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I. Problemi di critica letteraria

Indice

Arte e cultura

Ritorno al De Sanctis (Q. 23)

Arte e lotta per una nuova civiltà (Q. 23)

Arte e cultura (Q. 23)

Per una nuova letteratura (arte) attraverso una nuova cultura (Q. 6)

[L'arte educatrice] (Q. 6)

Criteri di critica letteraria (Q. 15)

Critica letteraria (Q. 6)

Ricerca delle tendenze e degli interessi morali e intellettuali prevalenti tra i letterati (Q. 23)

Alfredo Oriani (Q. 8)

«Il libro di don Chisciotte» di E. Scarfoglio (Q. 4)

Floriano Del Secolo (Q. 6)

Croce e la critica letteraria (Q. 6)

Criteri metodici (Q. 23)

Criteri. Essere un'epoca (Q. 23)

[L'espressione linguistica della parola scritta e parlata e le altre arti] (Q. 6)

Neolalismo (Q. 23)

Sincerità (o spontaneità) e disciplina (Q. 14)

[Letteratura «funzionale»] (Q. 14)

[Il razionalismo nell'architettura] (Q. 14)
È giusto che lo studio (Q. 14)

L'architettura nuova (Q. 3)
Adriano Tilgher (Q. 2)

Alcuni criteri di giudizio «letterario» (Q. 23)

Criteri metodologici (Q. 14)


Testi


Ritorno al De Sanctis. Cosa significa e cosa può e dovrebbe significare la parola d'ordine di Giovanni Gentile: «Torniamo al De Sanctis!»? (cfr. tra l'altro il 1° numero del settimanale «Il Quadrivio»). Significa «tornare» meccanicamente ai concetti che il De Sanctis svolse intorno all'arte e alla letteratura, o significa assumere verso l'arte e la vita un atteggiamento simile a quello assunto dal De Sanctis ai suoi tempi? Posto questo atteggiamento come «esemplare», è da vedere: 1) in che sia consistita tale esemplarità; 2) quale atteggiamento sia oggi corrispondente, cioè quali interessi intellettuali e morali corrispondano oggi a quelli che dominarono l'attività del De Sanctis e le impressero una determinata direzione.

Né si può dire che la biografia del De Sanctis, pur essendo essenzialmente coerente, sia stata «rettilinea», come volgarmente s'intende. Il De Sanctis, nell'ultima fase della sua vita e della sua attività, rivolse la sua attenzione al romanzo «naturalista» o «verista» e questa forma di romanzo, nell'Europa occidentale, fu l'espressione «intellettualistica» del movimento piú generale di «andare al popolo», di un populismo di alcuni gruppi intellettuali sullo scorcio del secolo scorso, dopo il tramonto della democrazia quarantottesca e l'avvento di grandi masse operaie per lo sviluppo della grande industria urbana. Del De Sanctis è da ricordare il saggio Scienza e Vita, il suo passaggio alla sinistra parlamentare, il suo timore di tentativi forcaioli velati da forme pompose ecc. Un giudizio del De Sanctis: «Manca la fibra perché manca la fede. E manca la fede perché manca la cultura». Ma cosa significa «cultura» in questo caso? Significa indubbiamente una coerente, unitaria e di diffusione nazionale, «concezione della vita e dell'uomo», una «religione laica», una filosofia che sia diventata appunto «cultura», cioè che ha generato un'etica, un modo di vivere, una condotta civile e individuale. Ciò domandava innanzi tutto l'unificazione della «classe colta», e in tal senso lavorò il De Sanctis con la fondazione del «Circolo filologico» che avrebbe dovuto determinare «l'unione di tutti gli uomini colti e intelligenti» di Napoli, ma domandava specialmente un nuovo atteggiamento verso le classi popolari, un nuovo concetto di ciò che è «nazionale», diverso da quello della destra storica, piú ampio, meno esclusivista, meno «poliziesco» per cosí dire. È questo lato dell'attività del De Sanctis che occorrerebbe lumeggiare, questo elemento della sua attività che d'altronde non era nuovo ma rappresentava lo sviluppo di germi già esistenti in tutta la sua carriera di letterato e di uomo politico.

 

 

Arte e lotta per una nuova civiltà. Il rapporto artistico mostra, specialmente nella filosofia della prassi, la fatua ingenuità dei pappagalli che credono di possedere in poche formulette stereotipate, la chiave per aprire tutte le porte (queste chiavi si chiamano propriamente «grimaldelli»). Due scrittori possono rappresentare (esprimere) lo stesso momento storico-sociale, ma uno può essere artista e l'altro un semplice untorello. Esaurire la quistione limitandosi a descrivere ciò che i due rappresentano o esprimono socialmente, cioè riassumendo, piú o meno bene, le caratteristiche di un determinato momento storico-sociale, significa non sfiorare neppure il problema artistico. Tutto ciò può essere utile e necessario, anzi lo è certamente, ma in un altro campo: in quello della critica politica, della critica del costume, nella lotta per distruggere e superare certe correnti di sentimenti e credenze, certi atteggiamenti verso la vita e il mondo; non è critica e storia dell'arte, e non può essere presentato come tale, pena il confusionismo e l'arretramento o la stagnazione dei concetti scientifici, cioè appunto il non conseguimento dei fini inerenti alla lotta culturale.

Un determinato momento storico-sociale non è mai omogeneo, anzi è ricco di contraddizioni. Esso acquista «personalità», è un «momento» dello svolgimento, per il fatto che una certa attività fondamentale della vita vi predomina sulle altre, rappresenta una «punta» storica: ma ciò presuppone una gerarchia, un contrasto, una lotta. Dovrebbe rappresentare il momento dato, chi rappresenta questa attività predominante, questa «punta» storica; ma come giudicare chi rappresenta le altre attività, gli altri elementi? Non sono «rappresentativi» anche questi? E non è «rappresentativo» del «momento» anche chi ne esprime gli elementi «reazionari» e anacronistici? Oppure sarà da ritenersi rappresentativo chi esprimerà tutte le forze e gli elementi in contrasto e in lotta, cioè chi rappresenta le contraddizioni dell'insieme storico-sociale?

Si può anche pensare che una critica della civiltà letteraria, una lotta per creare una nuova cultura, sia artistica nel senso che dalla nuova cultura nascerà una nuova arte, ma ciò appare un sofisma. In ogni modo è forse partendo da tali presupposti che si può intendere meglio il rapporto De Sanctis-Croce e le polemiche sul contenuto e la forma. La critica del De Sanctis è militante, non «frigidamente» estetica, è la critica di un periodo di lotte culturali, di contrasti tra concezioni della vita antagonistiche. Le analisi del contenuto, la critica della «struttura» delle opere; cioè della coerenza logica e storico-attuale delle masse di sentimenti rappresentati artisticamente sono legate a questa lotta culturale: proprio in ciò pare consista la profonda umanità e l'umanesimo del De Sanctis, che rendono tanto simpatico anche oggi il critico. Piace sentire in lui il fervore appassionato dell'uomo di parte che ha saldi convincimenti morali e politici e non li nasconde e non tenta neanche di nasconderli. Il Croce riesce a distinguere questi aspetti diversi del critico che nel De Sanctis erano organicamente uniti e fusi. Nel Croce vivono gli stessi motivi culturali che nel De Sanctis, ma nel periodo della loro espansione e del loro trionfo; continua la lotta, ma per un raffinamento della cultura (di una certa cultura) non per il suo diritto di vivere: la passione e il fervore romantico si sono composti nella serenità superiore e nell'indulgenza piena di bonomia. Ma anche nel Croce questa posizione non è permanente: subentra una fase in cui la serenità e l'indulgenza s'incrinano e affiora l'acrimonia e la collera a stento repressa: fase difensiva non aggressiva e fervida e pertanto non confrontabile con quella del De Sanctis.

Insomma, il tipo di critica letteraria propria della filosofia della prassi è offerto dal De Sanctis, non dal Croce o da chiunque altro (meno che mai dal Carducci): in essa devono fondersi la lotta per una nuova cultura, cioè per un nuovo umanesimo, la critica del costume, dei sentimenti e delle concezioni del mondo con la critica estetica o puramente artistica nel fervore appassionato, sia pure nella forma del sarcasmo.

In un tempo recente alla fase De Sanctis ha corrisposto, su un piano subalterno, la fase della «Voce». Il De Sanctis lottò per la creazione ex novo in Italia di un'alta cultura nazionale, in opposizione ai vecchiumi tradizionali, la retorica e il gesuitismo (Guerrazzi e il padre Bresciani): la «Voce» lottò solo per la divulgazione, in uno strato intermedio, di quella stessa cultura, contro il provincialismo ecc. ecc.: la «Voce» fu un aspetto del crocismo militante, perché volle democratizzare ciò che necessariamente era stato «aristocratico» nel De Sanctis e si era mantenuto «aristocratico» nel Croce. Il De Sanctis doveva formare uno Stato Maggiore culturale, la «Voce» volle estendere agli ufficiali subalterni lo stesso tono di civiltà e perciò ebbe una funzione, lavorò nella sostanza e suscitò correnti artistiche, nel senso che aiutò molti a ritrovare se stessi, suscitò un maggior bisogno di interiorità e di espressione sincera di essa, anche se dal movimento non fu espresso nessun grande artista.

