Testi
Saggio del Croce: Questa tavola rotonda è quadrata. Il saggio
è sbagliato anche dal punto di vista crociano (della
filosofia crociana). Lo stesso impiego che il Croce fa della
proposizione mostra che essa è «espressiva» e
quindi giustificata: si può dir lo stesso di ogni
«proposizione», anche non «tecnicamente»
grammaticale, che può essere espressiva e giustificata in
quanto ha una funzione, sia pure negativa (per mostrare
l'«errore» di grammatica si può impiegare una
sgrammaticatura). Il problema va quindi posto in altro modo, nei
termini di «disciplina alla storicità del
linguaggio» nel caso delle «sgrammaticature» (che
sono assenza di «disciplina mentale», neolalismo,
particolarismo provinciale, gergo, ecc.) o in altri termini (nel
caso dato del saggio crociano l'errore è stabilito da
ciò, che una tale proposizione può apparire nella
rappresentazione di un «pazzo», di un anormale, ecc. ed
acquistare valore espressivo assoluto; come rappresentare uno che
non sia «logico» se non facendogli dire «cose
illogiche»? ecc.). In realtà tutto ciò che [non]
è «grammaticalmente esatto» può anche
essere giustificato dal punto di vista estetico, logico, ecc., se lo
si vede non nella particolare logica, ecc., dell'espressione
immediatamente meccanica, ma come elemento di una rappresentazione
piú vasta e comprensiva.
La quistione che il Croce vuol porre: «Cosa è la
grammatica?» non può avere soluzione nel suo saggio. La
grammatica è «storia», o «documento
storico»: essa è la «fotografia» di una
fase determinata di un linguaggio nazionale (collettivo) formatosi
storicamente e in continuo sviluppo, o i tratti fondamentali di una
fotografia. La quistione pratica può essere: a che fine tale
fotografia? Per fare la storia di un aspetto della civiltà o
per modificare un aspetto della civiltà?
La pretesa del Croce porterebbe a negare ogni valore a un quadro
rappresentante tra l'altro una... sirena, per esempio, cioè
si dovrebbe concludere che ogni proposizione deve corrispondere al
vero o al verosimile, ecc.
(La proposizione può essere non logica in sé,
contradditoria, ma nello stesso tempo «coerente» in un
quadro piú vasto).
Quante forme di grammatica possono esistere? Parecchie,
certamente. C'è quella «immanente» nel linguaggio
stesso, per cui uno parla «secondo grammatica» senza
saperlo, come il personaggio di Molière faceva della prosa
senza saperlo. Né sembri inutile questo richiamo,
perché il Panzini (Guida alla Grammatica italiana, 18°
migliaio) non pare distinguere tra questa «grammatica» e
quella «normativa», scritta, di cui intende parlare e
che per lui pare essere la sola grammatica possibile esistente. La
prefazione alla prima edizione è piena di amenità, che
d'altronde hanno il loro significato in uno scrittore (e ritenuto
specialista) di cose grammaticali, come l'affermazione che
«noi possiamo scrivere e parlare anche senza
grammatica». In realtà oltre alla «grammatica
immanente» in ogni linguaggio, esiste anche, di fatto,
cioè anche se non scritta, una (o piú) grammatica
«normativa», ed è costituita dal controllo
reciproco, dall'insegnamento reciproco, dalla «censura»
reciproca, che si manifestano con le domande: «Cosa hai
inteso, o vuoi dire?», «Spiegati meglio», ecc.,
con la caricatura e la presa in giro, ecc.; tutto questo complesso
di azioni e reazioni confluiscono a determinare un conformismo
grammaticale, cioè a stabilire «norme» o giudizi
di correttezza o di scorrettezza, ecc. Ma questo manifestarsi
«spontaneo» di un conformismo grammaticale, è
necessariamente sconnesso, discontinuo, limitato a strati sociali
locali o a centri locali, ecc. (Un contadino che si inurba, per la
pressione dell'ambiente cittadino, finisce col conformarsi alla
parlata della città; nella campagna si cerca di imitare la
parlata della città; le classi subalterne cercano di parlare
come le classi dominanti e gli intellettuali, ecc.).
Si potrebbe schizzare un quadro della «grammatica
normativa» che opera spontaneamente in ogni società
data, in quanto questa tende a unificarsi sia come territorio, sia
come cultura, cioè in quanto vi esiste un ceto dirigente la
cui funzione sia riconosciuta e seguita.
