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  Appendice Cronache teatrali
    
    Indice 
    
    
    1916
    
    «La falena» di Bataille al Carignano
    
    Dina Galli all'Alfieri
    
    «Paolo e Virginia» di Ambrosini e Michelotti all'Alfieri
    
    «Il pomo della discordia» di Testoni al Carignano
    
    Un commediografo dialettale
    
    «L'erbô d'la libertà» di Leoni al Rossini
    
    Emma Gramatica al Carignano
    
    La compagnia Ruggeri al Carignano
    
    «Scampolo» di Niccodemi all'Alfieri
    
    «Il piccolo santo» di Bracco al Carignano
    
    «Il poeta e la signorina» di Berrini all'Alfieri
    
    L'«Amleto» con Ruggeri al Carignano
    
    «Il signor di Courpières» di Hermant al Carignano
    
    La serata d'onore di Ruggero Ruggeri al Carignano
    Serata in onore di R. Ruggeri
    
    La compagnia Galli-Guasti-Bracci all'Alfieri
    
    Ermete Novelli all'Alfieri
    
    «Le memorie di don Rodrigo» dei fratelli Quintero
    all'Alfieri
    
    Teatro inglese
    
    «L'onore di John Glayde» di Sutro al Carignano
    
    «La prigioniera» di Poggio al Carignano
    
    Olga Vittoria Gentilli
    
    «L'aria del continente» di Martoglio all'Alfieri
    
    Il Grand-Guignol al Carignano
    
    «Quacquarà» di Capuana all'Alfieri
    
    «La malquerida» di Benavente al Carignano
    
    Angelo Musco all'Alfieri
    
    Alfredo Sainati al Carignano
    
    «Il titano» di Niccodemi al Carignano
    
    Ruggero Ruggeri in «Macbeth» di Shakespeare al Carignano
    
    In un saggio recentissimo su Shakespeare
    
    Vedere proiettata sulla scena
    
    Sfogo necessario
    
    Tina Bondi al Carignano
    
    Melanconie...
    
    Teatro e cinematografo
    
    «Les fiancés de Rosalie» di Monezy e Dauwillans
    al Carignano
    
    Sichel
    
    Giulio Tempesti al Chiarella
    
    «Le due sponde» di Poggio all'Alfieri
    
    «Il dio della vendetta» di Shalom Asch al Carignano
    
    «Robespierre» di Sardou al Carignano
    
    «La nemica» di Niccodemi al Carignano
    
    «La mare» allo Scribe
    
    Armando Falconi
    
    «... e chi vive si dà pace» di Novelli al
    Carignano
    
    «Cavour» di G. B. Ferrero allo Scribe
    
    Tina Di Lorenzo
    
    «L'amante lontano» di Bracco all'Alfieri
    
    1917
    
    «Il matrimonio di Figaro» di Beaumarchais all'Alfieri
    
    «L'ondina» di Praga e «Le Rozeno» di Antona
    Traversi al Carignano
    
    Luigi Carini
    
    «Facciamo un sogno!» di Guitry al Carignano
    
    L'ufficio di stato civile al Rossini («'L môrôs
    d'mia fômna» di Leoni)
    
    «Piccolo harem» di Costa al Carignano
    
    «La marea» di Hastings al Carignano
    
    «L'uomo del sogno» di Adami all'Alfieri
    
    «Le tre pene di Pierrot» di Berta al Carignano
    
    In principio era il sesso...
    
    «La canzone della cuna» di Martinez Sierra all'Alfieri
    
    «All'ombra delle statue» di Duhamel al Carignano
    
    «L'amazzone» di Bataille al Carignano
    
    Il tramonto di Guignol
    
    La serata di Emma Gramatica al Carignano
    
    «U' riffanti» di Martoglio all'Alfieri
    
    La morale e il costume («Casa di bambola» di Ibsen al
    Carignano)
    
    «Pensaci Giacomino» di Pirandello all'Alfieri
    
    «Liolà» di Pirandello all'Alfieri
    
    «Non amarmi cosí!» di Fraccaroli al Carignano
    
    «Scuru» di Martoglio all'Alfieri
    
    «La maschera e il volto» di Chiarelli al Carignano
    
    L'industria teatrale
    
    L'industria teatrale
    
    Ancora i fratelli Chiarella
    
    L'industria teatrale
    
    Continuazione della vita
    
    Contrasti
    
    «Cosí è (se vi pare)» di Pirandello
    
    Annibale Betrone («La Satira e Parini» di Ferrari al
    Carignano)
    
    «Mimí» di Fraccaroli al Carignano
    
    «Silvestro Bonnard» di Anatole France al Carignano
    
    Ruggero Ruggeri
    
    «L'elevazione» di Bernstein all'Alfieri
    
    «Il piacere dell'onestà» di Pirandello al
    Carignano
    
   
    1918
    
    «Il braccialetto al piede» di Veneziani al Carignano
    
    Idea del tempo di guerra («L'amazzone» di Bataille al
    Carignano)
    
    «Fum e Fiame» di Leoni al Rossini
    
    «La canzone di Rolando» di Falconi e Zambaldi al
    Carignano
    
    «A 'berritta ccu li ciancianeddi» di Pirandello
    all'Alfieri
    
    «La maestrina» di Niccodemi al Chiarella
    
    «Il nuovo falco» di Teglio al Carignano
    
    «Don Cecè Sferlazza» di Barbiera all'Alfieri
    
    «Dèi e cicisbei» di Guglielminetti al Carignano
    
    «Il contravveleno» di Martoglio all'Alfieri
    
    «Jean La Fontaine» di Guitry al Carignano
    
    Angelo Musco
    
    Giosuè Borsi
    
    «Occhi consacrati» di Bracco al Carignano
    
    «Marionette che passione!...» di Rosso di San Secondo al
    Carignano
    
    «Mister Wu» di Vernon e Owen al Carignano
    
    «Racanaca» di Villauri all'Alfieri
    
    Virgilio Talli
    
    «S. E. di Falcomarzano» di Martoglio all'Alfieri
    
    «La dame de chambre» di Gandera al Carignano
    
    «Lift» di Armont e Gerbidon al Carignano
    
    «Tardi al treno» di Zambaldi al Carignano
    
    «L'uomo che incontrò se stesso» di L. Antonelli
    al Carignano
    
    «Il marito ideale» di Wilde al Carignano
    
    «Una sentimentale» di E. A. Berta al Carignano
    
    «Appassionatamente» di Varaldo all'Alfieri
    
    «Sole d'ottobre» di Lopez al Carignano
    
    «Le galere» di Tumiati all'Alfieri
    
    «La signora innamorata» di Berrini al Carignano
    
    «La finestra sul mondo» di Veneziani al Carignano
    
   
  1919
    
    «Marito suo malgrado» di De Lorde e Marcèle
    all'Alfieri
    
    «Pace in tempo di guerra» di Testoni al Carignano
    
    «Una donna qualunque» di Wilde al Carignano
    
    «Il fanciullo che cadde» di Martini al Carignano
    
    «L'arch an cel» di Leoni al Rossini
    
    «Madonna Oretta» di Forzano all'Alfieri
    
    «Il giuoco delle parti» di Pirandello al Carignano
    
    La serata della Vergani al Carignano
    
    «U baruni di Carnalivari» di Campanozzi all'Alfieri
    
    «L'uccello del paradiso» di Cavacchioli al Carignano
    
    «Ridi pagliaccio!» di Martini all'Alfieri
    
    «La ca 'veuida» di Nicola al Rossini
    
    «L'innesto» di Pirandello al Carignano
    
    «Fedeltà» di Calzini al Carignano
    
    «Acidalia» di Niccodemi all'Alfieri
    
    «La fiaba dei tre maghi» di Antonelli al Carignano
    
    «L'intesa» di Rocca e «La trappola
    sentimentale» di Vecchietti all'Alfieri
    
    «La volata» di Niccodemi al Chiarella
    
    Gli spettacoli al Teatro del Popolo
    
    «I giocatori» di Poggio al Carignano
    
    «La vena d'oro» di Zorzi al Chiarella
    
    «L'ultimo nemico» di Mazzolotti al Carignano
    
    «Un baro d'amore» di A. Guglielminetti al Chiarella
    
    «Nino er boja» di Monaldi allo Scribe
    
    «La nostra immagine» di Bataille al Carignano
    
    «Cesare e Cleopatra» di Shaw al Chiarella
    
    «Il silenzio» di Pescetti al Carignano
    
    «Nell'ombra della vallata» di Synge al Chiarella
    
    Emma Gramatica
    
    «Una donna moderna» di Berrini al Teatro del Popolo
    
    «Addio sogno» di Motta al Carignano
    
    «Il soldato millantatore» («Miles
    gloriosus») di Plauto al Carignano
    
    «Quella che t'assomiglia» di Cavacchioli all'Alfieri
    
    «La sonata a Kreutzer» di Fleischmann al Chiarella
    
    «Il chiostro» di Verhaeren al Chiarella
  
  
1920
    
    «La principessa» di Géraldy al Carignano
    
    «La nostra ricchezza» di Gotta al Carignano
    
    «La ragione degli altri» di Pirandello al Carignano
    
    «Io prima di te» di Veneziani al Carignano
    
    «Chimere» di Chiarelli al Carignano
    
    «Pane altrui» di Turghenieff al Balbo
    
    «Sorelle d'amore» di Bataille all'Alfieri
    
    «La bilancia» di Martoglio e Pirandello allo Scribe
    
    «Il beffardo» di Berrini al Regio
    
    «Come prima, meglio di prima» di Pirandello al Carignano
    
    «L'amico di famiglia» di Caillavet e De Flers al
    Carignano
    
    «Tutto per bene» di Pirandello al Chiarella
    
    «Gli interessi creati» di Benavente al Balbo
    
    «Il fantoccio» di Cantoni-Gibertini al Balbo
    
    «Colline, filosofo» di Veneziani al Carignano
    
    «Il bell'Apollo» di Praga al Carignano
    
    «Anfissa» di Andreieff al Carignano
    
    «Glauco» di Morselli al Carignano
    
    Tre novità al Teatro Alfieri («Cecé» di
    Pirandello, «Ma non lo nominare» di Fraccaroli,
    «Schiccheri, tu sei grande!» di Lopez)
    
    
    Cronache teatrali dall'«Avanti!»,
    
    1916-1920
    
    «La falena» di Bataille al Carignano. Freddissima
    accoglienza ha avuto la nuova commedia del Bataille, La falena,
    portata dinanzi al pubblico torinese dalla compagnia
    Gramatica-Carini-Piperno. E il pubblico non ha avuto torto. Tre atti
    lunghi, pesanti, senza azione, costruiti completamente sul dialogo,
    che a forza di voler essere sottile, raffinato, diventa monotono,
    stucchevole, senza vivacità. La psicologia d'eccezione, se
    non è incarnata in una creatura viva, che diventi il centro
    motore di una azione adeguata, può riuscire a far costruire
    un romanzo passabile, ma nel teatro è fatalmente destinata a
    partorire opere fiacche, senza nerbo, come questa del Bataille.
    Vedendo svolgersi sulla scena i casi melodrammatici di una donna,
    che sapendo la sua vita crudelmente limitata da una malattia vuol
    godere tutto il piacere e vivere tutte le illusioni che un amore
    capriccioso le consente [censura].
    
    Anche l'esecuzione fu da parte degli attori poco convincente e un
    tantino monotona, ciò che del resto non meraviglia.
    
    (13 gennaio 1916).
    
     
    
     
    
    Dina Galli all'Alfieri. Magnifica la serata d'onore di Dina Galli,
    che ormai è diventata a Torino la piú popolare e la
    piú ammirata delle attrici. Ella ha saputo, pur nel tritume
    della produzione comica francese, crearsi una personalità,
    rinnovandosi in ogni personaggio, riuscendo a trovare per ogni
    figurino una nota nuova, che le desse almeno l'apparenza della vita,
    rendendo signorile e ingenua anche la volgarità che in altri
    sarebbe stata abietta. E il pubblico l'ha colmata di fiori e di
    applausi.
    
    (20 gennaio 1916).
    
     
    
     
    
    «Paolo e Virginia» di Ambrosini e Michelotti
    all'Alfieri. Dobbiamo riconfermare la prima impressione. Ce ne
    dispiace per l'Ambrosini, specialmente, del quale ricordiamo con
    sempre vivo godimento i bozzetti storici di grandissimo valore, ma
    la nuova commedia Paolo e Virginia non ci convince e non ci
    può piacere. E non per la ingenuità tecnica, per le
    manchevolezze sceniche, che si possono perdonare in un primo
    tentativo e che possono anzi essere prova di ingegno drammatico
    potente che si dibatte sulle prime fra le pastoie delle
    necessità della pratica, ma perché la commedia
    è una offesa al buon gusto e al senso comune. Tutto è
    artificioso, voluto, riflesso. Nessun abbandono dell'autore verso le
    creature della sua fantasia che le renda indipendenti, libere, vive
    di attività propria, ma invece la sensazione implacabile
    della preoccupazione del successo, dello sforzo cerebrale, e senza
    possibilità di uno sbocco nell'azione. Il primo atto è
    appiccicato colla colla al resto: serve per lo spunto, per
    giustificare il titolo, per poter riallacciare i personaggi col
    celebre romanzo del languido e rugiadoso Saint-Pierre, e per poter
    adombrare, senza riuscire a completarlo, il carattere di Virginia,
    condannata a vivere di una vita doppia, libresca per il ricordo dei
    due sfortunati amanti del buon tempo antico, e piena di impulsi e di
    curiosità di vivere della monelluccia moderna. Ma del resto
    tutti i personaggi ragionano, ricordano e mai operano. La
    comicità è di parole, di freddure, e non sempre di
    buon gusto, anzi per lo piú tolte dal vecchio repertorio
    caricaturale, cosicché spesso gli attori ne rimangono
    oppressi; come il povero Conforti (Paolo), al quale è fatta
    ripetere, per cercare di renderlo piú scialbo e piú
    grottesco, la vecchia boutade del viaggiatore che non può
    cambiare il posto incomodo con un altro, perché nello
    scompartimento egli è solo.
    
    E altre e altre, stillicidio noioso e schiacciante con parentesi di
    grossolanità come quella dell'albergatrice da due anni vedova
    che non ha potuto nell'intervallo coniugale procurarsi la piú
    piccola soddisfazione. Gli interpreti fecero del loro meglio per
    dare tutto ciò che era possibile: ammirevoli, come al solito,
    la Galli e il Guasti.
    
    (23 gennaio 1916).
    
     
    
     
    
    «Il pomo della discordia» di Testoni al Carignano. Pomo
    della discordia tra il conte e la contessa Alberti pare sia il fatto
    che il loro unigenito è femmina e non maschio. Quindi
    separazione legale, carta bollata, ecc., e sentenza del tribunale
    che fa sí che Luciana, la prole non desiderata dal padre,
    debba trascorrere la sua vita a pezzi e bocconi, quattro mesi con
    l'uno e quattro mesi con l'altro dei suoi cosí suscettibili
    genitori. E la fanciulla, educata dal padre, a quanto dice l'autore,
    senza pregiudizi, o almeno, senza troppi pregiudizi femminili,
    prepara un complotto per rifare la famiglia cosí poco
    tragicamente separata. Salva la mamma da un cattivo passo, la
    conserva degna del papà, e poi riconosciutasi innamorata di
    un amico d'infanzia, scappa dal papà, gli impone un dilemma:
    o far la pace o perdere la figliuola che va a marito, e riesce dopo
    un seguito di avvenimenti superlativamente banali, a non essere
    piú pomo della discordia, ma a maritarsi e a riconciliare i
    suoi fieri genitori. Tutta la commedia è imperniata sulla
    figura della fanciulla, che la Gramatica seppe rendere con
    vivacità e con spontaneità veramente degne della sua
    fama di grande artista, e su alcune parti del dialogo, d'un humour
    per lo piú convenzionale, ma non senza qualche sprazzo di
    sano spirito piccolo borghese. Questo ormai forma a un tempo la
    ragione dei mezzi successi delle commedie del Testoni e della
    debolezza del suo teatro, fatto tutto di tali piccole cose che non
    riescono mai a organizzarsi in una commedia, in tutta una commedia.
    Insieme alla Gramatica, che seppe, senza contrasto troppo stridente,
    rendere e forse migliorare ciò che il Testoni aveva fatto
    della figura di Luciana, fu notevole il Carini. Non altrettanto bene
    gli altri.
    
    (27 gennaio 1916).
    
     
    
     
    
    Un commediografo dialettale. Certa stampa cittadina ha menato grande
    scalpore sulla commedia dialettale di Mario Leoni: L'erbô d'la
    libertà, che sarà data stasera al Rossini. Pare si
    tratti di una rievocazione di quel periodo della storia piemontese
    in cui maggiormente si risentivano i contraccolpi della Rivoluzione
    francese. Il nome dell'autore, temperamento di letteratucolo
    provinciale, autore di plumbei romanzi di appendice e di
    superficiali drammacci da stadera, nonché assessore della
    Giunta clerico-moderata, non dà certo troppo affidamento per
    la rievocazione di un periodo che ebbe momenti di vera
    epicità e di dolorosa delusione.
    
    (28 gennaio 1916).
    
     
    
     
    
    «L'erbô d'la libertà» di Leoni al Rossini.
    Grande avvenimento cittadino l'altra sera al Rossini. C'erano il
    sindaco e l'ing. Sincero, l'antipapa; gli assessori, i consiglieri
    comunali piú intellettuali da Fino a Grassi, e il vecchio
    teatro accoglieva tutti con la tranquilla bonomia di un vecchio, del
    quale il ritorno per una volta dei bei giorni passati non turba lo
    scetticismo sereno, frutto di tante alterne vicende di gloria e di
    decadenza. Serata familiare anche! Ché Torino è in
    fondo ancora una grande città di provincia, dove tutti ci si
    conosce, e dove si corre a sentire e applaudire l'opera del collega
    o del conoscente per dovere d'amicizia, ben disposti a essergli
    grati di una serata trascorsa cosí senza grande divertimento
    e senza molta noia, lasciando riposare cervello e nervi. All'amico
    molti applausi e quattro chiamate ha concesso la platea del Rossini.
    E non vorremmo noi contrastare. Ché anche per la critica,
    occorre un punto d'appoggio. Ma L'erbô d'la libertà non
    è né bello né brutto: è nel pensiero di
    un dolce accomodantismo. C'è tutto o niente: l'azione, se non
    fosse posta nel 1798, avrebbe potuto svolgersi nel 1848, a Torino o
    a Milano o a Berlino. C'è chi crede e sacrifica per gli
    ideali rivoluzionari; c'è la fucilazione del mitissimo e
    ingenuo agitatore Tenivell, ma c'è la caricatura leggera
    delle nuove idee e dei nuovi costumi; c'è il cittadino
    calzolaio Barberis che è vestito di rosso e cambia nome alla
    moglie ed al figlio e sacrifica ai piedi dell'albero un pacco di
    biglietti del vecchio governo... fuori corso, con un po' di
    sentimentalismo e un paio di amoretti e infine la trovata:
    «Meglio bastardo che figlio di tedesco!».
    
    Non è l'opera che contribuisca a rialzare il teatro
    dialettale piemontese; manca in essa calore e vita; non ha mai
    suscitato il brivido dell'interesse e del consenso che percorre la
    folla e la attanaglia e fa scattare lo spettatore nell'apostrofe che
    eccita il sorriso di noi, troppo blasés, ma consacra il
    successo dell'autore popolare.
    
    L'erbô avrà delle repliche e Mario Leoni, alla fine
    della carriera di fortunato negoziante di stoffe, allieta la sua
    vecchiaia con lo stringere le catene matrimoniali alle coppie
    amanti, col firmare molti atti di stato civile e con lo scrivere
    commedie. E continui pure per molti anni.
    
    (30 gennaio 1916).
    
     
    
     
    
    Emma Gramatica al Carignano. Dopo La moglie di Claudio, che la
    Gramatica interpretò rendendo un po' troppo manierata la
    donna fatale di una moda ormai tramontata (ma non è manierata
    già in sé ogni donna fatale?), abbiamo sentito un
    breve atto di J. M. Barrie, che potrebbe definirsi una spiritosa
    conferenza dialogata ed elaborata scenicamente sull'Età delle
    attrici. In esso, piú che nel dramma a forti tinte, la
    Gramatica poté meglio mostrare tutte le doti che la
    distinguono di spontaneità e di una certa sottile arguzia.
    
    (31 gennaio 1916).
    
     
    
     
    
    La compagnia Ruggeri al Carignano. Il nuovo corso di recite iniziato
    dalla compagnia di Ruggero Ruggeri si è già dalle
    prime sere affermato vittoriosamente. A dir il vero, non
    bisognerebbe parlare di compagnia, ma del solo Ruggeri e di qualche
    altro meno peggio, poiché ormai è invalso, nella
    organizzazione delle nostre migliori compagnie, l'uso di circondare
    gli elementi ottimi con altri molto scadenti, se non addirittura
    pessimi, che servono solo per il chiaroscuro, per dare maggiore
    risalto ai primi, con quanto scapito dell'effetto generale di una
    recita, è facile a chiunque capire.
    
    L'anima della compagnia è Ruggeri, che nelle tre commedie
    finora date: Il marchese di Priola, Il bosco sacro, L'avventuriero,
    ha saputo mostrare quanto sia grande la duttilità del suo
    ingegno artistico, la potenzialità di rinnovamento, la
    facilità (apparente, almeno, perché si sa dovuta a
    lunghi studi e coscienziosa preparazione) di investirsi di parti
    sempre nuove, di personaggi antipodici, che ne riescono migliorati,
    umanizzati dalla calda simpatia dell'interprete.
    
    (5 febbraio 1916).
    
     
    
     
    
    «Scampolo» di Niccodemi all'Alfieri. Continua a far
    affollare l'elegante teatro di Piazza Solferino Scampolo di Dario
    Niccodemi, che ormai è arrivato alla nona replica. La
    figurina selvaggiamente ingenua della protagonista, pur nel suo
    convenzionalismo sentimentale e nella pretesa di voler rappresentare
    in un tipo universale la vita della strada, fatta di
    semplicità e di sincerità in contrapposizione alla
    vita artefatta della restante umanità, è riuscita a
    conquistare la simpatia del pubblico. Molto contribuirono al
    successo gli attori, specialmente A. Guasti e D. Galli, che hanno
    saputo dare, di personaggi questa volta italiani, una
    interpretazione sicura ed efficace, abbandonando per un momento i
    soliti e abusati tipi delle Gobette, e dei pittori in fregola di
    piacevoli avventure. Si annunzia intanto che la compagnia sta
    lavorando alle prove di un'altra novità italiana: La campana,
    tre atti di G. Forzano, noto finora solo come manipolatore di
    intrugli melodrammatici e di riviste-pasticcio.
    
    (6 febbraio 1916).
    
     
    
     
    
    «Il piccolo santo» di Bracco al Carignano. Il piccolo
    santo è veramente piú creatura di Ruggeri che di
    Bracco; seguendo l'artista in tutto il sottile lavorio col quale
    egli riesce a plasmare atto per atto, parola per parola il carattere
    di don Fiorenzo, anche nelle sue piú evanescenti sfumature
    (che spesso sono le piú significative), pare impossibile
    immaginare un altro interprete, e una vita dell'opera all'infuori di
    questa cornice e di questi scenari. La suggestione è
    cosí avvincente che non si bada a tutto il resto, né
    all'incertezza che può essere stata cagionata dalla scomparsa
    di un attore misurato ed efficace come il Bonafini, né
    all'insufficienza di qualche altro.
    
    Nelle repliche che certo si succederanno con la stessa fortuna,
    molti di questi inconvenienti spariranno, e l'insieme dello
    spettacolo sarà ancor piú perfetto.
    
    (13 febbraio 1916).
    
     
    
     
    
    «Il poeta e la signorina» di Berrini all'Alfieri. La
    compagnia della Galli ha ridato la commedia di Nino Berrini Il poeta
    e la signorina, e pare voglia ancora replicarla, quantunque
    l'accoglienza non sia stata molto calorosa. Se Ferdinando Martini si
    occupasse ancora di queste bazzecole e si ponesse di nuovo la
    questione del perché non esiste un teatro nazionale italiano,
    gli si potrebbe rispondere, prendendo le mosse dall'ultima
    produzione, che il difetto d'origine è l'insincerità
    degli autori, specialmente giovani. La mancanza di un genio
    può spiegare il non sorgere di capolavori. Ma il teatro non
    si nutre solo di capolavori, e questi d'altronde non paiono sfungare
    con molta frequenza neanche fuori d'Italia.
    
    È proprio l'insincerità, la mania letteraria che
    impedisce a molti di far qualcosa di buono, anche nei limiti
    piú modesti. Per il razzo di una trovata, per il barbaglio di
    una situazione piccante o di un personaggio che nessuno ha mai posto
    in scena, si sacrifica tutto quello che può veramente dare
    ossa e carne a una commedia.
    
    E cosí sia, se cosí meglio piace.
    
    (13 febbraio 1916).
    
     
    
     
    
    L'«Amleto» con Ruggeri al Carignano. La compagnia di R.
    Ruggeri ha ripreso l'Amleto, e, se è lodevole lo sforzo che
    l'attore ha fatto per dare di Amleto una raffigurazione pienamente
    umana, non si può però dire che Shakespeare sia stato
    bene interpretato. Sicuro: perché nelle opere del tragico
    inglese non c'è solo il protagonista, e la tragedia non
    è solo la tragedia di questo. La caratteristica del
    capolavoro (detto cosí all'ingrosso) consiste nella
    saturazione di poesia di ogni parola, di ogni atto, di ogni persona
    del dramma; niente c'è di inutile, niente da trascurare, ogni
    anche piccolo accenno concorre alla catastrofe ed è
    indispensabile per giustificarla. Rendete solo tragico Amleto e
    lasciate nella penombra gli altri, e la tragedia corre il rischio di
    diventare un dramma da arena, una beccheria capricciosa e casuale.
    Tutti i personaggi sono grandi nella concezione shakespeariana:
    fortemente messi in rilievo, e presi nel turbine di fatalità
    che ha in Amleto la vittima principale; e se non si riesce a dare di
    tutto ciò che la concezione del lavoro vuole, Amleto
    continuerà a essere pietra di paragone per la virtú di
    plasticità dei nostri migliori attori, ma non sarà
    l'Amleto di Shakespeare, e il pubblico, pur persuaso di aver sentito
    un capolavoro (lo dicono tutti e da tanto tempo) uscirà da
    teatro con qualche delusione e lievemente propenso a non credere del
    tutto ai capolavori.
    
    (20 febbraio 1916).
    
     
    
     
    
    «Il signor di Courpières» di Hermant al
    Carignano. Il signor di Courpières di Abel Hermant è
    una commedia cadaverica, costrutta di pezzi anatomici da gabinetto
    sperimentale, freddamente, come potrebbe fare un giocatore di
    scacchi che si pone le difficoltà e laboriosamente se le
    risolve per passare il tempo. Il protagonista è il tipo
    dell'aristocratico spiantato, cinico, amorale, che nella
    società borghese cui non può adattarsi, risolve il suo
    problema sociale con le amanti ricche o che si vendono ad altri per
    mantenerlo, senza sentire mai un brivido di passione, un palpito di
    umanità se non forse verso i suoi simili dei sobborghi, gli
    apaches e gli Alphonses della suburra. Ma nel letamaio fiorisce una
    violetta (come sono sentimentali i cinici e gli scettici
    convenzionalmente professionali!), una fanciulla della borghesia
    danarosa che nell'ultimo atto, quando la catastrofe sembra
    imminente, e il signor di Courpières sta per farsi suicidare
    (ammazzarsi tutto da sé sarebbe troppo banale) avendo
    falsificato una cambiale, lo salva perché vuol redimerlo e
    rigenerarlo.
    
    La commedia fu zittita e cadde nell'indifferenza generale.
    
    (24 febbraio 1916).
    
     
    
     
    
    Serata d'onore di Ruggero Ruggeri al Carignano. Ruggero Ruggeri
    annunzia per venerdí la sua serata d'onore con L'amico delle
    donne di A. Dumas. Il Ruggeri nella sua pur breve permanenza a
    Torino, e nel limitato numero di rappresentazioni che ha potuto
    dare, ha dimostrato che egli sta fuori di ogni ruolo convenzionale.
    La sua potente personalità supera ogni professionismo. La
    tragicità di Amleto non fissa nessun abito acquisito nel
    carattere dell'attore. Il «fascino slavo» del Bosco
    sacro trova in lui l'immediatezza espressiva che non può
    dargli un brillante che per la continuità della sua funzione
    si lascia soverchiare da abitudini fisiche e vocali che conguagliano
    i caratteri comici piú disparati. Perciò il pubblico
    giustamente ha reso sempre omaggio, e piú lo farà
    venerdí alle doti eccezionali di Ruggero Ruggeri.
    
    (2 marzo 1916).
    
     
    
    La serata in onore di R. Ruggeri fece affollare in modo eccezionale
    il Teatro Carignano.
    
    La commedia di A. Dumas figlio L'amico delle donne non è
    tale, di per se stessa, da incatenare un pubblico per cinque atti
    non tutti leggeri. Ma il dialogo, fitto di leggeri ricami
    dialettici, superficialmente piacevole e interessante per i
    confronti tra la moda teatrale del passato e quella attuale, sembra
    fatto apposta per mettere in rilievo tutte le qualità buone
    dell'attore insigne, che riempie di sé tutti i cinque atti,
    rendendo passabile e simpatico quel tipo di perpetuo seccatore che
    nella vita reale sarebbe l'amico delle donne come l'immaginava Dumas
    figlio.
    
    (5 marzo 1916).
    
     
    
     
    
    La compagnia Galli-Guasti-Bracci all'Alfieri. Stasera Amerigo Guasti
    darà la sua serata d'onore con L'asino di Buridano di de
    Flers e Caillavet. L'altra sera Dina Galli ha dato la sua con Amore
    veglia degli stessi autori. Il pubblico ha affollato il teatro come
    nei primi giorni della lunghissima stagione teatrale, prova la
    piú significativa della simpatia che la compagnia ha saputo
    suscitare. Credo infatti che quella Galli-Guasti-Bracci sia l'unica
    compagnia italiana che meriti veramente questo nome, poiché
    presenta organicità di ruoli e graduazioni di
    capacità, che pur lasciando agio ai principes di mettere in
    rilievo le loro doti speciali, non nuoce all'insieme e dà
    risalto anche alle parti secondarie.
    
    Il Guasti, la Galli e il Bracci hanno sempre trovato nella Galli,
    nella Casilini, nel Conforti, nel Fuggetta e negli altri dei
    cooperatori intelligenti, sempre alacri, che hanno contribuito
    indubbiamente al buon successo costante delle rappresentazioni,
    senza far diminuire perciò la personalità dei
    maggiori, anzi forse mettendole maggiormente in risalto.
    
    (6 marzo 1916).
    
     
    
     
    
    Ermete Novelli all'Alfieri. Un pubblico speciale aspettava l'altra
    sera la rentrée di Ermete Novelli: di ammiratori che avevano
    seguito con affetto nella sua lunga carriera il vecchio attore, e di
    giovani che forse lo sentivano per la prima volta e volevano
    fissarsi nella memoria l'immagine dell'interprete sommo di talune
    figure popolaresche, come papà Martin, concepite
    ingenuamente, attuate e poste in azione in drammi poco consistenti e
    artisticamente nulli, ma nei quali tuttavia il richiamo a sentimenti
    umani elementari, radicati, innati quasi, e diffusi universalmente
    lascia all'attore la piú grande libertà di creazione
    individuale, personale. Che rimane di queste rappresentazioni nello
    spirito dell'ascoltatore? Non certo un godimento artistico, una
    nuova esperienza estetica, derivante dalla produzione drammatica. Il
    godimento, l'esperienza la dà l'attore con la sua arte
    d'interprete. Il fatto stesso che il dramma è concepito su
    una trama tenue, elementare, fa sí che esso venga assorbito
    immediatamente senza contrasti e senza sforzi, e che tutta
    l'attenzione si rivolga al modo, alla vita particolare che il
    Novelli riesce a infondere anche ai piú frusti e abusati
    motivi sentimentali. L'attore è in realtà egli stesso
    l'autore, perché tutto ciò che non solo rende
    sopportabile, ma anche piacevole e interessante il vecchio dramma di
    Cormon e Grangé è opera sua, tutta sua. Molti applausi
    a ogni fine d'atto, e molti anche a scena aperta.
    
    (16 marzo 1916).
    
     
    
     
    
    «Le memorie di don Rodrigo» dei fratelli Quintero
    all'Alfieri. Una successione di quadretti appena abbozzati, di
    figurine comiche, sentimentali e grottesche formano tutta la
    commedia dei fratelli Quintero: Le memorie di don Rodrigo. Nessuna
    novità, né di ambiente, né di caratteri. Don
    Rodrigo è un vecchio spagnuolo che, arricchitosi attraverso
    una vita di stenti e di lavoro indefesso, s'è formata una
    filosofia della vita discretamente banale e convenzionale, e scrive
    le sue memorie nelle quali molte fame usurpate troveranno il loro
    implacabile giustiziere. Intorno a lui e alla sua filosofia
    volteggia il mondo circostante: dei figli o idioti o incapaci, che
    lo portano alla rovina, dei nipoti che s'adattano a trarre, da
    ciò che era stato motivo di eleganza e di bon ton, i mezzi
    per vivere, e delle conoscenze incasellate secondo i tipi che
    piú possono trarre l'epigramma e lo scherno dalle labbra del
    solitario. E siccome don Rodrigo, ovverossia i fratelli Quintero,
    non sono della vita troppo profondi osservatori o filosofi, troppo
    acuti, cosí i fatti che dovrebbero essere postillati dal
    protagonista sono spesso noiosamente monotoni, fatuamente
    superficiali, e la commedia, se non fosse stata retta da Ermete
    Novelli e da una sua giovane cooperatrice, Hesperia Sperani, sarebbe
    caduta senza infamia e senza lode.
    
    (18 marzo 1916).
    
     
    
     
    
    Teatro inglese. Domani la compagnia di Luigi Carini porrà in
    iscena una novità di un autore inglese: L'onore di John
    Glayde, di Alfredo Sutro. Come a chi ha lo stomaco guasto per il
    soverchio uso di dolciumi nauseosi è utile consigliare un
    buon bicchiere di gin, cosí il pubblico, abituato ad
    ascoltare le frivole e cerebralmente idiote costruzioni del teatro
    francese, molto potrà giovarsi di un contatto un po' vivo e
    simpatico con le produzioni del teatro inglese. Esse, oltre che per
    la rivelazione di un mondo morale alquanto diverso dal nostro, hanno
    il pregio di un humour non superficiale e di parole, un fondamento
    spirituale per cui le contraddizioni e le incongruenze della vita
    sono viste da un angolo visuale nuovo, originale per noi, pur senza
    sforzi e anfanamenti.
    
    Naturalmente bisogna ascoltare già persuasi che tutto
    ciò che di strano e di diverso dal solito può esserci
    presentato, non è il risultato di uno sforzo scenico, ma il
    portato naturale di un mondo diverso dal nostro per costumi, per
    tradizioni di idee e di cultura.
    
    (20 marzo 1916).
    
     
    
     
    
    «L'onore di John Glayde» di Sutro al Carignano. L'onore
    di John Glayde di Alfredo Sutro non si distacca quasi per niente
    dalla media comune delle commedie costruite su un caso di adulterio.
    Un uomo di affari che si appassiona piú al giuoco titanico
    della Borsa che alla felicità domestica, ritrova al suo
    improvviso ritorno che la moglie gli è diventata un'estranea,
    che ella si è costruita una vita nuova, delle
    possibilità nuove di esistenza, e non vuol piú saperne
    di lui.
    
    Ma è il modo che maggiormente offende il suo senso d'onore,
    non il fatto in sé. La commedia che gli viene rappresentata,
    la finzione che lo circonda e lo soffoca pur nel roseo cerchio delle
    braccia femminee, lo esaspera, ma lo riconduce al senso della
    realtà.
    
    Il dominatore riconosce il suo torto: ha giocato male, e ha perduto.
    Di fronte a lui l'avversario non ha altro torto che
    l'insincerità, la frode sleale che ha sorpreso la buona fede
    di chi, per conoscere gli uomini, ha trascurato l'altra metà
    del genere umano, ma nient'altro. E perciò non si erge
    esecutore della giustizia offesa: la punizione della moglie e del
    suo amante è in loro stessi, nella loro coscienza turbata di
    mentitori, che germinerà disillusioni e nuovi tradimenti e
    nuove vittime.
    
    Questo scioglimento psicologico che per essere perfettamente,
    kantianamente morale, può rappresentare nel teatro una
    semplice ma grande novità, è preparato da quattro atti
    non altrettanto semplici e piani. Il dialogo, e forse vi
    contribuisce la traduzione scolorita e qualche volta spropositata,
    è monotono, e nello svolgimento non mancano incongruenze e
    colpi di scena artificiosi.
    
    Luigi Carini rese molto bene la parte di John Glayde, e la Gentilli
    in quella di Mary (la moglie) fu in qualche momento perfetta. Il
    Baghetti con la sua comicità fluida e schietta salvò
    la situazione che pareva dovesse diventare burrascosa, e
    contribuí cosí al successo finale, se non
    entusiastico, certo assai notevole.
    
    (23 marzo 1916).
    
     
    
     
    
    «La prigioniera» di Poggio al Carignano. La prigioniera
    di Oreste Poggio è di quelle commedie che si fanno applaudire
    per l'onestà delle intenzioni piú che per la
    realizzazione artistica di un momento drammatico dello spirito
    umano. Una fanciulla povera si vende a un amatore vecchio e ricco,
    lo tradisce con un suo impiegato infedele, e ne viene punita con
    l'impossibilità in cui viene messa di abbandonarsi anche dopo
    la vedovanza, alla sua passione. L'amante è un briccone (ella
    naturalmente non lo vede sotto questa luce) e i documenti delle sue
    azioni delittuose dovranno servire a rendere prigioniera la donna, a
    preservarla dalla iattura che la nuova unione rappresenterebbe per
    lei. Finalmente un fatto nuovo (la prova del tradimento e della
    malafede del lontano) la rende libera e dalla prigionia esteriore
    impostale dal vecchio marito morto per il dolore e dalla prigionia
    interiore della passione per un indegno.
    
    La commedia si perde spesso e volentieri in azioni secondarie, in
    episodi graziosi in sé, ma perfettamente inutili per lo
    svolgersi dell'azione principale; e le giustificazioni psicologiche
    dei momenti sono disperse nel dialogo fiorito di massime
    moraleggianti e di spunti che, cosí come sono presentati,
    rappresentano un di piú, un'imbottitura sgraziata e
    superflua. Il successo fu buono, perché i particolari
    riuscirono a interessare e a tenere sempre desti l'attenzione e
    l'interesse del pubblico che assisteva, e il Carini, la Gentilli, il
    Baghetti e il Dondini dettero un'interpretazione ottima nel
    complesso e piena di vita.
    
    (30 marzo 1916).
    
     
    
     
    
    Olga Vittoria Gentilli. Un teatro affollatissimo ha voluto
    dimostrare a Olga Vittoria Gentilli come ella nella sua breve
    permanenza nella nostra città sia riuscita a far apprezzare
    l'intelligenza sua d'artista e i nobili tentativi per formarsi una
    personalità e imprimere alle interpretazioni di personaggi
    ormai entrati nella tradizione una nota speciale. L'abbiamo sentita
    nel Matrimonio di Figaro di Beaumarchais, una delle opere d'arte
    piú vive e piú efficaci del teatro europeo, rendere
    con grazia e spigliatezza il malizioso spirito settecentesco, e
    nelle produzioni moderne abbandonarsi al suo istinto femminile e
    dare senza artificio e morbosità anche le piú contorte
    e irreali figure di donne prodigalmente create dalla fantasia degli
    odierni scrittori. Nelle Marionette di Pierre Wolf, tutte le buone
    qualità della Gentilli ebbero agio di manifestarsi, e in
    qualche momento il pubblico le tributò un vero trionfo.
    
    (1° aprile 1916).
    
     
    
     
    
    «L'aria del continente» di Martoglio all'Alfieri. L'aria
    del continente, di Nino Martoglio, è un seguito di scene
    giocose, caricaturali, nelle quali il filo conduttore dell'azione
    non è dato dal carattere dei personaggi, ma dall'ambiente.
    Don Cola Dusciu ha dovuto recarsi a Roma per subire una operazione
    chirurgica che il medico del suo paese non sarebbe stato capace di
    eseguire; e come ogni buon paesano che si rispetti si è
    ubriacato dell'aria del continente, si è slanciato in quella
    che a lui sembrava la bella vita, ha fatto delle pazzie e ha
    sprecato il suo denaro per una donnina da caffè-concerto, e
    infine se l'è portata con sé in patria. L'ambiente gli
    si rivolta contro: la sorella non ne vuol sapere di novità
    continentali, i buoni villici si scandalizzano per le libertà
    che la donnina si prende e che don Cola, volendo fare l'uomo
    superiore ai pregiudizi, le consente. Ma il suo temperamento di
    siciliano non tarda a riprendere il sopravvento; la corte che si fa
    alla sua amante da parte di alcuni damerini lo incomincia a
    irritare, a mettere in sospetto. E quando viene a sapere, quasi
    contemporaneamente, che Milla ha concesso i suoi favori a suo
    cognato e a suo nipote, e che ella non è una romanesca, una
    continentale, ma una siciliana qualunque, un'avventuriera che l'ha
    preso in giro e ha sfruttato la sua ingenuità provinciale,
    perde la testa, ripudia la sua mania innovatrice di costumi e
    scaccia l'intrusa.
    
    Nei tre atti compaiono sulla scena, resi grotteschi per un maggior
    successo d'ilarità, alcuni momenti della vita paesana
    siciliana, e alcuni tipi caratteristici di essa: la mamma, gelosa
    custode di pure tradizioni familiari, il viveur di provincia, i
    giocatori di scopone dei circoli di lettura, ecc., in mezzo ai quali
    il soffio di vita continentale porta lo scompiglio e la rivoluzione.
    La comicità delle situazioni che ne nascono viene portata al
    parossismo con un piccolo sforzo dialogico, e la esuberante
    personalità del Musco fa il resto. Pare, in certi momenti che
    un'aria di follia frenetica sia arrivata dal continente, tanto
    l'azione è convulsa.
    
    Il pubblico ha applaudito a ogni fine di atto, tutti gli attori, e
    specialmente il Musco e la Anselmi, e ha chiamato insistentemente al
    proscenio l'autore.
    
    (12 aprile 1916).
    
     
    
     
    
    Il Grand-Guignol al Carignano. Il Grand-Guignol ha portato sulle
    scene di questo teatro le sue figure di incubo, il suo realismo
    truce e ingenuo nello stesso tempo, la rappresentazione di una vita
    esasperata e sussultante di terrore e di spasimi. Nessuna
    interiorità, nessun urto drammatico di coscienze e di
    caratteri.
    
    Della tragicità non c'è che la maschera esteriore, lo
    spasimo fisico che cerca comunicarsi allo spettatore inebetito con
    un brivido irresistibile. Bisogna dire che Alfredo Sainati e Bella
    Starace sono maestri nel raggiungere gli effetti che si propongono
    di conseguire. La materia bruta, il tritume del fattaccio di cronaca
    si organizzano nella elasticità della loro personalità
    artistica che sa atteggiarsi nei modi piú truci, piú
    sanguinosamente suggestivi. E cosí lo spettatore, che va a
    teatro per incanagliarsi, per sentire uno strappo di nervi che gli
    dia l'impressione della vita fittizia della suburra, del bassofondo,
    è soddisfatto e applaude.
    
    (25 aprile 1916).
    
     
    
     
    
    «Quacquarà» di Capuana all'Alfieri.
    Quacquarà di Luigi Capuana non è altro che una smilza
    novella d'ambiente diluita in tre atti, inzeppata di dialoghi e
    controscene che non portano nessun contributo a una perspicua e viva
    rappresentazione del protagonista. Don Mario Mamuca è un
    povero deficiente, perseguitato dai monelli del suo paese che lo
    tormentano rifacendogli dietro il richiamo delle quaglie:
    quacquarà, quacquarà. È un nobile spiantato,
    mezzo analfabeta, che scrive dei versi che non tornano e vive di
    ripieghi e di elemosine larvate. S'innamora di una ricca signorina
    che sarebbe felicissima di farsene il paravento per un suo
    piú precoce errore, perché ha già 35 anni. Il
    matrimonio però va anch'esso a monte e Quacquarà
    registra nel libro dei suoi ricordi e dei pettegolezzi paesani
    un'altra delusione. Tutta la commedia è un susseguirsi di
    episodi inorganici, appena abbozzati, pieno di lungagnate verbose.
    È questo un lavoro che Luigi Capuana, che pure era un forte
    ingegno e uomo di buon gusto, ha lasciato inedito ai suoi eredi, che
    non hanno certo reso un omaggio alla sua memoria presentandolo al
    pubblico.
    
    (27 aprile 1916).
    