(Scritto da Raffaello Ramat nell'«Italia Letteraria» del 4 febbraio 1934: «È stato detto che per la storia della cultura a volte può maggiormente servire lo studio di uno scrittore minore che quello d'un sommo; e in parte è pur vero: perché se in questo – nel sommo – stravince l'individuo, che finisce col non esser piú di alcun tempo, e potrebbe darsi il caso – come s'è dato – di attribuire al secolo qualità proprie dell'uomo; in quello, nel minore, pur che sia uno spirito attento e autocritico, è dato scorgere i momenti della dialettica di quella particolare cultura con chiarezza maggiore, in quanto non riescono, come nel sommo, a «unificarsi»).

Il problema qui accennato trova un riscontro per assurdo nell'articolo di Alfredo Gargiulo Dalla cultura alla letteratura, nell'«Italia Letteraria» del 6 aprile 1930 (sesto capitolo di uno studio panoramico intitolato 1900-1930 che sarà probabilmente raccolto in volume e che occorrerà tener presente per «I nipotini del padre Bresciani»). In questa serie di articoli il Gargiulo mostra il piú completo esaurimento intellettuale (uno dei tanti giovani senza «maturità»): egli si è completamente incanagliato nella banda dell'«Italia Letteraria» e nel capitolo citato assume come proprio questo giudizio espresso da G. B. Angioletti nella prefazione all'antologia Scrittori Nuovi compilata da Enrico Falqui ed Elio Vittorini: «Gli scrittori di questa Antologia sono dunque nuovi non perché abbiano trovato nuove forme o cantato nuovi soggetti, tutt'altro; lo sono perché hanno dell'arte un'idea diversa da quella degli scrittori che li precedettero. O, per venir subito all'essenziale, perché credono all'arte, mentre quelli credevano a molte altre cose che con l'arte nulla avevano a che vedere. Tale novità, perciò, può consentire la forma tradizionale e il contenuto antico; ma non può consentire deviamenti dall'idea essenziale dell'arte. Quale possa essere questa idea, non è qui il luogo di ripetere. Ma mi sia consentito ricordare che gli scrittori nuovi, compiendo una rivoluzione (!) che per essere stata silenziosa (!) non sarà meno memorabile (!), intendono di essere soprattutto artisti, laddove i loro predecessori si compiacevano di essere moralisti, predicatori, estetizzanti, psicologisti, edonisti, ecc.». Il discorso non è molto chiaro e ordinato: se qualcosa di concreto se ne può estrarre è la tendenza a un secentismo programmatico, niente altro. Questa concezione dell'artista è un nuovo «guardarsi la lingua» nel parlare, è un nuovo modo di costruire «concettini». E puri costruttori di concettini, non di immagini, sono i piú dei poeti esaltati dalla «banda», con a capo Giuseppe Ungaretti (che tra l'altro scrive una lingua sufficientemente infranciosata e impropria). Il movimento della «Voce» non poteva creare artisti, ut sic, è evidente; ma lottando per una nuova cultura, per un nuovo modo di vivere, indirettamente promuoveva anche la formazione di temperamenti artistici originali, poiché nella vita c'è anche l'arte. La «rivoluzione silenziosa» di cui parla l'Angioletti è stata solo una serie di confabulazioni da caffè e di mediocri articoli di giornale standardizzato e di rivistucole provinciali. La macchietta del «sacerdote dell'arte» non è una grande novità anche se muta il rituale.

 

 

Arte e cultura. Che si debba parlare, per essere esatti, di lotta per una «nuova cultura» e non per una «nuova arte» (in senso immediato) pare evidente. Forse non si può neanche dire, per essere esatti, che si lotta per un nuovo contenuto dell'arte, perché questo non può essere pensato astrattamente, separato dalla forma. Lottare per una nuova arte significherebbe lottare per creare nuovi artisti individuali, ciò che è assurdo, poiché non si possono creare artificiosamente gli artisti. Si deve parlare di lotta per una nuova cultura, cioè per una nuova vita morale che non può non essere intimamente legata a una nuova intuizione della vita, fino a che essa diventi un nuovo modo di sentire e di vedere la realtà e quindi mondo intimamente connaturato con gli «artisti possibili» e con le «opere d'arte possibili». Che non si possa artificiosamente creare degli artisti individuali non significa quindi che il nuovo mondo culturale, per cui si lotta, suscitando passioni e calore di umanità, non susciti necessariamente «nuovi artisti»; non si può, cioè, dire che Tizio e Caio diventeranno artisti, ma si può affermare che dal movimento nasceranno nuovi artisti. Un nuovo gruppo sociale che entra nella vita storica con atteggiamento egemonico, con una sicurezza di sé che prima non aveva, non può non suscitare dal suo intimo personalità che prima non avrebbero trovato una forza sufficiente per esprimersi compiutamente in un certo senso.

Cosí non si può dire che si formerà una nuova «aura poetica», secondo una frase che è stata di moda qualche anno fa. L'«aura poetica» è solo una metafora per esprimere l'insieme degli artisti già formatisi e rivelatisi o almeno il processo iniziato e già consolidato di formazione e rivelazione.

 

 

Per una nuova letteratura (arte) attraverso una nuova cultura. Cfr. nel volume di B. Croce, Nuovi saggi sulla letteratura italiana del seicento (1931), il capitolo in cui parla delle accademie gesuitiche di poesia e le ravvicina alle «scuole di poesia» create in Russia (il Croce avrà preso lo spunto dal solito Fülöp-Miller). Ma perché non le avvicina alle botteghe di pittura e di scultura del '400-500? Erano anche quelle «accademie gesuitiche»? E perché ciò che si faceva per la pittura e la scultura non potrebbe farsi per la poesia? Il Croce non tiene conto dell'elemento sociale che «vuole avere» una propria poesia, elemento «senza scuola», cioè che non si è impadronito della «tecnica» e dello stesso linguaggio: in realtà si tratta di una «scuola» per adulti, che educa il gusto e crea il sentimento «critico» in senso largo. Un pittore che «copia» un quadro di Raffaello fa «accademia gesuitica»? Egli nel modo migliore «si cala» nell'arte di Raffaello, cerca di ricrearsela, ecc. E perché non potrebbero farsi esercizi di versificazione fra operai? Non servirà ciò a educare l'orecchio alla musicalità del verso, ecc.?

 

 

[L'arte educatrice] «L'arte è educatrice in quanto arte, ma non in quanto "arte educatrice", perché in tal caso è nulla, e il nulla non può educare. Certo, sembra che tutti concordemente desideriamo un'arte che somigli a quella del Risorgimento e non, per esempio, a quella del periodo dannunziano; ma, in verità, se ben si consideri, in questo desiderio non c'è il desiderio di un'arte a preferenza di un'altra, sí bene di una realtà morale a preferenza di un'altra. Allo stesso modo chi desideri che uno specchio rifletta una bella anziché una brutta persona, non si augura già uno specchio che sia diverso da quello che ha innanzi, ma una persona diversa». (Croce, Cultura e Vita morale, pp. 169-70; cap. Fede e programmi del 1911).

«Quando un'opera di poesia o un ciclo di opere poetiche si è formato, è impossibile proseguire quel ciclo con lo studio e con l'imitazione e con le variazioni intorno a quelle opere; per questa via si ottiene solamente la cosiddetta scuola poetica, il servum pecus degli epigoni. Poesia non genera poesia; la partenogenesi non ha luogo; si richiede l'intervento dell'elemento maschile, di ciò che è reale, passionale, pratico, morale. I piú alti critici di poesia ammoniscono, in questo caso, di non ricorrere a ricette letterarie, ma, com'essi dicono, di "rifare l'uomo". Rifatto l'uomo, rinfrescato lo spirito, sorta una nuova vita di affetti, da essa sorgerà, se sorgerà, una nuova poesia». (B. Croce, Cultura e Vita morale, pp. 241-42; capitolo Troppa filosofia del 1922).

Questa osservazione può essere propria del materialismo storico. La letteratura non genera letteratura ecc., cioè le ideologie non creano ideologie, le superstrutture non generano superstrutture altro che come eredità di inerzia e di passività: esse sono generate, non per «partenogenesi» ma per l'intervento dell'elemento «maschile» – la storia –l'attività rivoluzionaria che crea il «nuovo uomo», cioè nuovi rapporti sociali.

Da ciò si deduce anche questo: che il vecchio «uomo», per il cambiamento, diventa anch'esso «nuovo», poiché entra in nuovi rapporti, essendo stati quelli primitivi capovolti. Donde il fatto che, prima che il «nuovo uomo» creato positivamente abbia dato poesia, si possa assistere al «canto del cigno» del vecchio uomo rinnovato negativamente: e spesso questo canto del cigno è di mirabile splendore; il nuovo vi si unisce al vecchio, le passioni vi si arroventano in modo incomparabile ecc. (Non è forse la Divina Commedia un po' il canto del cigno medioevale, che pure anticipa i nuovi tempi e la nuova storia?)