Il numero delle «grammatiche spontanee o immanenti»
è incalcolabile e teoricamente si può dire che ognuno
ha una sua grammatica. Tuttavia, accanto a questa
«disgregazione» di fatto sono da rilevare i movimenti
unificatori, di maggiore o minore ampiezza sia come area
territoriale, sia come «volume linguistico». Le
«grammatiche normative» scritte tendono ad abbracciare
tutto un territorio nazionale e tutto il «volume
linguistico» per creare un conformismo linguistico nazionale
unitario, che d'altronde pone in un piano piú alto
l'«individualismo» espressivo, perché crea uno
scheletro piú robusto e omogeneo all'organismo linguistico
nazionale di cui ogni individuo è il riflesso e l'interprete.
(Sistema Taylor e autodidattismo).
Grammatiche storiche oltre che normative. – Ma è evidente che
uno scrittore di grammatica normativa non può ignorare la
storia della lingua di cui vuole proporre una «fase
esemplare» come la «sola» degna di diventare,
«organicamente» e «totalitariamente», la
lingua «comune» di una nazione, in lotta e concorrenza
con altre «fasi» e tipi o schemi che esistono già
(collegati a sviluppi tradizionali o a tentativi inorganici e
incoerenti delle forze che, come si è visto, operano
continuamente sulle «grammatiche» spontanee e immanenti
nel linguaggio). La grammatica storica non può non essere
«comparativa»: espressione che, analizzata a fondo,
indica la intima coscienza che il fatto linguistico, come ogni altro
fatto storico, non può avere confini nazionali strettamente
definiti, ma che la storia è sempre «storia
mondiale» e che le storie particolari vivono solo nel quadro
della storia mondiale. La grammatica normativa ha altri fini, anche
se non [si] può immaginare la lingua nazionale fuori del
quadro delle altre lingue, che influiscono per vie innumerevoli e
spesso difficili da controllare su di essa (chi può
controllare l'apporto di innovazioni linguistiche dovute agli
emigrati rimpatriati, ai viaggiatori, ai lettori di giornali e
lingue estere, ai traduttori, ecc.?)
La grammatica normativa scritta è quindi sempre una
«scelta», un indirizzo culturale, è cioè
sempre un atto di politica culturale-nazionale. Potrà
discutersi sul modo migliore di presentare la «scelta» e
l'«indirizzo» per farli accettare volentieri,
cioè potrà discutersi dei mezzi piú opportuni
per ottenere il fine; non può esserci dubbio che ci sia un
fine da raggiungere che ha bisogno di mezzi idonei e conformi,
cioè che si tratti di un atto politico.
Quistioni: di che natura è questo atto politico, e se debba
sollevare opposizioni di «principio», una collaborazione
di fatto, opposizioni nei particolari, ecc. Se si parte dal
presupposto di centralizzare ciò che esiste già allo
stato diffuso, disseminato, ma inorganico e incoerente, pare
evidente che non è razionale una opposizione di principio, ma
anzi una collaborazione di fatto e un accoglimento volenteroso di
tutto ciò che possa servire a creare una lingua comune
nazionale, la cui non esistenza determina attriti specialmente nelle
masse popolari, in cui sono piú tenaci di quanto non si creda
i particolarismi locali e i fenomeni di psicologia ristretta e
provinciale; si tratta insomma di un incremento della lotta contro
l'analfabetismo ecc. L'opposizione di «fatto» esiste
già nella resistenza delle masse a spogliarsi di abitudini e
psicologie particolaristiche. Resistenza stupida determinata dai
fautori fanatici delle lingue internazionali. È chiaro che in
questo ordine di problemi non può essere discussa la
quistione della lotta nazionale di una cultura egemone contro altre
nazionalità o residui di nazionalità.
Il Panzini non si pone neanche lontanamente questo problema e
perciò le sue pubblicazioni grammaticali sono incerte,
contraddittorie, oscillanti. Non si pone per esempio il problema di
quale oggi sia, dal basso, il centro di irradiazione delle
innovazioni linguistiche; che pure non ha poca importanza pratica.
Firenze, Roma, Milano. Ma d'altronde non si pone neanche il problema
se esista (e quale sia) un centro di irradiazione spontanea
dall'alto, cioè in forma relativamente organica, continua,
efficiente, e se essa possa essere regolata e intensificata.
