la
figura di un nuovo letterato a una nuova realtà politico-
sociale (e da ciò la polemica per un verso contro D'Annunzio e per
l'altro contro Giolitti). E tuttavia assieme a questo c'è - specie
in Prezzolini - una sorta di illuministica fiducia nei poteri della
cultura, degli intellettuali, un atteggiamento di intellettualistica
superiorità che isola questi "primi della classe" da collegamenti e
alleanze con le forze politiche. Quando Salvemini e altri lasciano
«La Voce» nel 1911 perché Prezzolini approva l'impresa libica, la
direzione passa dal 1912 alla fine del 1913 - la seconda fase - a
Papini, e la rivista si apre particolarmente a quelle prove
letterarie (liriche, frammenti, impressioni) che hanno fatto parlare
di " espressionismo vociano". Per un anno, il 1914 - è la terza fase
- « La Voce» torna ad essere diretta da Prezzolini, che la definisce
«rivista dell'idealismo militante », facendone una tribuna di
posizioni irrazionalistiche e attivistiche (da Bergson a Sorel) e
dell'interventismo. Quando egli l'abbandona per collaborare con
Mussolini, che ha fondato il «Popolo d'Italia», « Là Voce» passa a
Giuseppe De Robertis dalla fine del 1914 al 1916 - è la quarta fase,
quella della cosiddetta "Voce bianca", dal colore della copertina -
e diventa una rivista esclusivamente letteraria, che ospita autori
destinati a diventare poi fondamentali nella nostra letteratura
(Ungaretti, Govoni, Palazzeschi, Campana ecc.). Anche da questi
rapidi accenni risulta evidente I'eterogeneità di posizioni e di
interessi di questa che è tuttavia la più importante rivista del
periodo: «è una verità, come è stato detto, affermare che sulle
colonne della "Voce" si trovarono fianco a fianco i nomi dei futuri
persecutori e dei futuri perseguitati, uniti ancora in quella prima
confusa elaborazione di motivi culturali novecenteschi»
«l'Unità»
Carattere decisamente politico ebbe invece, «l'Unità», fondata da
Salvemini nel 1912 dopo il suo dissenso con i vociani sull'impresa
libica (e pubblicata sino al 1920): concreta e pragmatica come la
personalità del direttore d'altronde), «divenne in breve il cenacolo
di quanti rifuggendo dalla moda del dannunzianesimo e dalle
astrattezze idealistiche intendevano approfondire lo studio della
realtà che li circondava».
«Lacerba»
Eterogenea nei suoi interessi, volutamente eccessiva, iconoclastica,
"futurista" fu «Lacerba», fondata da Papini e Ardengo Soffici nel
1913 (durerà fino al 1915); in essa parecchi autori (tra cui
Palazzeschi) espressero il loro momento più vistosamente futurista e
Papini esibì il suo ribellismo (famigerato l'articolo Vogliamo la
guerra!). Gobetti a questo proposito parlerà di «letteratura
canagliesca».
LA NARRATIVA
Aspetti del panorama italiano
In Italia nel periodo preso in esame, nell'ambito della narrativa,
il caso più significativo è quello di Pirandello, che col suo Il fu
Mattia Pascal (1904) realizza compiutamente un romanzo nuovo,
"novecentesco" e con la sua produzione di novelle (diventeranno poi
le Novelle per un anno) e col saggio L'umorísmo (1908) supera le
modalità narrative e la concezione stessa dell'arte che erano state
dominanti nell'Ottocento. Non si può dire comunque che il
riconoscimento della sua straordinaria novità sia avvenuto nell'età
giolittiana. Ancora nel 1914 un critico come Renato Serra lo
considerava alla stregua di tanti narratori di "intrattenimento" e
di "consumo".
Intanto, mentre sull'opera di Verga era calato il silenzio, i
romanzi di Fogazzaro e più ancora quelli di D'Annunzio godevano di
ampio successo presso la borghesia più o meno colta, che nei
conflitti delle "anime belle" fogazzariane o nelle estetisti che
raffinatezze degli eroi dannunziani poteva illudersi di riconoscersi
o di trovare suggestioni e modelli di comportamento.
Narrativa e consumo
C'era poi tutta una produzione di narratori oggi completamente
ignorati - da Luciano Zuccoli ad Ugo Ojetti, da Antonio Beltramelli
a Virgilio Brocchi, da Carola Prosperi ad Amalia Guglielminetti,
ecc. - dei quali Renato Serra in quel suo prezioso bilancio della
letteratura dell'età giolittiana che sono Le lettere (1914)
scriveva: «Ognuno di questi [...] scrive con decoro e con qualche
facoltà non trascurabile o di sentimento o di ironia o di realismo o
di letteratura; ma tutto questo si confonde un poco nella produzione
e nel consumo di tutti i giorni: non c'è pagina che si stacchi dalle
altre, né scrittore che spicchi dalla pagina». Purtroppo,
nell'elenco degli scrittori sopra citati, Serra includeva
Pirandello... Ma a parte questo "incidente di percorso", il critico
coglieva bene quello che stava accadendo: la letteratura diventava
"produzione" e "consumo di tutti i giorni", il pubblico dei lettori
via via si allargava, prendevano fisionomia sempre più definita i
vari fenomeni connessi alla cosiddetta para-letteratura, che si basa
fra l'altro sul declassamento e sulla "volgarizzazione" della
letteratura alta - dei valori e dei miti che essa elabora - per
un'utenza sempre più larga (cfr. Profilo, 2.2). Ora, i miti del
tempo sono quelli dannunziani (cfr. 9.1) e in una prospettiva di
sociologia letteraria merita attenzione la loro volgarizzazione
operata con largo successo di pubblico da Guido Da Verona
(1881-1939). Definito da Adriano Tilgher il «D'Annunzio delle
dattilografe e delle manicure», Guido Da Verona mutua dal maestro
alcuni temi di fondo (l'esotismo, il disprezzo della morale
borghese, l'esaltazione del superuomo, l'erotismo), ma li "cucina"
in una prosa meno raffinata e artificiosa; si abbandona a moduli più
facili, più accattivanti, più sentimentali e "struggenti", e si fa
complice delle fantasticherie con le quali il piccolo borghese sfoga
1e sue frustrazioni. Opere come IL piacere o Le vergini delle rocce
esigevano dal lettore, in ultima analisi, una certa educazione
letteraria, della quale si poteva fare a meno invece per
immedesimarsi e stordirsi nelle pagine di Colei che non si deve
amare (1910) o di Mimì Bluette, fiore del mio giardino (1916),
romanzi che godettero di larghissimo successo. Ma ebbero anche
successo, in quegli anni, opere che anziché blandire il lettore sia
sul piano tematico che su quello formale, ponevano invece problemi,
costringevano a riflettere, rappresentavano con spirito critico la
società costituita e le sue convenzioni.
È il caso di Una donna, un'avvincente narrazione della propria
vicenda biografica che SIBILLA ALERAMO (1876-1960) pubblicava nel
1906. Oggetto di attenzione da parte di Graf, Ojetti, Panzini,
Pirandello, tradotto nel giro di pochi anni in tutte le principali
lingue europee, questo testo, «che non può dirsi come genere
letterario un'autobiografia, ma è un vero e proprio romanzo»
(Corti), non interessa solo "il mercato delle lettere" del primo
Novecento italiano, ma anche il dibattito culturale e il costume: i
problemi della condizione femminile trovano qui una delle prime
espressioni, e con un'incisività e una modernità che anche il
lettore di oggi - dopo che in questo ambito tanto si è detto e si è
realizzato - non può fare a meno di apprezzare.
Un caso eccentrico
E' di quegli anni - e collegabile in fondo a quel clima di ricerche
che connota l'età giolittiana - un'opera che va ricordata e merita
molta più attenzione di quanta normalmente non gliene venga
attribuita: Il codice di Perelà (1911) di Aldo Palazzeschi. La
storia del protagonista - un "uomo di fumo" che non ha consistenza
corporea, scende fra gli uomini attraverso la cappa di un camino,
viene prima ammirato e onorato per la sua singolarità e, dopo,
condannato a reclusione perpetua, si invola al cielo ancora una
volta attraverso un camino - è narrata in 19 agili capitoletti,
molti dei quali sono costituiti da un susseguirsi di velocissimi
dialoghi, di rapide battute: la tradizionale struttura narrativa è
sconvolta. Siamo di fronte a « un esempio precoce di antiromanzo»,
osserva il De Maria, il quale fa poi notare, oltre l'aspetto
formale, che «nell'aerea favola palazzeschiana Perelà rappresenta
l'alterità, la coscienza possibile, il simbolo di una vita libera da
ceppi». Si tratta perciò di un'opera che, come la contemporanea
produzione in versi di Palazzeschi, è sottesa da una poetica di
libertario "divertimento", che si presenta con una molteplicità di
aspetti («favola allegorica; romanzo ermetico [...] farsa, opera
buffa, romanzo aperto, antiromanzo; opera impegnata sia pure
indirettamente con le tensioni sociali del proprio tempo; libera
fantasia poetica», suggerisce ancora il De Maria) e che nel
Novecento dà inizio a quella linea di narrativa "fantastica" di cui
in seguito parleremo.
La produzione di ALDO PALAZZESCHI (1885-1974) occupa più di un
cinquantennio e interessa sia la narrativa sia la poesia.