 

 

Criteri di critica letteraria. Il concetto che l'arte è arte e non propaganda politica «voluta» e proposta, è poi, in se stesso, un ostacolo alla formazione di determinate correnti culturali che siano il riflesso del loro tempo e che contribuiscano a rafforzare determinate correnti politiche? Non pare, anzi pare che tale concetto ponga il problema in termini piú radicali e di una critica piú efficiente e conclusiva. Posto il principio che nell'opera d'arte sia solamente da ricercare il carattere artistico, non è per nulla esclusa la ricerca di quale massa di sentimenti, di quale atteggiamento verso la vita circoli nell'opera d'arte stessa. Anzi che ciò sia ammesso dalle moderne correnti estetiche si vede nel De Sanctis e nello stesso Croce. Ciò che si esclude è che un'opera sia bella per il suo contenuto morale e politico e non già per la sua forma in cui il contenuto astratto si è fuso e immedesimato. Ancora si ricerca se un'opera d'arte non sia fallita perché l'autore sia stato deviato da preoccupazioni pratiche esteriori, cioè posticce e insincere. Questo pare il punto cruciale della polemica: Tizio «vuole» esprimere artificiosamente un determinato contenuto e non fa opera d'arte. Il fallimento artistico dell'opera d'arte data (poiché Tizio ha dimostrato di essere artista in altre opere da lui realmente sentite e vissute) dimostra che quel tale contenuto in Tizio è materia sorda e ribelle, che l'entusiasmo di Tizio è fittizio e voluto esteriormente, che Tizio in realtà non è, in quel determinato caso, artista, ma servo che vuol piacere ai padroni. Ci sono dunque due serie di fatti: uno di carattere estetico, o di arte pura, l'altro di politica culturale (cioè di politica senz'altro). Il fatto che si giunge a negare il carattere artistico di un'opera può servire al critico politico come tale per dimostrare che Tizio come artista non appartiene a quel determinato mondo politico, e poiché la sua personalità è prevalentemente artistica, che nella sua vita intima e piú sua, quel determinato mondo non opera, non esiste: Tizio pertanto è un commediante della politica, vuol far credere di essere ciò che non è ecc. ecc. Il critico politico dunque denuncia Tizio, non come artista, ma come «opportunista politico». Che l'uomo politico faccia una pressione perché l'arte del suo tempo esprima un determinato mondo culturale è attività politica, non di critica artistica: se il mondo culturale per il quale si lotta è un fatto vivente e necessario, la sua espansività sarà irresistibile, esso troverà i suoi artisti. Ma se nonostante la pressione, questa irresistibilità non si vede e non opera, significa che si trattava di un mondo fittizio e posticcio, elucubrazione cartacea di mediocri che si lamentano che gli uomini di maggior statura non siano d'accordo con loro. Lo stesso modo di porre la quistione può essere un indizio della saldezza di un tal mondo morale e culturale: e infatti il cosí detto «calligrafismo» non è che la difesa di piccoli artisti che opportunisticamente affermano certi principii ma si sentono incapaci di esprimerli artisticamente cioè nell'attività loro propria e allora vaneggiano di pura forma che è il suo stesso contenuto ecc. ecc. Il principio formale della distinzione delle categorie spirituali e della loro unità di circolazione, pur nel suo astrattismo, permette di cogliere la realtà effettuale e di criticare l'arbitrarietà e la pseudovita di chi non vuole giocare a carte scoperte o è semplicemente un mediocre che è stato dal caso posto a un luogo di comando.

 

 

Critica letteraria. Nel fascicolo del marzo 1933 dell'«Educazione Fascista» l'articolo polemico di Argo con Paul Nizan (Idee d'oltre confine) a proposito della concezione di una nuova letteratura che sorga da un integrale rinnovamento intellettuale e morale. Il Nizan pare ponga bene il problema quando comincia dal definire che cosa è un integrale rinnovamento delle premesse culturali e limita il campo della ricerca stessa. L'unica obbiezione fondata di Argo è questa: l'impossibilità di saltare uno stadio nazionale, autoctono della nuova letteratura e i pericoli «cosmopolitici» della concezione del Nizan. Da questo punto di vista molte critiche del Nizan a gruppi di intellettuali francesi sono da rivedere: «N. R. F.», il «populismo» ecc., fino al gruppo del «Monde», non perché le critiche non colpiscano giusto politicamente, ma appunto perché è impossibile che la nuova letteratura non si manifesti «nazionalmente» in combinazioni e leghe diverse, piú o meno ibride. È tutta la corrente che occorre esaminare e studiare, obbiettivamente. D'altronde per il rapporto tra letteratura e politica, occorre tener presente questo criterio: che il letterato deve avere prospettive necessariamente meno precise e definite che l'uomo politico, deve essere meno «settario» se cosí si può dire, ma in modo «contraddittorio». Per l'uomo politico ogni immagine «fissata» a priori è reazionaria: il politico considera tutto il movimento nel suo divenire. L'artista deve invece avere immagini «fissate» e colate nella loro forma definitiva. Il politico immagina l'uomo come è e nello stesso tempo come dovrebbe essere per raggiungere un determinato fine; il suo lavoro consiste appunto nel condurre gli uomini a muoversi, a uscire dal loro essere presente per diventare capaci collettivamente di raggiungere il fine proposto, cioè a «conformarsi» al fine. L'artista rappresenta necessariamente «ciò che è» in un certo momento di personale, di non conformista ecc., realisticamente. Perciò dal punto di vista politico, il politico non sarà mai contento dell'artista e non potrà esserlo: lo troverà sempre in arretrato coi tempi, sempre anacronistico, sempre superato dal movimento reale. Se la storia è un continuo processo di liberazione e di autocoscienza, è evidente che ogni stadio, come storia, in questo caso come cultura, sarà subito superato e non interesserà piú. Di ciò mi pare occorra tener conto nel valutare i giudizi del Nizan sui diversi gruppi.

Ma da un punto di vista obiettivo, come ancora oggi per certi strati della popolazione è «attuale» Voltaire, cosí possono essere attuali, e anzi lo sono, questi gruppi letterari e le combinazioni che essi rappresentano: obiettivo vuol dire, in questo caso, che lo sviluppo del rinnovamento intellettuale e morale non è simultaneo in tutti gli strati sociali, tutt'altro: ancora oggi, giova ripeterlo, molti sono tolemaici e non copernicani. (Esistono molti «conformismi», molte lotte per nuovi conformismi, e combinazioni diverse tra ciò che è, variamente atteggiato, e ciò chi si lavora a far diventare, e sono molti che lavorano in questo senso). Porsi dal punto di vista di una «sola» linea di movimento progressivo, per cui ogni acquisizione nuova si accumula e diventa la premessa di nuove acquisizioni, è grave errore: non solo le linee sono molteplici, ma si verificano anche dei passi indietro nella linea «piú» progressiva. Inoltre il Nizan non sa porre la quistione della cosí detta «letteratura popolare», cioè della fortuna che ha in mezzo alle masse nazionali la letteratura da appendice (avventurosa, poliziesca, gialla ecc.), fortuna che è aiutata dal cinematografo e dal giornale. Eppure è questa quistione che rappresenta la parte maggiore del problema di una nuova letteratura in quanto espressione di un rinnovamento intellettuale e morale: perché solo dai lettori della letteratura d'appendice si può selezionare il pubblico sufficiente e necessario per creare la base culturale della nuova letteratura. Mi pare che il problema sia questo: come creare un corpo di letterati che artisticamente stia alla letteratura d'appendice come Dostojevskij stava a Sue e a Soulié o come Chesterton, nel romanzo poliziesco, sta a Conan Doyle e a Wallace ecc. Bisogna a questo scopo abbandonare molti pregiudizi, ma specialmente occorre pensare che non si può avere il monopolio, non solo, ma che si ha di contro una formidabile organizzazione d'interessi editoriali. Il pregiudizio piú comune è questo: che la nuova letteratura debba identificarsi con una scuola artistica di origine intellettuale, come fu per il futurismo. La premessa della nuova letteratura non può non essere storico-politica, popolare: deve tendere a elaborare ciò che già esiste, polemicamente o in altro modo non importa; ciò che importa è che essa affondi le sue radici nell'humus della cultura popolare cosí come è, coi suoi gusti, le sue tendenze ecc., col suo mondo morale e intellettuale sia pure arretrato e convenzionale.

 

 

Ricerca delle tendenze e degli interessi morali e intellettuali prevalenti tra i letterati. Per quali forme di attività hanno «simpatia» i letterati italiani? Perché l'attività economica, il lavoro come produzione individuale e di gruppo non li interessa? Se nelle opere d'arte si tratta di argomento economico, è il momento della «direzione», del «dominio», del «comando» di un «eroe» sui produttori che interessa. Oppure interessa la generica produzione, il generico lavoro in quanto generico elemento della vita e della potenza nazionale, e quindi motivo di volate oratorie. La vita dei contadini occupa un maggior spazio nella letteratura, ma anche qui non come lavoro e fatica, ma dei contadini come «folclore», come pittoreschi rappresentanti di costumi e sentimenti curiosi e bizzarri: perciò la «contadina» ha ancora piú spazio, coi suoi problemi sessuali nel loro aspetto piú esterno e romantico e perché la donna con la sua bellezza può facilmente salire ai ceti sociali superiori.

Il lavoro dell'impiegato è fonte inesausta di comicità: in ogni impiegato si vede l'Oronzo E. Marginati del vecchio «Travaso». Il lavoro dell'intellettuale occupa poco spazio, o è presentato nella sua espressione di «eroismo» e di «superumanismo», con l'effetto comico che gli scrittori mediocri rappresentano «genii» della loro propria taglia e, si sa, se un uomo intelligente può fingersi sciocco, uno sciocco non può fingersi intelligente.

