Q 21 § 5 Concetto di «nazionale-popolare». In una
nota della «Critica Fascista» del 1° agosto 1930
si lamenta che due grandi quotidiani, uno di Roma e l'altro di
Napoli, abbiano iniziato la pubblicazione in appendice di questi
romanzi: Il conte di Montecristo e Giuseppe Balsamo
di A. Dumas, e il Calvario di una madre di Paolo Fontenay.
Scrive la «Critica»: «L'ottocento francese è stato senza dubbio un periodo aureo per il romanzo d'appendice, ma debbono avere un ben scarso concetto dei propri lettori quei giornali che ristampano romanzi di un secolo fa, come se il gusto, l'interesse, l'esperienza letteraria non fossero per niente mutate da allora ad ora. Non solo, ma [...] perché non tener conto che esiste, malgrado le opinioni contrarie, un romanzo moderno italiano? E pensare che questa gente è pronta a spargere lacrime d'inchiostro sulla infelice sorte delle patrie lettere».
La «Critica» confonde diversi ordini di problemi: quello della non diffusione tra il popolo della così detta letteratura artistica e quello della non esistenza in Italia di una letteratura «popolare», per cui i giornali sono «costretti» a rifornirsi all'estero (certo nulla impedisce teoricamente che possa esistere una letteratura popolare artistica – l'esempio più evidente è la fortuna «popolare» dei grandi romanzieri russi – anche oggi; ma non esiste, di fatto, né una popolarità della letteratura artistica, né una produzione paesana di letteratura «popolare» perché manca una identità di concezione del mondo tra «scrittori» e «popolo», cioè i sentimenti popolari non sono vissuti come propri dagli scrittori, né gli scrittori hanno una funzione «educatrice nazionale», cioè non si sono posti e non si pongono il problema di elaborare i sentimenti popolari dopo averli rivissuti e fatti propri); la «Critica» non si pone neanche questi problemi e non sa trarre le conclusioni «realistiche» dal fatto che se i romanzi di cento anni fa piacciono, significa che il gusto e l'ideologia del popolo sono proprio quelli di cento anni fa.
I giornali sono organismi politico-finanziari e non si propongono di diffondere le belle lettere «nelle proprie colonne», se queste belle lettere fanno aumentare la resa.
Il romanzo d'appendice è un mezzo per diffondersi tra le classi popolari (ricordare l'esempio del «Lavoro» di Genova sotto la direzione di Giovanni Ansaldo, che ristampò tutta la letteratura francese d'appendice, nello stesso tempo in cui cercava di dare ad altre parti del quotidiano il tono della più raffinata cultura), ciò che significa successo politico e successo finanziario. Perciò il giornale cerca quel romanzo, quel tipo di romanzo che piace «certamente» al popolo, che assicurerà una clientela «continuativa» e permanente.
L'uomo del popolo compra un solo giornale, quando lo compra: la scelta del giornale non è neanche personale, ma spesso di gruppo famigliare: le donne pesano molto nella scelta e insistono per il «bel romanzo interessante» (ciò non significa che anche gli uomini non leggano il romanzo, ma certo le donne si interessano specialmente al romanzo e alla cronaca dei fatti diversi).
Da ciò derivò sempre il fatto che i giornali puramente politici o d'opinione non hanno mai potuto avere una grande diffusione (eccetto periodi di intensa lotta politica): essi erano comprati dai giovani, uomini e donne, senza preoccupazioni famigliari troppo grandi e che si interessavano fortemente alla fortuna delle loro opinioni politiche e da un numero mediocre di famiglie fortemente compatte come idee.
In generale i lettori di giornali non sono
dell'opinione del giornale che acquistano, o ne sono scarsamente
influenzati: perciò è da studiare, dal punto di
vista della tecnica giornalistica, il caso del
«Secolo» e del «Lavoro» che pubblicavano
fino a tre romanzi d'appendice per conquistare una tiratura alta e
permanente (non si pensa che per molti lettori il «romanzo
d'appendice» è come la «letteratura» di
classe per le persone colte: conoscere il «romanzo»
che pubblicava la «Stampa» era una specie di
«dovere mondano» di portineria, di cortile e di
ballatoio in comune; ogni puntata dava luogo a
«conversazioni» in cui brillava l'intuizione
psicologica, la capacità logica d'intuizione dei
«più distinti» ecc.; si può affermare
che i lettori di romanzo d'appendice s'interessano e si
appassionano ai loro autori con molta maggiore sincerità e
più vivo interesse umano di quanto nei salotti cosí
detti colti non s'interessassero ai romanzi di D'Annunzio o non
s'interessino alle opere di Pirandello).
Ma il problema più interessante è questo:
perché i giornali italiani del 1930, se vogliono
diffondersi (o mantenersi) devono pubblicare i romanzi d'appendice
di un secolo fa (o quelli moderni dello stesso tipo)? E
perché non esiste in Italia una letteratura
«nazionale» del genere, nonostante che essa debba
essere redditizia?
È da osservare il fatto che in molte lingue, «nazionale» e «popolare» sono sinonimi o quasi (cosí in russo, cosí in tedesco in cui «volkisch» ha un significato ancora più intimo, di razza, cosí nelle lingue slave in genere; in francese «nazionale» ha un significato in cui il termine «popolare» è già più elaborato politicamente, perché legato al concetto di «sovranità», sovranità nazionale e sovranità popolare hanno uguale valore o l'hanno avuto).
In
Italia il termine «nazionale» ha un significato molto
ristretto ideologicamente e in ogni caso non coincide con
«popolare», perché in Italia gli intellettuali
sono lontani dal popolo, cioè dalla «nazione» e
sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai
stata rotta da un forte movimento politico popolare o nazionale
dal basso: la tradizione è «libresca» e
astratta e l'intellettuale tipico moderno si sente più
legato ad Annibal Caro o Ippolito Pindemonte che a un contadino
pugliese o siciliano. Il termine corrente «nazionale»
è in Italia legato a questa tradizione intellettuale e
libresca, quindi la facilità sciocca e in fondo pericolosa
di chiamare «antinazionale» chiunque non abbia questa
concezione archeologica e tarmata degli interessi del paese.
Sono da vedere gli articoli di Umberto Fracchia nell'«Italia
Letteraria» del luglio 1930 e la Lettera a Umberto Fracchia
sulla critica di Ugo Ojetti nel «Pègaso»
dell'agosto 1930. I lamenti del Fracchia sono molto simili a
quelli della «Critica Fascista».
La letteratura
«nazionale» cosí detta «artistica»,
non è popolare in Italia. Di chi la colpa? Del pubblico che
non legge? Della critica che non sa presentare ed esaltare al
pubblico i «valori» letterari? Dei giornali che invece
di pubblicare in appendice «il romanzo moderno
italiano» pubblicano il vecchio Conte di Montecristo? Ma
perché il pubblico non legge in Italia mentre legge negli
altri paesi? Ed è poi vero che in Italia non si legga? Non
sarebbe più esatto porsi il problema: perché il
pubblico italiano legge la letteratura straniera, popolare e non
popolare, e non legge invece quella italiana? Lo stesso Fracchia
non ha pubblicato degli ultimatum agli editori che pubblicano (e
quindi devono vendere, relativamente) opere straniere, minacciando
provvedimenti governativi? E un tentativo di intervento
governativo non c'è stato, almeno in parte, per opera
dell'on. Michele Bianchi, sottosegretario agli interni?
Cosa significa il fatto che il popolo italiano legge di preferenza
gli scrittori stranieri? Significa che esso subisce l'egemonia
intellettuale e morale degli intellettuali stranieri, che esso si
sente legato più agli intellettuali stranieri che a quelli
«paesani», cioè che non esiste nel paese un
blocco nazionale intellettuale e morale, né gerarchico e
tanto meno egualitario.
Gli intellettuali non escono dal popolo, anche se accidentalmente qualcuno di essi è d'origine popolana, non si sentono legati ad esso (a parte la retorica), non ne conoscono e non ne sentono i bisogni, le aspirazioni, i sentimenti diffusi, ma, nei confronti del popolo, sono qualcosa di staccato, di campato in aria, una casta, cioè, e non un'articolazione, con funzioni organiche, del popolo stesso.
La quistione deve essere estesa a tutta la cultura nazionale-popolare e non ristretta alla sola letteratura narrativa: le stesse cose si devono dire del teatro, della letteratura scientifica in generale (scienze della natura, storia ecc.). Perché non sorgono in Italia degli scrittori come il Flammarion? perché non è nata una letteratura di divulgazione scientifica come in Francia e negli altri paesi? Questi libri stranieri, tradotti, sono letti e ricercati e conoscono spesso grandi successi.
Tutto ciò significa che tutta la «classe colta», con la sua attività intellettuale, è staccata dal popolo-nazione, non perché il popolo-nazione non abbia dimostrato e non dimostri di interessarsi a questa attività in tutti i suoi gradi, dai più infimi (romanzacci d'appendice) ai più elevati, tanto vero che ricerca i libri stranieri in proposito, ma perché l'elemento intellettuale indigeno è più straniero degli stranieri di fronte al popolo-nazione.
La quistione non è nata oggi; essa si è posta fin dalla fondazione dello Stato italiano, e la sua esistenza anteriore è un documento per spiegare il ritardo della formazione politico-nazionale unitaria della penisola. Il libro di Ruggero Bonghi sulla impopolarità della letteratura italiana.
Anche la quistione della lingua posta dal
Manzoni riflette questo problema, il problema della unità
intellettuale e morale della nazione e dello Stato, ricercato
nell'unità della lingua. Ma l'unità della lingua
è uno dei modi esterni e non esclusivamente necessario
dell'unità nazionale: in ogni caso è un effetto e
non una causa. Scritti di F. Martini sul teatro: sul teatro esiste
e continua a svilupparsi tutta una letteratura.
In Italia è sempre mancata e continua a mancare una
letteratura nazionale-popolare, narrativa e d'altro genere. (Nella
poesia sono mancati i tipi come Béranger e in genere il
tipo dello chansonnier francese). Tuttavia sono esistiti
scrittori, popolari individualmente e che hanno avuto grande
fortuna: il Guerrazzi ha avuto fortuna e i suoi libri continuano
ad essere pubblicati e diffusi: Carolina Invernizio è stata
letta e forse continua ad esserlo, nonostante sia di un livello
più basso dei Ponson e dei Montépin. F. Mastriani
è stato letto ecc. (G. Papini ha scritto un articolo sulla
Invernizio nel «Resto del Carlino», durante la guerra,
verso il 1916: vedere se l'articolo è stato raccolto in
volume. Il Papini scrisse qualcosa d'interessante su questa onesta
gallina della letteratura popolare, appunto notando come essa si
facesse leggere dal popolino. Forse, nella bibliografia del Papini
pubblicata nel saggio del Palmieri – o in altra – si potrà
trovare la data di questo articolo e altre indicazioni).
In assenza di una sua letteratura «moderna», alcuni
strati del popolo minuto soddisfano in vari modi le esigenze
intellettuali e artistiche che pur esistono, sia pure in forma
elementare ed incondita: diffusione del romanzo cavalleresco
medioevale – Reali di Francia, Guerino detto il Meschino ecc. –
specialmente nell'Italia meridionale e nelle montagne; I Maggi in
Toscana (gli argomenti rappresentati dai Maggi sono tratti dai
libri, novelle e specialmente da leggende divenute popolari, come
la Pia dei Tolomei; esistono varie pubblicazioni sui Maggi e sul
loro repertorio).
I laici hanno fallito al loro compito storico di educatori ed
elaboratori della intellettualità e della coscienza morale
del popolo-nazione, non hanno saputo dare una soddisfazione alle
esigenze intellettuali del popolo: proprio per non aver
rappresentato una cultura laica, per non aver saputo elaborare un
moderno «umanesimo» capace di diffondersi fino agli
strati più rozzi e incolti, come era necessario dal punto
di vista nazionale, per essersi tenuti legati a un mondo
antiquato, meschino, astratto, troppo individualistico o di casta.
La letteratura popolare francese, che è la più
diffusa in Italia, rappresenta invece, in maggiore o minor grado,
in un modo che può essere più o meno simpatico,
questo moderno umanesimo, questo laicismo a suo modo moderno: lo
rappresentarono il Guerrazzi, il Mastriani e gli altri pochi
scrittori paesani popolari.
Ma se i laici hanno fallito, i cattolici non hanno avuto miglior successo. Non bisogna lasciarsi illudere dalla discreta diffusione che hanno certi libri cattolici: essa è dovuta alla vasta e potente organizzazione della chiesa, non ad una intima forza di espansività: i libri vengono regalati nelle cerimonie numerosissime e vengono letti per castigo, per imposizione o per disperazione. Colpisce il fatto che nel campo della letteratura avventurosa i cattolici non abbiano saputo esprimere che meschinerie: eppure essi hanno una sorgente di prim'ordine nei viaggi e nella vita movimentata e spesso arrischiata dei missionari.
