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Luigi De Bellis

Antologia di critica sul Machiavelli


Intorno alle opere del Machiavelli

Autore: Ugo Foscolo   Opera: Opere vol. III

L'opuscolo del signor Ridolfi' incomincia così: «Le sublimi idee di universale legislazione ,occuparono in ogni tempo le menti de' più grandi ingegni, e nella serie de' secoli uscirono tratto tratto, or in un luogo, or in un altro, opere luminose, frutto delle profonde meditazioni di coloro i quali fisso mirarono in quella superna legge che, come dice Tullio, è la retta ragione, conforme alla natura, comune a tutti, costante e sempiterna». Vera o falsa che sia questa sentenza Platonica, certo è che chi la crede e la scrive, o non è sì versato nell'opere del Machiavelli da poterne parlare, o è già imbevuto di tali principj da confutare tutti i principj di Machiavelli. Questo autore non ha mai guardato liso a legge superna, né a retta ragione, né alla conformità della natura comune a tutti, né a costanza, né a sempiternità, né a niun'altra di sì fatte idee o parole metafisiche; ma tutto il principio de' suoi ragionamenti si ristringe in questa sentenza: «Dalle cose che gli uomini in altri secoli hanno fatto, imparate ciò che nel vostro secolo dovete fare ». Onde invece di piantare un assioma a priori, come fanno i politici metafisici, egli ha esaminati molti fatti, e ne ha ricavate alcune regole: invece di mostrare il bene che dovrebb'essere, ha mostrato il bene e il male che necessariamente si trovano nel mondo, e l'utilità che si può ricavare tanto dal bene quanto dal male.
Infatti così furono intesi i libri di quest'autore da un grand'uomo che in uno Stato più vasto e in circostanze più luminose ebbe gli stessi uffici pubblici che il Machiavelli avea avuti nella sua patria, e la stessa occasione di studiare le pratiche degli uomini. Questi è Bacone di Verulamio, il quale nel libro VIII, cap. II De argumentis scientiarum lasciò scritto: « Gratias agamus. Machiavello et hujusmodi scriptoribus qui aperte et indissimulanter proferunt quid homines facere soleant, non quid debeant».

Oltre i principi generali dell'autore, che sembrano mal conosciuti dal signor Ridolfi, il confronto ch'egli istituisce delle sue opere è così spicciolatb e meschino, che non si può trarne veruna conseguenza fondamentale, perché in fine del conto riducesi a citare una dozzina di passi ricavati dal Principe o dai Discorsi sopra la Storia di Livio. Noi invece faremo un confronto assai differente, e prima di tutto osserveremo che chi legge tutte queste opere politiche del Machiavelli, attendendo alle date in cui furono scritte, vede ch'egli avea per iscopo:

1° d'illuminare le fazioni della sua patria che, togliendo la libertà, l'avevano fatta soggetta alla Casa de' Medici;
2° d'illuminare l'Italia sul predominio secreto che esercitavano i pontefici, i quali, o per ingrandirsi o per arricchirsi, attiravano sempre le armi straniere;
3° d'illuminare i principi sul danno che recavano ad essi le armi mercenarie.

Queste tre mire cospiravano tutte all'indipendenza dell'Italia, e principalmente alla libertà della Repubblica fiorentina. Leggansi i Discorsi, che furono scritti prima, poi l'Arte della Guerra, poi le Storie dell'autore. E confrontandoli, si vedrà ch'egli era sempre diretto da questo intendimento. La Vita di Castruccio Castracani è, senza dubbio, un romanzo storico a cui fu modello la Ciropedia di Senofonte. Ma poich'egli vedeva che le grandi rivoluzioni degli Stati nascono sempre dal genio d'un uomo guerriero, egli volle pure dare in qualche modo esempi all'uomo che avesse tentata sì grande impresa. Nessuno negherà che in tutte queste opere si trovino nobilissimi e santi precetti di giustizia, ma di giustizia non ideale, non sovrumana, ma gagliarda e fondata sulla forza e sulla esperienza delle nostre passioni; ma tale insomma che trovi elementi d'utilità tanto ne' vizi, quanto nelle virtù de' mortali. Riguardo al libro del Principe, non fa d'uopo molta penetrazione per vedere in esso la quintessenza di tutti i principj e di tutto lo scopo del Machiavelli; poiché si conosce evidentemente: 1° i danni causati alla libertà delle repubbliche italiane dalla funesta preponderanza della Chiesa; 2° le oppressioni delle città governate dai piccoli tirannetti in Italia; 3° l'avvilimento degli Italiani e la loro perpetua schiavitù per l'abuso delle armi mercenarie e per l'invasione degli stranieri. Però la conclusione di quel libro è una esortazione di liberare l'Italia dai Barbari. Taceremo per ora se alcuni di que' precetti tendano a fare aborrire il principato; diremo bensì che l'uomo il quale avesse dovuto fondare in que' tempi un grande e nuovo stato in Italia, avrebbe certamente rovinato s'egli avesse voluto mettere in pratica le teorie de' metafisici. Diremo inoltre che pendiamo a credere che una delle mire del Machiavelli nel Principe si fu di svelare a' popoli italiani, e specialmente a' Fiorentini, tutte le sciagure a cui soggiacciono le città rette da principi deboli, poveri e malfermi nel loro trono; i quali, in difetto d'armi e di leggi, son obbligati, per mantenersi, a pagare il più forte col danaro de' propri sudditi, ed a reggersi colla frode.

Autore: Francesco De Sanctis   Opera: Storia della letteratura italiana

Subordinare il mondo dell'immaginazione, come religione e come arte, al mondo reale, quale ci è posto dall'esperienza e dall'osservazione, questa è la base del Machiavelli...
Il mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali, ma dallo spirito umano, che procede secondo le sue leggi organiche e perciò fatali. Il fato storico non è la provvidenza, e non la fortuna, mala « forza delle cose » , determinata dalle leggi dello spirito e della natura. Lo spirito è immutabile nelle sue facoltà ed immortale nella sua produzione.

Perciò la storia non è accozzamento di fatti fortuiti o provvidenziali, ma concatenazione necessaria di cause e di effetti, il risultato delle forze messe in moto dalle opinioni, dalle passioni e dagl'interessi degli uomini.

La politica o l'arte del governare ha per suo campo non un mondo etico, determinato dalle leggi ideali della moralità, ma il mondo reale, come si trova nel tal luogo e nel tal tempo. Governare è intendere e regolare le forze che muovono il mondo. Uomo di stato è colui che sa calcolare e maneggiare queste forze e volgerle a' suoi fini.

La grandezza e la caduta delle nazioni non sono dunque accidenti o miracoli, ma sono effetti necessari, che hanno le loro cause nella qualità delle forze che le movono. E quando queste forze sono in tutto logore, esse muoiono.

E a governare, quelli che stanno solo in sul lione, non se ne intendono. Ci vuole anche la volpe, o la prudenza,"cioè l'intelligenza, il calcolo e il maneggio delle forze che muovono gli stati.

Come gl'individui, così le nazioni hanno legami tra loro, dritti e doveri. E come ci è un dritto privato, così ci è un dritto pubblico, o dritto delle genti, o, come dicesi oggi, dritto internazionale. Anche la guerra ha le sue leggi.

Le nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non muore mai. Eternamente giovane, passa di una nazione in un'altra, e continua secondo le sue leggi organiche la storia del genere umano. C'è dunque non solo la storia di questa o quella nazione, ma la storia del mondo, anch'essa fatale e logica, determinata nel suo corso dalle leggi organiche dello spirito. La storia del genere umano non è che la storia dello spirito o del pensiero. Di qui esce ciò che poi fu detto filosofia della storia.

Di questa filosofia della storia e di un dritto delle genti non ci è nel Machiavelli che la semplice base scientifica, un pulito di partenza segnato con chiarezza e indicato a' suoi successori. Il suo campo chiuso è la politica e la storia.

Questi concetti non sono nuovi. I concetti filosofici, come i Poetici, suppongono una lunga elaborazione. Ci si vede qui dentro le conseguenze naturali di quel grande movimento, sotto forme classiche realista, ch'era in fondo l'emancipazione dell'uomo dagli elementi soprannaturali e fantastici, e la conoscenza e il possesso di sé stesso. E a' contemporanei non parvero nuovi, né audaci, veggendo ivi formulato quello che in tutti era sentimento vago.

L'influenza del mondo pagano è visibile anche nel medio evo, anche in Dante Roma è presente allo spirito. Ma lì è Roma provvidenziale e imperiale, la Roma di Cesare, e qui è Roma repubblicana, e Cesare vi è severamente giudicato. Dante chiama le gloriose imprese della repubblica miracoli della provvidenza, come preparazione all'impero : dove pel Machiavelli non ci sono miracoli, o i miracoli sono i buoni ordini; e se alcuna parte dà alla fortuna, la dà principalissima alla virtù. Di lui è questo motto profondo: « I buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese ». Il classicismo adunque era la semplice scorza, sotto alla quale le due età inviluppavano le loro tendenze. Sotto al classicismo di Dante ci è il misticismo e il ghibellinismo: la corteccia è classica, il nocciolo è medievale. E sotto al classicismo del Machiavelli ci è lo spirito moderno che ivi cerca e trova se stesso. Ammira Roma, quanto biasima i tempi suoi, dove « non è cosa alcuna che gli ricomperi di ogni estrema miseria, infamia e vituperio, e non vi è osservanza di religione, non di leggi e non di milizia, ma sono macùlati di ogni ragione bruttura ». Crede con gli ordini e i costumi di Roma antica di poter rifare quella grandezza e ritemprare i suoi tempi, e in molte proposte e in molte sentenze senti i vestigi di quell'antica sapienza. Da Roma gli viene anche la nobiltà dell'ispirazione e una certa elevatezza morale. Talora ti pare un romano avvolto nel pallio in quella sua gravità, ma guardalo bene, e ci troverai il borghese del Risorgimento, con quel suo risolino equivoco. Savonarola è una reminiscenza del medio evo, profeta e apostolo a modo dantesco; Machiavelli in quella sua veste romana è vero borghese moderno, sceso dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla alla buona e alla naturale. E in lui lo spirito ironico del Risorgimento con lineamenti molto precisi de' tempi moderni.