     
    
     
    
    «La malquerida» di Benavente al Carignano. La malquerida
    di Benavente ha fatto ricordare a qualcheduno le produzioni del
    teatro classico. Naturalmente ogni richiamo è possibile:
    un'anfora di Samo rassomiglia piú a un boccale di Montelupo
    che al lupo mannaro, e cosí l'intreccio di Malquerida
    può far ricordare Eschilo e Shakespeare. Anche in essa
    infatti una passione perversa attanaglia due creature umane, ed
    è istintiva, elementare, dovuta al fato, ma la tragedia si
    estrinseca in forma granguignolesca, e cioè senza
    profondità di vita interiore, senza tormenti e slanci lirici,
    riducendosi a gesti brutali. La giovinetta Rosaria non ha mai saputo
    e potuto amare come padre, il nuovo marito che sua madre ha preso; e
    d'altronde questo odio ingiustificato fa sí che Renzo non
    possa in lei vedere una figlia; e una passione morbosa si
    impadronisce di lui. Per non lasciarla andar via di casa, ne fa
    uccidere il fidanzato, monta una macchina infernale per rovinare un
    innocente, un povero Cristo innamorato di Rosaria, ma non riesce a
    far sí che la verità non venga conosciuta da sua
    moglie. La quale per salvare l'onore della famiglia e perché
    comprende che nella passione dell'uomo c'è un elemento
    imponderabile di fatalità, è disposta a perdonare, ma
    quando un bacio che dovrebbe essere di conciliazione, di oblio,
    rivela a Rosaria che ella ama il suo padrigno, e i due si
    avvinghiano disperatamente comprendendosi alfine, la madre urla la
    sua vendetta, la sua collera, e cade uccisa da Renzo. Nel dramma non
    c'è nulla piú dell'intreccio, abilmente condotto in
    modo che gli intrighi vadano creando malintesi, imbrogli psicologici
    che determinano un crescendo e preparino gli animi alla scossa
    finale. Ma l'abilità piú o meno grande di facitor di
    ficelle, non può sostituire ciò che solo può
    rendere umane e logiche anche le piú bestiali vibrazioni dei
    sensi. Particolarmente efficace fu l'interpretazione della
    Starace-Sainati.
    
    (30 aprile 1916).
    
     
    
     
    
    Angelo Musco all'Alfieri. Angelo Musco ha dato la sua serata d'onore
    molto festeggiato e applaudito. La sua personalità d'attore,
    se in un primo momento può anche non piacere e perfino
    irritare, finisce alla fine per farsi comprendere e stimare. Angelo
    Musco è eminentemente un attore della commedia dell'arte:
    egli non può mantenersi mai nei limiti che l'autore ha
    fissato ai personaggi; vuole aggiungere qualcosa di suo personale, e
    per l'ingegno che ha duttile, pieghevole, riesce quasi sempre a
    convincere. Il teatro dialettale gli dà naturalmente largo
    campo agli sbizzarrimenti, e siccome le produzioni del suo
    repertorio sono, come del resto il novantanove per cento di tutti i
    repertori, nient'altro che commedie dell'arte che vivono della vita
    effimera della ribalta, cosí la sua maniera potrebbe anche
    essere la migliore.
    
    (30 aprile 1916).
    
     
    
     
    
    Alfredo Sainati al Carignano. Un teatro affollatissimo per la serata
    di Alfredo Sainati. L'orribile esperimento del De Lorde, Cravatta
    nera di L. Ruggi, Revenant del Satèrne, truci e sanguinolenti
    produzioni granguignolesche, mostrano Sainati nel suo piú
    noto carattere di attore drammatico di eccezione, procurandogli gli
    applausi entusiastici degli spettatori, che potrebbero offrire lo
    spunto a una ricerca psicologica simile a quella che Arturo Graf ha
    fatto per la tragedia. Perché il pubblico si diverte al
    Grand-Guignol? Se la natura umana rifugge dal dolore, dalla
    sofferenza, come mai nel teatro ciò può essere un
    motivo di attrazione? Non potendosi parlare di godimenti artistici
    per ciò che riguarda la creazione di fantasmi poetici
    espressi plasticamente dal dramma, è evidente che la ragione
    della fortuna di questo teatro è dovuta tutta agli attori che
    sanno, come il Sainati, dare vita anche a dei pupazzi incolori e
    incongruenti come quelli che di solito popolano la loro scena.
    
    (14 maggio 1916).
    
     
    
     
    
    «Il titano» di Niccodemi al Carignano. La guerra
    evidentemente ha imposto una moratoria anche all'arte. L'azione che
    si svolge al fronte fa rivolgere tutte le energie degli uomini di
    buona volontà alla pratica, alla speculazione
    dell'esaltamento passeggero, che opportunamente solleticato,
    dà buon gettito di applausi e di cassetta. Santa retorica si
    dice per le manifestazioni simili del passato, del Risorgimento;
    perché né Berchet, né Silvio Pellico, né
    il Giusti, né il Dall'Ongaro, né Poerio ponevano un
    fine economico all'arte patriottica. Volgare speculazione deve
    semplicemente giudicarsi quella del Niccodemi, che ha allegramente
    imbastito, con quella abilità che si è acquistata nel
    suo garzonato di autore rotto a tutte le piccole astuzie della
    scena, una commedia di palpitantissima attualità.
    
    Quattro convenzionalità sono i personaggi: il bene assoluto
    (Marco Asciani), il male assoluto (Gilberto Guidi) suo cognato,
    l'innocenza sciupata (sorella di Marco), l'innocenza ingenua ed
    elementare (una bambina). Marco ha partecipato alla guerra con i
    suoi due figli; questi vi hanno lasciato la vita, egli l'ha scampata
    per miracolo, e sua moglie è morta di crepacuore. Uscendo
    dall'ospedale rinnovato di corpo e d'anima, mentre si dispone a
    diventare l'apostolo di una vita nuova, di una nuova morale,
    è travolto in uno scandalo di frodi in forniture militari.
    È Gilberto, l'uomo della preistoria, il bruto pieno di vizi,
    che essendo stato da lui posto a capo della propria banca, ha
    speculato sulla vita, sulla incolumità dei soldati per
    arricchirsi, per alimentare le sue basse cupidigie di gaudente.
    Marco perde nella crisi tutto il patrimonio, e mentre prima era
    chiamato titano per la ferrea volontà che esprimeva negli
    affari, ora si chiama da sé titano perché scopre che
    per fare il modesto impiegato è necessaria una forza morale
    ben maggiore di quella richiesta per fare il capitalista. Gilberto
    sparisce silenziosamente nella sorridente marina di Anzio,
    perché la coscienza gli è diventata una carceriera
    implacabile, e decide di non ritornare piú a galla;
    affinché la nuova Italia non veda piú la fisionomia
    del frodatore militare. Questa è la nuda trama, impolpata con
    le piú svariate zeppe di repertorio: una porta sfondata, un
    marito che sta per strangolare la moglie per farsi consegnare dei
    valori, un fratello che crede per un momento la sorella adultera
    col... marito, una requisitoria formidabile contro i fornitori
    militari, che ricorda la filippica contro i preti della Morte civile
    del Giacometti, una piccola Scampolo che come un pappagallino
    ammaestrato recita graziosamente le ingenuità piú
    artificiali di questo mondo, e cosí via.
    
    Il colpo era sicuro. La tirata contro i fornitori, eloquente come
    una forbita orazione di avvocato fiscale, suscitò i frenetici
    applausi dalla platea (ingresso) e dal loggione; le poltrone e i
    palchi prudentemente si astennero. Gli attori non erano altro che
    fonografi, e non poterono per mancanza di materia prima, creare
    nessun carattere. Il Ruggeri è artista tale che si mantiene
    alto anche in simili spappolamenti teatrali; e il Niccodemi, come
    Gilberto della sua commedia, troverà nella sua coscienza la
    carceriera che lo punirà dall'aver speculato sul dramma
    nazionale, per raggiungere in poco tempo solo ciò che un
    onesto e lungo lavoro gli avrebbe dato allo stesso modo.
    
    (18 maggio 1916).
    
     
    
     
    
    Ruggero Ruggeri in «Macbeth» di Shakespeare al
    Carignano. Dopo qualche replica del Titano di Niccodemi, e del
    Piccolo santo di Bracco, martedí Ruggeri interpreterà
    per la prima volta fra noi, la piú difficile e complessa,
    forse, di tutte le tragedie di Shakespeare: Macbeth.
    
    Dopo la sua personalissima interpretazione di Amleto, e anche
    perché ormai da molto tempo nessun altro attore ebbe il
    coraggio di misurarsi con un'opera di tanta difficoltà e
    responsabilità, questo Macbeth di Ruggero Ruggeri è
    atteso con immenso interesse.
    
    E poiché i giudizi del pubblico e della critica milanese
    furono cosí vari e discordi, la seconda prova tentata a
    Torino potrà aver valore di giudizio di appello e decisivo.
    
    (22 maggio 1916).
    
     
    
     
    
    In un saggio recentissimo su Shakespeare, Romain Rolland ha
    incidentalmente espresso un giudizio che è il riconoscimento
    critico migliore della tragicità dell'autore inglese:
    «Shakespeare nel creare i suoi personaggi procede senza
    sforzi; si cala nel cuore di ciascuno e di esso riveste il suo
    pensiero, la sua forma, il suo piccolo universo; mai egli muove dal
    di fuori». Cadono cosí tutte le interpretazioni che del
    Macbeth la critica giornalistica ha recentemente cucinato per il
    grande pubblico. Non tragedia dell'orrore, né della paura,
    né dell'ambizione, come è stata volta a volta
    chiamata; ma tragedia solo di Macbeth, di un uomo, di un carattere,
    ben definito nello spazio e nel tempo. Egli solo riempie tutto il
    dramma, e ne è l'eroe. È una volontà,
    cosí, senz'altro; volontà che riceve stimoli
    all'azione dal mondo esterno, ma che questi fonde nella sua
    personalità e fa propri, senza perdere un atomo della
    libertà spirituale che è caratteristica di tutti gli
    uomini, e senza la quale non può esservi tragedia.
    Shakespeare lo ha posto in un ambiente storico, in un tempo e in
    luogo nei quali anche il soprannaturale era elemento della
    realtà, era parte viva delle coscienze, e appunto
    perciò questo soprannaturale non è meccanico, non
    è astrazione fredda, non è ripiego comodo per trarre
    dai fatti elementi di successo; è certo esistenza,
    integrazione necessaria del dramma.
    
    Vediamo svolgersi questo dramma con una logica interiore
    inflessibile. La predizione delle streghe del primo atto è
    l'inizio di esso. Macbeth è incerto in principio, titubante;
    la grandezza del destino che lo attende lo scrolla fin nell'intimo
    della sua umanità, fa traballare, ma non distrugge d'un
    tratto nella sua coscienza le leggi morali che ne sono la base
    granitica:
    
     
    
    Quando
    
    mi voglia re la sorte coronarmi,
    
    essa pure dovrà senza il mio sprone.
    
     
    
    Ma la realtà lo attanaglia; sua moglie è lo sprone
    della sua volontà incerta e vacillante. Lady Macbeth,
    creatura meno complessa, piú elementare, che appunto
    perciò il destino stronca cosí, semplicemente, senza
    trovare resistenza, è di quelle che tra il pensiero e
    l'azione non pongono intermezzo. Solo nel quarto atto, dopo che la
    causa scagliata da lui nel mondo ha prodotto effetti che egli non
    poteva prevedere, anche Macbeth si riduce a questa semplicità
    di concezione:
    
     
    
    D'ora in avanti
    
    i primi impulsi del mio cuor saranno
    
    gl'impulsi di mia mano.
    
     
    
    Macbeth ha a questo punto ritrovato se stesso: ma attraverso quali
    sanguinose esperienze! L'assassinio del re e dei suoi custodi ha
    fatto cadere il primo involucro della sua umanità. L'abisso
    ha chiamato l'abisso, secondo la sua tragica necessità. La
    pazzia sembra afferrarlo per un istante con la tortura dell'ombra di
    Banco. Ma egli, nella sua forte volontà, vince questi
    richiami morbosi della coscienza. La moglie è ormai un'ombra,
    preda di allucinazioni sanguinose; il guerriero scozzese non tenta
    piú, non esita piú. Tutto gli diventa avverso, ma egli
    è sicuro della sua fortuna.
    
    La seconda predizione delle streghe ha prodotto in lui questa
    sicurezza: nessuna sanzione terrena potrà colpire i suoi
    delitti. E Macbeth taglia tutti i fili che legano la vita di ogni
    uomo a quella degli altri suoi simili. Nulla lo fa trasalire. La
    morte di Lady Macbeth, della tanto amata, non trae un lamento dalle
    sue labbra; il suo cuore è impietrito; non vive che la
    volontà atroce.
    
    Lady Macbeth soccombe alla visione dei fantasmi che ella stessa ha
    suscitato. È una debole, in fondo, che solo l'esasperazione
    fa diventare furia perversa. Come nel suo romanzo grottesco Chamisso
    impersona nell'ombra che è fuggita, la coscienza di Pietro
    Schlemil, Shakespeare rappresenta plasticamente nella morte del
    sonno il rimorso della donna. E il sonno uccide quel già
    vibrante fascio di nervi, nei quali la lampada della vita non
    dà che qualche incerto guizzo.
    
    Il sangue cola a ruscelli in questa tragedia: si ha l'incubo del
    rosso nel riviverla integralmente. Re Duncano, le due sue guardie
    del corpo, Banco, lady Macduff, e tutta la sua famiglia muoiono e
    tutte queste morti sono necessarie nell'azione, fatali, date le
    premesse. Una orribile gorgona ha abbacinato Macbeth; Banco lo aveva
    subito capito, fin dalla prima previsione delle streghe:
    
     
    
    Spesso a render certo
    
    il nostro danno gli stromenti delle
    
    tenebre il vero dicono e con lievi
    
    cose ci attraggono per gettarci poi
    
    nei piú oscuri raggiri.
    
     
    
    Ma bisogna che Macbeth veda tutto il baratro, nel quale egli
    è precipitato per persuadersi di ciò. Bisogna che veda
    muoversi la selva, e che un uomo nato pei ferri del chirurgo lo
    turbi dimostrandogli vana la sua sicurezza. Solo allora il titano
    del male sente che tutto è crollato intorno a sé e
    ritorna debole, pauroso, uomo insomma. E la giustizia lo colpisce.
    
    Ruggeri darà stasera il gigantesco lavoro di Shakespeare.
    È un avvenimento artistico, al quale non possono essere
    estranei anche i nostri lettori, i quali anzi perché meno
    intellettualmente corrotti, sono i piú degni d'avvicinare e
    di risentire i brividi di passione del tragico inglese. Potranno
    Ruggeri e i suoi collaboratori ridare integralmente questi brividi,
    questa vita intensa, anelante alla distruzione, alla strage
    infeconda? Vedremo.
    
    (23 maggio 1916).
    
     
    
     
    
    Vedere proiettata sulla scena, incarnata in persone operanti e
    parlanti, rinchiusa in un determinato orizzonte, un'opera che per
    noi è solo vissuta della vita delle parole, delle immagini
    che la fantasia ricrea, dei segni materiali della carta stampata,
    produce sempre un urto che non si riesce subito a superare. Qualche
    cosa si interpone tra voi e l'opera, una personalità estranea
    che diventa invadente, ingombrante talvolta, e alla quale bisogna
    abituarsi. Come tutte le opere di poesia, la tragedia di Shakespeare
    vive autonoma nella cerchia delle parole. La suggestione di vita non
    ha bisogno della concretizzazione scenica per trarci nel suo cerchio
    fatale. Anzi. Ogni urto brutale con tutto ciò che è
    convenzione, mezzo, costrizione violenta, adattamento alle esigenze
    dell'ora e delle possibilità interpretative, produce squarci
    dolorosi, mortificazioni umilianti. L'arbitrio direttoriale che
    toglie e riduce non può non essere sacrilego. L'opera deve
    rimanere tal quale è sgorgata, vibrante e palpitante di vita,
    dalla fantasia dell'autore. Ogni parola ha una ragione, ogni
    atteggiamento fisico e spirituale deriva necessariamente da una
    personalità che è stata concepita in quel dato modo e
    in nessun altro. Tutto il corpo diventa lingua che esprime un mondo
    interiore ben definito e tagliato fra gli infiniti possibili che la
    libertà crea. Bisogna abituarsi a pensare al Macbeth di
    Ruggeri e dimenticare alquanto quello di Shakespeare. E l'uno
    è infinitamente inferiore all'altro e l'adattamento non
    può avvenire con facilità, senza mortificazioni.
    
    Ruggeri ha cercato per quanto gli è stato possibile, di
    ridurre la tragedia alla sua persona. L'ha modernizzata, in un certo
    senso, poiché le opere che egli è solito dare con
    piú successo, si conchiudono in un solo eroe, che come il
    tenore dei melodrammi diventa centro dell'universo. E Shakespeare
    invece è polifono: le azioni dell'eroe trovano risonanze in
    tutto l'ambiente in cui egli opera, non rimangono affermazioni di
    fatti, ma diventano atti, plasticamente rappresentati. Il taglio di
    molti particolari nuoce, cosí, enormemente, alla
    rappresentazione dell'eroe stesso, lo rende meno vivo. Vedere
    davanti a noi la prova di volontà di re Duncano vale
    piú che il sentirla ricordare dall'assassino. Vedere come
    Banco sia fraudolentemente sgozzato, accresce l'orrore della
    rievocazione dello spettro. Vedere come fossero vivi lady Macduff, e
    i suoi figlioli, e come i sicari tronchino nelle loro gole la parola
    ingenua, il rimbrotto femminile, è necessario per l'effetto
    d'insieme sinfonico di questa ridda fantasmagorica di sangue e
    d'orrore. Il tiranno è tale per i soprusi inumani che compie,
    non per le parole che escono dalle sue labbra. L'opera cosí
    scarnificata diventa un moncherino, grottesco talvolta.
    L'espressione di Macduff che rassomiglia la moglie e i figli a una
    chioccia ghermita coi pulcini da un avvoltoio, non avrebbe fatto
    ridere la platea se questa avesse avuto dinanzi agli occhi il quadro
    della strage compiuta freddamente dalla volontà del re.
    
    Piccole osservazioni che si potrebbero moltiplicare se ciò
    non fosse inutile, e se noi non sentissimo per Ruggeri una grande
    gratitudine anche per il poco che ci ha dato, e che serve da stimolo
    per accostarci con piú amore all'opera. Come non
    servirà a nulla osservare che Ruggeri è cosí
    infetto di lebbra dannunziana vacua e declamatoria, che troppo
    spesso la sua riflessione critica ne viene sorpassata e annegata in
    una sentimentalità melodrammatica che stona terribilmente
    colla creatura di Shakespeare, né decadente, né
    ammalata di modernità floreale e liberty.
    
    E il pubblico, anch'esso compenetrato dello sforzo che il Ruggeri,
    la Vergani, e gli altri hanno fatto, ha applaudito, e talvolta con
    vera convinzione.
    
    (25 maggio 1916).
    
     
    
     
    
    Sfogo necessario. Inizi di nuovi corsi di recite in tutti i teatri
    di Torino. Produzioni per tutti i gusti, o per meglio dire, per
    tutti i cattivi gusti. Mediocrità uggiosa, asfissiante.
    Torino è diventata una buona piazza per il trust che regola
    il mercato artistico italiano: vi si smerciano anche i prodotti
    piú indigesti. Eppure non dovrebbe essere cosí: la
    fortuna dei concerti di Toscanini, delle esecuzioni di Cavalleria
    dimostrano che la superiorità del prodotto, l'intenzione
    artistica non nocciono alla cassetta; tutt'altro. Ma Toscanini,
    Mascagni hanno dovuto essere invitati da una istituzione privata, in
    un teatro municipale, non ancora caduto in balia della bassa
    speculazione. Il trust ha ammazzato la concorrenza, ha rotto la
    molla che costringeva a dare il meglio se si voleva molto pubblico,
    e si è formata la palude, la marcita che favorisce
    prosperità ai girini e alle erbacce.
    
    Scala decrescente di valori. Ma da che grado si incomincia a
    contare?
    
    Al Carignano la compagnia Bondi-Orlandini, di nuova formazione.
    Demi-monde di A. Dumas, questo abile cesellatore di brillanti
    chimici, ha dato inizio al nuovo corso, che si annunzia breve.
    Disinvoltura meccanica, molte stonature nell'insieme artistico,
    qualche buono spunto che dimostra della buona volontà. Ma
    nient'altro; e per il Carignano è troppo poco.
    
    Al Chiarella e all'Alfieri, operette. Cinema-star e la Signorina del
    cinematografo, pur dopo le grandi chiacchiere che hanno suscitato, e
    il fluire di tanto inchiostro patriottico, non riescono a sollevarsi
    dal pattume. La compagnia Caracciolo al Chiarella pone in linea
    qualche ottimo elemento, ma l'insieme persuade poco.
    
    All'Alfieri quella Gattini-Angelini dicono non abbia avuto ancora
    occasione di mostrare tutte le sue qualità. Sarebbe tempo le
    mostrasse una buona volta, per cancellare l'impressione si tratti di
    una troupe di dilettanti che non conoscono neppure l'abbicci della
    scena.
    
    Al Parco Michelotti, Casaleggio sciorina tutto un ricchissimo
    programma di novità. Sembrerebbe che il teatro dialettale non
    sia mai stato tanto in voga. Ma si tratta evidentemente di un falso
    allarme. L'esperienza del passato (i nomi sono sempre gli stessi)
    deve ben servire a qualcosa. Adesso Casaleggio ha trovato anche
    un'altra via dell'avvenire: il concorso. Che i numi preservino da
    altri malanni.
    
    Ma gli applausi scoppiano lo stesso fragorosi. L'estate attutisce i
    sensi, il caldo fa ingurgitare anche i tamarindi fatti con prugne
    secche. Ha poi torto il trust di far di Torino il rifugio degli
    invalidi? Ognuno ha il governo che si merita; l'affermazione
    è vecchia, ma forse purtroppo, sempre d'attualità.
    
    (4 giugno 1916).
    
     
    
     
    
    Tina Bondi al Carignano. Una commedia che si fa sempre applaudire,
    La trilogia di Dorina del Rovetta, ha dato occasione a Tina Bondi di
    porre in valore alcune sue buone qualità di attrice, che il
    pubblico fu lieto di riconoscere e di applaudire. Niente di
    eccezionale, pertanto, o di rivelativo. La Bondi è
    essenzialmente una riflessiva e una volitiva, e ciò spiega
    come spesso non riesca a superare una freddezza esteriore che nuoce
    molto all'efficacia delle sue interpretazioni, e che si manifesta
    anche nelle intonazioni della voce e nella plastica degli
    atteggiamenti fisici. Ma d'altronde la rende interessante e le
    procura le simpatie che vanno sempre agli uomini, e alle donne, di
    buona volontà.
    
    (18 giugno 1916).
    
     
    
    Melanconie... Un preconcetto ancora solidamente radicato fa ritenere
    a moltissimi che il teatro sia uno dei tanti luoghi di divertimento
    piú o meno onesto, a seconda dei casi, la cui mancanza non
    deve ritenersi un danno, anzi per molti, i clericali, per esempio,
    deve ritenersi una fortuna. Perciò nessuno ha fatto rilevare
    e ha deplorato che a Torino da piú di un mese e mezzo non sia
    aperto nessun teatro degno di tal nome, e non si è domandato
    quale sia la causa dello strano avvenimento.
    
    Perché non è certamente la guerra coi suoi
    contraccolpi che ha determinato la clausura. Al contrario, la
    mancanza di un ritrovo non banale ha dato luogo a un pullulare
    malsano di varietà e di canzonettisterie, nelle quali, per
    disperazione, vanno a finire tutti gli annoiati, non solo, ma anche
    tutti quelli che dopo una giornata di lavoro febbrile e pesante,
    sentono la necessità di una serata di svago, sentono il
    bisogno di una occupazione cerebrale che completi la vita, che non
    riduca l'esistenza a un puro esercizio di forze muscolari.
    Poiché questa è una delle ragioni che dànno un
    valore sociale al teatro. Accanto all'attività economica,
    pratica, e all'attività conoscitiva, che ci rende curiosi
    degli altri, del mondo circostante, lo spirito ha bisogno di
    esercitare la sua attività estetica. L'impastoiare questa
    è un limitare arbitrariamente la nostra personalità;
    ed essa si vendica, a nostre spese. L'astinenza artificiosa porta al
    vizio solitario: l'assenza di possibilità buone per la
    ricreazione intellettuale fa sfungare i ritrovi piú o meno
    osceni, dove si logora una apprezzabilissima parte di noi stessi e
    si pervertisce il gusto. A Torino una completa mancanza di
    spettacoli teatrali non si era mai avuta. Il comune stesso, quando
    era retto da uomini meno intellettualmente beceri, si preoccupava
    del problema, e a ragione. Quando il Carignano era ancora
    esercíto dal municipio, si facevano con le migliori compagnie
    dei contratti speciali che permettevano ai torinesi di sapere dove
    poter recarsi spendendo utilmente i propri quattrini. Il municipio
    si interessava di regolar lui la bilancia di tutte le
    attività cittadine; faceva ciò che dovrebbe fare ogni
    ente comunale che si rispetti, che prevede e provvede nella misura
    del possibile, a tutti i bisogni degli amministrati.
    
    In seguito Torino si è abbiosciata, ha perduto completamente
    ogni fisionomia intellettuale. È diventata ormai, per quanto
    riguarda i teatri, una sezione del gran feudo del trust, che fa e
    disfà, ordina e scompone a seconda dei suoi interessi
    immediati, e quasi sempre, come avviene, anche contro i suoi
    interessi, per incapacità industriale e ristretta visione
    delle cose.
    
    E cosí mentre città, non solo come Milano e Roma, ma
    anche come Bologna, Genova, Firenze, hanno completa la loro vita
    cittadina, da noi bisogna accontentarsi delle scemenze vernacole del
    parco Michelotti, o delle recite da circo equestre del Vittorio
    Emanuele. Naturalmente poi i benpensanti finiranno col domandare che
    un decreto luogotenenziale limiti e magari espella l'esercito di
    canzonettiste che ha invaso tutti i locali disponibili della
    città. Perché da noi si batte sulle dita dei bimbi che
    fan le bizze, e si fa la casistica del permesso e del proibito, ma
    non si cerca mai di dare le possibilità affinché i
    bisogni che trovano nella bizza o nel pervertimento l'unico loro
    sfogo, possano invece incanalarsi nei diritti e naturali loro alvei.
    
    (21 agosto 1916).
    
     
    
     
    
    Teatro e cinematografo. Si dice che il cinematografo sta ammazzando
    il teatro. Si dice che a Torino le imprese teatrali hanno tenuti
    chiusi i loro locali nel periodo estivo perché il pubblico
    diserta il teatro, per addensarsi nei cinematografi. A Torino
    è sorta e si è affermata la nuova industria delle
    films, a Torino sono stati aperti dei cinematografi lussuosi, come
    non ce ne sono molti in Europa, e tutti i ritrovi del genere sono
    sempre affollatissimi.
    
    Parrebbe quindi che ci fosse almeno un fondo di vero nella dolorosa
    constatazione che il gusto del pubblico ha degenerato, e che per il
    teatro si avvicinano dei brutti giorni.
    
    Noi siamo invece persuasissimi che queste lamentele sono fondate su
    un estetismo bacato, e che si può facilmente dimostrare che
    esse dipendono da un falso concetto. La ragione della fortuna del
    cinematografo e dell'assorbimento che esso fa del pubblico, che
    prima frequentava i teatri, è puramente economica. Il
    cinematografo offre le stesse, stessissime sensazioni che il teatro
    volgare, a migliori condizioni, senza apparati coreografici di falsa
    intellettualità, senza promettere troppo mantenendo poco. Gli
    spettacoli teatrali soliti non sono che cinematografie; le
    produzioni piú comunemente date non sono che tessuti di fatti
    esteriori, vuoti di ogni contenuto umano, nei quali delle marionette
    parlanti si agitano variamente, senza mai attingere una
    verità psicologica, senza mai riuscire a imporre alla
    fantasia ricreatrice dell'ascoltatore un carattere, delle passioni
    veramente sentite ed espresse adeguatamente. L'insincerità
    psicologica, la bolsa espressione artistica hanno ridotto il teatro
    allo stesso livello della pantomima. Si cerca, e nient'altro, di
    creare nel pubblico l'illusione di una vita solo esteriormente
    diversa da quella solita di tutti, nella quale cambiano solo
    l'orizzonte geografico, l'ambiente sociale, dei personaggi, tutto
    ciò che nella vita è argomento di cartolina
    illustrata, di curiosità visiva, non di curiosità
    artistica, fantastica. E nessuno può negare che la film abbia
    per questo lato una superiorità schiacciante sul
    palcoscenico. È piú completa, piú varia,
    è muta, cioè riduce il ruolo degli artisti a semplice
    movimento, a semplice macchina senza anima, a quello che in
    realtà sono anche nel teatro. Prendersela col cinematografo
    è semplicemente buffo. Parlare di volgarità, di
    banalità, ecc., è retorica bolsa. Quelli che credono
    veramente a una funzione artistica del teatro, dovrebbero invece
    essere lieti di questa concorrenza. Perché essa serve a far
    precipitare le cose, a ricondurre il teatro al suo vero carattere.
    Non vi è dubbio che una gran parte del pubblico ha bisogno di
    divertirsi (cioè di riposarsi cambiando il termine della
    propria attenzione) con una pura e semplice distrazione visiva: il
    teatro, industrializzandosi, ha cercato in questi ultimi tempi di
    soddisfare solo questo bisogno. È diventato un affare
    senz'altro, è diventato una bottega di paccottiglia a buon
    mercato. Solo per caso si dànno ormai produzioni che abbiano
    un valore eterno, universale. Il cinematografo, che quest'ufficio
    può compiere con piú agio e piú a buon mercato,
    lo supera nel successo, e tende a sostituirlo. Le imprese e le
    compagnie finiranno col persuadersi che è necessario cambiar
    strada, se vogliono continuare a esistere. Non è vero che il
    pubblico diserti i teatri; abbiamo visto dei teatri, vuoti per una
    lunga serie di rappresentazioni, riempirsi, affollarsi
    all'improvviso per una serata straordinaria in cui si esumava un
    capolavoro, o anche piú modestamente un'opera tipica di una
    moda passata, ma che avesse un suo particolare cachet. Bisogna che
    ciò che ora il teatro dà come straordinario diventi
    invece abituale. Shakespeare, Goldoni, Beaumarchais, se vogliono
    lavoro e attività per esser degnamente rappresentati, sono
    anche al di fuori di ogni banale concorrenza. D'Annunzio, Bernstein,
    Bataille avranno sempre maggior successo al cinematografo; la
    smorfia, il contorcimento fisico, trovano nella film materia
    piú adatta alla loro espressione. E le inutili, noiose,
    insincere tirate retoriche ritorneranno a essere letteratura,
    nient'altro che letteratura, morta e seppellita nei libri e nelle
    biblioteche.
    
    (26 agosto 1916).
    
     
    
     
    
    «Les fiancés de Rosalie» di Monezy e Dauwillans
    al Carignano. Come avvenne che un seminarista, mentre si trova sul
    punto di pronunziare i voti sacerdotali e diventare un umile servo
    di Dio, sia richiamato sotto le armi e mandato in trincea invece che
    in sanità, si addimostri uomo di fegato, cada nelle
    tentazioni della carne e prenda moglie.
    
    La trama di questa farsa in tre atti, rappresentata dalla compagnia
    Sichel, non abbonda di finezze, né d'intreccio, né di
    sentimento, come tutte le farse. Prenderla sul serio sarebbe troppo
    ingenuo. Si propone di sollazzare piacevolmente, prospettando dei
    bozzetti cui la grande guerra che incombe non dà neppure
    l'ombra di una tragicità qualsiasi. Rosalia, la baionetta
    sanguinosa, diventa un eufemismo, senza traccia dell'acre ironia che
    vi possono mettere i soldati che ne sono i fidanzati. Il soldato
    ridiventa il solito tipo che Cuttica ha popolarizzato: cafone
    sempliciotto, che parla e opera per far ridere anche se non è
    piú il cappellone dei tempi di pace. La trama sentimentale
    del seminarista che si innamora e con l'aiuto delle circostanze
    sempre propizie, come si conviene all'eroe, riesce a pronunziare i
    voti terreni di marito esemplare, serve a collegare l'insieme ma non
    dà un'unità essenziale all'azione. Sichel, Rossi,
    Lotti, la Zucchini con la loro varia interpretazione, sempre
    piacevole e senza essere eccezionale, sono tuttavia riusciti a
    tenere l'attenzione sveglia e suscitare dei sorrisi benevoli e
    persino qualche risatella senza conseguenze. Perché non
    sarà certamente la guerra che farà diventare
    piú seriamente raccolti gli scrittori e tantomeno il
    pubblico.
    
    (6 settembre 1916).
    
     
    
     
    
    Sichel. È uno degli attori meglio quotati, a Torino. Mi
    dicono sia molto popolare e che persino sotto i portici gli
    ammiratori si fermino a osservarlo, e se lo additino sbirciando, e
    si ricordino scambievolmente i momenti di ilarità. Certo
    è che in questa stagione il Carignano è sempre stato
    affollatissimo, e gli spettatori hanno mostrato di divertirsi e
    Sichel è stato festeggiatissimo e ha avuto l'onore (come si
    dice) di molti applausi a solo, di molti segni di distinzione. Ma io
    mi spiego la curiosità nelle vie e tutto il resto, molto
    facilmente. E credo di non sbagliare. Ho domandato a piú
    d'uno: in che consiste l'arte comica di Sichel? Nessuno m'ha saputo
    rispondere, nessuno m'ha saputo definire una cosa della cui
    esistenza pure sembra si sia persuasi. Ho domandato: perché
    il repertorio della compagnia Sichel è cosí monotono,
    cosí uguale, cosí scialbo? e le commedie da essa date
    sono le peggiori del repertorio generale? E ho visto che la fama
    della bravura di questo attore non aveva davvero alcuna base seria.
    Perché gli ammiratori sorridono e si allietano anche nel
    vedere l'attore sotto i portici, cioè anche quando non
    riveste i panni di un personaggio comico? Perché la
    comicità di Sichel non esiste affatto come fatto artistico,
    non è qualcosa che possa essere descritto e criticato come
    fatto artistico, ma è solo un'impressione fugace, una
    suggestione esteriore, un superficialissimo fenomeno psicologico.
    Sichel ha trovato il suo train speciale, e a esso adatta tutte le
    parti che deve interpretare. È sempre lo stesso, conserva
    sempre la stessa espressione, la stessa faccia per tutti i
    personaggi. È sempre serio, e le commedie che dà sono
    sempre allegre. Sembra sempre una persona qualunque, una delle tante
    persone cosiddette serie che si incontrano sotto i portici, e dice
    invece delle cose che non sono serie; ha la faccia delle persone
    comuni, che perché comuni non sono né troppo imbecilli
    né troppo intelligenti, e i tipi che rappresenta con
    predilezione sono invece quelli di cretini nati, di idioti completi.
    Se la commedia non li vuole proprio cosí, l'attore pensa lui
    a completarli: ha una mezza dozzina di intercalari diversi, che
    ripetuti a sazietà... «basta intendersi!»,
    «io capisco tutto!» ecc., dànno l'apparenza del
    cretino anche all'uomo piú furbo. Da questo contrasto, tra la
    serietà fisica e muscolare, e le parole, le situazioni
    cretine, nasce per gli spettatori l'impressione della forza comica
    dell'attore, il quale naturalmente, essendo sempre uguale, non
    può svestirsene neanche quando ridiventa il cittadino cav.
    Giuseppe Sichel, rispettabile come qualsiasi altro cittadino di
    questo mondo. E ciò basta per gli spettatori, i quali sono di
    buona pasta. Perdonano tutto, non vedono affatto tutto ciò
    che di meccanico c'è in questa apparente comicità. Si
    divertono e non cercano di piú: passano piacevolmente qualche
    ora e al teatro non domandano altro. Sichel è l'attore fatto
    apposta per i pubblici di mediocre levatura. Appiattisce tutto,
    mediocrizza tutto, anche la banalità, la volgarità
    della pochade. E si merita pertanto gli applausi a solo, i segni di
    distinzione. Come dicono gli inglesi: è l'uomo piú
    adatto per il ruolo che piú gli si adatta.
    
    (23 settembre 1916).
    
     
    
     
    
    Giulio Tempesti al Chiarella. La compagnia di Giulio Tempesti aveva
    annunziato cinque recite straordinarie con cinque produzioni
    diverse. Il successo della prima sera ha fatto replicare la Cena
    delle beffe.
    
    La meteora benelliana non accenna ancora a tramontare. La
    virtuosità personale del Tempesti riesce ancora a tener su un
    castelletto di carta pesta e di stucco cinquecentesco, e a far
    inghiottire non solo, ma anche a far applaudire le lunghe
    declamazioni del poema drammatico di Sem, che fanno rimpiangere
    anche la noiosa novella del Grazzini saccheggiato dall'autore. Il
    Tempesti, che è l'attore benelliano per eccellenza, e nel
    quale la vuota declamazione è diventata abito artistico,
    continua stasera a prodursi nel Napoleone del Pelaez d'Avoine e si
    completerà con la Morte civile di Pietro Giacometti.
    
    (28 settembre 1916).
    
     
    
     
    
    «Le due sponde» di Poggio all'Alfieri. Commedia
    piccolo-borghese a tesi. L'autore polemizza nientemeno che con
    Giorgio Ohnet per ciò che ha voluto dimostrare nel Padrone
    delle ferriere. E drammatizza un fatto diverso, in cui le persone
    rivestono caratteri rappresentativi di classe. La tesi è
    banale tanto quanto quella del romanzatore francese. Le due sponde
    sono l'aristocrazia e la borghesia, fra le quali sarebbe impossibile
    gettare un qualsiasi ponticello sentimentale, senza crisi e disastro
    a breve scadenza. Le persone sono naturalmente scelte bene: una
    marchesina pettegola e capricciosa e un ingegnere lacrimoso, figlio
    di un non meno lacrimoso repubblicano che riesce a far entrare in
    ogni cosa i santi principî. Noiosi tutte e tre, e determinanti
    una vita comune cosí noiosa da non trovare nell'adulterio che
    la piú aspettabile delle soluzioni. L'ultima scena, in cui
    dalle labbra del vecchio scocca una parola a effetto sicuro,
    «sgualdrina», rivolta a una donna che è per
    l'autore solo un'aristocratica, ha salvato l'intiera commedia dalla
    caduta altrimenti immancabile.
    
    (29 settembre 1916).
    
     
    
     
    
    «Il dio della vendetta» di Shalom Asch al Carignano.
    Quando Alfredo De Sanctis presentò per la prima volta questo
    lavoro di un giovanissimo scrittore polacco, da qualcuno fu fatto il
    nome di Shakespeare, come punto limite di riferimento critico. Ma si
    è ben lungi dalla rivelazione clamorosa di un genio
    drammatico, e si è specialmente ben lungi dalla
    giustificazione della levata di scudi tentata da qualche altro
    contro il crudo realismo dell'autore. Il quale pone sulla scena un
    bordello, e gente da bordello. Ma senza esagerare, con molte
    cautele, come sfondo scenico e morale piú che come macchina
    drammatica intimamente necessaria.
    
    Il dramma è nella coscienza del vecchio ebreo Jankel
    Scepsiovitische; egli è riuscito a salvare nel naufragio
    della sua vita di speculatore del piacere almeno un sentimento,
    elementarmente umano: l'amore per la figlia, dalla quale il suo
    spirito intimamente religioso aspetta la redenzione. E il dio della
    sua razza lo punisce in questo amore, in questo residuo di
    umanità. La vergine è avvelenata dall'ambiente
    vizioso: l'esempio della madre, il contatto con donne della casa
    hanno pervertito il suo spirito, e senza rivolte, senza ribellioni,
    naturalmente, ella cade in peccato. I tre atti non sono molto
    complessi, né molto densi di drammaticità. Un solo
    carattere rigidamente scolpito e profondamente vissuto: il vecchio
    padre. In lui si esaurisce l'azione. La materia putrescente della
    casa di tolleranza è presentata rivestita di un blando
    romanticismo di maniera, senza troppe parole, è vero, anzi di
    una scheletrica rappresentazione che in qualche momento impressiona,
    ma anche senza una giustificazione intima. La lotta è tra
    l'ebreo Jankel che crede, e il vecchio dio che travolge la sua
    credenza, ricacciandolo nel fango. Alfredo De Sanctis ha posto bene
    in rilievo questo unico carattere del dramma: l'ultima scena, della
    rivolta del vecchio contro l'implacabile Jehova, è stata un
    vero trionfo per l'attore che nella sua misura e correttezza
    è stato di una efficacia stupefacente. Un altro attore si
    è fatto notare: il Bissi, nei panni di una figurina
    umoristica del mondo ebraico, sbozzata con vivacità e
    completa di vita rappresentativa.
    
    Il dramma ha conquistato lentamente: ma si è imposto per
    ciò che in esso è di vitale. L'ultima scena, la scena
    culminante dell'azione, ha procurato agli attori cinque o sei
    chiamate.
    
    (21 ottobre 1916).
    
     
    
     
    
    «Robespierre» di Sardou al Carignano. Un dramma inedito
    di Sardou, e su Robespierre. Teatro affollatissimo; il pubblico
    s'interessa vivamente alle produzioni teatrali che ricostruiscono un
    periodo storico, che promettono la ricostruzione completa, con
    persone vive e parlanti, di un periodo storico che impressiona
    vivamente anche nella narrazione impersonale, in cui gli avvenimenti
    sono logicamente ordinati secondo il principio di causalità,
    e i singoli perdono molta parte della loro individualità
    attiva, e appaiono solo per ciò che di fattivo hanno creato e
    lasciato. Ma il dramma di Sardou, a parte l'elemento artistico
    completamente assente, non ha mantenuto nessuna promessa. Il
    Robespierre della storia dà solo il nome al lavoro; di
    ciò che è la sua personalità di rivoluzionario
    non è dato nulla, se non una melensa rappresentazione di
    terrore dei morti, delle ombre dei decapitati. Sardou immagina
    attorno a Robespierre un dramma dei soliti: il dramma della
    paternità violentata. E costringe la storia entro questa sua
    trama: Massimiliano, nei giorni del terrore, ritrova un figlio
    natogli da una aristocratica, e lotta per salvare dalla ghigliottina
    il giovane e sua madre. Ma l'odio e la paura che egli ha seminato
    intorno a sé tendono continuamente agguati al suo sentimento
    paterno, e come supremo oltraggio, armano la mano del figlio contro
    il padre. Ma l'abile sceneggiatore francese non riesce a far
    dimenticare il Robespierre ormai fissatosi nelle coscienze
    attraverso la storia: il dramma che egli escogita per cercare
    effetti sensazionali, rimane una superficiale successione di scene e
    di dialoghi, che dovrebbero apparire drammatici per il protagonista
    quale storicamente è conosciuto, e il quale è invece
    completamente svuotato della sua piú vera e concreta vita,
    quella di rivoluzionario. Cosí i cinque atti e due quadri
    passano nella loro puerile e convenzionale meccanicità
    teatrale, applauditi mediocremente e finiscono nell'ultima scena,
    quella del parricidio, senza che quest'ultimo colpo riesca
    piú a scuotere e commuovere. Sardou ha fatto violenza alla
    storia, ha posto in iscena un Robespierre di sua invenzione, che
    avrebbe dovuto essere piú uomo e meno personaggio; ma non ha
    saputo crearlo, quest'uomo, e ne è venuto fuori un fantoccio
    ridicolo.
    
    Alfredo De Sanctis ha molto contribuito con la sua arte, a tener su
    il lavoro, ma molto spesso anch'egli, per la refrattarietà
    della materia, è stato convenzionale.
    
    (29 ottobre 1916).
    