Il famoso verso «E lasciatemi divertire» (che dà anche il titolo ad
un componimento poetico) si potrebbe scegliere come sintetica
indicazione della sua poetica e della sua "cifra". Sin dalla sua
prima attività, che già nel primo decennio del Novecento dà notevoli
realizzazioni, Palazzeschi con le poesie delle raccolte I cavalli
bianchi (1905), Lanterna (1907), Poemi (1909), L'incendiario (1910)
definisce la sua fisionomia, nella quale il gusto della
dissacrazione delle forme metriche e dei valori tradizionali si
coniuga coll'irruenza iconoclasta e polemica del futurismo (al quale
per breve tempo aderì) ma con una levità ironica, con una vocazione
al divertimento, con un'abilità funambolesca che costituiscono un
unicum nel panorama letterario del tempo. Certe sue filastrocche
cantabili, certi suoi componimenti di versicoli che registrano la
banalità del quotidiano (La passeggiata, ad esempio) sono sottesi da
una forte carica eversiva, che trova però la sua modalità specifica
nello sberleffo monellesco, nel divertimento: l'irrisione nasce da
una crisi di valori, il grottesco da un sostrato pessimistico. Anche
Il Codice di Perelà (1911) si inserisce, col suo umorismo fantastico
e con la destrutturazione delle tecniche narrative tradizionali, in
questo orientamento e conclude la prima fase dell'attività di
Palazzeschi.
Stampe dell'Ottocento (1932) e Le sorelle Materassi (1934), due
opere che segnano un'altra fase della produzione di Palazzeschi,
sono una raccolta di "ritratti", di "figure umane" rappresentate
nell'ambiente cui appartengono: la prima è ispirata al tradizionale
memorialismo e bozzettismo toscano, e la seconda è la storia di due
anziane ricamatrici travolte dal condiscendente affetto per il
nipote Remo, un giovane scavezzacollo che le manda in rovina e poi
le abbandona. Nel panorama narrativo di quegli anni, oscillante tra
l'inclemente referto sulla corruzione borghese di un Moravia o le
sofisticate analisi coscienziali dei solariani, Palazzeschi si
distingue per una cordialità narrativa in sapiente equilibrio fra
dissacrante divertimento e fascino della memoria, e per una prosa di
particolare vivacità e freschezza. È comunque «nella misura del
racconto - scrive Giorgio Luti - che lo scrittore sembra raggiungere
la concisione necessaria a disegnare in modo mirabile le sue figure
tragico-grottesche e ad affidargli un peso simbolico altrimenti
irraggiungibile». Da questa prospettiva, i racconti raccolti ne Il
palio dei buffi (1937) «ci consegnano il ritratto più autentico di
Palazzeschi narratore, inventore di situazioni umane in cui
l'assurdo e il grottesco assumono il significato di simboli». C'è
poi (ferma restando la relatività di queste scansioni) una terza
fase dell'attività di Palazzeschi, quella dei romanzi I fratelli
Cuccoli (1948) e Roma (1953), nella quale sono presenti certe
ambizioni ideologiche che compromettono la felicità narrativa.
Da ultimo Palazzeschi ritorna alle sue vocazioni più vere -
l'estrosità surreale, il diverIimento grottesco - con le novelle de
Il buffo integrale (1966), con i romanzi Il doge (1967) e Stefanino
(1969) e con le poesie di Cuor vaio (1968) e di Via delle cento
stelle (1972), nelle quali «dimostra una stupefacente vitalità
espressiva, riproponendo accanto alla fresca e polemica inventività
degli anni futuristi un'immagine di vecchio fanciullo sensibile e
indulgente» (Luci).
Ma accanto all'eccentrico romanzo di Palazzeschi un altro testo ci
sembra significativa testimonianza di questo periodo per ragioni,
oltre che letterarie, culturali: il romanzo/autobiografia Un uomo
finito di GIOVANNI PAPINI (1881-1957), edito nel 1913. Si tratta di
un'autobiografia "letteraria'', che può considerarsi il rendiconto,
il bilancio e, per così dire, la mappa culturale di una generazione
- quella delle riviste fiorentine - con le sue ribellioni autentiche
e i suoi ribellismi in posa, con le sue novità realizzate e con le
sue "rivoluzionarie" ricerche d'effetto. E si tratta, nel contempo,
del libro tipico di Papini, cioè di un'opera paradigma le cui
caratteristiche possiamo ritrovare in tante altre che la precedono o
la seguono. Nel ripercorrere le tappe del suo itinerario
intellettuale, in quest'opera Papini assume toni di compiaciuto
ribellismo, si atteggia in pose titaniche, e nel descrivere la sua
vicenda di moderno Faust punta volutamente sull'eloquenza,
sull'ostentazione di tanta impresa dominare tutto quanto lo scibile,
esaurire tutte le esperienze intellettuali possibili e di tanta
sconfitta. Sia le ambizioni che le sconfitte del protagonista sono
sempre al di là della normale dimensione umana: e da ciò
l'impressione di troppo scaltrita ricerca di effetti che dà il
libro. Se ne può ammirare l'eloquenza, ma è l'ammirazione che si può
provare per l'equilibrista, che non ci commuove quando simula di
cadere: anche questo rientra nel gioco, fa numero.
Nella raccolta Autobiografia di Saba si legge: «A Giovanni Papini,
alla famiglia / che fu poi della "Voce" io appena o mai / non
piacqui. Ero fra lor di un'altra specie». Non è difficile
comprendere questa scarsa simpatia, anzi questa "alterità", se si
pensa da un lato alla serietà umana e intellettuale di Saba, alla
stia ricerca di una «poesia onesta» (cfr. Profilo, 237, e dall'altro
al clima dei cenacoli e delle riviste fiorentine, nel quale «si
sentiva più accaloramento che calore, più impeto iniziale che
costanza, più mobilità che movimento, più curiosità e dilettantismo
che interessamento e serietà» (Croce). ln questo contesto di per sé
ricco di intellettuali "presenzialisti" e smaniosi di novità,
Giovanni Papini è una delle presenze più rumorose e costanti.
Assetato di cultura, sinceramente bramoso di una conoscenza
enciclopedica, disponibile - con gli entusiasmi dell'autodidatta e
l'ardore del neofita - a tutte le avventure intellettuali, Papini è
da considerare il rappresentante esemplare di questo clima
culturale, nel quale già la conquista del favore del pubblico era
imposta dall'industria editoriale e l'esempio dannunziano esercitava
profonda suggestione. Papini passò attraverso il pragmatismo, il
futurismo, l'interventismo, gli studi di religione e di teosofia, la
poesia e la critica: ma di quest'ultima scelse, come formula o come
sottogenere, la stroncatura con una frequenza e un'ostinazione che
sanno molto di partito preso: Crepuscolo dei filosofi (1906);
Stroncature (1916). Non diversamente, d'altra parte, da quanto
avviene negli scritti che in quegli anni Papini dissemina nelle
riviste: nel «Leonardo», che fonda nel 1903 (durerà sino al 1907);
nel «Regno», di cui è redattore capo; in «Lacerba», che fonda nel
1913. Nella virulenta polemica contro la democrazia e contro il
socialismo, c'è sempre un di più e un'ostentazione che
insospettiscono.
È un atteggiamento, questo, che più o meno costantemente sarà la
"cifra" di Papini: anche quando nel primo dopoguerra si converte
clamorosamente al cattolicesimo e pubblica una Storia di Cristo
(1921) nella quale, al solito, non rinunzia a épater les bourgeois,
se non concettualmente almeno stilisticamente. Toni meno forzati è
invece possibile trovare nelle prose poetiche di Cento pagine di
poesia (1915), nei versi di Opera prima (1917) e nei "racconti
metafisici" (qualcuno è piaciuto a Borges) che risalgono agli inizi
della sua attività (Il tragico quotidiano, 1903; Il pilota cieco,
1907).
Col regime fascista Papini vede realizzare molte delle sue
aspirazioni e l'ex ribelle diventa un intellettuale integrato:
dedica il primo volume di una Storia della letteralura italiana "al
duce, amico della poesia e dei poeti"; entra a far parte
dell'Accademia d'Italia; nel 1939 pubblica Italia mia, un'opera
nella quale la retorica nazionalistica tocca - in linea con la
propaganda ufficiale - punte difficilmente superabili.
Negli ultimi 10-15 anni della sua vita, letterariamente è un
sopravvissuto.
La prosa non narrativa
Dopo questo panorama della narrativa del primo Novecento, vorremmo
ora prendere in esame un uso della prosa che, esulando dal genere
narrativo, si colloca in una zona non chiaramente definibile secondo
la catalogazione dei generi, in una zona magari "ambigua" ma non per
questo meno degna di attenzione in una prospettiva di storia
letteraria.