Non si può certo imporre a una o a piú generazioni di scrittori di aver «simpatia» per uno o altro aspetto della vita, ma che una o piú generazioni di scrittori abbiano certi interessi intellettuali e morali e non altri ha pure un significato, indica che un certo indirizzo culturale predomina fra gli intellettuali. Anche il verismo italiano si distingue dalle correnti realistiche degli altri paesi, in quanto o si limita a descrivere la «bestialità» della cosí detta natura umana (un verismo in senso gretto) oppure rivolge la sua attenzione alla vita provinciale e regionale, a ciò che era l'Italia reale in contrasto con l'Italia «moderna» ufficiale: non offre apprezzabili rappresentazioni del lavoro e della fatica. Per gli intellettuali della tendenza verista la preoccupazione assillante non fu (come in Francia) di stabilire un contatto con le masse popolari già «nazionalizzate» in senso unitario, ma di dare gli elementi da cui appariva che l'Italia reale non era ancora unificata: del resto c'è differenza tra il verismo degli scrittori settentrionali e di quelli meridionali (per esempio Verga, nel quale il sentimento unitario era molto forte, come appare dall'atteggiamento assunto nel 1920 verso il movimento autonomista di «Sicilia Nuova»).

Ma non basta che gli scrittori non ritengano degna di epos l'attività produttiva che pure rappresenta tutta la vita degli elementi attivi della popolazione: quando se ne occupano, il loro atteggiamento è quello del Padre Bresciani.

(Sono da vedere gli scritti di Luigi Russo sul Verga e su G. C. Abba). G. C. Abba può essere citato come esempio italiano di scrittore «nazionale-popolare», pur non essendo «popolaresco» e non facendo parte di nessuna corrente che critichi per ragioni di partito o settarie la posizione della classe dirigente. Sono da analizzare non solo gli scritti dell'Abba che hanno valore poetico, ma anche gli altri, come quello rivolto ai soldati, che fu premiato dalle autorità governative e militari e per qualche tempo fu diffuso nell'esercito. Nella stessa direzione è da ricordare il saggio del Papini pubblicato in «Lacerba» dopo gli avvenimenti del giugno 1914. La posizione di Alfredo Oriani è anche da rilevare, ma essa è troppo astratta e oratoria, e deturpata dal suo titanismo di genio incompreso. Qualcosa è notevole nell'opera di Piero Jahier (ricordare le simpatie dello Jahier per il Proudhon), anche di carattere popolare-militare, mal condita però dallo stile biblico e claudelliano dello scrittore, che spesso lo rende meno efficace e indisponente, perché maschera una forma snobistica di retorica. (Tutta la letteratura di Strapaese dovrebbe essere «nazionale-popolare» come programma, ma lo è appunto per programma, ciò che la ha resa una manifestazione deteriore della cultura: il Longanesi deve anche aver scritto un libriccino per le reclute, ciò che dimostra come le scarse tendenze nazionali-popolari nascano forse piú che altro da preoccupazioni militari). La preoccupazione nazionale-popolare nell'impostazione del problema critico-estetico e morale-culturale appare rilevante in Luigi Russo (del quale è da vedere il volumetto su i Narratori) come risultato di un «ritorno» alle esperienze del De Sanctis dopo il punto d'arrivo del crocianesimo.

È da osservare che il brescianesimo in fondo è individualismo antistatale e antinazionale anche quando e quantunque si veli di nazionalismo e statalismo frenetico. «Stato» significa specialmente direzione consapevole delle grandi moltitudini nazionali; è quindi necessario un «contatto» sentimentale e ideologico con tali moltitudini e, in una certa misura, simpatia e comprensione dei loro bisogni e delle loro esigenze. Ora, l'assenza di una letteratura nazionale-popolare, dovuta all'assenza di preoccupazioni e di interesse per questi bisogni ed esigenze, ha lasciato il «mercato» letterario aperto all'influsso di gruppi intellettuali di altri paesi, che «popolari-nazionali» in patria, lo diventano in Italia perché le esigenze e i bisogni che cercano soddisfare sono simili anche in Italia. Cosí il popolo italiano si è appassionato, attraverso il romanzo storico-popolare francese (e continua ad appassionarsi, come dimostrano anche i piú recenti bollettini librari), alle tradizioni francesi, monarchiche e rivoluzionarie e conosce la figura popolaresca di Enrico IV piú che quella di Garibaldi, la Rivoluzione del 1789 piú che il Risorgimento, le invettive di Victor Hugo contro Napoleone III piú che le invettive dei patrioti italiani contro Metternich; si appassiona per un passato non suo, si serve nel suo linguaggio e nel suo pensiero di metafore e di riferimenti culturali francesi ecc., è culturalmente piú francese che italiano.

Per l'indirizzo nazionale-popolare dato dal De Sanctis alla sua attività critica, è da vedere l'opera di Luigi Russo: Francesco De Sanctis e la cultura napoletana, 1860-1885, Ed. La Nuova Italia, 1928 e il saggio del De Sanctis La Scienza e la Vita. Si può forse dire che il De Sanctis abbia fortemente sentito il contrasto «Riforma-Rinascimento», cioè appunto il contrasto tra Vita e Scienza che era nella tradizione italiana come una debolezza della struttura nazionale-statale e abbia cercato di reagire contro di esso. Ecco perché ad un certo punto si stacca dall'idealismo speculativo e si avvicina al positivismo e al verismo (simpatie per Zola, come il Russo per Verga e Di Giacomo). Come pare osservi il Russo nel suo libro (cfr. la recensione di G. Marzot, nella «Nuova Italia» del maggio 1932) «il segreto dell'efficacia di De Sanctis è tutto da cercare nella sua spiritualità democratica, la quale lo fa sospettoso e nemico di ogni movimento o pensiero che assuma carattere assolutistico e privilegiato [...]; e nella tendenza e nel bisogno di concepire lo studio come momento di un'attività piú vasta, sia spirituale che pratica, racchiusa nella formula di un suo famoso discorso La Scienza e la Vita».

L'antidemocrazia negli scrittori brescianeschi non ha nessun significato politicamente rilevante e coerente; è la forma di opposizione a ogni forma di movimento nazionale-popolare, determinato dallo spirito economico-corporativo di casta, di origine medioevale e feudale.

 

 

Alfredo Oriani. Occorre studiarlo come il rappresentante piú onesto e appassionato per la grandezza nazionale-popolare italiana fra gli intellettuali italiani della vecchia generazione. La sua posizione non è però critica-ricostruttiva, e quindi tutti i motivi della sua sfortuna e dei suoi fallimenti. In realtà a chi si richiamava l'Oriani? Non alle classi dominanti, da cui tuttavia si attendeva riconoscimenti e onori, nonostante le sue diatribe corrosive. Non ai repubblicani, cui tuttavia si apparenta la sua forma mentale recriminatoria. La Lotta politica sembra il manifesto per un grande movimento democratico nazionale popolare, ma l'Oriani è troppo imbevuto di filosofia idealistica, quale si venne foggiando nell'epoca della Restaurazione, per saper parlare al popolo come capo e come eguale nello stesso tempo, per far partecipare il popolo alla critica di se stesso e delle sue debolezze senza tuttavia fargli perdere la fede nella propria forza e nel proprio avvenire. La debolezza dell'Oriani è in questo carattere meramente intellettuale delle sue critiche, che creano una nuova forma di dottrinarismo e di astrattismo. Tuttavia vi è un movimento abbastanza sano di pensiero che si dovrebbe approfondire. La fortuna di Oriani in questi ultimi tempi è piú un'imbalsamazione funeraria che un'esaltazione di nuova vita del suo pensiero.

 

Il libro di don Chisciotte di E. Scarfoglio (Alfredo Oriani). È un episodio della lotta per svecchiare la cultura italiana e sprovincializzarla. In sé il libro è mediocre. Vale per il tempo e perché forse è stato il primo tentativo del genere.

Dovendo scrivere su Oriani è da notare il brano che gli dedica lo Scarfoglio (p. 227 dell'edizione Mondadori, 1925). Per lo Scarfoglio (che scrive verso il 1884) l'Oriani è un debole, uno sconfitto, che si consola atterrando tutto e tutti: «Il signor di Banzole ha la memoria ammucchiata di letture frettolose e smozzicate, di teoriche male intese e mal digerite, di fantasmi malamente e fiaccamente formati; di piú, l'instrumento della lingua non gli sta troppo sicuramente nelle mani». È interessante una citazione, forse dal libro Quartetto, in cui Oriani scrive: «Vinto ad ogni battaglia ed insultato come tutti i vinti, non scesi mai né scenderò mai alla scempiaggine della replica, alla bassezza del lamento: i vinti hanno torto». Questo tratto mi pare fondamentale del carattere di Oriani, che era un velleitario, sempre scontento di tutti perché nessuno riconosceva il suo genio e che, in fondo, rinunziava a combattere per imporsi, cioè aveva egli stesso una ben strana stima di sé. È uno pseudo-titano; e nonostante certe sue innegabili doti, prevale in lui il «genio incompreso» di provincia che sogna la gloria, la potenza, il trionfo, proprio come la signorina sogna il principe azzurro.

 

Floriano Del Secolo, Contributo alla biografia di Oriani. Con lettere inedite, nel «Pègaso» dell'ottobre 1930.

