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Luigi De Bellis
Antologia di critica sul Machiavelli
Intorno alle opere del Machiavelli
Autore: Ugo Foscolo Opera: Opere vol. III
L'opuscolo del signor Ridolfi' incomincia così: «Le
sublimi idee di universale legislazione ,occuparono in ogni tempo le
menti de' più grandi ingegni, e nella serie de' secoli
uscirono tratto tratto, or in un luogo, or in un altro, opere
luminose, frutto delle profonde meditazioni di coloro i quali fisso
mirarono in quella superna legge che, come dice Tullio, è la
retta ragione, conforme alla natura, comune a tutti, costante e
sempiterna». Vera o falsa che sia questa sentenza Platonica,
certo è che chi la crede e la scrive, o non è
sì versato nell'opere del Machiavelli da poterne parlare, o
è già imbevuto di tali principj da confutare tutti i
principj di Machiavelli. Questo autore non ha mai guardato liso a
legge superna, né a retta ragione, né alla
conformità della natura comune a tutti, né a costanza,
né a sempiternità, né a niun'altra di sì
fatte idee o parole metafisiche; ma tutto il principio de' suoi
ragionamenti si ristringe in questa sentenza: «Dalle cose che
gli uomini in altri secoli hanno fatto, imparate ciò che nel
vostro secolo dovete fare ». Onde invece di piantare un
assioma a priori, come fanno i politici metafisici, egli ha
esaminati molti fatti, e ne ha ricavate alcune regole: invece di
mostrare il bene che dovrebb'essere, ha mostrato il bene e il male
che necessariamente si trovano nel mondo, e l'utilità che si
può ricavare tanto dal bene quanto dal male.
Infatti così furono intesi i libri di quest'autore da un
grand'uomo che in uno Stato più vasto e in circostanze
più luminose ebbe gli stessi uffici pubblici che il
Machiavelli avea avuti nella sua patria, e la stessa occasione di
studiare le pratiche degli uomini. Questi è Bacone di
Verulamio, il quale nel libro VIII, cap. II De argumentis
scientiarum lasciò scritto: « Gratias agamus.
Machiavello et hujusmodi scriptoribus qui aperte et indissimulanter
proferunt quid homines facere soleant, non quid debeant».
Oltre i principi generali dell'autore, che sembrano mal conosciuti
dal signor Ridolfi, il confronto ch'egli istituisce delle sue opere
è così spicciolatb e meschino, che non si può
trarne veruna conseguenza fondamentale, perché in fine del
conto riducesi a citare una dozzina di passi ricavati dal Principe o
dai Discorsi sopra la Storia di Livio. Noi invece faremo un
confronto assai differente, e prima di tutto osserveremo che chi
legge tutte queste opere politiche del Machiavelli, attendendo alle
date in cui furono scritte, vede ch'egli avea per iscopo:
1° d'illuminare le fazioni della sua patria che, togliendo la
libertà, l'avevano fatta soggetta alla Casa de' Medici;
2° d'illuminare l'Italia sul predominio secreto che esercitavano
i pontefici, i quali, o per ingrandirsi o per arricchirsi,
attiravano sempre le armi straniere;
3° d'illuminare i principi sul danno che recavano ad essi le
armi mercenarie.
Queste tre mire cospiravano tutte all'indipendenza dell'Italia, e
principalmente alla libertà della Repubblica fiorentina.
Leggansi i Discorsi, che furono scritti prima, poi l'Arte della
Guerra, poi le Storie dell'autore. E confrontandoli, si vedrà
ch'egli era sempre diretto da questo intendimento. La Vita di
Castruccio Castracani è, senza dubbio, un romanzo storico a
cui fu modello la Ciropedia di Senofonte. Ma poich'egli vedeva che
le grandi rivoluzioni degli Stati nascono sempre dal genio d'un uomo
guerriero, egli volle pure dare in qualche modo esempi all'uomo che
avesse tentata sì grande impresa. Nessuno negherà che
in tutte queste opere si trovino nobilissimi e santi precetti di
giustizia, ma di giustizia non ideale, non sovrumana, ma gagliarda e
fondata sulla forza e sulla esperienza delle nostre passioni; ma
tale insomma che trovi elementi d'utilità tanto ne' vizi,
quanto nelle virtù de' mortali. Riguardo al libro del
Principe, non fa d'uopo molta penetrazione per vedere in esso la
quintessenza di tutti i principj e di tutto lo scopo del
Machiavelli; poiché si conosce evidentemente: 1° i danni
causati alla libertà delle repubbliche italiane dalla funesta
preponderanza della Chiesa; 2° le oppressioni delle città
governate dai piccoli tirannetti in Italia; 3° l'avvilimento
degli Italiani e la loro perpetua schiavitù per l'abuso delle
armi mercenarie e per l'invasione degli stranieri. Però la
conclusione di quel libro è una esortazione di liberare
l'Italia dai Barbari. Taceremo per ora se alcuni di que' precetti
tendano a fare aborrire il principato; diremo bensì che
l'uomo il quale avesse dovuto fondare in que' tempi un grande e
nuovo stato in Italia, avrebbe certamente rovinato s'egli avesse
voluto mettere in pratica le teorie de' metafisici. Diremo inoltre
che pendiamo a credere che una delle mire del Machiavelli nel
Principe si fu di svelare a' popoli italiani, e specialmente a'
Fiorentini, tutte le sciagure a cui soggiacciono le città
rette da principi deboli, poveri e malfermi nel loro trono; i quali,
in difetto d'armi e di leggi, son obbligati, per mantenersi, a
pagare il più forte col danaro de' propri sudditi, ed a
reggersi colla frode.
Autore: Francesco De Sanctis Opera: Storia della
letteratura italiana
Subordinare il mondo dell'immaginazione, come religione e come arte,
al mondo reale, quale ci è posto dall'esperienza e
dall'osservazione, questa è la base del Machiavelli...
Il mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali, ma
dallo spirito umano, che procede secondo le sue leggi organiche e
perciò fatali. Il fato storico non è la provvidenza, e
non la fortuna, mala « forza delle cose » , determinata
dalle leggi dello spirito e della natura. Lo spirito è
immutabile nelle sue facoltà ed immortale nella sua
produzione.
Perciò la storia non è accozzamento di fatti fortuiti
o provvidenziali, ma concatenazione necessaria di cause e di
effetti, il risultato delle forze messe in moto dalle opinioni,
dalle passioni e dagl'interessi degli uomini.
La politica o l'arte del governare ha per suo campo non un mondo
etico, determinato dalle leggi ideali della moralità, ma il
mondo reale, come si trova nel tal luogo e nel tal tempo. Governare
è intendere e regolare le forze che muovono il mondo. Uomo di
stato è colui che sa calcolare e maneggiare queste forze e
volgerle a' suoi fini.
La grandezza e la caduta delle nazioni non sono dunque accidenti o
miracoli, ma sono effetti necessari, che hanno le loro cause nella
qualità delle forze che le movono. E quando queste forze sono
in tutto logore, esse muoiono.
E a governare, quelli che stanno solo in sul lione, non se ne
intendono. Ci vuole anche la volpe, o la prudenza,"cioè
l'intelligenza, il calcolo e il maneggio delle forze che muovono gli
stati.
Come gl'individui, così le nazioni hanno legami tra loro,
dritti e doveri. E come ci è un dritto privato, così
ci è un dritto pubblico, o dritto delle genti, o, come dicesi
oggi, dritto internazionale. Anche la guerra ha le sue leggi.
Le nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non muore mai. Eternamente
giovane, passa di una nazione in un'altra, e continua secondo le sue
leggi organiche la storia del genere umano. C'è dunque non
solo la storia di questa o quella nazione, ma la storia del mondo,
anch'essa fatale e logica, determinata nel suo corso dalle leggi
organiche dello spirito. La storia del genere umano non è che
la storia dello spirito o del pensiero. Di qui esce ciò che
poi fu detto filosofia della storia.
Di questa filosofia della storia e di un dritto delle genti non ci
è nel Machiavelli che la semplice base scientifica, un pulito
di partenza segnato con chiarezza e indicato a' suoi successori. Il
suo campo chiuso è la politica e la storia.
Questi concetti non sono nuovi. I concetti filosofici, come i
Poetici, suppongono una lunga elaborazione. Ci si vede qui dentro le
conseguenze naturali di quel grande movimento, sotto forme classiche
realista, ch'era in fondo l'emancipazione dell'uomo dagli elementi
soprannaturali e fantastici, e la conoscenza e il possesso di
sé stesso. E a' contemporanei non parvero nuovi, né
audaci, veggendo ivi formulato quello che in tutti era sentimento
vago.
L'influenza del mondo pagano è visibile anche nel medio evo,
anche in Dante Roma è presente allo spirito. Ma lì
è Roma provvidenziale e imperiale, la Roma di Cesare, e qui
è Roma repubblicana, e Cesare vi è severamente
giudicato. Dante chiama le gloriose imprese della repubblica
miracoli della provvidenza, come preparazione all'impero : dove pel
Machiavelli non ci sono miracoli, o i miracoli sono i buoni ordini;
e se alcuna parte dà alla fortuna, la dà
principalissima alla virtù. Di lui è questo motto
profondo: « I buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona
fortuna nacquero i felici successi delle imprese ». Il
classicismo adunque era la semplice scorza, sotto alla quale le due
età inviluppavano le loro tendenze. Sotto al classicismo di
Dante ci è il misticismo e il ghibellinismo: la corteccia
è classica, il nocciolo è medievale. E sotto al
classicismo del Machiavelli ci è lo spirito moderno che ivi
cerca e trova se stesso. Ammira Roma, quanto biasima i tempi suoi,
dove « non è cosa alcuna che gli ricomperi di ogni
estrema miseria, infamia e vituperio, e non vi è osservanza
di religione, non di leggi e non di milizia, ma sono macùlati
di ogni ragione bruttura ». Crede con gli ordini e i costumi
di Roma antica di poter rifare quella grandezza e ritemprare i suoi
tempi, e in molte proposte e in molte sentenze senti i vestigi di
quell'antica sapienza. Da Roma gli viene anche la nobiltà
dell'ispirazione e una certa elevatezza morale. Talora ti pare un
romano avvolto nel pallio in quella sua gravità, ma guardalo
bene, e ci troverai il borghese del Risorgimento, con quel suo
risolino equivoco. Savonarola è una reminiscenza del medio
evo, profeta e apostolo a modo dantesco; Machiavelli in quella sua
veste romana è vero borghese moderno, sceso dal piedistallo,
uguale tra uguali, che ti parla alla buona e alla naturale. E in lui
lo spirito ironico del Risorgimento con lineamenti molto precisi de'
tempi moderni.
Il medio evo qui crolla in tutte le sue basi, religiosa, morale,
politica, intellettuale. E non è solo negazione vuota.