Per impostare il problema occorre rifarsi un po' indietro e
ricordare che il canone romantico della spontaneità,
dell'originalità, della valorizzazione dell'io comportava, a breve o
a lunga scadenza, l'abbattimento delle "regole" e innescava un
processo irreversibile di destrutturazione. Già nel nostro
romanticismo, pur così "conciliativo " rispetto a quelli d'oltralpe,
un primo esempio di destrutturazione delle forme metriche
tradizionali lo si ha con Leopardi, che abolisce le forme chiuse e
la rima regolare e costruisce i suoi Canti con estrema libertà
rispetto alle regole della tradizione. Ma c'è un altro effetto dell`
onda lunga" romantica, che almeno per ora ci preme maggiormente
sottolineare, ed è il progressivo superamento della distinzione tra
prosa e poesia, che nelle letterature straniere si constata prima
che in quella italiana e del quale realizzazioni esemplari sono i
poèmes en prose di Baudelaire e di Rimbaud (le Illuminazioni). Il
poema o poemetto in prosa si presenta come un nuovo genere
letterario che contamina prosa e poesia e ha caratteristiche ben
definite: è breve e scritto in un linguaggio estremamente denso e
concentrato; ha un carattere prevalentemente lirico; valorizza le
qualità musicali della parola (eletta e calibratissima); presenta un
frequente ricorso all'iterazione; abbandona il piano referenziale e
informativo e per così dire prende quota col ricorso alla dimensione
immaginifica, metaforica. Si tratta nel complesso di modalità
espressive che sono proprie della poesia: e il poemetto in prosa
nasce appunto come sperimentazione, come tentativo di realizzare un
discorso poetico al di fuori delle forme metriche tradizionali. Da
questo punto di vista esso si inserisce nel processo di dissoluzione
delle strutture metriche tradizionali che si esprime anche nel verso
libero.
La presenza di questo nuovo genere o forma letteraria si registra in
Italia un po' in ritardo rispetto alle esperienze straniere ed è
particolarmente fiorente nel primo quindicennio (circa) del
Novecento. Contribuivano al fiorire del poemetto in prosa in Italia
la maggiore conoscenza della produzione straniera collegata
all'esperienza del decadentismo, ma anche suggestioni critiche che
orientavano verso il "frammento", verso il componimento in prosa
breve e intenso (si pensi a quanto teorizzava De Robertis sulla
«Voce», nonché alle giustificazioni che alla poetica del frammento
poteva fornire - magari al di là delle sue intenzioni - Croce con la
sua estetica, col suo ridurre l'opera d'arte ad un nucleo lirico).
È soprattutto il gruppo degli scrittori che gravita attorno alla
«Voce» a porsi con particolare tensione intellettuale il problema
della "parola letteraria", delle valenze e delle possibilità che
essa racchiude. Alla ricerca di uno stile capace di inglobare la
totalità del reale, i "vociani" esprimono il meglio delle loro
capacità in pagine frammentarie, dense, cariche di tensione che
parecchia critica qualifica come "espressionistiche" per la violenza
espressiva, per la vocazione a ridurre la distanza fra prosa e
poesia e a forzare l'area semantica tradizionale caricando la parola
di nuove valenze, per il gusto della sottolineatura autobiografica
che le caratterizza. Ne IL mio Carso (1912) di SCIPIO SLATAPER
(1888-1915), nei frammenti di Giovanni BOINE (1887-1917), in tante
pagine "in prosa" di poeti come Campana e Rebora, in Con me e con
gli alpini (1919) di Piero Jahier tutto ciò è ben visibile: siamo di
fronte al poemetto in prosa, al superamento della tradizionale
distinzione fra prosa e poesia.
Autori (in ordine alfabetico)
CORRADO ALVARO
Nato nel 1895 a San Luca (Reggio Calabria), Corrado Alvaro studiò in
un collegio dei gesuiti, partecipò alla prima guerra mondiale come
ufficiale di fanteria (e rimase ferito alle braccia), si laureò nel
1920 e si dedicò al giornalismo (lavorando al «Corriere della Sera»
e al «Mondo» di Amendola fino alla sua soppressione nel 1926) e alla
letteratura. Dopo le sue prime prove narrative (La siepe e l'orto,
1920; L'uomo nel labirinto, 1926) si trasferì a Berlino, perché
costretto dal regime ad abbandonare il giornalismo. Ritornato a
Roma, dove poi è sempre vissuto, agli inizi degli Anni Trenta,
continuò in un difficile rapporto col regime a svolgere la sua
attività letteraria: fu redattore della rivista «900» di
Bontempelli, pubblicò nel 1930 Gente in Aspromonte che gli diede
ampia notorietà, nel 1935 I maestri del diluvio. Viaggio nell'Unione
Sovietica, nel 1938 il romanzo L'uomo è forte.
Dopo il 1945 fu vicino - ma con discrezione ed equilibrio - all'area
politico-culturale della sinistra e intanto lavorava alla
realizzazione della trilogìa Memorie del mondo sommerso, composta da
L'età breve (1946) e dai postumi Mastrangelina (1960) e Tutto è
accaduto (1961). Morì a Roma nel 1956.
Corrado Alvaro è una delle personalità più interessanti della prima
metà del Novecento e la sua produzione narrativa meriterebbe di
essere "riscoperta" e tratta da quell'oblio (o quasi) nel quale
negli ultimi decenni è stata relegata.
Va anzitutto precisato che con la cultura straniera e con le
importanti esperienze narrative che maturavano negli anni Venti
Alvaro ebbe notevole dimestichezza, grazie al suo lavoro, prima, di
collaboratore al «Mondo» di Giovanni Amendola e, dopo, sino alla
metà degli anni Trenta, di inviato del «Corriere della Sera» e de «
La Stampa» soprattutto in Germania e nell'URSS. Sono da ricordare
anche, in questo senso, i suoi rapporti con un intellettuale di
interessi europei come G.A. Borgese e la collaborazione a « 900» di
Bontempelli, che si batté contro l'autarchia culturale. Dopo le
Poesie grigio verdi (1917) ispirate all'esperienza della prima
guerra mondiale, Alvaro pubblica nel 1926 il romanzo L'uomo nel
labirinto, interessante, anche nei suoi esiti non sempre felici,
perché l'autore adotta soluzioni narrative e sperimentazioni
linguistiche che si rifanno alle contemporanee suggestioni europee
(Joyce innanzitutto) e perché affronta un tema - la babelica civiltà
moderna con le sue conseguenze sull'interiorità dell'individuo - che
costituirà una delle costanti della meditazione e della produzione
di questo scrittore. Il tema infatti verrà ripreso oltre che in
pagine diaristiche, in saggi, in "riflessioni di viaggio" (I maestri
del diluvio. Viaggio nell'Unione sovietica, 1935), nel romanzo
L'uomo è forte (1938 e, con rifacimenti, 1946) dove il dramma
dell'uomo contemporaneo «è ambientato nella società di un intero
paese, che dovrebbe essere la Russia, ma può essere anche l'Italia,
e potrebbe essere, vittorinianamente, qualsiasi paese dell'Uomo»
(Petronio). Nella produzione di Alvaro con questo tema coesiste, ad
esso tuttavia opponendosi, la rappresentazione del mondo delle
origini e dell'infanzia (la Calabria), che si realizza in opere
quali Gente in Aspromonte (1930), in molti dei racconti (una scelta
è nei Settantacinque racconti; 1959) e nella trilogia Memorie del
mondo sommerso, composta da L'età breve (1946) e dai postumi
Mastrangelina (1960) e Tutto è accaduto (1961).
Nella trilogia (ma soprattutto nel primo volume, pubblicato vivente
l'autore) la componente in senso lato autobiografica si snoda in
pagine che rievocando episodi e ambienti danno il senso, il clima di
una civiltà, remota e pur perenne nella coscienza del narratore.
Non va dimenticata un'altra vocazione di Alvaro (Quasi una vita,
1951; Ultimo diario, 1959): la sua capacità di cogliere con brevi
ritratti, riflessioni, "moralità" appunto, i segni e il senso dei
tempi.
È indiscutibile che nella pagina di Alvaro è presente la realtà
storica dei pastori di Calabria, dalle abitudini di vita ai rapporti
sociali, ma trasfigurata e, per così dire, distanziata. La
rappresentazione si colloca sin dall'inizio in una dimensione
tutt'altro che realistica: i pastori coi loro corti mantelli fanno
pensare alla raffigurazione di «qualche dio greco pellegrino», il
sentiero scosceso richiama l'immagine di un «presepe», i buoi
evocano degli «animali preistorici», la pecora arrostita sullo
spiedo è «solenne come una vittima prima del sacrifizio», la
nostalgia dei pastori per le domeniche trascorse in paese si snoda
in un susseguirsi di proposizioni collegate paratatticamente («e
rispondono... e i bambini... e i vecchi») che hanno la grandiosa
semplicità di una canzone di gesta e conferiscono al dato reale un
alone di arcana solennità.
Trasfigurante è anche il secondo brano (la conclusione del
racconto), nel quale la figura di Antonello alla macchia assume
quella dimensione favolosa che una lunga tradizione meridionale
assegna al fuorilegge, che «toglie ai ricchi e dà ai poveri».
