[Brescianesimo.] Esame di una parte cospicua della letteratura
narrativa italiana, specialmente degli ultimi decenni. La preistoria
del brescianesimo moderno (del dopoguerra) può essere
identificata in una serie di scrittori come: Antonio Beltramelli,
con libri del tipo Gli Uomini Rossi, Il Cavalier Mostardo ecc.;
Polifilo (Luca Beltrami), con le diverse rappresentazioni dei
«popolari di Casate Olona»; ecc. La letteratura
abbastanza folta e diffusa in certi ambienti e che ha un carattere
piú tecnicamente «sagrestano»; essa è poco
conosciuta nell'ambiente laico di cultura e per niente studiata. Il
suo carattere tendenzioso e propagandistico è apertamente
confessato: si tratta della «buona stampa». Tra la
letteratura di sagrestia e il brescianesimo laico sta una corrente
letteraria che negli ultimi anni si è molto sviluppata
(gruppo cattolico fiorentino guidato da Giovanni Papini, ecc.): un
esempio tipico di essa sono i romanzi di Giuseppe Molteni. Uno di
questi, Gli Atei, riflette il mostruoso scandalo Don Riva - suor
Fumagalli in un modo ancor piú mostruosamente aberrante: il
Molteni giunge ad affermare che appunto per la sua qualità di
prete obbligato al celibato e alla castità bisogna compatire
Don Riva (che violentò e contagiò una trentina di
fanciullette di pochi anni, offertegli dalla Fumagalli per tenerselo
«fedele») e crede che a tale massacro possa essere
contrapposto, come moralmente equivalente, il volgare adulterio di
un avvocato ateo. Il Molteni era molto noto nel mondo letterario
cattolico: è stato critico letterario e articolista di tutta
una serie di quotidiani e periodici clericali, fra i quali
l'«Italia» e «Vita e Pensiero».
Il brescianesimo assume una certa importanza nel
«laicato» letterario del dopoguerra e va sempre
piú diventando la «scuola» narrativa preminente e
ufficiosa.
Ugo Ojetti e il romanzo Mio figlio ferroviere. Caratteristiche
generali della letteratura dell'Ojetti e diversi atteggiamenti
«ideologici» dell'uomo. Scritti sull'Ojetti di Giovanni
Ansaldo che d'altronde rassomiglia all'Ojetti molto piú di
quanto potesse parere una volta. La manifestazione piú
caratteristica di Ugo Ojetti è la sua lettera aperta al padre
Enrico Rosa, pubblicata nel «Pègaso» e riprodotta
nella «Civiltà Cattolica» con commento del Rosa.
L'Ojetti dopo l'annunzio della avvenuta conciliazione tra Stato e
Chiesa non solo era persuaso che ormai tutte le manifestazioni
intellettuali italiane sarebbero state controllate secondo uno
stretto conformismo cattolico e clericale, ma si era già
adattato a questa idea e si rivolse al padre Rosa con uno stile
untuosamente adulatorio delle benemerenze culturali della Compagnia
di Gesú per impetrare una «giusta» libertà
artistica. Non si può dire, alla luce degli avvenimenti
posteriori (discorso alla Camera del Capo del Governo) se sia stata
piú abbietta la prostrazione dell'Ojetti o piú comica
la sicura baldanza del padre Rosa che, in ogni caso, diede una
lezione di carattere all'Ojetti, s'intende al modo dei gesuiti.
L'Ojetti è rappresentativo da piú punti di vista: ma
la codardia intellettuale dell'uomo supera ogni misura normale.
Alfredo Panzini: già nella preistoria con qualche brano, per
esempio, della Lanterna di Diogene (l'episodio del «livido
acciaro» vale un poema di comicità), poi Il padrone
sono me, Il mondo è rotondo e quasi tutti i suoi libri dalla
guerra in poi. Nella Vita di Cavour è contenuto un accenno
proprio al padre Bresciani, veramente strabiliante se non fosse
sintomatico. Tutta la letteratura pseudo-storica del Panzini
è da riesaminare dal punto di vista del brescianesimo laico.
L'episodio Croce-Panzini, riferito nella «Critica»
è un caso di gesuitismo personale, oltre che letterario.
Di Salvatore Gotta si può dire ciò che il Carducci
scrisse del Rapisardi: «Oremus sull'altare, e flatulenze in
sacrestia»; tutta la sua produzione letteraria è
brescianesca.
Margherita Sarfatti e il suo romanzo Il Palazzone. Nella recensione
di Goffredo Bellonci pubblicata dall'«Italia Letteraria»
del 23 giugno 1929, si legge: «verissima quella timidezza
della vergine che si ferma pudica innanzi al letto matrimoniale
mentre pur sente che "esso è benigno e accogliente per le
future giostre"». Questa vergine pudica che sente con le
espressioni tecniche dei novellieri licenziosi è impagabile:
la vergine Fiorella avrà presentito anche le future
«molte miglia» e il suo «pelliccione» ben
scosso. Sul punto delle giostre ci sarebbe da fare qualche amena
divagazione: si potrebbe ricordare l'episodio leggendario su Dante e
la meretricula, riportato nella raccolta Papini (Carabba) per dire
che di «giostre» può parlar l'uomo, non la donna;
sarebbe anche da ricordare l'espressione del cattolico Chesterton
nella Nuova Gerusalemme sulla chiave e la serratura a proposito
della lotta dei sessi, per dire che il punto di vista della chiave
non può essere quello della serratura. (È da rilevare
come Goffredo Bellonci, che civetta volentieri con l'erudizione
«preziosa» – a buon mercato – per fare spicco nel
giornalistume romano, trovi «vero» che una vergine pensi
alle giostre).
Mario Sobrero e il romanzo Pietro e Paolo può rientrare nel
quadro generale del brescianesimo per il chiaroscuro.
Francesco Perri e il romanzo Gli emigranti. Questo Perri non
è poi Paolo Albatrelli dei Conquistatori? In ogni modo
è da tener conto anche dei Conquistatori. Negli Emigranti il
tratto piú caratteristico è la rozzezza, ma non la
rozzezza del principiante ingenuo che in tal caso potrebbe essere il
grezzo non elaborato ma che lo può diventare: una rozzezza
opaca, materiale, non da primitivo ma da rimbambito pretenzioso.
Secondo il Perri il suo romanzo sarebbe «verista» ed
egli sarebbe l'iniziatore di una specie di neorealismo; ma
può oggi esistere un verismo non storicistico? Il verismo
stesso del secolo XIX è stato in fondo una continuazione del
vecchio romanzo storico nell'ambiente dello storicismo moderno.
Negli Emigranti manca ogni accenno cronologico e si capisce. Vi sono
due riferimenti generici: uno al fenomeno dell'emigrazione
meridionale, che ha avuto un certo decorso storico e uno ai
tentativi di invasione delle terre signorili «usurpate»
al popolo che anche essi possono essere ricondotti a epoche ben
determinate. Il fenomeno migratorio ha creato una ideologia (il mito
dell'America) che ha contrastato la vecchia ideologia alla quale
erano legati i tentativi sporadici ma endemici di invasione delle
terre, prima della guerra. Tutt'altro è il movimento del
'19-'20 che è simultaneo e generalizzato ed ha una
organizzazione implicita nel combattentismo meridionale. Negli
Emigranti tutte queste distinzioni storiche, che sono essenziali per
comprendere e rappresentare la vita del contadino, sono annullate e
l'insieme confuso si riflette in modo rozzo, brutale, senza
elaborazione artistica. È evidente che il Perri conosce
l'ambiente popolare calabrese non immediatamente, per esperienza
propria sentimentale e psicologica, ma per il tramite di vecchi
schemi regionalistici (se egli è l'Albatrelli occorre tener
conto delle sue origini politiche, mascherate da pseudonimi per non
perdere, nel 1924, l'impiego al Comune o alla Provincia di Milano).
L'occupazione (il tentativo di) a Pandure nasce da
«intellettuali», su una base giuridica (nientemeno che
le leggi eversive di G. Murat) e termina nel nulla, come se il fatto
(che pure è verbalmente presentato come un'emigrazione di
popolo in massa) non avesse sfiorato neppure le abitudini di un
villaggio patriarcale. Puro meccanismo di frasi. Cosí
l'emigrazione. Questo villaggio di Pandure, con la famiglia di Rocco
Blèfari, è (per dirla con la parola di un altro
calabrese dal carattere temprato come l'acciaio, Leonida
Rèpaci) un parafulmine di tutti i guai. Insistenza sugli
errori di parola dei contadini, che è tipica del
brescianesimo, se non dell'imbecillità letteraria in
generale. Le «macchiette» (Il Galeoto ecc.),
compassionevoli, senza arguzia e umorismo. L'assenza di
storicità è «voluta» per poter mettere in
un sacco alla rinfusa tutti i motivi folcloristici generici, che in
realtà sono molto ben distinti nel tempo e nello spazio.
Leonida Rèpaci: nell'Ultimo Cireneo è da smontare il
congegno combinato in modo rivoltante; da vedere I fratelli Rupe che
sarebbero i fratelli Répaci che pare siano stati da qualcuno
paragonati ai Cairoli.
Umberto Fracchia: da vedere specialmente: Angela Maria. (Nel quadro
generale occupano il primo posto Ojetti-Beltramelli-Panzini; in essi
il carattere gesuitesco-retorico è piú appariscente, e
piú importante è il posto loro assegnato nelle
valutazioni letterarie piú correnti).
Letteratura di guerra. Quali riflessi ha avuto la tendenza
«brescianistica» nella letteratura di guerra? La guerra
ha costretto i diversi strati sociali ad avvicinarsi, a conoscersi,
ad apprezzarsi reciprocamente nella comune sofferenza e nella comune
resistenza in forme di vita eccezionali che determinavano una
maggiore sincerità e un piú approssimato avvicinarsi
all'umanità «biologicamente» intesa. Cosa hanno
imparato dalla guerra i letterati? E in generale cosa hanno imparato
dalla guerra quei ceti da cui normalmente sorgono in maggior numero
gli scrittori e gli intellettuali? Sono da seguire due linee di
ricerca: 1) Quella riguardante lo strato sociale, ed essa è
già stata esplorata per molti aspetti dal prof. Adolfo Omodeo
nella serie di capitoli Momenti della vita di guerra. Dai diari e
dalle lettere dei caduti, usciti nella «Critica» e poi
raccolti in volume. La raccolta dell'Omodeo presenta un materiale
già selezionato, secondo una tendenza che si può anche
chiamare nazionale-popolare, perché l'Omodeo implicitamente
si propone di dimostrare come già nel 1915 esistesse robusta
una coscienza nazionale-popolare, che ebbe modo di manifestarsi nel
tormento della guerra, coscienza formata dalla tradizione liberale
democratica; e quindi mostrare assurda ogni pretesa di palingenesi
in questo senso nel dopo guerra. Che l'Omodeo riesca ad assolvere il
suo compito di critico è altra quistione; intanto l'Omodeo ha
una concezione di ciò che è nazionale-popolare troppo
angusta e meschina, le cui origini culturali sono facili da
rintracciare; egli è un epigono della tradizione moderata,
con in piú un certo tono democratico o meglio popolaresco che
non sa liberarsi da forti striature «borbonizzanti». In
realtà la quistione di una coscienza nazionale-popolare non
si pone per l'Omodeo come quistione di un intimo legame di
solidarietà democratica tra intellettuali-dirigenti e masse
popolari, ma come quistione di intimità delle singole
coscienze individuali che hanno raggiunto un certo livello di nobile
disinteresse nazionale e di spirito di sacrifizio. Siamo cosí
ancora al punto dell'esaltazione del «volontarismo»
morale, e della concezione di élites che si esauriscono in se
stesse e non si pongono il problema di essere organicamente legate
alle grandi masse nazionali.
2) La letteratura di guerra propriamente detta, cioè dovuta a
scrittori «professionali» che scrivevano per essere
pubblicati, ha avuto in Italia varia fortuna. Subito dopo
l'armistizio è stata molto scarsa e di poco valore: ha
cercato la sua fonte d'ispirazione nel Feu di Barbusse. È
molto interessante da studiare Il diario di guerra di B. Mussolini
per trovarvi le tracce dell'ordine di pensieri politici, veramente
nazionali-popolari, che avevano formato, anni prima, la sostanza
ideale del movimento che ebbe come manifestazioni culminanti il
processo per l'eccidio di Roccagorga e gli avvenimenti del giugno
1914. Si è poi avuta una seconda ondata di letteratura di
guerra, che ha coinciso con un movimento europeo in questo senso,
prodottosi dopo il successo internazionale del libro del Remarque e
col proposito prevalente di arginare la mentalità pacifista
alla Remarque. Questa letteratura è generalmente mediocre,
sia come arte, sia come livello culturale, cioè come
creazione pratica di «masse di sentimenti e di emozioni»
da imporre al popolo. Molta di questa letteratura rientra
perfettamente nel tipo «brescianesco». Esempio
caratteristico il libro di C. Malaparte La rivolta dei santi
maledetti a cui si è già accennato. È da vedere
l'apporto a questa letteratura del gruppo di scrittori che sogliono
essere chiamati «vociani» e che già prima del
1914 lavoravano con concordia discorde per elaborare una coscienza
nazionale-popolare moderna. Dai «minori» di questo
gruppo sono stati scritti i libri migliori, per esempio quelli di
Giani Stuparich. I libri di Ardengo Soffici sono intimamente
repugnanti, per una nuova forma di rettoricume peggiore di quella
tradizionale. Una rassegna della letteratura di guerra sotto la
rubrica del brescianesimo è necessaria.
Vedere il cap. IX: «Guerre et Littérature» del
volume di B. Crémieux sulla Littérature Italienne (ed.
Kra, 1928, pp. 243 sgg.). Per il Crémieux la letteratura
italiana di guerra segna una scoperta del popolo da parte dei
letterati. Ma il Crémieux esagera! Tuttavia il capitolo
è interessante e da rileggere. D'altronde anche l'America
è stata scoperta dall'italiano Colombo e colonizzata da
Spagnoli e Anglosassoni.
Due generazioni. La vecchia generazione degli intellettuali è
fallita, ma ha avuto una giovinezza (Papini, Prezzolini, Soffici,
ecc.). La generazione attuale non ha neanche questa età delle
brillanti promesse (Titta Rosa, Angioletti, Malaparte ecc.). Asini
brutti anche da piccoletti.
A molti poetuzzi odierni si potrebbe applicare il verso del Lasca
contro il Ruscelli: «delle Muse e di Febo mariuolo». E
piú che di poesia si deve infatti parlare di mariuoleria per
ottenere premi letterari e sovvenzioni d'Accademia.
Parlando di Gioacchino Belli nella prima edizione dell'Ottocento
(Vallardi), Guido Mazzoni ne trova una che è impagabile e
può servire per caratterizzare gli scrittori di questa
rubrica, specialmente Ugo Ojetti. Per il Mazzoni la debolezza di
carattere del Belli «si trasformava in un aiuto di prim'ordine
alle sue facoltà artistiche, perché lo rendeva
piú malleabile alle impressioni».
Ugo Ojetti e i gesuiti. La Lettera al Rev. Padre Enrico Rosa di U.
Ojetti è stata pubblicata nel Pègaso del marzo 1929 e
riportata nella «Civiltà Cattolica» del 6 aprile
successivo con la lunga postilla del p. Rosa stesso. La lettera
dell'Ojetti è raffinatamente gesuitica. Comincia cosí:
«Rev.do Padre, tanta è dall'11 febbraio la calca dei
convertiti a un cattolicesimo di convenienza e di moda che Ella
permetterà ad un romano, di famiglia, come si diceva una
volta, papalina, battezzato in S. Maria in Via ed educato alla
religione proprio in S. Ignazio di Roma e da loro Gesuiti,
d'intrattenersi mezz'ora con Lei, di riposarsi cioè dal gran
bailamme considerando un uomo come lei, integro e giudizioso, che
era ieri quel ch'è oggi e quello che sarà
domani». Piú oltre, ricordando i suoi primi maestri
gesuiti: «Ed eran tempi difficili, ché fuori a dir
Gesuita era come dire subdola potenza o fosca nequizia, mentre
là dentro, all'ultimo piano del Collegio Romano sotto i tetti
(– dove era posta la scuola – di religione – gesuita dove l'Ojetti
fu educato –), tutto era ordine, fiducia, ilare benevolenza e, anche
in politica, tolleranza e mai una parola contro l'Italia, e mai,
come purtroppo accadeva nelle scuole di Stato, il basso ossequio
alla supremazia vera o immaginaria di questa o di quella cultura
straniera sulla nostra cultura». Ancora: ricorda di essere
«vecchio abbonato della "Civiltà Cattolica"» e
«fedele lettore degli articoli ch'Ella vi pubblica» e
perciò «io scrittore mi dirigo a lei scrittore, e le
dichiaro il mio caso di coscienza». C'è tutto: la
famiglia papalina, il battesimo nella chiesa gesuitica, l'educazione
gesuitica, l'idillio culturale di queste scuole, i gesuiti soli o
quasi soli rappresentanti della cultura nazionale, la lettura della
«Civiltà Cattolica», il padre Rosa come vecchia
guida spirituale dell'Ojetti, il ricorso dell'Ojetti oggi alla sua
guida per un caso di coscienza. L'Ojetti dunque non è un
cattolico di oggi, un cattolico dell'11 febbraio, per convenienza o
per moda; egli è un gesuita tradizionale, la sua vita
è un «esempio» da portare nelle prediche ecc.