     
    
     
    
    «La nemica» di Niccodemi al Carignano. Dario Niccodemi
    si è costruito un mito teatrale. Ed esso serve a spiegare in
    gran parte il successo spettacoloso dei lavori del fortunato
    scrittore italo-francese. Viene da ripensare alle idee di Riccardo
    Wagner sul dramma musicale, e al suo rifugiarsi nella mitologia
    medioevale germanica, per poter dare il massimo di realismo poetico
    alle creature della sua fantasia, per rendere piú
    sostanzialmente suggestiva la sua musica, trasportando l'uditorio in
    un mondo soprannaturale, nel quale il linguaggio musicale sia
    immaginato possibile e naturalissimo. Ma ciò che nel Wagner
    è ricerca affannosa di maggiore sincerità fantastica,
    nel Niccodemi è mezzo di successo. Il suo mondo mitologico
    è l'aristocrazia; il pubblico che affolla i teatri e rende
    redditizia la professione di scrittore drammatico è la
    piccola borghesia. L'insincerità di Dario Niccodemi cerca la
    sua giustificazione, cerca di rendersi naturale e possibile
    mitizzandosi. Una idea morale, elementarissima, o che riesca a far
    presa subito sul pubblico sentimentale, pronto a commuoversi e a
    diventare salice piangente, diventa sostanza di dramma non per forza
    propria, per la sua profonda umanità, ma perché serve
    di cauterio e distacca due classi, due concezioni quanto mai
    fittizie e artificiali: quella aristocratica e quella
    piccolo-borghese. Gli urti che ne derivano, i discorsi che è
    possibile far fare, le predichette, tutta la cattiva letteratura
    degli scrittori sociali del basso romanticismo francese come Eugenio
    Sue, o Dumas figlio, si dànno accolta e toccano il cuore, e
    strappano l'applauso. Cosí nell'Aigrette, cosi in questa
    nuovissima Nemica. La ficelle è sempre la stessa. Nella
    Nemica la macchina è anche piú complicata, e i
    precordi vengono piú violentemente scossi. Roberto di
    Nièvres è odiato da sua madre; una fanciulla che lo
    ama, la figlia di un notaio che vorrebbe diventare duchessa,
    respinta da lui, gli rivela un mistero: Roberto è figlio di
    un amore colpevole di sua madre, è un intruso, che ha
    usurpato al secondogenito la ricchezza, il titolo, tutte le fortune
    e i sorrisi della vita. L'anima medioevale della madre odia in lui
    la colpa, l'usurpazione. Grande colpo. Il Niccodemi aveva
    evidentemente su questa deviazione feudale dell'animo di una madre
    impostato il suo lavoro. Altrimenti non si capirebbe il personaggio
    del notaio Regnault, depositario di tutti gli scandali aristocratici
    e che è introdotto a posta per preparare l'urto tra madre e
    figlio. Ma nel secondo atto il dramma si complica e raggiunge il
    colmo del successo esteriore.
    
    Nella scena culminante Roberto viene a sapere che Anna di
    Nièvres non è sua madre affatto, che egli è un
    figlio naturale del duca morto. La rivelazione della figlia del
    notaio non era esatta, ma è servita magnificamente per la
    progressione degli effetti. Nel terzo atto lo scioglimento è
    coordinato con la guerra. Roberto e suo fratello Gastone vanno a
    combattere: Gastone muore, e l'ultima sua parola «mamma»
    riallaccia i legami tra Roberto e Anna di Nièvres; Roberto
    ritrova una madre. L'effetto era sicuro, e il successo fu grande,
    anche per la buonissima interpretazione della compagnia Di
    Lorenzo-Falconi. L'analisi fatta in principio è l'unica che
    si possa fare: bisogna giustificare il successo, poiché non
    lo si può spiegare con ragioni che interessino da vicino
    l'arte.
    
    (9 novembre 1916).
    
     
    
     
    
    «La madre» allo Scribe. Una famiglia di provincia.
    Padre, madre e un figlio di trent'anni. Dissidio fra i coniugi: il
    signore ha sedotto una domestica e ne ha avuto un figlio di ormai
    venti anni, e la signora dopo questo tradimento coniugale si
    è chiusa nel suo orgoglio di moglie ferita e nell'amore della
    legittima prole. Siamo in piena guerra europea e all'inizio della
    guerra italiana; la terza categoria del 1885 non è stata
    ancora chiamata. Vittorio, il legittimo, che ha letto molti articoli
    della «Gazzetta» e se ne serve con molto vigore nelle
    conversazioni e nelle discussioni, non vuole attendere e si arruola.
    La fidanzata lo ammira, ed è fiera di lui, il genitore e il
    futuro suocero anch'essi; la madre, Clara, no, e ci vuole tutta una
    rievocazione di carta stampata per convincerla a fare la madre
    spartana. Al secondo atto scoppia il dramma, Vittorio si incontra al
    fronte con Pietro, il fratello naturale di cui ignora l'esistenza, e
    un misterioso fluido li avvicina, li affratella: quando si dice la
    voce del sangue!... Pietro è gravemente ferito; suo padre
    è disperato e non può dimostrare il suo dolore per non
    colpire la suscettibilità di sua moglie. Ma questa, nel
    dolore, si è purificata; ogni orgoglio umano è caduto.
    Si riavvicina al marito, incomincia ad amare attraverso suo figlio,
    l'altro, l'intruso, e perdona e piange e tutti piangono, e gli animi
    di tutti sono diventati una dolcissima marmellata che fa piangere di
    consolazione tutti come tanti vitellini. E Vittorio muore,
    gloriosamente, mentre Pietro ritorna, anch'egli riabilitato del suo
    giovanile sovversivismo, e la domestica traditora, sua madre,
    rientra nella casa dei suoi antichi padroni, e Pietro descrive,
    proprio come un inviato speciale, la presa di Gorizia, e la morte
    del suo amico, e un nuovo alito di bontà spira su tutti i
    cuori, e ci si sente tutti rimminchioniti per tanta dolcezza, per
    tanto candore, e si ringrazia il buon Dio che da tanto male, tanto
    bene ha saputo trarre, irrorandone i cuori, facendo di questi
    altrettanti vasi d'elezione.
    
    Il teatro non era molto affollato: il successo esteriore fu
    notevole. La commedia è presentata con abilità. La
    declamazione fatta in dialetto, perde una gran parte della sua
    retorica: e del resto nel lavoro non tutto è retorica, e
    qualche piccola scena è realmente efficace. Tra i personaggi
    di contorno c'è un alpino gianduiesco, volgarmente e
    popolarescamente eroico, reso con tutta la volgarità
    possibile da Mario Casaleggio, tutto da ridere. Cosí la
    mozione degli affetti è completata, e l'anonimo autore che
    abilmente si è saputo servire del materiale emotivo
    d'attualità, è stato ampiamente premiato delle sue
    fatiche: cinquecento lire, una medaglia d'oro e il cumulo di
    pettegolezzi e di ipotesi sul suo anonimo. Quanto basta per rendere
    felice un letterato anche se dialettale.
    
    (12 novembre 1916).
    
     
    
     
    
    Armando Falconi. Non so se Armando Falconi sia, come si dice nel
    gergo dei cronisti teatrali, un figlio dell'arte. Non sono uno
    schedaiolo della cronaca, un documentario, e mi manca la pezza
    giustificatrice in proposito. Ma, del resto, ciò poco
    importa. L'atto di nascita non spiega molto, in fondo, sulle
    qualità di un individuo. Conoscere l'ambiente in cui un
    carattere si è formato, spesso non serve ad altro che a
    trarre in errore. Ciò che importa è accertare se
    questo carattere esiste veramente, e quale ne è il peso
    specifico, la individuazione specifica. Trattandosi di un attore
    drammatico, ciò che importa è accertare se egli da
    attore è diventato artista, se veramente la sua
    umanità si distingue da quella degli infiniti altri mortali
    per la capacità di ricreare gli individui concreti che la
    fantasia degli scrittori crea, per la capacità di dimenticare
    in questa ricreazione se stesso come tal dei tali, per assorbire,
    assimilare ed esprimere integralmente tutti quegli elementi di
    individuazione concreta coi quali lo scrittore ha realizzato la sua
    intuizione drammatica. Ma come esistono pochi uomini che siano dei
    caratteri dal punto di vista morale, cosí esistono pochi
    attori che siano artisti, cioè caratteri dal punto di vista
    della vita artistica. Il dolersene sarebbe perfettamente inutile: e
    il far credere il contrario può esser solo compito
    dell'ipocrita cortigianeria giornalistica, che di ogni villan che
    parteggiando viene, fa un Marcello (esempio recente Antonio
    Salandra) come di ogni istrione che dirige una compagnia e sa condur
    bene i suoi affari, fa un Salvini o una Ristori.
    
    Con ciò non si dice che anche gli altri non siano necessari,
    e in quanto esplicano un compito necessario, non siano rispettabili.
    Bisogna però rimetterli al loro posto, ecco tutto, e avere
    una coscienza chiara del loro valore, e della loro attività.
    Ciò per tutte le espressioni di vita, quella morale come
    quella artistica. E questi altri si possono classificare, dividere
    in categorie, perché la loro persona si confonde nel grigio
    di una collettività, le loro caratteristiche non riescono a
    farli emergere dalla folla di simili, il loro vario atteggiarsi
    costituisce una serie, precisamente come avviene nella industria
    meccanica. Sono sempre la stessa ruota, la stessa valvola, lo stesso
    bullone, che può applicarsi indifferentemente a un centinaio
    o a un migliaio di macchine diverse. La serie per gli attori
    drammatici si chiama ruolo: e il ruolo al tempo della commedia
    dell'arte, si chiamava maschera. Ciò che nel gergo dei
    cronisti teatrali si chiama figlio dell'arte, non è che la
    espressione moderna di un fatto di un antico passato: figlio
    dell'arte vuol dire maschera. Ecco perché ho incominciato
    domandandomi se Armando Falconi apparteneva anche per lo stato
    civile a questa rispettabile categoria. Perché, anche se per
    avventura, il suo albero genealogico fosse bianco per questo
    rispetto, egli non apparterrebbe meno alla categoria. Egli che si
    è fatto una maschera della comicità; una maschera,
    cioè qualcosa di inarticolabile e di immutabile: qualcosa che
    solo casualmente diventa espressione, perché casualmente la
    smorfia continuata può anche essere espressione di una vita,
    ma che altrimenti non è che smorfia, che trucco esteriore. Il
    quale può anche piacere, può anche far ridere e
    procurare il successo, ma non fa arte, non è un fatto
    estetico, è semplicemente un fatto commerciale. Necessario,
    in quanto anche la produzione drammatica è in grandissima
    parte un fatto commerciale, e perciò rispettabile. Ma il
    rispetto non può cambiarsi in ammirazione, e tanto meno in
    ammirazione per un altro fatto che non esiste. Pensateci bene e
    vedrete che ho ragione. Come ho avuto ragione a fare delle
    digressioni, poiché dovendo parlare di un fatto che non
    esiste (Falconi artista) ho dovuto fare delle premesse che
    togliessero alla conclusione ogni apparenza di malignità e di
    ipercritica.
    
    (8 dicembre 1916).
    
     
    
     
    
    «... e chi vive si dà pace» di Novelli al
    Carignano. Una rappresentazione vivace e colorita di un piccolo
    mondo di campagna, che vive gagliardamente la sua piccola vita,
    senza sottilizzare intorno a essa, senza smarrirsi nell'autoanalisi
    esasperata. Rappresentazione, non inquieta morale e psicologia
    dialogata; perciò arte, anche se i momenti in cui essa si
    afferma in valori definitivi, non siano troppo numerosi. O piuttosto
    esperimento, tentativo artistico, nel quale si rivelano le
    possibilità di una piú congrua solidificazione
    complessiva. Lo spunto è tenue e semplice. È la storia
    di un uomo che dopo la morte di sua moglie, si rifà una casa
    ritrovando nella donna di servizio la compagna che gli è
    necessaria per riempire la solitudine. Si arriva alla conclusione
    attraverso una serie di quadretti, sbozzati con abilità e
    sicurezza, cui dànno colore oltre che la bonaria sete di
    vivere del protagonista, la malizia gaia della donna, o gli intrighi
    di una madre che vorrebbe accasare la sua figliuola e l'intervento
    di un amico di casa che postilla col suo sorriso paesano lo
    svolgersi degli avvenimenti e l'adattamento graduale alle
    necessità della vita del vedovo, che subito dopo la morte
    della moglie diceva di volersi persino ammazzare.
    
    Il Novelli ha trovato nella compagnia Di Lorenzo degli interpreti
    efficacissimi per il suo lavoro. La Di Lorenzo, il Falconi e il
    Biliotti hanno dato il massimo risalto ai personaggi, coadiuvati
    ottimamente dagli altri. Gli attori e l'autore furono molte volte
    chiamati alla ribalta.
    
    (15 dicembre 1916).
    
     
    
     
    
    «Cavour» di G. B. Ferrero allo Scribe. Non sono poche le
    disgrazie che hanno afflitto la memoria e il nome dello statista
    piemontese. Da quelle procurategli dai suoi sedicenti continuatori
    in politica, alle piú recenti che hanno tratto la figura di
    Cavour a calcare le scene nelle truccature degli attori degni e
    indegni a seconda del caso. G. B. Ferrero nei suoi cinque atti ha
    recato l'estremo oltraggio allo statista; l'ha rimpicciolito a
    macchietta regionale, a macchietta dialettale, e Mario Casaleggio ne
    ha assunto la parte, con quella serietà di intendimenti che
    poteva aspettarsi da un istrione della sua fatta. Cinque atti, un
    autore dialettale, Mario Casaleggio! E non esiste nessun nume che
    preservi le figure storiche rispettabili da questi oltraggi degli
    ammiratori da strapazzo!
    
    (20 dicembre 1916).
    
     
    
     
    
    Tina Di Lorenzo. Esiste un pregiudizio, ancora radicato in molti,
    sebbene battuto in breccia dalla categoria degli uomini che pensano.
    Per esso si classificano gli uomini e li si giudica a seconda dei
    caratteri comuni che essi mostrano di avere tra loro. Si segue
    precisamente il criterio proprio delle scienze naturali, che devono
    classificare le piante e gli animali e non possono farlo che a
    seconda delle forme appariscenti alla superficie di questi esseri.
    Ma la classificazione non è precisamente la forma di
    conoscenza che deve adottarsi con gli uomini, né il riuscire
    a fissare dei tipi (serie di esseri simili rappresentate da
    esemplari che ne sintetizzano le caratteristiche) è una forma
    di giudizio. Perché negli uomini, che noi possiamo studiare e
    conoscere anche nelle loro qualità individuali, ciò
    che piú interessa è precisamente l'individuo e il
    complesso di doti che lo fanno inconfondibile nella specie: che lo
    rendono insostituibile da qualsiasi altro esemplare della sua
    specie. Se ciò si può dire degli uomini in genere (e
    ogni uomo, anche il piú comunemente detto comune, ha qualcosa
    che lo rende in sé interessante) si deve dire specialmente di
    quel certo numero di essi che estrinsecano la loro attività
    attraverso forme di vita in cui la fantasia creatrice ha il
    predominio assoluto sulla logicità. Se la logicità
    può ancora dare modo di stabilire delle categorie (scuole,
    costumi, ecc.) la fantasia non è che prettamente individuale.
    E gli attori di teatro, quando sono artisti, sono appunto di questo
    numero di individui. E Tina Di Lorenzo è di essi.
    Perciò non può essere classificata neppure in quella
    categoria, lusinghiera apparentemente, dei grandi. Perché
    dire grande vorrebbe dire stabilire una scala di valori, ricorrere a
    dei confronti, classificare. E invece l'artista non è grande
    o piccolo: è o non è tale, semplicemente. Lo studio
    può essere rivolto solo alla osservazione del come lo sia,
    può essere rivolto a stabilire il come si svolge questa sua
    particolare attività, che è tutta lui, che è
    ciò che ci interessa. Cogliere l'attimo vivo, abbandonarsi al
    fluire di questa vita, e risentirla in sé come qualcosa di
    solidamente compatto, che si impone all'ammirazione, che ci domina
    in quel momento, come fosse tutto il mondo, il solo mondo esistente.
    A noi basta affermare nella Di Lorenzo l'esistenza di questa
    attività fantastica. Essa si afferma concretamente ogni
    qualvolta il lavoro da interpretare le dà la
    possibilità di ricreare una donna che veramente abbia vita.
    La Di Lorenzo riesce a calarsi nel suo animo, a intenderne la
    necessità psicologica, e diventar lei.
    
    Ogni opera drammatica è una sintesi di vita, è un
    frammento di vita. L'artista deve continuare il lavoro fantastico
    dell'autore. Nella sintesi, nel frammento deve sentire la
    continuità, l'accessorio, l'alone che circonda la luce,
    ciò che è vita diffusa, ma sentirlo in relazione
    all'esistente creato dall'autore, sentirlo come lo sentiva la
    fantasia dell'autore quando scriveva quelle tali parole.
    Perché dovendo dare vita fisica, reale persona alla bocca che
    pronunzia quelle parole, deve creare un accordo, un'armonia, solo
    dalla quale scaturisce la bellezza. E questa bellezza scaturisce
    dalle interpretazioni della Di Lorenzo. E la suggestione è
    accresciuta da altri fattori. Principalissimo un fascino speciale,
    diffuso in tutti i momenti dell'attività dell'artista, che
    riesce a incatenare l'attenzione anche quando la materia sorda,
    imposta dalle necessità pratiche della professione e del
    mercato, non le permette un lavoro definitivo di creazione. È
    un fascino difficile da definire, difficile perché il costume
    non libero dai pregiudizi della morale volgare, dà apparenza
    di volgarità a ciò che non è certamente tale
    che per gli sciocchi, e che perciò convenzionalmente si
    esprime con la parola banale di femminilità.
    
    Ma non è possibile nella cronaca fare piú che delle
    affermazioni. E del resto noi non vogliamo che servire a stimolare
    l'osservazione dei nostri lettori, e per quanto possiamo, snebbiare
    un po' la loro retina da certi pregiudizi.
    
    (22 dicembre 1916).
    
     
    
     
    
    «L'amante lontano» di Bracco all'Alfieri. Cerchiamo
    invano in questi nuovissimi tre atti dialogati di Roberto Bracco un
    punto di appoggio, una giustificazione delle parole e dei gesti che
    sentiamo dire e vediamo fare dai personaggi. Il dialogo si esaurisce
    in se stesso, è solo vuota declamazione, i gesti sono solo
    irritazione di muscoli motori, non segni fisici di un linguaggio
    interiore. I tre atti sono un susseguirsi disorganico e disordinato
    di parole che non creano, di aggettivi magniloquenti, di vuoti
    pneumatici. Il dramma rimane allo stato intenzionale, senza che la
    fantasia dell'autore riesca ad attuare la sua intenzione
    rappresentandosela in una azione concreta e avvincente. Sentiamo che
    questa intenzione è diffusa blandamente in tutte le parole,
    le discussioni, le declamazioni retrospettive, e passiamo di
    illusione in disillusione, sempre in attesa che la sfinge riveli il
    suo enigma, e convincendoci infine che la sfinge è solo una
    larva di stucco e non racchiude alcun enigma. L'esposizione
    dell'intreccio può perciò dare solo un'idea di questa
    volontà che non ha trovato uno sbocco. Il dramma avrebbe
    dovuto scaturire dall'urto di tre personaggi. Una giovinetta,
    Mirella, che nel primo atto sembra debba promettere tutta una serie
    di impressioni vive e liete di colori sgargianti, ma che in seguito
    si affloscia e diventa una figura lattiginosa, dolciastra, senza
    anima. Due uomini: Luciano D'Alvezza, un gaudente, un amorale, un
    conquistatore di donne, che affoga negli imbrogli e per liberarsi
    dal fango che sta per sommergere il rudere del suo blasone
    marchionale, va volontario alla guerra, ma non senza aver cercato
    all'ultima ora di usare violenza a Mirella. E Michele, contraltare
    di Luciano, lavoratore indefesso, volontà e costanza di
    ferro, il quale si innamora di Mirella, si promette a lei, crede per
    un momento di aver costruito definitivamente la magione austera
    della sua felicità. Il lavoro, che a mala pena era riuscito a
    puntellarsi fino a questo punto, precipita definitivamente
    nell'incognito indistinto. I rimasti, Mirella e Michele sono ormai
    solamente dei bambocci-fonografi. Dalle parole che si scambiano
    dovrebbe apparire come qualmente Mirella è preda di una
    fatale passione per il lontano eroe che muore al fronte per una
    salva di aggettivi, e come qualmente Michele non vuole usurpare nel
    cuore della donzella il posto che il lontano amante vi ha preso. La
    fine cosí verbosamente impiastricciata ha suscitato qualche
    sibilo e molte proteste. Gli ottimi artisti della compagnia di Luigi
    Carini, che avevano preparato un'interpretazione degna di un bel
    lavoro, non potevano che far apparire mortificate le loro
    qualità.
    
    (29 dicembre 1916).
    
     
    
     
    
    «Il matrimonio di Figaro» di Beaumarchais all'Alfieri.
    Il cartellone della compagnia di Luigi Carini annunzia la prossima
    ripresa del Matrimonio di Figaro, cinque atti del Beaumarchais. La
    vecchia commedia è stata già applaudita l'anno scorso
    nella efficace interpretazione che la stessa compagnia offrí
    al pubblico torinese in un altro teatro. Ne facciamo cenno ai nostri
    lettori per due motivi. La commedia del Beaumarchais è una
    autentica opera d'arte, e per chi vuole affinare il proprio gusto
    niente vale di piú dell'accostarsi simpaticamente a un
    capolavoro genuino, integrale, in cui ogni parola, ogni atto, ogni
    personaggio ha intensa vita artistica, in cui non si bada
    all'effetto, al successo, ma la sincerità e la
    spontaneità sono qualità precipue. E la commedia del
    Beaumarchais è documento storico di primo ordine. Essa mostra
    in azione, vivente di immortale bellezza, la società francese
    prerivoluzionaria. I rapporti sociali, le condizioni di alcune
    categorie di individui, i costumi, le idee dominanti appaiono nella
    loro realtà dinamica, materiate e concrete nella vita
    vissuta, soffuse di una gioconda gaiezza, vivificate da una ironia
    profonda e corrosiva. I cinque atti, per l'efficacia culturale, sia
    storica che artistica, equivalgono a un intiero corso di conferenze
    e a qualsiasi profondissima disquisizione sull'essenza dell'arte.
    
    (4 gennaio 1917).
    
     
    
     
    
    «L'ondina» di Praga e «Le Rozeno» di Antona
    Traversi al Carignano. La compagnia Borelli-Piperno ha già
    presentato due esumazioni del teatro italiano quasi contemporaneo.
    L'ondina di Marco Praga e Le Rozeno di Camillo Antona Traversi. Due
    lavori pleonastici, che hanno rivissuto e rivivranno per alcune sere
    di quella effimera vita alla quale erano destinate. Che ci fossero o
    no, a nessuno era importato finora e a nessuno importerà per
    l'avvenire. La necessità di variare il solito menu, ora che
    la guerra impedisce la superproduzione di novità francesi, le
    ha fatte rispolverare, e il ristabilirsi in equilibrio della
    bilancia le farà riscomparire. La commedia del Traversi
    è la piú massiccia e pesante delle due. È una
    macchinosa concezione che si fa tiepidamente applaudire
    perché costruita su uno dei motivi sentimentali di piú
    facile presa: la maternità che mantiene puri i suoi affetti
    anche attraverso la putredine dell'ambiente sociale e familiare.
    Accoglienza glaciale ai primi due atti; e stentati applausi agli
    ultimi due.
    
    (4 gennaio 1917).
    
     
    
     
    
    Luigi Carini. Il carattere si rivela nell'individuo attraverso una
    serie di atti intimamente omogenei, quantunque distinti l'uno
    dall'altro per la coloritura occasionale determinata dalla
    spontaneità. Studiare un carattere vuol dire quindi rivivere
    questi atti singoli, trovare per ciascuno di essi il particolare
    fremito di vita fisica che meglio risuoni col loro significato
    spirituale, e nel distinto comprendere l'omogeneo, nel tortuoso
    zig-zag dell'azione trovare la linea dorsale che unifichi l'azione
    stessa in una personale vita. Nell'opera artistica di Luigi Carini
    l'osservatore attento sorprende facilmente i mirabili risultati di
    un simile lavoro di critica sottile. Ma carattere non vuol dire
    gesto eccezionale, o, almeno, solo gesto eccezionale. Carattere
    è invece piuttosto continuità; e la continuità
    la si ritrova nei piccoli atti piú che nei grandi, nei
    piccoli episodi, piú che nelle grandi situazioni drammatiche.
    Le possibilità d'arte di un attore si misurano in questa
    continuità, nella capacità che egli possiede di dare
    impronta omogeneamente distinta a una continuità di piccole
    cose. Questa capacità esuberante dà a Luigi Carini un
    posto ben distinto nella storia dell'arte di teatro. Essa gli nuoce
    un po' nella conquista dei grandi successi. Perché di solito
    si rimane estasiati di fronte alle congestioni muscolari e sanguigne
    degli atleti da cinematografi, mentre la forza serena e tranquilla
    fa rimanere un po' freddi. Ma il torto è di chi va in estasi
    o rimane freddo, non dell'uomo forte. La grandiosità
    apparente di una grande mole riempie la pupilla senza eccitare la
    fantasia. Il minuto lavoro del cesellatore, compiuto nei
    particolari, eccita la fantasia dopo aver occupato la pupilla, ma
    deve essere studiato con serietà, si rivela nella sua
    perfetta bellezza solo agli spiriti che se ne sappiano rendere
    degni. Bisogna accostarsi con simpatia benevola, e con l'arco
    dell'attenzione ben teso. Cosí come bisogna fare per le
    interpretazioni del Carini. E non già che egli non sappia
    montare le situazioni fortemente impressionanti e non sappia
    raggiungere gli acuti e spasmodici culmini della
    drammaticità. Ma da artista che sente la dignità
    dell'arte sua, non abusa di queste droghe piccanti. E si tiene nei
    limiti dell'umanità normale, riuscendo lo stesso, e anzi
    piú efficacemente, a far risentire l'angoscia piú
    profonda e la gioia piú spirituale. La
    congestionabilità non rompe affatto la monotonia, né
    il volume è grandezza. Un bassorilievo di Donatello è
    meno monotono della piazza di S. Pietro con tutte le sue enormi
    fughe di enormi colonne e il mostruoso volume dello spazio occupato
    nella superficie del mondo e nell'orizzonte del cielo. Il ritmo
    dell'uno è piú incalzante e piú vario del ritmo
    della seconda, e contiene un numero maggiore di momenti di
    intensità espressiva. Si pensa a tutto ciò ascoltando
    sulla scena il Carini, seguendolo con attenzione raccolta nel suo
    sempre vario atteggiarsi, che è volta a volta però un
    atteggiarsi unitario, e vedendo come il lavoro critico di
    riflessione sulla parte assunta diventi spontaneità,
    ingenuità nel migliore significato di questa parola. Sono
    mezzi espressivi molto semplici nell'apparenza, ma che rivelano un
    lavoro delicato e sottile di scelta, una padronanza sempre vigile
    anche quando l'abbandono è massimo.
    
    Sono queste qualità che permettono al Carini di assumere ed
    esprimere con intensità pari delle parti disparate per il
    contenuto sentimentale. Figaro nella commedia del Beaumarchais o
    Claudio nella Moglie del Dumas: il gaio amatore di novità che
    è lodato dagli uni e biasimato dagli altri, che ride degli
    sciocchi e sfida i malvagi, che ride di tutto per paura di essere
    obbligato a piangere, e lo scienziato umanitario, l'inventore di
    armi sempre piú perfette che con la perfezione dei mezzi
    distruttivi tende all'instaurazione della pace universale e uccide
    la moglie viperina non per i suoi tradimenti coniugali, ma
    perché tradisce la patria. Due uomini, pertanto nella loro
    antipodica costruzione, e che dànno all'attore la stoffa
    necessaria per interpretazioni nutrite di elementi espressivi pieni
    di finezza e aderenti perfettamente a degli individui di carne e
    ossa.
    
    Il Carini è del numero di quei pochi attori che fanno amare
    il teatro e che non abbassano la loro arte al livello del circo
    equestre e dello schermo cinematografico. E a lui perciò
    abbiamo voluto, con queste linee, fare omaggio.
    
    (16 gennaio 1917).
    
     
    
     
    
    «Facciamo un sogno!» di Guitry al Carignano. Sacha
    Guitry, oltre che uno scrittore di teatro, è anche un uomo di
    spirito. I suoi lavori, oltre che opere d'arte, piú o meno
    perfette, piú o meno compiute in tutto il loro svolgimento,
    si distinguono per la genialità inventiva dell'autore. Sono
    piccole cose dal punto di vista dell'intreccio esteriore e della
    complicazione psicologica. L'autore fa dire ai suoi personaggi che
    la vita non è complicata che per coloro i quali da lontano
    vedono solo i momenti culminanti di essa, e questi accumulano in
    breve spazio di tempo fingendo cosí una condensazione che
    nella realtà non esiste. Pertanto nelle sue commedie, come in
    questa, rappresenta dei momenti di vita in cui l'azione fisica
    è sostituita da una azione interiore che è segnata dai
    singoli trapassi di stato d'animo, e siccome questi si concretano
    ordinariamente, per l'individuo isolato, nella riflessione
    monologata, cosí due atti di Facciamo un sogno! sono parlati
    da un personaggio, e i personaggi dei quattro atti sono solamente
    tre, la moglie, il marito e l'amante. L'azione è solo
    trapasso di stati d'animo, questi culminano in due o tre
    osservazioni spiritose e si cullano in una atmosfera di parole, di
    frasi, di periodi sempre vari e scolpiti solidamente in un poliorama
    interiore dello spirito individuale. Teatro d'eccezione? Teatro che
    non si può sunteggiare, ma che è vivo lo stesso, e non
    stanca, e sa farsi applaudire, ed è preferibile al solito
    guazzabuglio macchinoso, sia la macchina una psiche, o sia una
    garçonnière a doppio fondo.
    
    (19 gennaio 1917).
    
     
    
     
    
    L'ufficio di stato civile al Rossini («'L môrôs
    d'mia fômna» di Leoni). Giacomo Albertini, assessore
    dello stato civile, quando esercita le sue funzioni di cozzone di
    matrimoni in teatro, si chiama Mario Leoni. E rimane sempre in
    carattere. Lo stato civile, reparto matrimoni, gli dà
    l'ispirazione, gli suggerisce i motti di spirito sulla
    felicità coniugale, sulle miserie della vita coniugale, sulle
    speranze della vita coniugale. Scrive in dialetto, per la compagnia
    di Dante Testa, al Rossini: e il dialetto è ricco di arguzie
    ridanciane, di osservazioni profonde e melanconicamente pungenti
    sullo stato civile, reparto matrimoni. Mario Leoni di esse ne ha a
    disposizione un sacco e una sporta; il suo tirocinio di assessore
    gliene deve aver fatto sentire delle carine, dette con quella
    bonomia che è propria dell'arguzia piemontese. Il successo di
    questa nuova commedia è stato solo un successo di arguzia
    dialettale. 'L môrôs d'mia fômna sono tre atti che
    non hanno nessuno dei pregi che di solito fanno applaudire le
    produzioni di teatro. Imbastiti frettolosamente, sconnessi, tardi e
    stentati nello sviluppo dei motivi, sono però ricchi di
    metafore dialettali, semplici, non ghiribizzose, che hanno facile
    presa sull'anima dello spettatore e gli strappano la risata franca e
    cordiale senza sottintesi e senza sforzi di elaborazione.
    
    'L môrôs d'mia fômna è il nomignolo
    amichevole che Deodato Fragolini dà all'on. Ferlingotti, un
    affarista volgare che vorrebbe sposarne la nipote Erminia. L'on.
    Ferlingotti ha moglie, anzi ha due mogli, una sposata in chiesa,
    l'altra in municipio, e le ha abbandonate ambedue. Finalmente
    rintraccia la seconda, che è dattilografa in casa Fragolini,
    e con lei parte per l'Ungheria, e divorzia (l'assessore Albertini
    è favorevole al divorzio, e questa sua commedia rientra nel
    numero delle opere di teatro pro divorzio). Il viaggio clandestino
    della dattilografa e dell'onorevole sconcerta tutta casa Fragolini.
    La signora, bisbetica e piena di bizzarrie, infuria su tutti: il
    giovane figlio, che è innamorato dell'impiegata, si dispera,
    ma con giudizio; il padre, che non ha altro ufficio che di dire
    delle scemenze amenamente ridicole, non è mai stato tanto se
    stesso. Al terzo atto tutti i nodi si sciolgono: la dattilografa
    rivela le sue vere generalità e riacquista la stima
    universale; l'onorevole viene squalificato; la giovane Erminia sposa
    un impiegato di suo zio e il giovane Fragolini sposa la signora
    divorziata. Il sipario cala su un triplice idillio che deve aver
    commosso teneramente i precordi dell'assessore.
    
    I tre atti sono stati dalla compagnia di Dante Testa, resi con una
    franchezza e una semplicità di interpretazione notevoli. Il
    Testa e la Gemelli si sono fatti spesso applaudire a scena aperta.
    L'autore è stato chiamato al proscenio una dozzina di volte.
    
    (21 gennaio 1917).
    
     
    
     
    
    «Piccolo harem» di Costa al Carignano. Ho sentito fare
    da un operaio la migliore critica di questo lavoro. Sentimento,
    passioni, ambiente arabo. Può tutto ciò essere
    rappresentato in teatro, cioè col dialogo, con parole che non
    raccontano e descrivono, analizzando, ma sono esse stesse quei
    sentimenti, quelle passioni, quell'ambiente, in una lingua diversa e
    tanto lontana da quella che può sola essere espressione
    sincera del mondo che si vuol rappresentare? In questa domanda, che
    il compagno elevava a criterio generale di giudizio, era contenuta
    la sua insoddisfazione per il dramma del Costa. Del quale egli
    comprendeva perfettamente le motivazioni, ammirava il lavoro
    accurato di esecuzione e la compenetrazione dei vari elementi
    drammatici, ma senza che per ciò gli sfuggisse lo squilibrio
    tra queste motivazioni, questi elementi che possono essere di tutti
    i luoghi e di tutti i tempi e la espressione particolare che
    dovrebbero avere quando sono posti in un determinato luogo che ha
    una determinata colorazione storica e folcloristica. E non gli
    sfuggiva che questa espressione particolare risente dello sforzo di
    una traduzione non ben riuscita, e risente di certe
    prolissità e lungaggini e ridondanze figurative che forse si
    avvertono solo per lo sforzo di contenere nella nostra lingua
    ciò che in questa altrimenti sarebbe espresso.
    
    Piccolo harem non è un dramma complicato. Oghzala è
    un'araba algerina che, avendo conosciuto, anche superficialmente, la
    vita spirituale della famiglia europea, non riesce piú ad
    adattarsi all'idea musulmana di un uomo che ama nello stesso tempo
    piú donne, senza pertanto che alcuna di queste possa
    ritenersi diminuita nella stima di se stessa e esserne offesa nel
    piú profondo della propria dignità individuale. Questa
    ribellione all'harem però non diventa un superiore sentimento
    di piú spirituale umanità; è solo un fatto
    elementare, istintivo, che l'autore rappresenta in alcuni momenti
    piú salientemente rappresentativi, e che prepara una
    catastrofe violenta. Oghzala, l'araba cittadina, si disfà di
    Mabruka, l'araba dell'oasi, tendendole un tranello, facendola
    credere adultera con un trucco poco complicato: facendo bussare alla
    porta di Mabruka il proprio drudo, l'uomo che è servito a lei
    per avere il figlio che doveva servire a conservarle la predilezione
    del marito.
    
    Il dramma si sviluppa solo nel quarto atto; i primi tre sono
    preparatorii. L'autore si accorge della difficoltà di porre
    subito a contatto gli ascoltatori europei con un mondo esotico, e
    per tre atti si sforza di suggestionarli, di condurli a comprendere,
    a impadronirsi dell'animo dei suoi personaggi. E in questo
    lavorío usa molte parole, molta riflessione che tolgono
    efficacia al quadro e lo illanguidiscono, snaturando il carattere
    delle persone che si sdoppiano, facendo opera di cultura nello
    stesso tempo che devono agire.
    
    Gastone Costa è al suo primo tentativo, e per tutta quella
    parte in cui esso si è addimostrato vitale si è fatto
    applaudire.
    
    (25 gennaio 1917).
    
     
    
     
    
    «La marea» di Hastings al Carignano. Felicita Schart
    è stata, da giovinetta, resa madre da uno sconosciuto che ha
    abusato della sua ingenuità e dell'ignoranza intorno alle
    cose sessuali in cui i parenti l'hanno lasciata: un delitto della
    cicogna l'avrebbe chiamato Franz Wedekind. Ma per l'autore inglese
    non è questa ignoranza che diventa motivazione drammatica e
    spunto a propaganda dialogata contro i pregiudizi dell'educazione
    giovanile. Felicita Schart viene dai genitori, bigotti e per bene,
    separata dal suo nato, e per sedici anni ne ignora il destino, ne
    ignora persino il sesso. Questa violenza brutale rovina la giovine
    donna, che precipita gradatamente in un abbrutimento morale e
    fisico, dal quale solo un caso la risolleva. In una camera d'albergo
    dove si era rinchiusa per uccidersi alla fine, sommersa dalla
    amarezza della dissoluzione e del suo interiore rodimento materno,
    incontra un medico che con la robustezza del suo senno la convince a
    curarsi, promette di ritrovarle il figlio. Felicita Schart si
    ritempra in piú d'un anno di vita selvaggia sulla spiaggia
    del mare; la sua bellezza rifiorisce, rinasce l'amore della vita e
    del piacere. Il dottor Stratton le fa incontrare sua figlia, senza
    che nessuna voce istintiva le riveli la verità; anzi
    l'istinto le gioca un atroce giuoco. Ella sostituisce sua figlia
    nell'amore del fidanzato di questa, e la giovinetta Maisie apprende
    chi veramente sia sua madre subito dopo che un odio atroce la ha
    allontanata da lei. La messa in accusa dei pregiudizi sociali
    diventa cosí completa. Essi sostituiscono nel dramma il
    feroce destino delle antiche concezioni tragiche della vita. La
    natura, la elementare natura che ha salvato già dal
    precipizio la dissolventesi bellezza di Felicita Schart, interviene
    anche ora. È la voce fragorosa della marea, è la
    semplice voce di un umile J.-J. Rousseau, Jerry, un bastardo anche
    egli, che dalla lettura dei libri e dalla solitaria contemplazione
    delle forze irresistibili della terra trae una forza di convinzione
    che appaga lo spirito di Maisie, la riconforta, e inizia la sua
    nuova vita e le suggerisce le prime parole che dovranno
    riconciliarla con sua madre. Su questi elementi è tessuto il
    dramma dello Hastings. Ma la loro traduzione in arte non avviene
    senza convenzionalità e senza sforzi. Il lavoro è
    troppo spesso stentato, prolisso e risente di un lavorio riflesso
    che ne vuol fare una dimostrazione logica esteriore alle persone,
    piuttosto che un'intuizione di vita drammatica. Tutto è
    prestabilito dalla volontà, gli elementi emotivi e passionali
    sono sorpassati e sommersi da una necessità di propaganda,
    che si fonde solo raramente con le necessità delle coscienze
    individuali. E ne risultano ingenuità, cavillosità
    urtanti, prediche noiose, colpi di scena di cattivo gusto. È
    un puritano della natura e della semplicità, che combatte i
    puritani della convenienza sociale, della moralità borghese e
    pretesca, conservandone il tono e i metodi. Un convenzionalismo si
    sostituisce a un altro convenzionalismo.
    
    I primi tre atti furono applauditi, quantunque blandamente; il
    quarto passò in silenzio. L'interpretazione si distinse per
    merito del Piperno specialmente, e dell'Almirante, che sostenevano
    le parti del dottor Stratton e di Jerry il bastardo, le due persone
    piú vive di tutto il lavoro.
    
    (1° febbraio 1917).
    
     
    
     
    
    «L'uomo del sogno» di Adami all'Alfieri. Giuseppe Adami
    costruisce i suoi tre atti su questo motivo: quali reazioni
    sentimentali provoca l'avvicinamento di un grande uomo a un piccolo
    mondo provinciale, materiato di piccoli fatti, di piccole anime
    pettegole, di fanciulle che sognano il cavaliere della leggenda? E
    l'Adami ha avuto il buon gusto di non fare del grande uomo la solita
    creatura fatale, d'eccezione, che travolge nel suo cammino tutto e
    tutti. Ha invece posto in iscena un uomo apparentemente uguale agli
    altri, che se ne differenzia solo, come avviene di solito nella
    vita, per l'alone fantastico che la sua fama ha creato intorno alla
    sua persona, e per la maggiore tolleranza di fronte alla vita
    vissuta che la piú rapida comprensione e intuizione degli
    avvenimenti rende naturale in lui. Un essere normale, insomma, e non
    la abusata caricatura del superuomo, che la comune degli scrittori,
    non essendo essi stessi dei geni, non riescono a ricreare che come
    caricatura. Paolo Varchi è l'uomo del sogno. Egli, piombando
    all'improvviso in un ambiente provinciale, diventa nella fantasia
    dei suoi ospiti e degli amici degli ospiti, il modello di
    umanità cui tutti inconsciamente tendono, per l'ingegno, per
    lo spirito pronto, per la tranquilla e serena placidità con
    cui giudica tutto e tutti, e anche nelle piccole miserie della vita
    trova un ritmo superiore, una bellezza che negli altri non appare
    perché di quelle miserie sono le vittime e gli attori. Questo
    suo differenziarsi dagli altri suscita il piccolo dramma dei tre
    atti. Nella casa in cui è l'ospite occasionale, si svolge un
    idillio. È naturale che la giovinetta, Carmine, paragoni i
    due uomini che piú la interessano spiritualmente e per un
    istante dia la preferenza all'uomo del sogno. Come è naturale
    che Roberto, il fidanzato di Carmine, diffidi di questo fascino
    intellettuale e diventi ingiusto, duro, grottesco, persino, almeno
    apparentemente, nel suo rancore inconsiderato. Paolo Varchi è
    però un grande uomo morale, e non abusa delle illusioni
    fantastiche di Carmine. Dopo un attimo di abbandono, riprende la
    padronanza di sé e rinsalda volontariamente l'iato prodotto
    senza volerlo. Roberto si pente dei suoi grotteschi stati d'animo e
    ritorna alla fidanzata, che all'immagine di cartone del sogno
    preferisce di nuovo la realtà viva dei suoi piú
    profondi sentimenti. Intreccio semplice e dimesso, che in
    verità non trova un'espressione che non superi sempre la
    mediocrità, ma che ha il pregio della semplicità e
    della sincerità intellettuale, e della modestia. Ciò
    che non è cosa che si incontri ogni giorno nel mercato
    letterario.
    
    I tre atti furono bene accolti, e molti applausi andarono
    specialmente agli attori: il Ruggeri e la Vergani tra gli altri.
    
    (7 febbraio 1917).
    
     
    
     
    
    «Le tre pene di Pierrot» di Berta al Carignano. Edmond
    Rostand ha tirato fuori dal cassetto solo in questi ultimi tempi una
    sua commedia: I due Pierrot, scritta negli anni giovanili. La
    commedia doveva essere rappresentata appena composta, in un teatro
    d'arte parigino, ma quando essa stava per andare in iscena,
    morí Teodoro de Banville, il poeta poco noto ai piú,
    che di Pierrot e delle sue avventure sentimentali aveva scritto
    delicatissime filigrane, bozzetti scenici in cui il lirismo si
    fondeva mirabilmente con l'azione, creando piccoli capolavori di
    espressione linguistica perfetta. Edmond Rostand ebbe rispetto del
    grande morto, e forse ebbe paura del paragone che non poteva
    mancare. La sua rinunzia fu pertanto anche un atto di
    probità. E Augusto Berta che della probità ha fatto in
    tempi non lontani la divisa melensa della sua attività
    letteraria, non ha esitato a presentarsi nella veste di umbra (i
    latini con spirito chiamavano ombre i parassiti) di un grande. La
    sua fregola di letterato mancato e deficiente si è sfogata
    oscenamente su una creazione poetica collettiva che aveva ormai
    trovato anche un'espressione individuale definitiva. E ha cucinato
    sul disgraziato Pierrot un guazzetto disgustoso, che solletica i
    cattivi istinti del pubblico ora con la piú volgare
    galanteria da gabinetto riservato ora con un pruriginoso
    sentimentalismo in versi martelliani in cui di poesia non c'è
    che l'affermazione sazievolmente ripetuta di essere poesia. È
    questa bassa volgarità versaiola che maggiormente offende il
    gusto di chi ha letto il de Banville, questa piatta
    gelatinosità in cui l'amore, la vita, la gelosia, i rapporti
    sessuali, sono visti, concepiti ed espressi come si suole leggere
    nelle pubblicazioni da caserma: «L'amore Illustrato», il
    «Capriccio», o la «Sigaretta». È
    seguíto il solito sistema della tricotimia simmetrica, dei
    tre puntelli legnosi: le tre cene, come ieri erano le tre età
    della pietra, del ferro e dell'oro. L'azione è nulla: Pierrot
    prende moglie; Pierrot sta per essere tradito da sua moglie, Viviana
    la fioraia, col marchese di Priola (altra dolciastra caricatura che
    al brio e allo spirito di don Giovanni della commedia francese
    sostituisce i palpeggiamenti postribolari sotto il tavolo); Pierrot
    che uccide il rivale e poi muore avvelenato dai profumi di un fiore
    orientale, per elezione spontanea. E su questi tre puntelli di
    legno, quanta broda di lasagne, quale disgustoso innaffiamento di
    loia raccolta con lo strofinaccio da tutti gli spurghi poetici della
    letteratura a un soldo. Un vero bazar del cattivo gusto: una amena
    giostra di sproloqui rimati, di scemenze triviali sul vecchio
    repertorio dei motivi poetici. Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno,
    armati di colascione e travestiti da marchese di Priola, da Pierrot
    e da Viviana, non potrebbero dire piú abusati luoghi comuni.
    Ascoltando, il cervello continuava, per sollevarsi dal martirio, il
    lavoro del poeta. Ad affermazioni come queste: – Chi è nato
    all'aria aperta, non regge all'aria chiusa; – a rime come queste: –
    paese e maionese, – gatto e cioccolatto – il mio cervello
    contrapponeva fulgide immagini, che regalo al Berta per la sua
    prossima tricotimia; – la vita è uno spiraglio – or sente di
    mughetto, or puzza d'aglio – o – la vita è una sanguetta –
    chi vuol cavarsi sangue, se la metta, – disposto a mandargli per
    posta le altre che per brevità ometto.
    