Il medio evo qui crolla in tutte le sue basi, religiosa, morale, politica, intellettuale. E non è solo negazione vuota. È affermazione, è il Verbo. Di contro a ciascuna negazione sorge un'affermazione. Non è la caduta del mondo, è il suo rinnovamento. Dirimpetto alla teocrazia sorge l'autonomia e l'indipendenza dello stato. Tra l'impero e la città o il feudo, le due unità politiche del medio evo, sorge un nuovo ente, la Nazione, alla quale il Machiavelli assegna i suoi caratteri distintivi, la razza, la lingua, la storia, i confini. Tra le repubbliche e i principati spunta già una specie di governo medio o misto, che riunisca i vantaggi delle une e degli altri, e assicuri a un tempo la libertà e la stabilità, governo che è un presentimento de' nostri ordini costituzionali, e di cui il Machiavelli dà i primi lineamenti nel suo progetto per la riforma degli ordini politici in Firenze. È tutto un nuovo mondo politico che appare. Si vegga, fra l'altro, dove il Machiavelli tocca della formazione de' grandi stati, e soprattutto della Francia.

Anche la base religiosa è mutata. Il Machiavelli vuole recisa dalla religione ogni temporalità, e, come Dante, combatte la confusione de' due reggimenti, e fa una descrizione de' principati ecclesiastici, notabile per la profondità dell'ironia. La religione ricondotta nella sua sfera spirituale è da lui considerata, non meno che l'educazione e l'istruzione, come istrumento di grandezza nazionale. È in fondo l'idea di una Chiesa nazionale, dipendente dallo stato, e accomodata a' fini e agl'interessi della nazione.

Altra è pure là base morale. Il fine etico del medio evo è la santificazione dell'anima, e il mezzo è la mortificazione della carne. Il Machiavelli, se biasima la licenza de' costumi invalsa al suo tempo, non è meno severo verso l'educazione ascetica. La sua dea non è Rachele, ma è Lia, non' è la vita contemplativa, ma la vita attiva. E perciò la virtù è per lui la vita attiva, vita di azione, e in servigio della patria. I suoi santi sono più simili agli eroi dell'antica Roma, che agl'iscritti nel calendario romano. O per dir meglio, il nuovo tipo morale non è il santo, ma è il patriota.

E si rinnova pure la base intellettuale. Secondo il gergo di allora, il Machiavelli non combatte la verità della fede, ma la lascia da parte, non se ne occupa, e quando vi s'incontra, ne parla con un'aria equivoca di rispetto. Risecata dal suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale, vi mette a base l'immutabilità e l'immortalità del pensiero o dello spirito umano, fattore della storia. Questo è già tutta una rivoluzione. È il famoso cogito, nel quale s'inizia la scienza moderna. È l'uomo emancipato dal mondo soprannaturale e sopraumano, che, come lo stato, proclama la sua autonomia e la sua indipendenza e prende possesso del mondo.

E si rinnova il metodo. Il Machiavelli non riconosce verità a priori, e principi astratti, e non riconosce autorità di nessuno, come criterio del vero. Di teologia e di filosofia e di etica fa stima uguale, mondi di immaginazione, fuori della realtà. La verità è la cosa effettuale, e perciò il modo di cercarla è l'esperienza accompagnata con l'osservazione, lo studio intelligente de' fatti. Tutto il formolario scolastico va giù. A quel vuoto meccanismo fondato sulle combinazioni astratte dell'intelletto incardinate nella pretesa esistenza degli universali sostituisce la forma ordinaria del parlare diritta e naturale. Le proporzioni generali, le « maggiori » del sillogismo, sono capovolte e compariscono in ultimo come risultati di una esperienza illuminata dalla riflessione. In luogo del sillogismo hai la « serie », cioè a dire concatenazione dei fatti, che sono insieme causa ed effetto, come si vede in questo esempio:

Avendo la città di Firenze perduta parte dell'imperio suo, fu necessitata a fare guerra a coloro che la occupavano, e perché chi l'occupava era potente, ne seguiva che si spendeva assai nella guerra senza alcun frutto: dallo spendere assai ne risultava assai gravezze, dalle gravezze infinite querele del popolo; e perché questa guerra era amministrata da un magistrato di dieci cittadini, l'universale cominciò a recarselo in dispetto, come quello che fosse cagione e della guerra e delle spese di essa.

Qui i fatti sono schierati in modo che si appoggiano e si spiegano a vicenda: sono una doppia serie, l'una complicata, che ti dà le cause vere, visibile solo all'uomo intelligente; l'altra semplicissima, che ti dà la causa apparente e superficiale, e che pure è quella che trascina ad opere inconsulte l'universale, con una serietà ed una sicurezza, che rende profondamente ironica la conclusione. I fatti saltan fuori a quel modo stesso che si sviluppano nella natura e nell'uomo, non vi senti alcuno artificio. Ma è un'apparenza. Essi sono legati, subordinati, coordinati dalla riflessione, sì che ciascuno ha il suo posto, ha il suo valore di causa e di effetto, ha il suo ufficio in tutta la catena: il fatto non è solo fatto, o accidente, ma è ragione, considerazione, sotto la narrazione si cela l'argomentazione. Così l'autore ha potuto in poche pagine condensare tutta la storia del medio evo e farne magnifico vestibulo alla sua storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono anch'essi fatti intellettuali, e perciò l'autore si contenta di enunciare e non dimostra. Sono fatti cavati dalla storia, dall'esperienza del mondo, da un'acuta osservazione, e presentati con semplicità pari all'energia. Molti di questi fatti intellettuali sono rimasti anche oggi popolari nella bocca di tutti, com'è quel « ritirare le cose a' loro principii », o quell'ironia de' « profeti disarmati », o « gli uomini si stuccano del bene, e del male si affliggono », o « gli uomini bisogna carezzarli o spegnerli ». Di queste sentenze o pensieri ce ne sono raccolte. E sono un intero arsenale, dove hanno attinto gli scrittori, vestiti delle sue spoglie.


Autore: Eduardo Fueter   Opera: Storia della storiografia moderna


Il capolavoro storico di Machiavelli, la parte veramente geniale della sua opera, è la sezione sulla storia interna di Firenze, dagli inizi fino a circa il 1420 (2° e 3° libro). Mentre i libri successivi si tengono relativamente aderenti alle fonti, e danno (specialmente i libri dal 4° al 6°) soltanto una intelligente narrazione pragmatica, quale infine avrebbe potuto scrivere anche un altro dei grandi Fiorentini, Machiavelli nell'esposizione della storia più antica, tenuta più nella forma di uno sguardo generale che in quella di una narrazione, ebbe occasione di far fruttare per la storia le qualità che, anche tra i Fiorentini, possiede lui solo: lo sguardo ampio ed il dono di riconoscere i grandi nessi storici, e di inquadrare fatti singoli in uno sviluppo generale. Non solo ha cercato di assodare quali fossero le conseguenze momentanee e per i tempi successivi di singoli avvenimenti politici (cosa riuscita molto meglio a statisti più esperti, come Commines o Guicciardini), ma basandosi sulle sue riflessioni circa i motivi che avevano prodotto l'inferiorità militare dell'Italia, ha mostrato nessi esistenti fra cose molto distanti le une dalle altre, i quali giacciono al di là dei calcoli, e perciò anche al di là dei pensieri, degli uomini della politica pratica assorbiti per lo più dalle cure del giorno. Qui Machiavelli ha pensato come storico, e non solo come politico o diplomatico.

Perciò diminuì fortemente l'influenza degli individui, per lo meno l'influenza cosciente. Quando per es. spiega come la nobiltà di Firenze, vinta dal popolo, dovette abbandonare le sue consuetudini e perciò perse la sua virtù d'armi e generosità d'animo, e come ne derivò la debolezza militare della città, si veniva in tal modo a porre a nudo non solo una più profonda causa del sistema dei condottieri, ma anche un esempio dell'indipendenza dei cambiamenti storici delle tendenze coscienti di coloro che li provocano. Dopo Aristotele e Polibio, Machiavelli è il primo in cui si trovi l'avviamento ad una considerazione storiconaturale della storia.

Certamente anche qui Machiavelli non è conseguente. Il suo sentimento patriottico è ancora troppo vivace ed egli sente ancor troppo fortemente le disgrazie prodotte in Firenze dai dissensi interni, per poter sempre giudicare in modo freddamente scientifico.

Egli oscilla in modo notevole. Quando pensa ai molteplici impedimenti prodotti nella politica estera della città dalla disunione interna, le divisioni della repubblica gli appaiono come una peste inviatale dal destino. Può parlare addirittura della naturale ostilità che regnerebbe in tutte le città fra i potenti e il popolo. Ma ciononostante crede sempre ancora in una possibilità di salvezza. Non fu dato al suo temperamento di considerare la storia del proprio paese in un modo così conseguentemente rassegnato come ha fatto Guicciardini.

Ma, pur con tali restrizioni - che narrazione meravigliosamente viva è questa storia di Firenze fino al sorgere dei Medici! Come si sviluppa un avvenimento dall'altro, come sono fuse in una sola unità la storia interna e quella esterna. In che modo intuitivo sono descritte le lotte dei partiti e le rivalità delle famiglie! È vero che abbastanza spesso Machiavelli giudica troppo sulla base di criteri moderni, che valuta motti e istituzioni del medioevo secondo un significato spesso completamente diverso da quello che avrebbero avuto al loro tempo, che concede a dettagli romanzeschi e a singole personalità uno spazio ingiustificatamente largo. Ma per quante cose ci siano concepite in modo non istorico o inesatto, - rimane ciononostante un merito, che cioè si cominciò di nuovo a narrare storia, per lo meno come avrebbe potuto accadere ai tempi dell'autore, e che ricomparvero uomini viventi al posto dei fantocci rettorici.

Persino la forma è qui completamente originale, tolte alcune esteriorità. Machiavelli è ancor più moderno degli umanisti. Elimina gli ultimi residui della maniera cronachistica. Cancella per es. anche le notizie di incendi e inondazioni che il Bruni aveva ancora catalogate. In questa sezione abbandonò persino l'ordinamento annalistico. Tentò una composizione reale: i suoi libri corrispondono a raggruppamenti naturali e non sono più sezioni divise in modo puramente esteriore. Le sue introduzioni non sono più pezzi di parata appiccicati, pieni di banalità. La lingua spietatamente realistica rinunzia per lo più alle frasi di abbellimento della rettorica e dice quel che ha da dire senza circonlocuzioni. E dove il suo cuore batte, si eleva ad una eloquenza che fa apparire in tutta la loro nudità le pietose tirate dei letterati.


Autore: Federico Meinecke   Opera: L'idea della ragion di stato nella storia moderna

Il medioevo cristiano e germanico ha lasciato un retaggio di incommensurabile efficacia al mondo moderno d'occidente, e cioè il senso più acuto e doloroso per i dissidi tra la ragione di Stato e la morale e il diritto, il sentimento sempre rinnovantesi che spregiudicata ragione di Stato in sostanza è peccato, peccato contro Dio e le norme divine, peccato ancora contro la santità e l'inviolabilità del buon diritto antico. Anche il mondo antico aveva già avvertita e criticata la peccaminosità della ragione di Stato, ma non s'era addolorato troppo, La positività dei suoi valori vitali gli dava agio a considerare con una certa serenità i maneggi della ragione di Stato come sfogo di forze naturali irrefrenabili. La peccaminosità antica era una peccaminosità ingenua e non ancora terrorizzata e inquietata dall'abisso fra il cielo e l'inferno aperto poi dal cristianesimo. La visione dualistica del mondo, affermata dal cristianesimo dogmatico, influì poi profondamente anche sui tempi nei quali il cristianesimo tendeva a liberarsi dai dogmi, e improntando il problema della ragione di Stato d'una così cupa tragicità quale non aveva mai avuta nel mondo antico.