Tuttavia anche nel periodo di maggior diffusione del romanzo geografico d'avventure, la letteratura cattolica in proposito è stata meschina e per nulla comparabile a quella laica francese, inglese e tedesca: le vicende del cardinal Massaja in Abissinia sono il libro più notevole, per il resto c'è stata l'invasione dei libri di Ugo Mioni (già padre gesuita), inferiori a ogni esigenza.
Anche nella letteratura popolare scientifica i cattolici hanno ben poco, nonostante i loro grandi astronomi come il padre Secchi (gesuita) e che l'astronomia sia la scienza che più interessa il popolo. Questa letteratura cattolica trasuda di apologetica gesuitica come il becco di muschio e stucca per la sua meschinità gretta. L'insufficienza degli intellettuali cattolici e la poca fortuna della loro letteratura sono uno degli indizi più espressivi della intima rottura che esiste tra la religione e il popolo: questo si trova in uno stato miserrimo di indifferentismo e di assenza di una vivace vita spirituale: la religione è rimasta allo stato di superstizione, ma non è stata sostituita da una nuova moralità laica e umanistica per l'impotenza degli intellettuali laici (la religione non è stata né sostituita né intimamente trasformata e nazionalizzata come in altri paesi, come in America lo stesso gesuitismo: l'Italia popolare è ancora nelle condizioni create immediatamente dalla Controriforma: la religione, tutt'al più, si è combinata col folclore pagano ed è rimasta in questo stadio).
Q 2 § 47 Ada Negri. Articolo di Michele Scherillo nella «Nuova Antologia» del 16 settembre 1927. Su Ada Negri bisognerebbe fare uno studio storico-critico. Può chiamarsi, in un periodo della sua vita, «poetessa proletaria» o semplicemente «popolare»? Nel campo della cultura mi pare rappresenti l'ala estrema del romanticismo del '48; il popolo diventa sempre più proletariato, ma è visto ancora sotto la specie di popolo, non per i germi di originale ricostruzione che contiene in sé (ma piuttosto per la caduta che rappresenta da «popolo» a «proletariato»?) (In Stella mattutina, Treves, 1921, la Negri ha narrato i casi della sua vita di bambina e adolescente).
Q 2 § 112 A proposito di V. Hugo ricordare la sua dimestichezza con Luigi
Filippo e quindi il suo atteggiamento monarchico costituzionale
nel '48. È interessante notare che, mentre scriveva i
Miserabili, scriveva anche le note di Choses vues (pubblicate
postume) e che le due scritture non sempre vanno d'accordo. Vedere
queste quistioni, perché di solito l'Hugo è
considerato uomo d'un blocco solo, ecc. (Nella «Revue des
Deux Mondes» del '28 o '29, più probabilmente del
'29, ci deve essere un articolo su questo argomento).
Q 3 § 36 [L'episodio Salgari.] L'episodio Salgari, contrapposto a Giulio
Verne, con l'intervento del ministro Fedele, campagne ridevoli nel
«Raduno» organo del Sindacato autori e scrittori ecc.,
è da porre insieme alla rappresentazione della farsa
Un'avventura galante ai bagni di Cernobbio data il 13 ottobre 1928
ad Alfonsine per la celebrazione del primo centenario della morte
di Vincenzo Monti. Questa farsa, pubblicata nel 1858 come
complemento editoriale di un lavoro teatrale di Giovanni De
Castro, è di un Vincenzo Monti, professore a Como in quel
torno di tempo (a una semplice lettura appare
l'impossibilità dell'attribuzione al Monti) ma fu
«scoperta», attribuita al Monti e rappresentata ad
Alfonsine, dinanzi alle autorità, in una festa ufficiale,
nel centenario montiano. (Vedere, caso mai, nei giornali del
tempo, l'autore della mirabile scoperta e i personaggi ufficiali
che la bevettero cosí grossa).
Q 3 § 150 Emilio De Marchi. Perché il De Marchi, nonostante che in
parecchi suoi libri ci siano molti elementi di popolarità,
non è stato e non è molto letto? Rileggerlo e
analizzare questi elementi, specialmente in Giacomo l'idealista.
(Sul De Marchi e il romanzo d'appendice ha scritto un saggio
Arturo Pompeati nella «Cultura», non soddisfacente).
Q 5 § 103 Teatro. «Il dramma lacrimoso e la commedia sentimentale
avevano popolato il palcoscenico di pazzi e di delinquenti di ogni
genere e la Rivoluzione francese – tranne pochi lavori d'occasione
– niente aveva ispirato agli autori drammatici che segnasse un
nuovo indirizzo d'arte e che sviasse il pubblico dai sotterranei
misteriosi, dalle foreste perigliose, dai manicomi...»
(Alberto Manzi, Il conte Giraud, il Governo italico e la censura
nella «Nuova Antologia» del 1° ottobre 1929).
Il Manzi riporta un brano di un opuscolo dell'avv. Maria Giacomo
Boïeldieu, del 1804: «Ai nostri giorni la scena si
è trasformata: e non è raro il caso di veder gli
assassini nelle loro caverne e i pazzi nel manicomio. Non si
può lasciare ai tribunali il compito di punire quei mostri
che disonorano il nome di uomo, e ai medici quello di cercar di
curare gli sventurati i cui delitti colpiscono penosamente
l'umanità, anche se simulati? Quale possente attrattiva,
quale soluzione può esercitare sullo spettatore il quadro
dei mali che nell'ordine morale e fisico desolano la specie umana,
e dai quali da un momento all'altro e per la più piccola
scossa dei nostri nervi esauriti, possiamo noi stessi diventare
vittime meritevoli di compassione?! Che bisogno c'è di
andare al teatro per vedere Briganti (commedia tipo: Robert chef
des brigands, di Lamartelière, finito poi impiegato di
Stato, e il cui enorme successo, nel 1791, fu determinato dalla
frase «guerre aux châteaux, paix aux
chaumières»; derivata dai Masnadieri di Schiller)
Pazze e Malati d'amore (commedie tipo Nina la pazza per amore, Il
cavaliere de la Barre, Il delirio, ecc.)», ecc. ecc. Il
Boïeldieu critica «il genere che, in realtà, mi
sembra pericoloso e da deplorare».
L'articolo del Manzi contiene qualche spunto sull'atteggiamento
della censura napoleonica contro questo tipo di teatro,
specialmente quando i casi anormali rappresentati toccavano il
principio monarchico.
Q 6 § 13 Origine popolaresca del «superuomo». Ogni volta che ci
si imbatte in qualche ammiratore del Nietzsche, è opportuno
domandarsi e ricercare se le sue concezioni
«superumane», contro la morale convenzionale, ecc.
ecc., siano di pretta origine nicciana, siano cioè il
prodotto di una elaborazione di pensiero da porsi nella sfera
della «alta cultura», oppure abbiano origini molto
più modeste, siano, per esempio, connesse con la
letteratura d'appendice. (E lo stesso Nietzsche non sarà
stato per nulla influenzato dai romanzi francesi d'appendice?
Occorre ricordare che tale letteratura, oggi degradata alle
portinerie e ai sottoscala, è stata molto diffusa tra gli
intellettuali, almeno fino al 1870, come oggi il cosí detto
romanzo «giallo»). In ogni modo pare si possa
affermare che molta sedicente «superumanità»
nicciana ha solo come origine e modello dottrinale non Zaratustra
ma Il conte di Montecristo di A. Dumas. Il tipo più
compiutamente rappresentato dal Dumas in Montecristo trova, in
altri romanzi dello stesso autore, numerose repliche: esso
è da identificare, per esempio, nell'Athos dei Tre
Moschettieri, in Giuseppe Balsamo e forse anche in altri
personaggi.
Cosí, quando si legge che uno è ammiratore del
Balzac, occorre porsi in guardia: anche nel Balzac c'è
molto del romanzo d'appendice. Vautrin è anch'egli, a suo
modo, un superuomo, e il discorso che egli fa a Rastignac nel
Papà Goriot ha molto di... nicciano in senso popolaresco;
lo stesso deve dirsi di Rastignac e di Rubempré. (Vincenzo
Morello è diventato «Rastignac» per una tale
filiazione... popolaresca e ha difeso «Corrado
Brando»).
La fortuna del Nietzsche è stata molto composita: le sue
opere complete sono edite dall'editore Monanni e si conoscono le
origini culturali-ideologiche del Monanni e della sua più
affezionata clientela.
Vautrin e l'«amico di Vautrin» hanno lasciato larga
traccia nella letteratura di Paolo Valera e della sua
«Folla» (ricordare il torinese «amico di
Vautrin» della «Folla»). Largo seguito
popolaresco ha avuto l'ideologia del «moschettiere»
presa dal romanzo del Dumas.
Che si abbia un certo pudore a giustificare mentalmente le proprie
concezioni coi romanzi di Dumas e di Balzac, s'intende facilmente:
perciò le si giustifica col Nietzsche e si ammira Balzac
come scrittore d'arte e non come creatore di figure romanzesche
del tipo appendice. Ma il nesso reale pare certo culturalmente.
Il tipo del «superuomo» è Montecristo, liberato
di quel particolare alone di «fatalismo» che è
proprio del basso romanticismo e che [è] ancor più
calcato in Athos e in G. Balsamo. Montecristo portato nella
politica è certo oltremodo pittoresco: la lotta contro i
«nemici personali» del Montecristo, ecc.
Si può osservare come certi paesi siano rimasti provinciali
e arretrati anche in questa sfera in confronto di altri; mentre
già Sherlock Holmes è diventato anacronistico per
molta Europa, in alcuni paesi si è ancora a Montecristo e a
Fenimore Cooper (cfr. «i selvaggi», «pizzo di
ferro», ecc.).
Cfr. il libro di Mario Praz: La carne, la morte e il diavolo nella
letteratura romantica (Edizione della Cultura): accanto alla
ricerca del Praz, sarebbe da fare quest'altra ricerca: del
«superuomo» nella letteratura popolare e dei suoi
influssi nella vita reale e nei costumi (la piccola borghesia e i
piccoli intellettuali sono particolarmente influenzati da tali
immagini romanzesche, che sono come il loro «oppio»,
il loro «paradiso artificiale» in contrasto con la
meschinità e le strettezze della loro vita reale
immediata): da ciò la fortuna di alcuni motti come:
«è meglio vivere un giorno da leone che cento anni da
pecora», fortuna particolarmente grande in chi è
proprio e irrimediabilmente pecora. Quante di queste
«pecore» dicono: oh! avessi io il potere anche per un
giorno solo ecc.; essere «giustizieri» implacabili
è l'aspirazione di chi sente l'influsso di Montecristo.
Adolfo Omodeo ha osservato che esiste una specie di
«manomorta» culturale, costituita dalla letteratura
religiosa, di cui nessuno pare voglia occuparsi, come se non
avesse importanza e funzione nella vita nazionale e popolare. A
parte l'epigramma della «manomorta» e la soddisfazione
del clero che la sua speciale letteratura non sia sottoposta a un
esame critico, esiste un'altra sezione della vita culturale
nazionale e popolare di cui nessuno si occupa e si preoccupa
criticamente ed è appunto la letteratura d'appendice
propriamente detta e anche in senso largo (in questo senso vi
rientra Victor Hugo e anche il Balzac).
In Montecristo vi sono due capitoli dove esplicitamente si
disserta del «superuomo» d'appendice: quello
intitolato «Ideologia», quando Montecristo si incontra
col procuratore Villefort e quello che descrive la colazione
presso il visconte di Morcerf al primo viaggio di Montecristo a
Parigi. È da vedere se in altri romanzi del Dumas esistono
spunti «ideologici» del genere. Nei Tre moschettieri,
Athos ha più dell'uomo fatale generico del basso
romanticismo: in questo romanzo gli umori individualistici
popolareschi sono piuttosto solleticati con l'attività
avventurosa ed extralegale dei moschettieri come tali. In Giuseppe
Balsamo, la potenza dell'individuo è legata a forze oscure
di magia e all'appoggio della massoneria europea, quindi l'esempio
è meno suggestivo per il lettore popolaresco. Nel Balzac le
figure sono più concretamente artistiche, ma tuttavia
rientrano nell'atmosfera del romanticismo popolaresco. Rastignac e
Vautrin non sono certo da confondersi coi personaggi dumasiani e
appunto perciò la loro influenza è più
«confessabile», non solo da parte di uomini come Paolo
Valera e i suoi collaboratori della «Folla» ma anche
da mediocri intellettuali come V. Morello, che però
ritengono (o sono ritenuti da molti) appartenere alla «alta
coltura».