È affermazione, è il Verbo. Di contro a ciascuna
negazione sorge un'affermazione. Non è la caduta del mondo,
è il suo rinnovamento. Dirimpetto alla teocrazia sorge
l'autonomia e l'indipendenza dello stato. Tra l'impero e la
città o il feudo, le due unità politiche del medio
evo, sorge un nuovo ente, la Nazione, alla quale il Machiavelli
assegna i suoi caratteri distintivi, la razza, la lingua, la storia,
i confini. Tra le repubbliche e i principati spunta già una
specie di governo medio o misto, che riunisca i vantaggi delle une e
degli altri, e assicuri a un tempo la libertà e la
stabilità, governo che è un presentimento de' nostri
ordini costituzionali, e di cui il Machiavelli dà i primi
lineamenti nel suo progetto per la riforma degli ordini politici in
Firenze. È tutto un nuovo mondo politico che appare. Si
vegga, fra l'altro, dove il Machiavelli tocca della formazione de'
grandi stati, e soprattutto della Francia.
Anche la base religiosa è mutata. Il Machiavelli vuole recisa
dalla religione ogni temporalità, e, come Dante, combatte la
confusione de' due reggimenti, e fa una descrizione de' principati
ecclesiastici, notabile per la profondità dell'ironia. La
religione ricondotta nella sua sfera spirituale è da lui
considerata, non meno che l'educazione e l'istruzione, come
istrumento di grandezza nazionale. È in fondo l'idea di una
Chiesa nazionale, dipendente dallo stato, e accomodata a' fini e
agl'interessi della nazione.
Altra è pure là base morale. Il fine etico del medio
evo è la santificazione dell'anima, e il mezzo è la
mortificazione della carne. Il Machiavelli, se biasima la licenza
de' costumi invalsa al suo tempo, non è meno severo verso
l'educazione ascetica. La sua dea non è Rachele, ma è
Lia, non' è la vita contemplativa, ma la vita attiva. E
perciò la virtù è per lui la vita attiva, vita
di azione, e in servigio della patria. I suoi santi sono più
simili agli eroi dell'antica Roma, che agl'iscritti nel calendario
romano. O per dir meglio, il nuovo tipo morale non è il
santo, ma è il patriota.
E si rinnova pure la base intellettuale. Secondo il gergo di allora,
il Machiavelli non combatte la verità della fede, ma la
lascia da parte, non se ne occupa, e quando vi s'incontra, ne parla
con un'aria equivoca di rispetto. Risecata dal suo mondo ogni causa
soprannaturale e provvidenziale, vi mette a base
l'immutabilità e l'immortalità del pensiero o dello
spirito umano, fattore della storia. Questo è già
tutta una rivoluzione. È il famoso cogito, nel quale s'inizia
la scienza moderna. È l'uomo emancipato dal mondo
soprannaturale e sopraumano, che, come lo stato, proclama la sua
autonomia e la sua indipendenza e prende possesso del mondo.
E si rinnova il metodo. Il Machiavelli non riconosce verità a
priori, e principi astratti, e non riconosce autorità di
nessuno, come criterio del vero. Di teologia e di filosofia e di
etica fa stima uguale, mondi di immaginazione, fuori della
realtà. La verità è la cosa effettuale, e
perciò il modo di cercarla è l'esperienza accompagnata
con l'osservazione, lo studio intelligente de' fatti. Tutto il
formolario scolastico va giù. A quel vuoto meccanismo fondato
sulle combinazioni astratte dell'intelletto incardinate nella
pretesa esistenza degli universali sostituisce la forma ordinaria
del parlare diritta e naturale. Le proporzioni generali, le «
maggiori » del sillogismo, sono capovolte e compariscono in
ultimo come risultati di una esperienza illuminata dalla
riflessione. In luogo del sillogismo hai la « serie »,
cioè a dire concatenazione dei fatti, che sono insieme causa
ed effetto, come si vede in questo esempio:
Avendo la città di Firenze perduta parte dell'imperio suo, fu
necessitata a fare guerra a coloro che la occupavano, e
perché chi l'occupava era potente, ne seguiva che si spendeva
assai nella guerra senza alcun frutto: dallo spendere assai ne
risultava assai gravezze, dalle gravezze infinite querele del
popolo; e perché questa guerra era amministrata da un
magistrato di dieci cittadini, l'universale cominciò a
recarselo in dispetto, come quello che fosse cagione e della guerra
e delle spese di essa.
Qui i fatti sono schierati in modo che si appoggiano e si spiegano a
vicenda: sono una doppia serie, l'una complicata, che ti dà
le cause vere, visibile solo all'uomo intelligente; l'altra
semplicissima, che ti dà la causa apparente e superficiale, e
che pure è quella che trascina ad opere inconsulte
l'universale, con una serietà ed una sicurezza, che rende
profondamente ironica la conclusione. I fatti saltan fuori a quel
modo stesso che si sviluppano nella natura e nell'uomo, non vi senti
alcuno artificio. Ma è un'apparenza. Essi sono legati,
subordinati, coordinati dalla riflessione, sì che ciascuno ha
il suo posto, ha il suo valore di causa e di effetto, ha il suo
ufficio in tutta la catena: il fatto non è solo fatto, o
accidente, ma è ragione, considerazione, sotto la narrazione
si cela l'argomentazione. Così l'autore ha potuto in poche
pagine condensare tutta la storia del medio evo e farne magnifico
vestibulo alla sua storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono
anch'essi fatti intellettuali, e perciò l'autore si contenta
di enunciare e non dimostra. Sono fatti cavati dalla storia,
dall'esperienza del mondo, da un'acuta osservazione, e presentati
con semplicità pari all'energia. Molti di questi fatti
intellettuali sono rimasti anche oggi popolari nella bocca di tutti,
com'è quel « ritirare le cose a' loro principii
», o quell'ironia de' « profeti disarmati », o
« gli uomini si stuccano del bene, e del male si affliggono
», o « gli uomini bisogna carezzarli o spegnerli
». Di queste sentenze o pensieri ce ne sono raccolte. E sono
un intero arsenale, dove hanno attinto gli scrittori, vestiti delle
sue spoglie.
Autore: Eduardo Fueter Opera: Storia della
storiografia moderna
Il capolavoro storico di Machiavelli, la parte veramente geniale
della sua opera, è la sezione sulla storia interna di
Firenze, dagli inizi fino a circa il 1420 (2° e 3° libro).
Mentre i libri successivi si tengono relativamente aderenti alle
fonti, e danno (specialmente i libri dal 4° al 6°) soltanto
una intelligente narrazione pragmatica, quale infine avrebbe potuto
scrivere anche un altro dei grandi Fiorentini, Machiavelli
nell'esposizione della storia più antica, tenuta più
nella forma di uno sguardo generale che in quella di una narrazione,
ebbe occasione di far fruttare per la storia le qualità che,
anche tra i Fiorentini, possiede lui solo: lo sguardo ampio ed il
dono di riconoscere i grandi nessi storici, e di inquadrare fatti
singoli in uno sviluppo generale. Non solo ha cercato di assodare
quali fossero le conseguenze momentanee e per i tempi successivi di
singoli avvenimenti politici (cosa riuscita molto meglio a statisti
più esperti, come Commines o Guicciardini), ma basandosi
sulle sue riflessioni circa i motivi che avevano prodotto
l'inferiorità militare dell'Italia, ha mostrato nessi
esistenti fra cose molto distanti le une dalle altre, i quali
giacciono al di là dei calcoli, e perciò anche al di
là dei pensieri, degli uomini della politica pratica
assorbiti per lo più dalle cure del giorno. Qui Machiavelli
ha pensato come storico, e non solo come politico o diplomatico.
Perciò diminuì fortemente l'influenza degli individui,
per lo meno l'influenza cosciente. Quando per es. spiega come la
nobiltà di Firenze, vinta dal popolo, dovette abbandonare le
sue consuetudini e perciò perse la sua virtù d'armi e
generosità d'animo, e come ne derivò la debolezza
militare della città, si veniva in tal modo a porre a nudo
non solo una più profonda causa del sistema dei condottieri,
ma anche un esempio dell'indipendenza dei cambiamenti storici delle
tendenze coscienti di coloro che li provocano. Dopo Aristotele e
Polibio, Machiavelli è il primo in cui si trovi l'avviamento
ad una considerazione storiconaturale della storia.
Certamente anche qui Machiavelli non è conseguente. Il suo
sentimento patriottico è ancora troppo vivace ed egli sente
ancor troppo fortemente le disgrazie prodotte in Firenze dai
dissensi interni, per poter sempre giudicare in modo freddamente
scientifico.
Egli oscilla in modo notevole. Quando pensa ai molteplici
impedimenti prodotti nella politica estera della città dalla
disunione interna, le divisioni della repubblica gli appaiono come
una peste inviatale dal destino. Può parlare addirittura
della naturale ostilità che regnerebbe in tutte le
città fra i potenti e il popolo. Ma ciononostante crede
sempre ancora in una possibilità di salvezza. Non fu dato al
suo temperamento di considerare la storia del proprio paese in un
modo così conseguentemente rassegnato come ha fatto
Guicciardini.
Ma, pur con tali restrizioni - che narrazione meravigliosamente viva
è questa storia di Firenze fino al sorgere dei Medici! Come
si sviluppa un avvenimento dall'altro, come sono fuse in una sola
unità la storia interna e quella esterna. In che modo
intuitivo sono descritte le lotte dei partiti e le rivalità
delle famiglie! È vero che abbastanza spesso Machiavelli
giudica troppo sulla base di criteri moderni, che valuta motti e
istituzioni del medioevo secondo un significato spesso completamente
diverso da quello che avrebbero avuto al loro tempo, che concede a
dettagli romanzeschi e a singole personalità uno spazio
ingiustificatamente largo. Ma per quante cose ci siano concepite in
modo non istorico o inesatto, - rimane ciononostante un merito, che
cioè si cominciò di nuovo a narrare storia, per lo
meno come avrebbe potuto accadere ai tempi dell'autore, e che
ricomparvero uomini viventi al posto dei fantocci rettorici.
Persino la forma è qui completamente originale, tolte alcune
esteriorità. Machiavelli è ancor più moderno
degli umanisti. Elimina gli ultimi residui della maniera
cronachistica. Cancella per es. anche le notizie di incendi e
inondazioni che il Bruni aveva ancora catalogate. In questa sezione
abbandonò persino l'ordinamento annalistico. Tentò una
composizione reale: i suoi libri corrispondono a raggruppamenti
naturali e non sono più sezioni divise in modo puramente
esteriore. Le sue introduzioni non sono più pezzi di parata
appiccicati, pieni di banalità. La lingua spietatamente
realistica rinunzia per lo più alle frasi di abbellimento
della rettorica e dice quel che ha da dire senza circonlocuzioni. E
dove il suo cuore batte, si eleva ad una eloquenza che fa apparire
in tutta la loro nudità le pietose tirate dei letterati.
Autore: Federico Meinecke Opera: L'idea della
ragion di stato nella storia moderna
Il medioevo cristiano e germanico ha lasciato un retaggio di
incommensurabile efficacia al mondo moderno d'occidente, e
cioè il senso più acuto e doloroso per i dissidi tra
la ragione di Stato e la morale e il diritto, il sentimento sempre
rinnovantesi che spregiudicata ragione di Stato in sostanza è
peccato, peccato contro Dio e le norme divine, peccato ancora contro
la santità e l'inviolabilità del buon diritto antico.