Era dunque una necessità, storica che fosse pagano colui che diede inizio alla storia dell'idea della ragione di Stato nel moderno occidente e conferì il suo nome al machiavellismo; perché soltanto un pagano, ignaro degli orrori dell'inferno, poteva accingersi con semplicità antica all'opera della sua vita di investigare l'essenza della ragione di Stato.

Niccolò Machiavelli fu il primo ad assolver questo compito. Ciò che qui importa è la sostanza della cosa, non la parola che manca ancora in lui. Machiavelli non concentrò in un termine unico i suoi concetti intorno alla ragione di Stato. Per quanto amasse le espressioni forti e sintetiche, e ne coniasse più d'una, pure proprio per idee supreme che lo animavano non sentì il bisogno di un'espressione verbale, quando la cosa gli sembrava evidente e lo pervadeva tutto. Così si è notato per esempio ch'egli non s'espresse mai intorno al vero fine ultimo dello Stato, e si è concluso erroneamente che non ci avesse meditato. Invece, come vedremo in breve, non fece che dedicarsi ad un ben determinato fine supremo dello Stato, e così pure tutto il suo pensiero politico non fu che costante riflessione sulla ragione di Stato.

Una costellazione del tutto speciale, grandiosa e impressionante insieme, ha suscitato il mondo del pensiero machiavellico, e cioè il simultaneo manifestarsi d'una catastrofe politica e di un rinnovamento spirituale. Nel secolo XV l'Italia godeva l'indipendenza nazionale e, per usare la pregnante espressione del Machiavelli (Principe, c. 20), era in un certo modo bilanciata dal sistema dei cinque Stati: Stato della Chiesa, Napoli, Firenze, Milano e Venezia, scambievolmente intenti a tenersi a freno. Nel Machiavelli, imbevuto di tutti gli elementi realistici della civiltà del rinascimento e direttamente provocato dalla istituzione allora sorgente delle legazioni stabili, venne elaborandosi un'arte politica dalle regole salde e sicure che culminava nel principio del divide et impera, insegnava a vedere le cose senza ombra di preconcetti, e superava con facilità e noncuranza le preoccupazioni religiose e morali, ma si dava ad azioni e combinazioni relativamente semplici e meccaniche. Solamente con le catastrofi che si successero in Italia dal 1494 in poi, con la invasione dei Francesi e Spagnoli, col tramontare dell'indipendenza di Napoli e di Milano, le precipitose mutazioni di governo a Firenze e, più di tutto, con la strapotente pressione straniera su tutta la penisola appenninica, si maturò lo spirito politico e raggiunse quell'acutezza, profondità e forza di passione che si rivelò nel Machiavelli. Segretario diplomatico della repubblica fiorentina fino al 1512, il Machiavelli s'imbevette di tutte le conquiste dell'arte politica italiana fino allora e cominciò già a tracciare pensieri originali proprio a questo proposito. Questi si fecero strada quando un rovinoso destino colpi lui e la repubblica nello stesso anno. Egli era un vinto, per qualche tempo un perseguitato, e per riacquistare il credito perduto gli fu necessità accarezzare i nuovi dominatori, i Medici, allora ritornati al potere. In tal guisa si aperse una scissura tra il suo interesse personale, egoistico, e l'ideale repubblicano della libertà e dello Stato-città fino allora professato. La sua grandezza sta nell'aver tentato di appianare e risolvere interiormente questo dissidio. Così dal torbido e non troppo pregevole crogiolo del suo egoismo spontaneo e spregiudicato sorsero i nuovi poderosi concetti sul rapporto di repubblica e monarchia e sulla nuova missione nazionale di quest'ultima nella cerchia dei quali si trovò anche spregiudicatamente riprodotta l'essenza della ragione di Stato, in tutti i suoi elementi puri e impuri, nobili e abietti. Nel 1513, allorché scrisse il libricino del Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, egli si trovava sul principio della quarantina, ossia in quell'età in cui gli spiriti scientifici produttivi danno spesso l'opera migliore.

Abbiamo detto dinanzi che vi dovette concorrere anche un rinnovamento spirituale. Machiavelli non assorbì in tutto il suo contenuto il movimento del rinascimento; così per esempio non partecipò delle sue esigenze religiose e speculativo-filosofiche e non valutò troppo le aspirazioni artistiche del suo tempo, anche se inconsciamente imbevuto e soffuso del suo spirito artistico. Tutta la sua passione era rivolta allo Stato, all'indagine e all'accertamento delle sue ferme, funzioni e condizioni di vita, per cui l'elemento specificamente razionale, empirico e calcolatore della civiltà del rinascimento in Italia raggiunse con lui la sua più perfetta espressione. Sennonché questo senso positivo dei problemi della politica di potenza, da sé solo non avrebbe ancora significato un pieno rinnovamento spirituale. Lo slancio e la fede che l'animarono e dai quali sorse l'ideale di una rigenerazione, erano in quanto il Machiavelli partecipò ad esso, d'origine antica. L'antichità non celebrava di certo in lui, come in tanti altri umanisti del rinascimento, una risurrezione prettamente dottrinale e letteraria, fatta di esaltazione scolastica, anemica e retorica. Qualche volta, è vero, anche il suo entusiasmo per gli eroi e pensatori antichi mostra una certa dipendenza classicistica e deficienza critica, ma nel complesso l'uomo antico risorse realmente in lui dalla comunanza di sangue e dalla tradizione che in Italia non erano mai del tutto tramontate. Quantunque il Machiavelli dimostri alla Chiesa e al cristianesimo un ossequio esteriore, spesso misto d'ironia e di critica, e per quanto sia innegabile l'influenza che esercitò su di lui il pensiero cristiano, egli è in fondo un pagano che muove al cristianesimo (Disc., II, 2) la nota grave accusa di aver resi gli uomini umili, deboli ed effeminati. Egli vagheggiava con nostalgia romantica la forza, la grandezza e la bellezza della vita antica, gli ideali della sua mondana gloria. Egli mirava ad instaurare nuovamente nei suoi diritti la forza generica sensuale-spirituale dell'uomo naturale secondo natura, nella quale grandezza dell'animo e fortezza del corpo, fuse insieme, creano eroismo. Per tal guisa egli venne a rottura con la dualistica etica cristiana che spiritualizzava unilateralmente l'uomo e ne svalutava gli istinti sensuali-naturali, ma ne conserva certi concetti inquadranti sulla distinzione del bene e del male; in sostanza però mira ad una nuova etica naturalistica, libera e decisa nel seguire la voce della natura. Chi imita la natura non può esser biasimato, disse egli ad un certo punto, volendo scusare 1c sue spensierate avventure amorose in mezzo alle serie occupazioni, ché anche la natura è piena di variazioni.

Un tale naturalismo può condurre facilmente ad un politeismo innocuo dei valori vitali. Il Machiavelli però, anche sacrificando volentieri all'altare di Venere, concentrò i vari e supremi valori della vita in ciò ch'egli chiamava virtù; concetto ricchissimo, ch'egli certamente prese dalla tradizione dell'antichità e dell'umanesimo, ma sentì e plasmò in maniera del tutto originale, e che racchiude sì delle qualità etiche, ma che doveva indicare per se stesso qualche cosa di dinamico, che la natura pone in grembo all'uomo ed è eroismo e forza a grandi imprese politiche e guerresche, ma sopra tutto nel fondare e conservare degli Stati fiorenti e segnatamente liberi Stati. Infatti i liberi Stati, di cui sommo ideale era la Roma del grande periodo repubblicano, avevano, secondo lui, i migliori requisiti per generare virtù. Questa comprendeva dunque la virtù dei cittadini e la virtù dei dominatori, devozione e sacrificio volontario di sé in favor della collettività, come anche saggezza, energia e ambizione dei grandi fondatori e reggitori di Stati. Egli considerava come virtù d'ordine superiore, quella virtù ch'era patrimonio indispensabile d'un fondatore e governatore di Stati, in quanto questa sola valeva a distillare, per mezzo di opportuni « ordinamenti », dal materiale in realtà cattivo e triste della media umanità, la virtù nel senso di virtù civile, in certo modo una virtù di second'ordine che, traendo origine da una organizzazione, invece che dalla disposizione naturale, non era così durevole e salda quanto la innata creativa virtù dei singoli grandi uomini. La distinzione della virtù in originaria e derivata è d'importanza capitale per la piena comprensione delle mire politiche del Machiavelli. Essa dimostra infatti ch'egli era ben lungi dal prestar cieca fede alla virtù naturale e indistruttibile del repubblicano, e che giudicava anche la repubblica piuttosto dall'alto, dal punto di vista del dominatore, che dal basso, dal punto di vista dell'aperta democrazia. E molto gli piaceva il proverbio allora in voga che: « in una maniera si pensa in piazza e in un'altra in palazzo » (Disc., I, 47). Il suo ideale repubblicano aveva perciò sin da bel principio una piega monarchica, in quanto egli non credeva che si potesse richiamare in vita una repubblica senza la forza di singole grandi tempre di organizzatori o dominatori. E poiché il Machiavelli era compenetrato dalla dottrina di Polibio, del ripetersi ciclico dei destini degli Stati, per cui al fiorire d'una repubblica segue di necessità un tramonto e una rovina, così per procacciare ad una di queste repubbliche decadute quel tanto di virtù che aveva perduto e di conseguenza rialzarla, egli non vedeva altro mezzo se non a sua volta la virtù creativa del singolo, una mano regia, una podestà quasi regia (Disc. I, 18, e 55), che afferrasse le redini dello Stato e lo rinnovasse. Anzi per gli Stati repubblicani già del tutto corrotti, incapaci di rigenerarsi, egli vedeva nella monarchia l'unica forma di governo ancora possibile. Per tal modo il suo concetto di virtù creò un intimo ponte di collegamento tra le tendenze repubblicane e quelle monarchiche e, senza venir meno ai suoi principii, egli poté fondare le sue speranze nel principato dei Medici, al crollare della repubblica fiorentina, e scrivere per loro il libro del Principe. Collegamento intimo che subito dopo gli permise di riprendere nei Discorsi anche il filo repubblicano e di bilanciare la repubblica col principato.