Da avvicinare al Balzac è lo Stendhal con la figura di
Giuliano Sorel e altre del suo repertorio romanzesco.
Per il «superuomo» del Nietzsche, oltre all'influsso
romantico francese (e in generale del culto di Napoleone) sono da
vedere le tendenze razziste che hanno culminato nel Gobineau e
quindi nel Chamberlain e nel pangermanismo (Treitschke, la teoria
della potenza ecc.).
Ma forse il «superuomo» popolaresco dumasiano è
da ritenersi proprio una reazione «democratica» alla
concezione d'origine feudale del razzismo, da unire
all'esaltazione del «gallicismo» fatta nei romanzi di
Eugenio Sue.
Come reazione a questa tendenza del romanzo popolare francese
è da ricordare Dostojevschi: Raskolnikov è
Montecristo «criticato» da un panslavista-cristiano.
Per l'influsso esercitato su Dostojevschi dal romanzo francese
d'appendice è da confrontare il numero unico dedicato a
Dostojevschi dalla «Cultura».
Nel carattere popolaresco del «superuomo» sono
contenuti molti elementi teatrali, esteriori, da
«primadonna» più che da superuomo; molto
formalismo «soggettivo e oggettivo», ambizioni
fanciullesche di essere il «primo della classe», ma
specialmente di essere ritenuto e proclamato tale.
Per i rapporti tra il basso romanticismo e alcuni aspetti della
vita moderna (atmosfera da Conte di Montecristo) è da
leggere un articolo di Louis Gillet nella «Revue des deux
mondes» del 15 dicembre 1932.
Questo tipo di «superuomo» ha la sua espressione nel
teatro (specialmente francese, che continua per tanti rispetti la
letteratura d'appendice quarantottesca): è da vedere il
repertorio «classico» di Ruggero Ruggeri come Il
marchese di Priola, L'artiglio, ecc. e molti lavori di Henry
Bernstein.
Q 6 § 134 Cfr. ciò che ho scritto a proposito del Conte di Montecristo come modello esemplare di romanzo d'appendice. Il romanzo d'appendice sostituisce (e favorisce nel tempo stesso) il fantasticare dell'uomo del popolo, è un vero sognare ad occhi aperti. Si può vedere ciò che sostengono Freud e i psicanalisti sul sognare ad occhi aperti. In questo caso si può dire che nel popolo il fantasticare è dipendente dal «complesso di inferiorità» (sociale) che determina lunghe fantasticherie sull'idea di vendetta, di punizione dei colpevoli dei mali sopportati, ecc. Nel Conte di Montecristo ci sono tutti gli elementi per cullare queste fantasticherie e per quindi propinare un narcotico che attutisca il senso del male, ecc.
Q 6 § 168 [Le tendenze «populiste».] Cfr. Alberto Consiglio, Populismo e nuove tendenze della letteratura francese,
«Nuova Antologia», 1° aprile 1931. Il Consiglio
prende le mosse dall'inchiesta delle «Nouvelles
Littéraires» sul «Romanzo operaio e
contadino» (nei mesi luglio-agosto 1930). L'articolo
è da rileggere, quando l'argomento volesse esser trattato
organicamente. La tesi del Consiglio (più o meno esplicita
e consapevole) è questa: di fronte al crescere della
potenza politica e sociale del proletariato e della sua ideologia,
alcune sezioni dell'intellettualismo francese reagiscono con
questi movimenti «verso il popolo». L'avvicinamento al
popolo significherebbe quindi una ripresa del pensiero borghese
che non vuole perdere la sua egemonia sulle classi popolari e che,
per esercitare meglio questa egemonia, accoglie una parte
dell'ideologia proletaria. Sarebbe un ritorno a forme
«democratiche» più sostanziali del corrente
«democratismo» formale.
È da vedere se anche un fenomeno di questo genere non sia
molto significativo e importante storicamente e non rappresenti
una fase necessaria di transizione e un episodio
dell'«educazione popolare» indiretta. Una lista delle
tendenze «populiste» e una analisi di ciascuna di esse
sarebbe interessante: si potrebbe «scoprire» una di
quelle che Vico chiama «astuzie della natura»,
cioè come un impulso sociale, tendente a un fine, realizzi
il suo contrario.
Q 6 § 172 [«La Farfalla».] Cfr. Antonio Baldini, Stonature di cinquant'anni fa: la Farfalla petroliera, «Nuova Antologia», 16 giugno 1931. «La Farfalla», fondata da Angelo Sommaruga a Cagliari e dopo due anni trasportata a Milano (verso il 1880). Il periodico finí col diventare la rivista di un gruppo di «artisti... proletari». Vi scrissero Paolo Valera e Filippo Turati. Valera dirigeva allora «La Plebe» (quale? vedere) e scriveva i suoi romanzi: Milano sconosciuta e Gli scamiciati, séguito alla Milano sconosciuta. Vi scrivevano Cesario Testa, che dirigeva l'«Anticristo», e Ulisse Barbieri.
La stessa impresa editoriale della «Farfalla» pubblicava una «Biblioteca naturalista» e una «Biblioteca socialista». Almanacco degli Atei per il 1881. Zola, Vallès, di Goncourt, romanzi sui bassi fondi, galere, postriboli, ospedali, strade (Lumpenproletariat), anticlericalismo, ateismo, naturalismo (Stecchetti «poeta civile»). G. Aurelio Costanzo, Gli eroi della soffitta (da ragazzi, in casa, avendo visto il libro, pensavamo che si parlasse di lotte fra i topi). Carducci dell'Inno a Satana, ecc. Stile barocco come quello di Turati (ricordare i suoi versi riportati da Schiavi nell'antologia Fiorita di canti sociali): «Budda, Socrate, Cristo han detto il vero: – Per Satanasso un infedel vel giura. – Vivono i morti e strangolarli è vano». (Questo «episodio» di vita «artistica» milanese potrà essere studiato e ricostruito a titolo di curiosità e anche non senza un interesse critico ed educativo). Sulla «Farfalla» del periodo cagliaritano ha scritto Raffa Garzia, Per la storia del nostro giornalismo letterario, in «Glossa Perenne», febbraio 1929.
Q 6 § 207 Il Guerin Meschino. Nel «Corriere della Sera» del 7
gennaio 1932 è pubblicato un articolo firmato Radius con
questi titoli: I classici del popolo. Guerino detto il Meschino.
Il sopratitolo I classici del popolo è vago e incerto: il
Guerino, con tutta una serie di libri simili (I Reali di Francia,
Bertoldo, storie di briganti, storie di cavalieri, ecc.)
rappresenta una determinata letteratura popolare, la più
elementare e primitiva, diffusa tra gli strati più
arretrati e «isolati» del popolo: specialmente nel
Mezzogiorno, nelle montagne, ecc. I lettori del Guerino non
leggono Dumas o i Miserabili e tanto meno Sherlock Holmes. A
questi strati corrisponde un determinato folclore e un determinato
«senso comune».
Radius ha solo leggiucchiato il libro e non ha molta dimestichezza
con la filologia. Egli dà di Meschino un significato
cervellotico: «il nomignolo fu appioppato all'eroe per via
della sua grande meschinità genealogica»: errore
colossale che muta tutta la psicologia popolare del libro e muta
il rapporto psicologico-sentimentale dei lettori popolari verso il
libro. Appare subito che Guerino è di stirpe regia, ma la
sua sfortuna lo fa diventare «servo», cioè
«meschino» come si diceva nel Medio Evo e come si
trova in Dante (nella Vita Nova, ricordo perfettamente). Si tratta
dunque di un figlio di re, ridotto in ischiavitú, che
riconquista, coi suoi propri mezzi e con la sua volontà, il
suo rango naturale: c'è nel «popolo» più
primitivo questo ossequio tradizionale alla nascita che diventa
«affettuoso» quando la sfortuna colpisce l'eroe e
diventa entusiasmo quando l'eroe riconquista, contro la sfortuna,
la sua posizione sociale.
Guerino come poema popolare «italiano»: è da
notare, da questo punto di vista, quanto sia rozzo e incondito il
libro, cioè come non abbia subíto nessuna
elaborazione e perfezionamento, dato l'isolamento culturale del
popolo, lasciato a se stesso. Forse per questa ragione si spiega
l'assenza di intrighi amorosi, l'assenza completa di erotismo nel
Guerino.
Il Guerino come «enciclopedia popolare»: da osservare
quanto debba essere bassa la cultura degli strati che leggono il
Guerino e quanto poco interesse abbiano per la
«geografia», per esempio, per accontentarsi e prendere
sul serio il Guerino. Si potrebbe analizzare il Guerino come
«enciclopedia» per averne indicazioni sulla rozzezza
mentale e sulla indifferenza culturale del vasto strato di popolo
che ancora se ne pasce.
Q 6 § 208 Lo «Spartaco» di R. Giovagnoli. Nel «Corriere
della Sera» dell'8 gennaio 1932 è pubblicata la
lettera inviata da Garibaldi a Raffaele Giovagnoli il 25 giugno
1874 da Caprera, subito dopo la lettura del romanzo Spartaco. La
lettera è molto interessante per questa rubrica sulla
«letteratura popolare» poiché il Garibaldi ha
scritto anche egli dei «romanzi popolari» e nella
lettera sono gli spunti principali della sua «poetica»
in questo genere. Spartaco del Giovagnoli, d'altronde, è
uno dei pochissimi romanzi popolari italiani che ha avuto
diffusione anche all'estero, in un periodo in cui il
«romanzo» popolare da noi era
«anticlericale» e «nazionale», aveva
cioè caratteri e limiti strettamente paesani.
Per
ciò che ricordo, mi pare che Spartaco si presterebbe
specialmente a un tentativo che, entro certi limiti, potrebbe
diventare un metodo: si potrebbe cioè
«tradurlo» in lingua moderna: purgarlo delle forme
retoriche e barocche come lingua narrativa, ripulirlo di qualche
idiosincrasia tecnica e stilistica, rendendolo
«attuale». Si tratterebbe di fare, consapevolmente,
quel lavorio di adattamento ai tempi e ai nuovi sentimenti e nuovi
stili che la letteratura popolare subiva tradizionalmente quando
si trasmetteva per via orale e non era stata fissata e
fossilizzata dalla scrittura e dalla stampa. Se questo si fa da
una lingua in un'altra, per i capolavori del mondo classico che
ogni età ha tradotto e imitato secondo le nuove culture,
perché non si potrebbe e dovrebbe fare per lavori come
Spartaco e altri, che hanno un valore
«culturale-popolare» più che artistico? (Motivo
da svolgere). Questo lavorio di adattamento si verifica ancora
nella musica popolare, per i motivi musicali popolarmente diffusi:
quante canzoni d'amore non sono diventate politiche, passando per
due tre elaborazioni? Ciò avviene in tutti i paesi e si
potrebbero citare dei casi abbastanza curiosi (per es. l'inno
tirolese di Andreas Hofer che ha dato la forma musicale alla
Molodaia Gvardia).
Per i romanzi ci sarebbe l'impedimento dei diritti d'autore che
oggi mi pare durino fino a ottanta anni dalla prima pubblicazione
(non si potrebbe però eseguire il rimodernamento per certe
opere: per esempio I Miserabili, l'Ebreo Errante, Il conte di
Montecristo, ecc. che sono troppo fissati nella forma originale).
Q 7 § 52 Sezione cattolica. Il gesuita Ugo Mioni. Ho letto in questi giorni
(agosto 1931) un romanzo di Ugo Mioni La ridda dei milioni
stampato dall'Opera di S. Paolo di Alba. A parte il carattere
prettamente gesuitico (e antisemita) che è particolarissimo
di questo romanzaccio, mi ha colpito la trascuratezza stilistica e
anche grammaticale della scrittura del Mioni. La stampa è
pessima, i refusi e gli errori formicolano e questo è
già grave in libretti dedicati ai giovani del popolo che
spesso in essi imparano la lingua letteraria; ma se lo stile e la
grammatica del Mioni possono aver sofferto per la cattiva stampa,
è certo che lo scrittore è pessimo oggettivamente.
In ciò il Mioni si stacca dalla tradizione di compostezza e
anzi di falsa eleganza e lindura degli scrittori gesuitici come il
padre Bresciani. Pare che Ugo Mioni (attualmente Mons. U. M.) non
sia più gesuita della Compagnia di Gesú.