L'Ojetti non è mai stato «made in Paris», non
è mai stato un dilettante dello scetticismo e
dell'agnosticismo, non è mai stato voltairriano, non ha mai
considerato il cattolicesimo tutto al piú come un puro
contenuto sentimentale delle arti figurative. Perciò l'11
febbraio l'ha trovato preparato ad accogliere la Conciliazione con
«ilare benevolenza»; egli non pensa neppure (dio liberi)
che si possa trattare di un instrumentum regni perché egli
stesso ha sentito «che forza sia nell'animo degli adolescenti
il fervore religioso, e come, una volta acceso, esso porti il suo
calore in tutti gli altri sentimenti, dall'amore per la patria e per
la famiglia fino alla dedizione verso i capi, dando alla formazione
morale del carattere addirittura un premio e una sanzione
divina». Non è questa, in compendio, la biografia, anzi
l'autobiografia dell'Ojetti? Però, però: «E la
poesia? E l'arte? E il giudizio critico? E il giudizio morale?
Tornerete tutti a obbedire ai Gesuiti?» domanda uno spiritello
all'Ojetti, nella persona di «un poeta francese, che è
davvero un poeta». L'Ojetti non per nulla è stato alla
scuola dei gesuiti: a queste domande ha trovato una soluzione
squisitamente gesuitica, salvo che in un aspetto: nell'averla
divulgata e resa aperta. L'Ojetti dovrebbe ancora migliorare la sua
«formazione morale del carattere» con sanzione e premio
divino: queste sono cose che si fanno e non si dicono. Ecco infatti
la soluzione dell'Ojetti: «... la Chiesa, fermi i suoi dogmi,
sa indulgere ai tempi e ben l'ha dimostrato nel Rinascimento (ma
dopo il Rinascimento c'è stata la Controriforma, di cui i
gesuiti sono appunto campioni e rappresentanti) e Pio undecimo,
umanista, sa di quant'aria abbisogni la poesia per respirare; e che
ormai da molti anni, senza aspettare la Conciliazione, anche in
Italia la cultura laica e quella religiosa collaborano cordialmente
nella scienza e nella storia». «Conciliazione non
è confusione. Il Papato condannerà com'è suo
diritto; il Governo d'Italia permetterà com'è suo
dovere. E Lei, se lo crederà opportuno, spiegherà
sulla "Civiltà Cattolica" i motivi della condanna e
difenderà le ragioni della fede; e noi qui, senza ira,
difenderemo le ragioni dell'arte, se proprio ne saremo convinti,
perché potrà darsi, come spesso è avvenuto da
Dante al Manzoni, da Raffaello al Canova, che anche a noi fede e
bellezza sembrino due lati dello stesso volto, due raggi della
stessa luce. E talvolta ci sarà caro educatamente discutere.
Baudelaire, ad esempio, è o non è un poeta
cattolico?» «Il fatto è che oggi il conflitto
pratico e storico è risolto. Ma quell'altro – tra assoluto e
relativo, tra spirito e corpo, eterno contrasto che è nella
coscienza di ciascuno di noi, dice Ojetti, cosa per cui B. Croce e
G. Gentile, non cattolici, furono contro il Modernismo (?),
soddisfatti (?) di vederlo sconfitto perché (?) sarebbe stato
la cattiva (?) Conciliazione, il subdolo equivoco fatto sacra
dottrina – che è intimo ed eterno (e se è eterno come
può essere conciliato?) non lo è, non può
esserlo; e l'aiuto che a ciascuno può dare e dà
quotidianamente la religione per risolverlo, a noi cattolici (come
si può essere cattolici col "contrasto eterno"? si può
essere tutt'al piú gesuiti!) la religione lo dava anche
prima. Pochezza nostra se non siamo riusciti ancora con quell'aiuto
a risolverlo una volta per sempre (!?); ma Ella sa che proprio dal
continuo risorgere, rinnovarsi e rinfocarsi di quell'eterno
conflitto sprizzano e sfavillano poesia ed arte».
Documento stupefacente davvero di gesuitismo e di bassezza morale.
L'Ojetti può creare una nuova setta supergesuitica: un
modernismo estetizzante gesuitico!
La risposta del p. Rosa è meno interessante perché
gesuiticamente piú anodina: il Rosa si guarda bene dal
guardare per il sottile nel cattolicismo di Ojetti e in quello dei
neo convertiti. Troppo presto: è bene che Ojetti e C. si
dicano cattolici e si strofinino ai gesuiti, forse anzi da loro non
si domanderà di piú. Dice bene il Rosa:
«convenienza o moda tuttavia – diciamolo tra noi in confidenza
e di passaggio – che è forse un minor male e quindi un certo
bene, rispetto a quella convenienza o moda antecedente, di futile
anticlericalismo e di gretto materialismo, per cui molti [...] si
tenevano lontani dalla professione della fede che pure serbavano
ancora in fondo all'anima "naturalmente cristiana"».
Ricercare il giudizio brusco e tagliente datone dal Carducci.
Alfredo Panzini. In altra nota è stato già rilevato
come F. Palazzi, nella sua recensione del libro di Panzini I giorni
del sole e del grano osservi come l'atteggiamento del Panzini verso
il contadino sia piuttosto quello del negriero che non quello di un
disinteressato e candido georgico; ma questa osservazione si
può estendere ad altri, oltre che al Panzini, che è
solo il tipo o la maschera di un'epoca. Ma altre osservazioni fa il
Palazzi che sono strettamente legate al Panzini (e collegate a certe
ossessioni del Panzini, come quella, per esempio della «livida
lama»). Scrive il Palazzi (ICS del giugno 1929): «Quando
(il Panzini) vi fa l'elogio, a mezza bocca, del frugale pasto
consumato sulle zolle, a guardarlo bene vi accorgerete che la sua
bocca fa le smorfie di disgusto e nell'intimo pensa come mai si
possa vivere di cipolle e di brodo nero spartano, quando Dio ha
messo sotto la terra il tartufo e in fondo al mare le ostriche.
[...]. "Una volta – egli confesserà – mi è venuto
anche da piangere". Ma quel pianto non sgorga dai suoi occhi, come
da quelli di Leone Tolstoi, per le miserie che sono sotto i suoi
occhi, per la bellezza intravista di certi umili atteggiamenti, per
la simpatia viva verso gli umili e gli afflitti che pur non mancano
tra i coltivatori rudi dei campi? Oh, no! egli piange perché
a sentir ricordati certi dimenticati nomi di masserizie, si ricorda
di quando sua madre li chiamava pure cosí, e si rivede
bambino e ripensa alla brevità ineluttabile della vita, alla
rapidità della morte che ci è sopra. "Signor
arciprete, mi raccomando: poca terra sopra la bara". Il Panzini
insomma piange perché si fa pena. Piange di sé e della
morte e non per gli altri. Egli passa accanto all'anima del
contadino senza vederla. Vede le apparenze esteriori, ode quel che
esce appena dalla sua bocca e si domanda se pel contadino la
proprietà non sia per caso sinonimo di "rubare"».
Nell'«Italia che scrive» del giugno 1929, Fernando
Palazzi, recensendo I giorni del sole e del grano del Panzini, nota:
«... soprattutto si occupa e si preoccupa della vita campestre
come può occuparsene un padrone che vuol essere tranquillo
sulle doti lavorative delle bestie da lavoro che possiede, sia di
quelle quadrupedi, sia di quelle bipedi e che a veder un campo
coltivato, pensa subito se il raccolto sarà quale
spera». Panzini negriero, in una parola.
La traduzione delle Opere e i Giorni di Esiodo, stampata dal Panzini
nel 1928 (prima nella «Nuova Antologia» poi in volumetto
Treves), è esaminata nel «Marzocco» del 3
febbraio 1929 da Angiolo Orvieto (Da Esiodo al Panzini). La
traduzione tecnicamente è molto imperfetta. Per ogni parola
del testo il Panzini ne adopera due o tre delle sue; si tratta
piú di una traduzione commento che di una traduzione, alla
quale manca «il colorito particolarissimo dell'originale,
salvo quella certa solennità maestosa ch'egli in piú
luoghi è riuscito a conservare». L'Orvieto cita alcuni
gravi spropositi del Panzini: invece d'«infermità che
portano la vecchiezza all'uomo» il Panzini traduce
«infermità che la vecchiezza porta agli uomini».
Esiodo parla della «quercia che porta in vetta le ghiande e in
mezzo (nel tronco) le api» e il Panzini traduce comicamente
«le querce montane (!) maturano le ghiande, e quelle delle
convalli (!) accolgono le api nel loro tronco», distinguendo
due famiglie di querce ecc. (un alunno di liceo sarebbe stato
bocciato per un tale sproposito). Per Esiodo le Muse sono
«donatrici di gloria coi carmi», per Panzini
«gloriose nell'arte del canto». Altri esempi porta
l'Orvieto in cui appare che oltre alla conoscenza superficiale del
greco, gli spropositi del Panzini siano anche dovuti al pregiudizio
politico (caso tipico di brescianesimo) come là dove muta il
testo per far partecipare Esiodo alla campagna demografica.
Sarà da vedere se le riviste di filologia classica si sono
occupate della traduzione del Panzini: in ogni modo l'articolo
dell'Orvieto mi pare sufficiente per il mio scopo (bisogna rivederlo
perché in questo momento me ne manca una parte).
La Vita di Cavour del Panzini è stata pubblicata a puntate
nell'«Italia Letteraria» nei numeri dal 9 giugno al 13
ottobre 1929 ed è stata ristampata (riveduta e corretta?
sarebbe interessante un esame minuzioso, se ne valesse la pena)
dall'editore Mondadori, in un volume delle «Scie» con
notevole ritardo. Nell'«Italia Letteraria» del 30
giugno, col titolo Chiarimento è pubblicata una lettera
inviata dal Panzini, con la data del 27 giugno 1929, al direttore
del «Resto del Carlino»: il Panzini, con stile seccato e
intimamente allarmato, si lamenta per un piccante commento,
pubblicato dal giornale bolognese alle due prime puntate del suo
scritto che era giudicato «piacevole giocherello» e
«cosa leggera». Il Panzini risponde in stile da
telegramma: «Nessuna intenzione scrivere una biografia alla
maniera romanzesca francese. Mia intenzione scrivere in stile
piacevole e drammatico, tutto però documentato (Carteggio
Nigra-Cavour)». (Come se la sola documentazione per la vita
del Cavour fosse questo Carteggio!) Il Panzini cerca poi di
difendersi, assai male, dall'aver accennato a una forma di dittatura
propria del Cavour, «umana», che ellitticamente poteva
sembrare un giudizio critico su altre forme di dittatura: figurarsi
la tremarella del Panzini nel procedere per questi
«ignes». L'episodio ha un certo significato,
perché mostra come molti si siano cominciati ad accorgere che
queste scritture pseudo-nazionali e patriottiche del Panzini sono
stucchevoli, insincere e mostrano la trama. L'imbecillità e
l'inettitudine del Panzini di fronte alla storia sono
incommensurabili: il suo scrivere è un puro e infantile gioco
di parole, ammantato di una specie di melensa ironia che dovrebbe
far credere all'esistenza di chissà mai quali
profondità, come quelle che certi contadini esprimono nel
loro ingenuo modo di parlare. Bertoldo storico! In realtà
è una forma di stenterellismo che si dà l'aria del
Machiavelli in maniche di camicia e non in abito curiale. Un'altra
puntata contro il Panzini si può leggere nella «Nuova
Italia» di quel torno di tempo: si dice che la Vita di Cavour
è scritta come se il Cavour fosse Pinocchio!
Né si può dire che lo stile del Panzini, nelle sue
scritture di storia, sia «piacevole e drammatico»: egli
è piuttosto farsesco e la storia è rappresentata come
una «piacevolezza» da commesso viaggiatore o da
farmacista di provincia: il farmacista è Panzini e i clienti
sono altrettanti Panzini che si beano della propria fatua
stupidaggine.
Tuttavia la Vita di Cavour ha una sua utilità: è una
raccolta stupefacente di luoghi comuni sul Risorgimento e un
documento di primo ordine del gesuitismo letterario del Panzini.
Esemplificazione: «Uno scrittore inglese ha chiamato la storia
dell'unità d'Italia la piú romanzesca storia dei tempi
moderni». (Il Panzini, oltre a creare luoghi comuni per gli
argomenti che tratta, si dà molto daffare per raccogliere
tutti i luoghi comuni che sullo stesso argomento sono stati messi in
circolazione da altri scrittori, specialmente stranieri, senza
accorgersi che in molti casi, come in questo, è implicito un
giudizio «diffamatorio» del popolo italiano: il Panzini
deve essersi fatto uno schedario speciale di luoghi comuni, per
condire opportunamente i propri scritti). «Re Vittorio era
nato con la spada e senza paura: due terribili baffi, un gran pizzo.
Gli piacevano le belle donne e la musica del cannone. Un gran
Re».
Questo luogo comune, questa oleografia da bettola di Vittorio
Emanuele è da unire all'altro sulla «tradizione»
militare del Piemonte e della sua aristocrazia. In realtà in
Piemonte è proprio mancata una «tradizione»
militare nel senso non burocratico della parola, cioè
è mancata una «continuità» di personale
militare di prim'ordine, e ciò è proprio apparso nelle
guerre del Risorgimento, in cui non si è rivelata nessuna
personalità (eccetto che nel campo garibaldino), ma invece
sono affiorate molte deficienze interne gravissime. In Piemonte
esisteva una tradizione militare «popolare»; dalla sua
popolazione era sempre possibile trarre un buon esercito; apparvero
di tanto in tanto capacità militari di primo ordine, come
Emanuele Filiberto, Carlo Emanuele ecc., ma mancò appunto una
tradizione, una continuità nell'aristocrazia,
nell'ufficialità superiore. La situazione fu aggravata dalla
restaurazione e la prova se ne ebbe nel '48 quando non si sapeva
dove metter le mani per dare un capo all'esercito e dopo aver
domandato invano un generale alla Francia, si finí con
l'assumere un minchione qualsiasi di polacco. Le qualità
guerriere di Vittorio Emanuele II consistevano solo in un certo
coraggio personale, che si dovrebbe pensare essere stato molto raro
in Italia se tanto si insiste per farlo rimarcare: lo stesso si dica
per il «galantomismo»; si dovrebbe pensare che in Italia
la stragrande maggioranza fosse di bricconi, se l'essere
galantuomini viene elevato a titolo di distinzione. A proposito di
Vittorio Emanuele II è da ricordare l'aneddoto riferito da F.
Martini nel suo libro postumo di memorie (ed. Treves); racconta il
Martini che dopo la presa di Roma Vittorio Emanuele abbia detto che
gli dispiaceva non ci fosse piú nulla da
«piè» (pigliare) e ciò a chi raccontava
l'aneddoto (credo Q. Sella) pareva dimostrare che non ci fosse stato
nella storia un re piú conquistatore di Vittorio Emanuele.
Dell'aneddoto si potrebbe dare forse altra spiegazione piú
terra terra, legata alla concezione dello stato patrimoniale e alla
varia misura della lista civile. È da ricordare poi
l'epistolario di Massimo D'Azeglio pubblicato dal Bollea nel
«Bollettino Storico Subalpino» e il conflitto tra
Vittorio Emanuele e Quintino Sella su quistioni economiche.
Ciò che poi stupisce molto è che si insista tanto
sugli episodi «galanti» della vita di Vittorio Emanuele
come se essi fossero tali da rendere piú popolare la figura
del re: si narra di alti funzionari e di ufficiali che andavano
nelle famiglie di contadini per convincerle a mandare delle ragazze
a letto col re per quattrini. A pensarci bene è stupefacente
che tali cose siano raccontate credendo di rafforzare l'ammirazione
popolare.
«... il Piemonte... ha una tradizione guerriera, ha una
nobiltà guerriera». Si potrebbe osservare che Napoleone
III, data la «tradizione» guerriera della sua famiglia,
si occupò di scienza militare e scrisse libri che pare non
fossero troppo malvagi per i suoi tempi.
«Le donne? Già, le donne. Su tale argomento egli
(Cavour) andava molto d'accordo col suo re, benché anche in
questo ci fosse qualche differenza. Re Vittorio era di molta buona
bocca come avrebbe potuto attestare la bella Rosina, che fu poi
contessa di Mirafiori», e via di questo tono fino a ricordare
che i propositi galanti (!) del re alla corte delle Tuglierí
(sic) furono cosí audaci «che tutte le dame ne rimasero
amabilmente (!) atterrite. Quel forte, magnifico Re
montanaro!» (Il Panzini si riferisce agli aneddoti raccontati
dal Paleologue, ma che differenza di tòcco. Il Paleologue,
pur data la materia scabrosa, mantiene il tono del gentiluomo
cortigiano: il Panzini non sa evitare il linguaggio del lenone da
trivio, del commerciante in tratta delle bianche). «Cavour era
assai piú raffinato. Cavallereschi però tutti e due, e
oserei (!) dire, romantici (!)». «Massimo D'Azeglio...
da quel gentiluomo delicato che era...».