GIUSEPPE ANTONIO BORGESE
Giuseppe Antonio Borgese, nato a Polizzi Generosa (Palermo) nel 1882
e morto a Fiesole nel 1952, é uno degli intellettuali più
significativi e meno adeguatamente conosciuti della prima metà del
Novecento. Animatore e collaboratore delle riviste del primo
Novecento, docente universitario di letteratura tedesca e di
estetica, diretto conoscitore delle realtà culturali straniere
(anche per motivi biografici, in quanto aveva sposato una figlia di
Thomas Mann), superò le iniziali suggestioni dannunziane sia
attraverso l'elaborazione di una concezione dell'arte che almeno in
parte si rifaceva a De Sanctis e a Croce, sia con una concreta
attività critica (Storia della critica romantica in Italia, 1905;
Gabriele D'Annunzio, 1909; Studi di letteratura moderna, 1915;
Ottocento europeo, 1927) attenta anche alla problematica
contemporanea (i tre volumi de La vita e il libro; 1910-13, a
giudizio di Sciascia contengono «una mole ingente di lavoro critico
tanto intelligente e sagace da resistere al senno del poi, da essere
ancora oggi illuminante»). Espulso per antifascismo, alla fine degli
anni venti, dalla cattedra di estetica dell'Università di Milano,
riparò e insegnò negli Stati Uniti, dove fra l'altro pubblicò in
inglese Golia, la marcia del fascismo (uscito in Italia nel 1946).
Della sua attività di narratore, oltre a Rubè(1921), vanno ricordati
i racconti e i "ritratti" della raccolta Le belle (1927, riedíta da
Sellerio nel 1983).
II monologo «lo lo so... dell'onore» è di fondamentale importanza
per capire il personaggio creato da Borgese. Come tanti altri eroi
(o piuttosto anti-eroi) del decadentismo europeo, Filippo Rubè è una
personalità piena di complicazioni cerebrali, che avverte però i
limiti del suo particolare modo d'essere e nel suo scrutarsi e
tormentarsi approda al disprezzo di se stesso e sente come una
vergogna la sua qualità di intellettuale. Sogna allora il riscatto
da questa condizione, la redenzione in una vita comune: di
contadini, di marinai, ecc. (si ricordino i vv. 157-180 della
Signorina Felicita di Gozzano per un atteggiamento analogo). Ma in
tutto questo, oltre che un evidente velleitarismo, c'è anche molta
letteratura (la sana vita dei campi, celebrata da una lunga
tradizione letteraria, una vita primitiva e tutta istinto
contrapposta alle complicazioni intellettualistiche). Bisogna però
sottolineare il lucido, rigoroso distacco con cui l'artista
rappresenta il suo personaggio: com'è stato giustamente detto, tanto
Filippo Rubè è fiacco e dubbioso, altrettanto è sicura e misurata la
rappresentazione che ne propone Borgese.
RUBE'
Intrecci e percorsi tematici
Filippo Rubè è un giovane ambizioso, giunto a Roma da un paesino
siciliano con la speranza di affermarsi nell'avvocatura e nella
politica. L'autore (nelle vesti di narratore esterno "onnisciente")
coglie il suo personaggio all'età dei trent'anni, il tempo dei
bilanci, per Rubé non certo positivi: la sua anima era «simile a un
anfiteatro dopo la rappresentazione del circo equestre: un infinito
sbadiglio con cicche di sigarette e bucce di arance». Quasi subito è
introdotto nel romanzo il riferimento alla guerra, tema fondamentale
e sfondo delle due prime sezioni di esso. Acceso interventista, Rubè
parte volontario, ma la sua adesione alla guerra ha motivazioni non
tanto politiche, quanto piuttosto intime e personali: affrontando il
pericolo, Rubè vuole vincere la malattia spirituale da cui si sente
affetto («la guerra risanatrice del mondo sarebbe stata la sua
medicina»). Il treno che lo porta al fronte gli sembra allontanarlo
definitivamente da un passato inerte e senza significato: davanti a
lui si apre la sicurezza di «entrare nella nuova vita tutto nuovo
nell'uniforme nuova». A Novesa, dove si è fatto destinare, avvia un
tortuoso e contraddittorio rapporto con Eugenia, la figlia del
maggiore Berti. La distanza spirituale tra i due fidanzati è grande,
come testimoniano le lettere che aprono il cap. VII: l'inquietudine
esistenziale di Rubè non può essere appagata dalla tranquilla
bellezza e dall'opaca bontà di Eugenia, neppure quando essa
diventerà sua moglie. Solo la guerra, conosciuta nella sua
quotidiana realtà di rischio e di morte, può alleggerire lo spirito
dalle inquietudini: soprattutto quando viene seriamente ferito, Rubè
si convince del valore risanatore della guerra, che «cauterizza le
coscienze scrupolose e malate».
Il dopoguerra aggrava in Filippo, trasferitosi intanto a Milano, il
senso di vuoto: come tanti altri reduci, dopo l'ebbrezza della
guerra, è incapace di adattarsi ad una vita «ordinaria». Le sue
condizioni, e quelle della famiglia che ha fondato, si fanno sempre
più precarie, soprattutto quando, a causa di un'incauta presa di
posizione politica, viene licenziato dalla ditta presso cui era
impiegato. Sono i tempi roventi dei disordini di piazza, dell'ascesa
del fascismo (tra le cui file figurano, anche alcuni ex commilitoni
di Filippo), di un serpeggiante clima di violenza, da cui lo stesso
Filippo si sente affascinato. Un'imprevista vincita al gioco segnala
l'ingresso nel romanzo del Caso, che avrà una parte determinante nel
seguito della vicenda: casuale la fuga di Filippo da Milano; casuale
la sua fermata a Stresa; casuale, anche se ardentemente desiderato,
l'incontro con Celestina Lambert, la giovane affascinante moglie di
un generale, precedentemente conosciuta a Parigi. L'amore tra i due,
consumato nell'incantevole scenario del lago Maggiore, si tingerà
presto di morte. Durante una gita in barca Celestina morirà affogata
e la sua tragica fine spingerà sempre più Filippo verso la
disperazione, l'alienazione, la perdita di identità (al proposito
sono emblematici i suoi continui cambiamenti di nome). Il destino,
che gioca da padrone le ultime mosse con Rubè, assume le vesti di un
inquietante personaggio che lo accompagna nel suo ultimo viaggio.
Seguendo fatalmente il «Viaggiatore sconosciuto», Rubè non si
incrocia con la moglie, venuta a Bologna ad incontrarlo. Mentre
vagabonda senza meta per la città, afflitto da presentimenti di
morte, si imbatte in un corteo di dimostranti «rossi», dal quale
viene, ancora una volta casualmente, trascinato: muore travolto da
una carica di cavalleria, trovandosi in una «prima fila» che non ha
cercato e a cui ideologicamente non appartiene.
Esaminando anche solo l'intreccio ci si accorge dell'importanza che
assume, sia nella dinamica narrativa che nella strutturazione del
messaggio, il tema del viaggio. Rubè è infatti un personaggio
itinerante e c'è indubbiamente uno stretto parallelismo tra la sua
tormentata ricerca esistenziale e i suoi spostamenti in luoghi
sempre provvisori, sedi di mancati appuntamenti con la felicità. Si
tratta di una ricerca fallimentare dunque, che, conducendo Rubè
all'annichilimento e infine alla morte, rovescia radicalmente la
formula narrativa a cui a prima vista Rubè sembra conformarsi:
quella del "romanzo di formazione". Tra tutti gli spostamenti,
quello che assume maggiore significato è il secondo viaggio a
Calinni, il paese natale, estrema ricerca di identità, che si
configura come regressione, ritorno alle origini. È significativo in
proposito l'uso dell'aggettivo "vecchio", nettamente contrapposto al
"nuovo" cercato nella guerra all'inizio del romanzo: «... Avrebbe
dormito a Calinni... nel vecchio lino di sua madre; al suono del
vecchio pendolo a pesi.». Anche questo viaggio-ricerca è però
fallimentare, ennesimo appuntamento mancato: Calinni rimane lontana,
alta sulla «montagna inaccessibile e sacra». A Rubè, eroe
dannunziano dimidiato, non è più possibile tornare a rivestire i
panni dell'eroe verghiano, nonostante la scoperta della propria
"meridionalità": il suo destino di personaggio letterario è di
procedere "oltre", percorrendo fino in fondo il calvario della
paralizzante autoanalisi e dell'inerzia spirituale, proprie del
personaggio novecentesco.
Macrostoria e microstoria
L'aspetto che maggiormente caratterizza la struttura narrativa di
Rubè è la relazione che l'autore volutamente istituisce tra la
vicenda di Filippo Rubè e la crisi etica, ideologica, spirituale di
una nazione (e in particolare di una classe sociale, la piccola
borghesia intellettuale) tra la prima guerra mondiale e il fascismo.
Indubbiamente però a Borgese interessa in modo predominante la messa
a fuoco del "suo" personaggio: si potrebbe dire quindi che egli
introduca la macrostoria (guerra, ecc.) solo in quanto concorre a
determinare (o a chiarire) la microstoria del protagonista. Rubè è
prima di tutto un romanzo "psicologico", che però «porta e sviluppa
in sé un romanzo politico» (De Maria).
Il "sistema dei personaggi"
Nel romanzo si articola un complesso sistema di relazioni tra i vari
personaggi: alcune di esse hanno un ruolo particolarmente importante
nella costruzione del messaggio del testo. A Rubè, ad esempio, si
contrappone evidentemente Federico Monti, con la sua filosofia
serena e distaccata, nutrita di letture classiche, la sua
accettazione della guerra come espressione della volontà di Dio, la
sua composta dignità. A Eugenia, la mite sposa che non sa dare
gioia, sono contrapposte Man, e soprattutto Celestina, figure
femminili che sprigionano gioia e sensualità. Anche su questi
personaggi però, finisce per stendersi l'ombra del dolore e della
morte: la "sanità" di Federico è minata dalla menomazione fisica; la
bellezza e la gioia di vivere di Man, sono spente dalla morte della
sua bambina; Celestina muore annegata (e la rappresentazione
crudamente veristica del suo cadavere costruisce un aspro
contrappunto con la celebrazione della sua prepotente bellezza). Non
mancano poi nel romanzo personaggi che rivestono un ruolo simbolico:
l'Anonimo alienato di guerra che ha smarrito il suo nome, in cui
Rubè vede rispecchiata la sua perdita di identità, e il Viaggiatore
sconosciuto, che simboleggia il Destino e la Morte.