    I tre atti del Berta sono stati applauditi. Ha contribuito molto al
    successo una papera di Lyda Borelli (Pierrot), che, a un certo
    punto, sbagliandosi di sesso, ha detto: «sono pronta»
    per «sono pronto». L'intelligenza del pubblico ha colto
    a volo la grazia indefinibile di una papera simile, prova della
    intensa femminilità di una artista come la Borelli, ed
    è scoppiato in una vera ovazione. Sono cose che capitano:
    un'altra commedia ha avuto successo perché a
    «timonata» l'attore aveva sostituito
    «limonata». Il grande attore Tolentino è grande
    specialmente per la fama creatasi dicendo, con inesprimibile
    convinzione: «figlio, io sono tuo padre», invece di
    «padre, io sono tuo figlio», dinanzi a Ermete Zacconi
    truccato da vegliardo. Sono cose che capitano.
    
    Aspettando che venga il giorno di poter precipitare dalla Mole
    Antonelliana simili truffatori di applausi, rileggiamo le
    fantasticherie poetiche su Pierrot, di Teodoro de Banville.
    
    (8 febbraio 1917).
    
     
    
     
    
    In principio era il sesso.. In principio era il verbo... No, in
    principio era il sesso.
    
    Di fronte a determinate manifestazioni dello spirito pubblico, voi
    che avete dei bisogni logici, rimanete in principio sbalorditi. Dato
    come presupposto un certo fatto, ve ne aspettereste un altro che ne
    fosse la conseguenza logica. Vedete che invece questo non si
    verifica e se ne verificano altri non logici al suo posto; vedete
    che entrano in giuoco nuove forze, forze elementari, istintive,
    imponderabili nel calcolo delle probabilità.
    
    Andate ad assistere alle recite della Borelli. Avete ancora le
    orecchie intronate dalle lodi per la Borelli, dalle critiche per le
    audacie di eleganza della Borelli, per la grande efficacia
    drammatica della Borelli. Andate ad osservare la proiezione di una
    film della Borelli. Per una strana fortuna non cadete nel laccio che
    inconsciamente vi è teso. Rimanete padroni di voi stessi.
    Potete stabilire in voi stesso un osservatorio. Osservate. Rimanete
    stupito. Vi pare incredibile. Poi scrollate le spalle e vi ricordate
    che qualcuno all'affermazione: in principio era il verbo, ha
    sostituito l'altra: in principio era il sesso.
    
    Intendiamoci bene. Il sesso come forza spirituale, come purezza, non
    come bassa manifestazione di animalità. Ebbene: bisogna
    studiare il caso Borelli, come un caso di sessualità. Non
    c'è altra via per comprenderlo, per spiegarlo, e anche per
    liberarsene. Non voglio dire che il caso Borelli sia talmente
    pericoloso da domandare l'intervento del famoso ferro chirurgico.
    Tuttavia esso è poco piacevole, e lo smagare un certo numero
    di persone può anche essere utile ai fini di una piú
    perfetta umanità.
    
    Dante ha posto il problema sessuale in termini elevatissimi.
    Nell'episodio di Francesca da Rimini egli dice che la forma
    piú alta della sessualità è data dal fatto che
    l'amore tra due è necessario, è indeprecabile.
    Esistono due metà di un tutto: esse si cercano e quando si
    sono trovate si fondono in una cosa sola. Ora però succede
    questo fatto. Esistono metà che invece di un'altra sola
    metà ne hanno due, tre. Alcune potrebbero essere la
    metà di tutti gli uomini. L'elemento «sesso» ha
    talmente soverchiato in essi tutti gli altri attributi, tutte le
    altre possibilità che diventa una specie di magia
    affascinante.
    
    Tutti gli uomini vi trovano qualcuna delle complementari di se
    stessi, e ne sono suggestionati. È una specie di mistero
    orfico che si viene costruendo inconsciamente.
    
    Orfeo col suono della lira si tirava dietro anche le piante e gli
    animali. Il mito simboleggia il raggiungimento completo della
    suggestione musicale totale, come forza che attrae tutto ciò
    che può essere musicabile. Il fenomeno ha dato luogo a
    qualche creazione letteraria. Guy de Maupassant ha scritto un
    poemetto in cui una donna, «il sesso», attrae a
    sé tutte le creature viventi, che la seguono inconsciamente,
    cosí come seguirebbero un santo o un apostolo che avesse
    saputo trovare la parola piú semplice che ne scuotesse
    l'animo fin dalla radice.
    
    Con le dovute limitazioni, ciò succede per l'attrice Lyda
    Borelli. Questa donna è un pezzo di umanità
    preistorica, primordiale. Si dice di ammirarla per la sua arte. Non
    è vero. Nessuno sa spiegare cosa sia l'arte della Borelli,
    perché essa non esiste. La Borelli non sa interpretare
    nessuna creatura diversa da se stessa. Ella scande semplicemente i
    periodi, non recita. Perciò preferisce le opere in versi, e
    predilige Sem Benelli, il quale scrive per la musica delle parole
    piú che per il loro significato rappresentativo.
    Perciò anche la Borelli è l'artista per eccellenza
    della film, in cui lingua è solo il corpo umano nella sua
    plasticità sempre rinnovantesi.
    
    L'elemento «sesso» ha trovato nel palcoscenico la sua
    moderna possibilità di contatto col pubblico. E ha rapinato
    le intelligenze. Il caso Borelli, se può essere bello per chi
    lo suscita, non è certo confortante per chi vi si lascia
    prendere. L'uomo ha lavorato enormemente per ridurre l'elemento
    «sesso» ai suoi veri limiti. Lasciare che esso di nuovo
    si dilati a scapito dell'intelligenza è prova di
    imbestiamento, non certo di elevazione spirituale.
    
    (16 febbraio 1917).
    
     
    
     
    
    «La canzone della cuna» di Martinez Sierra all'Alfieri.
    La compagnia Sainati, specialista per il repertorio del
    Grand-Guignol, ha messo in iscena, l'altra sera, due novità
    spagnuole che nulla hanno di comune colle solite terrifiche
    produzioni che – con successo del resto – solitamente i Sainati
    eseguiscono. Le due novità ebbero un'accoglienza piuttosto
    fredda dal pubblico poco numeroso che s'era dato convegno
    all'Alfieri.
    
    La canzone della cuna, commedia sentimentale, secondo la definizione
    stessa dell'autore, in due atti, tenta la riproduzione scenica di un
    convento di monache spagnuole nel quale una decina di suore, che si
    sono rifugiate in quel monastero pei soliti motivi inconsolabili,
    sospirano nostalgicamente sul divino volere che le condanna a
    perenne sterilità. A chetare un tantino l'insistente ricordo
    dei fratellini dalle angiolesche manine di latte, pensa un giorno il
    caso, sotto forma di una prostituta, la quale depone nella
    «ruota» del convento, una piccina appena nata. Ne segue,
    naturalmente, grande confusione, ma la figlia del convento viene
    adottata e affidata alle cure particolari di suor Giovanna. Il primo
    atto termina mentre la vergine suora, esaltata di essere... madre,
    dimenticando di pregare colle compagne, guarda e bacia la piccola
    trovatella. Dal primo al secondo atto passano diciotto anni. La
    figlia del convento ha appunto diciotto anni e sta per sposarsi con
    un giovane, pien di vita, che subito dopo le nozze se la
    porterà lontano, oltre l'oceano, nel mondo nuovo. Le suore
    sono tristi, sconfortate. Suor Giovanna tace, ma ha il cuore
    oppresso da una grande pena. La madre adottiva e l'allegra
    trovatella si trovano un istante sole, in un ultimo colloquio, al
    quale assiste pure il fidanzato. La suora raccomanda allo
    sconosciuto che è al di là della grata, la figlia. La
    voce della povera donna trema, è angosciata.
    
    – Siete triste, – chiede l'uomo che scoppia di felicità.
    
    – Sí, molto, – risponde in un singhiozzo la suora.
    
    – Volete venire con noi suor Giovanna? – chiede lo sposo.
    
    – No, no, non posso. È troppo tardi...
    
    Il distacco è doloroso e dopo l'ultimo fervido abbraccio di
    separazione suor Giovanna sviene... mentre le preghiere ricominciano
    al rintocco delle campane del convento.
    
    La trama contiene certo uno spunto poetico e delicato, ma la sua
    concretizzazione scenica non convince e riesce miserevole cosa. Essa
    è stata recitata assai lodevolmente, come avviene per tutto
    quello che rappresenta la compagnia Sainati. Efficace suor Giovanna
    fu la signora Bella Starace Sainati; buone pure nell'interpretazione
    dei singoli personaggi minori: la Lenci e la M. Sainati. Ad Alfredo
    Sainati è affidata una parte di mediocre importanza.
    
    L'altra novità, dei fratelli Quintero: L'ultimo capitolo, non
    ebbe successo. Lo spunto è vecchio e scarsamente
    interessante.
    
    (8 marzo 1917).
    
     
    
     
    
    «All'ombra delle statue» di Duhamel al Carignano.
    All'ombra delle statue è il risultato abortivo della
    contaminazione di due motivi drammatici abusati fino al disgusto:
    «il bastardo» e il «genio che schiaccia gli eredi
    sotto il peso della sua gloria». La novità avrebbe
    dovuto consistere precisamente in questo avvicinamento.
    Perché il figlio del genio, quando viene ad apprendere che
    è un intruso adulterino, non si dispera e non esala ai numi
    tutta la piena dei suoi affetti, ma se ne rallegra quasi
    perché trova finalmente nel fatto rivelatogli la via della
    liberazione, la via per liberarsi dalla tutela postuma del suo
    grande padre putativo, e per uscire dall'ombra della statua alla
    luce della sua personalità vera che col morto non ha niente a
    che fare. Ma questi spunti non hanno trovato nei tre atti alcuna
    espressione drammatica adeguata. Hanno dato la stura a una enorme
    superfluità di parole, di pettegolezzi, di scene disorganiche
    e senza interesse specifico, che hanno fatto zittire l'intiero
    lavoro. Un applauso a scena aperta è stato strappato dalla
    Gramatica, che è riuscita a dare della vivacità e del
    contenuto drammatico alla persona della protagonista.
    
    (9 marzo 1917).
    
     
    
     
    
    «L'amazzone» di Bataille al Carignano. Parentesi
    francese. In Francia hanno creduto necessario far conoscere agli
    italiani la nuova commedia di Henri Bataille, L'amazzone.
    Evidentemente si dà molta importanza a questi tre atti.
    Eppure è del Bataille solito, del Bataille che annega la vita
    nell'oceano del tenerume sentimentale, che esaspera e diluisce due o
    tre spunti drammatici in un oceano di tenerume poetico. È
    cambiato il contenuto: la guerra è diventata il cardine degli
    affetti e dei sentimenti, la guerra con le sue nuove creature
    poetiche, che rinnovano la vita spirituale francese, come ieri per
    Henri Bataille era la provincia che dava gli esempi delle mogli che
    per non tradire si uccidono, a perpetuo scorno delle parigine
    corrotte fino alle midolla. È una nuova donna ideale che
    nell'Amazzone continua il modo antico del commediografo francese. La
    donna che sacrifica la sua felicità presente per non tradire
    un fantasma d'amore passato precisamente come nella Marcia nuziale.
    Con questo di peggio: che nella nuova commedia c'è l'elemento
    esteriore della guerra, che costringe il patriota a dei
    convenzionalismi piú crudi e banali che per il passato.
    
    Un grande successo ha ottenuto la Réjane, con le virtú
    sue della semplicità e della spontaneità.
    
    (12 marzo 1917).
    
     
    
     
    
    Il tramonto di Guignol. Il Guignol italiano sta per morire. Il suo
    nome è strettamente legato a quello della compagnia di
    Alfredo Sainati. La compagnia è diventata, qualche giorno fa,
    di proprietà del milionario esteta Luca Cortese, l'ultimo dei
    dannunziani, e il milionario esteta diventando il proprietario di
    questa e di numerose altre compagnie drammatiche italiane, si
    propone di rinnovare la tradizione teatrale italiana, sostanziandola
    di quattrini e di intendimenti e propositi piú strettamente
    artistici. La morte del Guignol italiano non può tardare a
    venire, se questi propositi del Cortese non cadranno nel baratro
    dell'indifferenza, come altre volte è successo per propositi
    simili.
    
    La storia della fortuna di Guignol è presto raccontata.
    È la storia di quel ragazzo della fiaba che partí per
    il mondo, perché voleva sapere quale fosse il significato
    preciso della banale espressione: «Mi sento venire la pelle
    d'oca». E viaggiò, viaggiò, traversò
    paesi strani, incantati, paesi di briganti, di streghe, di mostri
    favolosi; ebbe avventure, di quelle che si sogliono dire
    raccapriccianti; ma inutilmente: la sua pelle rimase pelle d'uomo, e
    non ne volle sapere di diventare pelle d'oca. E aveva già
    disperato di raggiungere il suo intento e di ritornarsene a casa,
    convinto che la pelle d'oca fosse una spiritosa invenzione per far
    star buoni i bimbi bizzosi, quando un avvenimento di polizia urbana
    pose fine alla sua aspettativa: mentre pensieroso, preoccupato dal
    dubbio di essere un mostro, differente dagli altri uomini, inferiore
    agli altri uomini, perché meno sensibile di loro, fu bagnato
    dalla testa ai piedi da un catino di acqua freddissima. Il miracolo
    fiorí: la sua pelle si corrugò rabbrividendo, e dalle
    sue labbra, spontanea, irresistibile sgorgò la frase:
    «Mi sento venir la pelle d'oca». Guignol sulla scena
    cerca di ricreare lo strano, miracoloso paese delle oche; il paese
    dell'orribile, del raccapricciante, che dovrebbe far sentire ai
    pellegrini che vi viaggiano dei fremiti, dei tuffi al cuore, degli
    scombussolamenti capillari ed epidermici come al tempo in cui i
    serpenti a sonagli al braccio dei megateri passeggiavano ingordi
    sotto gli alberi trasformati in grappoli umani dai primitivi
    aborigeni delle palafitte? Guignol ha fatto del teatro un gabinetto
    spiritico per imbestiare gli spiriti. Il terrore è un istinto
    animalesco, non è un atto dello spirito. Non fa lavorare il
    cervello, Guignol; cerca di scombussolare il sistema nervoso. Ma
    quale persona intelligente si lascia manipolare i nervi a questo
    modo? Guignol vuol far paura; ma le persone intelligenti non hanno
    paura degli occhiacci spiritati. La paura è certamente un
    fatto umano, con tutte le sfumature del terrore, dell'allucinazione
    folle, del delirio. Ma perché essa diventi elemento
    artistico, deve trovare una espressione linguistica che la trasformi
    in atto umano, in elemento drammatico graduato secondo l'importanza
    relativa che essa ha nella vita dell'uomo. Guignol invece ha fatto
    del terrore fisico tutto il dramma della vita dell'uomo; e pertanto
    ha ridotto l'uomo a pura fisica, a pura macchina materiale.
    L'origine marionettistica di Guignol ha avuto questo effetto: ha
    reso marionette anche gli uomini del teatro propriamente detto.
    
    Guignol italiano ha avuto però un merito. È servito a
    creare una compagnia di primo ordine Ha servito a formare degli
    attori eccellenti. La riproduzione plastica del terrore domanda
    intelligenza e studio. Se Guignol non ha valore estetico
    linguistico, ha valore estetico plastico. I suoi interpreti devono
    acquistare, attraverso uno sforzo cosciente e un lavorio interiore
    indefesso, una grande capacità fisica di espressione, una
    capacità di rinnovamento che renda possibile la
    varietà e la novità degli atteggiamenti. Alfredo
    Sainati è riuscito a costituire cosí una compagnia non
    comune per affiatamento e per omogeneità. Egli stesso, e la
    signora Starace Sainati, sono degli attori non comuni, che hanno
    dimostrato di sapere uscire dal repertorio loro speciale,
    conservando tuttavia quelle possibilità drammatiche che hanno
    loro permesso di fare la fortuna di Guignol, anche se gli uomini non
    vogliono diventare delle oche rabbrividenti. E queste
    possibilità drammatiche, affermatesi specialmente in alcune
    rappresentazioni della Fiaccola sotto il moggio, devono appunto aver
    persuaso il milionario esteta Luca Cortese che valeva la pena di
    fare uno sforzo per riconquistare all'arte degli artisti che se
    hanno voluto trovar successo, si sono dovuti adattare a solleticare
    la parte animalesca dell'animale uomo.
    
    Cosí il Guignol italiano sta per morire di morte violenta,
    quantunque lenta e angosciosa, poiché non gli sarà
    possibile di trovare altri interpreti del valore del Sainati.
    L'ultimo dramma del Grand-Guignol sarà pertanto la morte
    stessa di Guignol, già decisa, ma che, per non essere dammeno
    al carattere del personaggio, sarà lentissima come una
    tortura cinese.
    
    (13 marzo 1917).
    
     
    
     
    
    La serata di Emma Gramatica al Carignano. Questa sera al teatro
    Carignano la compagnia di Emma Gramatica rappresenterà per la
    serata della sua prima attrice uno dei capolavori di Enrico Ibsen:
    Casa di bambola. Bisogna essere grati alla Gramatica la quale
    è una delle poche attrici che nella profluvie di lavori
    scadentissimi si ricorda almeno qualche volta di rappresentare
    qualcheduna di quelle opere in cui è realizzato perfettamente
    il dramma moderno, contenuto, vivificato da una profondissima vita
    morale; azione drammatica sincera e spontaneamente omogenea.
    
    (20 marzo 1917).
    
     
    
     
    
    «U' riffanti» di Martoglio all'Alfieri. I tre atti nuovi
    di Nino Martoglio non sono che un seguito di bozzetti scenici senza
    intreccio drammatico, senza alcun approfondimento di carattere,
    senza altra pretesa che non sia quella di dare ad Angelo Musco il
    modo di creare una macchietta esilarante, perché esteriori e
    solamente fisiche sono le possibilità rappresentative della
    commedia. U'riffanti è un traforello di piccola levatura, un
    tenitore del lotto clandestino, che riesce a salvarsi dalle grinfie
    della polizia, dando modo a un delegato di PS di rintracciare gli
    autori e la vittima di un sequestro di persona: la chiave del
    delitto è data dal numero della cabala, numero che i
    superstiziosi banditi hanno costretto la vittima a dare, non
    pensando che potevano diventare termini di corrispondenza segreta.
    La commedia è stata applaudita, e ha fatto molto ridere per
    opera dell'arte di Angelo Musco e delle sue sempre nuove capriole e
    smorfie, esilaranti solo fino a un certo punto.
    
    (21 marzo 1917).
    
     
    
     
    
    La morale e il costume («Casa di bambola» di Ibsen al
    Carignano). Emma Gramatica, per la sua serata d'onore, ha fatto
    rivivere, dinanzi a un pubblico affollatissimo di cavalieri e di
    dame, Nora della Casa di bambola, di Enrico Ibsen. Il dramma
    evidentemente era nuovo per la maggioranza degli spettatori. E la
    maggioranza degli spettatori se ha applaudito con convinzione
    simpatica i primi due atti, è rimasta invece sbalordita e
    sorda al terzo, e non ha che debolmente applaudito: una sola
    chiamata, piú per l'interprete insigne che per la creatura
    superiore che la fantasia di Ibsen ha messo al mondo. Perché
    il pubblico è rimasto sordo, perché non ha sentito
    alcuna vibrazione simpatica dinanzi all'atto profondamente morale di
    Nora Helmar che abbandona la casa, il marito, i figli per cercare
    solitariamente se stessa, per scavare e rintracciare nella
    profondità del proprio io le radici robuste del proprio
    essere morale, per adempiere ai doveri che ognuno ha verso se stesso
    prima che verso gli altri?
    
    Il dramma, perché sia veramente tale, e non inutile
    iridescenza di parole, deve avere un contenuto morale, deve essere
    la rappresentazione di un urto necessario tra due mondi interiori,
    tra due concezioni, tra due vite morali. In quanto l'urto è
    necessario il dramma ha immediata presa sugli animi degli
    spettatori, e questi lo rivivono in tutta la sua integrità,
    in tutte le motivazioni da quelle piú elementari a quelle
    piú squisitamente storiche. E rivivendo il mondo interiore
    del dramma, ne rivivono anche l'arte, la forma artistica che a quel
    mondo ha dato vita concreta, che quel mondo ha concretato in una
    rappresentazione viva e sicura di individualità umane che
    soffrono, gioiscono, lottano per superare continuamente se stesse,
    per migliorare continuamente la tempra morale della propria
    personalità storica, attuale, immersa nella vita del mondo.
    Perché allora gli spettatori, i cavalieri e le dame che
    l'altra sera hanno visto svilupparsi, sicuro, necessario, umanamente
    necessario, il dramma spirituale di Nora Helmar, non hanno a un
    certo punto vibrato simpaticamente con la sua anima, ma sono rimasti
    sbalorditi e quasi disgustati della conclusione? Sono immorali
    questi cavalieri e queste dame, o è immorale l'umanità
    di Enrico Ibsen?
    
    Né l'una cosa né l'altra. È avvenuta
    semplicemente una rivolta del nostro costume alla morale piú
    spiritualmente umana. È avvenuta semplicemente una rivolta
    del nostro costume (e voglio dire del costume che è la vita
    del pubblico italiano), che è abito morale tradizionale della
    nostra borghesia grossa e piccina, fatto in gran parte di
    schiavitú, di sottomissione all'ambiente, di ipocrita
    mascheratura dell'animale uomo, fascio di nervi e di muscoli
    inguainati nella epidermide voluttuosamente pruriginosa, a un altro
    costume, a un'altra tradizione, superiore, piú spirituale,
    meno animalesca. Un altro costume, per il quale la donna e l'uomo
    non sono piú soltanto muscoli, nervi ed epidermide, ma sono
    essenzialmente spirito; per il quale la famiglia non è
    piú solo un istituto economico, ma è specialmente un
    mondo morale in atto, che si completa per l'intima fusione di due
    anime che ritrovano l'una nell'altra ciò che manca a ciascuna
    individualmente: per il quale la donna non è piú
    solamente la femmina che nutre di sé i piccoli nati e sente
    per essi un amore che è fatto di spasimi della carne e di
    tuffi di sangue, ma è una creatura umana a sé, che ha
    una coscienza a sé, che ha dei bisogni interiori suoi, che ha
    una personalità umana tutta sua e una dignità di
    essere indipendente.
    
    Il costume della borghesia latina grossa e piccola si rivolta, non
    comprende un mondo cosí fatto. L'unica forma di liberazione
    femminile che è consentito comprendere al nostro costume,
    è quella della donna che diventa cocotte. La pochade è
    davvero l'unica azione drammatica femminile che il nostro costume
    comprenda; il raggiungimento della libertà fisiologica e
    sessuale. Non si esce fuori dal circolo morto dei nervi, dei muscoli
    e dell'epidermide sensibile.
    
    Si è fatto un grande scrivere in questi ultimi tempi sulla
    nuova anima che la guerra ha suscitato nella borghesia femminile
    italiana. Retorica. Si è esaltata l'abolizione dell'istituto
    dell'autorizzazione maritale come una prova del riconoscimento di
    questa nuova anima. Ma l'istituto riguarda la donna come persona di
    un contratto economico, non come umanità universale. È
    una riforma che riguarda la donna borghese come detentrice di una
    proprietà, e non muta i rapporti di sesso e non intacca
    neppure superficialmente il costume. Questo non è stato
    mutato, e non poteva esserlo, neppure dalla guerra. La donna dei
    nostri paesi, la donna che ha una storia, la donna della famiglia
    borghese, rimane come prima la schiava, senza profondità di
    vita morale, senza bisogni spirituali, sottomessa anche quando
    sembra ribelle, piú schiava ancora quando ritrova l'unica
    libertà che le è consentita, la libertà della
    galanteria. Rimane la femmina che nutre di sé i piccoli nati,
    la bambola piú cara quanto è piú stupida,
    piú diletta ed esaltata quanto piú rinunzia a se
    stessa, ai doveri che dovrebbe avere verso se stessa, per dedicarsi
    agli altri, siano questi altri i suoi familiari, siano gli infermi,
    i detriti d'umanità che la beneficenza raccoglie e soccorre
    maternamente. L'ipocrisia del sacrifizio benefico è un'altra
    delle apparenze di questa inferiorità interiore del nostro
    costume.
    
    Nostro costume. Cioè costume che ha importanza nella storia
    attuale, perché è il costume della classe che è
    della storia stessa protagonista. Ma accanto a esso è un
    altro costume in formazione, quello che è piú nostro,
    perché è della classe cui apparteniamo noi. Costume
    nuovo? Semplicemente costume che si identifica meglio con la morale
    universale, che aderisce tutto alla morale universale, tale
    perché profondamente umana, perché fatta di
    spiritualità piú che di animalità, di anima
    piú che di economia o di nervi e muscoli. Le cocottes
    potenziali non possono comprendere il dramma di Nora Helmar. Lo
    possono comprendere, perché lo vivono quotidianamente, le
    donne del proletariato, le donne che lavorano, quelle che producono
    qualcosa di piú che non siano i pezzi d'umanità nuova
    e i brividi voluttuosi del piacere sessuale. Lo comprendono, per
    esempio, due donne proletarie che io conosco, due donne che non
    hanno avuto bisogno né del divorzio né della legge per
    ritrovare se stesse, per crearsi il mondo dove fossero meglio capite
    e piú umanamente se stesse. Due donne proletarie le quali,
    col consentimento pieno dei loro mariti, che non sono cavalieri ma
    lavoratori semplici e senza ipocrisie, hanno abbandonato la
    famiglia, e sono andate con l'uomo che meglio rappresentava l'altra
    loro metà, e hanno continuato nella antica dimestichezza,
    senza che perciò si creassero le situazioni boccaccesche che
    sono un retaggio piú proprio della borghesia grossa e piccola
    dei paesi latini. Esse non avrebbero grossolanamente riso della
    creatura che la fantasia di Ibsen ha messo al mondo, perché
    avrebbero riconosciuto in lei una sorella spirituale, la
    testimonianza artistica che il loro atto è compreso altrove,
    perché essenzialmente morale, perché aspirazione di
    anime nobili a una umanità superiore, il cui costume sia
    pienezza di vita interiore, escavazione profonda della propria
    personalità e non vile ipocrisia, solletico di nervi
    ammalati, animalità grassa di schiavi diventati padroni.
    
    (22 marzo 1917).
    
     
    
     
    
    «Pensaci Giacomino» di Pirandello all'Alfieri. Questa
    commedia di Luigi Pirandello è tutta uno sfogo di
    virtuosismo, di abilità letteraria, di luccichii discorsivi.
    I tre atti corrono su un solo binario. I personaggi sono oggetto di
    fotografia piuttosto che di approfondimento psicologico: sono
    ritratti nella loro esteriorità piú che in una intima
    ricreazione del loro essere morale. È questa del resto la
    caratteristica dell'arte di Luigi Pirandello, che coglie della vita
    la smorfia piú che il sorriso, il ridicolo piú che il
    comico: che osserva la vita con l'occhio fisico del letterato,
    piú che con l'occhio simpatico dell'uomo artista e la deforma
    per un'abitudine ironica che è l'abitudine professionale
    piú che visione sincera e spontanea.
    
    I personaggi sono di una povertà interiore spaventosa in
    questa commedia, come del resto nelle novelle, nei romanzi e nelle
    altre commedie dello stesso autore. Hanno solo delle qualità
    pittoriche, o meglio pittoresche: un pittoresco caricaturale, con
    qualche velatura di melanconia, che è anch'essa smorfia
    fisica piú che passione. Il protagonista della commedia
    è un vecchio professore di storia naturale, incartapecoritosi
    in 34 anni d'insegnamento: un rudere d'umanità, un detrito,
    senza piú alcuna caratteristica d'uomo all'infuori del
    profilo fisico. Il movente dell'azione, l'unico che si può
    sorprendere, è questo: il prof. Toti, che per tanti anni ha
    servito lo Stato, essendone ricompensato cosí miseramente che
    non ha potuto crearsi una famiglia, vuole ora vendicarsi del
    governo. Prima di morire vuole prendere moglie, una moglie
    giovanissima, per lasciarle in eredità il diritto alla
    pensione, per far pagare al governo in tanti anni di pensione alla
    giovane vedova tutti quei quattrini che egli non ha potuto avere,
    tutti quei quattrini che a lui sono mancati sempre per poter vivere
    veramente, per essere uomo e non macchina d'insegnamento. Giocare al
    governo questo tiro birbone diventa per il prof. Toti l'unica
    ragione dei pochi anni di esistenza che gli rimangono. Ma siccome
    non è un malvagio, non vuole che la moglie soffra, e
    perciò le consente le piú ampie libertà; aiuta
    il suo sostituto nel compito maritale, lo ama come un figlio, e
    incurante di tutto, delle chiacchiere del paese, dei rimbrotti del
    direttore del ginnasio, del ridicolo di cui egli stesso è
    oggetto, va innanzi verso la meta. Giacomino, l'amante di sua
    moglie, vorrebbe sciogliersi dalla situazione in cui è
    impigliato; il prof. Toti si reca a casa sua, gli conduce a casa sua
    il figlioletto, si sbarazza di ogni intralcio, di parenti
    sbigottiti, di sacerdoti moralisti, e perora la causa di sua moglie
    e finalmente riesce a condurre Giacomino nella via del dovere, a
    continuare il suo compito di marito della giovane moglie
    dell'impiegato che vuol vendicarsi del governo senza perciò
    creare altre vittime.
    
    La commedia ha avuto molto successo, Angelo Musco ha fatto della
    figura del prof. Toti una creazione scenica ammirevole per
    sincerità, per misura, per efficacia rappresentativa.
    
    (24 marzo 1917).
    
     
    
     
    
    «Liolà» di Pirandello all'Alfieri. I tre atti
    nuovi di Luigi Pirandello non hanno avuto successo all'Alfieri. Non
    hanno avuto almeno quel successo che è necessario
    perché una commedia diventi redditizia. Ma Liolà
    ciò nonostante rimane una bella commedia, forse la migliore
    delle commedie che il teatro dialettale siciliano sia riuscito a
    creare. L'insuccesso del terzo atto, che ha determinato il ritiro
    momentaneo del lavoro dalle scene, è dovuto a ragioni
    estrinseche: Liolà non finisce secondo gli schemi
    tradizionali, con una buona coltellata, o con un matrimonio, e
    perciò non è stata accolta con entusiasmo; ma non
    poteva finire che cosí come è, e pertanto
    finirà con l'imporsi.
    
    Liolà è il prodotto migliore dell'energia letteraria
    di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a
    spogliarsi delle sue abitudini retoriche. Il Pirandello è un
    umorista per partito preso, ciò che vuol dire che troppo
    spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a sommergersi in
    una palude retorica di moralità inconsciamente predicatoria,
    e di molta verbosità inutile. Anche Liolà è
    passato per questo stadio, e allora esso si chiamava Mattia Pascal,
    ed era il protagonista di un lungo romanzo ironico intitolato
    appunto: Il fu Mattia Pascal, pubblicato verso il 1906 dalla
    «Nuova Antologia» e poi ristampato dal Treves. In
    seguito il Pirandello ha ripensato alla sua creazione, e ne è
    venuto fuori Liolà; l'intreccio rimane lo stesso, ma il
    fantasma artistico è stato completamente rinnovato: esso
    è diventato omogeneo, è diventato pura
    rappresentazione, libero completamente di tutto quel bagaglio
    moraleggiante e artatamente umoristico che lo aduggiava.
    Liolà è una farsa, ma nel senso migliore della parola,
    una farsa che si riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica,
    e che ha il suo corrispondente pittorico nell'arte figurativa
    vascolare del mondo ellenistico. C'è da pensare che l'arte
    dialettale cosí come è espressa in questi tre atti del
    Pirandello, si riallacci con l'antica tradizione artistica popolare
    della Magna Grecia, coi suoi fliaci, coi suoi idilli pastorali, con
    la sua vita dei campi piena di furore dionisiaco, di cui tanta parte
    è pure rimasta nella tradizione paesana della Sicilia
    odierna, là dove questa tradizione si è conservata
    piú viva e piú sincera. È una vita ingenua,
    rudemente sincera, in cui pare palpitino ancora i cortici delle
    querce e le acque delle fontane: è una efflorescenza di
    paganesimo naturalistico, per il quale la vita, tutta la vita
    è bella, il lavoro è un'opera lieta, e la
    fecondità irresistibile prorompe da tutta la materia
    organica.
    
    Mattia Pascal, il melanconico essere moderno, dall'occhio strabico,
    l'osservatore della vita volta a volta cinico, amaro, melanconico,
    sentimentale, vi diventa Liolà, l'uomo della vita pagana,
    pieno di robustezza morale e fisica, perché uomo,
    perché se stesso, semplice umanità vigorosa. E la
    trama si rinnova, diventa vita, diventa verità; diventa anche
    semplice, mentre nella prima parte del romanzo primitivo era
    contorta e inefficace. Zio Simone smania perché vuole avere
    un erede, che giustifichi il tenace lavoro suo che ha accumulato una
    ricchezza: è vecchio, e incolpa la sterilità della
    moglie, che non ha capito che Simone vuole un erede purchessia,
    vuole un bambino a tutti i costi, ed è disposto a fingere di
    essere egli il padre. Una sua nipote, che ha capito gli umori del
    vecchio, ed è stata resa madre da Liolà, propone a
    Simone di diventare egli il padre del nascituro, gli propone di
    farsi credere egli il padre, e il vecchio accetta. La moglie
    legittima viene percossa, viene umiliata, perché non ha fatto
    altrettanto. Per diventare la padrona, fa altrettanto. Zio Simone ha
    un figlio legale. Ma è Liolà che dà vita a
    queste nuove vite, e dà vita alla commedia; Liolà che
    ha sempre la gola piena di canti, che entra sempre nella scena
    accompagnato da un coro bacchico di donne, accompagnato dai suoi tre
    altri figlioletti naturali che sono come dei satiretti che
    ubbidiscono all'impulso della danza e del canto, che sono impastati
    di suono e di danza come le creature primitive dei drammi
    satireschi. Liolà voleva sposare Tuzza, la nipote di Simone,
    prima che fosse imbastito il trucco dell'erede, ora che l'erede
    legale c'è Tuzza vorrebbe essere sposata, ma Liolà non
    vuole, non vuole rinunziare ai suoi canti, alla danza dei suoi
    figlioli, alla vita dionisiaca del lavoro lieto: e il pugnale di
    Tuzza è stroncato dalle sue mani che però non sanno
    l'odio e la vendetta. Ma per il pubblico ci voleva il sangue o il
    matrimonio, e perciò il pubblico non ha applaudito.
    
    (4 aprile 1917).
    
     
    
     
    
    «Non amarmi cosí!» di Fraccaroli al Carignano.
    Gli uomini spiritosi sono una parte molto importante della vita
    sociale moderna: e sono molto popolari. Essi sostituiscono alla
    verità un motto che fa ridere, alla serietà un motto
    che fa ridere, alla profondità un motto che fa ridere.
    L'ideale della loro vita spirituale è il salotto elegante, la
    conversazione fatua e brillante del salotto, l'applauso discreto e
    il sorriso velato dei frequentatori di salotti. Riducono tutta la
    vita al livello di mediocrità spiritosa della vita di
    salotto: molte parole, amabile scetticismo, con qualche leggero
    spruzzo di sentimentalismo malinconico. L'uomo spiritoso è
    diventato ancor piú importante attraverso l'ultima
    incarnazione che hanno subíto i salotti, e cioè nelle
    redazioni dei giornali borghesi. L'uomo spiritoso ha cosí
    allargato la cerchia dei suoi ascoltatori, e ha reso spiritoso
    tutto: la politica, la guerra, il dolore, la vita e la morte,
    ottenendo molti plausi e guadagnando molti quattrini. Arnaldo
    Fraccaroli, che è uno degli uomini spiritosi italiani meglio
    quotati, ha, nell'ultima sua commedia Non amarmi cosí!,
    offerto un brillantissimo esempio del come l'uomo spiritoso riduce
    per il lieto sollazzo dei suoi clienti le cose serie.
    
    Il tema generico è questo: una moglie, alla rivelazione che
    suo marito non la comprende, scatta in una ribellione, si ripiega su
    se stessa, approfondisce il proprio io interiore. Un genio
    drammatico, Ibsen, avrebbe dato a questo dramma il suggello
    definitivo della sua fantasia poetica. Ma Ibsen non era un uomo
    spiritoso, era un artista, che viveva profondamente la vita delle
    sue creature; perciò egli non ha avuto fortuna nei salotti e
    nei teatri che ne sono l'ingrandimento peggiorato. Arnaldo
    Fraccaroli ha corretto Ibsen, lo ha reso piacevole e amabile, lo ha
    latinizzato. Margherita di Fraccaroli è ben piú facile
    a comprendersi di Nora; le motivazioni dell'urto fra marito e moglie
    sono in Fraccaroli alla portata di tutte le anime incipriate:
    Margherita ama male suo marito, è la bambola seccante,
    perché ama troppo, perché sbaciucchia troppo,
    perché non lascia mai solo Luciano, perché, e questo
    è il colmo del paradosso profondissimo, rende troppo facile
    la vita di Luciano, pulendogli le penne, facendogli trovare sempre a
    posto, e nel momento piú opportuno, l'ombrello, il soprabito,
    e le galoches. Luciano dice che Margherita è noiosa, e il
    dramma precipita. Margherita non lascia la casa maritale. L'uomo di
    spirito trova che questa soluzione sarebbe una esagerazione, e i
    salotti aborrono le esagerazioni. Margherita è una complicata
    anima moderna (con svolgimento a lieto fine). Si fa fare la corte da
    un imbecille, ma non per ingelosire il marito: non per nulla essa
    è un'anima complicata. La corte dell'imbecille serve a
    mascherare un altro finto amante, la cui personalità,
    attraverso queste amabili complicazioni, rimane immersa nel buio
    fondo, nel mistero. Ed è questo buio, questo mistero, che
    porta al lieto fine, al ravvicinamento delle due anime: tra esse
    rimane lo sfondo del mistero, la minaccia immanente di un nuovo
    dramma, a rinsaldarle, a farle diventar savie. «Mariti, non
    scherzate, con le armi caricate», è la profonda
    verità che il Fraccaroli instilla nell'anima e nella
    coscienza dei suoi ascoltatori, e la via è facilitata da un
    lubrificante infallibile: la divina melanconia, coi cirri
    sull'orizzonte e il pallido raggio di sole che balugina e imbianca i
    sembianti degli eroi.
    
    L'uomo spiritoso ha raggiunto il suo scopo. Ha trovato nel teatro
    Carignano il salotto di imbecilli meglio disposti a comprenderlo e
    ad applaudirlo. L'uomo di spirito è sempre un uomo fortunato.
    Anche se il suo spirito è passato attraverso tutti i filtri
    di carta del magazzino internazionale, e ne ha conservato tutti i
    tanfi e le muffe: dai filtri di Ibsen a quelli di Pierre Wolf e
    delle sue Marionette.
    
    (5 aprile 1917).
    
     
    
     
    
    «Scuru» di Martoglio all'Alfieri. È la quarta o
    la quinta produzione teatrale italiana sul tema della cecità.
    La prima arrivata a Torino. Ha avuto successo. Ha avuto un grande
    successo. Ma in esso l'opera personale artistica di Nino Martoglio
    non entra affatto. La tragicità è nell'ambiente,
    è nella vita, è nella minaccia che sentiamo immanente
    per migliaia e migliaia di vite. Basta immaginare il fatto
    perché si senta un brivido, basta vedere sulla scena delle
    persone eroiche che presentino in concreto la minaccia, per sentire
    plasticamente, in tutta la sua violenza brutale, la tragedia
    incombente. Nino Martoglio non ha elaborato artisticamente il fatto
    oggettivo. I ciechi di Maurizio Maeterlink sono troppo vivi nella
    memoria per non sentire che Nino Martoglio ha lasciato inerte la
    materia, e che essa vive solo per il travaglio inconsapevole degli
    spettatori, e per la virtú di realizzazione scenica di Angelo
    Musco e dei suoi collaboratori. Lo strappo che il nostro animo
    risente è dovuto tutto all'arte semplice del Musco e del
    Pandolfini. Essi soli dànno al fatto una soggettività:
    l'unica che in questo caso può avere: il brivido corporale,
    la maschera della tragicità.
    
    (7 aprile 1917).
    
     
    
     
    
    «La maschera e il volto» di Chiarelli al Carignano. La
    maschera: il complesso di atteggiamenti esteriori che gli uomini
    assumono sotto lo stimolo della realtà sociale che li
    circonda. La maschera è la patina superficiale del costume,
    della moda, dello snob, il precipitato di tutte le reazioni tra la
    vita individuale e la vita collettiva, tra la vita di un individuo e
    la vita di quella determinata categoria sociale in mezzo alla quale
    l'individuo ha le radici della sua particolare esistenza. Chi riesce
    a strappare dal proprio volto questa maschera, chi riesce a vivere
    non secondo le inconsapute violenze della convenzione sociale, ma
    solo secondo i dettami del proprio io piú profondo, della
    sincerità che pure esiste in fondo alla coscienza di ogni
    individuo? I tre atti di Luigi Chiarelli rappresentano appunto la
    storia di uno di questi individui, le avventure tragicomiche, le
    esperienze interiori ed esteriori di uno di questi individui. Le
    rappresentano in un modo curioso, deformandole, esasperandole,
    esteriorizzandole, con molte parole, con molti particolari, con
    molta convenzione, ma riuscendo tuttavia a raggiungere degli effetti
    di rappresentazione, riuscendo a fondere in un complesso piacevole e
    spiritoso molte banalità, molti luoghi comuni, molte
    affermazioni del senso comune piú comune.
    
    L'autore ha volontariamente costruito la macchina convenzionale che
    regge i tre atti: egli non nasconde la volontà del
    convenzionale, non tende delle trappole al pubblico; il lavoro suo
    è come una campana di cristallo, e lascia trasparire il suo
    volto che sogghigna senza la maschera della falsa serietà
    drammatica e artistica. Il suo lavoro è pertanto opera di
    sincerità, e ha un grande valore per l'educazione estetica
    del pubblico, per correggere il gusto del pubblico, attutito e fatto
    lapposo dalla falsa grandezza e dall'artificio abilmente nascosto
    nel teatro solito. La storia è questa. Il conte Paolo Grazia
    scopre che sua moglie lo inganna, sorprende il flagrante adulterio
    di sua moglie mentre la sua casa è piena di ospiti, e tutti
    gli occhi della società sono fissati su di lui. Il conte
    Paolo è posto come il tipo riassuntivo della maschera sociale
    del marito; tutti conoscono ciò che egli pensa sul modo con
    cui un marito deve comportarsi con la moglie adultera: uccidere;
    l'autore gli ha fatto ripetere a sazietà le idee in
    proposito. Eppure il marito non uccide: il volto incomincia ad
    apparire, ma la maschera è ancora troppo tenacemente
    appiccicata alla pelle. La moglie parte, scompare, e il conte fa
    credere d'averla uccisa, d'averla precipitata nel lago. Si
    costituisce, lo assolvono: l'avvocato che lo difende è
    l'amante di sua moglie. Ritornato a casa riceve l'omaggio di tutte
    le donne, diventa il ridicolo idolo della mondanità. La
    maschera si lacera del tutto: avrebbe dovuto servire ad evitare il
    ridicolo, diventa la calamita di un altro ridicolo, peggiore per chi
    piú sente, per chi è piú raffinatamente se
    stesso. Ma il giuoco deve continuare: un cadavere di donna viene
    trovato nel lago: egli deve riconoscervi sua moglie, deve allestire
    il funerale. La moglie viva ritorna a lui, in quell'istante, e
    mentre il funerale si svolge, un nuovo idillio incomincia, questa
    volta tra due senza maschera, tra due che hanno subíto,
    attraverso le esperienze del proprio dolore, il lavacro salutare
    della patina convenzionale che la società spalma sulle
    coscienze. E il conte deve scappare all'estero, per non essere
    condannato dalle leggi che hanno assolto l'assassino ma punirebbero
    il simulatore del reato. Nei tre atti agiscono altre maschere
    caratteristiche, mariti filosofi, donne adultere, i soliti
    personaggi da commedia, tutti adattati al grottesco centrale, alla
    rappresentazione deformata della vita solita del teatro di maniera,
    resi vivaci dalla volontà costruttrice dell'autore, che con
    molta abilità e molta elasticità d'ingegno li compone
    in modo piacevole.
    
    La commedia ha avuto un successo discreto. Essa si replica. La
    compagnia Talli ne ha dato una interpretazione molto accurata ed
    efficacissima: attori principali il Betrone, la Melato, il Gandusio
    e il Paoli.
    
    (11 aprile 1917).
    