Anche il mondo antico aveva già avvertita e criticata la
peccaminosità della ragione di Stato, ma non s'era addolorato
troppo, La positività dei suoi valori vitali gli dava agio a
considerare con una certa serenità i maneggi della ragione di
Stato come sfogo di forze naturali irrefrenabili. La
peccaminosità antica era una peccaminosità ingenua e
non ancora terrorizzata e inquietata dall'abisso fra il cielo e
l'inferno aperto poi dal cristianesimo. La visione dualistica del
mondo, affermata dal cristianesimo dogmatico, influì poi
profondamente anche sui tempi nei quali il cristianesimo tendeva a
liberarsi dai dogmi, e improntando il problema della ragione di
Stato d'una così cupa tragicità quale non aveva mai
avuta nel mondo antico.
Era dunque una necessità, storica che fosse pagano colui che
diede inizio alla storia dell'idea della ragione di Stato nel
moderno occidente e conferì il suo nome al machiavellismo;
perché soltanto un pagano, ignaro degli orrori dell'inferno,
poteva accingersi con semplicità antica all'opera della sua
vita di investigare l'essenza della ragione di Stato.
Niccolò Machiavelli fu il primo ad assolver questo compito.
Ciò che qui importa è la sostanza della cosa, non la
parola che manca ancora in lui. Machiavelli non concentrò in
un termine unico i suoi concetti intorno alla ragione di Stato. Per
quanto amasse le espressioni forti e sintetiche, e ne coniasse
più d'una, pure proprio per idee supreme che lo animavano non
sentì il bisogno di un'espressione verbale, quando la cosa
gli sembrava evidente e lo pervadeva tutto. Così si è
notato per esempio ch'egli non s'espresse mai intorno al vero fine
ultimo dello Stato, e si è concluso erroneamente che non ci
avesse meditato. Invece, come vedremo in breve, non fece che
dedicarsi ad un ben determinato fine supremo dello Stato, e
così pure tutto il suo pensiero politico non fu che costante
riflessione sulla ragione di Stato.
Una costellazione del tutto speciale, grandiosa e impressionante
insieme, ha suscitato il mondo del pensiero machiavellico, e
cioè il simultaneo manifestarsi d'una catastrofe politica e
di un rinnovamento spirituale. Nel secolo XV l'Italia godeva
l'indipendenza nazionale e, per usare la pregnante espressione del
Machiavelli (Principe, c. 20), era in un certo modo bilanciata dal
sistema dei cinque Stati: Stato della Chiesa, Napoli, Firenze,
Milano e Venezia, scambievolmente intenti a tenersi a freno. Nel
Machiavelli, imbevuto di tutti gli elementi realistici della
civiltà del rinascimento e direttamente provocato dalla
istituzione allora sorgente delle legazioni stabili, venne
elaborandosi un'arte politica dalle regole salde e sicure che
culminava nel principio del divide et impera, insegnava a vedere le
cose senza ombra di preconcetti, e superava con facilità e
noncuranza le preoccupazioni religiose e morali, ma si dava ad
azioni e combinazioni relativamente semplici e meccaniche. Solamente
con le catastrofi che si successero in Italia dal 1494 in poi, con
la invasione dei Francesi e Spagnoli, col tramontare
dell'indipendenza di Napoli e di Milano, le precipitose mutazioni di
governo a Firenze e, più di tutto, con la strapotente
pressione straniera su tutta la penisola appenninica, si
maturò lo spirito politico e raggiunse quell'acutezza,
profondità e forza di passione che si rivelò nel
Machiavelli. Segretario diplomatico della repubblica fiorentina fino
al 1512, il Machiavelli s'imbevette di tutte le conquiste dell'arte
politica italiana fino allora e cominciò già a
tracciare pensieri originali proprio a questo proposito. Questi si
fecero strada quando un rovinoso destino colpi lui e la repubblica
nello stesso anno. Egli era un vinto, per qualche tempo un
perseguitato, e per riacquistare il credito perduto gli fu
necessità accarezzare i nuovi dominatori, i Medici, allora
ritornati al potere. In tal guisa si aperse una scissura tra il suo
interesse personale, egoistico, e l'ideale repubblicano della
libertà e dello Stato-città fino allora professato. La
sua grandezza sta nell'aver tentato di appianare e risolvere
interiormente questo dissidio. Così dal torbido e non troppo
pregevole crogiolo del suo egoismo spontaneo e spregiudicato sorsero
i nuovi poderosi concetti sul rapporto di repubblica e monarchia e
sulla nuova missione nazionale di quest'ultima nella cerchia dei
quali si trovò anche spregiudicatamente riprodotta l'essenza
della ragione di Stato, in tutti i suoi elementi puri e impuri,
nobili e abietti. Nel 1513, allorché scrisse il libricino del
Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, egli si
trovava sul principio della quarantina, ossia in quell'età in
cui gli spiriti scientifici produttivi danno spesso l'opera
migliore.
Abbiamo detto dinanzi che vi dovette concorrere anche un
rinnovamento spirituale. Machiavelli non assorbì in tutto il
suo contenuto il movimento del rinascimento; così per esempio
non partecipò delle sue esigenze religiose e
speculativo-filosofiche e non valutò troppo le aspirazioni
artistiche del suo tempo, anche se inconsciamente imbevuto e soffuso
del suo spirito artistico. Tutta la sua passione era rivolta allo
Stato, all'indagine e all'accertamento delle sue ferme, funzioni e
condizioni di vita, per cui l'elemento specificamente razionale,
empirico e calcolatore della civiltà del rinascimento in
Italia raggiunse con lui la sua più perfetta espressione.
Sennonché questo senso positivo dei problemi della politica
di potenza, da sé solo non avrebbe ancora significato un
pieno rinnovamento spirituale. Lo slancio e la fede che l'animarono
e dai quali sorse l'ideale di una rigenerazione, erano in quanto il
Machiavelli partecipò ad esso, d'origine antica.
L'antichità non celebrava di certo in lui, come in tanti
altri umanisti del rinascimento, una risurrezione prettamente
dottrinale e letteraria, fatta di esaltazione scolastica, anemica e
retorica. Qualche volta, è vero, anche il suo entusiasmo per
gli eroi e pensatori antichi mostra una certa dipendenza
classicistica e deficienza critica, ma nel complesso l'uomo antico
risorse realmente in lui dalla comunanza di sangue e dalla
tradizione che in Italia non erano mai del tutto tramontate.
Quantunque il Machiavelli dimostri alla Chiesa e al cristianesimo un
ossequio esteriore, spesso misto d'ironia e di critica, e per quanto
sia innegabile l'influenza che esercitò su di lui il pensiero
cristiano, egli è in fondo un pagano che muove al
cristianesimo (Disc., II, 2) la nota grave accusa di aver resi gli
uomini umili, deboli ed effeminati. Egli vagheggiava con nostalgia
romantica la forza, la grandezza e la bellezza della vita antica,
gli ideali della sua mondana gloria. Egli mirava ad instaurare
nuovamente nei suoi diritti la forza generica sensuale-spirituale
dell'uomo naturale secondo natura, nella quale grandezza dell'animo
e fortezza del corpo, fuse insieme, creano eroismo. Per tal guisa
egli venne a rottura con la dualistica etica cristiana che
spiritualizzava unilateralmente l'uomo e ne svalutava gli istinti
sensuali-naturali, ma ne conserva certi concetti inquadranti sulla
distinzione del bene e del male; in sostanza però mira ad una
nuova etica naturalistica, libera e decisa nel seguire la voce della
natura. Chi imita la natura non può esser biasimato, disse
egli ad un certo punto, volendo scusare 1c sue spensierate avventure
amorose in mezzo alle serie occupazioni, ché anche la natura
è piena di variazioni.
Un tale naturalismo può condurre facilmente ad un politeismo
innocuo dei valori vitali. Il Machiavelli però, anche
sacrificando volentieri all'altare di Venere, concentrò i
vari e supremi valori della vita in ciò ch'egli chiamava
virtù; concetto ricchissimo, ch'egli certamente prese dalla
tradizione dell'antichità e dell'umanesimo, ma sentì e
plasmò in maniera del tutto originale, e che racchiude
sì delle qualità etiche, ma che doveva indicare per se
stesso qualche cosa di dinamico, che la natura pone in grembo
all'uomo ed è eroismo e forza a grandi imprese politiche e
guerresche, ma sopra tutto nel fondare e conservare degli Stati
fiorenti e segnatamente liberi Stati. Infatti i liberi Stati, di cui
sommo ideale era la Roma del grande periodo repubblicano, avevano,
secondo lui, i migliori requisiti per generare virtù. Questa
comprendeva dunque la virtù dei cittadini e la virtù
dei dominatori, devozione e sacrificio volontario di sé in
favor della collettività, come anche saggezza, energia e
ambizione dei grandi fondatori e reggitori di Stati. Egli
considerava come virtù d'ordine superiore, quella
virtù ch'era patrimonio indispensabile d'un fondatore e
governatore di Stati, in quanto questa sola valeva a distillare, per
mezzo di opportuni « ordinamenti », dal materiale in
realtà cattivo e triste della media umanità, la
virtù nel senso di virtù civile, in certo modo una
virtù di second'ordine che, traendo origine da una
organizzazione, invece che dalla disposizione naturale, non era
così durevole e salda quanto la innata creativa virtù
dei singoli grandi uomini. La distinzione della virtù in
originaria e derivata è d'importanza capitale per la piena
comprensione delle mire politiche del Machiavelli. Essa dimostra
infatti ch'egli era ben lungi dal prestar cieca fede alla
virtù naturale e indistruttibile del repubblicano, e che
giudicava anche la repubblica piuttosto dall'alto, dal punto di
vista del dominatore, che dal basso, dal punto di vista dell'aperta
democrazia. E molto gli piaceva il proverbio allora in voga che:
« in una maniera si pensa in piazza e in un'altra in palazzo
» (Disc., I, 47). Il suo ideale repubblicano aveva
perciò sin da bel principio una piega monarchica, in quanto
egli non credeva che si potesse richiamare in vita una repubblica
senza la forza di singole grandi tempre di organizzatori o
dominatori. E poiché il Machiavelli era compenetrato dalla
dottrina di Polibio, del ripetersi ciclico dei destini degli Stati,
per cui al fiorire d'una repubblica segue di necessità un
tramonto e una rovina, così per procacciare ad una di queste
repubbliche decadute quel tanto di virtù che aveva perduto e
di conseguenza rialzarla, egli non vedeva altro mezzo se non a sua
volta la virtù creativa del singolo, una mano regia, una
podestà quasi regia (Disc. I, 18, e 55), che afferrasse le
redini dello Stato e lo rinnovasse. Anzi per gli Stati repubblicani
già del tutto corrotti, incapaci di rigenerarsi, egli vedeva
nella monarchia l'unica forma di governo ancora possibile. Per tal
modo il suo concetto di virtù creò un intimo ponte di
collegamento tra le tendenze repubblicane e quelle monarchiche e,
senza venir meno ai suoi principii, egli poté fondare le sue
speranze nel principato dei Medici, al crollare della repubblica
fiorentina, e scrivere per loro il libro del Principe. Collegamento
intimo che subito dopo gli permise di riprendere nei Discorsi anche
il filo repubblicano e di bilanciare la repubblica col principato.