Focolai di irradiazione di innovazioni linguistiche nella tradizione
e di un conformismo nazionale linguistico nelle grandi masse
nazionali. 1) La scuola; 2) i giornali; 3) gli scrittori d'arte e
quelli popolari; 4) il teatro e il cinematografo sonoro; 5) la
radio; 6) le riunioni pubbliche di ogni genere, comprese quelle
religiose; 7) i rapporti di «conversazione» tra i vari
strati della popolazione piú colti e meno colti – (una
quistione alla quale forse non si dà tutta l'importanza che
si merita è costituita da quella parte di
«parole» versificate che viene imparata a memoria sotto
forma di canzonette, pezzi d'opera, ecc. È da notare come il
popolo non si curi di imparare bene a memoria queste parole, che
spesso sono strampalate, antiquate, barocche, ma le riduca a specie
di filastrocche utili solo per ricordare il motivo musicale); 8) i
dialetti locali, intesi in diversi sensi (dai dialetti piú
localizzati a quelli che abbracciano complessi regionali piú
o meno vasti: cosí il napoletano per l'Italia meridionale, il
palermitano o il catanese per la Sicilia, ecc.).
Poiché il processo di formazione, di diffusione e di sviluppo
di una lingua nazionale unitaria avviene attraverso tutto un
complesso di processi molecolari, è utile avere
consapevolezza di tutto il processo nel suo complesso, per essere in
grado di intervenire attivamente in esso col massimo di risultato.
Questo intervento non bisogna considerarlo come
«decisivo» e immaginare che i fini proposti saranno
tutti raggiunti nei loro particolari, che cioè si
otterrà una determinata lingua unitaria: si otterrà
una lingua unitaria, se essa è una necessità, e
l'intervento organizzato accelererà i tempi del processo
già esistente; quale sia per essere questa lingua non si
può prevedere e stabilire: in ogni caso, se l'intervento
è «razionale», essa sarà organicamente
legata alla tradizione, ciò che non è di poca
importanza nell'economia della cultura.
Manzoniani e «classicisti». Avevano un tipo di lingua da
far prevalere. Non è giusto dire che queste discussioni siano
state inutili e non abbiano lasciato tracce nella cultura moderna,
anche se non molto grandi. In realtà in questo ultimo secolo
la cultura unitaria si è estesa e quindi anche una lingua
unitaria comune. Ma tutta la formazione storica della nazione
italiana era a ritmo troppo lento. Ogni volta che affiora, in un
modo o nell'altro, la quistione della lingua, significa che si sta
imponendo una serie di altri problemi: la formazione e
l'allargamento della classe dirigente, la necessità di
stabilire rapporti piú intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti
e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare
l'egemonia culturale. Oggi si sono verificati diversi fenomeni che
indicano una rinascita di tali quistioni: pubblicazioni del Panzini,
Trabalza-Allodoli, Monelli, rubriche nei giornali, intervento delle
direzioni sindacali, ecc...
Diversi tipi di grammatica normativa. Per le scuole. Per le
cosí dette persone colte. In realtà la differenza
è dovuta al diverso grado di sviluppo intellettuale del
lettore o studioso, e quindi alla tecnica diversa che occorre
impiegare per fare apprendere o intensificare la conoscenza organica
della lingua nazionale ai ragazzi, verso i quali non si può
prescindere didatticamente da una certa rigidità autoritaria
perentoria («bisogna dire cosí») e gli
«altri» che invece bisogna «persuadere» per
far loro accettare liberamente una determinata soluzione come la
migliore (dimostrata la migliore per il raggiungimento del fine
proposto e condiviso, quando è condiviso). Non bisogna
inoltre dimenticare che nello studio tradizionale della grammatica
normativa sono stati innestati altri elementi del programma
didattico d'insegnamento generale, come quello di certi elementi
della logica formale: si potrà discutere se questo innesto
è opportuno o no, se lo studio della logica formale è
giustificato o no (pare giustificato e pare anche giustificato che
sia accompagnato a quello della grammatica, piú che
dell'aritmetica, ecc., per la somiglianza di natura e perché
insieme alla grammatica la logica formale è relativamente
vivificata e facilitata), ma non bisogna prescindere dalla
quistione.