Appare l'Oriani nella cosí detta «tragedia» della sua vita intellettuale di «genio» incompreso dal pubblico nazionale, di apostolo senza seguaci ecc. Ma fu poi Oriani «incompreso», o si trattava di una sfinge senza enigmi, di un vulcano che eruttava solo topolini? E adesso è Oriani diventato «popolare», «maestro di vita», ecc.? Molto si pubblica su di lui, ma l'edizione nazionale delle sue opere è comprata e letta? C'è da dubitarne. Oriani e Sorel (in Francia). Ma Sorel è stato enormemente piú attuale di Oriani. Perché Oriani non riuscí a formarsi una scuola, un gruppo di discepoli, perché non organizzò una rivista? Voleva essere «riconosciuto» senza sforzo da parte sua (oltre ai lamenti presso gli amici piú intimi). Mancava di volontà, di attitudini pratiche, e voleva influire sulla vita politica e morale della nazione. Ciò che lo rendeva antipatico a molti doveva essere appunto questo giudizio istintivo che si trattava di un velleitario che voleva essere pagato prima d'aver compiuto l'opera, che voleva esser riconosciuto «genio», «capo», «maestro», per un diritto divino da lui affermato perentoriamente. Certo Oriani deve essere avvicinato al Crispi come psicologia e a tutto uno strato di intellettuali italiani, che, in certi rappresentanti piú bassi, cade nel ridicolo e nella farsa intellettuale.

 

 

Croce e la critica letteraria. L'estetica di Croce sta diventando normativa, sta diventando una «rettorica»? Bisognerebbe aver letto la sua Aesthetica in nuce (che è l'articolo sull'estetica dell'ultima edizione dell'Encyclopedia Britannica). Un'affermazione di essa dice che compito precipuo dell'estetica moderna ha da essere «la restaurazione e difesa della classicità contro il romanticismo, del momento sintetico e formale e teoretico, in cui è il proprio dell'arte, contro quello affettivo, che l'arte ha per istituto di risolvere in sé». Questo brano mostra quali siano le preoccupazioni «morali» del Croce, oltre che le sue preoccupazioni estetiche, cioè le sue preoccupazioni «culturali» e quindi «politiche». Si potrebbe domandare se l'estetica, come scienza, possa avere altro compito oltre quello di elaborare una teoria dell'arte e della bellezza, dell'espressione. Qui estetica significa «critica in atto» in «concreto», ma la critica in atto non dovrebbe solo criticare, cioè fare la storia dell'arte in concreto, delle «espressioni artistiche individuali»?

 

 

Criteri metodici. Sarebbe assurdo pretendere che ogni anno o anche ogni dieci anni, la letteratura di un paese produca un Promessi Sposi o un Sepolcri ecc. Appunto perciò l'attività critica normale non può avere prevalentemente carattere «culturale» ed essere una critica di «tendenze» a meno di diventare un continuo massacro.

E in questo caso, come scegliere l'opera da massacrare, lo scrittore da dimostrare estraneo all'arte? Pare questo un problema trascurabile e invece, a rifletterci dal punto di vista dell'organizzazione moderna della vita culturale, è fondamentale. Una attività critica che fosse permanentemente negativa, fatta di stroncature, di dimostrazioni che si tratta di «non poesia» e non di «poesia», diventerebbe stucchevole e rivoltante: la «scelta» sembrerebbe una caccia all'uomo, oppure potrebbe essere ritenuta «casuale» e quindi irrilevante. Pare certo che l'attività critica debba sempre avere un aspetto positivo, nel senso che debba mettere in rilievo, nell'opera presa in esame, un valore positivo, che se non può essere artistico, può essere culturale e allora non tanto varrà il singolo libro – salvo casi eccezionali – quanto i gruppi di lavori messi in serie per tendenza culturale. Sulla scelta: il criterio piú semplice, oltre l'intuizione del critico e l'esame sistematico di tutta la letteratura, lavoro colossale e quasi impossibile da farsi individualmente, pare quello della «fortuna libraria», intesa in due sensi: «fortuna di lettori» e «fortuna presso gli editori» che in certi paesi dove la vita intellettuale è controllata da organi governativi, ha pure il suo significato perché indica quale indirizzo lo Stato vorrebbe dare alla cultura nazionale. Partendo dai criteri della estetica crociana, si presentano gli stessi problemi: poiché «frammenti» di poesia possono trovarsi da per tutto, nell'«Amore Illustrato» come nell'opera di scienza strettamente specializzata, il critico dovrebbe conoscere «tutto» per essere in grado di rilevare la «perla» nel brago. In realtà ogni singolo critico sente di appartenere a una organizzazione di cultura che opera come insieme; ciò che sfugge a uno viene «scoperto» e segnalato da un altro ecc. Anche il dilagare dei «premi letterari» non è che una manifestazione, piú o meno bene organizzata, con maggiori o minori elementi di frode, di questo servizio di «segnalazione» collettiva della critica letteraria militante.

È da notare che in certi periodi storici l'attività pratica può assorbire le maggiori intelligenze creative di una nazione: in un certo senso, in tali periodi, tutte le migliori forze umane vengono concentrate nel lavoro strutturale e non ancora si può parlare di superstrutture: secondo ciò che scrive il Cambon nella prefazione all'edizione francese dell'autobiografia di Henri Ford, in America si è costruita una teoria sociologica su questa base, per giustificare l'assenza, negli Stati Uniti, di una fioritura culturale umanistica e artistica. In ogni caso questa teoria, per avere almeno un'apparenza di giustificazione, deve essere in grado di mostrare una vasta attività creatrice nel campo pratico, sebbene rimanga senza risposta la quistione: se questa attività «poetico-creativa» esiste ed è vitale, esaltando tutte le forze vitali, le energie, le volontà, gli entusiasmi dell'uomo, come non esalta l'energia letteraria e non crea un'epica? Se ciò non avviene, nasce il legittimo dubbio che si tratti di energie «burocratiche», di forze non espansive universalmente, ma repressive e brutali: si può pensare che i costruttori delle Piramidi, schiavi trattati con la frusta, concepissero liricamente il loro lavoro? Ciò che è da rilevare è che le forze che dirigono questa grandiosa attività pratica, non sono repressive solo nei confronti del lavoro strumentale, ciò che può capirsi, ma sono repressive universalmente, ciò che appunto è tipico e fa sí che una certa energia letteraria, come in America, si manifesti nei refrattari all'organizzazione dell'attività pratica che si vorrebbe gabellare come «epica» in se stessa. Tuttavia la situazione è peggiore dove alla nullità artistica non corrisponde neanche un'attività pratico-strutturale di una certa grandiosità e si giustifica la nullità artistica con un'attività pratica che si «verificherà» e a sua volta produrrà un'attività artistica.

In realtà ogni forza innovatrice è repressiva nei confronti dei propri avversari, ma in quanto scatena forze latenti, le potenzia, le esalta, è espansiva e l'espansività è di gran lunga il suo carattere distintivo. Le restaurazioni, con qualsiasi nome si presentino, e in special modo le restaurazioni che avvengono nell'epoca attuale, sono universalmente repressive: il «padre Bresciani», la letteratura brescianesca diventa predominante. La psicologia che ha preceduto una tale manifestazione intellettuale è quella creata dal panico, da una paura cosmica di forze demoniache che non si comprendono e non si possono quindi controllare altro che con una universale costruzione repressiva. Il ricordo di questo panico (della sua fase acuta) perdura a lungo e dirige la volontà e i sentimenti: la libertà e la spontaneità creatrice spariscono e rimane l'astio, lo spirito di vendetta, l'accecamento balordo ammantati dalla mellifluità gesuitica. Tutto diventa pratico (nel senso deteriore), tutto è propaganda, polemica, negazione implicita, in forma meschina, angusta, spesso ignobile e rivoltante come nell'Ebreo di Verona.

Quistione della gioventú letteraria di una generazione. Certo, nel giudicare uno scrittore, di cui si esamina il primo libro, occorrerà tener conto dell'«età», perché il giudizio sarà sempre anche di cultura: un frutto acerbo di un giovane può essere apprezzato come una promessa e ottenere un incoraggiamento. Ma i bozzacchioni non sono promesse, anche se paiono aver lo stesso gusto dei frutti acerbi.

 

 

Criteri. Essere un'epoca. Nella «Nuova Antologia» del 16 ottobre 1928 Arturo Calza scrive: «Bisogna cioè riconoscere che – dal 1914 in qua – la letteratura ha perduto non solo il pubblico che le forniva gli alimenti (!), ma anche quello che le forniva gli argomenti. Voglio dire che in questa [nostra] società europea, la quale traversa ora uno di quei momenti piú acuti e piú turbinosi di crisi morale e spirituale che preparano (!) le grandi rinnovazioni, il filosofo, e dunque anche, necessariamente, il poeta, il romanziere e il drammaturgo, vedono intorno a sé piuttosto una società "in divenire" che una società assestata e assodata in uno schema definitivo (!) di vita morale e intellettuale; piuttosto vaghe e sempre mutevoli parvenze di costumi e di vita che non vita e costumi saldamente stabiliti e organizzati; piuttosto semi e germogli, che non fiori sbocciati e frutti maturati. Ond'è che – come scriveva in questi giorni egregiamente il Direttore della "Tribuna" (Roberto Forges Davanzati), e hanno ripetuto poi e anzi "intensificato" altri giornali – "noi viviamo nella maggiore assurdità artistica fra tutti gli stili e tutti i tentativi, senza piú capacità di essere un'epoca"». Quante parole inutili tra il Calza e il Forges Davanzati. Forse che solo oggi c'è stata una crisi storica? E non è anzi vero che proprio nei periodi di crisi storica, le passioni e gli interessi e i sentimenti si arroventano e si ha in letteratura il «romanticismo»? Gli argomenti dei due scrittori zoppicano e si rivoltano contro gli argomentatori: come mai il Forges Davanzati non si accorge che il non aver capacità di essere un'epoca non può limitarsi all'arte ma investe tutta la vita? L'assenza di un ordine artistico (nel senso in cui può intendersi l'espressione) è coordinata all'assenza di ordine morale e intellettuale, cioè all'assenza di sviluppo storico organico. La società gira su se stessa, come un cane che vuol prendersi la coda, ma questa parvenza di movimento non è svolgimento.