Q 7 § 58 [L'Ebreo Errante.] Diffusione dell'Ebreo Errante in Italia nel
periodo del Risorgimento. Vedere l'articolo di Baccio M. Bacci
Diego Martelli, l'amico dei «Macchiaioli» nel
«Pègaso» del marzo 1931. Il Bacci riporta
integralmente in parte e in parte riassume (pp. 298-99) alcune
pagine inedite dei Ricordi della mia prima età, in cui il
Martelli racconta che spesso (tra il '49 e il '59) si riunivano in
casa sua gli amici del padre, tutti patriotti e uomini di studio
come il padre stesso: Atto Vannucci, Giuseppe Arcangeli,
insegnante di greco e di latino, Vincenzo Monteri, chimico,
fondatore dell'illuminazione a gas a Firenze, Pietro Thouar,
Antonio Mordini, Giuseppe Mazzoni, triumviro con Guerrazzi e
Montanelli, il Salvagnoli, il Giusti, ecc.: discutevano di arte e
di politica e talvolta leggevano i libri che circolavano
clandestini. Vieusseux aveva introdotto l'Ebreo Errante: ne fu
fatta lettura in casa Martelli, davanti agli amici intervenuti da
Firenze e da fuori. Racconta Diego Martelli: «Chi si
strappava i capelli, chi pestava i piedi, chi mostrava le pugna al
cielo...».
Q 7 § 75 In un articolo di Antonio Baldini («Corriere della
Sera», 6 dicembre 1931) su Paolina Leopardi (Tutta-di-tutti)
e i suoi rapporti con Prospero Viani, si ricorda, sulle tracce di
un gruppo di lettere pubblicate da C. Antona-Traversi
(«Civiltà moderna», anno III, n. 5, Firenze,
Vallecchi) che il Viani soleva inviare alla Leopardi i romanzi di
Eugenio Sue (I misteri di Parigi e anche L'ebreo errante) che
Paolina trovava «deliziosi». Ricordare il carattere di
P. Viani, erudito, corrispondente della Crusca e l'ambiente in cui
viveva Paolina, accanto all'ultrareazionario Monaldo, che scriveva
la rivista «Voce della Ragione» (di cui Paolina era la
redattrice capo) ed era avverso alle ferrovie, ecc.
Q 8 § 122 [Gli «eroi» della letteratura popolare.] Uno degli atteggiamenti più caratteristici del pubblico popolare verso la sua letteratura è questo: non importa il nome e la personalità dell'autore, ma la persona del protagonista. Gli eroi della letteratura popolare, quando sono entrati nella sfera della vita intellettuale popolare, si staccano dalla loro origine «letteraria» e acquistano la validità del personaggio storico. Tutta la loro vita interessa, dalla nascita alla morte, e ciò spiega la fortuna delle «continuazioni», anche se artefatte: cioè può avvenire che il primo creatore del tipo, nel suo lavoro, faccia morire l'eroe e il «continuatore» lo faccia rivivere, con grande soddisfazione del pubblico che si appassiona nuovamente, e rinnova l'immagine prolungandola col nuovo materiale che gli è stato offerto.
Non bisogna intendere «personaggio storico» in senso letterale, sebbene anche questo avvenga, che dei lettori popolari non sappiano più distinguere tra mondo effettuale della storia passata e mondo fantastico e discutano sui personaggi romanzeschi come farebbero su quelli che hanno vissuto, ma in un modo traslato, per comprendere che il mondo fantastico acquista nella vita intellettuale popolare una concretezza fiabesca particolare. Cosí avviene per esempio che avvengano delle contaminazioni tra romanzi diversi, perché i personaggi si rassomigliano: il raccontatore popolare unisce in un solo eroe le avventure dei vari eroi ed è persuaso che cosí debba essere fatto per essere «intelligenti».
Q 8 § 135 Letteratura popolare. Cfr. E. Brenna, La letteratura educativa
popolare italiana nel secolo XIX (Milano, F.I.L.P., 1931, pp. 246,
L. 6). Dalla recensione dovuta alla prof. E. Formiggini-Santamaria
(«Italia che scrive» marzo 1932) si traggono questi
spunti: il libro della Brenna ebbe un premio d'incoraggiamento nel
concorso Ravizza, che pare aveva per tema appunto la
«letteratura educativa popolare». La Brenna ha dato un
quadro dell'evoluzione del romanzo, della novella, di scritti di
divulgazione morale e sociale, del dramma, degli scritti vernacoli
più diffusi nel secolo XIX con riferimenti al secolo XVIII
e in rapporto coll'indirizzo letterario nel suo globale
svolgimento.
La Brenna ha dato al termine «popolare» un senso molto
largo, «includendoci cioè anche la borghesia, quella
che non fa della coltura il suo scopo di vita, ma che può
accostarsi all'arte»; cosí ha considerato come
«letteratura educativa del popolo tutta quella di stile non
aulico e ricercato, includendovi per es. I Promessi Sposi, i
romanzi del D'Azeglio e gli altri della stessa indole, i versi del
Giusti e quelli che prendono ad argomento le lievi vicende e la
serena natura, come le rime del Pascoli e di Ada Negri.
La Formiggini-Santamaria fa alcune considerazioni interessanti: «Questa interpretazione del tema si giustifica pensando quanto sia stata scarsa nella prima metà del secolo scorso la diffusione dell'alfabeto tra gli artigiani e i contadini (ma la letteratura popolare non si diffonde solo per lettura individuale, ma anche per letture collettive; altre attività: i Maggi in Toscana, i cantastorie nell'Italia meridionale, sono proprie di ambienti arretrati dove [è] diffuso l'analfabetismo; anche le gare poetiche in Sardegna e Sicilia), e scarsa anche la stampa di libri adatti (cosa vuol dire «adatti»? e la letteratura non fa nascere nuovi bisogni?) alla povera mentalità di lavoratori del braccio; l'A. avrà pensato che, rievocando soltanto questi, il suo studio sarebbe riuscito molto ristretto.
Pure a me pare che l'intenzione implicita nel tema dato, sia stata di far risaltare, insieme con la scarsità di scritti d'indole popolare del sec. XIX, il bisogno di scrivere per il popolo libri adatti, e di far ricercare – attraverso l'analisi del passato – i criteri ai quali una letteratura popolare debba ispirarsi. Non dico che non dovesse esser dato uno sguardo alle pubblicazioni che nelle intenzioni degli scrittori dovevano servire ad educare il popolo senza tuttavia arrivare ad esso; ma da tale cenno avrebbe dovuto più esplicitamente risultare per quale motivo la buona intenzione restò intenzione. Vi furono invece altre opere (specialmente nella seconda metà del sec. XIX) che si proposero in prima linea il successo e secondariamente l'educazione, ed ebbero molta fortuna nelle classi popolari.
È vero che, prendendole in esame, la Brenna avrebbe dovuto
staccarsi molto spesso dal campo dell'arte, ma nell'analisi di
quei libri che si diffusero e si diffondono tuttora tra il popolo
(per es. gli illogici, complicati, tenebrosi romanzi della
Invernizio), nello studio su quei drammoni d'arena che strapparono
lacrime ed applausi al pubblico domenicale dei teatri secondari (e
che sono pur sempre ispirati ad amore della giustizia e al
coraggio) si sarebbe meglio potuto trovare l'aspetto più
emergente dell'animo popolare, il segreto di ciò che
può educarlo quando sia portato in un campo d'azione meno
unilaterale e più sereno».
La Formiggini nota poi che la Brenna non si è occupata
dello studio del folclore, e ricorda che bisogna occuparsi almeno
delle favole e novelle tipo fratelli Grimm.
La Formiggini insiste sulla parola «educativa» ma non
indica il contenuto che dovrebbe avere tale concetto, eppure la
quistione è tutta qui. La
«tendenziosità» della letteratura popolare
educativa d'intenzione è cosi insipida e falsa, risponde
cosí poco agli interessi mentali del popolo che
l'impopolarità è la sanzione giusta.
Q 8 § 254 4° [Biografie romanzate.] Se è vero che la biografia romanzata continua, in un certo senso, il romanzo storico popolare tipo A. Dumas padre, si può dire che da questo punto di vista, in questo particolare settore, in Italia si sta «colmando una lacuna». È da vedere ciò che pubblica la Casa ed. «Corbaccio», e qualche altra, e specialmente i libri di Mazzucchelli. È da notare però che la biografia romanzata, se ha un pubblico popolare, non è popolare in senso completo come il romanzo d'appendice: essa si rivolge a un pubblico che ha o crede avere delle pretese di cultura superiore, alla piccola borghesia rurale e urbana che crede essere diventata «classe dirigente», e arbitra dello Stato. Il tipo moderno del romanzo popolare è quello poliziesco, «giallo», e in questo settore si ha zero. Cosí si ha zero nel romanzo d'avventure in senso largo, sia del tipo Stevenson, Conrad, London, sia del tipo francese odierno (Mac-Orlan, Malraux, ecc.).
Q 9 § 120 [Scrittori popolari.] Nel «Marzocco» del 13 settembre
1931, Aldo Sorani (che si è occupato spesso, in diverse
riviste e giornali, della letteratura popolare) ha pubblicato un
articolo: Romanzieri popolari contemporanei in cui commenta la
serie di articoli sugli «Illustri ignoti» pubblicati
dallo Charensol nelle «Nouvelles Littéraires»
(di cui è nota più avanti). «Si tratta di
scrittori popolarissimi di romanzi d'avventure e d'appendice,
sconosciuti o quasi al pubblico letterario, ma idoleggiati e
seguiti ciecamente da quel più grosso pubblico di lettori
che decreta le tirature mastodontiche e di letteratura non
s'intende affatto, ma vuol essere interessato e appassionato da
intrecci sensazionali di vicende criminali od amorose. Per il
popolo sono essi i veri scrittori e il popolo sente per loro
un'ammirazione ed una gratitudine che questi romanzieri tengon
deste somministrando ad editori e lettori una mole di lavoro
cosí continua ed imponente da parere incredibile e
insostenibile da forze, non dico intellettuali, ma fisiche».
Il Sorani osserva che questi scrittori «si sono asserviti ad
un compito stremante e adempiono ad un servizio pubblico reale se
infinite schiere di lettori e di lettrici non possono farne a meno
e gli editori conseguono dalla loro inesauribile attività
lauti guadagni». Il Sorani impiega l'espressione di
«servizio pubblico reale» ma ne dà una
definizione meschina, e che non corrisponde a quella di cui si
parla in queste note. Il Sorani nota che questi scrittori, come
appare dagli articoli dello Charensol, «hanno reso
più severi i loro costumi e più morigerata in genere
la loro vita, dal tempo ormai remoto in cui Ponson du Terrail o
Xavier de Montépin esigevano una notorietà mondana e
facevano di tutto per accaparrarsela [...], pretendendo che, alla
fine, essi non si distinguevano dai loro più accademici
confratelli che per una diversità di stile. Essi scrivevano
come si parla, mentre gli altri scrivevano come non si
parla!» (Tuttavia anche gli «illustri ignoti»
fanno parte, in Francia, delle associazioni di letterati, tal
quale il Montépin. Ricordare anche l'astio di Balzac contro
Sue per i successi mondani e finanziari di questo).
Scrive ancora il Sorani: «Un lato non trascurabile della
persistenza di questa letteratura popolare (...) è offerto
dalla passione del pubblico. Specialmente il grosso pubblico
francese, quel pubblico che taluno crede il più smaliziato,
critico e blasé del mondo, è rimasto fedele al
romanzo d'avventure e d'appendice. Il giornalismo francese di
informazione e di grande tiratura è quello che non ha
ancora saputo o potuto rinunziare al romanzo d'appendice.
Proletariato e borghesia sono ancora in grandi masse cosí
ingenui (?) da aver bisogno degli interminabili racconti
emozionanti e sentimentali, raccapriccianti o larmoyants per
nutrimento quotidiano della loro curiosità e della loro
sentimentalità, hanno ancora bisogno di parteggiare tra gli
eroi della delinquenza e quelli della giustizia o della
vendetta».
«A differenza del pubblico francese, quello inglese o
americano s'è riversato sul romanzo d'avventure storiche (e
i francesi no?!) o su quello d'avventure poliziesche ecc. (luoghi
comuni sui caratteri nazionali)».
«Quanto all'Italia, credo che ci si potrebbe domandare
perché la letteratura popolare non sia popolare in Italia.
(Non è detto con esattezza: non ci sono in Italia
scrittori, ma i lettori sono una caterva). Dopo il Mastriani e
l'Invernizio, mi pare che siano venuti a mancare tra noi i
romanzieri capaci di conquistare la folla facendo inorridire e
lacrimare un pubblico di lettori ingenui, fedeli e insaziabili.
Perché questo genere di romanzieri non ha continuato (?) ad
allignare tra noi? La nostra letteratura è stata anche nei
suoi bassifondi troppo accademica e letterata? I nostri editori
non hanno saputo coltivare una pianta ritenuta troppo spregevole?