Autore: Federico Chabod   Opera: Introduzione a N. Machiavelli: Il Principe

In questi mesi, dal luglio al dicembre, vien fuori il trattato « De Principatibus », il nostro Principe. Le annotazioni in margine a Livio sono tralasciate: nelle ultime d'altra parte già si avverte un insolito atteggiamento spirituale; due, tre capitoli interi in cui il popolo, che anima i Discorsi, scompare, per lasciar luogo all'individuo solitario, e il contrasto eroico delle classi e dei partiti si immiserisce nel contrasto intimo d'un uomo, di un animo chiuso. La breve opera, non destinata a creazione artistica, ma più tosto simile, nell'intendimento di chi la compose, a uno di quei tanti memoriali o discorsi sulla riforma degli stati, quali il Machiavelli stesso compose più tardi, è compiuta in rapido tempo: a dicembre, l'uomo nuovo è sbozzato, si pone già solo sulla scena politica, aspro, pensoso, impenetrabile, a comprimere in sé la vita di tutto lo stato.

Poiché, ora, ogni altra voce tace: il popolo è divenuto un volgo disperso che attende solo lo « evento della cosa », una massa amorfa su cui grava il giudizio severo di Philippe De Commynes; la nobiltà - pallida figurazione ormai che richiama con melanconico ricordo la elegia dantesca sul Medio Evo che tramonta, e il grido di dolore di Guido del Duca - non ha più unità di classe, egoismo di casta, prevenzione di stirpe: è un miscuglio vario di individui i quali vogliono opprimere il popolo, e non ne son capaci, a quella guisa in cui il popolo non vuol essere oppresso, e non ha sufficiente energia per difendersi da sé. Si immiseriscono, grandi e plebe, nell'astuzia calcolatrice di piccolo conio, nella contesa frammentaria in cui non è serietà di proposito determinato, e neppure la formale grandezza dell'eroismo personale: hai la materia, supina nell'attendere la virtù del principe che tenga « con li sua ordini » animato lo universale, e infonda la vita dove è un oscuro vegetare di sensi imbelli. La manna deve cadere dal cielo: e gli uomini stanno col becco aperto ad aspettarla.

Questa era, del resto, la conclusione naturale della storia italiana, il risultato a cui avevan condotto l'isterilirsi dello spirito comunale, la fralezza delle signorie, non fondate su una base sociale a sufficienza ampia e forte, l'abilità diplomatica dei principati, ridottisi, dopo gli ultimi vani tentativi egemonici, al giuoco delle parti, alla politica di bilanciamento e di equilibrio, alla federatio italíca; il popolo staccato dalla vita dello stato, le classi frantumate, il contado ostile alla città: il principe tiene in sé solo i motivi della sua opera. Il Rinascimento si era attuato, nella sua espressione artistico-letteraria, per entro allo sfacelo sociale e politico: il principe era l'unica figura viva, in questo mondo di letterati e di indifferenti. Ma viva, a sua volta, di una vita angusta e limitata la diplomazia era il solo campo aperto, la politica - che vuol dire capacità di lotta e coscienza di propositi e coerenza di indirizzo e intimità di creazione - era ben lontana.

Perciò, nemmeno un principe di eccezionale virtù avrebbe potuto compiere il miracolo: lo stato forte, che potesse arginare i « barbari », e permettere il libero svolgersi della vita nazionale, non poteva crearsi là ove nessuna comunanza di interessi e di passioni legava i sudditi al signore, la folla al governo, suscitando la coscienza della lotta per la difesa comune. Credere di giungere, anche mediante una eccezionale capacità di azione umana, e sagacia particolare, e parziali riforme degli ordinamenti esterni ad assicurare l'esistenza a un organismo che più non la trovava in sé, era un'illusione.

E bene quindi si apponeva il Guicciardini, diplomatico e mercante, che scansava i pericoli dell'immaginazione fermandosi nella calma, un po' melanconica, del desiderio. Lui l'Italia la vorrebbe libera; ma è inutile pensarci su, e anzi, poiché di barbari non se ne può fare a meno, tanto vale ce ne siano due, acciò almeno, tra i loro contrasti, si possano più tranquillamente rimanere le città sottomesse. Il bilanciamento delle forze, il giuoco delle parti, egli lo svolge in grande, lo porta nel campo della politica europea, sperando di salvar con quello la ristretta vita cittadina, come infatti altra volta per esso si eran salvate Firenze e Ferrara dalle brame insaziabili di Venezia e di Napoli. Ma non si accorge, a sua volta, come, mutandosi i protagonisti del delicato congegno, anche questo muti un po' del suo ritmo.

E Niccolò invece, che proprio or ora ha cercata la gloria di Roma, per la prima volta, nella lotta diuturna delle sue classi sociali, che ci ha ancora l'animo commosso per quel tumultuare di libere contese, e ha detto, ben chiaro, come a voler far grande uno stato occorra render cittadini, e non sudditi, coloro i quali si aggiungono per conquista, rinnegando così tutta la storia comunale italiana e palesandone sicuramente la intima debolezza; che dovrebbe pertanto accorgersi della definitiva rovina d'Italia, e cercar solo di rabberciarne alla meglio le sorti, con maneggi diplomatici: Niccolò si lascia riprendere dalla sua immaginazione, dimentica i Discorsi, e costruisce, febbrilmente, i lineamenti dello stato nuovo. Supera, con miracolosa potenza di fantasia politica, la storia dell'ultimo quattrocento; si riafferra alla politica di Gian Galeazzo e di Ladislao di Napoli, alla prima e grande politica signorile: la integra, con la capacità ricostruttrice ch'è di lui solo, e torna a proporla, allora quando la possibilità pratica non esiste più.

Cerca, attorno a sé, qualche figura in cui appaiano segni non dubbi di valore; trova il Valentino, lo compie, a suo modo, con un po' di Ferdinando il Cattolico, di Francesco Sforza, di Luigi XI: e suggerisce i rimedi ad ogni accidente, corregge le storture dei governi passati, credendo, con simili dettagli, di raddrizzare un edificio a cui son venute mancando le fondamenta. Anzi, l'errore vero egli l'ha trovato, la causa di ogni sventura è chiara: le armi mercenarie, nequizia dei principi, i quali, beati di belle frasi, di un'abile negoziazione, hanno rinnegato l'unica arte loro - e così l'Italia è stata corsa, forzata, vituperata, ed essi son divenuti privati.

Il Principe si accentua, non soltanto nella materiale disposizione, ma sì ben nello spirito che lo pervade, in questi capitoli sulla milizia: qui è la piaga che deve sanarsi. Lo stile stesso acquista accenti di insolita commozione; l'invettiva, il dolore, dianzi contenuti in una parola rapida, in un velato trapassar del periodo, o anche in una finissima ironia che si avverte a pena, tanto corre tra parola e parola, qui balzan fuori, improvvisi: hai il primo turbamento della passione, che travolgerà poscia l'ordito logico nella concitazione della chiusa, e più tardi riappare, esacerbata, ma senza speranza, nel finale dell'Arte della guerra.

Per vero, concependo la possibilità della milizia nazionale - le armi affidate ai cittadini, lo Stato difeso da coloro che lo formano il Machiavelli esce dalla storia angusta de' tempi, dai risultamenti immediati della civiltà italiana, e segna un'orma nuova: qui egli non più riprende i motivi di svolgimento della politica italiana, ma li compie. Senonché, egli poi non s'avvede come a tal rivoluzione nell'arte militare debba corrispondere ugual rinnovamento politico-sociale: la milizia cittadina non può essere se non là ove lo Stato viva, giorno per giorno, nell'intima coscienza del popolo; e quindi deve crollare il Principato, quale egli lo vede. Il solo enunciare la base e militare nuova dovrebbe significare la rinunzia alla creazione del Principe.

Egli non se n'accorge, e si ferma a metà; s'ispira all'esempio di Francia, di Svizzera, di Roma repubblicana, senz'avvedersi che i suoi modelli nascondono un intimo valore, quello per l'appunto di cui la civiltà italiana non è più capace. I suoi precetti li potrà seguire, dopo non molti anni, un principe che condurrà per la prima volta sulla scena politica d'Italia il suo popolo di montanari rozzi e poveri, ma forti: ma la monarchia di Emanuele Filiberto non è il principato italiano.

Così, il principe non venne; e la piccola opera, scritta in giorni inquieti, quando miracolosi eventi parevano profilarsi di lontano, è accolta con disprezzo da Lorenzo de' Medici: il povero nipote di Leone X preferisce al libretto non ripieno di «parole ampullose» i cani da caccia, e il Machiavelli si ha una nuova ripulsa.

Ma egli, nella concitazione del lavoro, non s'avvede quanto sia debole il castelluccio che vuol costruire; e scrive senza esitanza.

Abbiamo in tal modo l'ordito logico. Poiché, ben diverso in ciò dal Savonarola, in cui il motivo fondamentale è la ribellione al tempo e alle condizioni storiche, Niccolò parte dall'accettazione di queste, almeno nel loro tessuto fondamentale; il suo spirito, profondamente unito alla storia del momento, si è affinato, scaltrito, nel non inutile lavorio di dodici anni: e di questa sua sicurezza di analisi, di tale serenità logica e di tale aderenza alla vita varia e vivace, egli si vale per costruire le grandi linee del suo quadro. In lui la serenità e la cautela del ragionamento non contrastano con l'immaginazione: quest'ultima, soltanto, gli permette, in seguito al rilievo dei frammenti, di riunirli in ultima visione, di ricrearli in una organicità perfetta di cui essi sono i singoli spunti. Gli altri, i diplomatici, si fermano al primo momento, non concepiscono la possibilità di una costruzione nuova, e si chiudono nella loro finezza e discrezione; il Savonarola non è capace di contenere la sua passionalità sino al punto da formularla in un ordito coerente e sicuro, ed investirla delle minutissime sfumature onde pur è ricca la vita; egli invece sa valersi della sua esperienza ormai ricca di motivi per tramutarla, con la immaginazione, in un nuovo svolgimento politico. Questo gli permetterà di segnare un'impronta tutta sua, nella storia del pensiero politico, da cui le generazioni seguenti - e non italiane - trarranno a lor volta conclusioni più aperte e sicure; degli altri, il frate domenicano non può che lasciare dietro a sé un momentaneo e rado risveglio di coscienza, in alcuni pochi, i diplomatici fermano le supreme linee della civiltà italiana, iniziando al più la vita granducale, monotona, discreta, angusta.

Così, dei ventisei capitoli che compongono il Principe, venticinque sono rigidamente logici; il ragionamento fila diritto, senza sbandamenti né soste, l'analisi si svolge, finissima e incisiva, il pensiero si costringe in una compostezza sicura e cauta, che distingue e precisa; lo Stato nuovo vien fuori, grado a grado, contessuto di molteplici elementi, tutti vagliati ad uno ad uno e saggiati nella loro effettiva resistenza.