 

 

[L'espressione linguistica della parola scritta e parlata e le altre arti.] Il De Sanctis in qualche parte scrive che egli, prima di scrivere un saggio o fare una lezione su un canto di Dante, per esempio, leggeva parecchie volte ad alta voce il canto, lo studiava a memoria ecc. ecc. Ciò si ricorda per sostenere l'osservazione che l'elemento artistico di un'opera non può essere, eccettuate rare occasioni (e si vedrà quali), gustato a prima lettura, spesso neppure dai grandi specialisti come era il De Sanctis. La prima lettura dà solo la possibilità di introdursi nel mondo culturale e sentimentale dello scrittore, e neanche questo è sempre vero, specialmente per gli scrittori non contemporanei, il cui mondo culturale e sentimentale è diverso dall'attuale: una poesia di un cannibale sulla gioia di un lauto banchetto di carne umana, può essere concepita come bella, e domandare per essere artisticamente gustata, senza pregiudizi «extraestetici», un certo distacco psicologico dalla cultura odierna. Ma l'opera d'arte contiene anche altri elementi «storicistici» oltre al determinato mondo culturale e sentimentale, ed è il linguaggio, inteso non solo come espressione puramente verbale, quale può essere fotografato in un certo tempo e luogo dalla grammatica, ma come un insieme di immagini e modi di esprimersi che non rientrano nella grammatica. Questi elementi appaiono piú chiaramente nelle altre arti. La lingua giapponese appare subito diversa dalla lingua italiana, non cosí il linguaggio della pittura, della musica e delle arti figurative in genere: eppure esistono anche queste differenze di linguaggio ed esse sono tanto piú appariscenti quanto piú dalle manifestazioni artistiche degli artisti si scende alle manifestazioni artistiche del folklore in cui il linguaggio di queste arti è ridotto all'elemento piú autoctono e primordiale (ricordare l'aneddoto del disegnatore che fa il profilo di un negro e gli altri negri scherniscono il ritrattato perché il pittore gli ha riprodotto «solo mezza faccia»). Esiste però, dal punto di vista culturale e storico, una grande differenza tra l'espressione linguistica della parola scritta e parlata e le espressioni linguistiche delle altre arti. Il linguaggio «letterario» è strettamente legato alla vita delle moltitudini nazionali e si sviluppa lentamente e solo molecolarmente; se si può dire che ogni gruppo sociale ha una sua «lingua», tuttavia occorre notare (salvo rare eccezioni) che tra la lingua popolare e quella delle classi colte c'è una continua aderenza e un continuo scambio. Ciò non avviene per i linguaggi delle altre arti, per i quali, si può notare che attualmente si verificano due ordini di fenomeni: 1) in essi sono sempre vivi, per lo meno in quantità enormemente maggiore che per la lingua letteraria, gli elementi espressivi del passato, si può dire di tutto il passato; 2) in essi si forma rapidamente una lingua cosmopolita che assorbe gli elementi tecnico-espressivi di tutte le nazioni che volta per volta producono grandi pittori, scrittori, musicisti, ecc. Wagner ha dato alla musica elementi linguistici che tutta la letteratura tedesca non ha dato in tutta la sua storia, ecc. Ciò avviene perché il popolo partecipa scarsamente alla produzione di questi linguaggi, che sono propri di una élite internazionale ecc., mentre può abbastanza rapidamente (e come collettività, non come singoli) giungere alla loro comprensione. Tutto ciò per indicare che realmente il «gusto» puramente estetico, se può chiamarsi primario come forma e attività dello spirito, non è tale praticamente, in senso cronologico, cioè.

È stato detto da taluno (per esempio da Prezzolini, nel volumetto Mi pare...) che il teatro non può dirsi un'arte ma uno svago di carattere meccanicistico. Ciò perché gli spettatori non possono gustare esteticamente il dramma rappresentato, ma si interessano solo all'intrigo ecc. (o qualcosa di simile). L'osservazione è falsa nel senso che, nella rappresentazione teatrale, l'elemento artistico non è dato solo dal dramma nel senso letterario, il creatore non è solo lo scrittore: l'autore interviene nella rappresentazione teatrale con le parole e con le didascalie che limitano l'arbitrio dell'attore e del régisseur, ma realmente nella rappresentazione l'elemento letterario diventa occasione a nuove creazioni artistiche, che da complementari e critico-interpretative stanno diventando sempre piú importanti: l'interpretazione dell'autore singolo e il complesso scenico creato dal régisseur. È giusto però che solo la lettura ripetuta può far gustare il dramma cosí come l'autore l'ha prodotto. La conclusione è questa: un'opera d'arte è tanto piú «artisticamente» popolare quanto piú il suo contenuto morale, culturale, sentimentale è aderente alla moralità, alla cultura, ai sentimenti nazionali, e non intesi come qualcosa di statico, ma come un'attività in continuo sviluppo. L'immediata presa di contatto tra lettore e scrittore avviene quando nel lettore l'unità di contenuto e forma ha la premessa di unità del mondo poetico e sentimentale: altrimenti il lettore deve incominciare a tradurre la «lingua» del contenuto nella sua propria lingua: si può dire che si forma la situazione come di uno che ha imparato l'inglese in un corso accelerato Berlitz e poi legge Shakespeare; la fatica della comprensione letterale, ottenuta con il continuo sussidio di un mediocre dizionario, riduce la lettura a un esercizio scolastico pedantesco e nulla piú.

 

 

Neolalismo. Il neolalismo come manifestazione patologica del linguaggio (vocabolario) individuale. Ma non si può impiegare il termine in senso piú generale, per indicare tutta una serie di manifestazioni culturali, artistiche, intellettuali? Cosa sono tutte le scuole e scolette artistiche e letterarie se non manifestazioni di neolalismo culturale? Nei periodi di crisi si hanno le manifestazioni piú estese e molteplici di neolalismo. La lingua e i linguaggi. Ogni espressione culturale ha una sua lingua storicamente determinata, ogni attività morale e intellettuale: questa lingua è ciò che si chiama anche «tecnica» e anche «struttura». Se un letterato si mettesse a scrivere in un linguaggio personalmente arbitrario (cioè diventasse un «neolalico» nel senso patologico della parola) e fosse imitato da altri (ognuno con linguaggio arbitrario) si parlerebbe di Babele. La stessa impressione non si prova per il linguaggio (tecnica) musicale, pittorico, plastico ecc. (Questo punto è da meditare e approfondire). Dal punto di vista della storia della cultura, e quindi anche della «creazione» culturale (da non confondersi con la creazione artistica, ma da avvicinare invece alle attività politiche, e infatti in questo senso si può parlare di una «politica culturale») tra l'arte letteraria e le altre forme di espressione artistica (figurative, musicali, orchestriche ecc.) esiste una differenza che bisognerebbe definire e precisare in modo teoricamente giustificato e comprensibile. L'espressione «verbale» ha un carattere strettamente nazionale-popolare-culturale: una poesia di Goethe, nell'originale, può essere capita e rivissuta compiutamente solo da un tedesco (o da chi si è «intedescato»). Dante può essere capito e rivissuto solo da un italiano colto ecc. Una statua di Michelangelo, un brano musicale di Verdi, un balletto russo, un quadro di Raffaello ecc., possono invece essere capiti quasi immediatamente da qualsiasi cittadino del mondo, anche di spiriti non cosmopolitici, anche se non ha superato l'angusta cerchia di una provincia del suo paese. Tuttavia la cosa non è cosí semplice come potrebbe credersi tenendosi alla buccia. L'emozione artistica che un giapponese o un lappone prova dinanzi a una statua di Michelangelo o ascoltando una melodia di Verdi è certo un'emozione artistica (lo stesso giapponese o lappone resterebbe insensibile e sordo se ascoltasse la declamazione di una poesia di Dante, di Goethe, di Shelley o ammirerebbe l'arte del declamatore come tale); tuttavia l'emozione artistica del giapponese o del lappone non sarà della stessa intensità e colore dell'emozione di un italiano medio e tanto meno di un italiano colto. Ciò che significa che accanto o meglio al di sotto dell'espressione di carattere cosmopolitico del linguaggio musicale, pittorico ecc., c'è una piú profonda sostanza culturale, piú ristretta, piú «nazionale-popolare». Non basta: i gradi di questo linguaggio sono diversi; c'è un grado nazionale-popolare (e spesso prima di questo un grado provinciale-dialettale-folcloristico), poi il grado di una determinata «civiltà», che può determinarsi empiricamente dalla tradizione religiosa (per esempio cristiana, ma distinta in cattolica, protestante, ortodossa ecc.) e anche, nel mondo moderno, di una determinata «corrente culturale-politica». Durante la guerra, per esempio, un oratore inglese, francese, russo, poteva parlare a un pubblico italiano, nella sua lingua incompresa, delle devastazioni compiute dai tedeschi nel Belgio; se il pubblico simpatizzava con l'oratore, il pubblico ascoltava attentamente e «seguiva» l'oratore, si può dire che lo «comprendeva». È vero che nell'oratoria non è solo elemento la «parola»: c'è il gesto, il tono della voce ecc., cioè un elemento musicale che comunica il leitmotiv del sentimento predominante, della passione principale e l'elemento orchestrico: il gesto in senso largo che scandisce e articola l'onda sentimentale e passionale.