Grammatica storica e grammatica normativa. Posto che la grammatica
normativa è un atto politico, e che solo partendo da questo
punto di vista si può giustificare
«scientificamente» la sua esistenza, e l'enorme lavoro
di pazienza che il suo apprendimento richiede (quanto lavoro occorre
fare per ottenere che da centinaia di migliaia di reclute della
piú disparata origine e preparazione mentale risulti un
esercito omogeneo e capace di muoversi e operare disciplinatamente e
simultaneamente: quante «lezioni pratiche e teoriche» di
regolamenti, ecc.) è da porre il suo rapporto con la
grammatica storica. Il non aver definito questo rapporto spiega
molte incongruenze delle grammatiche normative, fino a quella del
Trabalza-Allodoli. Si tratta di due cose distinte e in parte
diverse, come la storia e la politica, ma che non possono essere
pensate indipendentemente: come la politica dalla storia.
D'altronde, poiché lo studio delle lingue come fenomeno
culturale è nato da bisogni politici (piú o meno
consapevoli e consapevolmente espressi) le necessità della
grammatica normativa hanno influito sulla grammatica storica e sulle
«concezioni legislative» di essa (o almeno questo
elemento tradizionale ha rafforzato nel secolo scorso l'applicazione
del metodo naturalistico-positivistico allo studio della storia
delle lingue concepito come «scienza del linguaggio»).
Dalla grammatica del Trabalza e anche dalla recensione stroncatoria
dello Schiaffini («Nuova Antologia», 16 settembre 1934)
appare come anche dai cosí detti «idealisti» non
sia compreso il rinnovamento che nella scienza del linguaggio hanno
portato le dottrine del Bartoli. [La] tendenza
dell'«idealismo» ha trovato la sua espressione
piú compiuta nel Bertoni: si tratta di un ritorno a vecchie
concezioni rettoriche, sulle parole «belle» e
«brutte» in sé e per sé, concezioni
riverniciate con un nuovo linguaggio pseudo-scientifico. In
realtà si cerca di trovare una giustificazione estrinseca
della grammatica normativa, dopo averne altrettanto estrinsecamente
«mostrato» la «inutilità» teoretica e
anche pratica.
Il saggio del Trabalza sulla Storia della grammatica potrà
fornire indicazioni utili sulle interferenze tra grammatica storica
(o meglio storia del linguaggio) e grammatica normativa, sulla
storia del problema, ecc.
Grammatica e tecnica. Per la grammatica può porsi la
quistione come per la «tecnica» in generale? La
grammatica è solo la tecnica della lingua? In ogni caso,
è giustificata la tesi degli idealisti, specialmente
gentiliani, dell'inutilità della grammatica e della sua
esclusione dall'insegnamento scolastico? Se si parla (ci si esprime
con le parole) in un modo determinato storicamente per nazioni o per
aree linguistiche, si può prescindere dall'insegnare questo
«modo storicamente determinato»? Ammesso che la
grammatica normativa tradizionale fosse insufficiente, è
questa una buona ragione per non insegnare nessuna
«grammatica», cioè per non preoccuparsi in nessun
modo di accelerare l'apprendimento del modo determinato di parlare
di una certa area linguistica, ma di lasciare che la «lingua
si impari nel vivente linguaggio» o altra espressione del
genere impiegata dal Gentile o dai gentiliani? Si tratta, in fondo,
di una forma di «liberalismo» delle piú bislacche
e strampalate. Differenze tra il Croce e il Gentile. Al solito il
Gentile si fonda sul Croce, esagerandone all'assurdo alcune
posizioni teoretiche. Il Croce sostiene che la grammatica non
rientra in nessuna delle attività spirituali teoretiche da
lui elaborate, ma finisce col trovare nella «pratica»
una giustificazione di molte attività negate in sede
teoretica: il Gentile esclude anche dalla pratica, in un primo
tempo, ciò che nega teoreticamente, salvo poi a trovare una
giustificazione teoretica delle manifestazioni pratiche piú
superate e tecnicamente ingiustificate.
Si deve apprendere «sistematicamente» la tecnica?
È successo che alla tecnica di Ford si contrapponga quella
dell'artigiano di villaggio. In quanti modi si apprende la
«tecnica industriale»: artigiano, durante lo stesso
lavoro di fabbrica, osservando come lavorano gli altri (e quindi con
maggior perdita di tempo e di fatica e solo parzialmente); con le
scuole professionali (in cui si impara sistematicamente tutto il
mestiere, anche se alcune nozioni apprese dovranno servire poche
volte in tutta la vita e anche mai); con le combinazioni di vari
modi, col sistema Taylor-Ford che crea un nuovo tipo di qualifica e
di mestiere ristretto a determinate fabbriche, e anche macchine o
momenti del processo produttivo.