Autore: Federico Chabod Opera: Introduzione a N.
Machiavelli: Il Principe
In questi mesi, dal luglio al dicembre, vien fuori il trattato
« De Principatibus », il nostro Principe. Le annotazioni
in margine a Livio sono tralasciate: nelle ultime d'altra parte
già si avverte un insolito atteggiamento spirituale; due, tre
capitoli interi in cui il popolo, che anima i Discorsi, scompare,
per lasciar luogo all'individuo solitario, e il contrasto eroico
delle classi e dei partiti si immiserisce nel contrasto intimo d'un
uomo, di un animo chiuso. La breve opera, non destinata a creazione
artistica, ma più tosto simile, nell'intendimento di chi la
compose, a uno di quei tanti memoriali o discorsi sulla riforma
degli stati, quali il Machiavelli stesso compose più tardi,
è compiuta in rapido tempo: a dicembre, l'uomo nuovo è
sbozzato, si pone già solo sulla scena politica, aspro,
pensoso, impenetrabile, a comprimere in sé la vita di tutto
lo stato.
Poiché, ora, ogni altra voce tace: il popolo è
divenuto un volgo disperso che attende solo lo « evento della
cosa », una massa amorfa su cui grava il giudizio severo di
Philippe De Commynes; la nobiltà - pallida figurazione ormai
che richiama con melanconico ricordo la elegia dantesca sul Medio
Evo che tramonta, e il grido di dolore di Guido del Duca - non ha
più unità di classe, egoismo di casta, prevenzione di
stirpe: è un miscuglio vario di individui i quali vogliono
opprimere il popolo, e non ne son capaci, a quella guisa in cui il
popolo non vuol essere oppresso, e non ha sufficiente energia per
difendersi da sé. Si immiseriscono, grandi e plebe,
nell'astuzia calcolatrice di piccolo conio, nella contesa
frammentaria in cui non è serietà di proposito
determinato, e neppure la formale grandezza dell'eroismo personale:
hai la materia, supina nell'attendere la virtù del principe
che tenga « con li sua ordini » animato lo universale, e
infonda la vita dove è un oscuro vegetare di sensi imbelli.
La manna deve cadere dal cielo: e gli uomini stanno col becco aperto
ad aspettarla.
Questa era, del resto, la conclusione naturale della storia
italiana, il risultato a cui avevan condotto l'isterilirsi dello
spirito comunale, la fralezza delle signorie, non fondate su una
base sociale a sufficienza ampia e forte, l'abilità
diplomatica dei principati, ridottisi, dopo gli ultimi vani
tentativi egemonici, al giuoco delle parti, alla politica di
bilanciamento e di equilibrio, alla federatio italíca; il
popolo staccato dalla vita dello stato, le classi frantumate, il
contado ostile alla città: il principe tiene in sé
solo i motivi della sua opera. Il Rinascimento si era attuato, nella
sua espressione artistico-letteraria, per entro allo sfacelo sociale
e politico: il principe era l'unica figura viva, in questo mondo di
letterati e di indifferenti. Ma viva, a sua volta, di una vita
angusta e limitata la diplomazia era il solo campo aperto, la
politica - che vuol dire capacità di lotta e coscienza di
propositi e coerenza di indirizzo e intimità di creazione -
era ben lontana.
Perciò, nemmeno un principe di eccezionale virtù
avrebbe potuto compiere il miracolo: lo stato forte, che potesse
arginare i « barbari », e permettere il libero svolgersi
della vita nazionale, non poteva crearsi là ove nessuna
comunanza di interessi e di passioni legava i sudditi al signore, la
folla al governo, suscitando la coscienza della lotta per la difesa
comune. Credere di giungere, anche mediante una eccezionale
capacità di azione umana, e sagacia particolare, e parziali
riforme degli ordinamenti esterni ad assicurare l'esistenza a un
organismo che più non la trovava in sé, era
un'illusione.
E bene quindi si apponeva il Guicciardini, diplomatico e mercante,
che scansava i pericoli dell'immaginazione fermandosi nella calma,
un po' melanconica, del desiderio. Lui l'Italia la vorrebbe libera;
ma è inutile pensarci su, e anzi, poiché di barbari
non se ne può fare a meno, tanto vale ce ne siano due,
acciò almeno, tra i loro contrasti, si possano più
tranquillamente rimanere le città sottomesse. Il
bilanciamento delle forze, il giuoco delle parti, egli lo svolge in
grande, lo porta nel campo della politica europea, sperando di
salvar con quello la ristretta vita cittadina, come infatti altra
volta per esso si eran salvate Firenze e Ferrara dalle brame
insaziabili di Venezia e di Napoli. Ma non si accorge, a sua volta,
come, mutandosi i protagonisti del delicato congegno, anche questo
muti un po' del suo ritmo.
E Niccolò invece, che proprio or ora ha cercata la gloria di
Roma, per la prima volta, nella lotta diuturna delle sue classi
sociali, che ci ha ancora l'animo commosso per quel tumultuare di
libere contese, e ha detto, ben chiaro, come a voler far grande uno
stato occorra render cittadini, e non sudditi, coloro i quali si
aggiungono per conquista, rinnegando così tutta la storia
comunale italiana e palesandone sicuramente la intima debolezza; che
dovrebbe pertanto accorgersi della definitiva rovina d'Italia, e
cercar solo di rabberciarne alla meglio le sorti, con maneggi
diplomatici: Niccolò si lascia riprendere dalla sua
immaginazione, dimentica i Discorsi, e costruisce, febbrilmente, i
lineamenti dello stato nuovo. Supera, con miracolosa potenza di
fantasia politica, la storia dell'ultimo quattrocento; si riafferra
alla politica di Gian Galeazzo e di Ladislao di Napoli, alla prima e
grande politica signorile: la integra, con la capacità
ricostruttrice ch'è di lui solo, e torna a proporla, allora
quando la possibilità pratica non esiste più.
Cerca, attorno a sé, qualche figura in cui appaiano segni non
dubbi di valore; trova il Valentino, lo compie, a suo modo, con un
po' di Ferdinando il Cattolico, di Francesco Sforza, di Luigi XI: e
suggerisce i rimedi ad ogni accidente, corregge le storture dei
governi passati, credendo, con simili dettagli, di raddrizzare un
edificio a cui son venute mancando le fondamenta. Anzi, l'errore
vero egli l'ha trovato, la causa di ogni sventura è chiara:
le armi mercenarie, nequizia dei principi, i quali, beati di belle
frasi, di un'abile negoziazione, hanno rinnegato l'unica arte loro -
e così l'Italia è stata corsa, forzata, vituperata, ed
essi son divenuti privati.
Il Principe si accentua, non soltanto nella materiale disposizione,
ma sì ben nello spirito che lo pervade, in questi capitoli
sulla milizia: qui è la piaga che deve sanarsi. Lo stile
stesso acquista accenti di insolita commozione; l'invettiva, il
dolore, dianzi contenuti in una parola rapida, in un velato
trapassar del periodo, o anche in una finissima ironia che si
avverte a pena, tanto corre tra parola e parola, qui balzan fuori,
improvvisi: hai il primo turbamento della passione, che
travolgerà poscia l'ordito logico nella concitazione della
chiusa, e più tardi riappare, esacerbata, ma senza speranza,
nel finale dell'Arte della guerra.
Per vero, concependo la possibilità della milizia nazionale -
le armi affidate ai cittadini, lo Stato difeso da coloro che lo
formano il Machiavelli esce dalla storia angusta de' tempi, dai
risultamenti immediati della civiltà italiana, e segna
un'orma nuova: qui egli non più riprende i motivi di
svolgimento della politica italiana, ma li compie. Senonché,
egli poi non s'avvede come a tal rivoluzione nell'arte militare
debba corrispondere ugual rinnovamento politico-sociale: la milizia
cittadina non può essere se non là ove lo Stato viva,
giorno per giorno, nell'intima coscienza del popolo; e quindi deve
crollare il Principato, quale egli lo vede. Il solo enunciare la
base e militare nuova dovrebbe significare la rinunzia alla
creazione del Principe.
Egli non se n'accorge, e si ferma a metà; s'ispira
all'esempio di Francia, di Svizzera, di Roma repubblicana,
senz'avvedersi che i suoi modelli nascondono un intimo valore,
quello per l'appunto di cui la civiltà italiana non è
più capace. I suoi precetti li potrà seguire, dopo non
molti anni, un principe che condurrà per la prima volta sulla
scena politica d'Italia il suo popolo di montanari rozzi e poveri,
ma forti: ma la monarchia di Emanuele Filiberto non è il
principato italiano.
Così, il principe non venne; e la piccola opera, scritta in
giorni inquieti, quando miracolosi eventi parevano profilarsi di
lontano, è accolta con disprezzo da Lorenzo de' Medici: il
povero nipote di Leone X preferisce al libretto non ripieno di
«parole ampullose» i cani da caccia, e il Machiavelli si
ha una nuova ripulsa.
Ma egli, nella concitazione del lavoro, non s'avvede quanto sia
debole il castelluccio che vuol costruire; e scrive senza esitanza.
Abbiamo in tal modo l'ordito logico. Poiché, ben diverso in
ciò dal Savonarola, in cui il motivo fondamentale è la
ribellione al tempo e alle condizioni storiche, Niccolò parte
dall'accettazione di queste, almeno nel loro tessuto fondamentale;
il suo spirito, profondamente unito alla storia del momento, si
è affinato, scaltrito, nel non inutile lavorio di dodici
anni: e di questa sua sicurezza di analisi, di tale serenità
logica e di tale aderenza alla vita varia e vivace, egli si vale per
costruire le grandi linee del suo quadro. In lui la serenità
e la cautela del ragionamento non contrastano con l'immaginazione:
quest'ultima, soltanto, gli permette, in seguito al rilievo dei
frammenti, di riunirli in ultima visione, di ricrearli in una
organicità perfetta di cui essi sono i singoli spunti. Gli
altri, i diplomatici, si fermano al primo momento, non concepiscono
la possibilità di una costruzione nuova, e si chiudono nella
loro finezza e discrezione; il Savonarola non è capace di
contenere la sua passionalità sino al punto da formularla in
un ordito coerente e sicuro, ed investirla delle minutissime
sfumature onde pur è ricca la vita; egli invece sa valersi
della sua esperienza ormai ricca di motivi per tramutarla, con la
immaginazione, in un nuovo svolgimento politico. Questo gli
permetterà di segnare un'impronta tutta sua, nella storia del
pensiero politico, da cui le generazioni seguenti - e non italiane -
trarranno a lor volta conclusioni più aperte e sicure; degli
altri, il frate domenicano non può che lasciare dietro a
sé un momentaneo e rado risveglio di coscienza, in alcuni
pochi, i diplomatici fermano le supreme linee della civiltà
italiana, iniziando al più la vita granducale, monotona,
discreta, angusta.
Così, dei ventisei capitoli che compongono il Principe,
venticinque sono rigidamente logici; il ragionamento fila diritto,
senza sbandamenti né soste, l'analisi si svolge, finissima e
incisiva, il pensiero si costringe in una compostezza sicura e
cauta, che distingue e precisa; lo Stato nuovo vien fuori, grado a
grado, contessuto di molteplici elementi, tutti vagliati ad uno ad
uno e saggiati nella loro effettiva resistenza.