Per stabilire una politica di cultura queste osservazioni sono indispensabili; per una politica di cultura delle masse popolari esse sono fondamentali. Ecco la ragione del «successo» internazionale del cinematografo modernamente e, prima, del melodramma e della musica in generale.

 

 

Sincerità (o spontaneità) e disciplina. La sincerità (o spontaneità) è sempre un pregio e un valore? È un pregio e un valore se disciplinata. Sincerità (e spontaneità) significa massimo di individualismo, ma anche nel senso di idiosincrasia (originalità in questo caso è uguale a idiotismo). L'individuo è originale storicamente quando dà il massimo di risalto e di vita alla «socialità», senza cui egli sarebbe un «idiota» (nel senso etimologico, che però non si allontana dal senso volgare e comune). C'è dell'originalità, della personalità, della sincerità un significato romantico, e questo significato è giustificato storicamente in quanto nacque in opposizione con un certo conformismo essenzialmente «gesuitico»: cioè un conformismo artificioso, fittizio, creato superficialmente per gli interessi di un piccolo gruppo o cricca, non di una avanguardia. C'è un conformismo «razionale» cioè rispondente alla necessità, al minimo sforzo per ottenere un risultato utile e la disciplina di tale conformismo è da esaltare e promuovere, è da fare diventare «spontaneità» o «sincerità». Conformismo significa poi niente altro che «socialità», ma piace impiegare la parola «conformismo» appunto per urtare gli imbecilli. Ciò non toglie la possibilità di formarsi una personalità e di essere originali, ma rende piú difficile la cosa. È troppo facile essere originali facendo il contrario di ciò che fanno tutti; è una cosa meccanica. È troppo facile parlare diversamente dagli altri, essere neolalici, il difficile è distinguersi dagli altri senza perciò fare delle acrobazie. Avviene proprio oggi che si cerca una originalità e personalità a poco prezzo. Le carceri e i manicomi sono pieni di uomini originali e di forte personalità. Battere l'accento sulla disciplina, sulla socialità, e tuttavia pretendere sincerità, spontaneità, originalità, personalità: ecco ciò che è veramente difficile e arduo. Né si può dire che il conformismo è troppo facile e riduce il mondo a un convento. Intanto: qual è il «vero conformismo», cioè qual è la condotta «razionale» piú utile, piú libera in quanto ubbidisce alla «necessità»? Cioè quale è la «necessità»? Ognuno è portato a far di sé l'archetipo della «moda», della «socialità» e a porsi come «esemplare». Pertanto la socialità, il conformismo, è il risultato di una lotta culturale (e non solo culturale), è un dato «oggettivo» o universale, cosí come non può non essere oggettiva e universale la «necessità» su cui si innalza l'edificio della libertà. Libertà e arbitrio, ecc.

Nella letteratura (arte) contro la sincerità e spontaneità si trova il meccanismo o calcolo, che può essere un falso conformismo, una falsa socialità, cioè l'adagiarsi nelle idee fatte e abitudinarie. Ricordare l'esempio classico di Nino Berrini che «scheda» il passato e cerca l'originalità nel fare ciò che non appare nelle schede. Principii del Berrini per il teatro: 1) lunghezza del lavoro: fissare la media della lunghezza, stabilendola su quei lavori che hanno avuto successo; 2) studio dei finali. Quali finali hanno avuto successo e strappato l'applauso? 3) studio delle combinazioni: per esempio nel dramma sessuale borghese, marito, moglie, amante, vedere quali combinazioni [sono] piú sfruttate, e per esclusione «inventare» nuove combinazioni, meccanicamente trovate. Cosí il Berrini aveva trovato che un dramma non deve avere piú di 50.000 parole, cioè non deve durare piú di un tanto tempo. Ogni atto o ogni scena principale deve culminare in un modo dato e questo modo è studiato sperimentalmente, secondo una media di quei sentimenti e di quegli stimoli che tradizionalmente hanno avuto successo, ecc. Con questi criteri è certo che non si possono avere catastrofi commerciali. Ma è questo «conformismo», o «socialità», nel senso detto? Certo no. È un adagiarsi nel già esistente.

La disciplina è anche uno studio del passato, in quanto il passato è elemento del presente e del futuro, ma non elemento «ozioso», ma necessario, in quanto è linguaggio, cioè elemento di «uniformità» necessaria, non di uniformità «oziosa», impigrita.

 

 

[Letteratura «funzionale».] Cosa corrisponde in letteratura al «razionalismo» architettonico? Certamente la letteratura «secondo un piano», cioè là letteratura «funzionale», secondo un indirizzo sociale prestabilito. È strano che in architettura il razionalismo sia acclamato e giustificato e non nelle altre arti. Ci deve essere un equivoco. Forse che l'architettura sola ha scopi pratici? Certo apparentemente cosí pare, perché l'architettura costruisce le case d'abitazione, ma non si tratta di questo: si tratta di «necessità». Si dirà che le case sono piú necessarie che non le altre arti e si vuol dire solo che le case sono necessarie per tutti, mentre le altre arti sono necessarie solo per gli intellettuali, per gli uomini di coltura. Si dovrebbe concludere che proprio i «pratici» si propongono di rendere necessarie tutte le arti per tutti gli uomini, di rendere tutti «artisti». Ancora. La coercizione sociale! Quanto si blatera contro questa coercizione. Non si pensa che essa è una parola! La coercizione, l'indirizzo, il piano, sono semplicemente un terreno di selezione degli artisti, nulla piú: e da scegliere per scopi pratici, cioè in un campo in cui la volontà e la coercizione sono perfettamente giustificate. Sarebbe da vedere se la coercizione non è sempre esistita! Perché è esercitata inconsciamente dall'ambiente e dai singoli e non da un potere centrale o da una forza centralizzata non sarebbe forse coercizione? Si tratta in fondo sempre di «razionalismo» contro l'arbitrio individuale. Allora la quistione non verte sulla coercizione, ma sul fatto se si tratta di razionalismo autentico, di reale funzionalità, o di atto d'arbitrio, ecco tutto. La coercizione è tale solo per chi non l'accetta, non per chi l'accetta: se la coercizione si sviluppa secondo lo sviluppo delle forze sociali non è coercizione, ma «rivelazione» di verità culturale ottenuta con un metodo accelerato. Si può dire della coercizione ciò che i religiosi dicono della determinazione divina: per i «volenti» essa non è determinazione, ma libera volontà. In realtà la coercizione in parola è combattuta perché si tratta di una lotta contro gli intellettuali e contro certi intellettuali, quelli tradizionali e tradizionalisti, i quali, tutto al piú, ammettono che le novità si facciano strada a poco a poco, gradualmente. È curioso che in architettura si contrappone il razionalismo al «decorativismo», e questo viene chiamato «arte industriale». È curioso, ma giusto. Infatti dovrebbe chiamarsi sempre industriale qualsiasi manifestazione artistica che è diretta a soddisfare i gusti di singoli compratori ricchi, ad «abbellire» la loro vita, come si dice. Quando l'arte, specialmente nelle sue forme collettive, è diretta a creare un gusto di massa, ad elevare questo gusto, non è «industriale», ma disinteressata, cioè arte. Mi pare che il concetto di razionalismo in architettura, cioè di «funzionalismo», sia molto fecondo di conseguenze di principi di politica culturale; non è casuale che esso sia nato proprio in questi tempi di «socializzazioni» (in senso vasto) e di interventi di forze centrali per organizzare le grandi masse contro i residui di individualismo e di estetiche dell'individualismo nella politica culturale.

 

 

[Il razionalismo nell'architettura.] Quistioni di nomi. È evidente che in architettura «razionalismo» significa semplicemente «moderno»: è anche evidente che «razionale» non è altro che un modo di esprimere il bello secondo il gusto di un certo tempo. Che ciò sia avvenuto nell'architettura prima che in altre arti si capisce, perché l'architettura è «collettiva» non solo come «impiego», ma come «giudizio». Si potrebbe dire che il «razionalismo» è sempre esistito, cioè che si è sempre cercato di raggiungere un certo fine secondo un certo gusto e secondo le conoscenze tecniche della resistenza e dell'adattabilità del «materiale».

Di quanto e del come il «razionalismo» dell'architettura possa diffondersi nelle altre arti è quistione difficile e che sarà risolta dalla «critica dei fatti» (ciò che non vuol dire che sia inutile la critica intellettuale ed estetica che prepara quella dei fatti). Certo è che l'architettura pare di per sé, e per le sue connessioni immediate col resto della vita, la piú riformabile e «discutibile» delle arti. Un quadro o un libro o una statuina, può tenersi in luogo «personale» per il gusto personale; non cosí una costruzione architettonica. È anche da ricordare indirettamente (per ciò che vale in questo caso) l'osservazione del Tilgher che l'opera d'architettura non può essere messa alla stregua delle altre opere d'arte per il «costo», l'ingombro, ecc... Distruggere un'opera costruttiva, cioè fare e rifare, tentando e riprovando, non si adatta molto all'architettura.