La grammatica normativa, che solo per astrazione può essere
ritenuta scissa dal linguaggio vivente, tende a fare apprendere
tutto l'organismo della lingua determinata, e a creare un
atteggiamento spirituale che renda capaci di orientarsi sempre
nell'ambiente linguistico (vedi nota sullo studio del latino nelle
scuole classiche). Se la grammatica è esclusa dalla scuola e
non viene «scritta», non perciò può essere
esclusa dalla «vita» reale, come è stato
già detto in altra nota: si esclude solo l'intervento
organizzato unitariamente nell'apprendimento della lingua e, in
realtà, si esclude dall'apprendimento della lingua colta la
massa popolare nazionale, poiché il ceto dirigente piú
alto, che tradizionalmente parla in «lingua», trasmette
di generazione in generazione, attraverso un processo lento che
incomincia coi primi balbettamenti del bambino sotto la guida dei
genitori, e continua nella conversazione (coi suoi «si dice
cosí», «deve dirsi cosí», ecc.) per
tutta la vita: in realtà la grammatica si studia
«sempre», ecc. (con l'imitazione dei modelli ammirati,
ecc.). Nella posizione del Gentile c'è molta piú
politica di quanto si creda e molto reazionarismo inconscio, come
del resto è stato notato altre volte e in altre occasioni:
c'è tutto il reazionarismo della vecchia concezione liberale,
c'è un «lasciar fare, lasciar passare» che non
è giustificato, come era nel Rousseau (e il Gentile è
piú rousseauiano di quanto creda) dall'opposizione alla
paralisi della scuola gesuitica, ma è diventato un'ideologia
astratta, «astorica».
La cosí detta «quistione della lingua». Pare
chiaro che il De Vulgari Eloquio di Dante sia da considerare come
essenzialmente un atto di politica culturale-nazionale (nel senso
che nazionale aveva in quel tempo e in Dante), come un aspetto della
lotta politica è stata sempre quella che viene chiamata
«la quistione della lingua» che da questo punto di vista
diventa interessante da studiare. Essa è stata una reazione
degli intellettuali allo sfacelo dell'unità politica che
esistè in Italia sotto il nome di «equilibrio degli
Stati italiani», allo sfacelo e alla disintegrazione delle
classi economiche e politiche che si erano venute formando dopo il
Mille coi Comuni e rappresenta il tentativo, che in parte notevole
può dirsi riuscito, di conservare e anzi di rafforzare un
ceto intellettuale unitario, la cui esistenza doveva avere non
piccolo significato nel Settecento e Ottocento (nel Risorgimento).
Il libretto di Dante ha anch'esso non piccolo significato per il
tempo in cui fu scritto; non solo di fatto, ma elevando il fatto a
teoria, gli intellettuali italiani del periodo piú rigoglioso
dei Comuni, «rompono» col latino e giustificano il
volgare, esaltandolo contro il «mandarinismo»
latineggiante, nello stesso tempo in cui il volgare ha cosí
grandi manifestazioni artistiche. Che il tentativo di Dante abbia
avuto enorme importanza innovatrice, si vede piú tardi col
ritorno del latino a lingua delle persone colte (e qui può
innestarsi la quistione del doppio aspetto dell'Umanesimo e del
Rinascimento, che furono essenzialmente reazionari dal punto di
vista nazionale-popolare e progressivi come espressione dello
sviluppo culturale dei gruppi intellettuali italiani e europei).
Linguistica
Giulio Bertoni e la linguistica. Bisognerebbe scrivere una
stroncatura del Bertoni come linguista, per gli atteggiamenti
assunti ultimamente col suo scritto nel Manualetto di linguistica e
nel volumetto pubblicato dal Petrini (vedi brano pubblicato dalla
«Nuova Italia» dell'agosto 1930). Mi pare si possa
dimostrare che il Bertoni né è riuscito a dare una
teoria generale delle innovazioni portate dal Bartoli nella
linguistica, né è riuscito a capire in che consistano
queste innovazioni e quale sia la loro importanza pratica e teorica.