     
    
     
    
    L'industria teatrale. Politeama Chiarella: spettacoli di
    varietà, Cuttica, Spadaro e compagni. Teatro Carignano: il
    miracolo vivente ovverossia il prof. Gabrielli che mette in sacco
    tutti i luminari della scienza. Alfieri: 60a rappresentazione della
    compagnia d'operette di Luigi Maresca. Operette, varietà,
    vaudevilles di Carosio e di Cuneo, fenomeni viventi Fregoli,
    Petrolini, Cuttica, Spadaro e Titina. Torino è diventata una
    fiera, Barnum è diventato il dio tutelare
    dell'attività estetica e del gusto dei torinesi.
    
    Barnum o il consorzio teatrale: Barnum o il trust dei fratelli
    Chiarella. Lo spirito animatore è lo stesso: è lo
    spirito dell'accumulatore di quattrini, cieco, sordo, insensibile a
    tutto ciò che non sia cespite di guadagno. Se domani
    sarà provato che è piú conveniente adibire i
    teatri alla rivendita delle noccioline americane e dei rinfreschi
    ghiacciati, l'industria teatrale non esiterà un istante a
    farsi rivenditrice di noccioline e di ghiacciate, pur mantenendo
    nella ditta l'aggettivo «teatrale».
    
    Fa maraviglia una cosa soltanto: che l'autorità militare,
    cosí fiscale quando si tratta di requisire le scuole o il
    Teatro del popolo di Corso Siccardi, o il teatro Regio, dove non
    vanno e non possono andare che compagnie che veramente vogliono
    offrire al pubblico spettacoli di teatro, utili per l'educazione
    estetica e che rappresentano il soddisfacimento di una
    necessità buona, risparmino invece i teatri gestiti dalla
    ditta Chiarella, che ormai hanno perduto la loro genuina
    caratteristica d'arte e servono allo sfruttamento delle
    velleità di divertimento volgare.
    
    Il trust teatrale a Torino è andato un po' troppo oltre nella
    sua abilità industriale, Torino è completamente
    tagliata fuori dalla vita teatrale italiana. A lontani intervalli vi
    capitano due o tre delle maggiori compagnie drammatiche per una
    stagione straordinaria. Torino dà molto pubblico agli
    spettacoli di varietà, non è mai satura di ritrovi
    equivoci. L'industria teatrale è entrata in concorrenza con
    il varietà, cerca di accaparrarsi la categoria piú
    redditizia di questo pubblico. Persegue cosí il suo fine
    monopolistico. Le compagnie maggiori sono riservate alla provincia,
    ai piccoli centri, dove è naturale gli attori siano pagati
    meno, perché i teatri sono piú piccoli e gli incassi
    sono minori. Il monopolio trionfa. I teatri delle grandi
    città, anche se adibiti a spettacoli di ordine inferiore,
    rimangono redditizi, perché c'è tra i 500 mila
    cittadini quel certo numero di individui che li frequenta lo stesso.
    Gli artisti di varietà sono pagati meno, e il capitale si
    impingua. Nei piccoli centri, è necessario il grande nome per
    attirare la folla; gli artisti sono pagati meno perché la
    piazza è secondaria, e il capitale si impingua allo stesso
    modo. Le grandi compagnie si dissolvono, gli attori sono costretti
    per vivere a dedicarsi al cinematografo; l'industria teatrale,
    monopolizzata, non se ne preoccupa; i suoi affari prosperano
    ugualmente per l'impossibilità della concorrenza, per
    l'abbassamento del livello estetico che fa ricercare lo spettacolo
    di Petrolini o di Cuttica, e non fa rimpiangere le interpretazioni
    artistiche di Ermete Zacconi e di Emma Gramatica.
    
    A Torino però il trust ha esagerato nella sua abilità
    industriale. Non sarebbe male che alla autocrazia del capitale
    monopolizzato si contrapponesse un'altra autocrazia. Quale ragione
    superiore può ormai piú oltre far considerare
    intangibili i teatri della ditta Chiarella, mentre i locali
    scolastici sono ritenuti tangibilissimi, e tangibilissimo è
    stato il Teatro Regio?
    
    Petrolini, Cuttica, Spadaro e soci avevano i loro ambienti naturali.
    Quale superiore ragione artistica deve piú oltre permettere
    che la città di Torino diventi un feudo del varietà?
    È doloroso dover ammettere che in una grande città
    debba essere ristabilito il buon costume da un provvedimento
    autoritario. Ma è purtroppo cosí. Le esagerazioni del
    monopolio non possono che essere frenate dai calmieri di Stato.
    
    (28 aprile 1917).
    
     
    
     
    
    L'industria teatrale. Riceviamo dal sig. Giovanni Chiarella:
    «Mi rivolgo alla lealtà di V. S. per rettificare le
    varie inesattezze contenute nell'articolo Industria teatrale apparso
    nel suo giornale il 28 corrente. Il male informato articolista
    vorrebbe asserire che la nostra ditta ha danneggiato lo sviluppo
    artistico teatrale di Torino escludendo o limitando la presentazione
    delle buone compagnie.
    
    «Orbene: dall'ottobre 1916 a oggi ecco i nomi delle compagnie
    che agirono nei nostri teatri: compagnie di prosa: Tina di Lorenzo e
    Armando Falconi – Lyda Borelli e Ugo Piperno – Emma Gramatica –
    Ermete Novelli – Talli, Melato, Betrone, Gandusio – Ruggero Ruggeri
    – Alfredo De Sanctis – Dina Galli e Amerigo Guasti – Carini,
    Gentilli, Baghetti, Dondini – Sichel e soci – Sainati – Tempesti –
    Musco. Tina Bondi. Compagnie di operetta: Lombardo n. 1 –
    Città di Milano Lombardo n. 2 – Maresca – Vannutelli.
    
    «Sono dunque 14 compagnie di prosa e 5 di operetta. Totale 19
    primarie compagnie. Quasi tutte quelle che la guerra lasciò
    in piedi si sono avvicendate nei nostri teatri nello spazio di nove
    mesi. Si chiama questo tagliar fuori una città dal movimento
    teatrale?
    
    «Agli spettacoli dati da compagnie costituite devonsi
    aggiungere le stagioni liriche e dal settembre scorso nei nostri
    teatri si rappresentarono piú che decorosamente 21 opere.
    
    «Non parlo delle varie conferenze, concerti e compagnie
    francesi. Di fronte a questo importante svolgersi di spettacoli
    primari, che può essere sempre documentato, l'articolista
    male informato si scaglia contro di noi perché ci siamo
    permessi in giugno di far agire al Politeama Chiarella, Fregoli e
    Cuttica, e al Carignano Gabrielli e non sapendo o non ricordando
    vorrebbe accusarci di aver ridotto Torino a città tagliata
    fuori dal movimento teatrale, ridotta, dice, a ospitare soltanto due
    o tre buone compagnie. Coi dati di fatto, facile è stata la
    nostra smentita, e alla taccia di affaristi risponderemo affermando
    senza tema di smentita, che in nessuna città di primo ordine
    come a Torino i prezzi rimasero modesti. Ed è notorio che i
    nostri teatri sono aperti costantemente e del tutto gratuitamente a
    tutte le opere di beneficenza.
    
    «E per rispondere ancora a un'inesattezza, diremo che in
    nessuna città come a Torino la requisizione ha infierito sui
    teatri, poiché senza il municipale teatro Regio tre teatri di
    imprese private furono occupati dall'autorità militare e
    cioè il Balbo, il Vittorio Emanuele e il Torinese.
    
    «Confidando nell'imparzialità della S. V. per la
    pubblicazione della presente, ossequi».
    
     
    
    Il signor Chiarella fa sfilare i nomi delle compagnie primarie che
    sono passate nei suoi teatri dall'ottobre 1916 al giugno 1917, e la
    coroncina dei nomi sembrerebbe dargli ragione. Se egli avesse
    incluso per i suoi calcoli gli ultimi due anni, avrebbe ancor di
    piú avuto ragione. Ma noi non volevamo fare il processo della
    attività industriale della ditta Chiarella sua vita natural
    durante. Volevamo constatare una tendenza che si è
    manifestata in questa attività nel 1917, si è
    acutizzata nel trimestre aprile-giugno, e temiamo voglia diventare
    definitiva sistemazione d'affari. La preoccupazione ha una legittima
    ragione d'essere. A Torino c'è molta gente che frequenta i
    pubblici spettacoli. Constatiamo il fatto, senza tentare di darne
    una qualsiasi spiegazione. Questa sempre maggior affluenza di
    pubblico agli spettacoli ha fatto fiorire in modo indecoroso i
    ritrovi di infimo ordine. La ditta Chiarella, che ha il monopolio
    dei teatri torinesi, contribuisce a questo abbassamento di livello
    del gusto generale. Si nota la tendenza, nel criterio degli affari
    della ditta, di sfruttare questa mania del varietà, invece di
    indirizzarla a forme superiori di spettacoli. Dall'aprile al giugno,
    i teatri dei Chiarella hanno ospitato una sola compagnia di prosa
    per una stagione ordinaria, ed è, neppure a farlo apposta, la
    compagnia di Sichel, che dà spettacoli dello stesso livello
    degli spettacoli di varietà. Nel mese di aprile ci sono state
    anche altre compagnie, ma per recite straordinarie: Musco, 5 giorni,
    Talli-Melato, 15 giorni, Novelli, 5 giorni. In questo trimestre i
    teatri torinesi hanno accolto in prevalenza varietà e
    operette: due mesi della compagnia Maresca, recite della compagnia
    Lombardo, Città di Milano e Parigi, poi Petrolini
    all'Alfieri, cinematografo all'Alfieri, Zambi allo Scribe, Gabrielli
    al Carignano, Fregoli e Cuttica al Chiarella. Nei due mesi di maggio
    e giugno, solo 10 recite di una compagnia di prosa rispettabile, se
    non primaria, la compagnia di Tina Bondi.
    
    Il signor Chiarella dice che lo abbiamo tacciato di affarista. Egli
    è semplicemente un uomo d'affari, che trova nel monopolio il
    metodo piú sicuro di raggiungere i suoi fini. Gli affari in
    regime di monopolio, si deformano fatalmente, cosí come si
    sono deformati quelli della sua industria teatrale. Il monopolio
    è portato persino a distruggere dei valori economici, e fa
    sviluppare delle forme contorte e dannose di speculazione: dannose,
    s'intende, per la collettività, non per il capitalista, e per
    questo non dannose solo immediatamente. Il trust del consorzio
    teatrale ha già escluso dai teatri di Torino Ermete Zacconi;
    ora anche Emma Gramatica è caduta in ostracismo. Per esso le
    compagnie di prosa si vanno lentamente disgregando, perché,
    se vogliono vivere e lavorare, devono passare sotto le forche
    caudine dei patti, delle ingerenze, dei repertori, che il consorzio
    impone. Il teatro ha una grande importanza sociale: noi ci
    preoccupiamo della degenerazione di cui è minacciato per
    opera degli industriali, e vorremmo reagire, per quanto ci è
    possibile, a essa. C'è un gran pubblico che vuole andare a
    teatro: l'industria lo sta lentamente abituando a preferire lo
    spettacolo inferiore, indecoroso, a quello che rappresenta una
    necessità buona dello spirito.
    
    Dato questo nostro atteggiamento, preghiamo il signor Chiarella di
    credere che non vogliamo affatto contribuire a spingere alla
    requisizione dei suoi locali. Ci pare che sia la sua ditta stessa a
    offrire l'occasione di una misura del genere. Il Balbo, il Torino,
    il Vittorio furono requisiti appunto perché da un pezzo non
    si aprivano piú a spettacoli teatrali degni del nome. Il
    teatro Vittorio, gestito dai Chiarella, si chiuse il 23 ottobre dopo
    una stagione teatrale del circo equestre Bisini e fino al giorno
    della requisizione si aprí solo a lunghissimi intervalli per
    qualche spettacolo lirico secondario. È questo il pericolo
    dell'industria monopolizzata: essa fa affari, anche svalorizzandosi
    in un certo mercato, anche distruggendo i suoi valori: se ne
    rifà in altri mercati, senza preoccuparsi del disordine che
    crea, delle tendenze morbose che determina. E non c'è modo di
    farlo con mezzi economici. Saremmo lieti se a qualcosa servisse la
    protesta dei giornali. Che se poi il trust Chiarella desidera che si
    parli delle concessioni fatte per gli spettacoli di beneficenza noi
    non avremmo alcuna difficoltà: solo che il discorso sarebbe
    lungo e... pericoloso!
    
    (4 luglio 1917).
    
     
    
     
    
    Ancora i fratelli Chiarella. Il signor Giovanni Chiarella ci invia
    una seconda lettera di recriminazioni che non riescono a far mutare
    le nostre convinzioni. Egli vuole che si faccia notare ai nostri
    lettori che le compagnie Musco e Novelli continuavano nel mese di
    aprile corsi di recite iniziati nel mese di marzo, cosí che
    non appaia che essi siano venuti a Torino per soli cinque giorni.
    Desidera pure che sia ricordato che la compagnia Talli nello stesso
    aprile tenne 28 serate. Ciò non toglie naturalmente che nei
    due mesi di maggio e giugno i teatri dei Chiarella abbiano accolto
    in prevalenza spettacoli di infimo ordine, mentre a Milano, a Roma,
    a Bologna, a Firenze, contemporaneamente, la vita teatrale aveva ben
    altro svolgimento. Non fummo i soli a osservare il fenomeno: altri
    giornali di Torino ripeterono le cose da noi scritte.
    
    Quanto all'opera deleteria del trust, il Chiarella si appella ai
    capocomici italiani. Perché appaia però che le nostre
    osservazioni non erano campate in aria, riportiamo un brano della
    lettera aperta con cui Marco Praga, presidente della Società
    italiana degli autori, ha indetto un convegno di capocomici per il 9
    luglio:
    
    «Piú voci sono giunte a noi, e voci degne d'essere
    ascoltate, sia che venissero dai piú eletti e dai piú
    umili.
    
    «Dicono alcuni capocomici: s'è formato uno stato di
    cose pel quale l'esercizio della nostra industria è reso
    troppo difficile, troppo rischioso, se non addirittura impossibile.
    Ci sono imposti contratti stranamente onerosi. C'è chi
    s'immischia nella formazione delle compagnie, senza diritto. Il giro
    delle compagnie è forzoso, ed è subordinato non
    all'interesse dell'arte e dell'industria teatrale, ma a quello
    soltanto di chi tiene in suo potere l'agibilità e la
    disponibilità dei principali teatri nelle città
    principali. E aspre polemiche e dibattiti dolorosi si sono svolti,
    su questo argomento, né ebbero ancor fine.
    
    «Dicono i comici: lunghi anni di lotta ci avevano fatto
    ottenere equi patti di scritture, con l'abolizione di certe clausole
    viete e sommamente pericolose per noi, e la concessione di tali
    garanzie che ci assicuravano un pane modesto dandoci quella
    tranquillità di vita che è indispensabile al miglior
    esercizio dell'arte nostra. Ed ora d'un tratto, tutto ci fu ritolto;
    e ci fu ritolto in un momento grave della vita nazionale, in un
    periodo di crisi quale mai fu attraversato dal teatro italiano. O
    vivere di ansie e di stenti, o disertare, per rifugiarsi su quella
    scena muta che non può dare soddisfazioni al nostro amor
    proprio, ma che ci offre un pane meno incerto e meno duro.
    
    «Dicono alcuni proprietari o conduttori di teatro: Non
    è manía di monopolio che ci guida, non è
    manía di accentramento in nostre mani della industria
    teatrale, e non è un'egemonia a nostro solo profitto che noi
    vogliamo creare. Ma è il desiderio e il bisogno di
    disciplinare l'esercizio di questa industria teatrale, disciplina
    dalla quale non possono derivar danni, ma, anzi, debbono scaturire
    maggiori fortune per l'arte.
    
    «E dicono, infine, altri proprietari o conduttori di teatro:
    Noi potremmo e vorremmo offrire condizioni contrattuali piú
    favorevoli ai capocomici, e non temeremmo la leale concorrenza fra
    teatro e teatro di una stessa città. Ma per ragioni troppo
    evidenti dobbiamo seguir la corrente, dobbiamo uniformarci alle
    disposizioni o ai consigli di chi ha in mano la maggior somma degli
    interessi teatrali, né possiamo agire se non con il consenso
    e per il tramite delle agenzie».
    
    Del resto basterebbe ricordare le lettere che Ermete Zacconi (cui
    pure il Chiarella si rivolge nella sua lettera) ha inviato ai
    giornali in varie occasioni, e la recente campagna degli organi
    giornalistici del trust contro Emma Gramatica.
    
    È questo che a noi importa piú di tutte le
    statistiche, di tutti i calendari che il Chiarella volge a suo
    favore, non potendo smentire i fatti che a Torino si chiamano
    Petrolini, Bambi, Cuttica, Spadaro, Gabrielli, nello stesso tempo in
    cui nelle altre città si chiamano coi nomi delle compagnie
    drammatiche. Che i Chiarella cerchino di armonizzare il desiderio di
    non essere in deficit, con l'esplicazione di un alto ideale
    artistico, è cosa che vogliamo vedere nella realtà e
    non solo nell'affermazione generica scritta per i giornali. La
    realtà di questi ultimi due mesi è stata tale da
    rendere giustificato l'appunto da noi mosso. Il resto è
    minutaglia inconcludente.
    
    Infine il signor Chiarella propone di sottoporre l'opera da lui
    prestata per la beneficenza all'esame e al giudizio dei probiviri
    della stampa. Non vediamo l'importanza dell'esame e del giudizio.
    Perché il signor Chiarella si tranquillizzi e per evitare un
    cumulo di beghe e di fastidi perfettamente pleonastici, siamo
    disposti a riconoscere che il signor Chiarella ha fatto tutto
    ciò che ha potuto fare, come uomo d'affari, per la
    beneficenza!!
    
    (8 luglio 1917).
    
     
    
     
    
    L'industria teatrale. A Milano si sono radunati a convegno, nei
    giorni scorsi, i rappresentanti delle tre categorie interessate
    all'industria dei teatri: i proprietari, i capocomici di prosa e
    d'operetta, e gli scritturati. Il convegno era patrocinato dal
    presidente della Società degli autori, per cercare di
    appianare pacificamente le questioni sorte fra il trust dei
    proprietari di teatro e quelli che per il teatro lavorano. Tempo
    sprecato. Le questioni non furono appianate, i proprietari non
    cedettero di una linea: ma il signor Giovanni Chiarella
    continuerà tuttavia ad appellarsi alla testimonianza dei
    capocomici italiani perché documentino il suo illuminato
    mecenatismo.
    
    I capocomici domandavano il ritorno puro e semplice alle condizioni
    contrattuali anteriori alla costituzione del trust: 1) abolizione
    della propina tre per cento sull'introito di ogni spettacolo,
    imposta dal trust a favore dell'agenzia Paradossi; 2) abolizione
    delle prelevazioni, nel senso che tutti i posti vendibili nei teatri
    abbiano a figurare nei bordereaux a comune profitto dei capocomici e
    dei proprietari di teatro, eliminandosi l'inconveniente che una
    parte dell'introito rimanga a profitto dei soli proprietari; 3)
    ripartizione proporzionale su ogni spettacolo dell'ammontare degli
    affitti annui per palchi e barcacce, affitti che ora vanno a totale
    ed esclusivo beneficio dei proprietari; 4) riscaldamento a carico
    dei proprietari di teatro; 5) tassa serale a carico dei proprietari
    di teatro; 6) per le compagnie d'operetta le spese di orchestra a
    carico dei proprietari di teatro.
    
    I proprietari non accettarono nessuna di queste proposte, sebbene
    fossero accompagnate da questi due compensi: 1) estensione a tutti i
    teatri dell'aumento del 10 per cento sul prezzo dei biglietti dei
    palchi e posti distinti già praticato in molti teatri e
    devoluzione dell'aumento a esclusivo vantaggio dei proprietari per
    compensarli dell'aumentato prezzo del carbone e dell'aumentata tassa
    teatrale; 2) riduzione del 5 per cento della percentuale sugli
    introiti serali devoluta finora ai capocomici. I proprietari invece
    fecero delle controproposte che miravano a far sorgere degli attriti
    fra capocomici e scritturati. Non vi riuscirono. Se il convegno
    è servito a qualcosa, è perché ha determinato
    un avvicinamento tra le tre categorie che sono direttamente
    danneggiate dal trust: gli autori, i capocomici e gli scritturati. I
    capocomici hanno concesso agli scritturati un nuovo contratto di
    locazione d'opera, contratto unico, paga annuale senza stagioni
    morte.
    
    Certo non basterà questo principio d'accordo per scompaginare
    il trust e ovviare alla sua azione, deleteria per l'arte, e
    strozzinesca in confronto di quelli che lavorano. Il trust ha
    possibilità di rivalsa, contro le quali solo lo Stato
    potrebbe intervenire. Esso può boicottare subdolamente gli
    artisti drammatici, e aprire i suoi locali solo al cinematografo, a
    Petrolini, a Cuttica, a Gabrielli. Il signor Giovanni Chiarella si
    è fieramente adirato quando noi abbiamo constatato i primi
    effetti dell'industrialismo monopolistico a Torino. Le stesse cose
    scrivono ora, dopo l'esperienza del convegno di Milano, anche altri
    giornali. E usano precisamente quel linguaggio, per il quale il
    Chiarella ha creduto che lo si tacciasse di volgare affarismo.
    Riportiamo un brano di uno di questi articoli, scritto in un
    giornale, che, caso bellissimo, mentre è protezionista per
    l'industria propriamente detta, è liberista e avversario dei
    monopoli per l'industria teatrale, l'unica che studi e svisceri con
    criteri non amministrativi:
    
    I proprietari di teatro sono riuniti in consorzio su basi
    commerciali e industriali: essi tutelano i propri interessi
    esclusivamente: dell'arte se ne infischiano. Pensar che a un tratto
    questa gente si trasformi in un'accolta di mecenati o di persone che
    si accorgano di non speculare su delle scarpe, sarebbe
    ingenuità.
    
    Il consorzio oltre aver determinato anche nei teatri di provincia
    non consorziati aumento di prelevazioni, e aver fatto salire il
    prezzo dei teatri, finisce col tutelare male anche i propri
    interessi spinto da necessità insite nella sua natura.
    
    Esso infatti, smanioso di accaparrarsi quanti piú teatri gli
    è possibile, è diventato e diventa proprietario di
    teatri di secondo e terz'ordine, che non rendono niente, e che
    rimangono chiusi gran parte dell'anno. E allora escogita quei mezzi
    balordi del cinematografo, dei visionisti, degli spettacoli
    sportivi, dei vari Petrolini, in modo da diminuirne anche la
    secondaria importanza, di sviarne il pubblico, di ridurli a dei
    locali buoni a tutto, come le sale superiori dei caffè: per
    nozze, banchetti, feste da ballo e altro. Anzi, è
    precisamente un criterio da caffettiere che ispira il consorzio, il
    quale è sempre in caccia del genere o dell'individuo che
    piace al pubblico e domani – logicamente – farebbe qualsiasi
    qualità di spettacolo se non ci fossero i vincoli delle leggi
    sulla moralità, sul giuoco e su altre miserie. È
    facile intuire in quali condizioni si trova l'arte drammatica alla
    mercé di costoro.
    
    Tolte due o tre compagnie favorite, perché attirano gente, le
    altre che pure l'attirerebbero se potessero recitare durante le
    stagioni migliori, sono forzatamente escluse da ogni
    possibilità di far bene; e siccome raramente il valore
    commerciale coincide col valore artistico, il consorzio favorisce il
    primo a tutto danno del secondo? Senza contare poi che esso grava
    sui capocomici in modo da rendere loro difficile la gestione della
    compagnia e da determinarli a rappresentazioni solleticanti i
    piú volgari gusti del pubblico, anche nei teatri frequentati
    da persone colte, intellettuali e pronte a qualsiasi visione di
    bellezza.
    
    (17 luglio 1917).
    
     
    
     
    
    Continuazione della vita. Entrare e uscire. Bisogna abolire le due
    parole. Non si entra, né si esce: si continua. Incomincio ad
    ammirare il genio industriale dei fratelli Chiarella. Incomincio a
    credere che i loro criteri siano gli unici criteri possibili a
    Torino. Torino ha il teatro che si merita: esso è lo specchio
    della sua anima, della sua vita.
    
    Sichel, che si maschera da cretino, e ripete sempre lo stesso gesto,
    e ripete sempre la stessa frase idiota, e tuttavia fa sganasciare di
    giocondità, è la persona seria, è il pater
    conscriptus, è il commendatore Usseglio della vita torinese.
    Non basta il consiglio comunale: al Carignano hanno aperto la
    succursale. La finzione conquista la vita: non c'è piú
    finzione e vita, c'è solamente la gelatinosa realtà
    torinese, e tutto diventa bigio, tutto diventa piatto e volgare.
    
    Cirano diventa il cav. Serafino Renzi. Hanno riaperto il teatro
    Balbo perché Cirano si ripresentasse in questa sua ultima
    truccatura. Il giocoliere si è vestito da Cirano, e sbava
    poesia e agita il pennacchio. È il Cirano da Porta Palazzo,
    è il Cirano che scrive sui giornali, che ogni giorno si
    arrovella il piccolo cervello da pulce castrata, e inventa nuove
    trame e scopre, smente, riconferma nuovi colloqui, e nomina nuovi
    generali ai 55 barabba, e gira su se stesso, orgoglioso e ammirato
    del suo roteare. Cirano dello Scribe, Cirano del cav. Renzi, sotto
    il pennacchio, sotto la volgarità del tuo ultimo trucco, tu
    continui le gesta di Francesco Rèpaci, continui le gesta di
    Mario Gioda. Hai anche tu aperto una succursale a Porta Palazzo, ti
    vedremo passeggiare al chiaro di luna in compagnia del cav. Bonvito,
    la tua Rossana, e sbavare lunghi racconti di intrighi romanzeschi, e
    dare prove di complotti e poi soffregarti le mani soddisfatto:
    provino che non è vero, provino che è inventato.
    Povero Cirano quanto schifo per la tua finzione, e per la tua vita
    sdrucciolata nelle lubricità delle latrine follaiole. I
    fratelli Chiarella hanno veramente del genio. Ti hanno preso per il
    naso e ti espongono nella loro vetrina: sanno fare i loro affari:
    Torino, hai il teatro che ti meriti.
    
    Sichel, Renzi, il Trovatore, i Pagliacci, l'operetta tutta da
    ridere: realtà gelatinosa: lo sberleffo e il gemito
    sentimentale, la finzione della falsità inzuccherata e la
    vita dei tuoi angiporti: Cirano che dà il braccio al
    questurino, il libertario che scrive l'apologia del deputato
    commissario di polizia. Il teatro non è che la continuazione
    della tua vita, e la tua vita è tutta nel libro nero della
    polizia.
    
    (11 settembre 1917).
    
     
    
     
    
    Contrasti. Una cavallerizza, una moglie adultera, una fanciulla
    ingenua, un marito sordo e grottesco, due giovanotti eleganti e
    stupidi, un imbroglione foderato di tutte le grossolanità. I
    sette personaggi giocano a rincorrersi, a infinocchiarsi
    reciprocamente: dicono una infinità di scempiaggini, la loro
    vita è tutta una scempiaggine. Sichel e soci ripetono molto
    bene le scempiaggini: le ripetono con tanta sicura medesimezza, che
    si comprende benissimo non sarebbero capaci di ripetere altrettanto
    bene le cose intelligenti. Si annega nella sciocchezza. Un'atmosfera
    palpabile di bestialità si forma nella sala dell'Alfieri:
    promana dai visi ridenti, dagli occhi lucidi, dalle brevi e nervose
    risate degli spettatori: si diffonde grossa e pesante dagli attori,
    dal palcoscenico. Neppure un brivido di umanità, di
    spiritualità. Eppure questi spettatori non sono dei grezzi
    ammassi di carne e ossa fasciati di epidermide. Si commuovono, hanno
    la possibilità di commuoversi. Negli intervalli, aggruppati
    nella breve saletta dei fumatori, ammutoliscono, impietriscono, si
    schiacciano contro le pareti per lasciar che un giovane passeggi,
    con gli occhiali neri, in divisa, barcollante al braccio di un
    amico, incerto delle relazioni di spazio, come lo è ancora
    chi è sprofondato nel buio da poco, con le pupille abbruciate
    da uno scoppio di gas esplodenti, da un soffio di gas velenosi. Un
    velo di malinconia impallidisce questi spettatori, essi possono
    sentire l'umanità, possono comprendere il dolore, possono
    atteggiare il volto alla serietà, possono sentirsi velare gli
    occhi di cupa tristezza. Eppure, quando il velario si apre, e le
    ridicole caricature di uomini e di donne del palcoscenico riprendono
    a mettere in azione la loro macchina, i volti si distendono alla
    gaiezza ebete, e l'atmosfera di bestialità si aggrava e
    appesantisce. Le scempiaggini si rincorrono, si ammucchiano in
    immondezzai colossali, traboccanti goffamente. La gagliofferia ha il
    sopravvento assoluto sulla intelligenza, dilaga negli applausi, si
    approfondisce in risatine di compiacimento: continua a perseguitarci
    nei vapori putridi della sera, nelle nebbiosità dell'autunno
    che si avvicina.
    
    (3 ottobre 1917).
    
     
    
     
    
    «Cosí è (se vi pare)» di Pirandello. La
    verità in sé non esiste, la verità non è
    altro che l'impressione personalissima che ciascun uomo ritrae da un
    certo fatto. Questa affermazione può essere (anzi è
    certamente) una sciocchezza, un pseudogiudizio emesso da un facilone
    spiritoso, per ottenere con gli incompetenti un successo di
    superficiale ilarità. Ma ciò non importa.
    L'affermazione può dare luogo a un dramma lo stesso: non
    è detto che i drammi succedano per ragioni logicissime. Ma
    Luigi Pirandello non ha saputo trarre dramma da questa affermazione
    filosofica. Essa rimane esteriorità, essa rimane giudizio
    superficiale. Dei fatti si svolgono, delle scene si susseguono. Non
    hanno altra ragion d'essere che questa: la curiosità
    pettegola di un piccolo mondo provinciale. Ma neppure essa è
    una vera ragione, una ragione necessaria e sufficiente di dramma; e
    non è neppure motivo a rappresentazione viva e artistica di
    caratteri, di persone vive che abbiano un significato fantastico, se
    non logico. I tre atti di L. Pirandello sono un semplice fatto di
    letteratura, privo di ogni connessione drammatica, privo di ogni
    connessione filosofica: sono un puro e semplice aggregato meccanico
    di parole che non creano né una verità, né una
    immagine. L'autore li ha chiamati parabola: l'espressione è
    esatta. La parabola è un qualcosa di misto tra la
    dimostrazione e la rappresentazione drammatica, tra la logica e la
    fantasia. Può essere mezzo efficace di persuasione nella vita
    pratica, è un mostro nel teatro, perché nel teatro non
    bastano gli accenni, perché nel teatro la dimostrazione
    è impersonata in uomini vivi, e gli accenni non bastano
    piú, e le sospensioni metaforiche devono scendere al concreto
    della vita, perché nel teatro non bastano le virtú
    dello stile per creare bellezza, ma è necessaria la complessa
    rievocazione di intuizioni interiori profonde di sentimento che
    conducano a uno scontro, a una lotta, che si snodino in una azione.
    
    La dimostrazione è fallita nella parabola di Pirandello. La
    verità in sé non esiste, esiste l'interpretazione che
    di essa dànno gli uomini. L'interpretazione è vera,
    quando di un fatto rimangono tali documenti da permettere agli
    uomini di buona volontà la vera interpretazione. Del fatto
    che dà luogo alla parabola esistono solo due
    testimoni-documenti: e i due sono interessati al fatto, e non
    appaiono che esteriormente, nell'apparenza sensibile che si sviluppa
    da motivi che rimangono inesplorati. In un paese di provincia
    arrivano tre personaggi superstiti del terremoto della Marsica:
    marito, moglie e una vecchia. La loro vita è circondata di
    mistero. Il mistero solletica tutte le curiosità pettegole
    del paese: si ricerca, si indaga, si fa intervenire
    l'autorità. Nessun risultato. Il marito sostiene una cosa, la
    vecchia un'altra, uno lascia credere che l'altra sia pazza: chi ha
    ragione? Il signor Ponza sostiene d'essere vedovo di una figlia
    della signora Frola, d'essersi riammogliato, e di tenere con
    sé (nello stesso paese, ma in diversa casa) la Frola solo per
    un sentimento di pietà, perché la poveretta, impazzita
    alla morte della figliola, crede che la seconda signora Ponza sia
    sua figlia, sempre viva. La signora Frola sostiene che il Ponza
    abbia avuto in un certo momento della sua vita un oscuramento della
    ragione: che in quel periodo gli sia stata sottratta la moglie e che
    egli l'abbia creduta morta, e non si sia voluto ricongiungere con
    lei che in seguito a un nuovo matrimonio simulato, dandole un altro
    nome, credendola un'altra persona. I due separatamente sembrano
    saggissimi, messi a confronto, devono risultare in contraddizione,
    sebbene reciprocamente operino come se veramente uno faccia la
    commedia per pietà dell'altro. Quale è la
    verità? Chi dei due è il pazzo? Mancano i documenti:
    il paese loro d'origine è distrutto dal terremoto, chi
    potrebbe informare è morto. La moglie del Ponza fa una breve
    apparizione, ma l'autore preso nell'incanto della sua dimostrazione,
    ne fa un simbolo: la verità che appare velata, e dice: io
    sono l'una e l'altra cosa, io sono ciò che si crede io sia.
    Uno sgambetto logico semplicemente. Il vero dramma l'autore l'ha
    solo adombrato, l'ha accennato: è nei due pseudopazzi che non
    rappresentano però la loro vera vita, l'intima
    necessità dei loro atteggiamenti esteriori, ma sono
    presentati come pedine della dimostrazione logica. Un mostro
    pertanto, non una dimostrazione, non un dramma, e come residuo, del
    facile spirito e molta abilità scenografica.
    
    Hanno interpretato i tre atti la Melato, il Betrone, il Paoli, il
    Lamberti con molta vivacità e abilità dialogica. Pochi
    applausi a ogni chiusura di velario.
    
    (5 ottobre 1917).
    
     
    
     
    
    Annibale Betrone («La Satira e Parini» di Ferrari al
    Carignano). Annibale Betrone ha scelto, per la sua serata, la
    commedia di Paolo Ferrari: La satira e Parini. Scelta poco felice.
    Se un significato possono avere queste serate speciali, esse lo
    hanno per il fatto che l'attore beneficiato può scegliere nel
    repertorio – spesso imposto da necessità industriali, e dal
    particolare cattivo gusto imperante – quel lavoro che meglio si
    confà con la sua preparazione, con la sua indole, con le sue
    qualità piú intime, può scegliersi egli stesso
    la interpretazione piú aderente alla sua personalità e
    questa esprimere nel modo piú adeguato, come non è
    dato sempre di poter fare. Nella commedia del Ferrari un solo
    personaggio ha vita artistica propria, peculiare, il marchese
    Colombi. Parini è un incidente, è un personaggio
    esteriore, sebbene il suo nome appaia nel titolo e la sua persona
    ritorni spesso sulla scena. Parini è un pretesto, un
    meccanismo scenico, che serve a determinare un intreccio, ma non ha
    vita propria, drammatica. Parla e opera secondo uno schema, come un
    po' fanno tutti gli altri personaggi, eccettuato uno solo, il
    marchese Colombi, che diventa cosí il vero centro artistico
    della commedia, l'unica giustificazione artistica della commedia.
    
    La beneficiata del Betrone è diventata cosí invece la
    beneficiata di Giulio Paoli, per la logica stessa delle cose.
    Perché un attore sia artista in atto è necessario che
    le sue possibilità interpretative si sostanzino di vita reale
    artistica. Il Betrone non poteva trovare questa vita nel personaggio
    di Giuseppe Parini. Le sue possibilità non potevano che
    rimanere esteriori, forma senza sostanza, cioè pura ipotesi,
    sforzo di immaginazione, non plasticità. Un po' di
    declamazione, nessuna interiorità. Un vero peccato.
    Perché la serata di Annibale Betrone potrebbe sempre essere
    una vera manifestazione d'arte, perché il Betrone è
    attore tale da realizzare, in una opera d'arte, una interpretazione
    perfetta. Le rappresentazioni solite, di ogni giorno, non
    dànno mai occasione a una espressione di sé completa.
    Sono frammentarie, incerte, provvisorie: le abitudini del teatro
    italiano obbligano gli attori a una varietà di
    interpretazioni che non può non essere a danno della
    profondità, della compiutezza. C'è sempre un po' di
    dilettantismo, di nomadismo, di improvvisato nei nostri attori. Le
    elaborazioni minuziose, capillari, sono ignorate. L'intuizione
    può supplire in parte, ma non riesce mai a dare quella
    pastosità intensa di luci che dà la preparazione, il
    lavorio critico.
    
    Nel Betrone c'è l'intuizione vigile, pronta, e anche il senso
    critico, ma non sempre le due possibilità si incontrano in
    una stessa interpretazione. Accade che il senso critico debba
    applicarsi a personaggi vuoti di sostanza artistica, e
    l'interpretazione non sia che virtuosismo esteriore. E accade che un
    carattere sia interpretato a grandi linee, nel suo complesso, ma
    manchi all'interpretazione lo studio dei particolari che fa gioire
    di ogni parola, di ogni cenno, perché in ogni parola, in ogni
    cenno si vede un momento di vita, perché sempre si coglie
    l'anima dell'attore che brilla e dà valore. Cosí in
    questa edizione della commedia di Paolo Ferrari non può
    apparire dell'arte di A. Betrone che qualche sprazzo inconsapevole,
    manca la sostanza che si lasci foggiare, che diventi plastica
    espressione di vita drammatica, o completa estrinsecazione di
    qualità che pure esistono, ma non riescono a emergere che per
    incidenza.
    
    (21 ottobre 1917).
    
     
    
     
    
    «Mimí» di Fraccaroli al Carignano. Mimí,
    commedia in tre atti di Arnaldo Fraccaroli, è la sintesi
    drammatica di un romanzo di Carolina Invernizio o di H. Malot e di
    una raccolta di frizzi e piacevolezze estratta da
    «Numero» dal «Guerin Meschino». Mimí
    è una sorella maggiore di Scampolo, come Scampolo balza
    fuori, tutta sfumata e senza contorni precisi, da una
    infinità di libri popolareschi nei quali al tipo della
    cocotte, o a quello della donna fatale viene preferito il tipo della
    donna di natura, non ancora guastata dalla società, dal
    contatto con la vita degli altri. Tipo, cioè non creatura
    viva, individuata: cliché letterario, incipriato e
    infiocchettato di frasi e di parole che fanno quasi sempre presa
    facile sul pubblico grosso, che si bea dell'ingenuità
    artificiosa, come un vecchio infrollito si bea delle smorfie e dei
    capricci ammaestrati di una minorenne che conosce già alla
    perfezione l'arte sua. Mimí è un'artista, una
    pittrice: è una bohême, amica e compagna di ventura di
    altri bohêmes. Ha la fortuna di trovare tutti galantuomini:
    affamati, ma galantuomini, milionari, ma galantuomini. E sale,
    diventa gloriosa, e sempre i galantuomini le allietano l'esistenza.
    La guerra ha proprio, nella commedia di Fraccaroli, rinnovato il
    mondo: il mondo è un idillio arcadico, soffuso di foglioline
    di rosa, in ognuna delle quali è scritto un frizzo per far
    sempre migliorare il sangue. Mimí anch'ella si mantiene pura
    e onesta: sta per cedere, sta per insozzare la natura sua
    candidissima in un'avventura, tiratavi piú che altro dal buon
    cuore, e dal nobilissimo sentimento della gratitudine, ma non ne fa
    niente. L'amore vero, quello che si trova cosí spesso citato
    nell'«Amore illustrato» e nei melodrammi del Piave, la
    distoglie dai mali passi, e la conduce a un ospedale militare dove
    il suo bene, arrivatovi proprio caldo caldo, la sospira.
    
    Applausi a ogni atto, sempre piú tiepidi. Il successo
    relativo (troppo a ogni modo, e apportatore di nuove sciagure) fu
    dovuto all'interpretazione: suggestiva in Maria Melato, misurata,
    efficacissima nel Paoli.
    
    (26 ottobre 1917).
    
     
    
     
    
    «Silvestro Bonnard» di Anatole France al Carignano.
    Silvestro Bonnard messo in iscena non è piú il
    Silvestro Bonnard di Anatole France. La concretezza della sua
    personalità non resiste alla traduzione del romanzo in
    commedia. La sua vita è nella parola, è celebrazione
    di tutta la realtà, e si dissolve nella scena o si colora di
    elementi estranei, che cozzano con quelli originari dando luogo a
    una azione scenica talvolta trivialissima, priva come è
    completamente di ogni spiritualità, pura macchina teatrale
    che si trascina terra terra. Bonnard, come Bergeret, come altre
    creazioni del France, sono concepite liricamente piú che
    drammaticamente. Sono momenti polemici dello spirito dell'autore,
    piú che disinteressate fantasticherie artistiche. Hanno un
    qualcosa del Socrate nei dialoghi platonici, e artisticamente sono
    definiti, non possono essere trasportati in una temperie che sia
    diversa da quella che l'autore, sia pure arbitrariamente, ha
    fissato; in quell'arbitrio è l'unica ragione loro d'essere,
    quell'arbitrio è la loro giustificazione.
    
    Nella commedia, Silvestro Bonnard diventa un personaggio da romanzo
    popolare, un protettore svenevole delle orfane e dei pupilli.
    L'ironia corrosiva diffusa nel romanzo, dilegua nella scena: Bonnard
    si avvicina ai papà Martin del repertorio di Ermete Novelli e
    perde quasi del tutto l'Anatole France. Tuttavia la commedia si
    è sorretta, pur tra qualche incidente, grazie specialmente
    all'interpretazione che del protagonista ha composto Ruggero
    Ruggeri.
    
    (8 novembre 1917).
    
     
    
     
    
    Ruggero Ruggeri. Nel ripensare, prima di scrivere queste note, le
    impressioni provate, volta a volta nell'assistere alle
    interpretazioni di Ruggero Ruggeri; nel vagliare criticamente gli
    elementi che dovrebbero comporre la personalità artistica
    dell'attore e nell'accostare questi elementi di giudizio, si arriva
    a un punto morto. Ogni sintesi è impossibile. Le impressioni
    provate volta a volta non contengono in sé un elemento
    connettivo che possa servire a saldarle insieme in un giudizio
    unitario.
    
    Ruggero Ruggeri è l'attore che recita sempre bene. Che in
    ogni interpretazione – anche di cose mediocri o nulle – sa far
    risaltare la sua parte, sa farsi notare, sa strappare, a un certo
    punto, l'applauso. Ripensandoci, si trova che in ciò consiste
    il suo talento, e la sua deficienza di artista.
    
    Gli autori potranno essergliene grati, il pubblico non deve
    essergliene grato. E neppure tutti gli autori: gli autori mediocri,
    che non sanno dire una parola che valga in sé e per
    sé, che viva di vita propria. Ruggeri è l'attore
    dell'indistinto: conguaglia tutto: il bello e il brutto diventano
    uguali attraverso la sua persona, e il bello ne soffre, ne viene
    diminuito, non è piú lui. Chi si reca a teatro per
    divertirsi, per passare l'ora, può essere lieto di
    ciò: difficilmente prova una impressione sgradevole,
    difficilmente dice d'aver perduto la serata, di non essersi
    spassato. Ma lo spasso e il passatempo non sono sensazioni
    estetiche. Il gusto gode nel rivivere con l'attore una creazione di
    bellezza; prova anzi una doppia sensazione: rivive il fantasma
    drammatico con l'autore e con l'attore. L'attore esprime
    plasticamente il fantasma che l'autore ha espresso verbalmente.
    È una doppia creazione, che, quando è perfetta, deve
    dare una impressione solida, compiuta, senza residui.
    
    Ruggeri non sa abbandonarsi all'autore, all'espressione verbale;
    egli vi si sovrappone. E lo fa sempre allo stesso modo. La
    duttilità dell'ingegno gli serve magnificamente. È
    adusato a tutti i lenocini dell'arte: possiede la tecnica a
    perfezione. Ma la pura tecnica è esteriorità: se non
    si fonde con gli altri elementi che contribuiscono alla creazione,
    se non diventa spontaneità, essa è un impaccio,
    è una deficienza piú che una qualità buona.
    Crea, come appunto in Ruggeri, il conguagliamento, l'indistinto,
    mentre l'arte è sempre diversità, distinzione,
    individuazione.
    