L'accenno del Panzini, di cui si parla a p. 37 e che gli
attirò i fulmini... confinari del «Resto del
Carlino» è contenuto nella seconda puntata della Vita
di Cavour edizione «Italia Letteraria» (numero del 16
giugno) ed è bene riportarlo perché sarà stato
cassato o modificato nell'ed. Mondadori: «Non ha bisogno di
assumere atteggiamenti specifici. Ma in certi momenti doveva
apparire meraviglioso e terribile. L'aspetto della grandezza umana
è tale da indurre negli altri ubbidienza e terrore, e questa
è dittatura piú forte che non quella di assumere molti
portafogli nei ministeri».
Pare incredibile che una tale frase sia potuta sfuggire al pavido
Panzini ed è naturale che il «Resto del Carlino»
l'abbia beccato. Dalla risposta del Panzini si può spiegare
l'infortunio: «Quanto a certe puntate contro la dittatura,
forse fu errore fidarmi nella conoscenza storica del lettore.
Cavour, nel 1859, domandò (?!) i poteri dittatori assumendo
diversi portafogli, fra i quali quello della guerra, con molto (!?)
scandalo della allora quasi vergine costituzionalità. Non
questa materiale forma di dittatura indusse ad obbedienza, ma la
dittatura dell'umana grandezza di Cavour». Pare evidente che
l'intento del Panzini fosse adulatorio, ma la sua innocenza politica
e quindi storica gli diede lo sgambetto e trasformò
l'adulazione servile in una smorfia equivoca. Non si può
parlare di dittatura per il Cavour, tanto meno nel 1859 e anzi
questa fu una debolezza nello svolgimento della guerra e nella
posizione dei piemontesi in seno all'alleanza con Napoleone. Sono
note le opinioni del Cavour sulla dittatura e sulla funzione del
Parlamento, opinioni di cui il Panzini pavidamente tace, sebbene il
parlarne non sarebbe stato certo pericoloso. Ciò che è
curioso è che piú oltre il Panzini stesso mostra come
il Cavour fosse stato tagliato fuori dallo svolgimento della guerra
e sebbene ministro della guerra, non ricevesse neppure i bollettini
dell'esercito. Per un dittatore non c'è male. Il Cavour non
riuscí neppure a far valere le sue prerogative costituzionali
di capo del Governo, che del resto non erano contemplate nello
Statuto, e quindi il suo conflitto col re dopo l'armistizio di
Villafranca. In realtà non la politica di Cavour fu
continuata dalla guerra del '59, ma un miscuglio delle
velleità politiche di Napoleone e delle tendenze assolutiste
piemontesi impersonate dal re e da un gruppo di generali. Si
ripeté la situazione del 1848-49, e se non ci fu disastro
militare, ciò fu dovuto alla presenza dell'esercito francese:
ma il risultato della situazione politica anormale fu grave lo
stesso, perché nell'alleanza Napoleone ebbe l'egemonia
illimitata, e il Piemonte un posto troppo subordinato.
«... la guerra d'Oriente, una cosa piuttosto complicata, che
per chiarezza di discorso si omette». (Affermazione impagabile
per uno storico: si afferma che Cavour è stato un genio
politico ecc., ma l'affermazione non diventa mai dimostrazione e
rappresentazione concreta. Il significato della partecipazione
piemontese alla guerra di Crimea e della capacità politica di
Cavour nell'averla voluta, è «omesso» per
«chiarezza»). Il profilo di Napoleone III è
sguaiatamente triviale: non si cerca di spiegare perché
Napoleone abbia collaborato con Cavour (le citazioni d'appoggio
dovrebbero essere troppe: occorrerà rivedere il libro o
l'annata dell'«Italia Letteraria»).
«Al Museo napoleonico in Roma c'è un prezioso pugnale
con una lama che può passare il cuore (non è un
pugnale dei soliti, a quanto pare!)». «Può questo
pugnale servire di documento? Di pugnali io non ho esperienza (!),
ma sentii dire quello essere il pugnale carbonaro che si affidava a
chi entrava nella setta tenebrosa ecc.». (Il Panzini deve
sempre essere stato ossessionato dai pugnali: ricordare la
«livida lama» della Lanterna di Diogene. Forse si
è trovato per caso presente a qualche torbido in Romagna e
[deve] aver visto qualche paio d'occhi guatarlo biecamente: onde le
«livide lame» che passano il cuore ecc.).
«E chi volesse vedere come la setta carbonara assumesse
l'aspetto di Belzebú, legga il romanzo L'Ebreo di Verona di
Antonio Bresciani e si divertirà (sic) un mondo, anche
perché, a dispetto di quel che ne dicono i moderni (ma il De
Sanctis era contemporaneo del Bresciani), quel padre gesuita fu un
potente narratore». (Questo brano si potrebbe porre come
epigrafe al saggio sui «Nipotini del padre Bresciani»:
esso si trova nella puntata terza della Vita di Cavour edizione
dell'«Italia Letteraria», n. del 23 giugno 1929).
Tutta questa Vita di Cavour è una beffa della storia. Se le
vite romanzate sono la forma attuale della letteratura storica amena
tipo Alessandro Dumas, A. Panzini è il Ponson du Terrail del
quadro. Il Panzini vuole cosí ostentatamente mostrare di
«saperla lunga» sull'animo e sulla natura degli uomini,
di essere un cosí furbissimo furbo, un realista cosí
disincantato dalla tenebrosa nequizia dell'uman genere e
specialmente dei politici, che, dopo averlo letto, viene voglia di
rifugiarsi in Condorcet e in Bernardin de Saint-Pierre, che almeno
non furono cosí trivialmente filistei. Nessun nesso storico
è ricostruito nel fuoco di una personalità: la storia
ti diventa una sequela di storielle poco divertenti perché
insalivate dal Panzini, senza nesso né di
individualità eroiche, né di altre forze sociali;
quella del Panzini è veramente una nuova forma di gesuitismo,
molto piú accentuata di quanto si pensava leggendo la Vita a
puntate. Al luogo comune della «nobiltà guerriera e non
da anticamera» si possono contrapporre i giudizi che il
Panzini volta per volta dà dei singoli generali come il La
Marmora e il Della Rocca, spesso con espressioni di scherno
trivialmente spiritoso: «Della Rocca è un guerriero. A
Custoza, 1866, non brillerà per troppo valore, ma è un
ostinato guerriero e perciò tien duro coi bollettini».
(È proprio una frase da «demagogo». Il Della
Rocca non voleva piú mandare i bollettini dello Stato
Maggiore a Cavour, che ne aveva notato la cattiva compilazione
letteraria, alla quale collaborava il re). Altre allusioni del
genere per il La Marmora e per il Cialdini (anche se Cialdini non fu
piemontese) e mai è riferito il nome di un generale
piemontese che abbia in qualche modo brillato: altro accenno al
Persano.
Non si comprende proprio cosa il Panzini abbia voluto scrivere con
questa Vita di Cavour, perché non si tratta certo di una vita
di Cavour né di una biografia dell'uomo Cavour, né di
un profilo del politico Cavour. In verità, dal libro del
Panzini, il Cavour, uomo e politico, esce piuttosto malconcio e
ridotto a proporzioni da Gianduia: la sua figura non ha nessun
rilievo concreto, perché a dare un rilievo non bastano certo
le giaculatorie che il Panzini continuamente ripete: eroe, superbo,
genio ecc. Questi giudizi, non essendo giustificati (perciò
si tratta di giaculatorie), potrebbero addirittura parere
canzonature, se non si comprendesse che la misura che il Panzini
adopera per giudicare l'eroismo, la grandezza, il genio ecc. non
è altro che la sua personale misura, la genialità, la
grandezza, l'eroismo del sig. Panzini Alfredo. Allo stesso modo e
per la stessa ragione, il Panzini abbonda nel trovar attivi il dito
di dio, il fato, la provvidenza negli avvenimenti del Risorgimento;
si tratta della concezione volgare dello «stellone»
condita con parole da tragedia greca e da padre gesuita, ma non
perciò meno triviale. In realtà l'insistenza balorda
sull'«elemento extra umano» oltre che imbecillità
storica, significa diminuire la funzione dello sforzo italiano, che
pure ebbe non piccola parte negli avvenimenti. Cosa potrebbe
significare che la rivoluzione italiana è stata un evento
miracoloso? Che tra il fattore nazionale e quello internazionale
dell'evento, è l'internazionale che aveva il peso maggiore e
creava difficoltà che parevano insormontabili. È
questo il caso? Bisognerebbe dirlo e forse la grandezza di Cavour
sarebbe messa ben piú in rilievo e la sua funzione personale,
il suo «eroismo» apparirebbe ben piú da esaltare
(a parte ogni altra considerazione). Ma il Panzini vuol dare colpi a
molte botti con molti cerchi e non riesce a raccapezzare niente di
sensato: né egli sa cosa sia una rivoluzione e quali siano i
rivoluzionari: tutti furono grandi, rivoluzionari ecc. come al buio
tutti i gatti sono bigi.
Nell'«Italia Letteraria» del 2 giugno 1929 è
pubblicata un'intervista di Antonio Bruers col Panzini: Come e
perché Alfredo Panzini ha scritto una «Vita di
Cavour». Vi si dice che lo stesso Bruers ha indotto il Panzini
a scrivere il libro «in modo che il pubblico potesse avere
finalmente un "Cavour" italiano, dopo averne avuto uno tedesco, uno
inglese, e uno francese». Nell'intervista il Panzini dice che
la sua Vita «non è una monografia nel senso
storico-scientifico della parola; è un profilo destinato non
ai dotti, agli "specialisti" ma al vasto pubblico»
(cioè chincaglieria per negri). Il Panzini è persuaso
che nel suo libro ci siano delle parti originali e precisamente il
fatto di aver dato importanza all'attentato di Orsini per spiegare
l'atteggiamento di Napoleone III; secondo il Panzini Napoleone III
sarebbe stato inscritto da giovane alla Carboneria, «la quale
vincolò con impegno d'onore (!) il futuro sovrano della
Francia»; Orsini, mandatario della Carboneria (che non
esisteva piú da un bel pezzo) avrebbe ricordato a Napoleone
il suo impegno e quindi ecc. (proprio un romanzo alla Ponson du
Terrail; Orsini, se mai vi appartenne, doveva aver dimenticato, al
tempo dell'attentato, da un bel pezzo, la Carboneria; le sue
repressioni del '48 nelle Marche furono proprio dirette contro i
vecchi carbonari, e ancora, l'Orsini, dopo aver superato, come gli
altri rivoluzionari, la Carboneria nella «Giovane
Italia» e nel mazzinianismo, era stato già in rotta con
Mazzini). Le ragioni dell'atteggiamento personale di Napoleone verso
Orsini (che in ogni modo fu ghigliottinato) si spiegano forse
banalmente con la paura del complice sfuggito e che poteva ritentare
la prova; anche la grande serietà dell'Orsini che non era un
qualunque scalmanato, dovette imporsi e dimostrare che l'odio dei
rivoluzionari italiani per Napoleone non era una bazzecola:
occorreva far dimenticare la caduta della Repubblica Romana e
cercare di distruggere l'opinione diffusa che Napoleone fosse il
maggior nemico dell'unità d'Italia. Il Panzini poi dimentica
(per «chiarezza») che c'era stata la guerra di Crimea e
l'orientamento generale di Napoleone pro-italiano (che però,
essendo conservatore, non doveva essere gradito ai rivoluzionari);
tanto che l'attentato sembrò spezzare la trama già
ordita. Tutta l'ipotesi del Panzini si basa sull'aver visto il
famoso pugnale che passava il cuore e sull'ipotesi che fosse un
oggetto carbonaro: un romanzo alla Ponson e niente altro.
G. Papini. In Papini manca la rettitudine: dilettantismo morale. Nel
primo periodo della sua carriera letteraria questa deficienza non
impressionava, perché Papini basava la sua autorità su
se stesso, era il «partito di se stesso». Divertiva, non
poteva essere preso sul serio, altro che da pochi filistei
(ricordare la discussione con Annibale Pastore). Oggi Papini si
è innestato in un vasto movimento da cui trae
autorità: la sua attività è divenuta
perciò canagliesca nel senso piú spregevole, dello
sparafucile, del sicario mercenario. Se un bambino rompe i vetri per
divertirsi e per monelleria, sia pure artificiosa, è una
cosa: ma se rompe i vetri per conto dei venditori di vetro è
un'altra cosa.
Nel marzo 1932 Papini ha scritto un articolo nella «Nuova
Antologia» (contro Croce) e uno sul «Corriere della
Sera» sull'Edipo di A. Gide. Ho letto finora solo
quest'ultimo: è raffazzonato, prolisso, pomposo e vuoto. Nel
marzo devono essere nominati i nuovi Accademici che devono
completare i seggi dell'Accademia d'Italia: i due articoli sono
evidentemente la «tesi» e la «tesina» di
laurea di G. Papini.
È da vedere la conferenza Carducci, alma sdegnosa, tenuta dal
Papini a Forlí per l'inaugurazione della «Settimana
romagnola di poesia» e pubblicata nella «Nuova
Antologia» del 1° settembre 1933. La falsità,
l'insincerità istrionica di questa conferenza è tale
da cavar gli occhi.
Sarebbe interessante, oltre che per il Papini, fare una ricerca
dell'avversione contro Roma che fu di moda in Italia fino al 1919
nel movimento vociano e futurista. Discorso del Papini Contro Roma e
B. Croce; del binomio odioso per il Papini del 1913 è rimasto
odioso Benedetto Croce. Da confrontare l'atteggiamento verso il
Croce apertamente triviale di questo discorso sul Carducci e quello
untuosamente gesuitico e cristianuccio del saggio Il Croce e la
Croce.
Papini come apprendista gesuita. L'articolo di Papini nella
«Nuova Antologia» del 1° marzo 1932 (Il Croce e la
Croce) mi pare dimostri che anche come gesuita il Papini non
sarà mai piú che un modesto apprendista. Questo
è un vecchio somaro che vuole continuare a fare il somarello
nonostante il peso degli anni e gli acciacchi e sgambetta e saltella
turpemente. Mi pare che la caratteristica di questo articolo sia
l'insincerità. Vedere come il Papini inizi l'articolo coi
soliti lazzi stereotipati e meccanici contro il Croce e come verso
la fine, facendo l'agnello pasquale, annunzi untuosamente che nella
raccolta delle sue opere, gli scritti sul Croce saranno espurgati di
ogni «piacevolezza» e apparirà solo la
discussione «teorica». L'articolo è scritto di
getto, si vede, e nel corso della scrittura il Papini ha cambiato
atteggiamento, ma non si è curato d'intonare i latrati delle
prime pagine ai belati delle ultime: il letterato soddisfatto di
sé e dei colpi di fioretto, che egli crede azzeccati,
è sempre superiore al pseudocattolico, ma anche al gesuita,
ahi lui! e non ha voluto sacrificare il già scritto. Ma tutto
lo scritto appare impacciato, tirato, costruito meccanicamente, come
una ciliegia tira l'altra, specialmente la seconda parte, in cui la
ipocrisia traspare in modo repugnante. Mi pare però che
Papini appaia ossessionato dal Croce: il Croce ha in lui la funzione
della coscienza, delle «mani insanguinate» di lady
Macbeth, e che egli reagisca a questa ossessione ora facendo lo
spavaldo, tentando lo scherzo e lo sfottimento, ora piagnucolando
miseramente. Lo spettacolo è sempre pietoso. Lo stesso titolo
dell'articolo è sintomatico: che il Papini si serva della
«croce» per fare dei bisticci testimonia della
qualità letteraria del suo cattolicesimo.
È da notare come gli scrittori della «Civiltà
Cattolica» se lo tengono diletto, lo vezzeggiano, lo coccolano
e lo difendono da ogni accusa di poca ortodossia. Frasi di Papini
contenute nel libro su S. Agostino e che mostrano la tendenza al
secentismo (i gesuiti furono spiccati rappresentanti del
secentismo): «quando si dibatteva per uscire dalle cantine
dell'orgoglio a respirare l'aria divina dell'assoluto»,
«salire dal letamaio alle stelle» ecc. Papini si
è convertito non al cristianesimo, ma propriamente al
gesuitismo (si può dire, del resto, che il gesuitismo, col
suo culto del papa e l'organizzazione di un impero assoluto
spirituale, è la fase piú recente del cristianesimo
cattolico).
Il cattolicismo atteggia lo stile del Papini. Non dirà
piú «sette» ma «quanti sono i peccati
capitali»: «Non già che mancassero traduzioni
italiane del capo d'opera goethiano: il Manacorda ne ha tenute
presenti, fra integre e no, tante quanti sono i peccati
capitali» (Il Faust svelato in «Corriere della
Sera» del 26 aprile 1932).
G. Papini, quando voleva far venire i vermi ai filistei italiani,
nel 1912-13, scrisse in «Lacerba», l'articolo
Gesú Peccatore, sofistica raccolta di aneddoti e di sforzate
congetture tratte dagli Evangeli apocrifi. Per questo articolo
pareva dovesse subire un'azione giudiziaria, con grande suo
spavento. Aveva sostenuto come plausibile e probabile l'ipotesi di
rapporti omosessuali tra Gesú e Giovanni. Nel suo articolo su
Cristo romano, nel volume Gli operai della vigna, con gli stessi
procedimenti critici e lo stesso «vigore» intellettuale,
sostiene che Cesare è un precursore di Cristo, fatto nascere
a Roma dalla Provvidenza per preparare il terreno al cristianesimo.