Del resto nell'articolo pubblicato qualche anno fa nel
«Leonardo» sugli studi linguistici in Italia egli non
distingue per nulla il Bartoli dalla comune schiera e anzi per il
gioco dei chiaroscuri lo mette in seconda linea, a differenza del
Casella che nel recente articolo sul «Marzocco» a
proposito della Miscellanea Ascoli, pone in rilievo
l'originalità del Bartoli: nell'articolo bertoniano del
«Leonardo» è da rilevare come il Campus appaia
addirittura superiore al Bartoli, quando i suoi studi sulle velari
ario-europee non sono che piccoli saggi in cui si applica puramente
e semplicemente il metodo generale del Bartoli e furono dovuti ai
suggerimenti del Bartoli stesso; è il Bartoli che
disinteressatamente ha messo in valore il Campus e ha sempre cercato
di metterlo in prima linea: il Bertoni, forse non senza accademica
malizia, in un articolo come quello del «Leonardo» in
cui occorreva quasi contare le parole dedicate a ogni studioso, per
dare una giusta prospettiva, ha combinato le cose in modo che il
Bartoli è messo in un cantuccio. Errore del Bartoli di aver
collaborato col Bertoni nella compilazione del Manualetto, e dico
errore e responsabilità scientifica. Il Bartoli è
apprezzato per i suoi lavori concreti: lasciando scrivere al Bertoni
la parte teorica induce in errore gli studenti e li spinge su una
falsa strada: in questo caso la modestia e il disinteresse diventano
una colpa.
D'altronde il Bertoni, se non ha capito il Bartoli, non ha nemmeno
capito l'estetica del Croce, nel senso che dall'estetica crociana
non ha saputo derivare dei canoni di ricerca e di costruzione della
scienza del linguaggio, ma non ha fatto che parafrasare, esaltare,
liricizzare delle impressioni: si tratta di un positivista
sostanziale che si sdilinquisce di fronte all'idealismo
perché questo è piú di moda e permette di fare
della retorica. Fa meraviglia che il Croce abbia lodato il
Manualetto, senza vedere e far notare le incongruenze del Bertoni:
mi pare che il Croce abbia piú di tutto voluto prender atto
benevolmente che in questo ramo degli studi, dove il positivismo
trionfa, si cerchi di iniziare una via nuova nel senso idealistico.
A me pare che tra il metodo del Bartoli e il crocismo non ci sia
nessun rapporto di dipendenza immediata: il rapporto è con lo
storicismo in generale, non con una particolare forma di storicismo.
L'innovazione del Bartoli è appunto questa, che della
linguistica, concepita grettamente come scienza naturale, ha fatto
una scienza storica, le cui radici sono da cercare «nello
spazio e nel tempo» e non nell'apparato vocale
fisiologicamente inteso.
Bisognerebbe stroncare il Bertoni non solo in questo campo: la sua
figura di studioso mi è sempre stata ripugnante
intellettualmente: c'è in essa qualcosa di falso, di non
sincero nel senso letterale della parola; oltre alla
prolissità e alla mancanza di «prospettiva» nei
valori storici e letterari.
Nella «linguistica» è crociano il Vossler, ma che
rapporto esiste tra il Bartoli e il Vossler e tra il Vossler e
quella che si chiama comunemente «linguistica»?
Ricordare a questo proposito l'articolo del Croce Questa tavola
rotonda è quadrata (nei Problemi di Estetica) dalla cui
critica bisogna prendere le mosse per stabilire i concetti esatti in
questa quistione.
È stupefacente la recensione benevola che Natalino Sapegno ha
pubblicato nel «Pègaso» del settembre 1930 di
Linguaggio e Poesia («Bibliotheca» editrice, Rieti,
1930, L. 5). Il Sapegno non s'accorge che la teoria del Bertoni
essere la nuova linguistica una «sottile analisi
discriminativa delle voci poetiche da quelle strumentali»
è tutt'altro che una novità perché si tratta
del ritorno a una vecchissima concezione retorica e pedantesca, per
cui si dividono le parole in «brutte» e
«belle», in poetiche e non poetiche o antipoetiche ecc.,
cosí come si erano similmente divise le lingue in belle e
brutte, civili o barbariche, poetiche e prosastiche ecc. Il Bertoni
non aggiunge nulla alla linguistica, altro che vecchi pregiudizi, ed
è meraviglioso che queste stoltezze gli siano passate per
buone dal Croce e dagli allievi del Croce. Cosa sono le parole
avulse e astratte dall'opera letteraria? Non piú elemento
estetico, ma elemento di storia della cultura e come tali il
linguista le studia. E cos'è la giustificazione che il
Bertoni fa dell'«esame naturalistico delle lingue, come fatto
fisico e come fatto sociale»? Come fatto fisico? Cosa
significa? Che anche l'uomo, oltre che elemento della storia
politica deve essere studiato come fatto biologico? Che di una
pittura si deve fare anche l'analisi chimica? ecc. Che sarebbe utile
esaminare quanto sforzo meccanico sia costato a Michelangelo lo
scolpire il Mosè?