I caratteri, il Machiavelli non li ha da cercar molto lontano: in
quella turba di principotti e di condottieri che attristano le
città dell'Italia centrale, egli ritrova i frammenti sparsi
del suo Principe, i singoli rilievi atti ad esser ricreati nella
figura più compiuta e più coerente. La memoria gli
è a sufficienza agile, perch'egli ricordi uomini della
più vicina storia: un Sigismondo Malatesta, ad esempio, volpe
e lione al tempo stesso, condottiere e diplomatico, abile in sventar
le mosse di eserciti nemici o nell'ordir trame sottilissime, in cui
si perde la sagacia de' rivali. Da questi uomini, e da altri ancora
- è inquietante, nello sfondo, quel volto troppo queto e
pacato di Ferdinando il Cattolico, e dànno a pensare quelle
sue parole tutte fede, tutte pace, colpe obbliga a riflettere la
capacità militare di Francesco Sforza -, da una esperienza
così ricca, varia, contessuta di elementi diversissimi, trae
Niccolò i particolari del suo quadro. Onde, in questo
serrarsi del pensiero che teorizza e pone ordinatamente le sue
massime, con tranquilla sicurezza, tu avverti, sempre, fluire nel
fondo una realtà vivace e concreta, e senti riecheggiare,
continuamente, la nota storica che si trasfonde senza scosse
nell'affermazione incisiva e quasi autoritaria; e non è
più discernibile con esattezza qual sia la parte
dell'esperienza e quale il sovrapporsi dell'immaginazione, né
si può staccare la voce del inondo da quella della logica e
poi dell'animo.
Ci è la freschezza e il vigore dell'azione minuta, colta nel
vivo e fissata a volte in un'immagine, a volte sottilmente velata
dal precetto rapido e chiaro; ci è la capacità di
afferrare, degli eventi, i motivi dominanti e di analizzarli con
serena cautela; e infine ci è la immaginazione, la quale,
come gli ha permesso di concepire la possibilità del
Principe, così ora, nel lavoro, gli consente di raccogliere
tutte le notizie e le riflessioni sparse, di ricrearle in
unità del tutto impreveduta, di trasformarli in nuova, se pur
solo sperata, esperienza politica. E ti vien fuori la lotta
politica, affermata con naturale sicurezza: lo Stato agisce e
conquista e distrugge, senza dover render conto ad alcuno; esso
è già il supremo valore. Gli manca ancora, per adesso,
la pienezza di vita intima - quel suo continuo vivere nell'animo del
popolo chiamato a crearlo ora per ora; è pertanto formale,
come la lotta politica è soltanto esterna: ma intanto non
ricerca più al di fuori di sé le ragioni della sua
esistenza. Non le ricerca nemmeno nel suo intimo: si trova effigiato
nel suo momento di equilibrio, mai più raggiunto, che non
ricerca nulla e non ha bisogno di giustificazioni o di chiarimenti.
Autore: Luigi Russo Opera: Machiavelli
A noi pare che il Machiavelli non può essere giudicato con
l'occhio del piagnone, ma neanche con quello dell'uomo savio del
Guicciardini a meglio di un pseudo Guicciardini, né con
quello di un tormentato romantico. Sul piagnone, siamo ormai tutti
d'accordo; ma quanto all'uomo savio del Guicciardini, almeno
così come è stato stilizzato in una celebre
ricostruzione del De Sanctis, dobbiamo ricordare che esso è
là negazione più elegante e più smagata al
tempo stesso dell'uomo del Machiavelli che, nella scienza
dell'interesse puro, pur riesce a una forma di eroico disinteresse,
ed ha qualcosa di estremo e di rettilineo che lo fa superiore ad
ogni mediocre contingenza: il guicciardinismo può essere una
sorta di scettica benevolenza, ma non mai la maniera più
intelligente per cogliere il fondo dell'animo e del pensiero del
nostro artista eroe della politica pura. E quanto alla
interpretazione del romantico, essa non potrà mai illuminarci
sulla sublime freddezza dello stile machiavellico, e nulla ci
potrà dire sulla serenità motteggiatrice dell'uomo, e
sulla classica compostezza e conclusività dell'opera sua.
Machiavelli non è un uomo di azione mancato e un teorico
puro, come vogliono i praticoni; e nemmeno è un'anima
perpetuamente dimidiata tra il suo fare e il suo meditare, una
crucciata anima del limbo, irrequieta pur un suo magnanimo e
insoddisfatto disio. Machiavelli è un artistaeroe della sua
scienza, l'artista-eroe della politica pura, il quale dell'artista
ha l'incanto e il disinteresse dell'esperienza, e dell'eroe ha il
pathos e la logica rettilinea. In questa serenità e
disinteresse e in questo suo pathos è l'unità della
sua vita e del suo pensiero, che non appare turbata né da
effettivi mancamenti, né diminuita o accresciuta da patetici
contrasti. Pratica politica e dottrina politica, in lui, sono un
solo problema.
Gli uffici cancellereschi, le sue legazioni, le sue
commissarìe sono una sublimazione di esperienza (egli
trascende sempre i particolari gretti della situazione, per cogliere
il motivo universale degli avvenimenti) ; e, per altro verso, i suoi
discorsi, i suoi dialoghi, le sue varie Scritture sono esperienze
che vogliono valere come una res gesta. In ogni caso, egli è
sempre un creatore politico, e del creatore ha la logica estrema.
Coree diplomatico dovrebbe fornire notizie utili alla Signoria,
perché questa prenda le sue decisioni, ma egli,
nell'atmosfera accesa del suo cervello, giudica, manda, e conclude
per proprio conto, consuma in pieno la sua azione politica. «
Del iudicio rimettetevene a altri » bada a ripetergli il buon
Biagio Buonaccorsi, esprimendo, con tali parole, gli umori della
Signoria, che non vuol saperne degli ammonimenti e consigli di
messer Niccolò; ma egli non se ne dà per inteso. Le
sue migliaia di lettere ai Signori, e ai Dieci, i suoi avvisi, le
sue relazioni, sono dei saggi critici provvisori, in cui egli viene
elaborando il concetto nuovo della politica certa, effettuale, da
lui vagheggiata; sono gli abbozzi del suo sistema scientifico. Ma
abbozzi non già d'ordine pratico, distolti, in tempi
successivi, ad essere materia di una sistemazione superiore; abbozzi
scientifici, essi stessi, fin nella loro prima ispirazione.
Le legazioni alla corte di Francia si risolvono in un breve scritto
sul De natura Gallorum, e poi, più tardi, nel Ritratto delle
cose di Francia, e dalle legazioni all'imperatore Massimiliano in
Germania germinarono il Rapporto delle cose d'Alemagna, il Discorso
sopra le cose della Magra e sopra l'Imperatore, il Ritratto delle
cose della Magna: aggiunte parziali, come il secondo di questi tre
scritti, o relazioni sempre più ampie o più profonde e
complesse, in cui egli vien sistemando, senza riposo, le sue
esperienze. Le quali dunque trascendono sempre i bisogni pedestri,
immediati, di quelle sue missioni d'ufficio, e celebrano uomini
avvenimenti e situazioni nel cielo universale della storia e del
pensiero politico; e però quelle relazioni e lettere parche
non giovino alle occasioni spicciole, ma ci danno intanto il «
sapore » di quelle occasioni, che è quel sapore che
rimane, il quale opera come lievito nel mondo, e ci fa eternamente
presenti uomini e situazioni. In questo senso, 1e singole esperienze
del Machiavelli si presentano non come una res gesta conclusa una
volta per sempre, ma come un rem gerere perpetuo. Il Machiavelli,
uomo d'azione mediocre o mancato nell'oggi, opera come un uomo di
azione nell'eternità...
Però il Machiavelli è potuto apparire come un uomo
pratico mancato, mentre egli invigilava alla pratica eterna della
vita; e, in verità, il suo gagliardo senso dell'universale
poteva essere facilmente scambiato per povertà di motivi
spiccioli della sua politica in atto. La quale piccola politica va
certamente studiata e valutata, e gli storici fanno bene a
discorrere dei servigi resi alla Signoria fiorentina dal nostro
segretario; ma, nelle loro accuse o giustificazioni, spesse volte
è trascurato il canone necessario che quella politica
occasionale va guardata nel quadro di una più grande
politica, della politica della Ragione eterna, non della piccola ed
effimera ragione. Niccolò Machiavelli serve implicItamente
alla repubblica fiorentina, ma perché serve alle repubbliche
e agli Stati di ogni tempo: la sua preoccupazione fondamentale
è questa non l'altra. Appunto perché la sua era la
passione per la tecnica politica nella sua purezza, egli
finiva con l'essere l'artista incantato del suo stesso osservare e
speculare: la tecnica per la tecnica, si potrebbe dire, è
l'insegna storica del suo pensiero e della sua azione.
Si è tante volte parlato del Machiavelli artista, e si
è guardato ed esaltato la concinnità del suo stile o
le sue qualità drammatiche di impassibile narratore, e si
sono indicate questa e quella gemma lirica delle sue prose e dei
suoi versi; ma l'arte per noi non è nelle forme, e non
è nei luoghi, ma nell'atteggiamento. E il Machiavelli fu
artista, in questo senso superiore: ché egli guardò
alla politica e alla vita, con fantasia disinteressata del
«povero manovale» carducciano. Guarda come ascenda in
alto e risplenda il suo strale d'oro, guarda e gode, e più
non vuole.
Ogni sua esperienza è sempre rasserenata in questo superiore
sorriso dell'artista, anche quelle che sono le esperienze più
umilianti e le più dispettose...
Se conosciamo un Machiavelli artista nelle esperienze disinteressate
della vita politica e morale del suo tempo, ritroviamo poi un
Machiavelli eroe nel vivere e nel condurre la logica del suo
pensiero fino alle sue forme estreme. Per questo lato, il
Machiavelli è un temperamento estremista; l'uomo che
deprecò le vie di mezzo in politica, non amò nemmeno
l'aurea mediocrità delle opinioni nel campo scientifico.
« Meglio essere impetuoso che respettivo », è una
sentenza del Principe, e come uomo di studi e come scrittore, il
nostro autore fu egli stesso più impetuoso che respettivo:
quel forzare gli avvenimenti con l'accesa maginazione; la stessa
violenza esercitata sui fatti storici spesso tratti e dimostrazioni
più impensate; il categorizzare continuo le osservazioni
particolari in princìpi di carattere universale; il sentire
le istorie, più che come racconto di cose compiute, esse
stesse come una res gerenda il favore accordato sempre alle
decisioni e ai pensieri estremi, tutto a testimoniare cotesta
impetuosità del suo temperamento mentale, pur riuscendo egli
a distillare i suoi pensieri in opere lucidamente e freddamente
scientifiche.