In un terzo periodo è probabile che il Papini, impiegando le
geniali illuminazioni critiche che caratterizzano A. Loria, giunga a
concludere della necessità di rapporti tra il cristianesimo e
l'inversione.
Nell'«Italia Letteraria» del 27 agosto 1933 Luigi
Volpicelli cosí scrive di Papini (incidentalmente, in un
saggio su Problemi della letteratura d'oggi, uscito in varie
puntate): «Non basta a cinquant'anni – voglia perdonare Papini
la mia franchezza – non basta dire: lo scrittore dev'essere maestro;
occorre poter dire almeno: ecco qui, gente ruffiana, l'arte vera,
l'arte maestra. Ma limitarsi a proporre, nel cinquantesimo anno di
età, o giú di lí, lo scrittore come maestro,
quando maestri non si è mai stati, non vale nemmeno da mea
culpa. E già, siamo alle solite, infatti! Papini ha
esercitato tutti i mestieri, per poi sporcificarli tutti: il
filosofo, per concludere che la filosofia è una specie di
cancrena al cervelletto, il cattolico, per incenerare l'universo con
un appropriato dizionario, il letterato, per sancir da ultimo che
della letteratura non sappiamo che farcene. Ciò non toglie
che Papini non si sia conquistato un posticino nella storia della
letteratura dentro il capitolo i "polemisti". Ma la polemica vale
l'oratoria: è proprio la forma pura e vuota, è mero
amor di parola e di tecnica, di gesto, un calligrafismo spirituale e
congenito; insomma, la cosa piú lontana possibile dallo
scrittore come maestro».
Papini è sempre stato un «polemista» nel senso
che dice il Volpicelli, e lo è ancor oggi, poiché non
si sa se nell'espressione «polemista cattolico» a Papini
interessi piú il sostantivo o l'aggettivo. Col suo
«cattolicismo» Papini avrebbe voluto dimostrare di non
essere un puro «polemista», cioè un
«calligrafo», un funambolo della parola e della tecnica,
ma non c'è riuscito! Il Volpicelli ha torto nel non
precisare: il polemista è polemista di una concezione del
mondo, sia pure il mondo di Pulcinella, ma Papini è il
polemista «puro», il boxeur di professione della parola
qualsiasi: Volpicelli avrebbe dovuto giungere esplicitamente
all'affermazione che il cattolicismo in Papini è un vestito
da clown, non la «pelle» formata dal suo sangue
«rinnovato», ecc.
Prezzolini. Il Codice della Vita italiana (Editrice la S. A.
«La Voce», Firenze, 1921) conchiude il periodo
originario e originale dell'attività del Prezzolini, dello
scrittore moralista sempre in campagna per rinnovare e ammodernare
la cultura italiana. Subito dopo, Prezzolini «entra in
crisi», con alti e bassi curiosissimi, fino a imbrancarsi
nella corrente tradizionale e a lodare ciò che aveva
vituperato.
Un momento della crisi è rappresentato dalla lettera scritta
nel 1923 a P. Gobetti, Per una società degli Apoti,
ristampata nel volumetto Mi pare. Il Prezzolini sente che la sua
posizione di «spettatore» «è un po', un
pochino (!), vigliacca». «Non sarebbe nostro dovere di
prender parte? Non c'è qualche cosa di uggioso (!), di
antipatico (!), di mesto (!), nello spettacolo di questi giovani
[...] che stanno (quasi tutti) fuori della lotta, guardando i
combattenti e domandandosi soltanto come si danno i colpi e
perché e per come?» Trova una soluzione, molto comoda:
«Il nostro compito, la nostra utilità, per il momento
presente ed anche [...] per le contese stesse che ora dividono e
operano, per il travaglio stesso nel quale si prepara il mondo di
domani, non può essere che quello al quale ci siamo messi e
cioè di chiarire delle idee, di far risaltare dei valori, di
salvare, sopra le lotte, un patrimonio ideale, perché possa
tornare a dare frutti nei tempi futuri». Il modo di vedere la
situazione è strabiliante: «Il momento che si traversa
è talmente credulo (!), fanatico, partigiano, che un fermento
di critica, un elemento di pensiero (!), un nucleo di gente che
guardi sopra agli interessi, non può che fare del bene. Non
vediamo tanti dei migliori accecati? Oggi tutto è accettato
dalle folle (! e al tempo della guerra libica non era lo stesso?
eppure allora Prezzolini non si limitò a proporre una
Società di Apoti!): il documento falso, la leggenda
grossolana, la superstizione primitiva vengono ricevute senza esame,
a occhi chiusi, e proposte come rimedio materiale e spirituale. E
quanti dei capi hanno per aperto programma la schiavitú dello
spirito come rimedio agli stanchi, come rifugio ai disperati, come
sanatutto ai politici, come calmante agli esasperati. Noi potremmo
chiamarci la Congregazione degli Apoti, di "coloro che non le
bevono", tanto non solo l'abitudine ma la generale volontà di
berle è evidente e manifesta ovunque».
Un'affermazione di un gesuitismo sofistico singolare: «Ci
vuole che una minoranza, adatta a ciò, si sacrifichi se
occorre e rinunzi a molti successi esterni, sacrifichi anche il
desiderio di sacrifizio e di eroismo (!), non dirò per andare
proprio contro corrente, ma stabilendo un punto solido, dal quale il
movimento in avanti riprenderà», ecc. ecc.
Differenza tra il Prezzolini e Gobetti; vedere se la lettera ha
avuto risposta e quale.
L'articolo in cui Prezzolini difende la «Voce» e
«rivendica di pieno diritto un posto per essa nella
preparazione dell'Italia contemporanea» è citato nella
«Fiera Letteraria» del 24 febbraio 1929 e quindi deve
essere stato pubblicato nel «Lavoro fascista» di qualche
giorno prima (nei dieci giorni tra il 14 e il 24 febbraio).
L'articolo è stato provocato da una serie di articoletti
della «Tribuna» contro Papini, nel quale, per il suo
studio Su questa letteratura (pubblicato nel primo numero del
«Pègaso») si scoprivano tracce del vecchio
«protestantesimo» della «Voce». Lo scrittore
della «Tribuna» ex-nazionalista della prima «Idea
Nazionale» non riusciva ancora a dimenticare i vecchi rancori
contro la «Voce», mentre Prezzolini non ebbe il coraggio
di sostenere la sua posizione d'allora. Su questo argomento
Prezzolini pubblicò anche una lettera nel
«Davide» che usciva irregolarmente a Torino nel '25-'26
diretto da Gorgerino. Bisogna poi ricordare il suo libro sulla
Cultura Italiana del '23 e il suo volume sul «Fascismo»
(in francese). Se Prezzolini avesse coraggio civile potrebbe
ricordare che la sua «Voce» ha certamente molto influito
su alcuni elementi socialisti ed è stata un elemento di
revisionismo. Sua collaborazione e di Papini, nonché di molti
vociani, al primo «Popolo d'Italia».
Articolo di Giuseppe Prezzolini, Monti, Pellico, Manzoni, Foscolo
veduti da viaggiatori americani, in «Pègaso» del
maggio 1932. Prezzolini riferisce un brano del critico d'arte
americano H. Y. Tuckermann (The Italian Sketch-Book, 1848, p. 123):
«Alcuni dei giovani elementi liberali, in Italia, si
dimostrano assai disillusi perché uno, il quale stava per
diventare un martire della loro causa, si sia votato invece alla
devozione, e si mostrano spiacenti che egli abbia ad impiegar la sua
penna per scrivere inni cattolici e odi religiose».
Cosí commenta il Prezzolini: «Il dispetto che i
piú accesi provavano per non aver trovato in Pellico uno
strumento di piccola polemica politica, è dipinto in queste
"osservazioni"». Perché si dovesse trattare di volgare
«dispetto» e perché, prima del '48, la polemica
contro le persecuzioni austriache e clericali dovesse esser
«piccola» è appunto un mistero
«profano» della mentalità brescianesca.
Luca Beltrami (Polifilo). Per rintracciare gli scritti brescianeschi
del Beltrami (I popolari di Casate Olona) è da vedere la
Bibliografia degli scritti di Luca Beltrami, dal marzo 1881 al marzo
1930, curata da Fortunato Pintor, bibliotecario onorario del Senato,
con prefazione di Guido Mazzoni. Da un cenno pubblicato nel
«Marzocco» dell'11 maggio 1930 appare che gli scritti
del Beltrami sull'ipotetico «Casate Olona» sono stati
ben trentacinque. Il Beltrami ha postillato questa sua Bibliografia.
A proposito di «Casate Olona» il «Marzocco»
scrive: «... la bibliografia dei trentacinque scritti
sull'ipotetico "Casate Olona" gli suggerisce l'idea di ricomporre in
unità quelle sue dichiarazioni proposte e polemiche d'indole
politico-sociale che, male intonate a un regime democratico
parlamentare, sotto un certo aspetto devono considerarsi
un'anticipazione di cui altri – non il Beltrami – avrebbe potuto
menar vanto di antiveggente precursore (!?)». Il Beltrami era
un conservatore moderato e non è certo che il suo
«precorrimento» sia accettato con entusiasmo. I suoi
scritti, d'altronde, sono di una volgarità intellettuale
sconcertante.
Bellonci e Crémieux. La «Fiera Letteraria» del 15
gennaio 1928 riassume un articolo, abbastanza scemo e spropositante,
pubblicato da G. Bellonci nel «Giornale d'Italia». Il
Crémieux nel suo Panorama scrive che in Italia manca una
lingua moderna, ciò che è giusto in un senso molto
preciso: 1) che non esiste una concentrazione della classe colta
unitaria, i cui componenti scrivano e parlino «sempre»
una lingua «viva» unitaria, cioè diffusa
ugualmente in tutti gli strati sociali e gruppi regionali del paese;
2) che pertanto tra la classe colta e il popolo c'è un
distacco marcato: la lingua del popolo è ancora il dialetto,
col sussidio di un gergo italianizzante che in gran parte è
il dialetto tradotto meccanicamente. Esiste inoltre un forte
influsso dei vari dialetti nella lingua scritta, perché anche
la cosí detta classe colta parla la lingua nazionale in certi
momenti e i dialetti nella parlata famigliare, cioè in quella
piú viva e aderente alla realtà immediata; d'altra
parte, però, la reazione ai dialetti, fa sí che, nello
stesso tempo, la lingua nazionale rimanga un po' fossilizzata e
paludata e quando vuol essere famigliare si frange in tanti riflessi
dialettali. Oltre il tono del discorso (il cursus e la musica del
periodo) che caratterizza le regioni, sono influenzati il lessico,
la morfologia e specialmente la sintassi. Il Manzoni sciacquò
in Arno il suo lessico personale lombardizzante, meno la morfologia
e quasi affatto la sintassi, che è piú connaturata
allo stile, alla forma personale artistica e all'essenza nazionale
della lingua. Anche in Francia qualcosa di simile si verifica come
contrasto tra Parigi e la Provenza, ma in misura molto minore, quasi
trascurabile; in un confronto tra A. Daudet e Zola è stato
trovato che Daudet non conosce quasi piú il passato remoto
etimologico, che è sostituito dall'imperfetto, ciò che
in Zola si verifica solo casualmente.
Il Bellonci scrive contro l'affermazione del Crémieux:
«Sino al cinquecento le forme linguistiche scendono dall'alto,
dal seicento in poi salgono dal basso». Sproposito madornale,
per superficialità e per assenza di critica e di
capacità di distinguere. Poiché proprio fino al
Cinquecento Firenze esercita un'egemonia culturale, connessa alla
sua egemonia commerciale e finanziaria (papa Bonifazio VIII diceva
che i fiorentini erano il quinto elemento del mondo) e c'è
uno sviluppo linguistico unitario dal basso, dal popolo alle persone
colte, sviluppo rinforzato dai grandi scrittori fiorentini e
toscani. Dopo la decadenza di Firenze, l'italiano diventa sempre
piú la lingua di una casta chiusa, senza contatto vivo con
una parlata storica. Non è questa forse la quistione posta
dal Manzoni, di ritornare a un'egemonia fiorentina con mezzi
statali, ribattuta dall'Ascoli, che, piú storicista, non
crede alle egemonie culturali per decreto, non sorrette cioè
da una funzione nazionale piú profonda e necessaria?
La domanda del Bellonci: «Negherebbe forse, il
Crémieux, che esista (che sia esistita, avrà voluto
dire) una lingua greca perché vi hanno da essa varietà
doriche, joniche, eoliche?», è solo comica; mostra che
egli non ha capito il Crémieux e non capisce nulla in queste
quistioni, ma ragiona per categorie libresche, come lingua,
dialetto, «varietà», ecc.
Goffredo Bellonci, Pagine e idee, Edizione Sapientia, Roma. Pare che
sia una specie di storia della letteratura italiana originalmente
sovvertita dal luogo comune. Questo Bellonci è proprio una
macchietta del giornalismo letterario; un Bouvard delle idee e della
politica, una vittima di Mario Missiroli che era già una
vittima di Oriani e di Sorel.
Giovanni Ansaldo. In un posticino a parte, nella rubrica dei
«Nipotini del padre Bresciani» deve essere inserito
anche Giovanni Ansaldo. È da ricordare il suo dilettantismo
politico-letterario, che gli fece sostenere, in un certo periodo, la
necessità di «essere in pochi», di costituire
un'«aristocrazia»: il suo atteggiamento era banalmente
snobistico piú che espressione di un fermo convincimento
etico-politico, un modo di fare della letteratura
«distinta», da salotto equivoco. Cosí l'Ansaldo
è divenuto la «Stelletta nera» del
«Lavoro», stelletta con cinque punte, da non confondersi
con quella che nei «Problemi del Lavoro» serve a
indicare Franz Weiss e che ha sei punte (che l'Ansaldo ci tenga alle
sue cinque punte appare dall'Almanacco delle Muse del 1931, rubrica
genovese; l'Almanacco delle Muse fu pubblicato dall'Alleanza del
Libro). Per l'Ansaldo tutto diventa eleganza culturale e letteraria:
l'erudizione, la precisione, l'olio di ricino, il bastone, il
pugnale; la morale non è serietà morale ma eleganza,
fiore all'occhiello. Anche questo atteggiamento è gesuitico,
è una forma di culto del proprio particolare nell'ordine
dell'intelligenza, una esteriorità da sepolcro imbiancato.
Del resto, come dimenticare che appunto i gesuiti sono sempre stati
maestri di «eleganza» (gesuitica) di stile e di lingua?
Curzio Malaparte. Il suo vero nome è Kurt Erich Suckert,
italianizzato verso il 1924 in Malaparte per un bisticcio con i
Buonaparte (cfr. collezione della rivista «La Conquista dello
Stato»). Nel primo dopoguerra sfoggiò il nome
straniero. Appartenne all'organizzazione di Guglielmo Lucidi che
arieggiava al gruppo francese di «Clarté» di H.
Barbusse e al gruppo inglese del «Controllo
democratico»; nella collezione della rivista del Lucidi
intitolata «Rassegna (o Rivista) Internazionale»
pubblicò un libro di guerra La rivolta dei santi maledetti,
una esaltazione del presunto atteggiamento disfattista dei soldati
italiani a Caporetto, brescianescamente corretta in senso contrario
nella edizione successiva e quindi ritirata dal commercio. Il
carattere prevalente del Suckert è uno sfrenato arrivismo,
una smisurata vanità e uno snobismo camaleontesco: per aver
successo il Suckert era capace di ogni scelleraggine. Suoi libri
sull'Italia barbara e sua esaltazione della
«Controriforma»; niente di serio e di meno che
superficiale.
A proposito dell'esibizione del nome straniero (che a un certo punto
cozzava con gli accenni a un razzismo e popolarismo di princisbecco
e fu perciò sostituito dallo pseudonimo, in cui Kurt –
Corrado – viene latinizzato in Curzio) è da notare una
corrente abbastanza diffusa in certi intellettuali italiani del tipo
«moralisti» o moralizzatori: essi erano portati a
ritenere che all'estero si era piú onesti, piú capaci,
piú intelligenti che in Italia. Questa
«esteromania» assumeva forme tediose e talvolta
repugnanti in tipi invertebrati come il Graziadei, ma era piú
diffusa che non si creda e dava luogo a pose snobistiche rivoltanti;
è da ricordare il breve colloquio con Giuseppe Prezzolini a
Roma nel 1924 e la sua esclamazione sconsolata: «Avrei dovuto
procurare a tempo ai miei figli la nazionalità inglese»
o qualcosa di simile. Tale stato d'animo pare non sia stato
caratteristico solo di alcuni gruppi intellettuali italiani, ma si
sia verificato, in certe epoche di avvilimento morale, anche in
altri paesi. In ogni modo è un segno rilevante di assenza di
spirito nazionale-popolare oltre che di stupidaggine. Si confonde
tutto un popolo con alcuni strati corrotti di esso, specialmente
della piccola borghesia (in realtà poi questi signori, essi
stessi, appartengono essenzialmente a questi strati) che nei paesi
essenzialmente agricoli, arretrati civilmente e poveri, è
molto diffusa e può paragonarsi al Lumpen-proletariat delle
città industriali; la camorra e la maffia non è altro
che una simile forma di malavita che vive parassitariamente sui
grandi proprietari e sul contadiname. I moralizzatori cadono nel
pessimismo piú scempio perché le loro prediche
lasciano il tempo che trovano; i tipi come Prezzolini, invece di
concludere alla propria inettitudine organica, trovano piú
comodo giungere alla conclusione della inferiorità di un
intero popolo, per cui non rimane altro che accomodarsi: «Viva
Franza, viva Lamagna, purché se magna!» Questi uomini,
anche se talvolta mostrano un nazionalismo dei piú spinti,
dovrebbero essere segnati dalla polizia tra gli elementi capaci di
far la spia contro il proprio paese.