I caratteri, il Machiavelli non li ha da cercar molto lontano: in quella turba di principotti e di condottieri che attristano le città dell'Italia centrale, egli ritrova i frammenti sparsi del suo Principe, i singoli rilievi atti ad esser ricreati nella figura più compiuta e più coerente. La memoria gli è a sufficienza agile, perch'egli ricordi uomini della più vicina storia: un Sigismondo Malatesta, ad esempio, volpe e lione al tempo stesso, condottiere e diplomatico, abile in sventar le mosse di eserciti nemici o nell'ordir trame sottilissime, in cui si perde la sagacia de' rivali. Da questi uomini, e da altri ancora - è inquietante, nello sfondo, quel volto troppo queto e pacato di Ferdinando il Cattolico, e dànno a pensare quelle sue parole tutte fede, tutte pace, colpe obbliga a riflettere la capacità militare di Francesco Sforza -, da una esperienza così ricca, varia, contessuta di elementi diversissimi, trae Niccolò i particolari del suo quadro. Onde, in questo serrarsi del pensiero che teorizza e pone ordinatamente le sue massime, con tranquilla sicurezza, tu avverti, sempre, fluire nel fondo una realtà vivace e concreta, e senti riecheggiare, continuamente, la nota storica che si trasfonde senza scosse nell'affermazione incisiva e quasi autoritaria; e non è più discernibile con esattezza qual sia la parte dell'esperienza e quale il sovrapporsi dell'immaginazione, né si può staccare la voce del inondo da quella della logica e poi dell'animo.

Ci è la freschezza e il vigore dell'azione minuta, colta nel vivo e fissata a volte in un'immagine, a volte sottilmente velata dal precetto rapido e chiaro; ci è la capacità di afferrare, degli eventi, i motivi dominanti e di analizzarli con serena cautela; e infine ci è la immaginazione, la quale, come gli ha permesso di concepire la possibilità del Principe, così ora, nel lavoro, gli consente di raccogliere tutte le notizie e le riflessioni sparse, di ricrearle in unità del tutto impreveduta, di trasformarli in nuova, se pur solo sperata, esperienza politica. E ti vien fuori la lotta politica, affermata con naturale sicurezza: lo Stato agisce e conquista e distrugge, senza dover render conto ad alcuno; esso è già il supremo valore. Gli manca ancora, per adesso, la pienezza di vita intima - quel suo continuo vivere nell'animo del popolo chiamato a crearlo ora per ora; è pertanto formale, come la lotta politica è soltanto esterna: ma intanto non ricerca più al di fuori di sé le ragioni della sua esistenza. Non le ricerca nemmeno nel suo intimo: si trova effigiato nel suo momento di equilibrio, mai più raggiunto, che non ricerca nulla e non ha bisogno di giustificazioni o di chiarimenti.


Autore: Luigi Russo  Opera: Machiavelli

A noi pare che il Machiavelli non può essere giudicato con l'occhio del piagnone, ma neanche con quello dell'uomo savio del Guicciardini a meglio di un pseudo Guicciardini, né con quello di un tormentato romantico. Sul piagnone, siamo ormai tutti d'accordo; ma quanto all'uomo savio del Guicciardini, almeno così come è stato stilizzato in una celebre ricostruzione del De Sanctis, dobbiamo ricordare che esso è là negazione più elegante e più smagata al tempo stesso dell'uomo del Machiavelli che, nella scienza dell'interesse puro, pur riesce a una forma di eroico disinteresse, ed ha qualcosa di estremo e di rettilineo che lo fa superiore ad ogni mediocre contingenza: il guicciardinismo può essere una sorta di scettica benevolenza, ma non mai la maniera più intelligente per cogliere il fondo dell'animo e del pensiero del nostro artista eroe della politica pura. E quanto alla interpretazione del romantico, essa non potrà mai illuminarci sulla sublime freddezza dello stile machiavellico, e nulla ci potrà dire sulla serenità motteggiatrice dell'uomo, e sulla classica compostezza e conclusività dell'opera sua. Machiavelli non è un uomo di azione mancato e un teorico puro, come vogliono i praticoni; e nemmeno è un'anima perpetuamente dimidiata tra il suo fare e il suo meditare, una crucciata anima del limbo, irrequieta pur un suo magnanimo e insoddisfatto disio. Machiavelli è un artistaeroe della sua scienza, l'artista-eroe della politica pura, il quale dell'artista ha l'incanto e il disinteresse dell'esperienza, e dell'eroe ha il pathos e la logica rettilinea. In questa serenità e disinteresse e in questo suo pathos è l'unità della sua vita e del suo pensiero, che non appare turbata né da effettivi mancamenti, né diminuita o accresciuta da patetici contrasti. Pratica politica e dottrina politica, in lui, sono un solo problema.

Gli uffici cancellereschi, le sue legazioni, le sue commissarìe sono una sublimazione di esperienza (egli trascende sempre i particolari gretti della situazione, per cogliere il motivo universale degli avvenimenti) ; e, per altro verso, i suoi discorsi, i suoi dialoghi, le sue varie Scritture sono esperienze che vogliono valere come una res gesta. In ogni caso, egli è sempre un creatore politico, e del creatore ha la logica estrema. Coree diplomatico dovrebbe fornire notizie utili alla Signoria, perché questa prenda le sue decisioni, ma egli, nell'atmosfera accesa del suo cervello, giudica, manda, e conclude per proprio conto, consuma in pieno la sua azione politica. « Del iudicio rimettetevene a altri » bada a ripetergli il buon Biagio Buonaccorsi, esprimendo, con tali parole, gli umori della Signoria, che non vuol saperne degli ammonimenti e consigli di messer Niccolò; ma egli non se ne dà per inteso. Le sue migliaia di lettere ai Signori, e ai Dieci, i suoi avvisi, le sue relazioni, sono dei saggi critici provvisori, in cui egli viene elaborando il concetto nuovo della politica certa, effettuale, da lui vagheggiata; sono gli abbozzi del suo sistema scientifico. Ma abbozzi non già d'ordine pratico, distolti, in tempi successivi, ad essere materia di una sistemazione superiore; abbozzi scientifici, essi stessi, fin nella loro prima ispirazione.

Le legazioni alla corte di Francia si risolvono in un breve scritto sul De natura Gallorum, e poi, più tardi, nel Ritratto delle cose di Francia, e dalle legazioni all'imperatore Massimiliano in Germania germinarono il Rapporto delle cose d'Alemagna, il Discorso sopra le cose della Magra e sopra l'Imperatore, il Ritratto delle cose della Magna: aggiunte parziali, come il secondo di questi tre scritti, o relazioni sempre più ampie o più profonde e complesse, in cui egli vien sistemando, senza riposo, le sue esperienze. Le quali dunque trascendono sempre i bisogni pedestri, immediati, di quelle sue missioni d'ufficio, e celebrano uomini avvenimenti e situazioni nel cielo universale della storia e del pensiero politico; e però quelle relazioni e lettere parche non giovino alle occasioni spicciole, ma ci danno intanto il « sapore » di quelle occasioni, che è quel sapore che rimane, il quale opera come lievito nel mondo, e ci fa eternamente presenti uomini e situazioni. In questo senso, 1e singole esperienze del Machiavelli si presentano non come una res gesta conclusa una volta per sempre, ma come un rem gerere perpetuo. Il Machiavelli, uomo d'azione mediocre o mancato nell'oggi, opera come un uomo di azione nell'eternità...

Però il Machiavelli è potuto apparire come un uomo pratico mancato, mentre egli invigilava alla pratica eterna della vita; e, in verità, il suo gagliardo senso dell'universale poteva essere facilmente scambiato per povertà di motivi spiccioli della sua politica in atto. La quale piccola politica va certamente studiata e valutata, e gli storici fanno bene a discorrere dei servigi resi alla Signoria fiorentina dal nostro segretario; ma, nelle loro accuse o giustificazioni, spesse volte è trascurato il canone necessario che quella politica occasionale va guardata nel quadro di una più grande politica, della politica della Ragione eterna, non della piccola ed effimera ragione. Niccolò Machiavelli serve implicItamente alla repubblica fiorentina, ma perché serve alle repubbliche e agli Stati di ogni tempo: la sua preoccupazione fondamentale è questa non l'altra. Appunto perché la sua era la passione per la tecnica  politica nella sua purezza, egli finiva con l'essere l'artista incantato del suo stesso osservare e speculare: la tecnica per la tecnica, si potrebbe dire, è l'insegna storica del suo pensiero e della sua azione.

Si è tante volte parlato del Machiavelli artista, e si è guardato ed esaltato la concinnità del suo stile o le sue qualità drammatiche di impassibile narratore, e si sono indicate questa e quella gemma lirica delle sue prose e dei suoi versi; ma l'arte per noi non è nelle forme, e non è nei luoghi, ma nell'atteggiamento. E il Machiavelli fu artista, in questo senso superiore: ché egli guardò alla politica e alla vita, con fantasia disinteressata del «povero manovale» carducciano. Guarda come ascenda in alto e risplenda il suo strale d'oro, guarda e gode, e più non vuole.

Ogni sua esperienza è sempre rasserenata in questo superiore sorriso dell'artista, anche quelle che sono le esperienze più umilianti e le più dispettose...

Se conosciamo un Machiavelli artista nelle esperienze disinteressate della vita politica e morale del suo tempo, ritroviamo poi un Machiavelli eroe nel vivere e nel condurre la logica del suo pensiero fino alle sue forme estreme. Per questo lato, il Machiavelli è un temperamento estremista; l'uomo che deprecò le vie di mezzo in politica, non amò nemmeno l'aurea mediocrità delle opinioni nel campo scientifico. « Meglio essere impetuoso che respettivo », è una sentenza del Principe, e come uomo di studi e come scrittore, il nostro autore fu egli stesso più impetuoso che respettivo: quel forzare gli avvenimenti con l'accesa maginazione; la stessa violenza esercitata sui fatti storici spesso tratti e dimostrazioni più impensate; il categorizzare continuo le osservazioni particolari in princìpi di carattere universale; il sentire le istorie, più che come racconto di cose compiute, esse stesse come una res gerenda il favore accordato sempre alle decisioni e ai pensieri estremi, tutto a testimoniare cotesta impetuosità del suo temperamento mentale, pur riuscendo egli a distillare i suoi pensieri in opere lucidamente e freddamente scientifiche.