In cotesto gusto artistico ed eroico al tempo stesso delle sue
esperienze, tratte alle loro più estreme conseguenze quasi
per vincerne le intrinseche aporie e antinomie, noi fondiamo quel
pathos della tecnica, che ci pare caratteristica più vera
della mente e dell'animo del Machiavelli, lontanissimo dal
puritanesimo dei piagnoni, ma anche lontano dalla saviezza smagata
ed elegante del Guicciardini, e dalla drammaticità tribolata
dei romantici. Per quella poesia della tecnica politica in sé
e per sé, egli poté auspicare il trionfo di un
principe che riducesse sotto il suo governo la provincia d'Italia, e
al tempo stesso dolersi che un Luigi XII, un re francioso, barbaro
però, commettesse una serie infinita di errori, che gli
compromisero il dominio delle terre italiane. E in quello stesso
trattato, che doveva fondare l'animo di un principe italiano alla
grande impresa dell'unificazione, lo scrittore può ricordare
la sua risentita risposta all'arcivescovo di Roano « che e
Franzesi non si intendevano dello Stato », sol perché
essi lasciavano venire la Chiesa in tanta grandezza, che era poi la
grandezza stessa di quel Valentino, assunto dal nostro autore a
principe-mito della sua dottrina. Per questa poesia della tecnica
pura, egli poté provvedere al tempo stesso a legiferare sugli
ordinamenti repubblicani e a suggerire le norme per il più
antidemocratico principato, donde l'apparente contraddizione tra lo
stato d'animo dei Discorsi e lo stato d'animo del Principe. E con
uguale compiacimento e spirito di obiettività scientifica,
poté egli proporsi il caso del principe che giunge al governo
per la sua virtù o per il favore dei suoi cittadini, e quello
del principe che vi giunge per le vie nefarie, e illustrare le arti
dell'uno e le arti dell'altro per consolidarsi bene nello Stato;
perché se non si può « chiamare virtù
ammazzare e sua cittadini, tradire li amici, essere sanza fede,
sanza pietà, sanza religione », pure chi considerasse
la virtù di un Agatocle « nello entrare e nello uscire
de' periculi, e la grandezza dello animo suo nel sopportare e
superare le cose avverse, non si vede perché egli abbia ad
essere indicato inferiore a qualunque eccellentissimo capitano
». E negli stessi Discorsi, dove depreca la tirannide come
antipolitica, ché gli uomini non s'avvedono « per
questo partito quanta fama, quanta gloria, quanto onore,
sicurtà, quiete, con soddisfazione d'animo, ci fuggono, e in
quanta infamia, vituperio, biasimo, pericolo e inquietudine
incorrono », egli discorre il caso di un principe che non
avesse altro rimedio a tenere il suo principato, e riconosce la
necessità che questi entri risolutamente nelle vie più
crudeli, e pigli per sua mira quel Filippo di Macedonia che
tramutava gli uomini di provincia in provincia, « come e
mandriani tramutano le mandrie loro ».
Sono questi modi crudelissimi - chiosa il nostro autore - e nimici
d'ogni vivere, non solamente cristiano, ma umano; e debbegli
qualunque uomo fuggire, e volere, piuttosto vivere privato,
che con tanta rovina degli uomini; nondimeno, colui che non
vuole pigliare quella prima via del bene, quando si voglia mantenere
conviene che entri in questo male.
Può ancora il Machiavelli esaltarsi nel sentimento delle
libertà repubblicane, e notare come il nome della
libertà e gli ordini antichi suoi « né per la
lunghezza de' tempi né per benefizi mai si dimenticano
», pure non mancherà egli stesso di ricordare al
principe che < chi diviene padrone di una città consueta a
vivere libera, e non la disfaccia, aspetti di essere disfatto da
quella »; sicché la via più sicura, per dominare
le repubbliche, è « spegnerle o abitarvi ».
Può talora il Machiavelli celebrare negli antichi popoli
l'affezione del vivere libero, e numerare tutti i vantaggi della
libertà, maggiori popoli, connubi più fecondi,
moltiplicazione della ricchezza, incremento delle arti e della
cultura, ma può al tempo stesso celebrare la prudenza e la
virtù dei Romani che seppero fiaccare quelle libertà e
superare i popoli d'intorno, nonostante che, nello stesso capitolo
si affretti a riconoscere che « di tutte le servitù
dure, quella è durissima che ti sottomette a una repubblica
», « perchè il fine della repubblica è
enervare e indebolire, per accrescere il corpo suo, tutti gli altri
corpi ». Ed egli stesso si adopererà per vari anni,
sotto il governo del buon Soderini, e a ordinare milizie e a guidare
ardui lavori d'ingegneria, come la progettata deviazione dell'Arno,
per sottomettere a Firenze la città di Pisa, sebbene
volentieri riconosca che « Pisa dopo cento anni che l'era suta
posta in servitù da' Fiorentini », « non mai
sdimenticò il nome della libertà né quegli
ordini, e subito, in ogni accidente, vi ricorse ». E ancora,
nel capitolo sulle congiure, può analizzare la tecnica delle
cospirazioni e dal punto di vista del principe e insieme dal punto
di vista dei congiurati, e assegnare le ragioni del loro fallimento
o del loro successo, dei loro pericoli e della loro
necessità; e compiacersi che Cesare confermi una sua regola,
poiché, per avere il popolo di Roma amico, fu vendicato da
lui. Proprio quel Cesare, simbolo per Machiavelli di tirannide, e
che in altra occasione gli suggerisce una delle sue pagine
più eloquenti e più fosche, e anche piuttosto di
bravura letteraria, sulla corruttela della schiavitù
politica, e gli fa riconoscere con amara ironia « quanti
obblighi Roma, l'Italia, e il mondo, abbia » con
quell'imperatore. Tanta è la passione del nostro scrittore
per la tecnica della politica pura.
La quale va sempre riguardata in tutte le sue parti, e con assoluta
obiettività; però, per la stessa ragione, può
egli, caduto il regime repubblicano in Firenze per il quale tanto si
era industriato, chiedere di essere adoperato dai Medici, senza
temere taccia di incoerenza politica, ché anzi « della
fede sua non si dovrebbe dubitare, perché, avendo sempre
osservato la fede, egli non debbe imparare ora a romperla; e chi
è stato fedele e buono quarantatre anni che egli ha, non
debbe potere mutare natura ». « E della fede e
bontà mia ne è testimonio la povertà mia
» egli conclude, e segna in una semplice e umile frase questo
che fu l'inconsapevole epos di tutta la sua vita e di tutto il suo
pensiero la bontà, come sovrano disinteresse per l'arte dello
Stato, la fede, come eroica e tenace devozione a quell'arte. In
questa poesia e senso obiettivo dell'arte dello Stato, il
Machiavelli dirime tutte le sue apparenti contraddizioni, e fonda
l'originalità e grandezza della sua scoperta. Un'antinomia di
altro genere invece è intrinseca a quel suo pensiero,
ché quell'arte dello Stato non è tutta l'arte di
questo mondo, ma egli, nella sua eroica caparbietà,
crederà che la politica sia tutto, e che essa sia la sola
forza motrice della storia. Cotesta angustia sarà la
più vera tragedia del pensiero del Machiavelli, ma lo
scrittore non ne ebbe chiara consapevolezza; la tragedia, in un
certo senso, si rivelò postuma alla genesi di quel pensiero,
e fu propria dei secoli successivi, che lungamente e laboriosamente
battagliarono per il riconoscimento della politica pura, quale
momento necessario, ma soltanto un momento fra altri momenti, nella
vita generale dello spirito umano. Il « tutto è
politica » di Machiavelli doveva essere lo schermo di una
polemica di cinquantenni e cinquantenni per concludere che il solo
modo di moralizzare la politica è quello di riconoscere che
la politica non è tutto, e che accanto ad essa si muovono
molte altre forme di vita spirituale, feconde anch'esse di buona
politica soltanto perché autonome e disinteressate.
Autore: Luigi Russo Opera: Machiavelli
La struttura del Principe ha una chiarezza architettonica, che non
è sempre così perspicua nelle altre opere. Il capitolo
primo è una premessa introduttiva, un po' magra in
verità, ma dove gli enunciati e le distinzioni dei vari tipi
di principato si disnodano, in forma libere e adulta, senza faticosi
richiami a qualche idea d'ordine generale, come avveniva nei vecchi
trattati di scienza medievale. Uno scrittore a tipo scolastico
procede per dimostrazioni, che sono forme dissimulate del
sillogismo, in cui, attraverso le idee medie, tutte le proposizioni
sono richiamate e congiunte a una premessa universale...
Il Machiavelli, la trascendenza delle ragioni, in accordo con tutto
il pensiero del rinascimento, è impetuosamente negata e
naturalizzata, così che anche le premesse d'ordine universale
sono come riassorbite e incorporate nel testo stesso delle singole
enunciazioni; da ciò, la rapidità dilemmatica del suo
periodare:
Tutti gli stati... sono o repubbliche o principati. E i principati
sono: o ereditarii... o sono nuovi. E nuovi, o e' nuovi sono
tutti... o e' sono membri aggiunti... Sono questi domini così
acquistati, o consueti a vivere sotto uno principe, o usi ad essere
liberi; e acquistonsi o con le armi d'altri o con le proprie, o per
fortuna o per virtù.
È la sintassi adulta della scienza moderna, ovvia e familiare
per noi, nuova e originale per il Machiavelli e gli altri scrittori,
che iniziarono sul finire del Quattrocento e nei primi del
Cinquecento questo tipo nuovo e liberale di prosa. Non più
« clausule ampie », non più « parole
ampullose e magnifiche », o « qualunque altro lenocinio
o ornamento estrinseco, con li quali molti sogliono le loro cose
descrivere e onorare », ma l'arte che nasce rapida dalle cose.
Perchè io ho voluto, o che veruna cosa la onori, o che
solamente la varietà della materia e la gravità del
subietto la facci grata.
La sintassi machiavellica è già consapevole della sua
libertà e individualità, e, a differenza della
sintassi medievale, gerarchica e cattolica per eccellenza, va
spedita per la sua via, alla maniera liberale, concatenando le
enunciazioni per serie interna: sparisce il ragionamento a piramide
degli scolastici, e si inaugura il ragionamento a catena, che
sarà poi quello di Galileo e di tutta la prosa scientifica
moderna. Iddio è disceso dai cieli, e anche l'arte ha
scorciato le sue vie...
Ogni concetto astratto si veste in Machiavelli, di una forma
sensibile, c la corpulenza di certe sue metafore e di certi suoi
paragoni si accorda col carattere intimamente naturalistico del suo
pensiero. In un pensatore idealista, le immagini, anche corpose,
sono, più che sia possibile, spiritualizzate, perché
non urtino bruscamente il tessuto metafisico del proprio pensiero;
ma, in un mondo di pensiero quale quello dell'età del
rinascimento, tutto maturato dalla vita esterna e sensibile, la
idealizzazione delle immagini la si ottiene con un processo di
più risoluta e popolare assimilazione alle stesse cose della
natura. Così lo stato, che è concetto per eccellenza
astratto è visto nella logica della sua formazione naturale,
e istintivamente si lascerà tradurre nelle immaqni della
vegetante natura (« li stati che vengono subito, come tutte le
altre cose della natura che nascono e crescono presto, non possono
avere le barbe e corrispondenzie loro; in modo che el primo tempo
avverso le spegne »; e le troppo frequenti innovazioni
costituzionali saranno deprecate, « perché sempre una
mutazione lascia l'addentellato per la edificazione dell'altra
», con il materiale richiamo ai risalti che si lasciano nei
muri esterni delle fabbriche, per potervi collegare altre fabbriche)
.