    Per limitare e comprendere la fortuna e il successo del Ruggeri
    bisogna porsi questa domanda: è possibile recitar bene
    un'opera mancata? e rispondere. La risposta non può essere
    che negativa, se si ragiona con criteri artistici. Recitar bene
    un'opera mancata significa solo che l'attore è riuscito a
    costruire un'apparenza di bellezza, che si è servito di
    elementi extraartistici, di suggestioni che non hanno affatto a che
    vedere con l'interpretazione. Ha isolato qualche elemento a
    successo, e lo ha dilatato fino a dar l'impressione di una
    compattezza espressiva. È il lavoro solito del Ruggeri. Le
    commedie e i drammi del suo repertorio sono imperniati su un
    personaggio: Lo sparviero, L'avventuriero, L'amico delle donne,
    ecc.; gli altri personaggi sono sfumatura, penombra. L'unico
    è anch'esso composto di molta sfumatura e penombra, e di
    pochi sprazzi di luce: ma questa poca luce finisce con l'irradiarsi
    in tutto il lavoro, col dargli una vita fittizia, che dura tra la
    prima e l'ultima scena, e lascia in fondo la bocca allappata, e la
    fantasia inerte.
    
    Ruggeri non sa spogliarsi di questo abito di virtuosismo neanche
    quando l'espressione verbale ha tale vita intima da poter dar luogo
    alla vera interpretazione, alla traduzione integrale in valori
    scenici. Il lavorio di isolamento è trasportato anche alle
    opere d'arte; anche esse vengono raffazzonate, snaturate, e il
    successo che le accompagna è in gran parte successo fittizio,
    perché ottenuto con mezzi esteriori alla loro intima
    grandezza.
    
    Ruggero Ruggeri non è piccola causa del pervertimento
    estetico del pubblico di teatro. Egli riesce a dare impressioni di
    bellezza e di grandezza anche quando la bellezza e la grandezza
    lasciano il posto al lenocinio e alla tecnica, e il pubblico finisce
    col confondere, col perdere ogni esatto criterio di giudizio, col
    ritenere che valgano ugualmente Bernstein e Shakespeare.
    
    (25 novembre 1917).
    
     
    
     
    
    «L'elevazione» di Bernstein all'Alfieri. Le sofferenze e
    le angosce quotidiane dovute alla guerra hanno fatto diventare
    generosi, hanno elevato gli uomini. È il motivo dominante. Le
    sofferenze e le angosce non hanno però fatto diventare
    sinceri gli uomini che non erano sinceri, e specialmente gli
    scrittori di teatro. Gli scrittori di teatro, francesi specialmente,
    ma anche italiani, avevano creato, per uso industriale, un mondo
    fittizio di avventurieri, di donnine allegre, di vecchie intriganti
    e di vecchi satiri. Era una riduzione meccanica del mondo, era una
    visione artificiosa del mondo, utilissima ai fini del successo,
    perché offriva una inesauribile miniera di spunti, di
    intrighi, di intrecci, non domandava sforzi di fantasia, non
    domandava elaborazioni faticose. Il pubblico di scioperati che
    affollava i teatri si divertiva e si diverte tuttora a quegli
    intrighi e a quelle gaglioffaggini. Si è parlato però
    troppo di virtú, di sacrificio, di doveri. Si è dovuto
    riconoscere, per fini pragmatistici, che la virtú, lo spirito
    di sacrificio, il sentimento del dovere, sono ancora radicati negli
    animi. Chi si era troppo compromesso con lo scetticismo, chi aveva
    lasciato troppi documenti della sua superficialità
    spirituale, con rappresentazioni gaglioffe di una vita d'eccezione
    presentata come tutta la vita, ha cercato una via d'uscita, ha
    gridato al miracolo. La guerra ha fatto il miracolo, le sofferenze e
    le angosce quotidiane dovute alla guerra hanno fatto il miracolo.
    Rimane l'insincerità interiore, rimane la meccanizzazione
    interiore della vita. La guerra, moralmente, non fa diventare
    né generosi, né ribaldi, perché può far
    diventare l'uno e l'altro, e non è ancor detto quali siano in
    maggioranza questi prodotti, non della guerra, ma delle riflessioni,
    dei giudizi, delle esasperazioni, degli entusiasmi che la guerra ha
    servito a rinsaldare o a liquefare a seconda degli uomini, della
    loro preparazione morale, della loro preparazione umana. La guerra
    può aver elevato molti o pochi uomini, non ha elevato E.
    Bernstein: nel caso nostro non lo ha fatto diventare artista, non
    gli ha suscitato una fantasia creatrice. Egli è rimasto
    ciò che era ieri: un abile scrittore di teatro, un abile
    alchimista di parole. La guerra non può far diventare poeta
    un mercante di parole: può dare semplicemente uno spunto
    nuovo, può suggerire diversi accostamenti di parole: la
    macchina generale rimane la stessa. C'è un marito vecchio,
    che è uno scienziato, ed è un religioso della
    volontà, che opererebbe cosí come opera anche senza il
    fattore guerra: sarebbe in qualche istante meno retorico, e forse
    neppure, perché tutto può diventare retorica.
    
    È il personaggio piú completo, questo vecchio
    scienziato, che non uccide la moglie adultera, che riesce a
    dominarsi anche in momenti che si è abituati a vedere tragici
    in sé e per sé. Gli altri due personaggi sono
    sbiaditi: le troppe parole che dicono non bastano a circoscriverli:
    anzi quanto piú parole sublimi pronunziano, tanto piú
    essi disperdono la loro personalità, che si generalizza e
    dilegua nell'indistinto. Il soldato ferito, moribondo,
    «elevato» dalle sofferenze e dalle angosce,
    morirà: è una grande fortuna per l'autore,
    perché presentare dei grandi moribondi, è piú
    facile che rappresentare dei piccoli vivi che dimostrino
    quotidianamente, nelle piccole cose specialmente, la loro
    elevazione. L'artificio è troppo visibile per chi non
    abbandona l'abito critico sul limitare del tempio grandioso della
    retorica neanche nei momenti di piú infuocata esasperazione
    sentimentale.
    
    Il dramma di Bernstein è il solito dramma del terzetto
    classico: l'anima vecchia, non «elevata» dell'autore, ha
    bisogno della catapulta di guerra per credere davvero che ci siano
    uomini e donne capaci di compiere il loro dovere. Questo
    gaglioffismo morale gli imbottitori di crani lo chiamano
    «l'anima nuova della giovine generazione».
    
    (28 novembre 1917).
    
     
    
     
    
    «Il piacere dell'onestà» di Pirandello al
    Carignano. Luigi Pirandello è un «ardito» del
    teatro. Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei
    cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità,
    rovine di sentimenti, di pensiero. Luigi Pirandello ha il merito
    grande di far, per lo meno, balenare delle immagini di vita che
    escono fuori dagli schemi soliti della tradizione, e che però
    non possono iniziare una nuova tradizione, non possono essere
    imitate, non possono determinare il cliché di moda.
    C'è nelle sue commedie uno sforzo di pensiero astratto che
    tende a concretarsi sempre in rappresentazione, e quando riesce,
    dà frutti insoliti nel teatro italiano, d'una
    plasticità e d'una evidenza fantastica mirabile. Cosí
    avviene nei tre atti del Piacere dell'onestà. Il Pirandello
    vi rappresenta un uomo che vive la vita pensata, la vita come
    programma, la vita come «pura forma». Non è un
    uomo comune questo Angelo Baldovino. È stato un briccone,
    è un relitto, secondo le apparenze. Non è, in
    verità, che un uomo verso il quale la società ha avuto
    il torto di essere tale per cui la «pura forma» è
    in realtà adeguata al resto della realtà. Il Baldovino
    si innesta nella commedia in un ambiente favorevole e vive la sua
    vita. Diventa il marito legale di una nobile signorina che è
    stata resa madre da un uomo ammogliato. Accetta la parte, ponendosi
    degli obblighi di onestà, e ponendone agli altri, e sviluppa
    il suo pensiero. Diventa subito ingombrante: il suo pensiero si
    realizza per sé, ma scombussola tutto l'ambiente e arriva a
    questo punto morto preveduto dal Baldovino, ma paradossale per gli
    altri; è necessario che il marchese Fabio, il seduttore,
    diventi ladro, perché la «pura forma» si sviluppi
    in tutta la sua logica, e Baldovino appaia essere il ladro, pur
    rimanendo accertato per tutti gli interessati che il vero ladro
    è il marchese, e che non impunemente si accettano dei
    contratti in cui la logica e la volontà di uno deciso a
    rispettarla, sono elementi essenziali. Arrivati a questo punto di
    scomposizione e di dissoluzione psicologica, la commedia ha uno
    svolto pericoloso, e un po' confuso. Le reazioni sentimentali hanno
    il sopravvento: la bricconeria effettiva del marchese Fabio prende
    un risalto di una evidenza umoristica catastrofica, e la moglie
    putativa diventa moglie effettiva e appassionata del Baldovino, che
    non è un briccone o un galantuomo, ma solo un uomo che vuole
    essere l'uno e l'altro, e sa essere effettivamente galantuomo,
    lavoratore, perché queste parole non sono che attributi
    contingenti di un assoluto che solo il pensiero e la volontà
    creano e alimentano.
    
    La commedia di Pirandello ha avuto un crescendo di applausi, dovuto
    alla virtú di persuasione insita nel processo fantastico
    dell'intreccio. Ruggero Ruggeri sosteneva la parte del Baldovino, la
    Vergani quella della signorina, poi signora Agata Baldovino, il
    Martelli quella del marchese Fabio. Col Pettinello e la Mosso
    presentarono un insieme interpretativo ottimo, ciò che
    contribuí a far rilevare meglio il dialogo serrato e pieno di
    scorci della commedia.
    
    (29 novembre 1917).
    
     
    
     
    
    «Il braccialetto al piede» di Veneziani al Carignano.
    Carlo Veneziani è un professionista dello spirito. Ogni suo
    lavoro è immancabilmente esuberante di spiritosaggini: tanto
    esuberante che si finisce per rimanerne stuccati. Il braccialetto al
    piede, commedia in tre atti di Carlo Veneziani, è
    naturalmente tutta una spiritosaggine: dalla prima all'ultima
    parola. Ed è anche tutta una goffaggine: succede spesso che i
    professionisti dello spirito siano i piú goffi uomini del
    mondo. Perché essi sono d'una superficialità
    esasperante, perché la loro particolare attività manca
    di ogni spontanea vivezza. L'espressione è frusta, i
    personaggi sono presi dalla cronaca piú banale. Come in
    questa commedia. Un candidato politico, avvocato, grande avvocato
    che si fa preparare da un segretario tutto il materiale della sua
    fama. Che vive d'intrigo, che si prepara nelle alcove il titolo
    maggiore del successo politico, mentre sua moglie lo aiuta,
    concedendo le sue grazie a un vecchio, padrone di un giornale.
    
    E come contrasto a questo vecchio cliché, un altro
    cliché piú vecchio ancora: una donna galante, che si
    è arricchita oltre oceano, e si addimostra nel vecchio mondo
    la migliore, fra tutte le fame usurpate che la circondano.
    
    Una farsaccia legata insieme alla meglio, senza vita, senza un
    attimo di comicità, e che è caduta tra la noia e
    l'indifferenza.
    
    (5 gennaio 1918).
    
     
    
     
    
    Idea del tempo di guerra («L'amazzone» di Bataille al
    Carignano). L'amazzone di Henri Bataille è ritornata al
    Carignano nella traduzione italiana. Si è accostata
    cosí al pubblico nostro, ha suscitato discussioni e
    riflessioni: ha avuto e avrà, per quel poco che è
    consentito alle opere di teatro, efficacia costruttiva di
    moralità, di attività giudicatrice. Il Bataille
    continua nell'Amazzone il teatro suo anteriore alla guerra. Rimane
    uno scrittore moralisteggiante. Non ha, come Bernstein e altri,
    cambiato di moda. L'atmosfera della drammaticità è
    sempre la stessa, se pure sono cambiate per la guerra le
    contingenze, i motivi occasionali dell'azione drammatica. Il
    Bataille sublima le creature della sua fantasia, assegna loro un
    compito e un apostolato: dovrebbero esse superare l'ambiente morale
    in cui vivono, essere gli esempi di una umanità migliore,
    piú spirituale, in cui gli imperativi categorici del dovere
    si affermano senza residui. Ma l'espressione artistica viene
    contaminata da queste giustapposizioni volontarie: i personaggi si
    sbiadiscono, perdono gran parte della umanità loro, sono
    bocche da discorsi, simboli in cui si accumulano le esperienze dello
    scrittore, ponticelli tra l'autore – che non è filosofo, e
    non sa dare forma filosoficamente adeguata alle sue impressioni – e
    il pubblico, che l'autore vuole compartecipe dei suoi sentimenti,
    del suo mondo interiore, che però non riesce a esprimere
    intrinsecamente e si adagia piú male che bene, nelle forme
    tradizionali della letteratura.
    
    L'amazzone ha un corpo femminile e un nome: Gina Bardel, ma non
    è solo una donna. È tutto il complesso delle forze
    spirituali che spingono gli uomini alla guerra.
    
    È la materializzazione sensibile dello spirito di guerra:
    è la Francia, è l'idea del dovere, è l'idea del
    sacrifizio del singolo per la collettività, è
    l'energia necessaria per questo sacrifizio [alcune righe censurate].
    Cosí come Cecima Bellanger, che nei primi due atti è
    appunto solo questa semplice creatura umana, individuo vivo e
    dolorante, nel terzo atto si compone in simbolo: è tutto il
    sacrifizio dell'umanità per la guerra, è la somma di
    tutti i dolori, di tutte le lacerazioni, di tutte le lacrime che la
    guerra ha prodotto e fatto versare. Questi dissidi tra individui e
    simboli, tra la realtà sensibile e l'astrazione ideale
    contaminano tutto il dramma, lo rendono artisticamente una
    raffazzonatura, se pure sapientemente costruita. Ma il problema
    spirituale raggiunge il suo completo sviluppo, il fine morale che
    l'autore si proponeva di fissare, acquista una concretezza quasi
    rappresentativa.
    
    La guerra ha domandato ai popoli ogni sacrifizio, e specialmente il
    sacrifizio massimo, quello della vita. Ma la guerra per ottener
    ciò ha dovuto incarnarsi in uomini e donne vivi, che la
    necessità della guerra hanno predicato, che con la parola,
    con la dimostrazione hanno contribuito a suscitare entusiasmo, a
    inebriare le coscienze, a mettere a contatto la coscienza
    individuale con la coscienza universale, a far dimenticare i doveri
    individuali per un superiore dovere che si è rivelato
    attraverso le loro parole. Milioni d'uomini sono cosí morti,
    centinaia di migliaia di famiglie si sono disciolte, centinaia di
    migliaia di cuori sono stati inguaribilmente feriti. La guerra
    finisce: il dovere è stato compiuto, il sacrifizio è
    stato consumato. Qual è il destino oramai dei rimasti, ma di
    quelli specialmente che hanno incarnato lo spirito della guerra, che
    hanno rappresentato la necessità, il dovere, lo spirito di
    sacrifizio? È il problema del dopoguerra spirituale che il
    Bataille cosí si pone e cerca di risolvere. La vita, la
    felicità cercano di riattirare a sé questi uomini e
    queste donne. E pare che i sopravvissuti debbano avere il compito di
    rifare il mondo, di sanare le ferite profonde inferte dalla guerra
    alla compagine sociale. Ma cosí non può essere.
    Predicando la morte, il sacrifizio, quelle creature si sono
    indissolubilmente votate alla morte, al sacrifizio. Esse devono
    rappresentare un olocausto al carnaio che hanno contribuito – sia
    pure per necessità, per alta missione ideale – a determinare.
    
    La vita non deve piú avere un raggio di luce per loro. Questo
    destino non è segnato nelle leggi, non può comportare
    sanzioni per quelli che tentino eluderlo. È intrinseco,
    è una necessità interiore. Quando qualcuno di questi
    segnati starà per dimenticare, per rientrare nella vita, un
    fantasma si drizzerà loro di contro: il fantasma del passato
    sanguinoso, che reca l'impronta anche delle loro piccole mani.
    Sarà una generazione di puri apostoli del dovere, che si
    chiuderanno nel chiostro della loro coscienza, che saranno come un
    ordine laico di sacerdoti addetto al culto dei morti, le vestali che
    dovranno sempre mantenere accesa la lampada dell'ideale,
    alimentandola del loro sacrifizio, della loro rinunzia alla gioia e
    alla felicità.
    
    Questa l'atmosfera morale del dramma. Questo il fine che il Bataille
    propone come dovere imprescindibile alle «vergini
    guerriere», alle «seminatrici di coraggio», a
    tutta quella parte di umanità che si è assunta
    liberamente e spontaneamente il compito, gravido di
    responsabilità, di richiamare gli individui al sacrifizio, al
    senso del dovere. Non è un dopoguerra di riposo, di
    tranquillo riassestamento delle esigenze della vita. La vita non
    ricomincia domani per loro, come per i combattenti. Anzi la vita dei
    combattenti deve essere per loro la fine della vita,
    dell'attività, del fervore per il velo monacale, per il
    cilicio che strazia le carni.
    
    Il dramma vale come presentazione della tesi, come esemplificazione
    del dovere che dovrebbe germinare spontaneamente nelle coscienze.
    Gina Dardel, la vergine guerriera, quando sta per spogliarsi del
    cumulo di astrazioni che ha impersonato, e diventare vita sensibile,
    rinunzia alla vita. Ha contribuito a fare andare un uomo, molti
    uomini verso la morte, ha inebriato di follia, è stata
    l'immagine necessaria ai cervelli per veder meglio, per la saldatura
    tra il reale e l'ideale: il ricordo la riprende, la incatena, ed
    essa se ne va verso il suo destino.
    
    La compagnia Tina Di Lorenzo ha dato una efficacissima
    interpretazione del dramma che pure non può, per la sua
    impostazione, dar luogo a un grande successo.
    
    (10 gennaio 1918).
    
     
    
     
    
    «Fum e fiame» di Leoni al Rossini. Lo spirochete pallido
    del pregiudizio di guerra, nel processo di infezione letteraria,
    è arrivato anche al teatro dialettale: Mario Leoni è
    stato il veicolo epidemico: i quattro atti di Fum e fiame sono le
    quattro vittime piú illustri del morbo. La guerra, come
    abbiamo piú volte visto, è diventata la macchina
    moralizzatrice, la panacea universale, il motivo comodo e redditizio
    per una nuova tradizione di «lieti fini».
    
    Prefatto della nuova commedia: Michele, pecora matta, nella famiglia
    rusticana di pare Lorens, e stato scacciato di casa, dopo aver reso
    infelice sua moglie Nina, ha vagabondato per molti anni all'estero,
    ha avuto una figliolina da un suo amore randagio.
    
    Intreccio: Guido, altro figlio di pare Lorens, giovane esonerato, si
    innamora della cognata, e le offre un prezioso ventaglio (il ricordo
    goldoniano non giova davvero al lavoro di Mario Leoni); Nina, che
    è donna di eletta morale, non accetta il regalo galeotto, e
    il ventaglio passa nei capaci cassettoni di mare Vittoria. Michele
    ritorna a casa con la sua figliolina. Mare Vittoria lo accoglie come
    tutte le madri immancabilmente accolgono i figli prodighi: il
    perdono sarebbe generale, se tra Michele e Nina non si frapponesse
    la bimba straniera. Un tentativo di conciliazione avviene per mezzo
    dell'infausto ventaglio, che Michele, per suggerimento di sua madre,
    offre alla selvatica moglie nel giorno onomastico. Scoppia
    l'uragano: Nina suppone intenzioni oltraggiose nel dono: Michele
    viene a conoscenza del peccato di pensiero di suo fratello. Un
    dramma sanguinoso sta per nascere.
    
    Scioglimento: nell'istante in cui i due fratelli stanno per trovarsi
    di fronte, l'un contro l'altro armati, suona la belligera squilla.
    La classe di Michele viene richiamata alle armi. I cuori feroci si
    compongono in serenità. Guido andrà anch'egli in
    guerra, volontario. Michele ha la promessa tacita di un coniugale
    perdono al suo ritorno: Nina si ammansa fino ad accogliere in sua
    custodia l'innocente bambinetta. L'orizzonte si colora in lontananza
    del roseo matrimoniale: perché anche Guido ha scoperto la
    vera sua anima gemella.
    
    Consolazione dei poveri ma onesti genitori che soddisfatti assistono
    a queste metamorfosi della loro amata prole.
    
    E la commedia finisce coi soliti applausi a Mario Leoni che anche
    quest'anno ha sfornato l'ennesimo suo capolavoro.
    
    (23 gennaio 1918).
    
     
    
     
    
    «La canzone di Rolando» di Falconi e Zambaldi al
    Carignano. Il nucleo drammatico di questi tre atti dovrebbe
    consistere in un fatto sessuale. Dovrebbe, ma gli autori non si sono
    troppo preoccupati dell'unità, della consistenza del loro
    lavoro: volta a volta, essi si sono lasciati sopraffare dagli
    episodi, dal particolare scenico, e cosí il dramma si
    è venuto svolgendo senza nessuna armonia, senza che la
    molteplicità dei suoi momenti abbia una profonda ragione di
    esistenza.
    
    L'intreccio si fonda su un abusato giuoco di prospettiva: mentre un
    motivo drammatico si inizia per un personaggio, lo stesso motivo si
    conclude e determina la crisi interiore di un altro.
    
    Il conte Rolando D'Astico ha, nella sua giovinezza, in un istante di
    ebrietà sconsiderata, violentato una cameriera di sua madre.
    L'episodio non ha lasciato alcuna traccia nella sua vita successiva:
    egli ha ignorato la donna, il suo destino, le conseguenze di quel
    momento di pura animalità irresponsabile. Nei vent'anni che
    sono trascorsi d'allora ha avuto tempo di rovinarsi per un'altra
    donna, di diventare una «macchietta»: povero, trascurato
    nell'apparenza esteriore della sua vita di nottambulo
    filosofeggiante, vivacchia scrivendo articoli per i giornali,
    conferenze, libri. Gli autori lasciano comprendere come egli sia un
    genio incompreso, un uomo di grande intelligenza, sebbene ciò
    non appaia troppo dalla scena, e da qualche battuta piuttosto povera
    di umorismo e dalla quale appare solo la mania da gazzettiere dello
    Zambaldi di occuparsi di cose che non intende. Ma lasciamo andare:
    anche questa non è che una delle tante prove della poca
    consistenza del dramma. Il conte D'Astico è un uomo oltre che
    una caricatura di filosofo, come non poteva non essere nelle mani di
    questi autori. Come tale, conosce un giovanotto, un pittore di belle
    speranze anch'egli, che è travolto da una passione
    ossessionante per una donnetta da poco, una ballerina, una che
    è stata, e continua a essere, merce sessuale. Il pittore,
    Stefano Landi, ha però avuto una signorina di buona famiglia
    e l'ha resa madre.
    
    Rolando lo avvia al dovere, alla riparazione necessaria, e ne
    ottiene la promessa. Ma ecco che egli stesso viene a sapere di
    essere padre, di non avere compiuto il suo dovere, e per di
    piú viene a sapere che sua figlia è proprio quella
    donnetta da poco, quella ballerina che ossessiona Stefano. Che fare?
    Quale è ora il dovere? Come deve operare un uomo che diventa
    padre per sbaglio, inconsapevolmente, senza che egli sia stato
    unito, alla madre del nato, da vincoli spirituali, oltre che
    dall'accostamento fisico? Il conte D'Astico non sa rispondere a
    queste domande. Nessuno dei personaggi regolari sa rispondere.
    Stefano Landi, che non ha mantenuto la promessa, e non ha alcuna
    voglia di mantenerla, declama una sua interessata teoria sulla
    spiritualità dell'accoppiamento. Rolando pare accettarla, ma
    sua figlia, non conoscendolo come padre, lo atterra con le istintive
    parole della sua femminilità: ella vuole che Stefano sposi la
    madre del bambino nato da un istante di stordimento primaverile, e
    inveisce contro gli uomini che non sanno quale destino creino a
    tante vite, inveisce contro suo padre, l'ignoto egoista che l'ha
    ridotta la donna di tutti. Cosí avviene che il conte
    D'Astico, ammalato di cuore, muoia tragicamente dopo questa crudele
    scena, senza aver risolto nulla, e senza aver potuto, nella sua
    persona, accogliere ed esprimere il dramma che gli autori, indecisi
    tra la «macchietta» e la serietà, tra l'episodio
    e l'unità, non hanno saputo concretare.
    
    Commossero il pubblico alcune scene di spolvero, e ciò
    procurò molti applausi agli autori, ad Armando Falconi come
    attore, e agli altri.
    
    (7 febbraio 1918).
    
     
    
     
    
    «A' berritta ccu li ciancianeddi» di Pirandello
    all'Alfieri. È una parentesi nel teatro di Luigi Pirandello,
    un episodio, un abbozzo. Rientra nel suo genere, è prodotto
    autentico del temperamento personalissimo dell'autore, ma non
    è stata elaborata, e rifinita come le altre commedie. Lo
    spunto stesso ridiventa comune. Nelle altre commedie il motivo non
    esce certo dalle esperienze del passato, siano esse intellettuali,
    siano sentimentali, ma l'autore svecchia il motivo antico, lo
    presenta rivestito di peculiarità caratteristiche, i
    personaggi sono suoi, della sua fantasia, le parole che dicono hanno
    una vita nuova, di stile e di passione. In questi due atti
    c'è poca intensità: la dimostrazione soverchia
    l'azione, la diluisce, la svanisce. A' berritta ccu li ciancianeddi
    continua la serie delle altre commedie, è un residuo delle
    altre commedie: continua la rappresentazione esemplificata delle
    contraddizioni tra l'essere e il voler essere, tra l'apparenza e la
    realtà, tra l'immagine e il vero, che hanno avuto due momenti
    drammatici nel Cosí è (se vi pare) e nel Piacere
    dell'onestà. Ma in questi due atti il sofisma, il paradosso
    non acquista pregio nel dialogo, non suscita dramma originale:
    qualche battuta, qualche piccola scena, la vita è solo
    nell'interprete, in Angelo Musco, che riesce a far superare il tedio
    delle lunghe parlate non piú interessanti spesso di quelle
    del piú melenso scrittore di teatro.
    
    C'è qui il marito tradito, marito vecchio, brutto e
    innamorato, che non vuole diventare lo zimbello del paese, che non
    vuole sul suo capo la berretta coi sonagli della beffa, dello
    scherno. Egli sopporta il tradimento per conservare la donna,
    poiché è sicuro del segreto. Teorizza lo sdoppiamento
    dell'uomo in quanto intimità e in quanto termine di relazione
    sociale: vuole il rispetto umano, vuole la tranquillità. Il
    segreto viene propalato con uno scandalo clamoroso. La moglie viene
    colta in flagrante adulterio. Un tranello è stato teso dalla
    moglie gelosa dell'adultero, e l'arresto dei due colpevoli
    rovinerà l'esistenza di don Nuccio, se egli non riesce a far
    credere che si tratta di una pazzia, che l'accusatrice è
    stata una pazza. Cosí si chiudono i due atti: il marito becco
    pone un dilemma: o la strage dei due colpevoli, sua moglie e
    l'amante, o la finzione della pazzia nell'accusatrice, nella donna
    gelosa che non ha pensato che a se stessa e ha rovinato un quarto
    innocente. E don Nuccio ottiene questa finzione indirettamente,
    facendo esasperare la donna, traendola a urlare, a inveire
    incompostamente e goffamente contro di lui, facendosi chiamare becco
    dalla signora che diventa una furia, che perde la sua apparenza
    civile e lascia senza freni la vena di follia che esiste in ogni
    umano.
    
    La commedia si impernia tutta su Angelo Musco, che riesce colla sua
    comicità misurata, fluida nel lungo discorso, ossessionata,
    irresistibilmente trascinatrice nel momento culminante, a destare
    l'interesse degli spettatori, che si raccoglie nei due atti per
    dilatarsi ed espandersi nella risata finale.
    
    (27 febbraio 1918).
    
     
    
     
    
    «La maestrina» di Niccodemi al Chiarella. Un ramo di
    pesco entra un giorno nella stanzetta di una maestrina, e la
    maestrina ne coglie un frutto mentre il padrone dell'albero, sindaco
    del villaggio, conte, e uomo di cuore invano verniciato di
    scetticismo parigino, passa sotto la finestra.
    
    Il conte Filippo si presenta alla maestrina in atteggiamento
    sguaiatamente spavaldo, si abbonisce dopo cinque minuti di dialogo,
    si intenerisce dopo un quarto d'ora, se ne va, dopo mezz'ora,
    mutato, galantuomo, buono, ricolmo di tutte le migliori intenzioni,
    con un principio di innamoramento. La signorina Maria Bini ha
    raccontato la storia della sua vita al conte Filippo, e si è
    rivelata in tutta la sua dolorante umanità di sedicenne
    sedotta da un rustico don Giovanni, madre separata dal frutto delle
    sue viscere, imbarcata subdolamente per l'America, ritornata dopo
    nove anni e ridottasi a fare la maestra per poter ogni giorno
    recarsi a un cimitero vicino, nel quale devono giacere la polvere e
    le ossa della sua bambina.
    
    Il conte Filippo, abbandonata definitivamente la scorza esteriore
    dello scetticismo e del pariginismo conquistatore, si pone
    all'opera. Rintraccia il seduttore, un porcospino immorale, dalla
    cotenna piú spessa di quella di un cinghiale, che ha mandato
    in America un mezza dozzina di minorenni, che, da perfetto farabutto
    non può non essere immerso in un brago di maialerie: sua
    moglie infatti è l'amante del curato, e il curato protegge le
    capestrerie del marito della sua amante e allontana dal suo capo i
    fulmini della giustizia.
    
    La figliolina di Maria Bini non è morta, sebbene non sia viva
    nello stato civile, avendola il padre snaturato privata della sua
    identità sociale registrata e autenticata. Vive dunque, veste
    panni, e frequenta la classe proprio dove sua madre è
    maestra. Ma quale bimbetta sarà dessa? Il mistero dà
    luogo a una scena impeccabilmente commoventissima, nella quale si
    contempla la signorina Maria Bini che abbraccia freneticamente un
    mucchio di testine bionde e brune, tra le quali non può non
    esserci la testina di una figlia del mistero, del peccato, e della
    delinquenza piú snaturata e cocciuta.
    
    Il seduttore Giacomo Macchia sta ritto, cinicamente indifferente e
    muto, innanzi al conte Filippo. Nega tutto, lo sciagurato impudente.
    Un articolo di codice, un mandato di cattura per manomissione di
    stato civile, un delegato di P. S. che pronunzia le sacramentali
    parole: in nome della legge, vi dichiaro in arresto. Giacomo Macchia
    la molla. La bambina viene identificata. Ella si presenta alla mamma
    sua e pronunzia alcune di quelle frasi innocenti che fanno
    cosí bene al cuore dopo aver visto sbavare un rettile del
    volume e della lunghezza di Giacomo Macchia. Maria Bini
    rimarrà con la sua creatura, e il conte Filippo sarà
    il loro angelo tutelare, non avendo potuto essere il rispettivo
    consorte e padre adottivo.
    
    Tre atti: autore, Dario Niccodemi: titolo La maestrina, interpreti:
    Tina Di Lorenzo e Armando Falconi, nelle due parti principali, il
    Migliara e la Donadoni in due parti secondarie. Metodo per la
    mozione degli affetti: il vecchio metodo bernsteiniano di far
    culminare l'atto in una scena patetica che ammollisce il cuore.
    Molta maestria teatrale: nessuna traccia d'arte, e quindi moltissimi
    applausi.
    
    (28 febbraio 1918).
    
     
    
     
    
    «Il nuovo falco» di Teglio al Carignano. Il signor Paolo
    Teglio voleva scrivere una commedia, e voleva che essa fosse
    originale. Il signor Paolo Teglio, pensa e ripensa, scoprí
    che fra i tanti ingredienti che la vita e la società pone a
    disposizione degli scrittori, l'aeroplano non era ancora stato
    convenientemente sfruttato. Il signor Paolo Teglio decise allora di
    scrivere una commedia in cui entrasse l'aeroplano. Ma l'aeroplano
    è un meccanismo che non parla e non si muove senza che uno o
    piú uomini lo mettano in movimento e lo facciano diventare
    oggetto di drammaticità (almeno nell'apparenza) di azione, di
    passioni, di contrasti. L'aeroplano, insomma, si rivela come una
    pura esteriorità, che in un lavoro drammatico ha la stessa
    importanza delle sedie, degli alberi, delle pareti di una stanza,
    delle scarpe che i personaggi riempiono con i loro arti inferiori.
    Ma il signor Paolo Teglio aveva appreso molte parole che si
    riferiscono all'aeroplano e alle sue funzioni, aveva persino
    imparato il grido di guerra degli aviatori: Eja, eja, alalà.
    Probabilmente il signor Paolo Teglio è un aviatore, o almeno
    ha provato le emozioni del volo, e perciò crede che di per
    sé l'aeroplano possa destare negli spettatori di una commedia
    quell'empito fuso e vago, fatto di brividi carnali e di
    fantasticheria astratta, che deve provare chi si solleva dalla terra
    affidandosi a un fragile strumento meccanico. Certo è che
    nella commedia manca ogni altra drammaticità, ogni azione,
    ogni movente di azione. C'è un intreccio, ma esso rimane pura
    successione di scene e dialoghi, senza anima, senza
    interiorità. Un ingegnere che è stato rovinato da un
    giovinastro scioperato, e inventa un nuovo aeroplano: un giovinastro
    scioperato che, dopo commessa una grave colpa, viene toccato dallo
    spirito del bene e diventa pilota, e si redime. Una signorina che
    all'insaputa del papà, accompagna il suo amico nei voli e,
    coi capricci, riesce a farsi condurre a bordo anche per il volo di
    prova della nuova macchina inventata dal papà e guidata
    dall'amico convertito al lavoro e all'attività buona. Il
    nucleo di ogni scena, di ogni dialogo è sempre e solo:
    l'aeroplano, il volo, che sostituisce la continuità
    drammatica, che determina un'unità fittizia e puramente
    esteriore. La commedia è condotta sul canovaccio di una
    pochade: l'elemento sensuale è sostituito dalla declamazione
    eroica o letteraria, ma l'impostazione è la stessa: una
    macchina, non l'interiorità passionale, un susseguirsi di
    scene, non l'azione, declamazione letteraria piú o meno, non
    espressione spirituale. Il pubblico ha fatto giustizia dei tre atti
    del signor Paolo Teglio senza molti sforzi e con molto tedio.
    
    (8 marzo 1918).
    
     
    
     
    
    «Don Cecè Sferlazza» di Barbiera all'Alfieri.
    È la storia di una beffa, che culmina anch'essa in una
    mangiata, come tutte le beffe classiche. Ma il Barbiera non è
    un poeta come Sem Benelli: e don Cecè non è Giannetto.
    Don Cecè è uno scrocco, una macchietta da villaggio
    siciliano, che i «galantuomini» del paese nutrono, e
    fanno diventare assessore, perché se ne divertono,
    perché egli li sollazza con le sue millanterie e i suoi
    pettegolezzi. La burla è fiera: don Cecè si crede
    cavaliere, crede di aver conquistato una primadonna di Guittelemme,
    e si vendica, fieramente anch'egli: una fischiata alla primadonna,
    un pignoramento per mano d'usciere al rivale in amore, una sommossa
    delle legittime consorti per gli altri beffatori. Don Cecè
    è Angelo Musco: i tre atti sono farseschi, senza pretese di
    successi letterari.
    
    (13 marzo 1918).
    
     
    
     
    
    «Dèi e cicisbei» di Guglielminetti al Carignano.
    Due statue settecentesche acquistano vita e movimento per
    partecipare a una festa mascherata del secolo delle crinoline.
    Scendono dai loro piedistalli, si confondono tra gli invitati. Si
    confondono? Ohibò, esse non possono affatto confondersi. I
    due esemplari del secolo dei lumi, nel trasformarsi da frigido marmo
    in carne e ossa, sono passati per la fantasia di una poetessa
    moderna ed hanno subito qualche leggera truccatura: essi diventano
    gozzaniani. Nella fantasia di un artista probabilmente i due
    sarebbero saltati vivi, agili, pieni di nervi e di vitalità
    carnale, da una pagina di Giacomo Casanova. Nella fantasia di Amalia
    Guglielminetti essi diventano due teneri calamaretti intrisi di
    bianca farina, che a gara vogliono ognuno saltare per il primo nella
    bastardella di una moderna friggitoria. Essi appartengono a quel
    fantasioso settecento di maniera col quale scherzò
    argutamente Guido Gozzano. Ma il Gozzano metteva nei suoi leggeri
    fantasmi un sorriso arguto, una tenerezza ironica di
    superiorità spirituale: egli era quel settecento, erano i
    suoi sogni, la sua sensibilità, che fioriva diafana e anemica
    in versi di rimpianto scherzoso, in tenere figurine ritagliate con
    pazienza su vecchia carta da tappezzeria. La Guglielminetti prende
    sul serio la sua finzione, e il secolo dei lumi rivive in versi
    inzuccherati che sono davvero vecchia ammuffita tappezzeria, in cui
    sono state tagliate delle marionette che hanno la pretesa di vivere
    da sé, senza sorrisi ironici, povere figurine che nessun
    giuoco spiritoso fa muovere, che nessuna melanconia profonda sono
    riuscite a far intenerire.
    
    Vogliono impartire una lezione di galanteria le due statue redivive:
    fanno sul serio, e i loro discepoli moderni sono anche essi di una
    furibonda serietà: immaginatevi che anche essi facciano i
    moderni per partito preso, pur senza giungere alle esagerazioni
    americane, e poi pensate al contrasto. Quale contrasto, mio Dio, e
    come sono infelici i moderni! A che serve poter volare, disporre del
    telefono e dell'automobile? Manca la grazia e il saper fare, manca
    la parola che fiorisce nel madrigale e nel ghiribizzo. E hanno
    terribilmente ragione le due statue parlanti: esse stesse sarebbero
    state diverse se Amalia Guglielminetti non fosse una moderna
    letterata, che prende troppo sul serio i modelli letterari:
    sarebbero vivificati dalla spiritualità, la divina Ironia
    avrebbe con pochi tratti finito la loro mascheratura: e in quei
    pochi tratti avrebbero avuto la loro ragion d'essere, la loro
    poetica necessità, poveri calamaretti intrisi di bianca
    farina, condannati a ballare in una bastardella di moderna
    friggitoria.
    
    (14 marzo 1918).
    
     
    
     
    
    «Il contravveleno» di Martoglio all'Alfieri. Ricordate
    il ragionamento col quale don Ferrante dimostra nei Promessi Sposi
    che il contagio non può essere causa della peste? Don
    Ferrante è un logico serrato, e il suo ragionamento non fa
    una grinza. Dal contrasto tra la realtà e il ragionamento
    scoppia irresistibile la comicità del personaggio manzoniano,
    che muore di peste, persuaso però sempre che in essa non
    entri il contagio. Un personaggio della stessa comicità
    sembrava che il Martoglio avesse introdotto nella sua commedia il
    Contravveleno. Nel primo atto don Procopio ha davvero un qualcosa di
    manzoniano: egli ragiona del colera, dei microbi, del contagio, con
    la stessa serietà scientifica di don Ferrante. Ma, in
    complesso, ha una nozione del fenomeno epidemico che si avvicina
    alla realtà. Gli manca però la precisione e
    l'esattezza nella descrizione, che è sostituita dalla fede
    nel sapere e nella cultura moderna. Il pubblico cui si rivolge, per
    illuminare e scacciare la superstizione, è refrattario, non
    comprende neppure gli elementari concetti, e don Procopio si avvolge
    in una matassa di parole strambe, che vengono sfigurate ancora e
    contorte. Il primo atto è prolisso, esagerato farsescamente
    nei particolari, eseguito in fretta e senza alcuna cura, ma pure
    riesce a porre in rilievo questo personaggio, a fargli iniziare
    un'azione che pare debba continuare. Resisterà la scienza di
    don Procopio alla suggestione del mondo che lo circonda,
    soccomberà o trionferà egli, nella sua coscienza,
    della superstizione dell'ambiente? Estenuato da un digiuno troppo
    lungo, egli divora avidamente un cibo indigesto e pesante, beve un
    po' di vino: l'inedia soddisfatta brutalmente lo fa vacillare, lo
    intorpidisce: si grida al sortilegio, al colera trasmesso per magia.
    Ma nei due altri atti, non è questo don Procopio che
    riappare: l'autore non perseguiva un fine artistico, non voleva
    suscitare comicità di caratteri umani. La commedia si
    sviluppa (!) e si conclude come una farsa, e in don Procopio
    è uno dei tanti miserabili affamati, azzeccagarbugli, ottimo
    cuore, bocca di spropositi banali, che appare. La commedia è
    via vai di scene, di dialoghi scuciti, che possono o non valere per
    sé, ma non concretano una unità poetica; trionfa la
    prolissità, la sconnessione del primo atto senza che abbia
    sviluppo il motivo organizzatore che in esso era contenuto.
    
    I tre atti sono stati applauditi, specialmente per l'interpretazione
    vivace e colorita di A. Musco e della sua compagnia.
    
    (20 marzo 1918).
    
     
    
     
    
    «Jean La Fontaine» di Guitry al Carignano. A breve
    distanza di tempo sono state rappresentate a Torino due nuove
    commedie di Sacha Guitry L'illusionista e Jean La Fontaine: un
    insuccesso e un mezzo successo. Non è giustificata la diversa
    accoglienza fatta ai due lavori; non è giustificata almeno da
    un punto di vista critico. È sempre lo stesso Guitry, che si
    mantiene allo stesso livello, in queste due ultime commedie come
    nelle precedenti: La presa di Bergop-Zoom, o Facciamo un sogno.
    L'Illusionista anzi è piú completa delle altre, rivela
    meglio l'autore, perché nel titolo stesso è contenuto
    il programma artistico del Guitry.
    
    Non teatro dei soliti, sebbene l'originalità sia puramente
    esteriore; non gli intrecci soliti; ma dialogo; puro dialogo, che
    deve suscitare ondate di simpatia negli spettatori, cosí come
    deve prima suscitarle in uno degli interlocutori. L'azione non
    è urto di grandi passioni, elaborazione di forti
    personalità fantastiche che operano, suscitando contrasti
    drammatici o comici: è lieve, vellutata creazione di stati
    d'animo provvisori, che si esauriscono in breve tratto di tempo,
    finché dura l'illusione che la parola melliflua, che il
    discorso capzioso sono riusciti a destare. È sempre un
    illusionista che Sacha Guitry introduce nelle sue commedie,
    illusionista che incanta le femmine per una breve ora d'amore, che
    cerca spiritualizzare l'atto sessuale quando esso è
    piú meccanico e animalesco, nelle avventure da pochades,
    cosí come esso dovrebbe essere nelle manifestazioni normali
    della sessualità, nel matrimonio, nella convivenza che ha un
    fine superiore al piacere. Nell'Illusionista il giuoco scenico
    è piú raffinato e sottile: la commedia è caduta
    (almeno nella sua clamorosità) perché
    l'interpretazione buffonesca ha impedito fin dalla prima battuta che
    si iniziasse l'incantamento, la suggestione. Gli interpreti non
    hanno preso sul serio l'autore, e la tenuità comica è
    diventata grottesca buffoneria, cosí lontana dalle
    possibilità del dialogo, che questo si è appesantito
    immediatamente in un immenso tedio, in una sguaiatissima caricatura.
    
    Jean la Fontaine ha avuto miglior fortuna. Esso è la
    descrizione del ciclo che deve subire il matrimonio perché
    diventi moralità. Il Guitry, nonostante le apparenze,
    è autore essenzialmente morale, perché lo sforzo
    massimo dei suoi lavori consiste nel far arrivare i protagonisti a
    un piano superiore di spiritualità in cui si giustifichino e
    si moralizzino gli istinti e i capricci. La giustificazione morale
    del matrimonio è l'amore; Jean La Fontaine si separa dalla
    moglie infedele, vive la pienezza della sua intellettualità,
    raccoglie fama e popolarità, e ritorna alla moglie, non come
    marito autenticato e legalizzato dal contratto nuziale, ma come
    uomo, come amante. Nel terzo e nel quarto atto il Guitry applica il
    suo metodo, crea l'illusione verbale del nuovo contratto, del nuovo
    ambiente morale in cui dovrà svolgersi l'attività
    amorosa, la convivenza nuova dei due soci. La Fontaine come storia,
    come uomo già vissuto, è un pretesto che serve ad
    aumentare l'illusione, che accresce forza alla dimostrazione
    implicita di una tesi, col fascino che il grande scrittore esercita
    in Francia. Il mezzo successo che la commedia ha ottenuto in Italia
    è dovuto in parte anche alla mancanza di questa suggestione,
    esteriore quanto si vuole, ma sulla quale lo scaltro autore deve
    aver calcolato come su un ingrediente di primordine per il grande
    successo [nel suo paese]. Cosí pure è andata perduta
    l'intima potenza suggestiva di una gran parte del dialogo, che non
    risvegliava nel pubblico nostro nessuna eco, nessun richiamo a una
    tradizione letteraria e di costume vivissima in Francia. Ma la
    commedia è emersa, malgrado tutto, e ha interessato, come
    dovrebbe interessare sempre il Guitry, che è superiore
    indubbiamente alla paccottiglia solita del teatro francese, e
    stimola il gusto, e raffina, sia pure per antitesi, la
    sensibilità, tanto nel pubblico, come negli attori, che
    devono continuamente padroneggiarsi, evitare le esagerazioni, non
    cadere nel volgare e nel banale. Luigi Carini era Jean La Fontaine,
    e seppe trarre dal dialogo gli effetti migliori coadiuvato con zelo
    e misura dagli altri attori della sua compagnia.
    