In cotesto gusto artistico ed eroico al tempo stesso delle sue esperienze, tratte alle loro più estreme conseguenze quasi per vincerne le intrinseche aporie e antinomie, noi fondiamo quel pathos della tecnica, che ci pare caratteristica più vera della mente e dell'animo del Machiavelli, lontanissimo dal puritanesimo dei piagnoni, ma anche lontano dalla saviezza smagata ed elegante del Guicciardini, e dalla drammaticità tribolata dei romantici. Per quella poesia della tecnica politica in sé e per sé, egli poté auspicare il trionfo di un principe che riducesse sotto il suo governo la provincia d'Italia, e al tempo stesso dolersi che un Luigi XII, un re francioso, barbaro però, commettesse una serie infinita di errori, che gli compromisero il dominio delle terre italiane. E in quello stesso trattato, che doveva fondare l'animo di un principe italiano alla grande impresa dell'unificazione, lo scrittore può ricordare la sua risentita risposta all'arcivescovo di Roano « che e Franzesi non si intendevano dello Stato », sol perché essi lasciavano venire la Chiesa in tanta grandezza, che era poi la grandezza stessa di quel Valentino, assunto dal nostro autore a principe-mito della sua dottrina. Per questa poesia della tecnica pura, egli poté provvedere al tempo stesso a legiferare sugli ordinamenti repubblicani e a suggerire le norme per il più antidemocratico principato, donde l'apparente contraddizione tra lo stato d'animo dei Discorsi e lo stato d'animo del Principe. E con uguale compiacimento e spirito di obiettività scientifica, poté egli proporsi il caso del principe che giunge al governo per la sua virtù o per il favore dei suoi cittadini, e quello del principe che vi giunge per le vie nefarie, e illustrare le arti dell'uno e le arti dell'altro per consolidarsi bene nello Stato; perché se non si può « chiamare virtù ammazzare e sua cittadini, tradire li amici, essere sanza fede, sanza pietà, sanza religione », pure chi considerasse la virtù di un Agatocle « nello entrare e nello uscire de' periculi, e la grandezza dello animo suo nel sopportare e superare le cose avverse, non si vede perché egli abbia ad essere indicato inferiore a qualunque eccellentissimo capitano ». E negli stessi Discorsi, dove depreca la tirannide come antipolitica, ché gli uomini non s'avvedono « per questo partito quanta fama, quanta gloria, quanto onore, sicurtà, quiete, con soddisfazione d'animo, ci fuggono, e in quanta infamia, vituperio, biasimo, pericolo e inquietudine incorrono », egli discorre il caso di un principe che non avesse altro rimedio a tenere il suo principato, e riconosce la necessità che questi entri risolutamente nelle vie più crudeli, e pigli per sua mira quel Filippo di Macedonia che tramutava gli uomini di provincia in provincia, « come e mandriani tramutano le mandrie loro ».

Sono questi modi crudelissimi - chiosa il nostro autore - e nimici d'ogni vivere, non solamente cristiano, ma umano; e debbegli qualunque uomo fuggire, e volere, piuttosto vivere privato, che  con tanta rovina degli uomini; nondimeno, colui che non vuole pigliare quella prima via del bene, quando si voglia mantenere conviene che entri in questo male.

Può ancora il Machiavelli esaltarsi nel sentimento delle libertà repubblicane, e notare come il nome della libertà e gli ordini antichi suoi « né per la lunghezza de' tempi né per benefizi mai si dimenticano », pure non mancherà egli stesso di ricordare al principe che < chi diviene padrone di una città consueta a vivere libera, e non la disfaccia, aspetti di essere disfatto da quella »; sicché la via più sicura, per dominare le repubbliche, è « spegnerle o abitarvi ». Può talora il Machiavelli celebrare negli antichi popoli l'affezione del vivere libero, e numerare tutti i vantaggi della libertà, maggiori popoli, connubi più fecondi, moltiplicazione della ricchezza, incremento delle arti e della cultura, ma può al tempo stesso celebrare la prudenza e la virtù dei Romani che seppero fiaccare quelle libertà e superare i popoli d'intorno, nonostante che, nello stesso capitolo si affretti a riconoscere che « di tutte le servitù dure, quella è durissima che ti sottomette a una repubblica », « perchè il fine della repubblica è enervare e indebolire, per accrescere il corpo suo, tutti gli altri corpi ». Ed egli stesso si adopererà per vari anni, sotto il governo del buon Soderini, e a ordinare milizie e a guidare ardui lavori d'ingegneria, come la progettata deviazione dell'Arno, per sottomettere a Firenze la città di Pisa, sebbene volentieri riconosca che « Pisa dopo cento anni che l'era suta posta in servitù da' Fiorentini », « non mai sdimenticò il nome della libertà né quegli ordini, e subito, in ogni accidente, vi ricorse ». E ancora, nel capitolo sulle congiure, può analizzare la tecnica delle cospirazioni e dal punto di vista del principe e insieme dal punto di vista dei congiurati, e assegnare le ragioni del loro fallimento o del loro successo, dei loro pericoli e della loro necessità; e compiacersi che Cesare confermi una sua regola, poiché, per avere il popolo di Roma amico, fu vendicato da lui. Proprio quel Cesare, simbolo per Machiavelli di tirannide, e che in altra occasione gli suggerisce una delle sue pagine più eloquenti e più fosche, e anche piuttosto di bravura letteraria, sulla corruttela della schiavitù politica, e gli fa riconoscere con amara ironia « quanti obblighi Roma, l'Italia, e il mondo, abbia » con quell'imperatore. Tanta è la passione del nostro scrittore per la tecnica della politica pura.

La quale va sempre riguardata in tutte le sue parti, e con assoluta obiettività; però, per la stessa ragione, può egli, caduto il regime repubblicano in Firenze per il quale tanto si era industriato, chiedere di essere adoperato dai Medici, senza temere taccia di incoerenza politica, ché anzi « della fede sua non si dovrebbe dubitare, perché, avendo sempre osservato la fede, egli non debbe imparare ora a romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatre anni che egli ha, non debbe potere mutare natura ». « E della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia » egli conclude, e segna in una semplice e umile frase questo che fu l'inconsapevole epos di tutta la sua vita e di tutto il suo pensiero la bontà, come sovrano disinteresse per l'arte dello Stato, la fede, come eroica e tenace devozione a quell'arte. In questa poesia e senso obiettivo dell'arte dello Stato, il Machiavelli dirime tutte le sue apparenti contraddizioni, e fonda l'originalità e grandezza della sua scoperta. Un'antinomia di altro genere invece è intrinseca a quel suo pensiero, ché quell'arte dello Stato non è tutta l'arte di questo mondo, ma egli, nella sua eroica caparbietà, crederà che la politica sia tutto, e che essa sia la sola forza motrice della storia. Cotesta angustia sarà la più vera tragedia del pensiero del Machiavelli, ma lo scrittore non ne ebbe chiara consapevolezza; la tragedia, in un certo senso, si rivelò postuma alla genesi di quel pensiero, e fu propria dei secoli successivi, che lungamente e laboriosamente battagliarono per il riconoscimento della politica pura, quale momento necessario, ma soltanto un momento fra altri momenti, nella vita generale dello spirito umano. Il « tutto è politica » di Machiavelli doveva essere lo schermo di una polemica di cinquantenni e cinquantenni per concludere che il solo modo di moralizzare la politica è quello di riconoscere che la politica non è tutto, e che accanto ad essa si muovono molte altre forme di vita spirituale, feconde anch'esse di buona politica soltanto perché autonome e disinteressate.


Autore: Luigi Russo  Opera: Machiavelli

La struttura del Principe ha una chiarezza architettonica, che non è sempre così perspicua nelle altre opere. Il capitolo primo è una premessa introduttiva, un po' magra in verità, ma dove gli enunciati e le distinzioni dei vari tipi di principato si disnodano, in forma libere e adulta, senza faticosi richiami a qualche idea d'ordine generale, come avveniva nei vecchi trattati di scienza medievale. Uno scrittore a tipo scolastico procede per dimostrazioni, che sono forme dissimulate del sillogismo, in cui, attraverso le idee medie, tutte le proposizioni sono richiamate e congiunte a una premessa universale...

Il Machiavelli, la trascendenza delle ragioni, in accordo con tutto il pensiero del rinascimento, è impetuosamente negata e naturalizzata, così che anche le premesse d'ordine universale sono come riassorbite e incorporate nel testo stesso delle singole enunciazioni; da ciò, la rapidità dilemmatica del suo periodare:

Tutti gli stati... sono o repubbliche o principati. E i principati sono: o ereditarii... o sono nuovi. E nuovi, o e' nuovi sono tutti... o e' sono membri aggiunti... Sono questi domini così acquistati, o consueti a vivere sotto uno principe, o usi ad essere liberi; e acquistonsi o con le armi d'altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù.

È la sintassi adulta della scienza moderna, ovvia e familiare per noi, nuova e originale per il Machiavelli e gli altri scrittori, che iniziarono sul finire del Quattrocento e nei primi del Cinquecento questo tipo nuovo e liberale di prosa. Non più « clausule ampie », non più « parole ampullose e magnifiche », o « qualunque altro lenocinio o ornamento estrinseco, con li quali molti sogliono le loro cose descrivere e onorare », ma l'arte che nasce rapida dalle cose.

Perchè io ho voluto, o che veruna cosa la onori, o che solamente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata.

La sintassi machiavellica è già consapevole della sua libertà e individualità, e, a differenza della sintassi medievale, gerarchica e cattolica per eccellenza, va spedita per la sua via, alla maniera liberale, concatenando le enunciazioni per serie interna: sparisce il ragionamento a piramide degli scolastici, e si inaugura il ragionamento a catena, che sarà poi quello di Galileo e di tutta la prosa scientifica moderna. Iddio è disceso dai cieli, e anche l'arte ha scorciato le sue vie...

Ogni concetto astratto si veste in Machiavelli, di una forma sensibile, c la corpulenza di certe sue metafore e di certi suoi paragoni si accorda col carattere intimamente naturalistico del suo pensiero. In un pensatore idealista, le immagini, anche corpose, sono, più che sia possibile, spiritualizzate, perché non urtino bruscamente il tessuto metafisico del proprio pensiero; ma, in un mondo di pensiero quale quello dell'età del rinascimento, tutto maturato dalla vita esterna e sensibile, la idealizzazione delle immagini la si ottiene con un processo di più risoluta e popolare assimilazione alle stesse cose della natura. Così lo stato, che è concetto per eccellenza astratto è visto nella logica della sua formazione naturale, e istintivamente si lascerà tradurre nelle immaqni della vegetante natura (« li stati che vengono subito, come tutte le altre cose della natura che nascono e crescono presto, non possono avere le barbe e corrispondenzie loro; in modo che el primo tempo avverso le spegne »; e le troppo frequenti innovazioni costituzionali saranno deprecate, « perché sempre una mutazione lascia l'addentellato per la edificazione dell'altra », con il materiale richiamo ai risalti che si lasciano nei muri esterni delle fabbriche, per potervi collegare altre fabbriche) .