I nostri scrittori non hanno fantasia capace d'animare le
appendici e le dispense? O noi, anche in questo campo, ci siamo
contentati e ci contentiamo di importare quanto producono gli
altri mercati? Certo non abbondiamo come la Francia di "illustri
sconosciuti" e una qualche ragione per questa deficienza ci deve
essere e varrebbe forse la pena di ricercarla».
Q 14 § 41 Balzac. (Cfr. qualche altra nota: accenni all'ammirazione per Balzac dei fondatori della filosofia della prassi; lettera inedita di Engels in cui questa ammirazione è giustificata criticamente). Confrontare l'articolo di Paolo Bourget, Les idées politiques et sociales de Balzac nelle «Nouvelles Littéraires» dell'8 agosto 1931.
Il
Bourget comincia col notare come oggi si dà sempre
più importanza alle idee di Balzac: «l'école
traditionaliste (cioè forcaiola), que nous voyons grandir
chaque jour, inscrit son nom à côté de celui
de Bonald, de Le Play, de Taine lui même». Invece non
era cosí nel passato. Sainte-Beuve, nell'articolo dei
Lundis consacrati a Balzac dopo la sua morte, non accenna neppure
alle sue idee politiche e sociali. Taine, che ammirava lo
scrittore di romanzi, gli negò ogni importanza dottrinale.
Lo stesso critico cattolico Caro, verso gli inizi del secondo
Impero, giudicava futili le idee del Balzac. Flaubert scrive che
le idee politiche e sociali di Balzac non valgono la pena di
essere discusse: «Il était catholique,
légitimiste, propriétaire! – scrive Flaubert – un
immense bonhomme, mais de second ordre». Zola scrive:
«Rien de plus étrange que ce soutien du pouvoir
absolu, dont le talent est essentiellement démocratique et
qui a écrit l'oeuvre la plus révolutionnaire».
Eccetera.
Si capisce l'articolo del Bourget. Si tratta di trovare in Balzac
l'origine del romanzo positivista, ma reazionario, la scienza al
servizio della reazione (tipo Maurras), che d'altronde è il
destino più esatto del positivismo stabilito dal Comte.
Balzac e la scienza. Cfr. la «Prefazione generale»
della Commedia umana, dove il Balzac scrive che il naturalista
avrà l'onore eterno di aver mostrato che «l'animal
est un principe qui prend sa forme extérieure, ou mieux,
les différences de sa forme, dans les milieux où il
est appelé à se développer. Les
espèces zoologiques résultent des ces
différences... Pénétré de ce
système, je vis que la société ressemble
à la nature. Ne fait-elle pas de l'homme, suivant les
milieux où son action se déploie, autant d'hommes
différents qu'il y a des variétés
zoologiques?... Il a donc existé, il existera de tout temps
des espèces sociales comme il y a des espèces
zoologiques. Les différences entre un soldat, un ouvrier,
un administrateur, un oisif (!!), un savant, un homme d'Etat, un
commerçant, un marin, un poëte, un pauvre (!!), un
prêtre, sont aussi considérables que celles qui
distinguent le loup, le lion, l'âne, le corbeau, le requin,
le veau marin, la brebis».
Che Balzac abbia scritto queste cose e magari le prendesse sul
serio e immaginasse di costruire tutto un sistema sociale su
queste metafore, non fa maraviglia e neanche diminuisce per nulla
la grandezza di Balzac artista. Ciò che è notevole
è che oggi il Bourget e, come egli dice, la «scuola
tradizionalista», si fondi su queste povere fantasie
«scientifiche» per costruire sistemi politico-sociali
senza giustificazione di attività artistica.
Partendo da queste premesse il Balzac si pone il problema di
«perfezionare al massimo queste specie sociali» e di
armonizzarle tra loro, ma siccome le «specie» sono
create dall'ambiente, bisognerà «conservare» e
organizzare l'ambiente dato per mantenere e perfezionare la specie
data. Eccetera. Pare che non avesse torto Flaubert scrivendo che
non merita la pena di discutere le idee sociali di Balzac. E
l'articolo del Bourget mostra solo quanto sia fossilizzata la
scuola tradizionalista francese.
Ma se tutta la costruzione del Balzac è senza importanza
come «programma pratico», cioè dal punto di
vista da cui l'esamina il Bourget, in essa sono elementi che hanno
interesse per ricostruire il mondo poetico del Balzac, la sua
concezione del mondo in quanto si è realizzata
artisticamente, il suo «realismo» che, pur avendo
origini ideologiche reazionarie, di restaurazione, monarchiche,
ecc., non perciò è meno realismo in atto. E si
capisce l'ammirazione che per il Balzac nutrirono i fondatori
della filosofia della prassi: che l'uomo sia tutto il complesso
delle condizioni sociali in cui egli si è sviluppato e
vive, che per «mutare» l'uomo occorre mutare questo
complesso di condizioni è intuito chiaramente dal Balzac.
Che «politicamente e socialmente» egli sia un
reazionario, appare solo dalla parte extra-artistica dei suoi
scritti (divagazione, prefazioni, ecc.). Che anche questo
«complesso di condizioni» o «ambiente» sia
inteso «naturalisticamente» è anche vero;
infatti il Balzac precede una determinata corrente letteraria
francese, ecc.
Q 17 § 29 Articolo di Andrea Moufflet nel «Mercure de France»
del 1° febbraio 1931 sul romanzo d'appendice. Il romanzo
d'appendice, secondo il Moufflet, è nato dal bisogno di
illusione, che infinite esistenze meschine provavano, e forse
provano ancora, quasi a rompere la grama monotonia a cui si vedono
condannate.
Osservazione generica: si può fare per tutti i romanzi e
non solo d'appendice: occorre analizzare quale particolare
illusione dà al popolo il romanzo d'appendice, e come
questa illusione cambi coi periodi storico-politici: c'è lo
snobismo, ma c'è un fondo di aspirazioni democratiche che
si riflettono nel romanzo d'appendice classico. Romanzo
«tenebroso» alla Radcliffe, romanzo d'intrigo,
d'avventura, poliziesco, giallo, della malavita ecc. Lo snob si
vede nel romanzo d'appendice che descrive la vita dei nobili o
delle classi alte in generale, ma questo piace alle donne e
specialmente alle ragazze, ognuna delle quali, del resto, pensa
che la bellezza può farla entrare nella classe superiore.
Esistono per il Moufflet i «classici» del romanzo
d'appendice, ma ciò è inteso in un certo senso: pare
che il romanzo d'appendice classico sia quello
«democratico» con diverse sfumature da V. Hugo, a Sue,
a Dumas. L'articolo del Moufflet sarà da leggere, ma
occorre tener presente che egli esamina il romanzo d'appendice
come «genere letterario», per lo stile ecc., come
espressione di un'«estetica popolare» ciò che
è falso. Il popolo è «contenutista», ma
se il contenuto popolare è espresso da grandi artisti,
questi sono preferiti. Ricordare ciò che [ho] scritto per
l'amore del popolo per Shakespeare, per i classici greci, e
modernamente per i grandi romanzieri russi (Tolstoi,
Dostojevskij). Cosí, nella musica, Verdi.
Nell'articolo Le mercantilisme littéraire di J. H. Rosny
aîné, nelle «Nouvelles
Littéraires» del 4 ottobre 1930 si è detto che
V. Hugo scrisse i Miserabili ispirato dai Misteri di Parigi di
Eugenio Sue e dal successo che questi ebbero, tanto grande che
quarant'anni dopo l'editore Lacroix ne era ancora stupefatto.
Scrive il Rosny: «Le appendici, sia nell'intenzione del
direttore del giornale, sia nell'intenzione dell'appendicista,
furono prodotti ispirati dal gusto del pubblico e non dal gusto
degli autori». Questa definizione è anch'essa
unilaterale. E infatti il Rosny scrive solo una serie di
osservazioni sulla letteratura «commerciale» in genere
(quindi anche quella pornografica) e sul lato commerciale della
letteratura. Che il «commercio» e un determinato
«gusto» del pubblico si incontrino non è
casuale, tanto è vero che le appendici scritte intorno al
'48 avevano un determinato indirizzo politico-sociale che ancora
oggi le fa ricercare e leggere da un pubblico che vive gli stessi
sentimenti del '48.
Q 17 § 34 Il prigioniero che canta, di Johan Bojer (tradotto da L. Gray e G. Dauli, casa Editrice Bietti, Milano, 1930). Due aspetti culturali da osservare: 1) la concezione «pirandelliana» del protagonista, che continuamente ricrea la sua «personalità» fisica e morale, che è sempre diversa e pur sempre uguale. Può interessare per la fortuna del pirandellismo in Europa e allora occorre vedere quando il Bojer ha scritto il suo libro; 2) aspetto più strettamente popolare, contenuto nell'ultima parte del romanzo. Per esprimersi in termini «religiosi» l'autore sostiene in forma pirandelliana la vecchia concezione religiosa e riformistica del «male»: il male è nell'interno dell'uomo (in senso assoluto); in ogni uomo c'è per cosí dire un Caino e un Abele, che lottano tra loro: occorre, se si vuole eliminare il male dal mondo, che ognuno vinca in sé il Caino e faccia trionfare l'Abele: il problema del «male» non è dunque politico, o economico-sociale, ma «morale» o «moralistico». Mutare il mondo esterno, l'insieme dei rapporti, non conta nulla: ciò che è importante è il problema individuale-morale. In ognuno c'è il «giudeo» e il «cristiano», l'egoista e l'altruista: ognuno deve lottare in se stesso ecc., ammazzare il giudaismo che è in se stesso. È interessante che il pirandellismo sia servito al Bojer per cucinare questo vecchio piatto, che una teoria che passa per antireligiosa ecc. sia servita per ripresentare la vecchia impostazione cristiana del problema del male ecc.
Q 19 § 23 E. De Amicis e G. C. Abba. Significato della Vita Militare del De
Amicis. La Vita Militare è da porre accanto ad alcune
pubblicazioni di G. C. Abba, nonostante il contrasto intimo e il
diverso atteggiamento. G. C. Abba è più
«educatore» e più
«nazionale-popolare»: egli è certamente
più concretamente democratico del De Amicis perché
politicamente più robusto ed eticamente più austero.
Il De Amicis, nonostante le apparenze superficiali, è
più servile verso i gruppi dirigenti in forme
paternalistiche.
Nella Vita Militare è da vedere il capitolo:
«L'Esercito Italiano durante il colera del 1867»
perché ritrae l'atteggiamento del popolo siciliano verso il
governo e gli «italiani» dopo la sommossa del
settembre 1866. Guerra del 1866, sommossa di Palermo, colera: tre
fatti che non possono essere staccati. Sarà da vedere
l'altra letteratura sul colera in tutto il Mezzogiorno nel
1866-67. Non si può giudicare il livello civile della vita
popolare di quel tempo senza trattare questo argomento. (Esistono
pubblicazioni ufficiali sui reati contro le autorità –
soldati, ufficiali, ecc. – durante il colera?)
Q 21 § 6 Diversi tipi di romanzo popolare. Esiste una certa varietà
di tipi di romanzo popolare ed è da notare che, seppure
tutti i tipi simultaneamente godano di una qualche diffusione e
fortuna, tuttavia prevale uno di essi e di gran lunga. Da questo
prevalere si può identificare un cambiamento dei gusti
fondamentali, cosí come dalla simultaneità della
fortuna dei diversi tipi si può ricavare la prova che
esistono nel popolo diversi strati culturali, diverse «masse
di sentimenti» prevalenti nell'uno o nell'altro strato,
diversi «modelli di eroi» popolari.
Fissare un catalogo di questi tipi e stabilire storicamente la loro relativa maggiore o minore fortuna ha pertanto una importanza ai fini del presente saggio:
1) Tipo Victor Hugo – Eugenio Sue (I Miserabili, I Misteri di Parigi): a carattere spiccatamente ideologico-politico, di tendenza democratica legata alle ideologie quarantottesche;
2) Tipo sentimentale, non politico in senso stretto, ma in cui si esprime ciò che si potrebbe definire una «democrazia sentimentale» (Richebourg-Decourcelle ecc.);
3) Tipo che si presenta come di puro intrigo, ma ha un contenuto ideologico conservatore-reazionario (Montépin);
4) Il romanzo storico di A. Dumas e di Ponson du Terrail, che oltre al carattere storico, ha un carattere ideologico-politico, ma meno spiccato: Ponson du Terrail tuttavia è conservatore-reazionario e l'esaltazione degli aristocratici e dei loro servi fedeli ha un carattere ben diverso dalle rappresentazioni storiche di A. Dumas, che tuttavia non ha una tendenza democratico-politica spiccata, ma è piuttosto pervaso da sentimenti democratici generici e «passivi» e spesso si avvicina al tipo «sentimentale»;
5) Il romanzo poliziesco nel suo doppio aspetto (Lecocq, Rocambole, Sherlock Holmes, Arsenio Lupin);
6) Il romanzo tenebroso (fantasmi, castelli misteriosi ecc.: Anna Radcliffe ecc.);
7) Il
romanzo scientifico d'avventure, geografico, che può essere
tendenzioso o semplicemente d'intrigo (J. Verne – Boussenard).