    (28 marzo 1918).
    
     
    
     
    
    Angelo Musco. E. A Berta ha fatto tradurre per Angelo Musco, dalla
    lingua letteraria in dialetto siciliano, una commedia inedita.
    L'omaggio non è dei piú significativi, data la smania
    teatrale dello scrittore che lavora (!) perfino per le marionette,
    ma ha pure il suo valore. Angelo Musco è ormai qualcuno nella
    storia del teatro italiano, ed è riuscito a imporre il teatro
    dialettale della sua regione.
    
    Cinquant'anni di vita unitaria sono stati in gran parte dedicati dai
    nostri uomini politici a creare l'apparenza di una uniformità
    italiana: le regioni avrebbero dovuto sparire nella nazione, i
    dialetti nella lingua letteraria. La Sicilia è la regione che
    ha piú attivamente resistito a questa manomissione della
    storia e della libertà. La Sicilia ha dimostrato in numerose
    occasioni di vivere una vita a carattere nazionale proprio,
    piú che regionale: quando la storia del Risorgimento e di
    questi ultimi sessant'anni sarà scritta per la verità
    e l'esattezza, piú che per il desiderio di suscitare
    artificialmente stati d'animo arbitrari, per la volontà di
    far credere che esiste ciò che solo si vorrebbe esistesse,
    molti episodi della storia interna appariranno sotto altra luce, e
    la causa della unità effettiva italiana (in quanto è
    necessità economica reale) se ne avvantaggerà. La
    verità è che la Sicilia conserva una sua indipendenza
    spirituale, e questa si rivela piú spontanea e forte che mai
    nel teatro. Esso è diventato gran parte del teatro nazionale,
    ha acquistato una popolarità nel settentrione come nel
    centro, che ne denotano la vitalità e l'aderenza a un costume
    diffuso e fortemente radicato. È vita, è
    realtà, è linguaggio che coglie tutti gli aspetti
    dell'attività sociale, che mette in rilievo un carattere in
    tutto il suo multiforme atteggiarsi, lo scolpisce drammaticamente o
    comicamente. Avrà un influsso notevole nel teatro letterario;
    servirà a sveltirlo, contribuirà, con la virtú
    efficace dell'esempio, a far decadere questa produzione provvisoria
    del non ingegno italiano, produzione di uomini togati, falsa,
    pretenziosa, priva di ogni brivido di ricerca, di ogni
    possibilità di miglioramento.
    
    Luigi Pirandello, Nino Martoglio specialmente, hanno dato al teatro
    siciliano commedie che hanno un carattere di vitalità. Ma
    certo la fortuna è dovuta per molta parte ad Angelo Musco.
    Attore d'istinto, il Musco si presenta con tutte le disuguaglianze e
    le impulsività di un uomo ricco di vita interiore, che in
    ogni interpretazione erompe selvaggiamente in manifestazioni di una
    plasticità sorprendente. È vita ingenua, sincera, che
    trova nel movimento plastico l'espressione piú adeguata. Il
    teatro ritorna alle sue originarie scaturigini: l'attore è
    veramente interprete ricreatore dell'opera d'arte; questa si
    confonde col suo spirito, si scompone nei suoi elementi primordiali
    e si ricompone in una sintesi di movimenti, di danza, elementare, di
    atteggiamento plastico; perde della sua letteratura verbale e
    ritorna vita fisica, vita di espressione integrale: tutto il corpo
    diventa lingua, tutto il corpo parla. Certo l'essere dialettale,
    l'adagiarsi nelle manifestazioni umane piú vicine
    all'originarietà umana, dànno questo carattere
    specifico al teatro siciliano, dànno tutte queste
    possibilità espressive ad Angelo Musco. Ma è la
    quistione solita dell'uovo e della gallina: Musco ha il teatro che
    si merita solo perché se lo merita, perché lo
    comprende, lo rivive. E il suo merito non è sempre uguale
    infatti: egli ha qualche volta il torto di sforzare interpretazioni
    impossibili, perché il lavoro è vuoto di ogni
    espressività. Ma diventa grande quando l'autore dà
    almeno uno spunto artistico, che dia possibilità di
    continuazione, di integrazioni. Basta ricordare Angelo Musco in
    Liolà di Luigi Pirandello, una delle piú belle
    commedie moderne che la sguaiata critica pseudo-moraleggiante ha
    fatto quasi del tutto ritirare dal repertorio.
    
    (29 marzo 1918).
    
     
    
     
    
    Giosuè Borsi. Giosuè Borsi è egli stesso un
    rinnovellato della guerra (nella memoria degli amici, almeno,
    perché morto al fronte). La compagnia Zago ha presentato un
    suo lavoruccio, di quando il Borsi era ancora volterriano,
    anticlericale, alla Carducci. Commediola informe, leggera, che
    potrebbe vivere in un epigramma. A una festa di nozze settecentesca,
    partecipa il cardinale patriarca di Venezia; egli ricorda la prima
    confessione ricevuta da sacerdote, e la profonda impressione
    provatane, perché il penitente era un parricida. Il padre
    dello sposo, che non ha sentito, ricorda anch'egli qualcosa, e
    precisamente d'essere stato il primo penitente del patriarca.
    Disperazione del figlio, subbuglio, e intervento del patriarca che
    rimette la pace negli animi, turbati dalla sua leggerezza. Il Borsi
    è tutto in questo lavoretto: egli è stato esaltato dai
    cattolici per la conversione rivelata dalle carte rimaste, ma la
    conversione non ha mutato in profondità la superficiale
    retorica che era caratteristica dei suoi scritti; letterato di
    spolvero, ammiratore e imitatore del Carducci in ciò che del
    Carducci era meno vitale, non è stato imposto neppure dalla
    réclame che i cattolici hanno fatto ai suoi scritti postumi.
    Il suo misticismo è della stessa lega del suo volterrianismo.
    
    (17 aprile 1918).
    
     
    
     
    
    «Occhi consacrati» di Bracco al Carignano. Anche questo
    atto, scritto qualche anno fa, appartiene al teatro delle
    «riabilitazioni di guerra». Ma il Bracco vi ha messo
    qualcosa di piú: ha cercato, attraverso alcune scene
    vigorose, di creare un carattere, il quale è superiore alle
    contingenze, all'occasionalità, cerca di vivere indipendente,
    sebbene di scorcio, per accenni, piú che per ricostruzione
    diffusa e completa.
    
    Una ragazza napoletana è stata sedotta e abbandonata
    dall'amante. Diventa donna Filomena, fredda e perversa creatura di
    piacere, ambientata in una osteriola, nella quale è signora e
    padrona degli uomini che frequentano. In pochi tratti appare il suo
    animo, irrigidito, astratto da ogni umanità: ha legato a
    sé un uomo ammogliato, che lascia nella fame e nella
    sofferenza la moglie e tre figli, senza amarlo, perché ella
    rimane unita da un odio amoroso col seduttore, con l'uomo che
    fanciulla ingenua, religiosa, senza alcuna tutela, l'ha tradita e
    affondata nel fango. E costui ritorna, dopo una sapiente
    preparazione, fatta da un vecchio mendicante, che rievoca il
    passato, che risveglia l'umanità di donna Filomena, sia pure
    facendola urlare di dolore e d'odio: ritorna cieco, umile, pentito,
    rinnovato, e donna Filomena, colpita nell'intimità piú
    profonda, perdona, si spoglia dei ricordi del passato, allontana da
    sé l'amante, e rientra nella normalità morale. Il
    piccolo dramma, interpretato con vigore dalla Melato, dal Betrone,
    dal Ninchi, e dal Berti, pur con qualche sforzo per la tinta
    dialettale voluta conservare al dialogo, ha ottenuto sei chiamate
    dal pubblico.
    
    (17 aprile 1918).
    
     
    
     
    
    «Marionette che passione!» di Rosso di San Secondo al
    Carignano. Avventure di sfaccendati, sceneggiate da un dilettante
    d'ingegno. L'ingegno permette a Rosso di San Secondo di portare sul
    teatro la formula famosa: per fare un cannone si prende un buco e lo
    si avvolge di bronzo: egli prende il vuoto, lo avvolge di parole,
    messe in ordine dialogico, divise in sezioni (scene e atti). Il
    vuoto è nei personaggi, nell'intrinseca sostanza dell'anima
    loro. Sono creature umane? Vivono? Ohibò, sono marionette,
    solo marionette, ma non in senso ironico: il burattinaio che li fa
    muovere non è la passione, è la vuotezza spirituale:
    non vivono; parlano, o meglio, l'autore parla, non i personaggi:
    essi sono terribilmente uguali, essi sono una tesi, la piú
    comune e volgare delle tesi: che gli uomini non siano altro che
    burattini.
    
    Tre sfaccendati si incontrano in un ufficio telegrafico: non hanno
    nome perché non sono individui, ma tipi. I tre sono agitati
    da uno stesso demone: la passione. Una cantante tradita e bastonata
    dall'amico, che pur continua ad amare. Un ingegnere tradito dalla
    moglie, un signore in grigio tradito dall'amica. La signora è
    una figura scialba, evanescente; la sua passione potrebbe essere
    benissimo puro fenomeno nervoso, puro dispetto: non ha certo il
    carattere della tragicità, non si esprime, perché il
    nulla non ha espressione. L'ingegnere è personaggio da
    pochade: la sua passione è tremolio gelatinoso di pover'uomo
    che ne ha visto una grossa: non poteva non essere tradito, questa
    l'unica, piccola, ridicola tragicità della sua avventura
    coniugale. L'uomo in grigio è la base del dramma, il
    mistagogo, la bocca della verità rivelata. È lo
    sfaccendato per eccellenza, che da un anno sgomitola dal suo
    cervello barzellette che l'autore prende sul serio fino a crederle
    profonda filosofia della vita. I tre si scontrano: la dama sta per
    entrare in congiunzione con l'ingegnere, ma se questo piccolo fatto,
    banale e umanissimo, accadesse, due atti non avrebbero ragione
    d'esistere. Il fatto ameno non accade: il mistagogo s'interpone,
    parla di apocalissi. Poi si reca egli stesso in casa della dama.
    Prolissità di scene pseudooriginali, di una
    meccanicità ingegnosa che invano cerca nascondere il vuoto
    sostanziale: ridda di larve senza ossa né carne. I tre
    riuniscono i loro destini intorno a una tavola di ristorante:
    romanticismo macabro, rugiadoso come una ballata del 1830. La dama
    viene raggiunta dal suo amatore e sparisce, pregustando nuove botte;
    l'uomo in grigio si uccide. L'ingegnere si appiccica a una artista,
    dalla quale sarà fatalmente tradito alla prima occasione. Il
    pubblico fischia ridendo.
    
    Ha scritto J-H Rosny: «Molti giovani i quali oggi
    s'accaniscono a scrivere mediocri romanzi (o commedie, aggiungiamo)
    sedicenti letterari, riuscirebbero a scrivere, se incoraggiati,
    romanzi d'avventure interessanti, e potrebbero alimentare le
    appendici dei giornali, con lavori certo piú intelligenti dei
    romanzi che i giornali invece pubblicano».
    
    Nessuno vorrà incoraggiare Rosso di San Secondo?
    
    (21 aprile 1918).
    
     
    
     
    
    «Mister Wu» di Vernon e Owen al Carignano. Mister Wu
    è un personaggio da romanzo d'avventure per persone colte:
    come quelli di Guido Boothby, costruiti con l'ingrediente comune del
    meraviglioso concatenarsi degli avvenimenti per l'arbitrio del
    protagonista, ma in cui però l'autore si sforza di evadere
    dal dominio del puro avvenimento per rilevare un carattere forte,
    che ubbidisce alle grandi passioni elementari dell'anima umana, e
    acquista quindi a tratti un colorito di umanità che
    impressiona il lettore e lo spettatore. Mister Wu ritrova i suoi
    antenati nel Veglio della Montagna di Marco Polo e nel dottor Nikola
    dell'australiano Boothby; nel terzo atto del dramma egli domanda
    ispirazione a Scarpia, per la sua vendetta. Motivi elementari,
    semplicissimi, che fanno presa immediatamente nella coscienza degli
    spettatori e determinano commozioni profonde, all'infuori di ogni
    forma artistica, di ogni armonia. È questo il segreto del
    successo dei drammoni popolari, come anche delle grandi tragedie
    classiche. Gli uni e le altre rappresentano le originarie e
    fondamentali passioni: l'amore paterno o filiale, la vendetta, la
    gelosia, l'odio, il fanatismo; esse sono comprese subito anche dal
    piú ottuso degli spettatori, fanno vibrare all'unisono gli
    animi, che si compenetrano dell'azione, la comprendono tutta senza
    residui, se ne esaltano intimamente e applaudono con frenesia. La
    tragedia classica vive immortale per tutti; ma anche il drammone
    è immortale e chi non ha educato la sensibilità e la
    fantasia, si estasia ancora dinanzi alla rozza e artefatta
    umanità dei romanzi d'appendice, dei drammi di Sardou o di
    Bernstein.
    
    Mister Wu ha beneficiato di questa predisposizione del gusto, e, in
    verità, noi non vogliamo sostenere che i suoi casi non
    meritino piú attenzione dei casi di una bellissima donna da
    dramma letterario, angosciata dal quadruplice spasimo di un
    raffinato amore fatalmente accesosi a una gara ippica.
    
    Mister Wu vuole vendicare sua figlia, sedotta da un giovane europeo.
    È un'anima complicata il signor Wu; cinese educato
    all'europea, vuole vendicarsi, da uomo al di sotto di ogni
    civiltà, ma la vendetta prepara disposando la crudeltà
    orientale con il progredito senso di reciprocità degli
    europei. Il Veglio della Montagna veste gli abiti del sardoniano
    Scarpia. Mister Wu incomincia col sequestrare il seduttore di sua
    figlia, quindi scatena sull'infelice signor Gregory, padre del
    giovane, tutte le malefiche forze di cui egli dispone nella sua
    misteriosa potenza: il signor Gregory ha notizia che le navi della
    sua flotta commerciale affondano o s'incendiano in alto mare: gli
    affari sono insidiati e non fruttano, i suoi uomini di fatica gli si
    ribellano e domandano aumenti di mercede ogni tre ore. Fin qui
    Mister Wu rimane cinese e lo spettatore può credere davvero
    che nel Cataio le disgrazie possano essere mosse da un uomo come il
    bimbetto fa muovere le pallottoline del pallottoliere. Ma Wu si
    ricorda d'essere anche europeo e tende un laccio alla signora
    Gregory, la madre. La attira in casa sua e la ricatta. Tragica
    situazione di una madre europea in Cina! Lo scioglimento non tarda.
    Una mano benefica porge alla signora una potente dose di stricnina;
    il veleno, per mirabile concatenarsi d'eventi, invece di dare alla
    storia una Lucrezia in Cina, va a finire nello stomaco di Wu, che
    muore caprioleggiando. Il destino ha punito un infame, ma salvato
    una madre dal disonore, ha restituito un figlio ai suoi genitori. Il
    finale corona il dramma e riscuote gli applausi piú calorosi.
    
    In fondo questi applausi significano come i sentimenti
    immarcescibili dell'animo umano siano veramente tali, e lo
    scetticismo non abbia ancora addentato e corroso le ingenue carni
    dei cuori moderni, antichi invero quanto antico è l'uomo
    stesso, con le sue ipocrisie e i suoi omaggi alla virtú.
    
    (5 maggio 1918).
    
     
    
     
    
    «Racanaca» di Villauri all'Alfieri. Racanaca è un
    buon uomo di Melito, in Sicilia, e nella commedia si segnano i
    momenti tipici della sua carriera politica. Racanaca non ha un
    temperamento politico; è corto d'intelletto, è
    ingenuo, non saprebbe cavarsela negli intrighi e nelle
    attività un tantino complicate. Un giovane solitario studioso
    di Melito se ne serve per la realizzazione delle sue teorie
    politico-economiche, e per soffiargli la moglie. Cosí
    Racanaca si fa iniziatore a Melito di un sistema di cooperative
    agricole che dia ai contadini l'illusione di essere diventati i
    padroni della terra, viene eletto deputato e si stabilisce a Roma.
    
    Due azioni si svolgono parallelamente: una in cui risalta la figura
    di Racanaca nei suoi rapporti artificiali col mondo esterno, azione
    ricca di spunti comici, e che ha procurato alla commedia un buon
    numero di applausi. La seconda dovrebbe sviluppare i motivi
    passionali per cui Nino Laurenzi, giovane d'ingegno, di dottrina,
    buon oratore, mette al servizio di Racanaca tutte queste
    qualità e rimane ignorato, incompreso. Ama la moglie della
    sua creatura intellettuale. Ma appunto questa parte è appena
    accennata, molto vagamente adombrata: non c'è saldatura tra
    le due azioni, che artisticamente dovrebbero ridursi a una sola, non
    potendosi il fenomeno Racanaca spiegare senza queste motivazioni
    extrapolitiche. La commedia è di accenni, perciò,
    piú che una elaborazione compiuta e definitiva. Gli scorci,
    le impostazioni di luci e di rilievi sono ottenuti meccanicamente,
    ma esistono tuttavia, e pur senza avere tutta l'efficacia
    rappresentativa, dànno dei buoni risultati scenici. L'autore
    non ha ancora spogliato la sua concezione di ciò che di
    grezzo e immaturo essa trascina con sé; ma questa stessa
    ingenuità artistica è, in un primo lavoro, promessa di
    ulteriore elaborazione e di superamento progressivo.
    
    A Roma la fortuna di Racanaca si afferma subito in Parlamento. La
    sua teoria dell'abolizione della lotta di classe, ottenuta mediante
    l'illusione proletaria di un condominio dello strumento di lavoro,
    ottiene successo tra i capitalisti e anche presso alcuni maneggioni
    della Camera del lavoro. Racanaca è maturo per un portafoglio
    ministeriale. Un punto d'arresto: il suo segretario, il suo cervello
    vuole abbandonarlo, perché disilluso nella speranza di un
    facile adulterio. La speranza viene fatta rinascere dalla signora,
    che desidera che suo marito continui nella carriera degli onori.
    
    L'adulterio matura nel terzo atto. Uno sciopero generale è
    scoppiato nell'Agro romano; i contadini hanno invaso le terre, ne
    pretendono la requisizione da parte dello Stato. Laurenzi prepara un
    successo popolare al ministro, viatico necessario per una probabile
    presidenza; la requisizione sarà decretata e finirà
    con l'essere utile specialmente ai proprietari, ai quali
    assicurerà un reddito sicuro da ogni alea. E, mentre Racanaca
    discuterà in seduta la disposizione di legge, Laurenzi
    coglierà il frutto di tanto lavoro, continuato per anni e
    anni.
    
    La commedia è piaciuta, indubbiamente; la presentazione
    obiettiva, senza intenti partigiani, dell'ambiente politico, con le
    sue ipocrisie, con la sua imbecillità costituzionale, ha
    strappato spesso risate cordiali. Situazioni farsesche? Ma la vita
    politica è purtroppo farsa il piú delle volte, e tutta
    Roma non è, da cinquant'anni, che il teatro di una farsa
    sinistra ai danni della nazione italiana. Una commedia, per
    rappresentare una vita politica, dovrebbe ambientarsi in Cina o in
    Persia, secondo la tradizione letteraria delle Lettere di
    Montesquieu. La vita politica italiana è composta di cuoiai e
    salsicciai gabbamondo come nel mondo comico d'Aristofane, e
    rappresentarla porta necessariamente alla farsa.
    
    Al buon successo della commedia contribuí l'interpretazione
    ottima di Giulio Paoli, A. Betrone e della signora Frigerio.
    
    (12 maggio 1918).
    
     
    
     
    
    Virgilio Talli. Virgilio Talli è forse il piú acuto
    critico letterario che oggi esista in Italia. Non credo che le
    librerie vendano suoi volumi di saggi, il suo nome probabilmente non
    apparirà mai nelle storie dell'estetica o della letteratura,
    ma ciò poco importa. Probabilmente ancora, se il Talli
    dovesse stendere in iscritto il suo giudizio su un lavoro teatrale,
    questo giudizio sarebbe banale, generico, privo di vita e zeppo di
    frasi fatte.
    
    L'energia critica del Talli si rivela e si esaurisce
    nell'àmbito della compagnia drammatica di cui è
    direttore: i suoi saggi sono le interpretazioni che la compagnia
    crea dei drammi e delle commedie, la sua specifica opera è
    diventata spontaneità, naturalezza negli attori, adesione del
    gesto, della musica vocale con l'intimo spirito dei personaggi
    rappresentati. La personalità del Talli viene cosí a
    sparire nell'insieme, è difficilmente rintracciabile.
    L'attività sua di rivelatore, di maestro, diventa vita degli
    altri, dei discepoli. Talli ha fatto rivivere, con mirabile
    precisione, le famiglie artistiche del quattrocento, in cui c'erano
    il maestro e i discenti, e il maestro svolgeva l'opera sua
    pedagogica, educativa in un fitto lavoro di collaborazione
    umanistica, dalla quale scaturí l'infinito mondo di bellezza
    del Rinascimento. Questi maestri sono spesso nulla fuori della loro
    scuola, della tradizione che creano e sviluppano: la loro natura non
    è tanto di creatori individuali quanto di educatori e
    rivelatori. La loro grandezza e perfezione è nei discenti, i
    quali rapidamente assurgono alla completezza, perché il
    maestro ha loro risparmiato ogni dispersione di energia in tentativi
    arbitrari, in esperienze inutili. La scuola è per lo spirito
    ciò che il metodo Taylor è per i gesti meccanici del
    corpo: economia di esperienza e di fatiche, acceleramento
    dell'evoluzione spontanea, organizzazione dell'intelletto.
    
    Talli svolge la sua attività nelle prove: lavoro di
    miniatura, raffinato e sottile sforzo di elaborazione paziente. Il
    dramma si frantuma nei suoi elementi primordiali: le parole, i
    movimenti. Ma in ognuno di questi elementi continua a vivere
    l'intiero dramma. E l'analisi minuziosa incomincia. Il dramma viene
    esaminato, pesato, studiato, in ogni piú sottile nervatura,
    in ogni fibrilla di tessuto. Talli è l'orafo che trae dal
    metallo il suo timbro riposto, ne intuisce il valore effettivo, e lo
    sgrana in collane e monili di infinito pregio.
    
    La sua fantasia, dall'intuizione rapida dominatrice, padroneggia
    tutta l'azione, e la rivive per i suoi discepoli. Ogni personaggio
    acquista una individualità distinta, ogni parola diventa
    sintesi di uno stato d'animo distinto. Talli ripete la parola, la
    amplifica, la pone in relazione col discorso interiore sottaciuto di
    cui è conseguenza: essa perde cosí ogni valore
    meccanico, di pura sonorità, diventa interiorità, vita
    spirituale, si colora di tutta una personalità, di tutta
    un'anima, scocca dalla gola, dalle labbra come una necessità
    fatale, si comprende come debba essere quella e non un'altra,
    accompagnata da quel gesto e non da un altro, modulata con quei toni
    e non con altri. E l'unità spirituale dell'individuo diventa
    unità spirituale della scena. Tutto vive: l'ambiente
    dev'essere cosí e non altrimenti, perché anche la
    esteriore parvenza delle cose si riflette sugli uomini e ne
    determina sfumature di atteggiamento che non bisogna trascurare.
    
    La parola del Talli è suggestiva in modo irresistibile. In un
    romanzo di Rudyard Kipling c'è quest'episodio: un mago della
    volontà vuol provare l'intimo metallo dell'anima di un
    giovanetto e lo sottopone a un esperimento di illusione. Il
    giovanetto deve scagliare una brocca piena di acqua: la brocca va in
    frantumi innumerevoli, l'acqua si versa. Eppure, sotto l'influsso
    della volontà dominatrice, il giovanetto vede lentamente
    questi frantumi ritornare al loro posto, saldarsi fra loro: l'acqua
    versata sparisce e nella fantasia l'immagine della brocca rifiorisce
    dal nulla, nella sua interezza primitiva.
    
    Cosí Talli sminuzza e ricrea i drammi per i suoi attori, li
    analizza e sembra distruggerli; ma nella sapiente analisi la sintesi
    è potenziale e si afferma nelle prime rappresentazioni,
    dinanzi al pubblico che applaude e non pensa neppure all'artefice
    maggiore, al maestro che ha raccolto in un fascio le singole energie
    e le ha rivelate a loro stesse.
    
    (14 maggio 1918).
    
     
    
     
    
    «S. E. di Falcomarzano» di Martoglio all'Alfieri. Tre
    atti ridanciani, onesti e lieti. Lisci come il pavimento cerato di
    un buon salotto borghese, in cui si lasciano le finestre sempre
    chiuse con gli scuri, perché la luce non rovini le
    cromolitografie delle pareti. Si raccontano i casi piuttosto
    rocamboleschi del principe di Falcomarzano, deputato al parlamento,
    padre di due rampolli, dei quali la femmina non piú
    fanciullina, spiantato come uno zingaro errabondo, che aspira a
    diventare plenipotenziario in Cina, per potere, come Verre in
    Sicilia, riassestare i suoi negozi.
    
    Il principe vive alla giornata elegantemente truffando i conoscenti,
    sempre superiore alle miserie della vita, al denaro, al vile
    borghese che il denaro sborsa. Prende quattromila lire da un
    imbecille che desidera una onorificenza, a titolo di oblazione per
    un istituto che ancora non è sorto. Appiccica per ventimila
    lire un ritratto a un altro imbecille che se ne servirà per
    provare i suoi diritti al titolo di conte, e cosí via: sempre
    però mantenendosi nella linea del suo titolo principesco,
    dell'avvenire politico che vuole conquistare.
    
    Gli riesce di far sposare sua figlia da un ricco giovane borghese,
    salvando anche in questo caso le apparenze, poiché sua figlia
    viene rapita. E dopo difficile lotta riesce anche a diventare
    plenipotenziario a Pechino, sebbene suo figlio abbia sposato una
    borghesuccia, mettendo in pericolo il maturato disegno, per il quale
    l'ambasciata doveva essere il premio politico di un matrimonio tra
    il duchino e una marchesina alquanto calante per la cattiva fama dei
    genitori.
    
    La trama è svolta piacevolmente, in un dialogo snello e
    fluido, senza ricercatezze e abuso di spirito verbale. Ruggero
    Ruggeri era il protagonista. La commedia fu applaudita
    calorosamente.
    
    (23 maggio 1918).
    
     
    
     
    
    «La dame de chambre» di Gandera al Carignano. Una
    commedia dell'intossicamento sessuale, come tante altre che furono e
    che saranno. Il sesso rimane, e rimarrà ancora per un pezzo,
    la preoccupazione maggiore della nostra società (della
    società costituita, della società che non lavora o
    può non lavorare), l'enigma insolubile: i lettori e i
    commediografi girano intorno alla Sfinge, claudicanti Edipi, e non
    potendo penetrare descrivono, ripetono, condiscono con qualche nuova
    droga piccante.
    
    Il Gandera è dei meno noiosi scrittori di pochades: non esce
    dal puro meccanismo, dall'esteriorità descrittiva del brivido
    carnale, ma non cade nella sguaiataggine, o almeno non vi cade
    troppo spesso: lavora con coscienza, porta a ripulitura i suoi
    prodotti. Il genere si perfeziona: il mercato è piú
    esigente: la vita, ahimè, diventa ogni giorno piú
    difficile e seminata di triboli.
    
    Il Gandera ha complicato sessualmente il vecchio spunto novellistico
    della moglie che si sostituisce all'amante del marito: un orario
    delle ferrovie gli è servito da trampolino. Un marito non
    impartisce piú alla moglie la razione legittima di
    felicità coniugale. Di chi la colpa? Del marito o della
    moglie? La moglie vorrebbe uscire dal dilemma dilacerante: il
    Gandera le viene in aiuto. Il marito si incapriccia della cameriera
    (un manichino che dal titolo dovrebbe sembrare essere la
    protagonista del dramma), ne ottiene pietosamente una notte d'amore,
    e ottiene dall'amico di famiglia l'uso dell'appartamentino. La
    moglie scopre la tresca, e si reca lei a tentare l'esperienza (di
    chi la colpa?). Complicazione. Il marito parte durante la notte e
    viene sostituito nella bisogna dall'amico, che anch'egli vuole
    tentare la sua gherminella. Giornata delle rivelazioni. Il marito
    scopre di essere diventato ciò che mai avrebbe voluto. La
    moglie ha scoperto un amante fatale e l'amico altrettanto. La vita
    familiare si compone in un raffinatissimo adulterio. Il pubblico ha
    scoperto un nuovo autore di commedie allegre, che con maggior
    delicatezza di altri sa fare il solletico alla pianta dei piedi e
    integrare le delizie di un «virginia».
    
    (4 settembre 1918).
    
     
    
     
    
    «Lift» di Armont e Gerbidon al Carignano. In Lift,
    commedia sessuale-sentimentale di Armont e Gerbidon, troviamo un
    personaggio quasi originale: l'etairogogo, il professore di belle
    maniere per le cortigiane geniali, che si propongono la conquista di
    una brillante posizione sociale. Il professore non ha nulla di
    socratico, cosí come le sue discenti non hanno nulla da
    spartire con Aspasia; la galanteria, nei tre atti moderni, è
    posta bensí come funzione sociale, ma il motivo non supera
    l'espressione plateale delle comuni pochades, ed è anzi
    sviluppato con poca disinvoltura e molta prolissità. Rimane
    irriducibile una forza comica che gli autori non hanno saputo
    elaborare artisticamente, soggettivandola: essi hanno intravisto un
    mondo di comicità, ma esso è rimasto inerte, puramente
    intenzionale.
    
    La cocotte che percorre il curricolo della gloria sociale è,
    in fondo, una povera figliuola nata in una novella romantica, con
    aspirazioni piccolo-borghesi per il matrimonio, il talamo familiare
    e la bianca culla in cui strilla e sgambetta un roseo pargoletto. Il
    suo ascendere verso la gloria è dovuto a volontà
    estranee, alle suggestioni del professore; se queste volontà,
    se queste suggestioni fossero state, dagli autori, viste come
    dinamismo autonomo di una donna moderna, che solo nella galanteria
    può trovare la libertà negatale dal costume per
    l'estrinsecazione delle sue energie sociali buone, avremmo avuto una
    commedia del costume ricca di contenuto morale, cioè una
    opera d'arte e non una sceneggiatura commerciale. Gli autori non
    hanno saputo o non hanno osato: è piú facile e
    piú gradito al pubblico il lieve colpo di spillo, la burletta
    superficiale, la caricatura bonaria che non urta troppo di petto la
    convenzionale moralità e anzi solletica lo scetticismo pelle
    pelle.
    
    Lift sale dal quartierino povero fino al pranzo ministeriale,
    all'amicizia di una Eccellenza, al salotto politico in cui si
    decidono le sorti di uno Stato e magari di un regime, ma è
    ascensione «alpinistica», non episodio umano di
    «volere è potere», determinato socialmente dal
    confluire necessario di tutte le forze agenti della vita
    contemporanea.
    
    (11 settembre 1918).
    
     
    
     
    
    «Tardi al treno» di Zambaldi al Carignano. Lo scrittore
    di teatro Silvio Zambaldi è come un giocoliere giapponese che
    estragga scatola da scatola, e il pubblico aspetta finalmente si
    giunga alla sospirata scatola che deve contenere lo enigma
    giustificante l'attesa e la spesa. Il giuoco delle scatole si
    è iniziato con la prima commedia dello Zambaldi, e si inizia
    colla prima scena di ogni commedia. Lo Zambaldi è ancora e
    sempre «uno scrittore che promette» e non si decide mai
    a mantenere; è una scatola chiusa che ne contiene delle altre
    e si aspetta che finalmente in una si trovi il brillante da
    incastonare nel diadema del teatro nazionale.
    
    Tardi in treno, i tre nuovi atti di Silvio Zambaldi, presentati
    dalla compagnia Gandusio, non sono certo il brillante aspettato.
    Una, due, tre scatole: vuoto finale.
    
    Inizio: interessante come tutti gli inizi perché inizi. Due
    sposini perdono il treno del viaggio di nozze: la festa di imene
    sarà celebrata fra le pareti domestiche. Egli è molto
    stupido, ella è molto ingenua: i parenti sono ingombranti, le
    persone di servizio sono noiose: lo Zambaldi è infatti uno
    scrittore realista. Nel primo atto ci presenta: una cameriera
    pruriginosa che si lascia pizzicare dal collega e da un vecchio
    signore e quindi va a letto col collega; una vedovella che fa la
    schizzinosa con un avvocato ma poi consente di essere accompagnata a
    casa in vettura chiusa; una coppia di suoceri di buaggine infinita;
    uno zio che è stato tradito dalla moglie. Questa è la
    natura degli uomini e lo Zambaldi cosí rappresentandola
    è scrittore realista. Gli sposini si ubriacano (o natura,
    natura!); ella ingenua confessa un amoretto di bambina, egli si
    offende e dorme sul sofà. Nei due atti seguenti si assiste
    allo svolgersi di tutte le stupidaggini, le lungaggini, le
    chiacchierate, le rivelazioni che devono condurre alla pace generale
    e alla ricomposizione della famigliola scomposta al suo nascimento:
    si vede una suocera che imperversa, un suocero che è vittima
    di sua moglie, una cameriera che piange e si dispera per il fallo
    commesso, uno zio seduttore di cameriere che ammansa la suocera
    poiché le ricorda un episodio extramatrimoniale e altre
    simili originalissime novità servite in un dialogo insipido e
    lungo e pastaceo come il brodo di lasagne. Il giuoco delle scatole
    è finito, il pubblico ha rumoreggiato disilluso, ma
    aspettiamo: il capolavoro sarà per la prossima commedia.
    
    (19 settembre 1918).
    
     
    
     
    
    «L'uomo che incontrò se stesso» di L. Antonelli
    al Carignano. La compagnia Gandusio ha egregiamente recitato per la
    prima volta a Torino questa commedia dell'Antonelli. Un lavoro che
    si stacca nettamente da tutta la serie di novità della
    stagione, per arditezza di concezione e signorilità di
    svolgimento.
    
    Questo strano sogno che l'autore ha portato sulla scena, superando
    difficoltà di tecnica teatrale che sembravano insormontabili,
    questa fine satira della vita ha stupito il pubblico a cui da tempo
    non si ammanniscono lavori atti a sviluppare un pensiero. Molte cose
    buone si possono e si debbono attendere da questo giovane autore che
    sembra fornito di tutte le doti che occorrono per forgiare opere che
    lascino traccia nella vita del teatro e a cui arrise al Carignano il
    piú completo successo colla sua fantastica avventura.
    
    A ogni fine d'atto vi furono applausi e chiamate all'autore. Il
    Gandusio recitò come sempre, bene, e la Pini impersonò
    in modo perfetto la donnina frivola che non riesce a concepire il
    male, ma che lo fa, spinta fatalmente a esso da una forza che la
    domina. Anche l'Almirante, che impersonava l'altro io, seppe dar
    risalto alla figura del giovane che non conosce il mondo e le sue
    sozzurre, che non crede al male, né vi vuol credere e che non
    vede che rose sul suo cammino in questa bella primavera della vita
    dei suoi venti anni.
    
    (2 ottobre 1918).
    
     
    
     
    
    «Il marito ideale» di Wilde al Carignano. La compagnia
    di Irma Gramatica ha presentato una commedia di Oscar Wilde Il
    marito ideale, nuova per Torino; la commedia non ha avuto successo.
    Essa è un'opera piú letteraria che teatrale, da
    leggersi piú che da udirsi. Il contenuto drammatico è
    lievissimo e si sviluppa in situazioni comuni; l'autore si è
    dedicato esclusivamente al dialogo, alla parola; i caratteri si
    rivelano per ciò che le bocche dicono, attraverso il
    paradosso brillante, l'ingenua affermazione di fede puritana, il
    racconto di intrighi politici e finanziari. Un romanzo dialogato,
    che la compagnia della Gramatica ha presentato in modo degno
    dell'intimo valore letterario dell'opera.
    
    (14 novembre 1918).
    
     
    
     
    
    «Una sentimentale» di E. A. Berta al Carignano. La
    compagnia di Irma Gramatica ha rappresentato l'annuale contributo di
    E. A. Berta al teatro in lingua: Una sentimentale, tre atti in prosa
    con molte parentesi musicali. La commedia deve essere stata scritta
    almeno venti anni fa: gli accenni cronologici al passato prossimo
    vanno dal 1866 al 1880; ma l'autore non ha rimodernato il suo
    lavoro, sebbene vi abbia introdotte allusioni e avvenimenti
    recentissimi, senza accorgersi che un ascoltatore appena appena
    attento dovrebbe immaginare l'eroina della commedia come una donna
    di almeno cinquantadue anni (suo padre viene fatto morire nel 1866).
    E. A. Berta non ha voluto interrompere il rito annuale, e non avendo
    merce fresca, ha spolverato un vecchio prodotto della sua infinita
    quanto futile mania scrittoria. Nei tre atti si svolge un dramma
    «interiore» di femminilità offesa e incompresa,
    con alcune situazioni simili a quelle della «Nora» di
    Ibsen; simili esteriormente, ma inerti drammaticamente. Il Berta
    pone il dramma, non lo sviluppa. La sua fantasia non è capace
    di creare caratteri che abbiano consistenza e solidità umana:
    il pubblico dovrebbe commuoversi per l'astratta genericità di
    un dolore ineluttabile in certe situazioni, anche se questo dolore
    si esprime solo come uggioso belato pecorile e non come
    umanità individuale straziata che si compone artisticamente
    in poesia. Una moglie abbandona il tetto coniugale affermando di non
    essere compresa, e certo pare che cosi sia. Ma il processo
    drammatico è snervato e superficiale. La protagonista
    è una povera fanciulla sedotta che si redime nell'amore
    disinteressato e nel sacrifizio della quotidiana, misera vita
    familiare. Il seduttore le lascia una eredità di mezzo
    milione, e questo oro diventa la macchina infernale che distrugge
    l'amore e la felicità. L'autore abbozza una metafisica
    dell'oro: nell'oro è la personalità dell'uomo,
    nell'oro si continua la personalità dell'uomo. L'istinto
    conduce la donna a voler rinunziare all'eredità: accetta,
    perché suo marito crede con la ricchezza di poter diventare
    un grande compositore (egli è violoncellista). Secondo un
    postulato della metafisica bertiana il bello nasce dal bello, la
    ricchezza farà bella la casa, dalla bellezza della casa
    nascerà la bella musica, e il violoncellista che
    annoterà la bella musica sarà un grande compositore.
    Nella donna la metafisica si esprime in altre emozioni: il morto
    seduttore si continua nel suo oro, l'oro compra i mobili e il lusso
    della casa, il morto seduttore rivive nei mobili e nel lusso. Marito
    e moglie si allontanano l'uno dall'altra; la vita dell'uno (la
    bellezza che genera bellezza) è la morte dell'altra
    (l'oro-bellezza che è la colpa, il tradimento, ecc., ecc.).
    Cosí riassunta la commedia può parere interessante;
    l'autore potrebbe apparire capace di connettere idee. Non è
    cosí. La commedia non è neppure a tesi; essa è
    un informe accozzo di parole biascicate, senza espressione
    spirituale poetica, infarcito di spunti banalmente comici che si
    rincorrono a tira e molla. Il Berta non si accorge della mancanza di
    unità cronologica della commedia; non riesce cioè
    neppure a creare una unità esteriore; egli si aggira tra i
    personaggi, che vuole far vivere e parlare, come uno scarafaggio
    nella stoppa. Una dozzina di spettatori, con mirabile sangue freddo,
    sono riusciti a creare agli attori la suggestione necessaria per
    mezza dozzina di chiamate.
    
    (20 novembre 1918).
    
     
    
     
    
    «Appassionatamente» di Varaldo all'Alfieri. Desolazione
    di uno spettacolo «interventista». Imbottitura di
    cervelli che nessuna suggestione frenetica riesce piú a
    inverniciare di idealità cromolitografica. Anfanare faticoso
    di uno scrittore mediocre che per la prima volta si cimenta col
    romanticismo dei romanzi d'appendice e vuol trarne un dramma
    sensazionale che solletichi il cattivo gusto della platea, dia un
    buon gettito di applausi e di quattrini e procuri una nicchia nel
    camposanto dei benemeriti della quarta guerra del Risorgimento.
    Alessandro Varaldo dovrebbe per questi suoi tre atti,
    Appassionatamente, domandare un indennizzo allo Stato; industria di
    guerra rovinata dallo scoppio improvviso della pace. Tre atti senza
    un bagliore d'intelligenza. Trionfa il «talento» e
    cioè l'attitudine a utilizzare gli elementi piú
    disparati e contraddittori per un piccolo fine immediato: il
    sentimentalismo rugiadoso della moralina democratica che si esprime
    affermativamente o per contrasto in personaggi ritagliati nei vecchi
    clichés del romanzo popolare: l'aristocratica proterva e
    irriducibile, la dolce fanciulla vero angelo senz'ali, il sacerdote
    misericordioso e pio, la madre infelice, il bastardo sciagurato che
    nella carriera del vizio precipita fino all'assassinio. Gli
    ingredienti vengono agglutinati con la rozza goffaggine dello
    scettico che finge entusiasmo; i trucchi si succedono sgarbati e
    superficiali; il dialogo si diluisce senza alcuna suggestione
    letteraria; le scene si accavallano insensatamente culminando in
    «cartoline illustrate» pro-mutilati e pro-prestito di
    guerra; l'azione si scioglie al rombo del cannone che reintegra
    ognuno nei propri meriti. Ma perché non avere almeno quel
    tantino di buon gusto che è sufficiente per non condurre
    piú a spasso, dopo la pace, i cadaveri dell'interventismo
    blaterone?
    
    (22 novembre 1918).
    
     
    
     
    
    «Sole d'ottobre» di Lopez al Carignano. Sabatino Lopez
    è maestro nel far le bolle di sapone; sa opportunamente
    impiegare il corto respiro e sgranare dalla cannuccia, con ritmo
    uguale, quel tanto di bollicine tenui e fatue che accontenti il
    facile pubblico dei nostri teatri. Bonarietà,
    semplicità superficiale, dialogo facile, leggero, una
    pizzicatina alle corde del sentimento, un cartoccino di sale
    casalingo: nasce la commedia borghese, la commedia «per
    bene», che sa quel che si dice e quel che si fa, educata,
    lisciata, profumata allo spigo e al cotogno.
    
    I tre atti Sole d'ottobre, sono del Sabatino Lopez autentico; non ci
    manca neppure uno zinzino di volterrianesimo, coccarda
    dell'indipendenza intellettuale dei borghesi capi di famiglia che
    ricordano i tempi eroici del liberalismo da caffè. Un marito
    e una moglie, un suocero e una suocera, e un nipotino che fa
    diventar nonni i due vecchi: il marito ha tradito la moglie e i due
    nonni lavorano a risolvere il groppo: nel risolverlo bonariamente
    decidono di sposarsi e dare il buon esempio della convivenza
    coniugale. Un nulla, adorno di parole drogate per palati casalinghi,
    che è diventato qualcosa nella recitazione di Irma Gramatica,
    di Ernesto Sabbatini e degli altri bravi collaboratori della
    compagnia.
    
    (28 novembre 1918).
    
     
    
     
    
    «Le galere» di Tumiati all'Alfieri. È un capitolo
    della storia del Risorgimento italiano che Domenico Tumiati sta
    scrivendo per il pubblico che frequenta i teatri. Storia per uso del
    popolo che ha letto I misteri dell'inquisizione di Spagna e nel
    succedersi degli avvenimenti umani non sa vedere e crede non ci sia
    altro che il gesto spettacoloso, sia pure gesto di individui
    altissimi per carattere e energia morale. Cosí è che
    Domenico Tumiati diffama il Risorgimento italiano e, per quanto
    è dato a un lavoro di teatro, contribuisce a tener basso il
    livello medio della intellettualità italiana. Il dramma
    è concepito come un romanzo d'appendice: è una
    combinazione di elementi sociali e di lirica (!) individuale. La
    vita singola si intreccia con la vita sociale per diventarne un
    simbolo: l'eroe diventa la «vera» anima di un popolo,
    che si svolge secondo un processo di sviluppo coincidente con
    avventure amorose, idealizzate da un sublime spirito femminile che
    si confonde con un fine politico e umano. Il Tumiati molto
    rozzamente calca la mano su i motivi piú clamorosi: in un
    atto solo delle Galere si contempla un carcere cupo racchiudente il
    barone Carlo Poerio e un suo compagno di sventura ridotto agli
    estremi dalle torture poliziesche: si assiste a un tentativo di
    fiaccare il carattere del Poerio con l'acquavite fatturata, a un
    colloquio clandestino del Poerio con lord Gladstone che piange, si
    sente l'ultimo canto di un usignolo, barbaramente trucidato da uno
    spietato aguzzino; e finalmente, come finale, i galeotti che
    intonano in coro una terzina della Divina Commedia. Il pubblico, che
    si lascia ancora prendere da questi espedienti di teatro
    commerciale, ha applaudito.
    