Notazioni stilistico-linguistiche
La "scrittura" di Rubè è assai composita. Perdura nel romanzo
(soprattutto in associazione al tema-paesaggio) l'uso di un lessico
letterario, di un'aggettivazione sovrabbondante e ricercata, la
tendenza a un'espressione immaginosa ed enfatica di marca
dannunziana. Ma questa scrittura "fascinosa" si trova a coesistere
con una prosa lucidamente analitica e raziocinante e, in alcuni
casi, persino con un registro espressivo colloquiale-popolare
(significativamente impiegato per personaggi e situazioni del mondo
siciliano). In relazione poi alla costante autoanalisi del
protagonista (e alla focalizzazione interna della narrazione), è
presente in Rubè l'uso del discorso indiretto libero e addirittura
del monologo interiore. Particolarmente interessante è la presenza
di squarci grottesco-espressionistici, che corrispondono a un'ottica
straniata, a una visione profondamente alterata della realtà. Si
consideri ad esempio un passo come questo: «... vide, con gli occhi
sbarrati nel vuoto, cose orrende: il terremoto, i carri funebri
della peste con sopra i monatti, dentiere splendide ridenti un gran
riso da facce di morti...».
MASSIMO BONTEMPELLI
Massimo Bontempelli, nato a Como nel 1878, per molti anni docente di
italiano, esercitò una notevole influenza sul dibattito letterario
degli anni Venti e Trenta. Nella sua vicenda umana e nella sua
attività ci sono parecchi aspetti "esemplari", tali cioè da far
capire le difficoltà dell'intellettuale alle prese col regime e le
ambiguità di un rapporto tutt'altro che semplice. Aderì al fascismo,
ebbe cariche di regime, nel 1930 fu nominato accademico d'Italia, ma
nel 1938 rifiutò la nomina a professore universitario per succedere
ad Attilio Momigliano radiato per le leggi razziali; esaltò la
"missione di Roma" - un luogo comune della cultura fascista - ma nel
dibattito politico-culturale si oppose all'oltranzismo strapaesano
di Maccari e compagni e si batté per una sprovincializzazione della
cultura e della letteratura italiana e per una maggiore conoscenza
delle esperienze straniere. Strumento di questo suo programma fu la
rivista «900» (1926-29), redatta per i primi due anni in francese
(vi collaborarono Virginia Woolf, David M. Lawrence e altri
scrittori stranieri). Nelle sue opere narrative (La scacchiera di
fronte allo specchio, 1922; Vita e morte di Adria e dei suoi figli,
1930; Gente nel tempo, 1937) egli realizza quelle modalità che aveva
definito "realismo magico" e che sono in vario modo presentì anche
nei lavori teatrali Nostra Dea (1925) e Minnie la candida (1927). I
suoi saggi critici - discorsi pronunziati all'Accademia d'Italia, di
cui era membro - su Leopardi, Verga, D'Annunzio, Pirandello
(raccolti nel volume Introduzioni e discorsi, 1944) si segnalano per
il notevole estro interpretativo. Nel 1939 fu espulso dal Partito e
inviato al confine (a Venezia però, su sua designazione...); negli
anni di guerra maturò una revisione delle sue ideologie, e alle
elezioni del 1948 fu eletto senatore nelle liste del Fronte
popolare: la nomina fu però invalidata per i suoi trascorsi
fascisti. Morì a Roma nel 1960.
Ne La scacchiera di fronte allo specchio il protagonista narratore
racconta in 24 brevissimi capitoli di essere stato una volta
rinchiuso, da bambino, in una stanza dove c'erano soltanto un tavolo
con sopra una scacchiera e, di fronte, uno specchio che la
rifletteva. Ad un tratto il Re Bianco, non quello vero della
scacchiera, ma quello riflesso sullo specchio, gli rivolge la
parola, lo invita a chiudere gli occhi per passare così al «mondo di
là». II bambino obbedisce e inizia così questa esplorazione di un
mondo fantastico popolato da tutto ciò che negli anni si è riflesso
in quello specchio e regolato da leggi sue particolari. La vicenda
diventa gioco della fantasia volto a immergere personaggi e cose in
un alone tutto particolare che li scorpora quasi della loro
materialità e permette uno svolgimento quanto mai lontano da ogni
legge di logica o di verosimiglianza: tutto si svolge in un'aura
rarefatta e assorta, che rende tutto credibile e possibile (il
dialogo coi vari pezzi degli scacchi, le riflessioni del manichino
ecc.).
ANTONIO FOGAZZARO
Antonio Fogazzaro, nato a Vicenza nel 1842, dopo la laurea in legge
conseguita all'Università di Torino e dopo il matrimonio, si stabili
nel 1869 nella sua città natale, dove visse dedicandosi all'attività
letteraria. Dopo raccolte di versi (il poemetto Miranda del 1874 e
le liriche di Valsolda, 1876) pubblicò nel 1881 il suo primo
romanzo, Malombra, cui seguirono fra l'altro Daniele Cortis (1885),
II mistero del poeta (1888), Piccolo mondo antico (1895). Attento al
dibattito ideologico contemporaneo, Fogazzaro cercò di conciliare le
acquisizioni scientifiche (positivismo, darwinismo) con le istanze
religiose da lui seriamente sentite. Da ciò le sue simpatie per i
fermenti di rinnovamento volti a ripensare le posizioni religiose
ufficiali, che all'inizio dei Novecento furono espressi nel
cosiddetto Modernismo. Ma il suo romanzo II Santo (1905) centrato su
questa problematica, suscitò la scomunica dell'autorità religiosa,
che l'autore silenziosamente accettò.
Morì a Vicenza nel 1911.
I conflitti di Corrado Silla (Malombra)
Il testo mette in luce un aspetto della produzione romanzesca di
Fogazzaro che ci sembra particolarmente significativo: la presenza,
cioè, di un tipo umano conflittuale, sostanzialmente malato nella
volontà, cosciente della propria "alterità" rispetto al mondo a lui
contemporaneo. Si tratta di una tipologia che avrà ampia e variegata
presenza nella letteratura del decadentismo.
Per riuscire a seguire il testo basta ricordare che Corrado Silla,
giovane scrittore, è combattuto fra un'intensa passione sensuale per
Marina e una pura, spirituale attrazione per un'altra donna, Edith.
L'inquieta Marina di Malombra, la protagonista del romanzo che a lei
si intitola, è ossessionata dalla convinzione di reincarnare l'anima
di una sua antenata, Cecilia (di cui ha trovato nel cassetto di un
secrétaire una ciocca di capelli, un guanto, uno specchio e un breve
manoscritto), che per espiare un tradimento era stata segregata dal
marito. Marina crede di riconoscere nello zio la reincarnazione del
marito di Cecilia e in un giovane scrittore, Corrado Silla, quella
dell'antico amante. Corrado è intanto combattuto tra una passione
sensuale per Marina, e una pura e spirituale attrazione per un'altra
donna, Edith. Dopo una serie di vicende l'ossessione di Marina
giungerà al parossismo, al punto che la donna ucciderà Corrado.
PIETRO JAHIER
Piero Jahier, nato a Genova nel 1884 e morto a Firenze nel 1966,
aveva in un primo tempo intrapreso gli studi teologici, che
interruppe perché costretto a trovar lavoro (si impiegò nelle
ferrovie) dopo la morte del padre, pastore evangelico valdese. Si
laureò in seguito in giurisprudenza e in lettere francesi. Collaborò
alle riviste del primo Novecento, soprattutto a «La Voce», e
partecipò poi come ufficiale degli alpini alla prima guerra
mondiale. La personalità di Jahier, dominata da una forte tensione
morale da collegare al clima culturale familiare, oltre che sul
piano pratico (la non accettazione del fascismo) si espresse nella
ricerca di una scrittura intensa, "espressionistica", varia nei toni
- dall'utilizzazione del parlato al lirismo al sarcasmo - e volta a
mettere in evidenza i complessi aspetti della realtà (Resultanze in
merito alla vita di Gino Bianchi, 1915, una amara "radiografia" dei
meccanismi alienanti del sistema burocratico; Ragazzo, 1919, con
forti componenti autobiografiche; Con me e con gli alpini, 1919).