Ognuno di questi tipi ha poi diversi aspetti nazionali (in America
il romanzo d'avventure è l'epopea dei pionieri ecc.). Si
può osservare come nella produzione d'insieme di ogni paese
sia implicito un sentimento nazionalistico, non espresso
retoricamente, ma abilmente insinuato nel racconto. Nel Verne e
nei francesi il sentimento antinglese, legato alla perdita delle
colonie e al bruciore delle sconfitte marittime è
vivissimo: nel romanzo geografico d'avventure i francesi non si
scontrano coi tedeschi, ma con gli inglesi. Ma il sentimento
antinglese è vivo anche nel romanzo storico e persino in
quello sentimentale (per es. George Sand). (Reazione per la guerra
dei cento anni e l'assassinio di Giovanna D'Arco e per la fine di
Napoleone).
In Italia nessuno di questi tipi ha avuto scrittori (numerosi) di
qualche rilievo (non rilievo letterario, ma valore
«commerciale», di invenzione, di costruzione ingegnosa
di intrighi, macchinosi sí ma elaborati con una certa
razionalità). Neanche il romanzo poliziesco, che ha avuto
tanta fortuna internazionale (e finanziaria per gli autori e gli
editori) ha avuto scrittori in Italia; eppure molti romanzi,
specialmente storici, hanno preso per argomento l'Italia e le
vicende storiche delle sue città, regioni, istituzioni,
uomini. Cosí la storia veneziana, con le sue organizzazioni
politiche, giudiziarie, poliziesche, ha dato e continua a dare
argomento ai romanzieri popolari di tutti i paesi, eccetto
l'Italia. Una certa fortuna ha avuto in Italia la letteratura
popolare sulla vita dei briganti, ma la produzione è di
valore bassissimo.
L'ultimo e più recente tipo di libro popolare è la
vita romanzata, che in ogni modo rappresenta un tentativo
inconsapevole di soddisfare le esigenze culturali di alcuni strati
popolari più smaliziati culturalmente, che non si
accontentano della storia tipo Dumas. Anche questa letteratura non
ha in Italia molti rappresentanti (Mazzucchelli, Cesare Giardini
ecc.): non solo gli scrittori italiani non sono paragonabili per
numero, fecondità, e doti di piacevolezza letteraria ai
francesi, ai tedeschi, agli inglesi, ma ciò che è
più significativo essi scelgono i loro argomenti fuori
d'Italia (Mazzucchelli e Giardini in Francia, Eucardio Momigliano
in Inghilterra), per adattarsi al gusto popolare italiano che si
è formato sui romanzi storici specialmente francesi. Il
letterato italiano non scriverebbe una biografia romanzata di
Masaniello, di Michele di Lando, di Cola di Rienzo senza credersi
in dovere di inzepparla di stucchevoli «pezze
d'appoggio» retoriche, perché non si creda... non si
pensi... ecc. ecc.
È vero che la fortuna delle vite
romanzate ha indotto molti editori a iniziare la pubblicazione di
collane biografiche, ma si tratta di libri che stanno alla vita
romanzata come la Monaca di Monza sta al Conte di Montecristo; si
tratta del solito schema biografico, spesso filologicamente
corretto, che può trovare al massimo qualche migliaio di
lettori, ma non diventare popolare.
È da notare che alcuni dei tipi di romanzo popolare su
elencati hanno una corrispondenza nel teatro e oggi nel
cinematografo. Nel teatro la fortuna considerevole di D. Niccodemi
è certo dovuta a ciò: che egli ha saputo
drammatizzare spunti e motivi eminentemente legati all'ideologia
popolare; cosí in Scampolo, nell'Aigrette, nella Volata
ecc. Anche in G. Forzano esiste qualcosa del genere, ma sul
modello di Ponson du Terrail, con tendenze conservatrici. Il
lavoro teatrale che in Italia ha avuto il maggior successo
popolare è La Morte Civile del Giacometti, di carattere
italiano: non ha avuto imitatori di pregio (sempre in senso non
letterario).
In questo reparto teatrale si può notare come
tutta una serie di drammaturghi, di grande valore letterario,
possono piacere moltissimo anche al pubblico popolare: Casa di
Bambola di Ibsen è molto gradita al popolo delle
città, in quanto i sentimenti rappresentati e la tendenza
morale dell'autore trovano una profonda risonanza nella psicologa
popolare. E cosa dovrebbe essere poi il cosí detto teatro
d'idee se non questo, la rappresentazione di passioni legate ai
costumi con soluzioni drammatiche che rappresentino una catarsi
«progressiva», che rappresentino il dramma della parte
più progredita intellettualmente e moralmente di una
società e che esprime lo sviluppo storico immanente negli
stessi costumi esistenti? Queste passioni e questo dramma
però devono essere rappresentati e non svolti come una
tesi, un discorso di propaganda, cioè l'autore deve vivere
nel mondo reale, con tutte le sue esigenze contraddittorie e non
esprimere sentimenti assorbiti solo dai libri.
Q 21 § 7 Romanzo e teatro popolare. Il dramma popolare viene chiamato, con
un significato dispregiativo, dramma o drammone da arena, forse
perché esistono in alcune città dei teatri
all'aperto chiamati Arene (l'Arena del Sole a Bologna). È
da ricordare ciò che scrisse Edoardo Boutet sugli
spettacoli classici (Eschilo, Sofocle) che la Compagnia Stabile di
Roma diretta appunto dal Boutet dava all'Arena del Sole di Bologna
il lunedí – giorno delle lavandaie – e sul grande successo
che tali rappresentazioni avevano. (Questi ricordi di vita
teatrale del Boutet furono stampati per la prima volta nella
rivista «Il Viandante» pubblicata a Milano da T.
Monicelli negli anni 1908-9). È anche da rilevare il
successo che nelle masse popolari hanno sempre avuto alcuni drammi
dello Shakespeare, ciò che appunto dimostra come si possa
essere grandi artisti e nello stesso tempo «popolari».
Nel «Marzocco» del 17 novembre 1929 è
pubblicata una nota di Gaio (Adolfo Orvieto), molto significativa:
«Danton», il melodramma e il «romanzo nella
vita». La nota dice: «Una compagnia drammatica di
recente "formazione", che ha messo insieme un repertorio di grandi
spettacoli popolari – dal Conte di Montecristo alle Due orfanelle
– con la speranza legittima di richiamare un po' di gente a
teatro, ha visto i suoi voti esauditi – a Firenze – con un
novissimo dramma d'autore ungherese e di soggetto
franco-rivoluzionario: Danton». Il dramma è di De
Pekar ed è «pura favola patetica con particolari
fantastici di estrema libertà» (per es. Robespierre e
Saint-Just assistono al processo di Danton e altercano con lui,
ecc.). «Ma è favola, tagliata alla brava, che si vale
dei vecchi metodi infallibili del teatro popolare, senza
pericolose deviazioni modernistiche. Tutto è elementare,
limitato, di taglio netto. Le tinte fortissime e i clamori si
alternano alle opportune smorzature e il pubblico respira e
consente. Mostra di appassionarsi e si diverte. Che sia questa la
strada migliore per riportarlo al teatro di prosa?»
La conclusione dell'Orvieto è significativa. Cosí nel 1929 per aver pubblico a teatro bisogna rappresentare il Conte di Montecristo e le Due Orfanelle e nel 1930 per far leggere i giornali bisogna pubblicare in appendice il Conte di Montecristo e Giuseppe Balsamo.
Q 21 § 8 Rilievi statistici. Quanti romanzi di autore italiano hanno
pubblicato i periodici popolari più diffusi, come il
«Romanzo Mensile», la «Domenica del
Corriere», la «Tribuna Illustrata», il
«Mattino Illustrato»? La «Domenica del
Corriere» forse nessuno in tutta la sua vita (circa 36 anni)
su circa un centinaio di romanzi pubblicati. La «Tribuna
Illustrata» qualcuno (negli ultimi tempi una serie di
romanzi polizieschi del principe Valerio Pignatelli); ma occorre
notare che la «Tribuna» è enormemente meno
diffusa della «Domenica», non è bene
organizzata redazionalmente ed ha un tipo di romanzo meno scelto.
Sarebbe interessante vedere la nazionalità degli autori e
il tipo dei romanzi d'avventura pubblicati. Il «Romanzo
Mensile» e la «Domenica» pubblicano molti
romanzi inglesi (quelli francesi tuttavia devono prevalere) e di
tipo poliziesco (hanno pubblicato Sherlock Holmes e Arsenio Lupin)
ma anche tedeschi, ungheresi (la baronessa Orczy è molto
diffusa e i suoi romanzi sulla Rivoluzione francese hanno avuto
molte ristampe anche nel «Romanzo Mensile» che pure
deve avere una grande diffusione) e persino australiani (di Guido
Boothby che ha avuto diverse edizioni): prevale certamente il
romanzo poliziesco o affine, imbevuto di una concezione
conservatrice e retriva o basato sul puro intrigo.
Sarebbe interessante sapere chi, nella redazione del «Corriere della Sera», era incaricato di scegliere questi romanzi e quali direttive gli erano state impartite, dato che nel «Corriere» tutto era organizzato sapientemente.
Il «Mattino Illustrato», sebbene esca a Napoli, pubblica romanzi del tipo «Domenica», ma si lascia guidare da quistioni finanziarie e spesso da velleità letterarie (cosí credo abbia pubblicato Conrad, Stevenson, London): lo stesso è da dire a proposito dell'«Illustrazione del Popolo» torinese.
Relativamente, e forse anche in modo assoluto, l'amministrazione del «Corriere» è il centro di maggior diffusione dei romanzi popolari: ne pubblica almeno 15 all'anno con tirature altissime.
Deve venir poi la Casa
Sonzogno, che deve avere anche una pubblicazione periodica. Un
confronto nel tempo dell'attività editoriale della Casa
Sonzogno darebbe un quadro abbastanza approssimativo delle
variazioni avvenute nel gusto del pubblico popolare; la ricerca
è difficile, perché la Sonzogno non stampa l'anno di
pubblicazione e non numera spesso le ristampe, ma un esame critico
dei cataloghi darebbe qualche risultato. Già un confronto
tra i cataloghi di 50 anni fa (quando il «Secolo» era
in auge) e quelli odierni sarebbe interessante: tutto il romanzo
lacrimoso-sentimentale deve essere caduto nel dimenticatoio,
eccetto qualche «capolavoro» del genere che deve
ancora resistere (come la Capinera del Mulino, del Richebourg):
d'altronde ciò non vuol dire che tali libri non siano letti
da certi strati della popolazione di provincia, dove «si
gusta» ancora dagli «spregiudicati» Paul De Kock
e si discute animatamente sulla filosofia dei Miserabili.
Cosí sarebbe interessante seguire la pubblicazione dei
romanzi a dispense, fino a quelli di speculazione, che costano
decine e decine di lire e sono legati a premi.
Un certo numero di romanzi popolari hanno pubblicato Edoardo
Perino e più recentemente il Nerbini, tutti a sfondo
anticlericale e legati alla tradizione guerrazziana. (È
inutile ricordare il Salani, editore popolare per eccellenza).
Occorrerebbe compilare una lista degli editori popolari.
Q 21 § 9 Ugo Mioni. La collezione «Tolle et lege» della Casa editrice
«Pia Società S. Paolo», Alba-Roma, su 111
numeri contenuti in una lista del 1928, aveva 65 romanzi di Ugo
Mioni e non sono certo tutti quelli pubblicati dal prolifico
monsignore, che d'altronde non ha scritto solo romanzi
d'avventura, ma anche di apologetica, di sociologia e anche un
grosso trattato di «Missionologia». Case editrici
cattoliche per pubblicazioni popolari: esiste anche una
pubblicazione periodica di romanzi. Male stampati e in traduzioni
scorrette.