E la fortuna, che era una figura allegorica orinai convenzionale, riesce nella prosa del Machiavelli a nuova vita: essa è sempre natura animata, in ogni momento, e il suo dar favori si traduce in un « mettere in grembo », ed essa ora sarà assomigliata « a uno di questi fiumi rovinosi che, quando s'adirano, allagano e piani, ruinano gli alberi e gli edifizii, lievano da questa parte terreno, pongono da quell'altra »; c ora apparirà donna, e, come donna, più amica dei giovani, « perché sono meno rispettivi, più feroci, e con più audacia la comandano ». « Ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla », chiosa lo scrittore, con quello stesso senso ghiotto, spregiudicato e scherzosamente antiuxorio che gli aveva ispirato la novella di Belfagor, e che riassumeva la comune persuasione, radicata fin dalla novellistica del Boccaccio e del Sacchetti, che la donna andava tenuta sotto e castigata, e più la batti e ti mostri uomo, e più ti vuol bene. Anche l'immagine del Centauro doveva, assai efficacemente, simboleggiare il concetto del rinascimento, che il mondo per una parte è dominio dell'uomo e per l'altra è dominio della natura, cosicché, anche nel più limitato campo della politica, conviene usare l'una e l'altra natura, la bestia e l'uomo, ché l'una senza l'altra non è durabile. E poiché l'immagine è di quelle che nascono in viva immediatezza di pensiero, ecco che il Machiavelli non vi insiste dentro, subito l'abbandona, e da essa gemina l'altra famosa metafora della golpe e del lione, del lione che non si difende dai lacci, e della golpe che non si difende da' lupi, e « bisogna adunque essere golpe a conoscere e lacci, e lione a sbigottire e lupi »...

Bisogna proprio parlare di un tono e di una energia popolare, nella prosa del Machiavelli, la quale riesce ad essere, in ogni momento, un meraviglioso impasto di lingua e sintassi colta e di lingua e sintassi popolana. L'uomo che sa vestire la veste quotidiana, piena di fango e di loto, e sa poi rivestirsi condecentemente di panni reali e curiali, è simbolo dello scrittore, che è classico e popolare, dotto e istintivo, complesso e immediato al tempo stesso. Parlerà dell'invasione degli stranieri in Italia, di queste « illuvione esterne », con frase di stampo latino, e in cui si avverte una leggera reminiscenza del petrarchesco « oh diluvio, raccolto di che deserti strani », e, subito dopo, con plebea vigoria, uscirà a dire « a ognuno puzza questo barbaro dominio »; parlerà di uomini liberali e di uomini miseri, liberali e larghi donatori, miseri e gretti, liberali nel significato aulico, miseri nel significato paesano, e lo scrittore troverà il tempo di indugiarsi nella delizia di una distinzione linguistica: « usando uno termine toscano, perché avaro in nostra lingua è ancora colui che per rapina desidera di avere, misero chiamiamo noi quello che si astiene troppo di usare il suo ». Ma, a ogni momento, la commistione tra elementi aulici ed elementi popolareschi è così piena e perfetta, nella prosa machiavellica, che riesce perfino difficile separare gli uni dagli altri, tanta è l'unità del sentimento che li produce; e talora è una determinazione verbale popolaresca, un torgnene, un ammazzorno, e tal'altra una inflessione sintattica della lingua parlata, che dà un suo tono, una sua particolare sfumatura, a un periodo tutto dotto e latino, e lo trasfigura. Se mai, potrebbero essere citati alcuni pochi esempi negativi, là dove il Machiavelli, discorrendo di Agatocle, di Nàbide o degli imperatori del basso Impero parafrasa scrittori antichi, Giustino o Erodiano o altri, e allora la sua fantasia non è molto commossa e la sua prosa viene latineggiando più del solito, perdendo quella particolare tempera popolana, che è la sua forza.

Per questo piglio popolaresco e parlato, si spiega anche quel tono di disputa animata che, spesso, qua e là, ha il Principe: cotesta non è una elucubrazione di uno studioso solitario, ma di un uomo che sente di fronte a sé allocutori ed obbiettanti, e tutti vuole persuadere e controribattere, come se il Machiavelli, pur indossando panni reali e curiali, non sapesse dimenticare del tutto la sua osteria e il suo tricchetrach, « dove nascono mille contese e infiniti dispetti di parole iniuriose ».

E se alcuno dicesse: el re Luigi cedé ad Alessandro di Romagna ecc..., respondo, con le ragioni dette di sopra; ecc. ecc... E se alcuni altri allegassino la fede che il re aveva obligata al papa ecc. ecc... respondo con quello che per me di sotto si dirà circa la fede de' principi e come la si debba osservare.

... A Carlo re di Francia fu licito pigliare la Italia col gesso. E chi diceva come e' n'erano cagione e peccati nostri, diceva il vero; ma non erano già quelli che credeva ma questi che io ho narrati...

Da questo contenuto fervore polemico provengono le spezzature e irregolarità sintattiche, che sono la disperazione dei grammatici. Si potrebbe dire che il Machiavelli abbia una predilezione particolare per il soggetto d'affezione, anche se taciuto, più che per il soggetto grammaticale; nel suo libello-capolavoro, poi, il principe è sempre il protagonista della sua immaginazione, sicché mentalmente ci si riferisce a lui, anche quando manca l'evidenza e la regolarità dell'espressione grammaticale, ed esso governa non solo popoli, ma anche periodi complicatissimi, in cui, istintivamente, tutto ciò che riguarda la sua attività di soggetto affettivo, è ricacciato in proposizioni accidentali e parentetiche; cosicché il periodo, pur nella sua laboriosa complessità, ha un movimento rettilineo, dominato dall'alto con reticente imperiosità e concluso e serrato da un qualche rapido ed animoso verbo finale. E talvolta avvengono delle acrobazie pericolose, come in quel luogo, dove si discorre del buon Giovanni Fogliani e del perfido suo nipote, Oliverotto da Fermo, quando tutto a un tratto lo scrittore si dimentica del galantuomo per correre dietro alla canaglia, che è soggetto più espedito e più avvincente.

Non mancò, pertanto, Giovanni di alcuno offizio débito verso el nipote; e, fattolo ricevere da' Firmiani onoratamente, si alloggiò nelle case sue.

Dove il soggetto di quell'alloggiò non è più l'officioso Giovanni, ma il « diabolico » Oliverotto : « sintatticamente questo è un grave errore », commenta inorridito un interprete, ma la fantasia dello scrittore ha una sua grammatica particolare e leggi proprie, in cui gli uomini dabbene non hanno troppo posto e voce in capitolo e sono troppo deboli soggetti.

Insieme a questa epopea sintattica dell'individuo « virtuoso », un'altra epopea scorre nella prosa machiavellica: quella delle « cagioni » delle cose. Non più il dantesco « state contenti, umana gente, al quia », ma un impetuoso ed affollato desiderio di rendersi conto di tutto, e di spiegar tutto con ragioni di questa terra. « La cagione è in pronto », rincalza il Machiavelli, quando si lascia andare a qualche aforisma un po' scandaloso: egli non ama i paradossi; le sue verità vogliono essere verità piane ed obbiettive, a cui tutti debbono accedere, e, a ogni passo, c'è la chiosa con la sua ragione. E le « cagioni », verbalmente manifeste o sottintese, riempiono le pagine del nostro scrittore:

Noi abbiamo in Italia, in exemplis, il duca di Ferrara: il quale non ha retto alli assalti de' Viniziani nello '84, né a quelli di papa lulio nel 'io, per altre cagioni che per essere antiquato in quello dominio. Perché el principe naturale ha minori cagioni e minore necessità di offendere: donde conviene che sia più amato; e, se estraordinarii vizii non lo fanno odiare, è ragionevole che naturalmente sia ben voluto da' sua. E nella antiquità e continuazione del dominio sono spente le memorie e le cagioni delle innovazioni.

Un periodo, tra i mille, a caso, in cui, in breve giro, le cagioni si accampano a ogni passo: questo è il mondo della natura, il mondo delle cose, che hanno la cagione in altre cose, e però uomini ed avvenimenti e pensieri e sentimenti sono in rapporto perpetuo di cause. Noi moderni veniamo abbandonando questo rapporto di causalità, e le cause, nel loro valore naturale esterno e deterministico, spariscono per cedere alla logica interna che nasce e si sviluppa nell'intimo delle cose stesse e degli avvenimenti; ma, per il Machiavelli, felix qui potest rerum cognoscere causas! Egli esce e si oppone al mondo medievale, dove tutto ha una sola ragione, e trascendente e lontana nei cieli, che è Dio; ora c'è da conquistare tutto un Inondo terrestre, scoprire nuove terre e nuove acque. Da ciò la ressa, quasi allegra, delle « cagioni », nel suo periodare.

Come poi da uno scrittore, così impetuoso e istintivo di temperamento, nasca il fermo ed epigrammatico incisore di regole e massime, è il miracolo senza miracolo, dell'uomo di genio, che, dalla polemica più soggettiva, sa riuscire alla scienza più obbiettiva, per disciplina vigorosa dei suoi sentimenti. Ma è chiaro che in tanto la disciplina è vigorosa, in quanto i sentimenti essi stessi sono vigorosi, e disciplina e sentimento sono una cosa sola, ché là dove il sentimento è profondo ivi è disciplina, e solo le passioni della superficie rifuggono dall'ordine e dalla legge.


Autore: Luigi Russo  Opera: Machiavelli

Per la commedia del Machiavelli, bisogna dire che il turpe, il sensuale, l'osceno si alleggerisce per questa astuzia dell'intelligenza, che percorre la vicenda da un atto all'altro. Il turpe negozio diventa a un certo punto un 'ingegnosa beffa. Tutto il '400 e particolarmente il '500 è ricco di una novellistica e di un teatro, ricco di motivi di beffa. Tali motivi procedono dal Decamerone, ma non come materia astratta; c'è invece un accordo storico più profondo di quei motivi boccacceschi con la nuova civiltà umanistica e rinascimentale, che ebbe il culto vivo e spregiudicato dell'intelligenza, della scaltrezza, dell'ingegnosità, della furberia, dell'abilità. Il Machiavelli è il pensatore in cui cotesta novella musa dell'intelligenza, dell'abilità, dell'astuzia, canta il suo poema più serio nel Principe e nei Discorsi; qui nella commedia, se ne ha il canto minore, per una sola notte d'amore. Benvenuto Cellini sarà l'ultimo artista di cotesta intelligenza « beffarda » e spregiudicata. Con la controriforma, comincerà la musoneria inventiva dei nostri novellatori e scrittori di teatro: l'intelligenza per l'intelligenza, la beffa per la beffa, comincia ad essere considerata ipocritamente un'empietà.