Con gli alpini
Con me e con gli alpini (1919) non è soltanto il libro più bello
della memoralistica della prima guerra mondiale, è anche un'opera
nella quale la risentita tensione etico-civile dell'autore (già
manifestata nei suoi scritti su «La Voce»), la sua quasi religiosa
solidarietà col soldato che soffre e muore si estrinsecano in uno
stile che è una delle prove più riuscite e più durature -
nell'ambito della prosa - di quello che viene definì "espressionismo
vociano"
Con me e con gli alpini è costituito da versi e da prose ed è
centrato sull'esperienza dell'autore come comandante di un reparto
di alpini durante la prima guerra mondiale: un'esperienza che gli
permette di scoprire I"'Italia dei poveri" (di cui il soldato
Somacal Luigi, descritto in un famoso capitolo, è un esemplare
rappresentante), di fronte alla quale il rigorismo morale di Jahier
diventa commozione, pietà, rancore per l'altra Italia, quella che ha
trasformato queste plebi in soldati senza aver mai pensato, prima, a
farne dei cittadini. Vanno sottolineate le caratteristiche della
scrittura di Jahier (accentuata scansione melodica, ricerca di
effetti anche attraverso gli artifici grafici), testimonianza di
quella oscillazione tra prosa e poesia che già nell'Ottocento ha
significative realizzazioni col poème en prose.
FILIPPO TOMMASO MARINETTI
Filippo Tommaso Marinetti nacque nel 1876 ad Alessandria d'Egitto,
dove studiò presso scuole francesi; più tardi seguì corsi
universitari in Italia, laureandosi in giurisprudenza a Genova. Già
dal 1893 stabilisce la sua residenza a Parigi, dove ha la vera e
propria formazione letteraria. Alla letteratura si dedica
interamente a partire dai primi anni dei Novecento. Pubblica varie
opere in francese, prima di pubblicare il suo primo Manifesto del
futurismo sulle pagine del «Figaro, il 10 febbraio 1909. Seguono
altri manifesti e opere ispirate alla nuova poetica, tra cui il
romanzo Mafarka il futurista (1910), le raccolte poetiche Zang Tumb
Tuuum, Adrianopoli ottobre 1392 (1914), Dune (1914), 8 anime in una
bomba (1919), ecc. Vari gli scritti politici in cui espose la sua
concezione nazionalistica e interventistica prima e l'adesione al
fascismo poi: ad esempio Guerra sola igiene del mondo (1915),
Democrazia futurista (1919) e Futurismo e Fascismo (1924). Nel 1929
venne nominato Accademico d'Italia. Mori a Bellagio (Como) nel 1944.
Sulla poetica del futurismo e su alcune sue implicazioni
politico-culturali proponiamo una nota di Luisa Bonesio:
L'antipassatismo, e il suo correlato, la modernolatria, sono i
tratti ideologici salienti dei manifesti marinettiani. «Uccidere il
chiaro di luna», combattere contro Venezia passatista, sono gli
emblemi di una volontà di recuperare l'unità di arte e vita,
eliminando tutti i ciarpami e gli ingombri di una cultura ritenuta
irrimediabilmente arretrata. I futuristi volevano «cambiare la
vita», passare a un ordine sociale diverso, a un'esistenza più
frenetica e disinibita, e ritenevano mezzi idonei a conseguire
queste mete l'attivismo sfrenato e la guerra. In questo senso,
l'efficacia presso il pubblico più vasto, fu quella di una retorica
di fatto prefascista, anche se le velleità di trasformazione
politica furono assorbite dal fascismo e il futurismo si ridusse a
una scuola letteraria di epigoni. Marinetti seppe confezionare con
grande abilità una merce culturale in cui le innovazioni sul piano
della letterarietà si accompagnavano a posizioni ideologiche
reazionarie, come l'esaltazione della violenza, una feroce
misoginia, un accentuato nazionalismo. «(Marinetti) proprio perché
organicamente legato alla borghesia, è il primo a rendersi conto che
l'arte è produzione subordinata alle leggi del mercato
capitalistico, e soggetta quindi a un consumo che rende
indispensabili una sempre nuova progettazione di modelli formali e
un loro continuo aggiornamento, un diverso tipo di contatto, diretto
e pressante, con la massa degli acquirenti e un'incessante
pubblicità della novità insuperabile e della perfetta efficienza dei
prodotti». La risonanza che Marinetti riuscì a creare intorno al
fenomeno futurista, a livello di pubblico, è legata anche alla
messinscena parodistica della letteratura, che esce dai confini dei
luoghi deputati - libri, musei, biblioteche - per trasformarsi in
spettacolo, cioè un accadimento da vivere collettivamente. Sotto
questo profilo, è rilevabile qualche analogia fra gli spettacoli
futuristi e le teatralizzazioni di massa della retorica fascista.
Tuttavia il futurismo ebbe nei confronti della cultura borghese
italiana chiusa e arretrata, una funzione dirompente. Gramsci stesso
seppe vedere la positività del movimento futurista, quando
nell'«Ordine nuovo» del 5 gennaio 1921, scrisse: «I futuristi (...)
hanno avuto la concezione netta e chiara che l'epoca nostra, l'epoca
della grande industria, della grande città operaia, della vita densa
e tumultuosa, doveva avere nuove forme di arte, di filosofia, di
costume, di linguaggio (...). I futuristi, nel loro campo, il campo
della cultura, sono rivoluzionari; in questo campo, come opera
creativa, è probabile che la classe operaia non riuscirà per molto
tempo a fare più di quanto hanno fatto i futuristi».
Tutto, nel futurismo, a cominciare dalle innovazioni tecniche, è uno
sforzo per liberare lo spazio dall'assoggettamento allo spirito. Lo
spazio fisico, ritrovato, restituito a se stesso, percepito come
altro, esterno all'uomo, è avvertito nella sua avvolgente
drammaticità. Così si pone il problema della «ricostruzione
futurista dell'universo», anch'essa concepita in modo polemologico:
«Col futurismo l'arte diventa arte-azione, cioè volontà,
aggressione, possesso, penetrazione (...), proiezione in avanti.
Dunque l'arte diventa Presenza, nuovo oggetto, nuova realtà creata
con gli elementi astratti dell'universo. Le mani dell'artista
passatista soffrivano per l'Oggetto perduto; le nostre mani
spasimavano per un nuovo Oggetto da creare».
ALDO PALAZZESCHI
Nato a Firenze nel 1885, Palazzeschi (anagraficamente Aldo Gìurlani)
compì studi di ragioneria, frequentò una scuola dì recitazione e
fece per qualche tempo l'attore nella compagnia di Lida Borelli, Fu
compagno di strada dei futuristi (scrisse anche su «Lacerba» ), ma
se ne staccò presto per il loro interventismo e nazionalismo. Visse
gran parte della sua vita a Firenze - con brevi soggiorni a Venezia
e a Parigi - e a Roma, dove morì nel 1974.
Nel panorama del Novecento italiano la sua produzione, che occupa
più di un cinquantennio, è di notevole importanza sia nell'ambito
della poesia (L'incendiario, 1910; Cuor mio, 1968; Via delle cento
stelle, 1972) che in quello della narrativa (oltre II codice di
Perelà, i racconti di Stampe dell'Ottocento, 1932; II palio dei
buffi, 1937; II buffo integrale, 1966; i romanzi Le sorelle
Materassi, 1934, Roma, 1953, e II doge, 1967).
Il codice di Perelà, che più che romanzo si potrebbe definire una
sorta di "favola allegorica" o "favola surreale", fu pubblicato
nelle edizioni futuriste di «Poesia» nel 1911, col sottotitolo di
«romanzo futurista». Fu ripubblicato con qualche variante e come
Perelà uomo di fumo nel 1954 da Vallecchi. «La vicenda è
estremamente lineare: il protagonista giunge in un'anonima città
dove, come più tardi nel Doge, l'ambientazione mischia gli elementi
realistici della cronaca agli elementi eterni delle favole. Per le
sue inconsuete caratteristiche psicofisiche, Perelà viene accolto
nella reggia, nella quale gli sono subito presentati i notabili del
paese e le dame di corte. Gli viene affidata, compito supremo, la
stesura del Codice. Ma la morte di un servitore, Alloro, lo perde:
l'uomo di fumo viene condannato alla reclusione a vita. Ma come il
Cristo, Perelà fugge dal suo sepolcro (il carcere) e s'invola nel
cielo».
GIOVANNI PAPINI
Nato a Firenze nel 1881 da un'umile famiglia, Giovanni Papini fu
sostanzialmente un autodidatta che sin dalla prima giovinezza si
immerse nella lettura, spaziando nei più disparati campi del sapere.
Conseguito il diploma magistrale, insegnò per alcuni anni e fece il
bibliotecario, Attivissimo nel dibattito politico culturale fondò
con Prezzolini il «Leonardo» (1903-07), fu nel 1903 redattore capo
del quotidiano nazionalista «II Regno», diresse nel 1912 «La Voce»,
fondò la rivista futurista «Lacerba» (1913-15), si batté per
l'interventismo. Pubblicava intanto, fra l'altro: Il crepuscolo dei
filosofi, 1906; i racconti fantastici de II tragico quotidiano,
1903, e II pilota cieco, 1907; l'autobiografia Un uomo finito, 1913;
le raccolte di versi Cento pagine di poesia, 1915 e Opera prima,
1917; i saggi letterari e filosofici di Stroncature, 1916. Frutto
letterario della sua conversione al cattolicesimo fu nel 1921 la
Storia di Cristo che ebbe larga notorietà. Della sua posteriore
attività di scrittore prolifico (forse un po' troppo) e polemico
(quasi deliberatamente) ricordiamo: l'incompiuta Storia della
letteratura italiana, 1937; Dante vivo, 1933, e Vita di
Michelangelo, 1949; Lettere agli uomini di papa Celestino VI, 1946.