Q 21 § 10 Verne e il romanzo geografico-scientifico. Nei libri del Verne non
c'è mai nulla di completamente impossibile: le
«possibilità» di cui dispongono gli eroi del
Verne sono superiori a quelle realmente esistenti nel tempo, ma
non troppo superiori e specialmente non «fuori» della
linea di sviluppo delle conquiste scientifiche realizzate;
l'immaginazione non è del tutto «arbitraria» e
perciò possiede la facoltà di eccitare la fantasia
del lettore già conquistato dall'ideologia dello sviluppo
fatale del progresso scientifico nel dominio del controllo delle
forze naturali. Diverso è il caso di Wells e di Poe, in cui
appunto domina in gran parte l'«arbitrario», anche se
il punto di partenza può essere logico e innestato in una
realtà scientifica concreta: nel Verne c'è
l'alleanza dell'intelletto umano e delle forze materiali, in Wells
e in Poe l'intelletto umano predomina e perciò Verne
è stato più popolare, perché più
comprensibile. Nello stesso tempo però questo equilibrio
nelle costruzioni romanzesche del Verne è diventato un
limite, nel tempo, alla sua popolarità (a parte il valore
artistico scarso): la scienza ha superato Verne e i suoi libri non
sono più «eccitanti psichici».
Qualche cosa di simile si può dire delle avventure
poliziesche, per es. di Conan Doyle; per il tempo erano eccitanti,
oggi quasi nulla e per varie ragioni: perché il mondo delle
lotte poliziesche è oggi più noto, mentre Conan
Doyle in gran parte lo rivelava, almeno a un gran numero di
pacifici lettori. Ma specialmente perché in Sherlock Holmes
c'è un equilibrio razionale (troppo) tra l'intelligenza e
la scienza. Oggi interessa di più l'apporto individuale
dell'eroe, la tecnica «psichica» in sé, e
quindi Poe e Chesterton sono più interessanti ecc.
Nel «Marzocco» del 19 febbraio 1928, Adolfo Faggi
(Impressioni da Giulio Verne) scrive che il carattere antinglese
di molti romanzi del Verne è da riportare a quel periodo di
rivalità fra la Francia e l'Inghilterra che culminò
nell'episodio di Fashoda. L'affermazione è errata e
anacronistica: l'antibritannicismo era (e forse è ancora)
un elemento fondamentale della psicologia popolare francese;
l'antitedeschismo è relativamente recente ed era meno
radicato dell'antibritannicismo, non esisteva prima della
Rivoluzione francese e si è incancrenito dopo il '70, dopo
la sconfitta e la dolorosa impressione che la Francia non era la
più forte nazione militare e politica dell'Europa
occidentale, perché la Germania, da sola, non in
coalizione, aveva vinto la Francia. L'antinglesismo risale alla
formazione della Francia moderna, come Stato unitario e moderno,
cioè alla guerra dei cento anni e ai riflessi
dell'immaginazione popolare della epopea di Giovanna D'Arco;
è stato rinforzato modernamente dalle guerre per l'egemonia
sul continente (e nel mondo) culminate nella Rivoluzione francese
e in Napoleone: l'episodio di Fashoda, con tutta la sua
gravità, non può essere paragonato a questa
imponente tradizione che è testimoniata da tutta la
letteratura francese popolare.
Q 21 § 12 Sul romanzo poliziesco. Il romanzo poliziesco è nato ai
margini della letteratura sulle «Cause Celebri». A
questa, d'altronde, è collegato anche il romanzo del tipo
Conte di Montecristo; non si tratta anche qui di «cause
celebri» romanzate, colorite con l'ideologia popolare
intorno all'amministrazione della giustizia, specialmente se ad
essa si intreccia la passione politica? Rodin dell'Ebreo Errante
non è un tipo di organizzatore di «intrighi
scellerati» che non si ferma dinanzi a qualsiasi delitto ed
assassinio e invece il principe Rodolfo non è, al
contrario, l'«amico del popolo» che sventa altri
intrighi e delitti?
Il passaggio da tale tipo di romanzo a quelli
di pura avventura è segnato da un processo di
schematizzazione del puro intrigo, depurato da ogni elemento di
ideologia democratica e piccolo borghese: non più la lotta
tra il popolo buono, semplice e generoso e le forze oscure della
tirannide (gesuiti, polizia segreta legata alla ragion di Stato o
all'ambizione di singoli principi ecc.) ma solo la lotta tra la
delinquenza professionale o specializzata e le forze dell'ordine
legale, private o pubbliche, sulla base della legge scritta. La
collezione delle «Cause Celebri», nella celebre
collezione francese, ha avuto il corrispettivo negli altri paesi;
fu tradotta in italiano, la collezione francese, almeno in parte,
per i processi di fama europea, come quello Fualdès, per
l'assassinio del corriere di Lione ecc.
L'attività «giudiziaria» ha sempre interessato
e continua a interessare: l'atteggiamento del sentimento pubblico
verso l'apparato della giustizia (sempre screditato e quindi
fortuna del poliziotto privato o dilettante) e verso il
delinquente è mutato spesso o almeno si è colorito
in vario modo. Il grande delinquente è stato spesso
rappresentato superiore all'apparato giudiziario, addirittura come
il rappresentante della «vera» giustizia: influsso del
romanticismo, I Masnadieri di Schiller, racconti di Hoffmann, Anna
Radcliffe, il Vautrin di Balzac.
Il tipo di Javert dei Miserabili è interessante dal punto
di vista della psicologia popolare: Javert ha torto dal punto di
vista della «vera giustizia», ma l'Hugo lo rappresenta
in modo simpatico, come «uomo di carattere», ligio al
dovere «astratto» ecc.; da Javert nasce forse una
tradizione secondo cui anche il poliziotto può essere
«rispettabile». Rocambole di Ponson du Terrail.
Gaboriau continua la riabilitazione del poliziotto col
«signor Lecoq» che apre la strada a Sherlock Holmes.
Non è vero che gli Inglesi nel romanzo
«giudiziario» rappresentano la «difesa della
legge», mentre i Francesi rappresentano l'esaltazione del
delinquente. Si tratta di un passaggio «culturale»
dovuto al fatto che questa letteratura si diffonde anche in certi
strati colti. Ricordare che il Sue, molto letto dai democratici
delle classi medie, ha escogitato tutto un sistema di repressione
della delinquenza professionale.
In questa letteratura poliziesca si sono sempre avute due
correnti: una meccanica – d'intrigo – l'altra artistica:
Chesterton oggi è il maggiore rappresentante dell'aspetto
«artistico» come lo fu un tempo Poe: Balzac con
Vautrin, si occupa del delinquente, ma non è
«tecnicamente» scrittore di romanzi polizieschi.
Q 21 § 13 Romanzi polizieschi 1) È da vedere il libro di Henry Jagot: Vidocq, ed.
Berger-Levrault, Parigi, 1930. Vidocq ha dato lo spunto al Vautrin
di Balzac e ad Alessandro Dumas (lo si ritrova anche un po' nel
Jean Valjean dell'Hugo e specialmente in Rocambole). Vidocq fu
condannato a otto anni come falso monetario, per una sua
imprudenza, 20 evasioni ecc. Nel 1812 entrò a far parte
della polizia di Napoleone e per 15 anni comandò una
squadra di agenti creata apposta per lui: divenne famoso per gli
arresti sensazionali. Congedato da Luigi Filippo, fondò
un'agenzia privata di detectives, ma con scarso successo: poteva
operare solo nelle file della polizia statale. Morto nel 1857. Ha
lasciato le sue Memorie che non sono state scritte da lui solo e
in cui sono contenute molte esagerazioni e vanterie.
2) È da vedere l'articolo di Aldo Sorani Conan Doyle e la
fortuna del romanzo poliziesco, nel «Pègaso»
dell'agosto 1930, notevole per l'analisi di questo genere di
letteratura e per le diverse specificazioni che ha avuto finora.
Nel parlare del Chesterton e della serie di novelle del padre
Brown il Sorani non tiene conto di due elementi culturali che
paiono invece essenziali: a) non accenna all'atmosfera
caricaturale che si manifesta specialmente nel volume L'innocenza
di padre Brown e che anzi è l'elemento artistico che
innalza la novella poliziesca del Chesterton, quando, non sempre,
l'espressione è riuscita perfetta; b) non accenna al fatto
che le novelle del padre Brown sono «apologetiche» del
cattolicismo e del clero romano, educato a conoscere tutte le
pieghe dell'animo umano dall'esercizio della confessione e della
funzione di guida spirituale e di intermediario tra l'uomo e la
divinità, contro lo «scientismo» e la
psicologia positivistica del protestante Conan Doyle.
Il Sorani,
nel suo articolo, riferisce sui diversi tentativi, specialmente
anglosassoni, e di maggior significato letterario, per
perfezionare tecnicamente il romanzo poliziesco. L'archetipo
è Sherlock Holmes, nelle sue due fondamentali
caratteristiche: di scienziato e di psicologo: si cerca di
perfezionare l'una o l'altra caratteristica o ambedue insieme. Il
Chesterton ha appunto insistito sull'elemento psicologico, nel
gioco delle induzioni e deduzioni col padre Brown, ma pare abbia
ancora esagerato nella sua tendenza col tipo del poeta-poliziotto
Gabriel Gale.
Il Sorani schizza un quadro della inaudita fortuna del romanzo
poliziesco in tutti gli ordini della società e cerca di
identificarne l'origine psicologica: sarebbe una manifestazione di
rivolta contro la meccanicità e la standardizzazione della
vita moderna, un modo di evadere dal tritume quotidiano. Ma questa
spiegazione si può applicare a tutte le forme della
letteratura, popolare o d'arte: dal poema cavalleresco (Don
Chisciotte non cerca di evadere anch'egli, anche praticamente, dal
tritume e dalla standardizzazione della vita quotidiana di un
villaggio spagnolo?) al romanzo d'appendice di vario genere. Tutta
la letteratura e la poesia sarebbe dunque uno stupefacente contro
la banalità quotidiana? In ogni modo l'articolo del Sorani
è indispensabile per una futura ricerca più organica
su questo genere di letteratura popolare.
Il problema: perché è diffusa la letteratura
poliziesca? è un aspetto particolare del problema
più generale: perché è diffusa la letteratura
non-artistica? Per ragioni pratiche e culturali (politiche e
morali), indubbiamente: e questa risposta generica è la
più precisa, nei suoi limiti approssimativi. Ma anche la
letteratura artistica non si diffonde anch'essa per ragioni
pratiche e politico-morali e solo mediatamente per ragioni di
gusto artistico, di ricerca e godimento della bellezza?
In realtà si legge un libro per impulsi pratici (e occorre ricercare perché certi impulsi si generalizzino più di altri) e si rilegge per ragioni artistiche. L'emozione estetica non è quasi mai di prima lettura.
Ciò si verifica
ancor di più nel teatro, in cui l'emozione estetica
è una «percentuale» minima dell'interesse dello
spettatore, perché nella scena giocano altri elementi,
molti dei quali non sono neppure d'ordine intellettuale, ma di
ordine meramente fisiologico, come il «sex-appeal»,
ecc. In altri casi l'emozione estetica nel teatro non è
originata dall'opera letteraria, ma dall'interpretazione degli
attori e del regista: in questi casi occorre però che il
testo letterario del dramma che dà il pretesto
all'interpretazione non sia «difficile» e ricercato
psicologicamente, ma invece «elementare e popolare»
nel senso che le passioni rappresentate siano le più
profondamente «umane» e di immediata esperienza
(vendetta, onore, amore materno, ecc.) e quindi l'analisi si
complica anche in questi casi. I grandi attori tradizionali
venivano acclamati nella Morte civile, nelle Due orfanelle, nella
Gerla di papà Martin, ecc., più che nelle complicate
macchine psicologiche: nel primo caso l'applauso era senza
riserve, nel secondo era più freddo, destinato a scindere
l'attore amato dal pubblico, dal lavoro rappresentato, ecc.
Una giustificazione simile a quella del Sorani della fortuna dei
romanzi popolari si trova in un articolo di Filippo Burzio sui Tre
Moschettieri di Alessandro Dumas (pubblicato nella
«Stampa» del 22 ottobre 1930 e riportato in estratti
dall'«Italia Letteraria» del 9 novembre).
Il Burzio
considera i Tre Moschettieri una felicissima personificazione,
come il Don Chisciotte e l'Orlando Furioso, del mito
dell'avventura, «cioè di qualcosa di essenziale alla
natura umana, che sembra gravemente e progressivamente straniarsi
dalla vita moderna. Quanto più l'esistenza si fa razionale
(o razionalizzata, piuttosto, per coercizione, che se è
razionale per i gruppi dominanti, non è razionale per
quelli dominati, e che è connessa con l'attività
economico-pratica, per cui la coercizione si esercita, sia pure
indirettamente, anche sui ceti «intellettuali»?) e
organizzata, la disciplina sociale ferrea, il compito assegnato
all'individuo preciso e prevedibile (ma non prevedibile per i
dirigenti come appare dalle crisi e dalle catastrofi storiche),
tanto più il margine dell'avventura si riduce, come la
libera selva di tutti fra i muretti soffocanti della
proprietà privata... Il taylorismo è una bella cosa
e l'uomo è un animale adattabile, però forse ci sono
dei limiti alla sua meccanizzazione. Se a me chiedessero le
ragioni profonde dell'inquietudine occidentale, risponderei senza
esitare: la decadenza della fede (!) e la mortificazione
dell'avventura». «Vincerà il taylorismo o
vinceranno i Moschettieri? Questo è un altro discorso e la
risposta, che trent'anni fa sembrava certa, sarà meglio
tenerla in sospeso. Se l'attuale civiltà non precipita,
assisteremo forse a interessanti miscugli dei due».