Vedi nell'«Italia Letteraria» del 3 gennaio 1932
l'articolo di Malaparte: Analisi cinica dell'Europa. Negli ultimi
giorni del 1931 nei locali dell'«École de la
Paix» a Parigi, l'ex Presidente Herriot tenne un discorso sui
mezzi migliori per organizzare la pace europea. Dopo Herriot
parlò il Malaparte in contradditorio: «Siccome anche
voi, sotto certi aspetti (sic), siete un rivoluzionario, dissi tra
l'altro a Herriot (scrive Malaparte nel suo articolo), penso che
siate in grado di capire che il problema della pace dovrebbe essere
considerato non solo dal punto di vista del pacifismo accademico, ma
anche da un punto di vista rivoluzionario. Soltanto lo spirito
patriottico e lo spirito rivoluzionario (se è vero, come
è vero, ad esempio, nel fascismo, che l'uno non esclude
l'altro) possono suggerire i mezzi di assicurare la pace europea. –
Io non sono un rivoluzionario, mi rispose Herriot; sono
semplicemente un cartesiano. Ma voi, caro Malaparte, non siete che
un patriota».
Cosí, per Malaparte, anche Herriot è un
rivoluzionario, almeno per certi aspetti, e allora diventa ancor
piú difficile comprendere cosa significa
«rivoluzionario» e per Malaparte e in generale. Se nel
linguaggio comune di certi gruppi politici, rivoluzionario stava
assumendo sempre piú il significato di
«attivista», di «interventista», di
«volontarista», di «dinamico» è
difficile dire come Herriot possa esserne qualificato e
perciò Herriot con spirito ha risposto di essere un
«cartesiano». Per Malaparte pare possa intendersi che
«rivoluzionario» è diventato un complimento, come
una volta «gentiluomo» o «grande galantuomo»
o «vero galantuomo» ecc. Anche questo è
brescianesimo: dopo il '48 i gesuiti chiamavano se stessi
«veri liberali» e i liberali, libertini e demagoghi.
L'accademia dei Dieci. Vedi articolo di C. Malaparte Una specie di
Accademia nella «Fiera Letteraria» del 3 giugno 1928: il
«Lavoro d'Italia» avrebbe pagato 150.000 lire il romanzo
Lo Zar non è morto scritto in cooperativa dai Dieci.
«Per il "Romanzo dei Dieci" i tesserati della Confederazione,
in grandissima maggioranza operai, hanno dovuto sborsare ben 150.000
lire. Perché? Per la sorprendente ragione che gli autori son
dieci e che fra i Dieci figurano, oltre i nomi del Presidente e del
Segretario generale del "Raduno", quelli del Segretario nazionale e
di due membri del Direttorio del Sindacato autori e scrittori!...
Che cuccagna il sindacalismo intellettuale di Giacomo di
Giacomo». Il Malaparte scrive ancora: «Se quei
dirigenti, cui si riferisce il nostro discorso, fossero fascisti,
non importa se di vecchia o di nuova data, avremmo seguito altra via
per denunciare gli sperperi e le camorre: ci saremmo rivolti,
cioè, al Segretario del P. N. F. Ma trattandosi di personaggi
senza tessera, politicamente poco puliti e mal compromessi alcuni,
altri infilatisi nei Sindacati all'ora del pranzo, abbiamo preferito
sbrigar le cose senza scandalo (!), con queste quattro parole dette
in pubblico». Questo pezzo è impagabile. Nell'articolo
c'è poi un attacco vivace contro Bodrero, allora
Sottosegretario all'Istruzione Pubblica e contro Fedele, ministro.
Nella «Fiera Letteraria» del 17 giugno, il Malaparte,
pubblica un secondo articolo Coda di Accademia in cui rincara
sornionamente la dose contro Bodrero e Fedele. (Fedele aveva mandato
una lettera sulla quistione Salgari, che fu il «pezzo
forte» del «Sindacato Scrittori» e che fece ridere
mezzo mondo).
«La Fiera letteraria» divenuta poi «L'Italia
letteraria» è stata sempre, ma sta diventando sempre
piú un sacco di patate. Ha due direttori, ma è come se
non ne avesse nessuno e un segretario esaminasse la posta in arrivo,
tirando a sorte gli articoli da pubblicare. Il curioso è che
i due direttori, Malaparte e Angioletti, non scrivono nel loro
giornale ma preferiscono altre vetrine. Le colonne della redazione
devono essere Titta Rosa ed Enrico Falqui, e dei due il piú
comico è quest'ultimo che compila la Rassegna della Stampa,
saltabeccando a destra e a sinistra, senza bussola e senza idee.
Titta Rosa è piú ponteficale e si dà arie da
grande pontefice disincantato anche quando scrive delle baggianate.
L'Angioletti pare abbastanza ritrosetto a lanciarsi in alto mare:
non ha l'improntitudine di Malaparte. È interessante notare
come l'«Italia letteraria» non si arrischi a dare
giudizi propri e aspetti che abbiano parlato prima i cani grossi.
Cosí è avvenuto per gl'Indifferenti di Moravia, ma
cosa piú grave per il Malagigi di Nino Savarese, libro
veramente saporoso, che fu recensito solo quando entrò in
terna per il premio dei trenta, mentre non era stato notato nelle
pagine della «Nuova Antologia». Le contraddizioni di
questo gruppo di graffiacarte sono veramente spassose, ma non vale
la pena di notarle. Ricordano i Bandar Log del Libro della Jungla:
«noi faremo, noi creeremo», ecc. ecc.
La «Fiera Letteraria» nel numero del 9 settembre 1928
pubblicò un manifesto Per un'unione letteraria europea
firmato da quattro settimanali letterari: «Les Nouvelles
Littéraires», di Parigi, «La Fiera
Letteraria» di Milano, «Die Literarische Welt» di
Berlino, «La Gaceta Literaria» di Madrid, in cui si
annunziava una certa collaborazione europea tra i letterati aderenti
a questi quattro giornali e quelli degli altri paesi europei, con
convegni annuali, ecc. In seguito non se ne parlò piú.
Adelchi Baratono. Ha scritto nel II fascicolo della rivista
«Glossa perenne» (che era diretta da Raffa Garzia e
iniziò a pubblicarsi nel 1928 o '29) un articolo sul
Novecentismo che deve essere ricchissimo di spunti
«sfottendi». Tra l'altro: «L'arte e la letteratura
di un tempo non può e non dev'essere (!) che quella
corrispondente alla vita (!) e al gusto del tempo, e tutte le
deplorazioni, come non servirebbero a mutarne l'ispirazione e la
forma, cosí sarebbero anche contrarie a ogni criterio (!)
storico (!) e quindi giusto (?) di giudicare».
Ma la vita e il gusto di un tempo sono qualcosa di monolitico o non
sono invece pieni di contraddizioni? E allora come si verifica la
«corrispondenza»? Il periodo del Risorgimento era
«corrisposto» dal Berchet o dal padre Bresciani? La
deplorazione lamentosa e moralistica sarebbe certo scema, ma si
può fare la critica e giudicare senza piangere. Il De Sanctis
era un fautore deciso della rivoluzione nazionale, tuttavia seppe
giudicare brillantemente il Guerrazzi e non solo il Bresciani.
L'agnosticismo del Baratono non è altro che vigliaccheria
morale e civile. Se fosse vero che un giudizio di merito sui
contemporanei è impossibile per difetto di
obbiettività e universalità, la critica dovrebbe
chiudere bottega; ma Baratono teorizza solo la propria impotenza
estetica e filosofica e la propria coniglieria.
I futuristi. Un gruppo di scolaretti che sono scappati da un
collegio di gesuiti, hanno fatto un po' di baccano nel bosco vicino
e sono stati ricondotti sotto la ferula dalla guardia campestre.
Novecentisti e strapaesani. Il Barocco e l'Arcadia adattati ai tempi
moderni. (Il solito Malaparte che fu redattore capo del
«900» di Bontempelli, divenne poco dopo il
«caposcuola» degli strapaesani e il calabrone
punzecchiatore di Bontempelli).
Novecentismo di Bontempelli. Il manifesto scritto da Bontempelli per
la rivista «900» non è altro che l'articolo di G.
Prezzolini Viva l'artificio! pubblicato nel 1915 e ristampato a p.
51 della raccolta di articoli Mi pare... (Fiume, Edizioni Delta,
1925). Il Bontempelli non ha fatto che svolgere e illanguidire,
meccanizzandoli, una serie di spunti contenuti nell'articolo del
Prezzolini. La commedia Nostra Dea del 1925 è una meccanica
estensione delle parole del Prezzolini stampate a pagina 56 di Mi
pare... È da rilevare che l'articolo del Prezzolini è
molto goffo e pedantesco: risente dello sforzo fatto dall'autore,
dopo l'esperienza di «Lacerba» per diventare piú
«leggero e brioso»: ciò che potrebbe essere
espresso in un epigramma viene masticato e insalivato con molte
smorfie tediose. Bontempelli imita la goffaggine moltiplicandola. Un
epigramma diventa in Prezzolini un articolo e in Bontempelli un
volume.
Stracittà e strapaese. Confrontare nell'«Italia
Letteraria» del 16 novembre 1930 la lettera aperta di Massimo
Bontempelli a G. B. Angioletti con postilla di quest'ultimo (Il
Novecentismo è vivo o è morto?). La lettera è
stata scritta dal Bontempelli subito dopo la sua nomina ad
Accademico e sprizza da ogni parola la soddisfazione dell'autore di
poter dire d'aver «fatto mordere la polvere» ai suoi
nemici, Malaparte e la banda dell'«Italiano». Questa
polemica di Strapaese contro Stracittà, secondo il
Bontempelli, era mossa da sentimenti oscuri e ignobili, cosa che si
può accettare, a chi tenga conto dell'arrivismo dimostrato
dal Malaparte in tutto il periodo dopo la guerra: era una lotta di
un gruppetto di letterati «ortodossi» che si vedevano
colpiti dalla «concorrenza sleale» dei letterati
già scrittori del «Mondo», come il Bontempelli,
l'Alvaro, ecc., e vollero dare un contenuto di tendenza
ideologico-artistico-culturale alla loro resistenza ecc.
Meschinità da una parte e dall'altra. La postilla
dell'Angioletti è ancora piú meschina della lettera
del Bontempelli.
Riccardo Bacchelli. Il diavolo al Pontelungo (ed. Ceschina, Milano).
Questo romanzo del Bacchelli è stato tradotto in inglese da
Orlo Williams e la «Fiera Letteraria» del 27 gennaio
1929 riporta l'introduzione del Williams alla sua traduzione. Il
Williams nota che il Diavolo al Pontelungo è «uno dei
pochi romanzi veri, nel senso che noi diciamo romanzo in
Inghilterra», ma non pone in rilievo (sebbene parli dell'altro
libro di Bacchelli Lo sa il tonno) che il Bacchelli è uno dei
pochi scrittori italiani che si possono chiamare
«moralisti» nel senso inglese e francese (ricordare che
il Bacchelli è stato collaboratore della «Voce» e
anzi per qualche tempo ne ha avuto la direzione in assenza del
Prezzolini); lo chiama invece raisonneur, poeta dotto: raisonneur
nel senso che troppo spesso interrompe l'azione del dramma con
commenti intorno ai moventi delle azioni umane in generale. (Lo sa
il tonno è il libro tipico di Bacchelli «morale»
e non pare molto ben riuscito). In una lettera al Williams,
riportata nell'introduzione, Bacchelli dà queste informazioni
sul Diavolo: «Nelle linee generali (!) il materiale è
storico strettamente (!) tanto nella prima che nella seconda parte.
Sono storici (!) i protagonisti, come Bakunin, Cafiero, Costa.
Nell'intendere l'epoca, le idee e i fatti, ho cercato d'essere
storico in senso stretto: rivoluzionarismo cosmopolita, primordi
della vita politica del Regno d'Italia, qualità del
socialismo italiano agli inizi, psicologia politica del popolo
italiano e suo ironico buon senso, suo istintivo e realistico
machiavellismo (sarebbe piuttosto da dire guicciardinismo nel senso
dell'uomo del Guicciardini di cui parla il De Sanctis) ecc. Le mie
fonti sono l'esperienza della vita politica fatte a Bologna, che
è la città politicamente piú suscettibile e
sottile d'Italia (mio padre era uomo politico, deputato liberale
conservatore) (il giudizio che il Bacchelli dà di Bologna
politica è essenzialmente giusto, ma non per il popolo, per
le classi possidenti e intellettuali collegate contro la campagna
irrequieta e violenta in modo elementare; a Bologna vivono in uno
stato permanente di panico sociale, con la paura di una jacquerie e
il timore aguzza l'orecchio politico), i ricordi di alcuni fra gli
ultimi sopravvissuti dei tempi e dell'Internazionale anarchica (ho
conosciuto uno che fu compagno e complice di Bakunin nei fatti di
Bologna del '74) e, per i libri, sopra tutto il capitolo del
professor Ettore Zoccoli nel suo libro sull'anarchia e i quaderni di
Bakunin che lo storiografo austriaco dell'anarchia, Nettlau, ha
ristampato nella sua rarissima biografia stampata in pochi
esemplari. Il francese (era invece svizzero) James Guillaume tratta
anch'egli di Bakunin e Cafiero nell'opera sull'Internazionale, che
non conosco, ma dalla quale credo di discostarmi in vari punti
importanti. Quest'opera fece parte (!) di una polemica posteriore
sulla Baronata di Locarno, della quale non mi sono curato (tuttavia
questa polemica illuminò il carattere di Bakunin e quindi i
suoi rapporti col Cafiero). Tratta di cose meschine e di quistioni
di danaro (puah!). Credo che Herzen, nelle sue memorie, abbia
scritto le parole piú giuste e piú umane intorno alla
personalità variabile, inquieta e confusa di Bakunin. Marx,
come non di rado, fu soltanto caustico e ingiurioso. In conclusione
credo di poterle dire che il libro si fonda sopra una base di
concetto sostanzialmente storico. Come e con quale sentimento
artistico io abbia saputo svolgere questo materiale europeo (!) e
rappresentativo, questo è argomento sul quale il giudicare
non spetta a me». (Il diavolo al Pontelungo è da porre
insieme a Pietro e Paolo del Sobrero per il chiaroscuro nel saggio
sui «nipotini del padre Bresciani»: del resto nel
Bacchelli c'è molto brescianesimo, non solo politico-sociale,
ma anche letterario: la «Ronda» fu una manifestazione di
gesuitismo artistico.
Jahier, Raimondi e Proudhon. Articolo di Giuseppe Raimondi Rione
Bolognina nella «Fiera Letteraria» del 17 giugno 1928;
ha in epigrafe questo motto di Proudhon: «La pauvreté
est bonne, et nous devons la considérer comme le principe de
notre allégresse». L'articolo è una specie di
manifesto «ideologico-autobiografico» e culmina in
queste frasi: «Come ogni operaio e ogni figlio di operaio, io
ho sempre avuto chiaro il senso della divisione delle classi
sociali. Io resterò, purtroppo (sic), fra quelli che
lavorano. Dall'altra parte, ci sono quelli che io posso rispettare,
per i quali posso anche provare della sincera gratitudine (!); ma
qualcosa mi impedisce di piangere (!) con loro, e non mi riesce di
abbracciarli con spontaneità (!). O mi mettono soggezione (!)
o li disprezzo». (Un bel modo di presentare una superiore
forma di dignità operaia!) «È nei sobborghi che
si sono sempre fatte le rivoluzioni, e il popolo non è da
nessuna parte cosí giovane, sradicato da ogni tradizione,
disposto a seguire un improvviso moto di passione collettivo, come
nei sobborghi, che non sono piú città e non sono
ancora campagna. [...] Di qui finirà per nascere una
civiltà nuova, e una storia che avrà quel senso di
rivolta e di riabilitazione secolare proprio dei popoli che solo la
morale dell'età moderna ha fatto riconoscere degni. Se ne
parlerà come oggi si parla del Risorgimento italiano e
dell'Indipendenza americana. L'operaio è di gusti semplici:
si istruisce con le dispense settimanali delle Scoperte della
Scienza e della Storia delle Crociate: la sua mentalità
resterà sempre quella un poco atea e garibaldina dei circoli
suburbani e delle Università Popolari. [...] Lasciategli i
suoi difetti, risparmiategli le vostre ironie. Il popolo non sa
scherzare. La sua modestia è vera, come la sua fiducia
nell'avvenire». (Molto oleografico, ma abbastanza alla moda
del Proudhon deteriore, anche nel tono assiomatico e perentorio).