Che questi crociani non si accorgano di tutto questo è
stupefacente e serve a indicare quale confusione il Bertoni abbia
contribuito a diffondere in questo campo. Addirittura scrive il
Sapegno che per questa indagine del Bertoni (sulla bellezza delle
singole parole astratte: come se il vocabolo piú
«frusto e meccanicizzato» non riacquistasse nella
concreta opera d'arte tutta la sua freschezza e ingenuità
primitiva) «è difficile e delicata, ma non
perciò meno necessaria: per essa la glottologia, meglio che
scienza del linguaggio, rivolta a scoprire leggi piú o meno
fisse e sicure, si avvierà a diventare storia della lingua,
attenta ai fatti particolari e al loro significato
spirituale». E ancora: «Il nucleo di questo ragionamento
(del Bertoni) è, come ognuno può vedere, un concetto
tuttora vivo e fecondo dell'estetica crociana. Ma
l'originalità del Bertoni consiste nell'averlo sviluppato ed
arricchito per una concreta via, dal Croce soltanto additata, o
magari iniziata, ma non mai seguita fino in fondo e di
proposito», ecc. Se il Bertoni «rivive il pensiero
crociano» ma anzi lo arricchisce, e il Croce si riconosce nel
Bertoni, occorre dire che il Croce stesso deve essere riveduto e
corretto: ma a me pare che il Croce sia stato solo molto indulgente
col Bertoni, per non aver approfondito la quistione e per ragioni
«didattiche».
Le ricerche del Bertoni sono in parte e sotto un certo aspetto un
ritorno a vecchi sistemi etimologici: «sol quia solus
est», come è bello che il «sole» contenga
in sé implicita l'immagine della «solitudine»
nell'immenso cielo e via via: «come è bello che in
Puglia la libellula con le sue alucce in forma di croce, sia detta
la morte», e cosí via. Ricordare in uno scritto di
Carlo Dossi la storiella del professore che spiega la formazione
delle parole: «all'inizio cadde un frutto, facendo pum! ed
ecco il "pomo"», ecc. «E se fosse caduta una
pera?» domanda il giovanetto Dossi.
Antonio Pagliaro, Sommario di linguistica arioeuropea. Fasc. I:
Cenni storici e quistioni teoriche, Libreria di Scienze e Lettere
del dott. G. Bardi, Roma, 1930 (nelle «Pubblicazioni della
Scuola di Filologia Classica dell'Università di Roma, Serie
seconda: Sussidi e materiali, II, 1»). Sul libro del Pagliaro
cfr. la recensione di Goffredo Coppola nel
«Pègaso» del novembre 1930.
Il libro è indispensabile per vedere i progressi fatti dalla
linguistica in questi ultimi tempi. Mi pare ci sia molto di cambiato
(a giudicare dalla recensione) ma che tuttavia non sia stata trovata
la base in cui collocare gli studi linguistici. L'identificazione di
arte e lingua, fatta dal Croce ha permesso un certo progresso e ha
permesso di risolvere alcuni problemi e di dichiararne altri
inesistenti o arbitrari, ma i linguisti, che sono essenzialmente
storici, si trovano dinanzi l'altro problema: è possibile la
storia delle lingue all'infuori della storia dell'arte e ancora
è possibile la storia dell'arte?
Ma i linguisti precisamente studiano le lingue in quanto non sono
arte, ma «materiale» dell'arte, in quanto prodotto
sociale, in quanto espressione culturale di un dato popolo ecc.
Queste quistioni non sono risolte, o lo sono con un ritorno alla
vecchia rettorica rimbellettata (cfr. Bertoni).