Fu nominato Accademico d'Italia nel 1937; morì a Firenze nel 1956.
Su «Lacerba» trovò collocazione e sfogo, esasperandosi fino alle sue
estreme conseguenze, quella componente di rivoluzionarismo anarchico
e gratuito, quell'atteggiamento fatto più di boutades letterarie che
di maturate convinzioni che era già visibile nel «Leonardo» e si era
poi rivelato in pieno, irrobustito, col futurismo.
A proposito del «caldo bagno di sangue nero» va precisato che, «la
barocca immagine si riallacciava (nonostante l'apparenza di
sconvolgente novità) a un vecchio motivo retorico della nostra
tradizione post-risorgimentale», come nota lo storico Nino Valeri,
il quale poi cita Rocco de Zerbi, che nel 1882 auspicava un «tiepido
fumante bagno di sangue» come mezzo per far grande I'Italia
avvilita, Felice Cavallotti che sognava «qualche battesimo cruento»,
e poi Oriani e Carducci. Nel Novecento, con D'Annunzio, Marinetti
(la guerra «igiene del mondo»), Corradini e i nazionalisti questa
esaltazione dello scontro cruento e della guerra trova largo spazio.
Chiarita questa filiazione o questa persistenza di un motivo
retorico, va però precisata la fisionomia, la specificità di questo
testo, nel quale c'è anzitutto una forte dose di letteratura, cioè
di vistoso compiacimento di toni satanici, di gratuito gusto della
provocazione, di ostentato cinismo, di calcolata irrisione dei
«buoni sentimenti». Fino ad arrivare ad atteggiamenti volgari,
beceri («E quando furono ingravidate non piansero: bisogna pagare
anche il piacere»; «Che bei cavoli... che grosse patate...
quest'altro anno!»).
Inoltre, mentre nella tradizione citata dal Valeri il "bagno di
sangue" è motivato (se non giustificato) da finalità nazionalistiche
(far grande l'Italia, "lavare" le sconfitte, ecc.), qui tale motivo
è assente e quello dominante è il superomistico disprezzo per gli
altri (classificati vigliacchi, ipocriti, paciosi) e addirittura per
l'umanità.
Certo, ci sono molti modi di concepire la letteratura e di
praticarla; Piero Gobetti a proposito di pagine come questa parlava
di «letteratura canagliesca».
UN UOMO FINITO
Un uomo finito, pubblicato prima come quaderno doppio della «Voce»
nel gennaio 1913 e l'anno dopo in volume, è centrato sulla vicenda
umana e intellettuale dell'autore. Ne vengono descritte prima la
fanciullezza solitaria e pensosa, poi l'adolescenza tormentata da
sogni e trascorsa sui libri in biblioteca, infine la giovinezza
animata da furori rivoluzionari e iconoclastici. Ma il
protagonista-autore non trova appagamento nella fama intanto
raggiunta con gli scritti polemici; egli aspira a essere
l'iniziatore, il profeta e la guida di una nuova era dell'umanità, a
trasformare l'uomo, a farne un uomo-Dio svincolandolo dalle sue
pastoie materiali e terrene. Per questo ambizioso disegno non può
bastare a Papini I'«enciclopedismo ingordo» (è una sua definizione),
ed egli si volge così alla magia e alla taumaturgia indiana. Ma in
un complesso itinerario, fra esaltazioni e cadute, è costretto a
prendere atto del suo fallimento: è costretto a ritornare sulla
terra, rassegnandosi a diventare «una specie di Gorgia da caffè che
per vendicarsi della certezza perduta e della superbia fiaccata si
diverte a dissolvere e fiaccare le fedi degli altri». La
registrazione della sconfitta però non cancella l'iniziale
titanismo: «lo mi presento ai vostri freddi occhi - dichiara nelle
ultime righe dell'opera - con tutti i miei dolori, le mie esperienze
e le mie fiacchezze. Non chiedo pietà né indulgenza, né lodi né
consolazioni [...]. E se dopo avermi ascoltato crederete lo stesso,
a dispetto dei miei propositi, ch'io sia davvero un uomo finito
dovrete almeno confessare ch'io son finito perché volli incominciare
troppe cose e che non son più nulla perché volli esser tutto».
PASCOLI
Nel complesso rapporto di vecchio e di nuovo che caratterizza gli
ultimi decenni dell'Ottocento (non solo italiano), la funzione di
Pascoli nell'ambito della produzione poetica è di un'importanza
fondamentale: Pascoli è da considerare per così dire uno spartiacque
che segna l'inizio del Novecento. I suoi rapporti col decadentismo,
meno vistosi di quelli di D'Annunzio, sono in compenso più profondi
e la sua influenza sulla posteriore poesia italiana - sul piano del
linguaggio e dei moduli espressivi - sarà determinante.
È essenziale distinguere in Pascoli la novità che - specie nella
prima produzione - si cela e si confonde, apparentemente, con il
rispetto o la prosecuzione di temi e di forme di quella produzione
veristica ché per i primi due-tre decenni del secondo Ottocento era
stata egemone: i "quadretti di genere", le rappresentazioni di scene
della vita dei campi che troviamo in Myricae é che paiono rimandare
a tanta produzione letteraria e figurativa di quei decenni in realtà
sono per Pascoli lo scenario sul quale proiettare inquietudini,
smarrimenti, un senso del vivere fatto di ansiose perplessità. E di
conseguenza i dati "realistici" presenti nelle sue liriche si
caricano, di significati e di simboli, diventano quasi dei
"correlativi oggettivi', per significare altro che ne trascende
l'apparenza. Con questa prima fondamentale novità Pascoli per un
verso si inseriva in un orientamento presente a livello europeo in
quegli anni (il simbolismo) per un altro trovava le modalità più
adatte e suggestive per esprimere un senso della vita sotteso da
turbamenti adolescenziali, da incertezze e da paure di fronte alla
realtà storica contemporanea, e, di conseguenza, tutto proiettato
verso il vagheggiamento del proprio nido familiare, verso la
contemplazione della campagna come idilliaco "rifugio", verso
l'ossessivo ricordo dei morti. Una tematica, questa, che è collegata
alla dolorosa esperienza biografica del poeta, e che di
frequente dà luogo a sbavature sentimentalistiche e a querule
insistenze.
Ma a parte ciò, il processo di rinnovamento realizzato da Pascoli si
manifesta, oltre che nella dimensione simbolica della sua poesia, in
parecchi altri modi. Anzitutto, sul piano linguistico egli adotta
frequentemente un lessico nel quale o entrano termini tecnici,
gergali, relativi al mondo della campagna, o c'è posto per termini
che sono al di qua della comunicazione, privi di senso,
"pregrammaticali" ma carichi di valenze fonosimboliche, di
suggestioni evocative (le onomatopee ad esempio). Inoltre, Pascoli
apparentemente rispetta la prosodia e le forme metriche
tradizionali, ma in realtà il singoio verso o la struttura strofica
sono dissolti e disarticolati: al posto della loro compattezza
armonica tradizionale, subentrano e si insinuano una versificazione
e una musicalità frantumate dalle cesure, dilatate dagli
enjambements, o rotte da pause, da attoniti spazi di silenzio.
Se è indiscutibile che queste sono le novità di fondo del Pascoli
migliore, è altrettanto vero che la sua produzione è assai ampia e
presenta altri aspetti che non sono stati - come invece quelli che
abbiamo elencato - fertili di sviluppi. Nei Poemi conviviali ad
esempio Pascoli realizza componimenti raffinatamente letterari che
traggono spunto e suggestioni da capolavori del mondo fisico
(l'Odissea, soprattutto) e quindi si distinguono per la parnassiana
ricercatezza di un «linguaggio antiquario» (Contini), sono cioè
un'opera di letteratura che nasce da una preesistente letteratura.
Nei componimenti di Odi ed inni (le sue ultime cose) quel Pascoli
che in Myricae e nei Poemetti era stato il cantore delle "umili
cose" affronta la celebrazione delle idealità civili e patriottiche
e si trasforma - con risultati discutibili - in un poeta vate,
sull'esempio di Carducci e di un certo D'Annunzio: una metamorfosi,
questa, collegata ad un confuso itinerario ideologico che fa sì che
questo poeta inizi la sua carriera come cantore del chiuso nido
familiare e la concluda come celebratore, della conquista della
Libia.
LUIGI PIRANDELLO
Luigi Pirandello non fu soltanto quel narratore e quel drammaturgo
che sappiamo, ma fu anche dotato di una scaltrita coscienza critica
ed autocritica, come dimostrano i suoi numerosi interventi sulla
letteratura contemporanea e vari saggi critici, il più importante
dei quali è certamente quello dedicato a L'Umorismo (1908). Proprio
in questo saggio, scritto quando egli aveva già dato parecchie prove
della sua qualità di narratore, Pirandello ci dà una chiave di
lettura della sua opera allorché dichiara che essa nasce in lui dal
«sentimento del contrario» e chiarisce che con questa definizione si
deve intendere la capacità o meglio la vocazione a cogliere i
molteplici e contrastanti aspetti della realtà, a scinderne e
isolarne le varie e contraddittorie componenti, a percepire quale
vita palpita e soffre dentro le strettoie delle forme, ad andare al
di là di ciò che in prima istanza cade sotto i nostri sensi. Ora è
chiaro che questa disposizione, questa prospettiva da cui nasce
quella forma d'arte che egli definisce «umoristica» - non può dare
una visione univoca del reale, anzi dissolve la stessa concezione di
una realtà oggettiva e autonoma: la realtà è tante cose, tante - e
contraddittorie - realtà nel contempo.