Nell'«Italia Letteraria» del 21 luglio 1929 lo stesso
Raimondi parla della sua deferente amicizia per Piero Jahier, e
delle loro conversazioni: «... mi parla di Proudhon, della sua
grandezza e della sua modestia, dell'influenza che le sue idee hanno
esercitato nel mondo moderno, dell'importanza che queste idee hanno
assunto in un mondo retto dal lavoro socialmente organizzato, in un
mondo dove la coscienza degli uomini si va sempre piú
evolvendo e perfezionando in nome del lavoro e dei suoi interessi.
Proudhon ha fatto un mito, umano e vivente, di questi poveri (!)
interessi. In me l'ammirazione per Proudhon è piuttosto
sentimentale, d'istinto, come un affetto e un rispetto, che io ho
ereditato, che mi sono stati trasmessi nascendo. In Jahier è
tutta di intelletto, derivata dallo studio, perciò (!)
profondissima».
Questo signor Giuseppe Raimondi era un discreto poseur con la sua
«ammirazione ereditata»; aveva trovato uno dei cento
modi di distinguersi nella gioventú letterata odierna; ma da
qualche anno non se ne sente piú parlare. (Bolognese:
collabora con L. Longanesi nell'«Italiano», poi viene
violentemente e sprezzantemente diffidato dal Longanesi,
«rondista»).
Enrico Corradini. È stata ristampata nel 1928 nella
Collezione teatrale Barbera la Carlotta Corday di E. Corradini, che
nel 1907 o 8, quando fu scritta, ebbe accoglienze disastrose e [fu]
ritirata dalle scene. Il Corradini stampò il dramma con una
prefazione (anch'essa ristampata nella ed. Barbera) in cui accusava
del disastro un articolo dell'«Avanti!» che aveva
sostenuto il Corradini aver voluto diffamare la rivoluzione
francese. La prefazione del Corradini deve essere interessante anche
dal punto di vista teorico, per la compilazione di questa rubrica
del brescianesimo, perché il Corradini sembra far distinzione
fra «piccola politica» e «grande politica»
nelle «tesi» contenute nei lavori d'arte. Naturalmente
per il Corradini, la sua essendo «grande politica»,
l'accusa di «politicantismo» in sede artistica non
potrebbe essere elevata contro di lui. Ma la quistione è
un'altra: nelle opere d'arte si tratta di vedere se c'è
intrusione di elementi extra-artistici, siano questi di alto o di
basso carattere, cioè se si tratta di «arte» o di
oratoria a fini pratici. E tutta l'opera del Corradini è di
questo tipo: non arte e anche cattiva politica, cioè semplice
rettorica ideologica.
Saranno da vedere i giornali contenenti la sua commemorazione (il
Corradini è morto il 10 dicembre 1931). Del Corradini
è da vedere la sua teoria della «nazione
proletaria» in lotta con le nazioni plutocratiche e
capitaliste, teoria che serví di ponte ai sindacalisti per
passare al nazionalismo prima della guerra libica e dopo. La teoria
connessa col fatto dell'emigrazione di grandi masse di contadini in
America e quindi con la quistione meridionale. I romanzi e i drammi
del Corradini sotto rubrica del Brescianesimo.
Antonio Fradeletto. Già radicale massone, convertito poi al
cattolicismo. Era un pubblicista retorico sentimentale, oratore
delle grandi occasioni, rappresentava un tipo della vecchia cultura
italiana che pare tenda a sparire in quella forma primitiva,
perché il tipo si è universalizzato e stemperato.
Scrittori di argomenti artistici, letterari e
«patriottici». In ciò appunto consisteva il tipo:
che il patriottismo non era un sentimento diffuso e radicato, lo
stato d'animo di uno strato nazionale, un dato di fatto, ma una
«specialità oratoria» di una serie di
«personaggi» (cfr. Cian, per esempio), una qualifica
professionale per cosí dire. (Non confondere con i
nazionalisti, sebbene Corradini sia appartenuto a questo tipo e si
differenziasse in ciò dal Coppola e anche dal Federzoni.
Neanche D'Annunzio è mai rientrato perfettamente in questa
categoria. Ciò che è notevole è che sarebbe
molto difficile spiegare a uno straniero, specialmente a un
francese, in che consisteva questo tipo, che è legato allo
sviluppo particolare della cultura e della formazione nazionale
italiana. Nessun confronto possibile, per esempio, col Barrès
o con Peguy).
Mario Puccini. Cola o Ritratto dell'Italiano, Casa Editrice
Vecchioni, Aquila, 1927. Cola è un contadino toscano,
territoriale durante la guerra, nel quale il Puccini vorrebbe
rappresentare il «vecchio italiano» ecc.: «... il
carattere di Cola, [...] senza reazioni ma senza entusiasmi, capace
di fare il proprio dovere e anche di compiere qualche atto di valore
ma per obbedienza e per necessità e con un tenero rispetto
per la propria pelle, persuaso sí e no della necessità
della guerra ma senza nessun sospetto di valori eroici [...] il tipo
di una coscienza, se non completamente sorda, certo passiva alle
esigenze ideali, tra la bacchettona e pigra, resistente a guardare
oltre gli "ordini del governo" e oltre le modeste funzioni della
vita individuale, contento in una parola dell'esistenza di pianura
senza ambizione delle alte cime». (Dalla recensione pubblicata
nella «Nuova Antologia» del 16 marzo 1928, p. 270).
Ardengo Soffici. Filiazione del Lemmonio Boreo dal Jean-Christophe
di Romain Rolland. Perché il Lemmonio Boreo fu interrotto? Il
piglio donchisciottesco del Lemmonio Boreo è esteriore e
fittizio: in realtà esso manca di sostanza epico-lirica:
è una coroncina di fatterelli, non un organismo.
Potrebbe aversi in Italia un libro come il Jean-Christophe?
Jean-Christophe, a pensarci bene, conclude tutto un periodo della
letteratura popolare francese (dai Miserabili a Jean-Christophe); il
suo contenuto supera quello del periodo precedente: dalla democrazia
al sindacalismo. Jean-Christophe è il tentativo di un romanzo
«sindacalista» ma fallito: il Rolland era tutt'altro che
un antidemocratico, quantunque risentisse fortemente gli influssi
morali e intellettuali della temperie sindacalista.
Dal punto di vista nazionale-popolare quale era l'atteggiamento del
Soffici? Una esteriorità donchisciottesca senza elementi
ricostruttivi, una critica superficiale ed estetistica.
Giulio Bechi. Morto il 28 agosto 1917 al fronte (cfr. giornali e
riviste del tempo: ne scrisse Guido Biagi nel
«Marzocco»; cfr. i Profili e caratteri di Ermenegildo
Pistelli). Mario Puccioni (Militarismo e italianità negli
scritti di Giulio Bechi, nel «Marzocco» del 13 luglio
1930), scrive: «La mentalità dei parlamentari sardi
volle vedere in Caccia grossa solo un attacco spietato contro usi e
persone e riuscí a fargli passare un guaio – cosí
Giulio diceva con frase partenopea – di due mesi di arresto nella
fortezza di Belvedere»; ciò che non è esatto
perfettamente (pare che il Bechi sia stato sfidato a duello per aver
«parlato male delle donne sarde» e quindi punito
dall'autorità militare per essersi messo in condizioni di
essere sfidato). Il Bechi andò in Sardegna col 67°
fanteria. La quistione del contegno del Bechi nella repressione del
cosí detto brigantaggio nuorese, con misure da stato
d'assedio, illegali, e l'aver trattato la popolazione come negri,
arrestando in massa vecchi e bambini, risulta dal tono generale del
libro e dallo stesso titolo di esso ed è piú complessa
di quanto paia al Puccioni, il quale cerca di mettere in rilievo
come il Bechi protestasse per l'abbandono in cui era lasciata la
Sardegna e come esaltasse le virtú native dei sardi. Il libro
mostra invece come il Bechi abbia colto l'occasione di fare della
mediocre letteratura su avvenimenti gravi e tristi per la storia
nazionale.
Cfr. l'articoletto di Croce («I seminatori di G. Bechi»)
riportato nelle Conversazioni critiche, Serie seconda, pp. 348 sgg.
Il Croce dà un giudizio favorevole di questo romanzo e in
generale dell'opera letteraria del Bechi, specialmente della Caccia
grossa, sebbene distingua tra la parte «programmatica e
apologetica» del libro e la parte piú propriamente
artistica e drammatica. Ma anche Caccia grossa non è
essenzialmente un libro da politicante e dei peggiori che si possano
immaginare?
Lina Pietravalle. Dalla recensione scritta da Giulio Marzot del
romanzo della Pietravalle Le Catene (Mondadori, 1930, pp. 320, L.
12): «A chi domanda con quale sentimento partecipa alla vita
dei contadini, Felicia risponde: "Li amo come la terra, ma non
mischierò la terra col mio pane". C'è dunque la
coscienza di un distacco: si ammette che anche (!) il contadino
possa avere la sua dignità umana, ma lo si costringe entro i
limiti della sua condizione sociale».
Il Marzot ha scritto un saggio su Giovanni Verga ed è un
critico talvolta intelligente.
Sarebbe da studiare questo punto: se il naturalismo francese, nelle
sue pretese di obbiettività scientifica e sperimentale, non
contenesse già, in genere, la posizione ideologica che ebbe
poi grande sviluppo nel naturalismo o realismo provinciale italiano
e specialmente nel Verga: il popolo della campagna è visto
con «distacco», come «natura» estrinseca
sentimentalmente allo scrittore, come spettacolo ecc. È la
posizione di Io e le belve di Hagenbeck. In Italia, la pretesa
«naturalistica» dell'obbiettività sperimentale
degli scrittori francesi, che aveva un'origine polemica contro gli
scrittori aristocratici, si innestò in una posizione
ideologica preesistente, come appare dai Promessi Sposi, in cui
esiste lo stesso «distacco» dagli elementi popolari,
distacco appena velato da un benevolo sorriso ironico e
caricaturale. In ciò Manzoni si distingue dal Grossi che nel
Marco Visconti non canzona i popolani e persino dal D'Azeglio delle
Memorie, almeno per ciò che riguarda le note sulla
popolazione dei castelli romani.
Una sfinge senza enigmi. Nell'«Ambrosiano» dell'8 marzo
1932 Marco Ramperti aveva scritto un articolo La Corte di Salomone
in cui, tra l'altro scriveva: «Stamattina mi sono destato
sopra un "logogrifo" di quattro righe, intorno a cui avevo vegliato
nelle ultime sette ore di solitudine, senza naturalmente venirne a
capo di nulla. Ombra densa! Mistero senza fine! Al risveglio mi
accorsi, però, che nell'atonia febbrile avevo scambiato la
Corte di Salomone con l'Italia Letteraria, il "logogrifo" enigmatico
con un carme del poeta Ungaretti...». A queste eleganze del
Ramperti l'Ungaretti risponde con una lettera pubblicata
nell'«Italia Letteraria» del 10 aprile e che mi pare un
«segno dei tempi». Se ne possono ricavare quali
«rivendicazioni» l'Ungaretti ponga al «suo
paese» per essere compensato dei suoi meriti nazionali e
mondiali. (L'Ungaretti non è che un buffoncello di mediocre
intelligenza): «Caro Angioletti, di ritorno da un viaggio
faticoso per guadagnare lo scarso pane dei miei bimbi, trovo i
numeri dell'"Ambrosiano" e della "Stampa" nei quali un certo signor
Ramperti ha creduto di offendermi. Potrei rispondergli che la mia
poesia la capivano i contadini, miei fratelli, in trincea; la
capisce il mio Duce che volle onorarla di una prefazione; la
capiranno sempre i semplici e i dotti di buona fede. Potrei dirgli
che da 15 anni tutto ciò che di nuovo si fa in Italia e
fuori, porta in poesia l'impronta dei miei sogni e del mio tormento
espressivo; che i critici onesti, italiani e stranieri, non si fanno
pregare per riconoscerlo; e, del resto, non ho mai chiesto lodi a
nessuno. Potrei dirgli che una vita durissima come la mia,
fieramente italiana e fascista, sempre, davanti a stranieri e
connazionali, meriterebbe almeno di non vedersi accrescere le
difficoltà da parte di giornali italiani e fascisti. Dovrei
dirgli che se c'è cosa enigmatica nell'anno X (vivo
d'articoli nell'assoluta incertezza del domani, a quaranta anni
passati!), è solo l'ostinata cattiveria verso di me da parte
di gente di... spirito. – Con affetto – Giuseppe Ungaretti».
La lettera è un capolavoro di tartuferia letteraria e di
melensaggine presuntuosa.
Ugo Bernasconi. Scrittore di massime morali, novelliere, critico
d'arte e credo anche pittore. Collaboratore del
«Viandante» di Monicelli e quindi di una certa tendenza.
Si potrebbero estrarre alcune delle sue massime migliori.
«Vivere è sempre un adattarsi. Ma adattarsi a qualche
cosa per salvare qualche cos'altro. In questa alternativa si forma e
si palesa tutto il carattere di un uomo».
«La vera Babele non è tanto dove si parlano lingue
diverse, ma dove tutti credono di parlare la stessa lingua, e
ciascuno dà alle stesse parole un significato diverso».
«Tanto è il valore del pensiero teorico per un proficuo
operare, che talvolta può dare buon frutto anche la
piú balorda delle teorie, che è quella: non teorie ma
fatti». («Pègaso» del giugno 1933).
Ignobile pigiama. Bruno Barilli in un articolo della «Nuova
Antologia» (16 giugno 1929) chiama l'uniforme del bagno penale
«quella specie di ignobile pijama». Ma forse già
molti modi di vedere e di pensare a proposito delle cose carcerarie
sono andati mutando. Quando ero nel carcere di Milano ho letto nella
«Domenica del Corriere» una «Cartolina del
pubblico» che press'a poco diceva: «In treno due si
incontrano e uno dice che è stato 20 anni in carcere. –
"Certo per ragioni politiche" dice l'altro». Ma la punta
epigrammatica non è in questa risposta, come potrebbe
apparire nel riferimento. Dalla «cartolina» appare che
l'essere stato in carcere non desta piú repulsione,
perché si può esservi stati per ragioni politiche. E
le «cartoline del pubblico» sono uno dei documenti
piú tipici del senso comune popolare italiano. Il Barilli
è perfino al di sotto [di] questo senso comune: filisteo per
i filistei classici della «Domenica del Corriere».
Riccardo Balsamo-Crivelli. A proposito di «Cartoline del
Pubblico» della «Domenica del Corriere» è
da notare questo inciso del signor Domenico Claps («L'Italia
che scrive», giugno 1929) in un articolo su Riccardo
Balsamo-Crivelli (che nel titolo e nel sommario è confuso con
Gustavo!): «chi gliel'avrebbe detto che questo libro
(Cammina... cammina...) si sarebbe adottato come testo di lingua
all'Università di Francoforte?» Ahilui! una volta che
prima della guerra all'Università di Strasburgo adoperavano
come testo di lingua le «Cartoline del Pubblico»!
Naturalmente per Università bisogna intendere solo il
seminario di filologia romanza, chi sceglie non è il
professore ma solo il lettore d'italiano che può essere un
semplice studente universitario italiano e per «testo di
lingua» bisogna intendere il testo che dia agli studenti
tedeschi un modello della lingua parlata dalla media degli italiani
e non della lingua letteraria o artistica. La scelta delle
«Cartoline del Pubblico» è pertanto molto
assennata e il signor Domenico Claps è anch'egli un
«italiano meschino» al quale il Balsamo-Crivelli
dovrebbe mandare i padrini.
Tommaso Gallarati Scotti. Nella sua raccolta di novelle Storie
dell'Amor Sacro e dell'Amor Profano è da ricordare il
racconto in cui si parla del corpo di una prostituta saracena
portato nell'Italia Meridionale da un barone crociato e che la
popolazione adora come la reliquia di una santa: sono sbalorditive
le considerazioni del Gallarati Scotti, che pure è stato un
«modernista» antigesuita. Tutto ciò dopo la
novella boccaccesca di frate Cipolla e il romanzo del portoghese
Eça de Queiroz La Reliquia, tradotto da L. Siciliani (ed.
Rocco Carabba, Lanciano) e che è una derivazione del Cipolla
boccaccesco. I Bollandisti sono rispettabili, perché almeno
hanno contribuito a estirpare qualche radice di superstizione
(sebbene le loro ricerche rimangano chiuse in una cerchia molto
ristretta e servano piú che altro per far credere agli
intellettuali che la chiesa combatte le falsificazioni storiche),
l'estetismo gesuitico-folcloristico del Gallarati Scotti è
rivoltante. È da ricordare il dialogo riferito nelle Memorie
di W. Steed tra un giovane protestante e un Cardinale a proposito di
S. Gennaro e la noticina di B. Croce a una lettera di G. Sorel a
proposito di una sua conversazione con un prete napoletano sul
sangue di S. Gennaro (a Napoli esistono, pare, altri tre o quattro
sangui che bollono «miracolosamente» ma che non sono
«sfruttati» per non screditare quello popolarissimo di
S. Gennaro). La figura letteraria del Gallarati Scotti entra di
scorcio fra i nipotini di padre Bresciani.