 

È giusto che lo studio della funzione non è sufficiente, pur essendo necessario, per creare la bellezza: intanto sulla stessa «funzione» nascono discordie, cioè anche l'idea e il fatto di funzione è individuale o dà luogo a interpretazioni individuali. Non è poi detto che la «decorazione» non sia «funzionale» e si intende «decorazione» in senso largo, per tutto ciò che non è strettamente «funzionale» come la matematica. Intanto la «razionalità» porta alla «semplificazione», ciò che è già molto. (Lotta contro il secentismo estetico che appunto è caratterizzato dal prevalere dell'elemento esternamente decorativo su quello «funzionale» sia pure in senso largo, cioè di funzione in cui sia compresa la «funzione estetica»). È molto che si sia giunti ad ammettere che l'«architettura è l'interpretazione di ciò che è pratico». Forse questo potrebbe dirsi di tutte le arti che sono una «determinata interpretazione di ciò che è pratico», dato che all'espressione «pratico» si tolga ogni significato «deteriore, giudaico» (o piattamente borghese: è da notare che «borghese» in molti linguaggi significa solo «piatto, mediocre, interessato», cioè ha assunto il significato che una volta aveva l'espressione «giudaico»: tuttavia questi problemi di linguaggio hanno importanza, perché linguaggio = pensiero, modo di parlare indica modo di pensare e di sentire non solo ma anche di esprimersi, cioè di far capire e sentire). Certo per le altre arti le quistioni di «razionalismo» non si pongono nello stesso modo che per l'architettura, tuttavia il «modello» dell'architettura è utile, dato che a priori si deve ammettere che il bello è sempre tale e presenta gli stessi problemi, qualunque sia l'espressione formale particolare di esso. Si potrebbe dire che si tratta di «tecnica», ma tecnica non è che espressione e il problema rientra nel suo circolo iniziale con diverse parole.

 

 

L'architettura nuova. Speciale carattere obbiettivo dell'architettura. Realmente l'«opera d'arte» è il «progetto» (l'insieme dei disegni e dei piani e dei calcoli, coi quali persone diverse dall'architetto «artista-progettista» possono realizzare l'edifizio, ecc.): un architetto può essere giudicato grande artista dai suoi piani, anche senza aver edificato materialmente nulla. Il progetto sta all'edifizio materiale come il «manoscritto» sta al libro stampato: l'edifizio è l'estrinsecazione sociale dell'arte, la sua «diffusione», la possibilità data al pubblico di partecipare alla bellezza (quando è tale), cosí come il libro stampato.

Cade l'obbiezione del Tilgher al Croce a proposito della «memoria» come causa dell'estrinsecazione artistica: l'architetto non ha bisogno dell'edifizio per «ricordare» ma del progetto. Ciò sia detto anche solo considerando la «memoria» crociana come approssimazione relativa nel problema del perché il pittore dipinge, lo scrittore scrive ecc. e non si accontenta di costruire fantasmi per solo suo uso e consumo: e tenendo conto che ogni progetto architettonico ha un carattere di «approssimazione» maggiore che il manoscritto, la pittura ecc. Anche lo scrittore introduce innovazioni per ogni edizione del libro (o corregge le bozze modificando ecc., cfr. Manzoni): nell'architettura la quistione è piú complessa, perché l'edifizio è compiuto mai in sé completamente, ma deve avere degli adattamenti anche in rapporto al «panorama» in cui viene inserito ecc. (e non si possono fare di esso delle seconde edizioni cosí facilmente come di un libro ecc.). Ma il punto piú importante da osservare oggi è questo: che in una civiltà a rapido sviluppo, in cui il «panorama» urbano deve essere molto «elastico», non può nascere una grande arte architettonica, perché è piú difficile pensare edifizi fatti per l'«eternità». In America si calcola che un grattacielo debba durare non piú di 25 anni, perché si suppone che in 25 anni l'intera città «possa» mutare fisionomia, ecc. ecc. Secondo me, una grande arte architettonica può nascere solo dopo una fase transitoria di carattere «pratico», in cui cioè si cerchi solo di raggiungere la massima soddisfazione ai bisogni elementari del popolo col massimo di convenienze: ciò inteso in senso largo, non cioè solo per quanto riguarda il singolo edifizio, la singola abitazione o il singolo luogo di riunione per grandi masse, ma in quanto riguarda un complesso architettonico, con strade, piazze, giardini, parchi, ecc.

 

Adriano Tilgher, Perché l'artista scrive o dipinge, o scolpisce, ecc.?, nell'«Italia che scrive» del febbraio 1929.

Articolo tipico della incongruenza logica e della leggerezza morale del Tilgher, il quale dopo aver «sfottuto» banalmente la teoria del Croce in proposito, alla fine dell'articolo la ripresenta tale e quale come sua, in una forma fantasiosa e immaginifica. Dice il Tilgher che secondo il Croce «l'estrinsecazione fisica [...] del fantasma artistico ha scopo essenzialmente mnemonico», ecc. Questo argomento è da vedere: cosa significa per il Croce in questo caso «memoria»? Ha un valore puramente personale, individuale, o anche di gruppo? Lo scrittore si preoccupa solo di sé o storicamente è portato a pensare anche agli altri? ecc.

 

Alcuni criteri di giudizio «letterario». Un lavoro può essere pregevole: 1) perché espone una nuova scoperta che fa progredire una determinata attività scientifica. Ma non solo l'«originalità» assoluta è un pregio. Può infatti avvenire: 2) che fatti ed argomenti già noti siano stati scelti e disposti secondo un ordine, una connessione, un criterio piú adeguato e probante di quelli precedenti. La struttura (l'economia, l'ordine) di un lavoro scientifico può essere «originale» essa stessa. 3) I fatti e gli argomenti già noti possono aver dato luogo a considerazioni «nuove», subordinate, ma tuttavia importanti.

Il giudizio «letterario» deve, evidentemente, tener conto dei fini che un lavoro si è proposto: di creazione e riorganizzazione scientifica, di divulgazione dei fatti ed argomenti noti in un determinato gruppo culturale, di un determinato livello intellettuale e culturale ecc. Esiste perciò una tecnica della divulgazione che occorre adattare volta per volta e rielaborare: la divulgazione è un atto eminentemente pratico, in cui occorre esaminare la conformità dei mezzi al fine, cioè appunto la tecnica adoperata. Ma anche l'esame e il giudizio del fatto e dell'argomentazione «originale», ossia dell'«originalità» dei fatti (concetti - nessi di pensiero) e degli argomenti sono molto difficili e complessi e richiedono le piú ampie cognizioni storiche. È da vedere nel capitolo dal Croce dedicato al Loria questo criterio: «Altro è metter fuori una osservazione incidentale, che si lascia poi cadere senza svolgerla, ed altro stabilire un principio di cui si sono scorte le feconde conseguenze; altro enunciare un pensiero generico ed astratto ed altro pensarlo realmente e in concreto; altro, finalmente, inventare, ed altro ripetere di seconda o di terza mano». Si presentano i casi estremi: di chi trova che non c'è mai stato nulla di nuovo sotto il sole e che tutto il mondo è paese, anche nella sfera delle idee e di chi invece trova «originalità» a tutto spiano e pretende sia originale ogni rimasticatura per via della nuova saliva. Il fondamento di ogni attività critica pertanto deve basarsi sulla capacità di scoprire la distinzione e le differenze al di sotto di ogni superficiale e apparente uniformità e somiglianza, e l'unità essenziale al disotto di ogni apparente contrasto e differenziazione alla superficie. (Che occorra, nel giudicare un lavoro, tener conto del fine che l'autore si propone esplicitamente, non significa certo perciò che debba essere sottaciuto o misconosciuto o svalutato un qualsiasi apporto reale dell'autore, anche se in opposizione al fine proposto. Che Cristoforo Colombo si proponesse di andare «a la busca del Gran Khan», non sminuisce il valore del suo viaggio reale e delle sue reali scoperte per la civiltà europea).

 

 

Criteri metodologici. Nell'esaminare criticamente una «dissertazione» può essere quistione: 1) di valutare se l'autore dato ha saputo con rigore e coerenza dedurre tutte le conseguenze dalle premesse che ha assunto come punto di partenza (o di vista): può darsi che manchi il rigore, che manchi la coerenza, che ci siano omissioni tendenziose, che manchi la «fantasia» scientifica (che cioè non si sappia vedere tutta la fecondità del principio assunto ecc.); 2) di valutare i punti di partenza (o di vista), le premesse, che possono essere negate in tronco, o limitate, o dimostrate non piú valide storicamente; 3) di ricercare se le premesse sono omogenee tra loro, o se, per incapacità o insufficienza dell'autore (o ignoranza dello stato storico della quistione) è avvenuta contaminazione tra premesse o principii contradditori o eterogenei o storicamente non avvicinabili. Cosí la valutazione critica può avere diversi fini culturali (o anche polemico-politici): può tendere a dimostrare che Tizio individualmente è incapace e nullo; che il gruppo culturale a cui Tizio appartiene è scientificamente irrilevante; che Tizio il quale «crede» o pretende di appartenere a un gruppo culturale, si inganna o vuole ingannare, che Tizio si serve delle premesse teoriche di un gruppo rispettabile per trarre deduzioni tendenziose e particolaristiche ecc.