Le conseguenze di queste dichiarazioni pirandelliane possono essere
così elencate:
1) superamento di un canone fondamentale del verismo-naturalismo,
come quello dell'esistenza di un realtà da descrivere con
puntigliosa precisione;
2) relativismo gnoseologico, cioè affermazione della relatività del
processo della conoscenza e dei giudizi ai quali esso porta; la
realtà è una e tante insieme, proprio come ognuno di noi è per
l'altro Uno nessuno e centomila (come suona il titolo di un romanzo
pirandelliano): ogni individuo quindi può avere, della realtà,
un'idea che non coincide con quella degli altri.
Un narratore che muova da queste premesse non può accettare i canoni
cari al verismo, ma deve trovare modalità narrative nuove che
mettano in evidenza questa indefinibilità o precarietà del reale,
che dissolvano le certezze di estrazione positivistica. E Pirandello
infatti avvia questa novità nel suo primo romanzo (L'esclusa) e poi
la realizza con risultati particolarmente felici ne Il fu Mattia
Pascal (1904), e con esiti diversi negli altri romanzi e nella
produzione novellistica (che inizia nei primi anni del secolo e
continuerà pressoché sino ai suoi ultimi giorni). L'adozione del
protagonista-narratore (cioè l'uso della prima anziché della terza
persona), il frequente ricorso al discorso indiretto libero, lo
scompaginamento dell'ordine cronologico-casuale nella narrazione,
sono alcuni dati di questa destrutturazione delle forme narrative
tradizionali che Pirandello attua.
Il relativismo gnoseologico fra le altre conseguenze comporta anche
quella di mettere a nudo la convenzionalità dei valori accettati,
dei ruoli imposti dalla vita associata; da questo punto di vista
l'opera di Pirandello è una continua e inesorabile demistificazione.
Ma l'animus, la disposizione con la quale egli procede a questa
inclemente demistificazione è complesso, coerentemente col
«sentimento del contrario» da cui è sotteso, è fatto di grottesco e
di pietà. Ora infatti Pirandello si accanisce a mettere a nudo
beffardamente, grottescamente le incongruenze delle meccaniche
convenzioni imposte dalla vita associata, ora invece ci sono, nella
sua pagina, toni di dolente comprensione per le grige e dolenti
esistenze stritolate da quei meccanismi, per la «pena di vivere
così».
Quanto abbiamo detto vale anche per la produzione teatrale, si
potrebbe anzi asserire che il teatro era il genere letterario
specifico, ottimale al quale doveva approdare il suo relativismo
gnoseologico che, come si è detto, comportava disparità di giudizi
sulla realtà, quindi scontro e opposizione tra contrastanti tesi.
Proprio per questo i personaggi del teatro pirandelliano talvolta
discutono troppo, sono dei "loici" agguerriti.
Come per la narrativa, così nel teatro Pirandello disarticola le
strutture tradizionali: nei drammi in cui egli attua
l'avanguardistica soluzione del "teatro nel teatro" (eccezionali,
tra questi, i Sei personaggi in cerca d'autore) crolla una
convenzione (quella della "quarta parete") sulla quale da sempre il
teatro si era retto.
GIUSEPPE PREZZOLINI
Nato nel 1882 a Perugia, Giuseppe Prezzolini svolse nei primi due
decenni del Novecento una straordinaria opera di suscitatore di
energie intellettuali e di organizzatore culturale, passando
attraverso una varietà di atteggiamenti con una disinvoltura che può
risultare discutibile. Come Papinì, d'altra parte, cui per tutta la
vita fu legato da profonda amicizia. Fondò nel 1903 il «Leonardo» e
nei 1908 «La Voce», che ispirata all'inizio a concretezza
pragmatistica diventò poi «rivista dell'idealismo militante»} e non
disdegnò gli entusiasmi nazionalistici. Partecipò alla prima guerra
mondiale; ammirò Mussolini e nel contempo approvò l'azione culturale
di Pìero Gobettì. Geloso dell'indipendenza e della "superiorità"
dell'intellettuale, non si compromise col regime fascista e dal 1925
lavorò per alcuni anni presso un istituto culturale della Società
delle Nazioni. Dal 1929 al 1950 visse in America e insegnò
letteratura italiana presso la Columbia University. Pubblicò tra il
'37 e il '39 i primi due volumi dì un Repertorio bibliografico della
storia e della critica della letteratura italiana dal 1933 al 1942.
Ritornato in Italia, con frequenti interventi giornalistici ha
continuato a svolgere il suo ruolo di intellettuale "non integrato"
e imprevedibile, con un orientamento politico decisamente di destra.
E' morto, centenario, a Lugano nel 1982. Fra le molte opere, oltre a
quelle giovanili (La coltura italiana, in collaborazione con Papini,
1906; Benedetto Croce, 1909), ricordiamo le interessanti memorie
(L'italiano inutile, 1953; Diario, 1978-80), un'antologia della
«Voce» (1974), e un testo di riflessioni filosofico-religiose, Dio è
un rischio (1969).
Parecchi degli obiettivi proposti anche nell'articolo La nostra
promessa (sempre dì Prezzolìnì), pubblicato come edìtoriale de «La
Voce» (n. 2, 1908): «Di lavorare abbiamo voglia. Già ci proponiamo
di tener dietro a certi movimenti sociali che si complicano di
ideologie, come il modernismo e il sindacalismo; di informare, senza
troppa smania di novità, di quel che di meglio si fa all'estero; di
proporre riforme e miglioramenti alle università italiane; di
segnalare le opere di letteratura e di commentare la viltà della
vita contemporanea». A parte, comunque, ci sembra più proficuo
sottolineare che, pur indicando concreti settori di intervento,
Prezzolini manifesta - in modo ora più ora meno evidente - un
atteggiamento di discutibile moralismo, sembra quasi costantemente
guardare dall'alto la situazione italiana e pensa di operarne
demiurgicamente un radicale mutamento. II tutto sa più di critica di
costume che di politica culturale. L'illusione che una rivista
potesse bastare per trasformare la vita politica italiana, senza
chiedersi a quali forze concrete legarsi, quali alleanze realizzare,
è la spia della fiducia tutta illuministica che Prezzolini aveva
nell'azione culturale. È un problema, d'altra parte, che si porrà
altre volte nella storia italiana.
Fornisce spunti di approfondimento questo giudizio critico di A.
Asor Rosa.
Nella prospettiva della «Voce» [...) la deprecazione politica si
trasfondeva in intransigentismo morale e in puro rafforzamento della
corporazione intellettuale. È quindi giusto ed intelligente
osservare che « La Voce» rappresenta un esempio unico e irripetibile
di «cultura nazionale» (Mangoni). Ma bisognerà precisare che si
tratta di un'esperienza di «cultura nazionale» inconfondibilmente
segnata dai tratti della tradizione liberale più autentica. Cioè: la
diagnosi della degenerazione italiana e la tensione di rinnovamento
spingono indubbiamente ad uscire dall'ambito del sistema liberale
classico. L'antigiolittismo e l'antidemocratismo lo provano con
abbondanza. Ma l'idea che la rinascita potesse essere affidata ad un
fascio di forze intellettuali poteva scaturire soltanto da quella
società, che per tanti altri versi si voleva condannare. Essa
insisteva, infatti, sul carattere altamente individualizzato (fino
ad apparire titanico ed eroico) del contributo di ciascuno; metteva
fra parentesi l'esistenza delle grandi masse sociali (proletarie e
piccolo-borghesi), autonome e con le loro organizzazioni; risolveva
il problema della politica in quello della educazione delle
ristrette élites. In questo, ridimensionandola, riusciva in pratica
a svolgere la sua funzione: ma senza possibilità alcuna di
controllare (anche solo intellettualmente) gli esiti finali
(politici ideologici) della sua campagna di rinnovamento.
L'interpretazione più autentica della «Voce» è dunque oggi quella di
considerarla l'espressione di una frazione consistente del ceto
intellettuale liberale in crisi, che ivi realizza il suo ultimo,
anzi supremo tentativo di contare socialmente qualcosa, senza
pensare decisamente alla necessità di cambiare il sistema: e, più
che come organo di direzione e di orientamento di quella crisi, come
sua più eloquente e veritiera manifestazione: per i propositi
ambiziosi che mise in campo, per la tensione profonda che l'animò,
per l'assenza di sbocco verso la quale camminava. Perciò si può
anche concedere che sia giusta quell'affermazione, cui Prezzolini è
tanto affezionato e di cui attribuisce la paternità a Malaparte, che
dalla «Voce» esca un filone di cultura fascista e, accanto a questo,
un filone di cultura antifascista: ma solo nel senso che essa segna
il confine dell'esperienza di produzione e di organizzazione
culturale di un sistema, quello liberale, appunto - mostra cioè che
cosa questo sistema poteva fare e non fare in campo culturale,
questo e non più; dopo di che le strade, a partire da lì, si
biforcano e si volgono verso ipotesi di sistemi diversi, nessuno dei
quali potrà più coincidere, nè in termini politici, nè in termini
culturali, con quello liberale.