Cardarelli e la Ronda. Nota di Luigi Russo su Cardarelli nella
«Nuova Italia» dell'ottobre 1930. Il Russo appunto trova
nel Cardarelli il tipo (moderno-fossile) di ciò che fu
l'abate Vito Fornari a Napoli in confronto del De Sanctis.
Dizionario della Crusca. Controriforma, Accademia, reazione, ecc.
Sulla Ronda e sugli accenni alla vita pratica del '19-'20-'21
confrontare Lorenzo Montano, Il Perdigiorno, Edizione dell'Italiano,
Bologna 1928 (sono raccolte nel volumetto le note d'attualità
del Montano pubblicate dalla Ronda).
Valentino Piccoli. Del Piccoli sarà utile ricordare la nota
Un libro per gli immemori (nei «Libri del giorno»
dell'ottobre 1928) in cui recensisce il libro di Mario Giampaoli
1919, (Roma-Milano, Libreria del Littorio, in 16°, pp. 335 con
40 illustrazioni fuori testo, L. 15). Il Piccoli adopera per il
Giampaoli gli stessi aggettivi che adopera per Dante, per Leopardi e
per qualsiasi grande scrittore che egli passa il tempo a coprire
delle sue allumacature. Ricorre spesso l'aggettivo
«austero», ecc., «pagine d'antologia», ecc.
Intellettuali siciliani. È interessante il gruppo del
«Ciclope» di Palermo. Mignosi, Pignato, Sciortino ecc.
Relazioni di questo gruppo con Piero Gobetti.
[Gli animali poveri.] Secondo Luigi Tonnelli («L'Italia che
scrive», marzo 1932, Pietro Mignosi) nel volume Epica e
santità del Mignosi (Palermo, Priulla, 1925) sarebbe
contenuto un «bellissimo "Canto" un po' alla Rimbaud, in lode
degli "animali poveri"», e cita: «vermi e sorci, mosche,
pidocchi e poeti, che tutte le armi della terra non riescono a
sterminare».
Ritratto del contadino italiano. Cfr. Fiabe e leggende popolari del
Pitré (p. 207), una novellina popolare siciliana, alla quale
(secondo D. Bulferetti nella «Fiera Letteraria» del 29
gennaio 1928) corrisponde una xilografia di vecchie stampe
veneziane, in cui si vede Iddio impartire dal cielo questi ordini:
al papa: tu prega, all'imperatore: tu proteggi, al contadino: e tu
affatica.
Lo spirito delle novelline popolari dà la concezione che di
se stesso e della sua posizione nel mondo il contadino si è
rassegnato ad assorbire dalla religione.
«Arte Cattolica». Edoardo Fenu, in un articolo Domande
su un'arte cattolica pubblicato nell'«Avvenire d'Italia»
e riassunto nella «Fiera Letteraria» del 15 gennaio
1928, rimprovera a «quasi tutti gli scrittori cattolici»
il tono apologetico. «Ora la difesa (!) della fede deve
scaturire dai fatti, dal processo critico (!) e naturale del
racconto, deve cioè essere, manzonianamente, il "sugo"
dell'arte stessa. È evidente (!) che uno scrittore cattolico
per davvero (!), non andrà mai a battere la fronte contro le
pareti opache (!) dell'eresia, morale o religiosa. Un cattolico, per
il solo fatto (!) di essere tale, è già investito (!
dal di fuori?) di quello spirito semplice e profondo che,
trasfondendosi nelle pagine di un racconto o di una poesia,
farà della sua (!) un'arte schietta, serena, nient'affatto
pedante. È dunque (!) perfettamente inutile intrattenersi a
ogni svolto di pagina a farci capire che lo scrittore ha una strada
da farci percorrere, ha una luce per illuminarci. L'arte cattolica
dovrà (!) mettersi in grado di essere essa medesima quella
strada e quella luce, senza smarrirsi nella fungaia (solo le lumache
si possono smarrire nelle fungaie) degli inutili predicozzi e degli
oziosi avvertimenti». (In letteratura) «... se ne togli
pochi nomi, Papini, Giuliotti, e in certo senso anche Manacorda, il
bilancio è pressoché fallimentare. Scuole... ne verbum
quidem. Scrittori? Sí; a voler essere di manica larga si
potrebbe tirar fuori qualche nome, ma quanto fiato per trarlo cogli
argani! A meno che non si voglia patentare per cattolico il Gotta, o
dar la qualifica di romanziere al Gennari, o battere un applauso a
quella caterva innumere di profumati e agghindati scrittori e
scrittrici per "signorine"».
Molte contraddizioni, improprietà e ingenuità melense
nell'articolo del Fenu. Ma la conclusione implicita è giusta:
il cattolicismo è sterile per l'arte, cioè non
esistono e non possono esistere «anime semplici e
sincere» che siano scrittori colti e artisti raffinati e
disciplinati. Il cattolicismo è diventato, per gli
intellettuali, una cosa molto difficile, che non può fare a
meno, anche nel proprio intimo, di una apologetica minuziosa e
pedantesca. Il fatto è già antico: risale al Concilio
di Trento e alla Controriforma. «Scrivere», d'allora in
poi, è diventato pericoloso, specialmente di cose e
sentimenti religiosi. Da allora la chiesa ha adoperato un doppio
metro, per misurare l'ortodossia: essere «cattolici»
è diventato cosa facilissima e difficilissima nello stesso
tempo. È cosa facilissima per il popolo, al quale non si
domanda che di «credere» genericamente e di avere
ossequio per le pratiche del culto: nessuna lotta effettiva ed
efficace contro la superstizione, contro le deviazioni intellettuali
e morali, purché non siano «teorizzate». In
realtà un contadino cattolico, intellettualmente può
essere inconscio protestante, ortodosso, idolatra: basta che dica di
essere «cattolico». Anche agli intellettuali non si
domanda molto, se si limitano alle esteriori pratiche del culto; non
si domanda neanche di credere, ma solo di non dare cattivo esempio,
trascurando i «sacramenti» specialmente quelli
piú visibili e sui quali cade il controllo popolare: il
battesimo, il matrimonio, i funerali (il viatico ecc.). È
invece difficilissimo essere intellettuale attivo
«cattolico» e artista «cattolico»
(romanziere specialmente e anche poeta), perché si domanda un
tale corredo di nozioni su encicliche, controencicliche, brevi,
lettere apostoliche ecc., e le deviazioni dall'indirizzo ortodosso
chiesastico sono state nella storia tante e cosí sottili che
cadere nell'eresia o nella mezza eresia o in un quarto di eresia
è cosa facilissima. Il sentimento religioso schietto è
stato disseccato: occorre essere dottrinari per scrivere
«ortodossamente». Perciò nell'arte la religione
non è piú un sentimento nativo, è un motivo,
uno spunto. E la letteratura cattolica può avere dei padri
Bresciani e degli Ugo Mioni, non può avere piú un S.
Francesco, un Passavanti, un [Tommaso] da Kempis; può essere
«milizia», propaganda, agitazione, non piú
ingenua effusione di fede che non è incontrastata, ma
polemizzata, anche nell'intimo di quelli che sono sinceramente
cattolici. L'esempio del Manzoni può essere portato a prova:
quanti articoli sul Manzoni ha pubblicato la «Civiltà
Cattolica» nel suoi 84 anni di vita e quanti su Dante? In
realtà i cattolici piú ortodossi diffidano del Manzoni
e ne parlano il meno che possono: certo non lo analizzano come fanno
per Dante e qualche altro.
Scrittori «tecnicamente» cattolici. È notevole la
scarsità degli scrittori cattolici in Italia, scarsità
che ha una sua ragione d'essere, nel fatto che la religione è
staccata dalla vita militante in tutte le sue manifestazioni.
S'intende «scrittori» che abbiano una qualche
dignità intellettuale e che producano opere d'arte, dramma,
poesia, romanzo. Già accennato al Gallarati Scotti per un
tratto caratteristico delle Storie dell'Amor Sacro e dell'Amor
Profano, che ha una sua dignità artistica ma che puzza di
modernismo. Paolo Arcari (piú noto come scrittore di saggi
letterari e politici, del resto già direttore della rivista
liberale «L'azione liberale» di Milano, ma che ha
scritto qualche romanzo). Luciano Gennari (che scrive in lingua
francese). Non è possibile un confronto tra l'attività
artistica dei cattolici francesi (e la statura letteraria) e quella
degli italiani. Crispolti ha scritto un romanzo di propaganda Il
Duello. In realtà, il cattolicismo italiano è sterile
nel campo letterario come negli altri campi della cultura (cfr.
Missiroli, Date a Cesare...) Maria di Borio (ricordare l'episodio
tipico della Di Borio durante la conferenza della indú
Arcandamaia sul valore delle religioni ecc.). Gruppo fiorentino del
«Frontespizio», guidato dal Papini, svolge una
attività letterario-cattolica estremista, ciò che
è una riprova dell'indifferentismo dello strato intellettuale
per la concezione religiosa.
Scrittori «tecnicamente» brescianeschi. Per questi
scrittori occorre vedere: Giovanni Casati, Scrittori cattolici
italiani viventi. Dizionario biobibliografico ed indice analitico
delle opere, con prefazione di Filippo Meda, Milano, Romolo
Ghirlanda editore. Via Unione 7, in 8°, pp. VIII-112, L. 15,00.
Di questo dizionario occorrerà vedere anche le possibili
successive edizioni e confrontarle tra loro, per controllare le
aggiunte o le omissioni volute.
Don Giovanni Casati è lo specialista cattolico in
bio-bibliografia. Dirige la «Rivista di Letture» che
consiglia e sconsiglia i libri da leggere e da acquistare per i
privati e per le biblioteche cattoliche; sta compilando un
repertorio Scrittori d'Italia dalle origini fino ai viventi in
ordine alfabetico (secondo l'articolo della «Civiltà
Cattolica» del 2 marzo 1929 da cui tolgo queste notizie, sono
comparsi finora quelli delle lettere A-B); ha scritto un volume di
Saggi di libri letterari condannati dall'Indice.
Nel dizionario degli Scrittori cattolici italiani viventi ne sono
registrati 591. Alcuni non risposero all'appello; il Casati, nel
caso di scrittori che pubblicano libri presso librerie non
cattoliche, ne ha interpretato il silenzio «come tacita
preghiera di non farli figurare nel dizionario». Bisognerebbe
vedere perché sono stati richiesti: perché
«battezzati» o perché nei loro libri appariva un
carattere strettamente e confessatamente «cattolico»?
Dice la «Civiltà Cattolica» che nel Dizionario
mancano, per esempio, Gaetano De Sanctis, Pietro Fedele e «non
pochi altri professori d'Università e scrittori di
vaglia». Il De Sanctis è certamente uno scrittore
«cattolico», volutamente, confessatamente cattolico: ma
Pietro Fedele? Lo sarà diventato negli ultimi anni; non lo fu
certamente almeno fino al 1924. Appare dunque che il criterio nel
fissare la «cattolicità» non è stato molto
rigoroso e che si è voluto confondere tra
«cattolici» scrittori e scrittori
«cattolici».
Nel Dizionario non sono inclusi i giornalisti e pubblicisti che non
hanno pubblicato qualche libro: cosí non appare il conte
Della Torre, direttore dell'«Osservatore Romano» e il
Calligari (Mikros) direttore dell'«Unità
Cattolica» (morto recentemente). Alcuni si scusano «per
modestia».
Chi sono i «convertiti» compresi nel Dizionario (Tipi:
Papini, Giuliotti, Mignosi, ecc.). Dice la «Civiltà
Cattolica»: «Dalla guerra in qua si nota un certo
ridestarsi della coscienza religiosa negli scrittori contemporanei,
un interessamento insolito per i problemi religiosi, un orientarsi
piú di frequente verso la Chiesa Cattolica, al quale
(orientarsi) avranno certamente non poco contribuito i convertiti
compresi nel dizionario del Casati».
Dei 591 scrittori cattolici italiani viventi, 374 («salvo
errore», scrive la «Civiltà Cattolica»)
sono uomini di Chiesa, sacerdoti e religiosi, tra cui tre cardinali,
nove vescovi, tre o quattro abati (senza contare Pio XI); 217 sono
laici, tra cui 49 donne: una sola donna è religiosa.
La «Civiltà Cattolica» nota qualche errore.
Esiste un Katholischer Literaturkalender (ed. Herder, Freiburg i.
B., 1926) che registra 5313 scrittori cattolici tedeschi. Per la
Francia, l'Almanach Catholique Français (pubblicato da Bloud
et Gay, Parigi, fin dal 1920) pubblica un piccolo dizionario delle
«principales personnalités catholiques». Per
l'Inghilterra, The Catholic Who's Who, 1928 (Londra, Burns Oates and
Washbourne).
La «Civiltà Cattolica» si augura che, allargati i
quadri (inclusione giornalisti e pubblicisti) e vinta la ritrosia
dei «modesti», l'elenco italiano si raddoppi, il che
sarebbe sempre ben poco. Il curioso è che la
«Civiltà Cattolica» parli di «snidare
alcuni dalla propria modestia» e accenna
all'«orientalista prof. P. S. Rivetta», il quale se
è modesto come «orientalista» e come «prof.
P. S. Rivetta», non è certo modesto come
«Toddi», freddurista del «Travaso delle
Idee», e redattore del foglio «Via Vittorio
Veneto» per le garçonnes e per i frequentatori dei
caffè di lusso e per tutti gli snobs.
Per questi scrittori è da confrontare Monsignor Giovanni
Casati, Scrittori Cattolici Italiani viventi. Dizionario
biobibliografico ed indice analitico delle opere, con prefazione di
F. Meda, pp. VIII-112, in-8°, nelle varie edizioni.
È da rilevare il fatto che da qualche anno gli scrittori
cattolici in senso stretto cercano di organizzarsi a sé, di
formare una corporazione solidale e che si controlla e si esalta
attraverso tutta una serie di pubblicazioni e di iniziative. Ragione
di questo atteggiamento militante e spesso aggressivo, che è
connesso alla nuova situazione che legalmente e ufficialmente il
cattolicismo è venuto conquistando nel paese.
Alessandro Luzio. Articolo di A. Luzio nel «Corriere della
Sera» del 25 marzo 1932 (La morte di Ugo Bassi e di Anita
Garibaldi) in cui si tenta una riabilitazione del padre Bresciani.
Le opere del Bresciani «al postutto non possono, quanto al
contenuto, venir liquidate con sommarie condanne». Il Luzio
pone insieme il saggio del De Sanctis con un epigramma del Manzoni
(il quale, interrogato se conoscesse l'Ebreo di Verona, avrebbe
risposto, secondo il diario di Margherita di Collegno: «Ho
letto i due primi periodi; paiono due sentinelle che dicano non
andate avanti») e poi chiama «sommarie» le
condanne; non c'è del gesuitico in questo furbo giocherello?
E ancora: «Non simpatico certo è il tono con cui egli,
portavoce della reazione susseguita ai moti del '48-49,
rappresentava e giudicava gli assertori delle aspirazioni nazionali:
ma in piú d'uno dei suoi racconti, soprattutto nel Don
Giovanni ossia il Benefattore occulto (volumi 26-27 della
"Civiltà Cattolica"), non mancano accenti di umana e
cristiana pietà per le vittime; parziali episodi vengono
equamente messi in bella luce, per esempio la morte di Ugo Bassi e
la straziante fine di Anita Garibaldi». Ma forse che il
Bresciani poteva far diversamente? Ed è proprio notevole, per
giudicare il Luzio, che egli dia per buono al Bresciani proprio il
suo gesuitismo e la sua demagogia di bassa lega.
Filippo Crispolti. Uno dei documenti piú brescianeschi del
Crispolti è l'articolo La madre di Leopardi nella
«Nuova Antologia» del 16 settembre 1929. Che dei puri
eruditi, appassionati anche delle minuzie biografiche dei grandi
uomini, come il Ferretti, abbiano cercato di
«riabilitare» la madre del Leopardi, non fa meraviglia:
ma le allumacature gesuitiche che il Crispolti sbava sullo scritto
del Ferretti, fanno ribrezzo. Tutto il tono è ripugnante,
intellettualmente e moralmente. Intellettualmente perché il
Crispolti interpreta la psicologia del Leopardi con i suoi
«grandi dolori» giovanili (certamente suo è il
manoscritto inedito di memorie cui si riferisce due volte) per
essere povero, cattivo ballerino e noioso conversatore: paragone
ripugnante. Moralmente perché il tentativo di giustificare la
madre del Leopardi è meschino, cavilloso, gesuitico nel senso
tecnico della parola. Davvero che tutte le madri aristocratiche dei
primi del secolo XIX erano come Adelaide Antici? Si potrebbero
portare documenti in contrario a profusione e anche l'esempio del
D'Azeglio non serve, perché la durezza nell'educazione fisica
per avere dei soldati, è ben diversa dalla secchezza morale e
sentimentale: quando il D'Azeglio bambino si ruppe il braccio e il
padre lo indusse a tenere nascosto il male una notte intera per non
spaventare la madre, chi non vede quale sostrato affettuoso
famigliare è contenuto nell'episodio e come ciò doveva
esaltare il bambino e legarlo piú intimamente ai genitori?