La quistione è questa: che il Burzio non tiene conto del
fatto che c'è sempre stata una gran parte di umanità
la cui attività è sempre stata taylorizzata e
ferreamente disciplinata e che essa ha cercato di evadere dai
limiti angusti dell'organizzazione esistente che la schiacciava,
con la fantasia e col sogno. La più grande avventura, la
più grande «utopia» che l'umanità ha
creato collettivamente, la religione, non è un modo di
evadere dal «mondo terreno»? E non è in questo
senso che Balzac parla del lotto come di oppio della miseria,
frase ripresa poi da altri? (Cfr. nel quaderno 1° degli
Argomenti di cultura). Ma il più notevole è che
accanto a Don Chisciotte esiste Sancho Panza, che non vuole
«avventure», ma certezza di vita e che il gran numero
degli uomini è tormentato proprio dall'ossessione della non
«prevedibilità del domani», dalla
precarietà della propria vita quotidiana, cioè da un
eccesso di «avventure» probabili.
Nel mondo moderno la
quistione si colorisce diversamente che nel passato per ciò
che la razionalizzazione coercitiva dell'esistenza colpisce sempre
più le classi medie e intellettuali, in una misura
inaudita; ma anche per esse si tratta non di decadenza
dell'avventura, ma di troppa avventurosità della vita
quotidiana, cioè di troppa precarietà
nell'esistenza, unita alla persuasione che contro tale
precarietà non c'è modo individuale di arginamento:
quindi si aspira all'avventura «bella» e interessante,
perché dovuta alla propria iniziativa libera, contro
l'avventura «brutta» e rivoltante, perché
dovuta alle condizioni imposte da altri e non proposte.
La giustificazione del Sorani e del Burzio vale anche a spiegare
il tifo sportivo, cioè spiega troppo e quindi nulla. Il
fenomeno è vecchio almeno come la religione, ed è
poliedrico, non unilaterale: ha anche un aspetto positivo,
cioè il desiderio di «educarsi» conoscendo un
modo di vita che si ritiene superiore al proprio, il desiderio di
innalzare la propria personalità proponendosi modelli
ideali (cfr. lo spunto sull'origine popolaresca del superuomo
negli Argomenti di cultura), il desiderio di conoscere più
mondo e più uomini di quanto sia possibile in certe
condizioni di vita, lo snobismo ecc. ecc. Lo spunto della
«letteratura popolare come oppio del popolo» è
annotato in una nota sull'altro romanzo di Dumas: Il Conte di
Montecristo.
Q 21 § 14 Derivazioni culturali del romanzo d'appendice. È da vedere
il fascicolo della «Cultura» dedicato a Dostojevskij
nel 1931. Vladimiro Pozner in un articolo sostiene giustamente che
i romanzi di Dostojevskij sono derivati culturalmente dai romanzi
d'appendice tipo E. Sue ecc. Questa derivazione è utile
tener presente per lo svolgimento di questa rubrica sulla
letteratura popolare, in quanto mostra come certe correnti
culturali (motivi e interessi morali, sensibilità,
ideologie ecc.) possono avere una doppia espressione: quella
meramente meccanica di intrigo sensazionale (Sue ecc.) e quella
«lirica» (Balzac, Dostojevskij e in parte V. Hugo). I
contemporanei non sempre si accorgono della deteriorità di
una parte di queste manifestazioni letterarie, come è
avvenuto in parte per il Sue, che fu letto da tutti i gruppi
sociali e «commuoveva» anche le persone di
«cultura», mentre poi decadde a scrittore letto solo
dal «popolo» (la «prima lettura» dà
puramente, o quasi, sensazioni «culturali» o di
contenuto e il «popolo» è lettore di prima
lettura, acritico, che si commuove per la simpatia verso
l'ideologia generale di cui il libro è espressione spesso
artificiosa e voluta).
Per questo stesso argomento è da vedere:
1) Mario Praz: La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, in 16°, pp. X-505, Milano-Roma, ed. La Cultura, L. 40 (vedere la recensione di L. F. Benedetto nel «Leonardo» del marzo 1931: da essa appare che il Praz non ha fatto con esattezza la distinzione tra i vari gradi di cultura, onde alcune obbiezioni del Benedetto, che d'altronde non pare colga egli stesso il nesso storico della quistione storico-letteraria);
2) Servais Étienne: Le genre romanesque en France depuis l'apparition de la «Nouvelle Héloïse» jusqu'aux approches de la Révolution, ed. Armand Colin;
3) Alice Killen: Le Roman terrifiant ou «Roman noir» de Walpole a Anne Radcliffe et son influence sur la littérature française jusqu'en 1840, ed. Champion e di Reginald W. Hartland (presso lo stesso editore) Walter Scott et le «Roman frénétique» (l'affermazione del Pozner che il romanzo di Dostojevskij sia «romanzo d'avventura» è probabilmente derivata da un saggio di Jacques Rivière sul «romanzo d'avventure», forse pubblicato nella «N. R. F.», che significherebbe «una vasta rappresentazione di azioni che sono insieme drammatiche e psicologiche» cosí come l'hanno concepito Balzac, Dostojevskij, Dickens e George Elliot);
4) un
saggio di André Moufflet su Le style du roman feuilleton
nel «Mercure de France» del 1° febbraio 1931.
Q 23 § 39 Luigi Capuana. Estratto da un articolo di Luigi Tonelli, Il
carattere e l'opera di Luigi Capuana («Nuova
Antologia», 1° maggio 1928): «Re Bracalone
(romanzo fiabesco: il secolo XX è creato, per forza
d'incanto, nello spazio di brevi giorni, nei tempi di "c'era una
volta"; ma dopo averne fatta l'amara esperienza, il re lo
distrugge, preferendo ritornare ai tempi primitivi) c'interessa
anche sotto il riguardo ideologico; ché, in un periodo
d'infatuazione (!) internazionalista socialistoide, ebbe il
coraggio (!) di bollare a fuoco (!) "le sciocche
sentimentalità della pace universale, del disarmo e le non
meno sciocche sentimentalità dell'uguaglianza economica e
della comunità dei beni", ed esprimere l'urgenza di
"tagliar corto alle agitazioni che han già creato uno Stato
dentro lo Stato, un governo irresponsabile", ed affermare la
necessità di una coscienza nazionale: "Ci fa difetto la
dignità nazionale; bisogna creare il nobile orgoglio di
essa, spingerlo fino all'eccesso. È l'unico caso in cui
l'eccesso non guasta"». Il Tonelli è sciocco, ma il
Capuana non scherza anche lui col suo frasario da giornaletto
crispino di provincia: bisognerebbe poi vedere cosa valeva allora
la sua ideologia del «C'era una volta», che esaltava
un paternalismo anacronistico e tutt'altro che nazionale,
nell'Italia di allora.
Del Capuana occorrerà ricordare il teatro dialettale e le
opinioni sulla lingua nel teatro, a proposito della quistione
della lingua nella letteratura italiana. Alcune commedie del
Capuana (come Giacinta, Malia, Il cavalier Pedagna) furono scritte
originariamente in italiano e poi voltate in dialetto: solo in
dialetto ebbero successo. Il Tonelli, che non capisce nulla,
scrive che il Capuana fu indotto alla forma dialettale nel teatro
«non soltanto dalla convinzione che "bisogna passare pei
teatri dialettali, se si vuole davvero arrivare al teatro
nazionale italiano" [...], ma anche e soprattutto dal carattere
particolare delle sue creazioni drammatiche: le quali sono
squisitamente (!) dialettali, e nel dialetto trovano la loro
più naturale e schietta espressione». Ma cosa poi
significa «creazioni squisitamente dialettali»? Il
fatto è spiegato col fatto stesso, cioè non è
spiegato (è da ricordare ancora che il Capuana scriveva in
dialetto la sua corrispondenza con una sua
«mantenuta», donna del popolo, cioè comprendeva
che l'italiano non gli avrebbe permesso di essere capito con
esattezza e «simpaticamente» dagli elementi del
popolo, la cui cultura non era nazionale, ma regionale, o
nazionale-siciliana; come, in tali condizioni, si potesse passare
dal teatro dialettale a quello nazionale è una affermazione
per enigmi e dimostra solo scarsa comprensione dei problemi
culturali nazionali).
È da vedere, nel teatro di Pirandello, perché certe
commedie sono scritte in italiano e altre in dialetto: nel
Pirandello l'esame è ancor più interessante,
poiché Pirandello ha, in un altro momento, acquistato una
fisionomia culturale cosmopolitica, cioè è diventato
italiano e nazionale in quanto si è completamente
sprovincializzato ed europeizzato. La lingua non ha ancora
acquistato una «storicità» di massa, non
è ancora diventata un fatto nazionale. Liolà di
Pirandello, in italiano letterario vale ben poco, sebbene il Fu
Mattia Pascal, da cui è tratta, possa ancora leggersi con
piacere. Nel testo italiano l'autore non riesce a mettersi
all'unisono col pubblico, non ha la prospettiva della
storicità della lingua quando i personaggi vogliono essere
concretamente italiani dinanzi a un pubblico italiano. In
realtà in Italia esistono molte lingue
«popolari» e sono i dialetti regionali che vengono
solitamente parlati nella conversazione intima, in cui si
esprimono i sentimenti e gli affetti più comuni e diffusi;
la lingua letteraria è ancora, per molta parte, una lingua
cosmopolita, una specie di «esperanto», cioè
limitata all'espressione di sentimenti e nozioni parziali ecc.
Quando si dice che la lingua letteraria ha una grande ricchezza di
mezzi espressivi, si afferma una cosa equivoca ed ambigua; si
confonde la ricchezza espressiva «possibile»
registrata nel vocabolario o contenuta inerte negli
«autori», con la ricchezza individuale, che si
può spendere individualmente; ma è quest'ultima la
sola ricchezza reale e concreta ed è su di essa che si
può misurare il grado di unità linguistica nazionale
che è data dalla vivente parlata del popolo, dal grado di
nazionalizzazione del patrimonio linguistico. Nel dialogo teatrale
è evidente l'importanza di tale elemento; dal palcoscenico
il dialogo deve suscitare immagini viventi, con tutta la loro
concretezza storica di espressione; invece suggerisce, troppo
spesso, immagini libresche, sentimenti mutilati
dall'incomprensione della lingua e delle sue sfumature. Le parole
della parlata famigliare si riproducono nell'ascoltatore come
ricordo di parole lette nei libri e nei giornali o ricercate nel
vocabolario, come sarebbe il sentire in teatro parlar francese da
chi il francese ha imparato nei libri senza maestro: la parola
è ossificata, senza articolazione di sfumature, senza la
comprensione del suo significato esatto che è dato da tutto
il periodo ecc. Si ha l'impressione di essere goffi, o che goffi
siano gli altri. Si osservi nell'italiano parlato quanti errori di
pronunzia fa l'uomo del popolo; profúgo, roséo ecc.
ciò che significa che tali parole sono state lette e non
sentite, non sentite ripetutamente, cioè collocate in
prospettive diverse (periodi diversi), ognuna delle quali abbia
fatto brillare un lato di quel poliedro che è ogni parola
(errori di sintassi ancor più significativi).
Q 25 § 8 Scientismo e postumi del basso romanticismo. È da vedere la
tendenza della sociologia di sinistra in Italia a occuparsi
intensamente del problema della criminalità. È essa
legata al fatto che alla tendenza di sinistra avevano aderito
Lombroso e molti dei più «brillanti» seguaci
che parevano allora la suprema espressione della scienza e che
influivano con tutte le loro deformazioni professionali e i loro
specifici problemi? O si tratta di un postumo del basso
romanticismo del '48 (Sue e le sue elucubrazioni di diritto penale
romanzato)? O è legato a ciò che in Italia
[impressionava] certi gruppi intellettuali la grande
quantità di reati di sangue ed essi pensavano di non poter
procedere oltre senza aver spiegato «scientificamente»
(cioè naturalisticamente) questo fenomeno di
«barbarie»?