E la fortuna, che era una figura allegorica orinai convenzionale,
riesce nella prosa del Machiavelli a nuova vita: essa è
sempre natura animata, in ogni momento, e il suo dar favori si
traduce in un « mettere in grembo », ed essa ora
sarà assomigliata « a uno di questi fiumi rovinosi che,
quando s'adirano, allagano e piani, ruinano gli alberi e gli
edifizii, lievano da questa parte terreno, pongono da quell'altra
»; c ora apparirà donna, e, come donna, più
amica dei giovani, « perché sono meno rispettivi,
più feroci, e con più audacia la comandano ».
« Ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e
urtarla », chiosa lo scrittore, con quello stesso senso
ghiotto, spregiudicato e scherzosamente antiuxorio che gli aveva
ispirato la novella di Belfagor, e che riassumeva la comune
persuasione, radicata fin dalla novellistica del Boccaccio e del
Sacchetti, che la donna andava tenuta sotto e castigata, e
più la batti e ti mostri uomo, e più ti vuol bene.
Anche l'immagine del Centauro doveva, assai efficacemente,
simboleggiare il concetto del rinascimento, che il mondo per una
parte è dominio dell'uomo e per l'altra è dominio
della natura, cosicché, anche nel più limitato campo
della politica, conviene usare l'una e l'altra natura, la bestia e
l'uomo, ché l'una senza l'altra non è durabile. E
poiché l'immagine è di quelle che nascono in viva
immediatezza di pensiero, ecco che il Machiavelli non vi insiste
dentro, subito l'abbandona, e da essa gemina l'altra famosa metafora
della golpe e del lione, del lione che non si difende dai lacci, e
della golpe che non si difende da' lupi, e « bisogna adunque
essere golpe a conoscere e lacci, e lione a sbigottire e lupi
»...
Bisogna proprio parlare di un tono e di una energia popolare, nella
prosa del Machiavelli, la quale riesce ad essere, in ogni momento,
un meraviglioso impasto di lingua e sintassi colta e di lingua e
sintassi popolana. L'uomo che sa vestire la veste quotidiana, piena
di fango e di loto, e sa poi rivestirsi condecentemente di panni
reali e curiali, è simbolo dello scrittore, che è
classico e popolare, dotto e istintivo, complesso e immediato al
tempo stesso. Parlerà dell'invasione degli stranieri in
Italia, di queste « illuvione esterne », con frase di
stampo latino, e in cui si avverte una leggera reminiscenza del
petrarchesco « oh diluvio, raccolto di che deserti strani
», e, subito dopo, con plebea vigoria, uscirà a dire
« a ognuno puzza questo barbaro dominio »;
parlerà di uomini liberali e di uomini miseri, liberali e
larghi donatori, miseri e gretti, liberali nel significato aulico,
miseri nel significato paesano, e lo scrittore troverà il
tempo di indugiarsi nella delizia di una distinzione linguistica:
« usando uno termine toscano, perché avaro in nostra
lingua è ancora colui che per rapina desidera di avere,
misero chiamiamo noi quello che si astiene troppo di usare il suo
». Ma, a ogni momento, la commistione tra elementi aulici ed
elementi popolareschi è così piena e perfetta, nella
prosa machiavellica, che riesce perfino difficile separare gli uni
dagli altri, tanta è l'unità del sentimento che li
produce; e talora è una determinazione verbale popolaresca,
un torgnene, un ammazzorno, e tal'altra una inflessione sintattica
della lingua parlata, che dà un suo tono, una sua particolare
sfumatura, a un periodo tutto dotto e latino, e lo trasfigura. Se
mai, potrebbero essere citati alcuni pochi esempi negativi,
là dove il Machiavelli, discorrendo di Agatocle, di
Nàbide o degli imperatori del basso Impero parafrasa
scrittori antichi, Giustino o Erodiano o altri, e allora la sua
fantasia non è molto commossa e la sua prosa viene
latineggiando più del solito, perdendo quella particolare
tempera popolana, che è la sua forza.
Per questo piglio popolaresco e parlato, si spiega anche quel tono
di disputa animata che, spesso, qua e là, ha il Principe:
cotesta non è una elucubrazione di uno studioso solitario, ma
di un uomo che sente di fronte a sé allocutori ed
obbiettanti, e tutti vuole persuadere e controribattere, come se il
Machiavelli, pur indossando panni reali e curiali, non sapesse
dimenticare del tutto la sua osteria e il suo tricchetrach, «
dove nascono mille contese e infiniti dispetti di parole iniuriose
».
E se alcuno dicesse: el re Luigi cedé ad Alessandro di
Romagna ecc..., respondo, con le ragioni dette di sopra; ecc. ecc...
E se alcuni altri allegassino la fede che il re aveva obligata al
papa ecc. ecc... respondo con quello che per me di sotto si
dirà circa la fede de' principi e come la si debba osservare.
... A Carlo re di Francia fu licito pigliare la Italia col gesso. E
chi diceva come e' n'erano cagione e peccati nostri, diceva il vero;
ma non erano già quelli che credeva ma questi che io ho
narrati...
Da questo contenuto fervore polemico provengono le spezzature e
irregolarità sintattiche, che sono la disperazione dei
grammatici. Si potrebbe dire che il Machiavelli abbia una
predilezione particolare per il soggetto d'affezione, anche se
taciuto, più che per il soggetto grammaticale; nel suo
libello-capolavoro, poi, il principe è sempre il protagonista
della sua immaginazione, sicché mentalmente ci si riferisce a
lui, anche quando manca l'evidenza e la regolarità
dell'espressione grammaticale, ed esso governa non solo popoli, ma
anche periodi complicatissimi, in cui, istintivamente, tutto
ciò che riguarda la sua attività di soggetto
affettivo, è ricacciato in proposizioni accidentali e
parentetiche; cosicché il periodo, pur nella sua laboriosa
complessità, ha un movimento rettilineo, dominato dall'alto
con reticente imperiosità e concluso e serrato da un qualche
rapido ed animoso verbo finale. E talvolta avvengono delle acrobazie
pericolose, come in quel luogo, dove si discorre del buon Giovanni
Fogliani e del perfido suo nipote, Oliverotto da Fermo, quando tutto
a un tratto lo scrittore si dimentica del galantuomo per correre
dietro alla canaglia, che è soggetto più espedito e
più avvincente.
Non mancò, pertanto, Giovanni di alcuno offizio débito
verso el nipote; e, fattolo ricevere da' Firmiani onoratamente, si
alloggiò nelle case sue.
Dove il soggetto di quell'alloggiò non è più
l'officioso Giovanni, ma il « diabolico » Oliverotto :
« sintatticamente questo è un grave errore »,
commenta inorridito un interprete, ma la fantasia dello scrittore ha
una sua grammatica particolare e leggi proprie, in cui gli uomini
dabbene non hanno troppo posto e voce in capitolo e sono troppo
deboli soggetti.
Insieme a questa epopea sintattica dell'individuo « virtuoso
», un'altra epopea scorre nella prosa machiavellica: quella
delle « cagioni » delle cose. Non più il dantesco
« state contenti, umana gente, al quia », ma un
impetuoso ed affollato desiderio di rendersi conto di tutto, e di
spiegar tutto con ragioni di questa terra. « La cagione
è in pronto », rincalza il Machiavelli, quando si
lascia andare a qualche aforisma un po' scandaloso: egli non ama i
paradossi; le sue verità vogliono essere verità piane
ed obbiettive, a cui tutti debbono accedere, e, a ogni passo,
c'è la chiosa con la sua ragione. E le « cagioni
», verbalmente manifeste o sottintese, riempiono le pagine del
nostro scrittore:
Noi abbiamo in Italia, in exemplis, il duca di Ferrara: il quale non
ha retto alli assalti de' Viniziani nello '84, né a quelli di
papa lulio nel 'io, per altre cagioni che per essere antiquato in
quello dominio. Perché el principe naturale ha minori cagioni
e minore necessità di offendere: donde conviene che sia
più amato; e, se estraordinarii vizii non lo fanno odiare,
è ragionevole che naturalmente sia ben voluto da' sua. E
nella antiquità e continuazione del dominio sono spente le
memorie e le cagioni delle innovazioni.
Un periodo, tra i mille, a caso, in cui, in breve giro, le cagioni
si accampano a ogni passo: questo è il mondo della natura, il
mondo delle cose, che hanno la cagione in altre cose, e però
uomini ed avvenimenti e pensieri e sentimenti sono in rapporto
perpetuo di cause. Noi moderni veniamo abbandonando questo rapporto
di causalità, e le cause, nel loro valore naturale esterno e
deterministico, spariscono per cedere alla logica interna che nasce
e si sviluppa nell'intimo delle cose stesse e degli avvenimenti; ma,
per il Machiavelli, felix qui potest rerum cognoscere causas! Egli
esce e si oppone al mondo medievale, dove tutto ha una sola ragione,
e trascendente e lontana nei cieli, che è Dio; ora c'è
da conquistare tutto un Inondo terrestre, scoprire nuove terre e
nuove acque. Da ciò la ressa, quasi allegra, delle «
cagioni », nel suo periodare.
Come poi da uno scrittore, così impetuoso e istintivo di
temperamento, nasca il fermo ed epigrammatico incisore di regole e
massime, è il miracolo senza miracolo, dell'uomo di genio,
che, dalla polemica più soggettiva, sa riuscire alla scienza
più obbiettiva, per disciplina vigorosa dei suoi sentimenti.
Ma è chiaro che in tanto la disciplina è vigorosa, in
quanto i sentimenti essi stessi sono vigorosi, e disciplina e
sentimento sono una cosa sola, ché là dove il
sentimento è profondo ivi è disciplina, e solo le
passioni della superficie rifuggono dall'ordine e dalla legge.
Autore: Luigi Russo Opera: Machiavelli
Per la commedia del Machiavelli, bisogna dire che il turpe, il
sensuale, l'osceno si alleggerisce per questa astuzia
dell'intelligenza, che percorre la vicenda da un atto all'altro. Il
turpe negozio diventa a un certo punto un 'ingegnosa beffa. Tutto il
'400 e particolarmente il '500 è ricco di una novellistica e
di un teatro, ricco di motivi di beffa. Tali motivi procedono dal
Decamerone, ma non come materia astratta; c'è invece un
accordo storico più profondo di quei motivi boccacceschi con
la nuova civiltà umanistica e rinascimentale, che ebbe il
culto vivo e spregiudicato dell'intelligenza, della scaltrezza,
dell'ingegnosità, della furberia, dell'abilità. Il
Machiavelli è il pensatore in cui cotesta novella musa
dell'intelligenza, dell'abilità, dell'astuzia, canta il suo
poema più serio nel Principe e nei Discorsi; qui nella
commedia, se ne ha il canto minore, per una sola notte d'amore.
Benvenuto Cellini sarà l'ultimo artista di cotesta
intelligenza « beffarda » e spregiudicata. Con la
controriforma, comincerà la musoneria inventiva dei nostri
novellatori e scrittori di teatro: l'intelligenza per
l'intelligenza, la beffa per la beffa, comincia ad essere
considerata ipocritamente un'empietà.