Ma non per questo cesserà l'ispirazione di tipo sensuale, anzi questa si ingrosserà in senso più animalesco: dove manca il sorriso giovanile della libera intelligenza, la carne si fa più pesante e lorda. Sul finire del 9500 e per tutto il '600 si ha una letteratura della sensualità senile, che, sotto un ipocrito moralismo, si sfoga in maniera più bassa e più oscena. La sensualità del Boccaccio saliva nelle sfere dell'intelligenza lucida e armoniosa; in questa letteratura tardiva, si discende invece all'animalità giovanile, estrosa, del Boccaccio, ma è pur la carnalità ancora dominata e infrenata dalla mente, è la sensualità virile infusa di una matura malizia, la quale lascia intravedere uno sfondo di amara tristezza. Callimaco, che iperbolizza volontariamente o involontariamente la sua impazienza d'amore, impersona questo tipo di avveduta e maturata sensualità. Accanto a Callimaco, c'è un personaggio beffato, messer Nicia, che dà l'aire allo spasso dell'intelligenza astuta e che comunica una festevolezza chiassosa a tutto l'insieme.

Messer Nicia è una specie di Calandrino machiavellico, con qualcosa di più scioccamente turpe che l'altro suo giovane precursore del '300 non ha. Calandrino passa per le menti di tutti come il tipo dello sciocco e del credulone, così come don Abbondio incarna ormai nella fantasia il pauroso per eccellenza. Ma in entrambi i casi si semplifica e si schematizza ciò che nell'arte è assai complesso. Don Abbondio non è semplicemente il pauroso, ma è anche il ferreo piccolo egoista, in cui sopravvivono le idealità morali della religione ma tutte rattrappite e però deformate comicamente; e don Abbondio è anche coraggioso, coraggioso quando c'è da difendere tale suo piccolo egoismo, il suo pacifico sistema di vita. Orbene allo stesso modo non è esatto dire che Calandrino sia solo uno sciocco, un credulone; gli sciocchi non hanno storia, e basta una semplice nota per colorirli nel mondo dell'arte. E Calandrino riempie di sé ben quattro novelle, così come messer Nicia occupa a ogni momento la scena della Mandragola, anche quando non è presente. Tanto che alcuni critici hanno voluto vedere in lui perfino il protagonista della commedia. Uno sciocco e un credulone non può interessare il mondo della fantasia, senza ingenerare fastidio e sazietà. E qui si parrà l'arte dello scrittore: complicare lo sciocco, o complicare lo sciocco turpe...

Quello che il Boccaccio aveva fatto con giovanile leggerezza per Calandrino, il Machiavelli lo ripete per messer Nicia, ma aggravandone lo spirito, con una malizia amara, che in certi tratti può apparire perfino polemica. Per Calandrino noi ridiamo, per messer Nicia noi ridiamo e ci irritiamo. È un immondo babbeo! La comicità del Machiavelli ha uno sfondo più etico che nel Boccaccio, in cui l'estro della fantasia è più disinteressato e svagato; direi, è ancora un gioco fanciullesco. Ma ecco qua messer Nicia, dottore, un dottore che ha « cacato le curatelle per imparare due hac » come dice lui stesso in un momento di sincerità, eccolo qua a giudicare e sentenziare su tutto il mondo, su medici di Firenze e di Parigi, quasi egli fosse un gran baccalare. Si è consultato con loro per i bagni della moglie, quelli che possono essere più favorevoli alle gravidanze:

Oltra di questo io parlai iersera a parecchi medici. L'uno dice che io vadia a San Filippo, l'altro alla Porretta, l'altro alla Villa; e' mi parvono parecchi uccellacci, e, a dirti il vero, questi dottori di medicina non sanno quello che si pescono.

Messer Nicia non vorrebbe saperne di andare ai bagni, perché egli si spicca «malvolentieri da bomba». E avere a travasare moglie, e tante masserizie », questo non gli quadra; e Ligurio, vile abile parassita, lo fa vergognare stuzzicando in lui la vanità del giramondo. Non andate ai bagni, gli dice, perché « voi non siete uso a perdere la cupola di vetta! ». E messer Nicia, togato nel vivo, ribatte:

Tu erri! Quando io ero più giovane, io sono stato molto randagio. E non si fece mai la fiera a Prato, che io non vi andassi, e non ci è castel veruno intorno, dove io non sia stato; e ti vo' dire più là: io sono stato a Pisa e a Livorno, oh va!

Ligurio fa l'ignorante che, ammirato, favoleggia di cose sentite ire ma non vedute, sicché messer Nicia può farla bene da gran dottore.

«Voi dovete aver veduto la carrucola di Pisa », e messer Nicia pettoto: « Tu mi vuoi dire la Verrucola ». « Voi avete visto il mare? Quanto è egli maggiore che Arno? » ; e messer Nicia: « Che Arno? Egli è per quattro volte, per di più di sei, per di più di sette, mi farai dire: e non si vede se non acqua, acqua, acqua » . Parrebbe questo il trionfo massimo della sua saputa esperienza di mondo, ma a questo punto messer Nicia paga forte per tanta sua puerile presunzione:

Ligurio. - Io mi meraviglio adunque, avendo voi pisciato in tanta neve, che voi facciate tanta difficoltà d'andare al bagno.

Messer Nícia. - Tu hai la bocca piena di latte. E' ti pare a te una favola, avere a sgominare tutta la casa? Pure io ho tanta voglia d'avere figliuoli che io son per fare ogni cosa.

Da questo momento, nell'atto che canta vittoria, messer Nicia si rende captivo al suo parassita.

Questa l'astuzia artistica del Machiavelli; ma se è facile rilevare la presunzione sciocca del personaggio e la sua turpitudine melensi, sfugge forse ai lettori un'altra sua parte. Il Machiavelli, con molto accorgimento stilistico, ha prestato al personaggio un linguaggio particolarissimo, il più idiotistico e il più proverbiale fiorentino del tempo. Il linguaggio dialettale, il municipalismo linguistico, può essere o raffinata civetteria estetica oppure è segno di angustia e goffaggine spirituale; e i proverbi possono testimoniare gravità religiosa, come i proverbi di padron 'Ntoni, oppure sono segno di vacuo parassitismo mentale. Messer Nicia parla per proverbi e per modi di dire affinati ormai da una tradizione: sicché a ogni suo verbo, tu senti cantilenare il più bel fiorentino, ma che risuona a vuoto. Vi avverti dentro qualcosa di fesso, di trito, di ripetuto, di luogo comune che ti eccita per cotesta sapienza facile e molle del parlatore. Per esempio. Egli dice: « Io mi spicco malvolentieri da bomba », e bomba era il luogo privilegiato di una partita di giuoco, molto in uso a Firenze, per cui si diceva spiccarsi da bomba e ritornare a bomba. Diffidando dell'improvvisa medicheria di Collimaco, egli ancora osserva: « Io non vorrei che mi mettessi in qualche lecceto e poi mi lasciassi in su le secche »; e poi, quanto alla sua scienza medica, aggiunge con gravità: « Io ti dirò ben io come gli parlo, se egli è uomo di dottrina, perchè egli a me non venderà vesciche ».

Ancora un altro proverbio, quando messer Nicia ammonisce Ligurio di chiamare Callimaco col suo titolo di maestro, perché dottore in medicina, e Ligurio risponde: « E' non si cura di simili baie! ». E messer Nicia di rimando lo esorta a fare il suo dovere, anche se Callimaco dovesse aversene a male: « Non dire così, fai il tuo debito, e se l'ha per male, scingasi! ». Si cali pure le brache, cioè, se se ne ha per male; tu non te ne dar pensiero. Ed è questo assai antico proverbio, e piuttosto raro. E ci sarebbe da allinearne ancora tutta una filza, come quel « Ho più fede in voi che gli Ungheri nelle spade » e « Bisognava che io mi impeciassi gli orecchi come el Danese », « E ora mi hanno qui posto, come un zugo, a piuolo », e « noi entriamo in cetere », « Come disse la botta all'erpice », il quale ultimo proverbio provocò un lungo chiarimento del Machiavelli al Guicciardini. Ciò che ci fa sospettare quale dovesse essere lo spasso dei contemporanei per questo idiotismo linguistico di messer Nicia, che faceva tutt'uno con la sua goffaggine mentale. E non si dice nulla del suo gergo allusivo ai rapporti sessuali della moglie con l'ignoto rubaldone, a cui doveva esser piaciuto « l'tinto », se si era attardato in camera sino all'alba. Questa parte svela quel giubilo di laida lussuria, che freme nelle carni del vecchio, e a cui accennavamo più innanzi.

Ma la fantasia si ferma più volentieri sull'altro eloquio raffinato e passivo, efficacemente popolaresco e tradizionalmente consacrato, in cui ammiri la bravura del parlatore e al tempo stesso misuri tutta la sua vacua sufficienza. Messer Nicia è come l'asino, di cui parla Giordano Bruno, che portava il Santissimo e non lo sapeva. Egli, a un certo punto, per effondere la sua ammirazione per la dottrina medica di Callimaco, così si esprime con bestemmie da becero, e con i modi del più elegante fiorentino parlato: « Oh, uh potta di San Puccio ! Costui mi raffinisce tra le mani; guarda come ragiona bene di queste cose! ». È il personaggio a cui il Machiavelli presta l'eloquio più fiorito, più geniale del suo tempo. Ecco qua questo bel quadro della vita striminzita di certa Firenze piccola, che poi doveva diventare proverbiale nei secoli. Il nostro scioccone parla di Callimaco che, per il suo gran talento di falso medico, non può trovar piazza adatta se non Parigi:

E fa molto bene. In questa terra non ci è se non cacastecchi; non ci si apprezza virtù alcuna. Se egli stessi qua, non ci sarebbe uomo che lo guardasse in viso. Io ne so ragionare, che ho cacato le curatelle per imparare due hac; e se io n'avessi a vivere, io starei fresco, ti so dire! Chi non ha lo stato in questa terra, de' nostri pari, non truova cane che gli abbai, e non siamo buoni ad altro che andare a' mortori o alle ragunate d'un mogliazzo, o a starci tutto dì in su la panca del Proconsolo a donzellarci.

Pare perfino una vendetta che messer Niccolò volesse fare di quella piccola Firenze invidiosa e pettegola che si delineava già sotto la signoria casalinga de' Medici, e che teneva al confino il grande segretario, o lo mandava, per fargli voltolare pur qualche sasso, a Carpi in un convento, alla ricerca di un buon predicatore che insegnasse ai fiorentini la via del paradiso. Una vendetta interlineare, ed eseguita (vedi malizia!) per la bocca del più sciocco dei suoi personaggi.