(Questo episodio del D'Azeglio è citato in un altro articolo
dello stesso fascicolo della «Nuova Antologia»,
Pellegrinaggio a Recanati, di Alessandro Varaldo). La difesa della
madre del Leopardi non è un puro fatto d'erudizione curiosa,
è un elemento ideologico, accanto alla riabilitazione dei
Borboni, ecc.
Ho già notato in altro paragrafo come il Crispolti non esiti
a porre se stesso come paradigma per giudicare il dolore del
Leopardi. Nel suo articolo Ombre di romanzi manzoniani il Manzoni
diventa paradigma per autogiudicare il romanzo effettivamente
scritto dal Crispolti Il duello e un altro romanzo Pio X che poi non
fu scritto. L'arroganza del Crispolti è persino ridicola: i
Promessi sposi trattano di un «impedimento brutale ad un
matrimonio», il Duello del Crispolti tratta del duello;
ambedue si riferiscono al dissidio che esiste nella società
tra l'adesione al Vangelo che condanna la violenza, e l'uso brutale
della violenza. C'è una differenza tra il Manzoni e il
Crispolti; il Manzoni proveniva dal giansenismo, il Crispolti
è un gesuita laico; il Manzoni era un liberale e un
democratico del cattolicesimo (sebbene di tipo aristocratico) ed era
favorevole alla caduta del potere temporale; il Crispolti era un
reazionario nerissimo e lo è rimasto; se si staccò
dagli intransigenti papalini e accettò di essere senatore
è stato solo perché voleva che i cattolici
diventassero il partito ultradestro della nazione.
È interessante la trama del romanzo non scritto Pio X solo
perché riferisce alcune difficoltà obbiettive che si
presentano nella convivenza a Roma di due potenze come la monarchia
e il papa, riconosciuto come sovrano già dalle guarentigie.
Ogni uscita del papa dal Vaticano per attraversare Roma domanda: 1)
ingenti spese statali per l'apparato d'onore dovuto al papa; 2)
è una minaccia di guerra civile perché bisogna
obbligare i partiti progressivi a non fare dimostrazioni e
implicitamente pone la quistione se questi partiti possano mai
andare al potere col loro programma, cioè interferisce sulla
sovranità dello Stato sinistramente.
In un articolo pubblicato nel «Momento» del giugno 1928
(prima quindicina, pare, perché riportato in estratto dalla
«Fiera Letteraria» dopo questo periodo) Filippo
Crispolti ha raccontato come qualmente, quando nel 1906 si
pensò in Isvezia di dare il premio Nobel a Giosuè
Carducci, nacque il dubbio che un simile attestato di ammirazione al
cantore di Satana potesse suscitare scandalo tra i cattolici: furono
chieste pertanto informazioni al Crispolti che le dette per lettera
e in un colloquio col ministro svedese a Roma, De Bildt. Le
informazioni del Crispolti furono favorevoli. Cosí, il premio
Nobel al Carducci sarebbe stato dato da nessun altro che da Filippo
Crispolti.
Un famoso parabolano arruffone è Antonio Bruers, uno dei
tanti tappi di sughero che salgono sulle creste melmose dei
bassifondi agitati. Nel «Lavoro fascista» del 23 agosto
1929 egli dà per probabile l'affermarsi in Italia di una
filosofia, «la quale, pur non rinunciando a nessuno dei valori
concreti dell'idealismo, è in grado di comprendere, nella sua
pienezza filosofica e sociale, l'esigenza religiosa. Questa
filosofia è lo spiritualismo, dottrina sintetica (!), la
quale non esclude l'immanenza, ma conferisce il primato logico (!)
alla trascendenza, riconosce praticamente (!) il dualismo e quindi
conferisce al determinismo, alla natura, un valore che si concilia
con le esigenze dello sperimentalismo». Questa dottrina
corrisponderebbe al «genio prevalente della stirpe
italica» di cui il Bruers, nonostante il nome esotico, sarebbe
naturalmente il coronamento storico, spirituale, immanente,
trascendente, ideale, determinato, pratico e sperimentale
nonché religioso.
Angelo Gatti. Suo romanzo Ilia e Alberto pubblicato nel 1931 (vedi):
romanzo autobiografico. Il Gatti si è convertito al
cattolicismo gesuitico. Tutta la chiave, il nodo centrale del
romanzo, è in questo fatto: Ilia, donna sana, riceve in bocca
gocciole di saliva di un tubercolotico, per uno starnuto o un colpo
di tosse (o che so io – non ho letto il romanzo, ma solo delle
recensioni) o altro; diventa tubercolotica e muore.
Mi pare strano e puerile che il Gatti abbia insistito su questo
particolare meccanico ed esterno, che pure nel romanzo deve essere
importante, se un recensore ci si è trattenuto. Ricorda le
solite sciocchezze che le comari dicono per spiegare le infezioni.
Forse Ilia stava sempre a bocca aperta dinanzi alla gente che le
tossiva e le starnutava sul viso in tramvai e nelle calche dove si
sta pigiati? E come ha potuto accertare che proprio quella sia stata
la causa del contagio? O si tratta di un ammalato che a bella posta
infettava la gente sana? È veramente strabiliante che il
Gatti si sia servito di questa ficelle per il suo romanzo.
Bruno Cicognani. Il romanzo Villa Beatrice. Storia di una donna,
pubblicato nel «Pègaso» del 1931. Il Cicognani
appartiene al gruppo di scrittori cattolici fiorentini: Papini,
Enrico Pea, Domenico Giuliotti.
Villa Beatrice può chiamarsi il romanzo della filosofia
neoscolastica di padre Gemelli, il romanzo del
«materialismo» cattolico, un romanzo della
«psicologia sperimentale» tanto cara ai neoscolastici e
ai gesuiti? Confronto tra romanzi psicoanalitici e il romanzo di
Cicognani. È difficile dire in che cosa la dottrina e la
religiosità del cattolicismo contribuiscano alla costruzione
del romanzo (dei caratteri del dramma): nella conclusione,
l'intervento del prete è esteriore, il risveglio religioso in
Beatrice è solamente affermato, e i mutamenti nella
protagonista potrebbero anche solo essere giustificati da ragioni
fisiologiche. Tutta la personalità, se può parlarsi di
personalità, di Beatrice, è descritta minuziosamente
come un fenomeno di storia naturale, non è rappresentata
artisticamente: il Cicognani «scrive bene», nel senso
volgare della parola, come «scriverebbe bene» un
trattato del gioco degli scacchi. Beatrice è
«descritta»; come la freddezza sentimentale
impersonificata e tipizzata. Perché essa è
«incapace» di amare e di entrare in relazione affettiva
con chiunque altro (anche la madre e il padre) in un modo esasperato
e da decalcomania? Ella è fisiologicamente imperfetta negli
organi genitali, soffre fisiologicamente nell'abbraccio e non
potrebbe partorire? Ma questa imperfezione intima (e perché
la natura non la costruí brutta esteriormente, indesiderabile
ecc.? Contraddizione della natura!) è dovuta al fatto che
ella soffre di cuore. Il Cicognani crede che fin dallo stato di
ovulo fecondato il nuovo essere che eredita una malattia organica si
prepara alla difesa contro l'attacco futuro del male: ecco che
l'ovulo-Beatrice, nata con il cuore debole, si costruisce un organo
sessuale imperfetto che la farà repugnare dall'amore e da
ogni emotività ecc. ecc. Tutta questa teoria è del
Cicognani, è il quadro generale del romanzo: naturalmente
Beatrice non è cosciente di questa determinazione della sua
esistenza psichica; essa non opera perché crede di essere
cosí, ma opera perché è cosí all'infuori
della sua coscienza: in realtà la sua coscienza non è
rappresentata, non è un motore che spieghi il dramma.
Beatrice è un «pezzo anatomico» non una donna.
Il Cicognani non evita le contraddizioni, perché pare che
talvolta Beatrice soffra di dover essere fredda, come se questa
sofferenza non fosse essa stessa una «passione» che
potrebbe precipitare il mal di cuore; pare quindi che solo l'unione
sessuale e il concepimento col parto siano pericolosi «per la
natura», ma allora la natura avrebbe dovuto provvedere
altrimenti alla «salvaguardia» dell'ovaia di Beatrice:
avrebbe dovuto costruirla «sterile» o meglio
«fisiologicamente» incapace di unione sessuale. Tutto
questo pasticcio Ugo Ojetti ha esaltato come il raggiungimento da
parte del Cicognani della «classicità artistica».
Il modo di pensare del Cicognani potrebbe essere incoerente ed egli
potrebbe aver scritto tuttavia un bel romanzo: ma questo appunto non
è il caso.
Su Bruno Cicognani scrive Alfredo Gargiulo nell'«Italia
Letteraria» del 24 agosto 1930 (cap. XIX di 1900-1930):
«L'uomo e l'artista fanno nel Cicognani una cosa sola:
nondimeno si sente il bisogno di dichiarar subito, quasi in separata
sede (!), la simpatia che ispira l'uomo. L'umanissimo Cicognani!
Qualche sconfinamento, lieve del resto, nell'umanitarismo di tipo
romantico o slavo: che importa? Ognuno sarà disposto a
perdonarglielo, in omaggio a quell'autentica (!) fondamentale
umanità». Dal seguito non si capisce bene ciò
che il Gargiulo intende dire: è forse «mostruoso»
criticamente che l'uomo e l'artista si identifichino? O la
attività artistica non è l'umanità
dell'artista? E cosa significa quell'aggettivo
«autentica» e l'altro «fondamentale»? Sono
sinonimi dell'aggettivo «vero» che ormai è
screditato per la sua vacuità. (Occorrerà, per questa
rubrica, rileggere tutta l'esposizione del Gargiulo).
Umanità «autentica, fondamentale» può
significare concretamente, nel campo artistico, una cosa sola:
«storicità», cioè carattere
«nazionale-popolare» dello scrittore, sia pure nel senso
largo di «socialità», anche in senso
aristocratico, purché il gruppo sociale che si esprime sia
vivo storicamente e il «collegamento» sociale non sia di
carattere «pratico-politico» immediato, cioè
predicatorio-moralistico, ma storico o etico-politico.
Arnaldo Frateili. È il critico letterario della
«Tribuna», ma appartiene alla schiera intellettuale dei
Forges che isterilisce la terra ove pone piede. Ha scritto un
romanzo Capogiro (Milano, Bompiani, 1932). Frateili: si presenta
alla fantasia come appare in una caricatura-ritratto pubblicata
dall'«Italia Letteraria»: una faccia da fesso
pretenzioso con la goccetta al naso. Prende tabacco il Frateili? Ha
il cimurro il Frateili? Perché quella goccetta? Si tratta di
un errore «zincografico»? di un colpo di matita fuori
programma? E perché allora il disegnatore non ha cancellato
la goccetta? Problemi angosciosi: i soli che interessano a proposito
del Frateili.
Sentimento religioso e intellettuali del secolo XIX (fino alla
guerra mondiale). Nel 1921 l'editore Bocca di Torino raccolse in tre
grossi volumi, con prefazione di D. Parodi, una serie di Confessioni
e professioni di fede di Letterati, Filosofi, uomini politici, ecc.,
apparse precedentemente nella rivista «Coenobium»,
pubblicata a Lugano dal Bignami, come risposte a un quistionario sul
sentimento religioso e i suoi diversi rapporti. La raccolta
può essere interessante per chi vuole studiare le correnti di
opinione verso la fine del secolo scorso e il principio dell'attuale
tra gli intellettuali specialmente «democratici»,
sebbene sia difettosa per molti aspetti. Nel 1° volume sono
contenute le risposte dei seguenti letterati, ecc. italiani: Angiolo
Silvio Novaro, prof. Alfredo Poggi, prof. Enrico Catellani, Raffaele
Ottolenghi, prof. Bernardino Varisco, Augusto Agabiti, prof. A.
Renda, Vittore Marchi, direttore del giornale «Dio e
Popolo», Ugo Janni, pastore valdese, A. Paolo Nunzio, Pietro
Ridolfi Bolognesi, Nicola Toscano Stanziale, direttore della
«Rassegna critica», dott. Giuseppe Gasco, Luigi Di
Mattia, Ugo Perucci, maestro elementare, prof. Casimiro Tosini,
direttore di Scuola Normale, Adolfo Artioli, prof. Giuseppe Morando,
direttore della «Rivista Rosminiana», preside del Liceo
Ginnasio di Voghera, prof. Alberto Friscia, Vittorio Nardi, Luigi
Marrocco, pubblicista, G. B. Penne, Guido Piccardi, Renato Bruni,
prof. Giuseppe Rensi.
Nel 2° volume: Francesco Del Greco, prof. direttore di
Manicomio, Alessandro Bonucci, prof. d'Università, Francesco
Cosentini, prof. d'Università, Luigi Pera, medico, Filippo
Abignente, direttore del «Carattere», Giampiero Turati,
Bruno Franchi, redattore-capo della «Scuola Positiva di
Diritto Criminale», Manfredi Siotto-Pintor, prof. di
Università, prof. Enrico Caporali, Giovanni Lanzalone,
direttore della rivista «Arte e Morale», Leonardo
Gatto-Roissard, tenente degli alpini, Pietro Raveggi, pubblicista,
Widar Cesarini-Sforza, Leopoldo De Angelis, prof. Giovanni Predieri,
Orazio Bacci, Giuseppe Benetti, pubblicista, prof. G. Capra-Cordova,
Costanza Palazzo, Pietro Romano, Giulio Carvaglio, Leone Luzzatto,
Adolfo Faggi, prof. d'Università, Ercole Quadrelli, Carlo
Francesco Gabba, senatore, prof. di Università, dott. Ernesto
Lattes, pubblicista, Settimio Corti, prof. di filosofia, Bruno
Villanova d'Ardenghi (Bruno Brunelli), pubblicista, Paolo Calvino,
pastore evangelico, prof. Giuseppe Lipparini, prof. Oreste Ferrini,
prof. Luigi Rossi Casè, prof. Antioco Zucca, Vittoria Fabrizi
de' Biani, prof. Guido Falorsi, prof. Benedetto De Luca,
pubblicista, Giacomo Levi Minzi, bibliofilo (!) della Marciana,
prof. Alessandro Arrò, Bice Sacchi, prof. Ferdinando
Belloni-Filippi, Nella Doria-Cambon, prof. Romeo Manzoni.
Nel 3° volume: Romolo Murri, Giovanni Vidari, professore
d'Università, Luigi Ambrosi, prof. d'Università,
Salvatore Farina, Angelo Flavio Guidi, pubblicista, Conte Alessandro
d'Aquino, Baldassarre Labanca, prof. di Storia del Cristianesimo
all'Università, Giannino Antona-Traversi, autore drammatico,
prof. Mario Pilo, Alessandro Sacchi, prof. d'Università,
Angelo De Gubernatis, prof. d'Università, Giuseppe Sergi,
prof. d'Università, Adolfo Zerboglio, prof.
d'Università, Vittorio Benini, prof. d'Università,
Paolo Arcari, Andrea Lo Forte Randi, Arnaldo Cervesato, Giuseppe
Cimbali, prof. d'Università, Alfredo Melani, architetto,
Silvio Adrasto Barbi, prof., prof. Massimo Bontempelli, Achille
Monti, prof. Università, Velleda Benetti, studentessa,
Achille Loria, prof. Francesco Pietropaolo, prof. Amilcare Lauria,
Eugenio Bermani, scrittore, Ugo Fortini del Giglio, avv. Luigi
Puccio, Maria Nono-Villari, scrittrice, Gian Pietro Lucini, Angelo
Valdarmini, prof. Università, Teresina Bontempi, ispettrice
degli asili d'infanzia nel Canton Ticino, Luigi Antonio Villari,
Guido Podrecca, Alfredo Panzini, avv. Amedeo Massari, prof. Giuseppe
Barone, Giulio Caprin, avv. Gabriele Morelli, Riccardo Gradassi
Luzi, Torquato Zucchelli, tenente colonnello onorario (sic),
Ricciotto Canudo, prof. Felice Momigliano, Attilio Begey, Antonino
Anile, prof. Università, Enrico Morselli, professore
Università, Francesco Di Gennaro, Ezio Maria Gray, Roberto
Ardigò, Arturo Graf, Pio Viazzi, Innocenzo Cappa, duca
Colonna Di Cesarò, Pasquale Villari, Antonio Cippico,
Alessandro Groppali, prof. Università, Angelo Marzorati,
Italo Pizzi, Angelo Crespi, E. A. Marescotti, F. Belloni-Filippi,
prof. Università, Francesco Porro, astronomo, prof. Fortunato
Rizzi.
Un criterio metodico da tener presente nell'esaminare lo
atteggiamento degli intellettuali italiani verso la religione (prima
del Concordato) è dato da ciò che in Italia i rapporti
tra Stato e Chiesa erano molto piú complessi che negli altri
paesi: essere patriotta significò essere anticlericale, anche
se si era cattolici, sentire «nazionalmente» significava
diffidare del Vaticano e delle sue rivendicazioni territoriali e
politiche. Ricordare come il «Corriere della Sera» in
una elezione parziale a Milano, prima del 1914, combatté la
candidatura del marchese Cornaggia, temporalista, preferendo che
fosse eletto il candidato socialista.