Ma non per questo cesserà l'ispirazione di tipo sensuale,
anzi questa si ingrosserà in senso più animalesco:
dove manca il sorriso giovanile della libera intelligenza, la carne
si fa più pesante e lorda. Sul finire del 9500 e per tutto il
'600 si ha una letteratura della sensualità senile, che,
sotto un ipocrito moralismo, si sfoga in maniera più bassa e
più oscena. La sensualità del Boccaccio saliva nelle
sfere dell'intelligenza lucida e armoniosa; in questa letteratura
tardiva, si discende invece all'animalità giovanile, estrosa,
del Boccaccio, ma è pur la carnalità ancora dominata e
infrenata dalla mente, è la sensualità virile infusa
di una matura malizia, la quale lascia intravedere uno sfondo di
amara tristezza. Callimaco, che iperbolizza volontariamente o
involontariamente la sua impazienza d'amore, impersona questo tipo
di avveduta e maturata sensualità. Accanto a Callimaco,
c'è un personaggio beffato, messer Nicia, che dà
l'aire allo spasso dell'intelligenza astuta e che comunica una
festevolezza chiassosa a tutto l'insieme.
Messer Nicia è una specie di Calandrino machiavellico, con
qualcosa di più scioccamente turpe che l'altro suo giovane
precursore del '300 non ha. Calandrino passa per le menti di tutti
come il tipo dello sciocco e del credulone, così come don
Abbondio incarna ormai nella fantasia il pauroso per eccellenza. Ma
in entrambi i casi si semplifica e si schematizza ciò che
nell'arte è assai complesso. Don Abbondio non è
semplicemente il pauroso, ma è anche il ferreo piccolo
egoista, in cui sopravvivono le idealità morali della
religione ma tutte rattrappite e però deformate comicamente;
e don Abbondio è anche coraggioso, coraggioso quando
c'è da difendere tale suo piccolo egoismo, il suo pacifico
sistema di vita. Orbene allo stesso modo non è esatto dire
che Calandrino sia solo uno sciocco, un credulone; gli sciocchi non
hanno storia, e basta una semplice nota per colorirli nel mondo
dell'arte. E Calandrino riempie di sé ben quattro novelle,
così come messer Nicia occupa a ogni momento la scena della
Mandragola, anche quando non è presente. Tanto che alcuni
critici hanno voluto vedere in lui perfino il protagonista della
commedia. Uno sciocco e un credulone non può interessare il
mondo della fantasia, senza ingenerare fastidio e sazietà. E
qui si parrà l'arte dello scrittore: complicare lo sciocco, o
complicare lo sciocco turpe...
Quello che il Boccaccio aveva fatto con giovanile leggerezza per
Calandrino, il Machiavelli lo ripete per messer Nicia, ma
aggravandone lo spirito, con una malizia amara, che in certi tratti
può apparire perfino polemica. Per Calandrino noi ridiamo,
per messer Nicia noi ridiamo e ci irritiamo. È un immondo
babbeo! La comicità del Machiavelli ha uno sfondo più
etico che nel Boccaccio, in cui l'estro della fantasia è
più disinteressato e svagato; direi, è ancora un gioco
fanciullesco. Ma ecco qua messer Nicia, dottore, un dottore che ha
« cacato le curatelle per imparare due hac » come dice
lui stesso in un momento di sincerità, eccolo qua a giudicare
e sentenziare su tutto il mondo, su medici di Firenze e di Parigi,
quasi egli fosse un gran baccalare. Si è consultato con loro
per i bagni della moglie, quelli che possono essere più
favorevoli alle gravidanze:
Oltra di questo io parlai iersera a parecchi medici. L'uno dice che
io vadia a San Filippo, l'altro alla Porretta, l'altro alla Villa;
e' mi parvono parecchi uccellacci, e, a dirti il vero, questi
dottori di medicina non sanno quello che si pescono.
Messer Nicia non vorrebbe saperne di andare ai bagni, perché
egli si spicca «malvolentieri da bomba». E avere a
travasare moglie, e tante masserizie », questo non gli quadra;
e Ligurio, vile abile parassita, lo fa vergognare stuzzicando in lui
la vanità del giramondo. Non andate ai bagni, gli dice,
perché « voi non siete uso a perdere la cupola di
vetta! ». E messer Nicia, togato nel vivo, ribatte:
Tu erri! Quando io ero più giovane, io sono stato molto
randagio. E non si fece mai la fiera a Prato, che io non vi andassi,
e non ci è castel veruno intorno, dove io non sia stato; e ti
vo' dire più là: io sono stato a Pisa e a Livorno, oh
va!
Ligurio fa l'ignorante che, ammirato, favoleggia di cose sentite ire
ma non vedute, sicché messer Nicia può farla bene da
gran dottore.
«Voi dovete aver veduto la carrucola di Pisa », e messer
Nicia pettoto: « Tu mi vuoi dire la Verrucola ». «
Voi avete visto il mare? Quanto è egli maggiore che Arno?
» ; e messer Nicia: « Che Arno? Egli è per
quattro volte, per di più di sei, per di più di sette,
mi farai dire: e non si vede se non acqua, acqua, acqua » .
Parrebbe questo il trionfo massimo della sua saputa esperienza di
mondo, ma a questo punto messer Nicia paga forte per tanta sua
puerile presunzione:
Ligurio. - Io mi meraviglio adunque, avendo voi pisciato in tanta
neve, che voi facciate tanta difficoltà d'andare al bagno.
Messer Nícia. - Tu hai la bocca piena di latte. E' ti pare a
te una favola, avere a sgominare tutta la casa? Pure io ho tanta
voglia d'avere figliuoli che io son per fare ogni cosa.
Da questo momento, nell'atto che canta vittoria, messer Nicia si
rende captivo al suo parassita.
Questa l'astuzia artistica del Machiavelli; ma se è facile
rilevare la presunzione sciocca del personaggio e la sua turpitudine
melensi, sfugge forse ai lettori un'altra sua parte. Il Machiavelli,
con molto accorgimento stilistico, ha prestato al personaggio un
linguaggio particolarissimo, il più idiotistico e il
più proverbiale fiorentino del tempo. Il linguaggio
dialettale, il municipalismo linguistico, può essere o
raffinata civetteria estetica oppure è segno di angustia e
goffaggine spirituale; e i proverbi possono testimoniare
gravità religiosa, come i proverbi di padron 'Ntoni, oppure
sono segno di vacuo parassitismo mentale. Messer Nicia parla per
proverbi e per modi di dire affinati ormai da una tradizione:
sicché a ogni suo verbo, tu senti cantilenare il più
bel fiorentino, ma che risuona a vuoto. Vi avverti dentro qualcosa
di fesso, di trito, di ripetuto, di luogo comune che ti eccita per
cotesta sapienza facile e molle del parlatore. Per esempio. Egli
dice: « Io mi spicco malvolentieri da bomba », e bomba
era il luogo privilegiato di una partita di giuoco, molto in uso a
Firenze, per cui si diceva spiccarsi da bomba e ritornare a bomba.
Diffidando dell'improvvisa medicheria di Collimaco, egli ancora
osserva: « Io non vorrei che mi mettessi in qualche lecceto e
poi mi lasciassi in su le secche »; e poi, quanto alla sua
scienza medica, aggiunge con gravità: « Io ti
dirò ben io come gli parlo, se egli è uomo di
dottrina, perchè egli a me non venderà vesciche
».
Ancora un altro proverbio, quando messer Nicia ammonisce Ligurio di
chiamare Callimaco col suo titolo di maestro, perché dottore
in medicina, e Ligurio risponde: « E' non si cura di simili
baie! ». E messer Nicia di rimando lo esorta a fare il suo
dovere, anche se Callimaco dovesse aversene a male: « Non dire
così, fai il tuo debito, e se l'ha per male, scingasi!
». Si cali pure le brache, cioè, se se ne ha per male;
tu non te ne dar pensiero. Ed è questo assai antico
proverbio, e piuttosto raro. E ci sarebbe da allinearne ancora tutta
una filza, come quel « Ho più fede in voi che gli
Ungheri nelle spade » e « Bisognava che io mi impeciassi
gli orecchi come el Danese », « E ora mi hanno qui
posto, come un zugo, a piuolo », e « noi entriamo in
cetere », « Come disse la botta all'erpice », il
quale ultimo proverbio provocò un lungo chiarimento del
Machiavelli al Guicciardini. Ciò che ci fa sospettare quale
dovesse essere lo spasso dei contemporanei per questo idiotismo
linguistico di messer Nicia, che faceva tutt'uno con la sua
goffaggine mentale. E non si dice nulla del suo gergo allusivo ai
rapporti sessuali della moglie con l'ignoto rubaldone, a cui doveva
esser piaciuto « l'tinto », se si era attardato in
camera sino all'alba. Questa parte svela quel giubilo di laida
lussuria, che freme nelle carni del vecchio, e a cui accennavamo
più innanzi.
Ma la fantasia si ferma più volentieri sull'altro eloquio
raffinato e passivo, efficacemente popolaresco e tradizionalmente
consacrato, in cui ammiri la bravura del parlatore e al tempo stesso
misuri tutta la sua vacua sufficienza. Messer Nicia è come
l'asino, di cui parla Giordano Bruno, che portava il Santissimo e
non lo sapeva. Egli, a un certo punto, per effondere la sua
ammirazione per la dottrina medica di Callimaco, così si
esprime con bestemmie da becero, e con i modi del più
elegante fiorentino parlato: « Oh, uh potta di San Puccio !
Costui mi raffinisce tra le mani; guarda come ragiona bene di queste
cose! ». È il personaggio a cui il Machiavelli presta
l'eloquio più fiorito, più geniale del suo tempo. Ecco
qua questo bel quadro della vita striminzita di certa Firenze
piccola, che poi doveva diventare proverbiale nei secoli. Il nostro
scioccone parla di Callimaco che, per il suo gran talento di falso
medico, non può trovar piazza adatta se non Parigi:
E fa molto bene. In questa terra non ci è se non cacastecchi;
non ci si apprezza virtù alcuna. Se egli stessi qua, non ci
sarebbe uomo che lo guardasse in viso. Io ne so ragionare, che ho
cacato le curatelle per imparare due hac; e se io n'avessi a vivere,
io starei fresco, ti so dire! Chi non ha lo stato in questa terra,
de' nostri pari, non truova cane che gli abbai, e non siamo buoni ad
altro che andare a' mortori o alle ragunate d'un mogliazzo, o a
starci tutto dì in su la panca del Proconsolo a donzellarci.
Pare perfino una vendetta che messer Niccolò volesse fare di
quella piccola Firenze invidiosa e pettegola che si delineava
già sotto la signoria casalinga de' Medici, e che teneva al
confino il grande segretario, o lo mandava, per fargli voltolare pur
qualche sasso, a Carpi in un convento, alla ricerca di un buon
predicatore che insegnasse ai fiorentini la via del paradiso. Una
vendetta interlineare, ed eseguita (vedi malizia!) per la bocca del
più sciocco dei suoi personaggi.