Per il Perrotto (anche per il Pagliaro?), l'identificazione tra arte
e lingua ha condotto a riconoscere come insolubile (o arbitrario?)
il problema dell'origine del linguaggio, che significherebbe
domandarsi perché l'uomo è uomo (linguaggio =
fantasia, pensiero): mi pare che non sia molto preciso; il problema
non può risolversi per mancanza di documenti e quindi
è arbitrario: si può fare, oltre un certo limite
storico, della storia ipotetica, congetturale e sociologica, ma non
storia «storica». Questa identificazione permetterebbe
anche di determinare ciò che nella lingua è errore,
cioè non lingua. «Errore è la creazione
artificiale, razionalistica, voluta, che non s'afferma perché
nulla rivela, che è particolare all'individuo fuori della sua
società». Mi pare che allora si dovrebbe dire che
lingua = storia e non lingua = arbitrio. Le lingue artificiali sono
come i gerghi: non è vero che siano assolutamente non lingue
perché sono in qualche modo utili: hanno un contenuto
storico-sociale molto limitato. Ma ciò avviene anche tra
dialetto e lingua nazionale-letteraria. Eppure anche il dialetto
è lingua-arte. Ma tra il dialetto e la lingua
nazionale-letteraria qualcosa è mutato: precisamente
l'ambiente culturale, politico-morale-sentimentale. La storia delle
lingue è storia delle innovazioni linguistiche, ma queste
innovazioni non sono individuali (come avviene nell'arte) ma sono di
un'intera comunità sociale che ha innovato la sua cultura,
che ha «progredito» storicamente: naturalmente anch'esse
diventano individuali, ma non dell'individuo-artista,
dell'individuo-elemento storico-culturale completo determinato.
Anche nella lingua non c'è partenogenesi, cioè la
lingua [che] produce altra lingua, ma c'è innovazione per
interferenze di culture diverse ecc., ciò che avviene in modi
molto diversi e ancora avviene per intere masse di elementi
linguistici, e avviene molecolarmente (per esempio: il latino ha
come «massa» innovato il celtico delle Gallie, e ha
invece influenzato il germanico «molecolarmente»,
cioè imprestandogli singole parole o forme ecc.).
L'interferenza e l'influenza «molecolare» può
avvenire nello stesso seno di una nazione, tra diversi strati ecc.;
una nuova classe che diventa dirigente innova come
«massa»; il gergo dei mestieri ecc. cioè delle
società particolari, innovano molecolarmente. Il giudizio
artistico in queste innovazioni ha il carattere del «gusto
culturale», non del gusto artistico, cioè per la stessa
ragione per cui piacciono le brune o le bionde e mutano gli
«ideali» estetici, legati a determinate culture.
[La lingua in Dante.] Importanza dello scritto di Enrico Sicardi La
lingua italiana in Dante, edito a Roma dalla Casa Ed.
«Optima» con prefazione di Francesco Orestano. Ne ho
letto la recensione di G. S. Gargàno (La lingua nei tempi di
Dante e l'interpretazione della poesia) nel «Marzocco»
del 14 aprile 1929. Il Sicardi insiste sulla necessità di
studiare le «lingue» dei vari scrittori, se si vuole
interpretare esattamente il loro mondo poetico. Non so se tutto
ciò che il Sicardi scrive sia esatto e specialmente se sia
possibile «storicamente» lo studio delle
«particolari» lingue dei singoli scrittori, dato che
manca un documento essenziale: una vasta testimonianza della lingua
parlata nei tempi dei singoli scrittori. Tuttavia il richiamo
metodologico del Sicardi è giusto e necessario (ricordare nel
libro del Vossler, Idealismo e positivismo sullo studio della
lingua, l'analisi estetica della favola di La Fontaine sul corvo e
la volpe e l'erronea interpretazione di «son bec» dovuta
all'ignoranza del valore storico di «son»).
Del Bartoli, Quistioni linguistiche e diritti nazionali, discorso
tenuto all'inaugurazione dell'anno accademico torinese 1934,
pubblicato nel 1935 (vedi nota in «Cultura» dell'aprile
1935). Pare dalla nota che il discorso sia molto discutibile per
alcune parti generali: per esempio l'affermazione che
«l'Italia dialettale è una e indivisibile».
Notizie sull'Atlante linguistico pubblicate in due numeri di un
Bollettino.