    (5 dicembre 1918).
    
     
    
     
    
    «La signora innamorata» di Berrini al Carignano. La
    signora innamorata, tre atti di Nino Berrini, è stata scritta
    prima della guerra. Poiché dal 4 agosto 1914 si è
    iniziata un'èra nuova, l'autore ha aggiunto l'aggettivo
    «storica» al sostantivo «commedia», e
    poiché è oramai opinione diffusa e debitamente
    autenticata dai competenti in psicologia e sociologia, che il mondo
    in questi quattro anni si è foggiato su un'anima nuova, Nino
    Berrini, che ci tiene a essere reputato persona seria e competente
    di psicologia, ha fatto precedere ai tre atti un prologo in versi
    martelliani, nel quale spiega la faccenda della storia, dell'anima
    nuova, della nuova psicologia e del rombo del cannone.
    
    I tre atti appartengono al genere «rivista con pretese
    letterarie»: una successione di scene in cui si attua l'anima
    femminile studiata alla stregua del famoso aforisma «la donna
    è mobile»; in cui si interroga la Sfinge per sapere
    quale mistero racchiuda la complicata, labirintica, oceanica anima
    della «donna che si spoglia». Poiché le donne non
    si spogliano piú, poiché nessuno piú si
    diverte, e nei salotti non si spettegola piú in grammatica, i
    tre atti del Berrini sono una commedia storica, cioè
    preistorica: la storia è solo attuale, è storia
    dell'anima nuova, del costume rinnovato del mondo.
    
    (5 dicembre 1918).
    
     
    
     
    
    «La finestra sul mondo» di Veneziani al Carignano. Carlo
    Veneziani appartiene a un gruppo di scrittori che si è
    proposto di rinnovare il teatro italiano. Le commedie e i drammi che
    si scrivono in Italia sono una casistica della vita sessuale che si
    svolge nell'àmbito della legge umana e che è
    perennemente insidiata dalle leggi della natura, cioè dai
    capricci, dalle emozioni, dalla mancanza di controllo su se stessi.
    Poiché il costume italiano è essenzialmente sessuale,
    poiché la sessualità è l'argomento che
    piú interessa lo spirito degli italiani, è naturale
    che gli scrittori di teatro non concepiscano altra vita che la
    sessuale. Ciò significa che gli scrittori italiani di teatro
    non hanno fantasia, non riescono a superare fantasticamente la
    mediocrissima umanità della quale fanno parte, mediocrissima
    umanità che inspira la sua vita spirituale al popolarissimo
    proverbio: «Chi non ha altro bene, va a letto con la
    moglie»; e non avendo fantasia, non riuscendo a concepire bene
    piú grande di quello che i sensi godono nell'alcova, gli
    scrittori italiani di teatro non sono artisti e il teatro italiano
    non è un fatto estetico, ma un fatto meramente pratico,
    d'ordine commerciale.
    
    Ma il teatro italiano aveva finora visto la vita sessuale in due
    sole forme: quella piú crassamente sguaiata che si propone di
    solleticare e di provocare la frenesia erotica, e quella
    romantico-sentimentale che dipende dall'aforisma: «Dopo la
    voluttà, ogni animale è triste». Perché
    il teatro italiano si perfezionasse, era necessario che il fenomeno
    sessuale assumesse una terza forma (il tre è numero perfetto
    nella mitologia cristiana e nel simbolo massonico, che tanta
    importanza hanno avuto nell'informare il costume italiano) e questa
    fu escogitata dal gruppo degli innovatori: Pirandello, Chiarelli,
    Antonelli. Nei loro lavori i personaggi assumono in confronto della
    vita sessuale una posizione critica, assolutamente intellettuale, di
    introspezione.
    
    In certo senso c'è un superamento, sebbene esso possa solo
    paragonarsi al gesto che fa il cane dopo aver rosicchiato un osso:
    è un inizio di risanamento del costume, di evasione dalla
    fogna miasmatica dei sensi.
    
    Carlo Veneziani «dovrebbe» appartenere al gruppo
    innovatore, la sua commedia in quattro atti La finestra sul mondo
    che la compagnia Tina di Lorenzo ha presentato al pubblico torinese,
    «dovrebbe» appartenere alla serie delle nuove commedie.
    Ma è impossibile farla rientrare in essa: il Veneziani non ha
    altra visione della vita, altra attitudine all'introspezione, che
    quella espressa nei motti per ridere pubblicati dai settimanali
    illustrati. Tra Pirandello e Veneziani c'è l'abisso che
    separa un uomo intelligente da un collaboratore del
    «Numero» o del «420». La finestra sul mondo
    rientra nella serie delle commedie nuove allo stesso modo che un
    abito smesso rientra nella personalità dell'uomo che l'ha
    indossato: anche nella mediocrità intellettuale è
    necessario stabilire delle gerarchie di valori. La commedia è
    stata tuttavia applaudita: il pubblico non è uscito dal
    marasma spirituale del sesso, e le commedie di questo genere, la cui
    statura non supera la sua statura media, lo soddisfano doppiamente:
    perché il sesso ci predomina e perché banalmente si
    sorride della vita sessuale: nella banalità pubblico e autore
    si compenetrano, identificandosi.
    
    (15 dicembre 1918).
    
     
    
     
    
    «Marito suo malgrado» di De Lorde e Marcèle
    all'Alfieri. I tre atti di A. De Lorde e Jean Marcèle, Marito
    suo malgrado sono stati tradotti da Amerigo Guasti, capocomico della
    compagnia Galli-Guasti-Bracci. È il Guasti che ha scelto,
    secondo le convenienze della sua compagnia, e ha tradotto secondo il
    suo cattivo gusto. Non si può giudicare chi sia
    l'«inventore» della filza di cose brutte che i due
    autori francesi hanno intitolato Marito suo malgrado. Amerigo Guasti
    è traduttore troppo «personale», perché
    sia lecito imputare gli autori francesi, senza visione diretta del
    documento originale. Si può affermare solo questo:
    poiché il Guasti, come «letterato», non brilla
    per troppa sensibilità al bello, la sua scelta non può
    essere che caduta su una cosa brutta: egli ha poi largamente
    abbondato nel trasformare in brutto italiano il brutto francese,
    insaccando nei tre atti tutto il repertorio delle
    «aggiunte» a braccio che normalmente inserisce nelle
    altre commedie che non ha tradotto.
    
    L'intrigo dei tre atti è dei piú banali: un
    imbroglione, munito di carte false, giustificanti un titolo
    nobiliare, s'introduce in una onesta casa di ricchi borghesi per
    rubare una grossa dote. Scoperto dopo la cerimonia legale, ma prima
    della cerimonia sentimentale, viene arrestato, ma l'atto
    matrimoniale vive per il legittimo proprietario delle carte e del
    titolo. Questi naturalmente odia le donne, ma poi, come suol
    succedere, mantiene il matrimonio perché la sposina
    è... Dina Galli. I tre atti sono infarciti dei soliti
    giochetti, contrattempi e doppi sensi che dovrebbero far sbellicare
    dalle risa e infatti ci riescono: chi ha fatto la spesa per andare a
    ridere, finisce sempre col ridere e divertirsi; si tratta, in fondo,
    d'un punto d'onore.
    
    (3 gennaio 1919).
    
     
    
     
    
    «Pace in tempo di guerra» di Testoni al Carignano.
    Nessuno aveva pensato ancora a consolare una delle tante categorie
    di vittime della guerra: i padri di numerosa prole femminile da
    marito. Alfredo Testoni ha colmato la lacuna, sfuggita
    all'attività sociale di beneficienza, che pure sembrava non
    poter conoscere campi inesplorati.
    
    La guerra ha ucciso, la guerra stimola a ricostruire le generazioni;
    la guerra ha dissolto le famiglie, la guerra moltiplica le famiglie:
    la natura è di un'astuzia diabolica. Alfredo Testoni, come
    scrittore di commedie, deve essere rimasto molto seccato per le
    vociferazioni che si diffondevano sulle conseguenze corrosive, della
    vita al fronte dei mariti, per la fedeltà coniugale e non
    coniugale. La marea di pessimismo diveniva in verità
    preoccupante: come poter piú scrivere una commedia o una
    farsa se l'ambiente sociale si fosse definitivamente convertito allo
    scetticismo? Era necessario un colpo di timone: Pace in tempo di
    guerra è un colpo di timone, piú che una commedia;
    timone di gondola (se le gondole hanno timone), per portare una
    pietruzza alla soluzione del problema dell'amore in tempo di guerra
    e di dopoguerra. Pertanto Alfredo Testoni ha dimostrato che è
    possibile ancora scrivere commedie o farse concludentisi con un
    matrimonio; la sua si conclude con cinque matrimoni e scorre come
    dolce ruscelletto.
    
    C'è un signor Bellotti con quattro figlie da marito;
    graziose, veh! graziosissime, sebbene il padre sia imbecille e
    ridicolo quel tanto che serve per un padre da commedia. Il signor
    Bellotti si preoccupa per questi benedetti mariti, e tre delle
    quattro figliuole si preoccupano secolui: tanto si preoccupano che
    sarebbero disposte, le tre, a sposare un fornitore militare
    anzianotto, brutto e idiota. L'astuzia della natura soccorre i
    naufraghi e si presenta sotto le spoglie pregiate di un tenente. Il
    tenente Serra, come si chiama, espone una sua teoria sulle guerre e
    il matrimonio: la vita di trincea ha infuocato nell'animo dei
    cittadini maschi l'aspirazione alla pace domestica, con contorno di
    idillio e di figliolanza. Il tenente Serra è una forza della
    natura e opera. Il fornitore militare viene liquidato in breve tempo
    come si addice a un fornitore militare: con lo scorno e le beffe.
    Tre figliuole scoprono di botto l'anima gemella e per loro la
    è fatta. Il caso della quarta figliuola, che poi è la
    primogenita, essendo complicato e romantico, serve all'intrigo
    centrale della farsa, che appunto per esso aspira al genere
    commedia. Questa figliuola Alda è stata vilmente tradita da
    uno scavezzacollo: la guerra tempra la coscienza dello
    scavezzacollo, egli si pente e vuole riparare al malfatto.
    Resistenza da parte di Alda, trionfo finale della forza della natura
    che legge una lettera-testamento, commuove i presenti fino alle
    lacrime e raggiunge il suo fine: la commedia si conclude con cinque
    fidanzamenti, poiché anche l'attendente del Serra sposa la
    cameriera delle quattro signorine. Il popolo partecipa alla
    vendemmia d'amore.
    
    I tre atti hanno avuto il successo di tutti gli atti di Alfredo
    Testoni. Il buon umore fa buon sangue e, tra la guerra e la febbre
    spagnuola, il buon umore e il buon sangue sono articoli che nei
    bazar trovano compratori in abbondanza.
    
    (10 gennaio 1919).
    
     
    
     
    
    «Una donna qualunque» di Wilde al Carignano. Una donna
    qualunque è una «moralità» scritta da un
    poeta che faceva professione di immoralità, e che non era uno
    scrittore di teatro. È una rappresentazione di vita semplice
    e complicata, ottimista e scettica, ingenua e perversa, proprio
    com'è la vita «qualunque». E la commedia stessa
    è ingenua e complicata: tessuta con un dialogo elegante e
    raffinato, quando chi parla è un elegante e raffinato signore
    inglese, al quale la fortuna ha dato tutte le condizioni per poter
    essere scettico ed egoista; «melodrammatica» quando
    l'azione si svolge per opera di un ingenuo e istintivo giovane
    «morale»; profondamente drammatica quando chi parla
    è una donna che ha sofferto. E la posizione esteriore di
    ognuno è «qualunque» per un altro, è
    ridicola per un altro, perché lo Wilde osserva il costume con
    occhio acuto piú di quanto non si reputi utile osservare
    dalla comune degli scrittori drammatici che non sono poeti: vede gli
    uomini distinti per classi e per gradi e per concezioni della vita,
    e trova che la bellezza o il bene (bello e buono sono identici per
    lui) è creata solo dagli «indipendenti», da
    coloro che operano per un fine di meccanicità quattrinaria o
    tradizionale. Le compagnie drammatiche stanno riabilitando in Italia
    la fama infame di Oscar Wilde, col presentare queste vecchie
    commedie, nelle quali l'originalità spontanea dello Wilde si
    manifesta genuinamente piú che nelle stravaganze e nelle
    avventure giudiziarie; è un merito che si aggiunge alla
    esecuzione accurata che di Una donna qualunque ha offerto la
    compagnia Carini.
    
    (16 gennaio 1919).
    
     
    
     
    
    «Il fanciullo che cadde» di Martini al Carignano.
    Misteri abissali, sortilegi, inesplorate cavernosità di anime
    dedaliche, tormenti senza confine e senza possibilità di
    espressione verbale e che perciò domandano all'autore
    discorsi zeppi di parole (moltissimi aggettivi e scarsi sostantivi),
    di metafore, di ampi gesti abbracciatutto, e agli attori
    un'orchestica sostenuta e grave come di personaggi da tragedia
    greca.
    
    Fausto Maria Martini appare, in questi tre atti di Il fanciullo che
    cadde, come uno spirito pesante, goffo, di una pedanteria filistea
    spessa come il fumo ammorbante di una lucerna da vecchio letterato
    aristotelico. Non un guizzo vivo di fantasia, una costruzione lenta,
    volontaria, meramente esteriore di parole e di frasi e di giri e di
    intrighi e di spettacolosi duelli oratori, senza che dietro la
    nebbia verbale sia dato scorgere un'anima viva, una concreta figura
    umana che si attui in una passione, in una gioia, sia pure in una
    parola, ma che sia atto espressivo e non vuota sonorità
    vocale.
    
    Il fanciullo che cadde svolge una successione meccanica di scene,
    nelle quali si contempla lo sgomitolarsi di due stami vitali che la
    piú brutta delle Parche filò con soverchia velenosa
    saliva. Gabriella è lo stame femmineo, Luciano quello virile.
    Tra i due esiste sortilegio. Gabriella sposa il fratello di Luciano
    e Luciano per allontanare dalle sue frementi nari l'afrore
    dell'incesto, salpa per l'Oriente profumato e crudele. Ritorna alla
    morte del fratello, tutto fasciato di misteri, e che trova?
    Gabriella ha un figliolino, nel quale il morto fratello rivive, e si
    erge per separare; la madre non può essere l'amante,
    cosí come non poteva la sposa. Ed ecco che Luciano, dopo una
    tonitruante spiegazione, parte «per sempre» una seconda
    volta per l'ignoto, ed ecco che prima della sua partenza,
    l'«innocente» cade nelle acque burrascose e miseramente
    affoga. Ed ecco che un nuovo infrangibile misterioso schermo si
    frappone tra le due anime e un viperino duello si inizia. Una dolce
    fanciulla, figlia della disperazione e di Luciano, inventa un giuoco
    grazioso: richiama il misterioso padre presso la misteriosa
    Gabriella e si fa galeotto tra i due. Il sortilegio crudele non
    risparmia, ahimè, neanche la dolce fanciulla! Gabriella si
    dichiara pazza d'amore, delirante di passione carnale per Luciano,
    sembra avvolgerlo in una magia folle di desideri; lo trascina verso
    la voluttà, nella stessa camera d'albergo dove il fanciullo
    cadde, lo invischia, bellissima e proterva, in una squisita rete di
    parole capziose e gli fa confessare il delitto; egli, per avere la
    donna, ha ucciso il frutto delle materne viscere. Quindi leva un
    vindice pugnale. Ed ecco il sortilegio: Luciano disarma Gabriella e
    le rivela che è innocente e aveva compreso il viperino
    agguato e aveva secondato il giuoco per meglio conoscerne l'anima
    nera. Quindi riparte «per sempre», seco portandosi il
    pugnale, mentre Gabriella pazza di vero amore, si contorce nel letto
    illibato.
    
    Cosí il sortilegio si chiude, a meno che Fausto Maria Martini
    non lo riprenda per rifondere tutto il dramma in un romanzo di
    pirati e corsari dell'arcipelago o in una «film» a lungo
    metraggio per Febo Mari e Pina Menichelli.
    
    (23 gennaio 1919).
    
     
    
     
    
    «L'arch an cel» di Leoni al Rossini. Il signor Mario
    Leoni, al secolo commendatore Giacomo Albertini, ex deputato al
    Parlamento nazionale, sezione elettiva, ha ieri presentato al
    pubblico del teatro Rossini l'ultima novità del suo bazar
    spirituale da rivendugliolo di Porta Palazzo. La novità
    è intitolata L'arch an cel e si compone di quattro atti, coi
    personaggi che parlano in dialetto piemontese. Altra volta,
    scrivendo di una commedia di Mario Leoni, abbiamo affermato che
    cattive azioni di questo genere non dovrebbero rimanere impunite, e
    ci siamo augurati che per il signor Mario Leoni si restaurasse la
    pena corporale che nel Medio evo puniva le donne adultere: una
    passeggiata per le strade cittadine a schiena d'asino, col corpo
    nudo impegolato e variegato di penne di pollo.
    
    Il signor Mario Leoni non è uno scrittore, anche se per
    scrittore s'intenda chi compila l'Almanacco di Chiaravalle o il
    Libro dei cuochi. Mario Leoni è un rozzo uomo, che ha per
    cuore una bistecca e per cervello una spugna da massaggio. Con la
    sua praticoneria da esercente furbo, infarcisce zibaldoni verbali,
    speculando sul candore e l'ingenuità del pubblico popolare,
    come una astuta mercantessa di carne femminile può speculare
    sui primi brividi della pubertà degli adolescenti allevati a
    bacioni materni e a caramelle sororali. Non è possibile che
    neanche un'ombra di rispetto si possa sentire per le fatiche di
    questo dozzinale acciabattone, che non rispetta nulla e nessuno, che
    mercanteggia la commozione istintiva per il dolore materno,
    imbrattandolo subito dopo con la piú goffa buffoneria, che
    impiastriccia le commedie con la stessa disinvoltura che serve allo
    straccivendolo per ficcare in un sacco sudicio tutti i rifiuti della
    vita. Col signor Mario Leoni non è possibile, e sarebbe
    indecoroso, anche accennare a uno spunto critico: non si può
    dialettizzare il tanfo.
    
    La reazione adeguata e omogenea alle fatiche del signor Mario Leoni
    può solo essere di natura fisica: una pena corporale come la
    suddescritta, integrata con qualche beffa del genere novelle
    cinquecentesche con protagonista il secco e triste pedagogo.
    
    (28 gennaio 1919).
    
     
    
     
    
    «Madonna Oretta» di Forzano all'Alfieri. Una burla, come
    in tutte le commedie cinquecentesche che siano
    «veramente» cinquecentesche, compone e scioglie
    l'intrigo dei tre atti cinquecenteschi della Madonna Oretta di
    Gioacchino Forzano. Madonna Oretta è una fiorentina, spirito
    bizzarro, scaltra e procace, che ricerca in diversi amatori quella
    razione di felicità, cui ha diritto la sua beltade e il suo
    vivace temperamento, e che suo marito, l'anzianotto e grossolano
    Luca, mercante dell'arte della seta, non può ministrarle. Ma
    Oretta non è poi cosí scaltra e spiritosa e
    cinquecentesca come il Forzano vorrebbe farci credere di averla
    fantasticata; la poverina credeva anch'essa di essere scappata
    fuori, come un fiore di vita, da una novella del Cinquecento, ma poi
    illanguidí, la meschina, e si fece romantica e sentimentale
    come una violetta del pensiero e della vita moderna rappresentata in
    una pochade parigina. Ed ecco come Oretta vive, spensierata e
    raccolta, nella bottega di Luca, tra gli affari e l'amore: ma un
    giorno si incontra con un bel cavaliere, il conte Gherardo di San
    Gimignano, che le appare come san Michele nell'atto di liberare un
    mercante fallito dai suoi rozzi persecutori. Per un
    «abile» colpo di pollice del caso, Oretta duella, nella
    maritale bottega, con Genoveffa, amante del conte, e le infligge un
    solenne scorno. Quindi si incontra col cavaliere, un uomo fatuo, un
    presuntuoso, e nella sua scaltrezza, vuole staccarlo dall'amante,
    scoprendogli come lei, proprio lei, Oretta, che il cavaliere
    presuntuosamente ha giudicato donna fedele, abbia due amanti e
    simultaneamente meni per il naso tre uomini. E per convincere meglio
    il cavaliere della sua ignoranza, rimasta vergine pur attraverso una
    infinita serie di esperienze amatorie, Oretta pensa la burla: si
    traveste da giovine poeta e seduce Genoveffa e si fa sorprendere. Ma
    su quale mai rozzo e maldestro cavaliere aveva Oretta posato il suo
    amore: Oretta è innamorata e Gherardo è persuaso sia
    una commediante, Oretta si strugge e lacrima e Gherardo si
    infurbisce ancora e non può credere. Il dio d'amore è
    veramente bisbetica ed enigmatica creatura del destino. E
    cosí Oretta, la spensierata Oretta, la scaltra mercantessa di
    sete, ridiventa saggia provvisoriamente e si abbandona sul petto
    maritale di Luca. Ma Oretta è piaciuta lo stesso, anche se
    poco cinquecentesca, anche se operante in un mondo fittizio,
    artefatto, fuori di ogni spazio e di ogni tempo, anche se un po'
    stupidella, essa stessa, per la curiosa pretesa di essere persona
    viva nell'arte letteraria, pur fuori della individualità
    della Galli, e di muoversi e agire, e reagire, tra i cartoni
    dipinti, a uomini cinquecenteschi, vivi solo nel movimento degli
    attori. È piaciuta, ha divertito, ha fatto ridere
    fisicamente; il solo fine che l'autore stesso forse si riprometteva
    di raggiungere.
    
    (5 febbraio 1919).
    
     
    
     
    
    «Il giuoco delle parti» di Pirandello al Carignano. Nel
    primo atto del Giuoco delle parti, Luigi Pirandello inizia la
    presentazione della «moglie» come personificante la
    visione che della fisica della vita hanno gli scultori e i pittori
    del futurismo post-cubistico: l'inferiorità spirituale
    è una scomposizione di volumi e di piani che si continuano
    nello spazio, non una limitazione rigidamente definita in linee e
    superfici. Il «marito» invece è fortemente
    accentrato in un io ragionante, ben levigato e ravviato come un
    concetto puro, che gira intorno a un pernio, trottola silenziosa che
    la volontà, resa libera da ogni contingenza condizionatrice,
    fa roteare sopra un piano di vetro. Evidentemente le due creature
    non possono sistemare un ordine di rapporti di convivenza
    affettuosa: il marito è impenetrabile ai piani e volumi
    vibratili della moglie, e questa, non riuscendo a continuarsi nel
    marito, se ne sente limitata, ella che per natura deve continuarsi
    in tutte le vite spirituali e in tutti i territori del mondo, e
    soffre e smania e aspira alla liberazione del suo io,
    inevitabilmente aspirando alla distruzione del suo incoercibile
    contraddittorio. Il concetto puro trionfa del protoplasma vibratile:
    la filosofia classica trionfa di Bergson; le contingenze si
    sottomettono alla volontà della trottola socratica.
    C'è un «amante», perché la commedia
    rientra nella serie dei terzetti teatrali, ma l'amante non impersona
    alcuna idea; è sorda materia, è oggettività
    opaca, è il «fesso» della vita, che logicamente
    è condotto a rimetterci la pelle, perché la dialettica
    dei contrari giunga a uno svolgimento che potrebbe essere la lacrima
    del concetto puro e l'urlo belluino del protoplasma in movimento: la
    umanità, insomma, che sbalordisce ritrovare ancora in tanta
    orgia di girandole filosofiche da insegnante in un liceo di
    provincia. Banalmente esprimendosi: la moglie vuol disfarsi del
    marito; insultata come moglie, vuole che il marito si batta in
    duello. Il marito non la intende cosí e costruisce, sulle
    contingenze che la natura esteriore al suo io gli getta tra i piedi,
    il trionfo della ragione logica: accetta il duello all'ultimo sangue
    e poi non si batte, costringendo a battersi e a farsi uccidere,
    l'amante che è il vero marito. La vita è per lui,
    concetto puro, un giuoco meccanico, di cui prevede e dispone a
    priori le parti, facendo sempre scacco matto.
    
    La commedia del Pirandello non è delle migliori del genere
    Pirandello: il giuoco vi è diventato meccanismo esteriore di
    dialogo, puro sforzo letterario di verbalismo pseudofilosofico.
    L'incomprensione reciproca delle marionette sceniche si è
    proiettata nel teatro: pieno dominio di monadi senza porte e senza
    finestre, incomunicabili e incoercibili, l'autore, i personaggi e il
    pubblico.
    
    (6 febbraio 1919).
    
     
    
     
    
    La serata della Vergani al Carignano. Per valutare anche
    approssimativamente le capacità creatrici di una attrice come
    Vera Vergani non si può prescindere dalla necessità di
    un giudizio riassuntivo e sintetico su tutta l'opera sua di artista.
    
    Vera Vergani nulla ha da temere nell'affrontare un simile giudizio
    che non può non tenere conto di tutti gli elementi che
    possono giustificare le poche e lievi manchevolezze che si
    rintracciano nelle sue interpretazioni.
    
    Ma sono queste piccole incertezze che dànno maggiore rilievo
    alle non comuni virtú della Vergani. Essa è talora
    imprecisa perché non calca le scene come una marionetta, ma
    vive, ama e soffre la fugace esistenza di cui le è affidata
    la creazione. Sono doti che non potevano sfuggire al gran pubblico,
    anche se degli sforzi solitari e tenaci di qualche artista
    coscienziosa non si cura. Il valore persuasivo delle interpretazioni
    della Vergani ha finito per vincere.
    
    Accanto a Ruggero Ruggeri essa non è affatto sacrificata,
    appunto perché ha raggiunto una maturità che le
    può permettere di trasfondere la sua personalità
    indipendentemente da qualsiasi contributo estraneo.
    
    Ieri sera, per la sua serata d'onore, essa ottenne un vero trionfo.
    Dopo il terzo atto fu chiamata sei volte al proscenio. Il teatro
    Carignano era affollatissimo.
    
    (22 febbraio 1919).
    
     
    
     
    
    «U baruni di Carnalivari» di Campanozzi all'Alfieri.
    È un'efficace rappresentazione della «scemenza»
    meridionale (siciliana). La scemenza meridionale è una
    particolare scemenza, per due rispetti: genericamente e
    specificamente, è meridionale ed è di casta. Lo scemo
    meridionale è diverso dallo scemo toscano (Stenterello),
    è diverso dallo scemo lombardo (Marchese Colombi, per es.).
    Ma nella scemenza che è generica si distingue una scemenza
    specifica: quella del barone, del signorotto feudale che si maschera
    di decoro, che ha delle pretensioni; nel semplice
    «uomo», rozza umanità senza intelligenza che si
    colora per atteggiamenti particolari, essa è spettacolo
    pietoso; nel barone essa è possibilità infinita di
    comico. Il barone scemo vuole essere qualcosa, crede di essere un
    valore umano; egli è il suo titolo, è una tradizione
    di boria, altezzosa coi deboli e strisciante coi forti, è un
    rapporto tra un essere e un presumersi; tra l'essere abietti,
    incapaci, ottusi, analfabeti, pietosi, e il presumersi superiori a
    tutti gli uomini perché si è nobili e gli altri sono
    scarpari, falegnami, zappatori, «gente che deve lavorare per
    vivere». Lo «scemo» barone non è neppure
    piú un uomo: è una scimmia. Non basta: ha dimenticato
    di essere uomo, non riesce a concepire l'uomo. Il lavoratore
    meridionale (il lavoratore della terra) è quadrato, robusto,
    dalla voce profonda, musicale e vigorosa; il barone è
    degenerato fisicamente, è una decomposizione fisiologica
    oltre che una decomposizione sociale, è diverso
    dall'umanità laboriosa che lo circonda nel tipo fisico, nella
    voce, nel gestire, oltre che per la casta e la moralità.
    
    Francesco Campanozzi ha vigorosamente rappresentato uno di questi
    scemi nei tre atti che umilmente chiama di farsa. E certo non
    può esserci tragedia o dramma in uno di questi baroni, e i
    tre atti sono «storici»; non può esserci
    commozione profonda, conflitto interiore, urto di grandi passioni
    nobili o infami. Non può esserci alcuna cosa grande, nel bene
    o nel male, che sia inerente a umanità: è un
    balzellare fisico e un crepuscolo tremolante dello spirito e
    dell'intelligenza, un'inettitudine assoluta, all'azione e al
    pensiero che solo talvolta si scuote per un istinto confuso della
    famiglia. Il Campanozzi ha dato espressione plastica a questo mondo
    che tramonta; ne ha saputo fissare con esatta evidenza alcuni
    momenti essenziali, anche se il carattere (in senso artistico)
    centrale non gli è apparso che in uno sviluppo di insieme
    spesso forzato e scolorito, con antitesi crudamente meccaniche. U
    baruni di Carnalivari vive tuttavia, e non è spesso che nel
    teatro si vedano creazioni vive.
    
    (12 marzo 1919).
    
     
    
     
    
    «L'uccello del paradiso» di Cavacchioli al Carignano. Il
    teatro modernissimo italiano (Pirandello, Antonelli, di San Secondo,
    Veneziani... e Cavacchioli) risulta in gran parte da un piccolo
    errore: questi autori, nello studio della belletristica inglese,
    volendo arrivare a Bernard Shaw, si sono smarriti nel dedalo delle
    avventure di Sherlock Holmes. Lo stampo della loro fantasia è
    da ricercarsi nella vasta fronte di mister Conan Doyle, divenuto
    baronetto per meriti letterari; in ogni loro commedia l'intrigo
    è ordito per lumeggiare le sublimi facoltà di
    intuizione critica di un poliziotto dilettante dello spirito
    ovverosia della psiche umana: le avventure ideali si connettono per
    ragione filata, si sviluppano con ritmo sicuro, si intrecciano, si
    accavallano, si mescolano, unite sempre da una sottile bava di
    ragno, sulla quale un folletto danza gioiosamente, caprioleggiando,
    rischiando triplici e quadruplici salti mortali, per ricadere sempre
    in piedi, gentile, fresco, ilare, smorfieggiante a destra e a
    mancina per esporsi e proporsi all'ammirazione universale.
    
    È una fantasia legnosamente arida, che scoppietta e frigge
    per una goccetta d'olio rovesciata dalla lucerna, alla quale si
    compulsarono gli articoli sulla filosofia delle dame. Una fantasia
    matematica, una fantasia di ingegneri che sanno il fatto loro, una
    fantasia da curiosi di sapere come la fantasia era fatta, i quali
    pertanto l'hanno recisa per notomizzarla e veder com'era fatta.
    
    Divertono, pur annoiando un po' per la pedanteria, della quale sono
    figli non degeneri. Divertono e interessano, perché, insomma
    questi giovani adempiono pure a un compito: rendere intollerante la
    vecchia moda del teatro romantico da appendice, sfrenare una
    irrequietudine interiore e corrodere i sedimenti di sugna inacidita
    che facevano grossi i cuoricini piú microscopici. Ma non sono
    che uccelli di paradiso impagliati o che saranno impagliati tra
    breve dagli archivisti delle biblioteche teatrali; non godono della
    libertà, sono legati a un cordino come i rospi che divertono
    i monelli; sbalzellano, goffi alquanto per la finzione della
    libertà, e ricadono molli. È difficile analizzare le
    loro commedie, senza dilungarsi sazievolmente; non si può
    essere severi, perché esse sono una istituzione del gusto,
    che non ha ancora esaurito il suo ufficio storico. Sono quasi sempre
    ben eseguite, perché domandano studio e lavoro e spoltriscono
    i facili schemi irrigiditi degli attori. L'uccello del paradiso,
    confessione (!) in tre atti di Enrico Cavacchioli, ha dato modo al
    Betrone, alla Melato e agli altri bravi artisti della compagnia
    Talli di determinare una esecuzione che vale in se stessa.
    
    (20 marzo 1919).
    
     
    
     
    
    «Ridi pagliaccio!» di Martini all'Alfieri. Giovanni
    Schiffi, in arte Flick, è un uomo che soffre. Ma questo
    dolore, questa sofferenza atroce del pagliaccio Flick, dipende da
    una mera condizione del suo essere fisico; può suscitare la
    pietà, come la susciterebbe l'esposizione in palcoscenico di
    un lebbroso, di un cieco, di un qualsiasi infelice accasciato sulla
    sua sventura che gema e ululi e si contorca. Il dramma (!) di Fausto
    Maria Martini è costruito coi procedimenti del Grand-Guignol;
    l'umanità, come poesia, come spirito, come intelligenza che
    supera e comprende l'essere fisico, vi è assente. Ci troviamo
    dinanzi a un referto da neuropatologo, un tale che non può
    ridere, che non può godere, che non può vivere, a una
    fontanella di lacrime ambulante. È un pagliaccio; è un
    professionista del riso; ci sarà un contrasto, il dramma
    nascerà appunto da questo contrasto mostruoso. No, l'autore
    non pone il dramma in ciò; è un incidente questo
    contrasto, non è essenziale motivo, e forse non potrebbe
    esserlo perché la professione di pagliaccio a quanto si
    sappia non è inerente alla natura umana, non attributo
    necessario di una passione o di un essere. Flick si domanderà
    perché, a lui, innocente, sia toccata una tale sciagura,
    interrogherà la natura, interrogherà gli uomini, si
    rivolgerà alle stelle e alla luna, magari, per sapere la
    ragione, maledirà, imprecherà, diverrà patetico
    rimprovero dell'inconoscibile, del destino, di Dio, del caso
    perverso che lo ha cosí foggiato, che lo ha condannato a
    essere l'ombra della vita, senza amore, senza sorriso, senza
    contrasto tra la gioconda risata e la amara lacrima. Niente di tutto
    ciò, assolutamente nulla; Flick è un mero referto da
    gabinetto medico, Flick ha per anima una cipolla lacrimogena, non
    una sorgente di poesia e di dolore umano.
    
    I contrasti sono ottenuti con mezzi esterni; l'uomo che piange si
    incontra con l'uomo che ride, che ride senza motivo come egli piange
    senza motivo: due maschere s'incontrano presso uno specialista e si
    prendono sotto il braccio, iniziano una vita comune; si completano?
    nasce da questo contatto un principio di vita? Neppur questo. Una
    donna è coi due; essa è la consolatrice di Flick, a
    quanto Flick afferma; ma non è amata da Flick, non determina
    nel suo cuore un senso, un moto che possa svolgersi in una
    dialettica e condurre a una evasione dal cerchio chiuso della mera
    sensibilità animalesca del soffrire. L'uomo che ride
    guarisce, lui, nell'amore, si porta via la donna nella gioia che non
    è piú secco scoppiettio d'ilarità effimera;
    Flick non soffre per ciò, il suo dolore non si modifica, il
    dramma rimane puro Grand-Guignol, esposizione del meccanico
    decomporsi di un essere umano per reazioni fisiologiche, a grande
    effetto, rozzo verismo senza soffio di poesia. L'intrigo è
    preparato per lo scioglimento; lo scioglimento è a grande
    effetto, e l'effetto è riposto nella virtuosità
    dell'attore.
    
    Il prof. Gambetta, neuropatologo, aveva consigliato a Giovanni
    Schiffi di recarsi ad ammirare il pagliaccio Flick e di abbandonarsi
    alla giocondità che il pagliaccio dispensava nella sala. Ed
    ecco che Giovanni Schiffi ricerca in se stesso il riso, in se stesso
    (ohibò, non pensate che il Martini abbia ricavato da questo
    motivo una ricerca dell'interiorità) riflesso negli specchi,
    e danza e folleggia, e ride e si uccide, pugnalandosi, sempre
    nient'altro che maschera senza anima, senza poesia, senza un
    briciolo di umanità spirituale.
    
    (21 marzo 1919).
    
     
    
     
    
    «La ca' veuida» di Nicola al Rossini. Esistono ancora
    uomini che credono nelle forze buone che pure conducono e
    dànno una configurazione alla vita: la bontà, la
    lealtà, la generosità e gli altri astratti che
    abbondano nei libri delle educande.
    
    Il Nicola è uno di questi e La ca' veuida è
    un'affermazione di fede. Una onesta e illibata figlia di magistrato
    pecca col suo fidanzato che deve partire per il fronte e muore.
    È dessa indegna del genitore e della società? La
    lealtà la rigenera, la generosità di chi la circonda
    le ridà un compito e una missione nella vita: la casa che si
    era vuotata sotto i colpi del destino, si riempirà nuovamente
    di sorrisi e di speranza. Il dramma è condotto molto
    ingenuamente e perciò talvolta assume toni accademici e
    predicatori, ma forse perciò appunto si cattiva le simpatie:
    sente di buon odore casalingo, e alla fin fine si è nauseati
    dei tanti che speculano sullo scetticismo e il cinismo, che
    rinnegano i valori tradizionali della vita e si mettono, il
    piú delle volte, fuori di ogni vita. Si rimane colpiti dello
    strano fatto che qualcuno prenda ancora sul serio gli ammonimenti
    del buon Giannetto: e forse è vero, come avverte Benedetto
    Croce, che il Buon Giannetto dovrebbe essere riletto e meditato da
    molti.
    
    (27 marzo 1919).
    
     
    
     
    
    «L'innesto» di Pirandello al Carignano. Esiste nell'arte
    del giardinaggio una forma di innesto che si pratica nel mese
    d'agosto e si chiama innesto a occhi chiusi. La pianta accoglie
    «amorosamente» il tallo, col quale la mano rude ma
    esperta del villano la violenta, lo assimila al suo amore, al suo
    desiderio di frutto, lo accoglie a «occhi chiusi»,
    nutrendolo della sua follia, di tutta la sua vita che aspira alla
    maternità, alla creazione di nuove vite. Chi domanderà
    alla innocente pianta l'origine legittima della sua
    fecondità? Anche la signora Laura Banti è una sterile
    pianta, violentemente aggredita da uno sconosciuto villano, la quale
    ha ricevuto a «occhi chiusi» il germe vitale che la
    renderà madre, e lo ha assimilato alla sua vita, al suo
    amore, e lo ha nutrito di tutto il suo spirito, del quale è
    essenziale parte lo spirito, l'amore e il corpo fisico del consorte
    legittimo. Solo che questo legittimo e ben individuato consorte ha i
    suoi scrupoli e la sua suscettibilità e la sua volontà
    che sono due con quelli della moglie e non solo uno come nello
    stesso fiore sterile il pistillo e il gineceo che compiono il rito
    fecondatore senza nulla generare. Come venga superato lo stato
    d'animo di Giorgio Banti, come Giorgio Banti finisca col dividere la
    follia amorosa di sua moglie e accettare per suo (credere suo) il
    figlio nascituro, dovrebbe essere argomento di questi tre atti del
    Pirandello.
    
    Il quale non ha voluto e non ha osato affrontare apertamente la
    concezione elementare della commedia: un figlio è solo fisica
    generazione, mero prodotto di un accoppiamento casuale, oppure
    è amore essenzialmente, nuova vita che scocca dalla fusione
    intima permanente di due vite? E ha irrigidito un'azione, ricca di
    umanità e di liricità, intorno a una fredda metafora
    da giardinaggio, e ha finito col credere, un po' anch'egli,
    all'accostamento artificiale tra gli uomini e le piante e ha
    presentato questo problema sessuale, che è poi fondamentale
    nella vita degli uomini, avvolgendolo in una artificiosa bambagia di
    dialogo a mezzi termini, ad accenni, a furtività
    sentimentali, accatastando tre gradi di vita in cui il problema si
    presenta (la pianta, una rozza villanella e la spirituale signora
    Banti), quasi non sapesse come esprimere al pubblico e come organare
    in atto la concezione che pure era chiara nella sua fantasia.
    
    Sono stentati i tre atti, prolissi nella loro secchezza e
    congestione. L'argomento è posto, ma non vivificato, la
    passione e la follia sono presupposte, ma non rappresentate. Il
    Pirandello non ha neppure realizzato una di quelle sue
    «conversazioni» drammatiche, che se non conteranno molto
    nella storia dell'arte, avranno invece molta parte nella storia
    della cultura italiana.
    
    (29 marzo 1919).
    
     
    
     
    
    «Fedeltà» di Calzini al Carignano. Abitava a
    Siviglia, nel tempo stesso quando Michele Cervantes scriveva il Don
    Chisciotte e il Geloso d'Estremadura, un artiere del marmo che aveva
    una moglie bellissima ma fantasiosa e bizzarra assai. Questo marito
    accoppiava al genio artistico una crudelissima volontà
    amatoria verso la moglie sua Soledad; il capriccio giunse in lui
    fino al punto che preparato avea una tagliola, nella cui morsa le
    trecce della donna assicurava, e solo cosí di lei era sicuro
    e poteva attendere ai perigliosi lavori di architetto e di
    capomastro. Ma la donna lo tradí ugualmente, pur dolorando
    nelle braccia dell'amante, per la tagliola che le irrigidiva la nuca
    e le spalle; lo tradí per smania di libertà, per
    provare a se stessa di essere creatura umana vivente e non vile
    schiava, non proprietà di un padrone; lo tradí col
    primo uomo che fu tanto ardito da tentare la sorte, in quella
    misteriosa casa di un sí crudele padrone, posta accanto alle
    carceri risonanti delle urla dei pazienti torturati, avvolta di
    sanguigni riflessi patibolari attraversati dalle piacevoli figure
    dei carnefici, dei manigoldi, dei confessori, delle confraternite e
    dei becchini. Ma il brutto giuoco dura poco: la fatalità si
    compie. Il marito precipita nel vuoto, poiché solo l'amore di
    Soledad lo teneva aggrappato alla vita e lo preservava dal capogiro,
    e muore. Soledad è libera, diventa fedele al morto; il
    tradire per lei era lotta per la libertà, per il possesso di
    se stessa; era un duello, e il duello si fa in due. L'amante viene
    discacciato, ma anch'egli è spagnuolo, è andaluso,
    è geloso, è crudele, per di piú si avvale dei
    servizi di un parassita, il quale naturalmente è un italiano,
    un italiano disperato, affamato, ma il cuore gonfio di poesia, di
    dolce malinconia che si traveste in giocondità e brio, il
    quale a sua volta si innamora di Soledad. Il primo amante rivuole a
    ogni costo Soledad e la ricatta: va a un convegno e viene pugnalato
    dalla fantastica donna che circuisce quindi l'italiano con le sue
    reti e lo convince a trasportare il cadavere fino al prossimo fiume.
    
    Nel dramma del Calzini appaiono molte orme (orme sulla sabbia):
    v'è un pizzico di Villiers de l'Isle-Adam delle Novelle
    crudeli, un pizzico di Beaumarchais creatore di Figaro, qualche
    granellino shakespeariano, e persino un briciolo di Sem Benelli.
    Manca un autore unico, un poeta unico che unifichi e vivifichi nella
    sua fantasia tanti figurini; del Calzini c'è solo
    un'abbondante frasca di parole, che impressionano spesso con
    abbaglianti luccichii e roboanti sonorità.
    
    Una bellissima messa in scena e una accurata e diligentissima
    interpretazione della Melato, del Betrone, dell'Olivieri, del
    Marcacci.
    
    (6 aprile 1919).
    
     
    
     
    
    «Acidalia» di Niccodemi all'Alfieri. Il filosofo Filippo
    Carmi ha girato il mondo piú che Guido da Verona per studiare
    l'infedeltà femminile in tutti i suoi rapporti con la vita
    degli uomini, individui e associati. Ha tuttavia scritto già
    una cinquantina di volumi sull'argomento, e non riesce a concludere
    la sua laboriosa fatica, poiché gli manca l'esperienza
    personale dell'infedeltà e della gelosia: egli è una
    calamita che polarizza verso l'amore, l'onestà e tutte le
    virtú cardinali e teologali ogni donna in cui s'imbatte: non
    conosce Acidalia, cioè Venere inquieta, e affannosamente la
    ricerca, per dovere di filosofo e di uomo morale che si è
    proposto la nobile missione di guarire radicalmente l'umanità
    dalla schiavitú sessuale. Nei primi due atti di questa
    commedia del Niccodemi si assiste ai vani tentativi che il filosofo
    Pippo fa per essere tradito da una giovine donna che vuole essere
    onesta finalmente, dopo essere stata l'amante di mezzo mondo; nel
    terzo atto il filosofo Pippo scopre, nello spazio di qualche ora, di
    essere stato lo zimbello di tutti, di essere stato tradito da tutto
    e da tutti e di non essere un filosofo, ma un poveruomo qualsiasi:
    si consola con una sua segretaria.
    
    Tutto ciò è presentato con molta disinvoltura, senza
    altra preoccupazione che non sia quella di far ridere
    fisiologicamente a molto buon mercato: ai tre atti manca ogni
    intenzione d'arte e ogni elaborazione, anche superficiale; sono un
    vero scoppiettio di parole infilzate con molta praticaccia del
    mestiere.
    
    (8 aprile 1919).
    
     
    
     
    
    «La fiaba dei tre maghi» di Antonelli al Carignano. Per
    Luigi Antonelli la sostanza di questi suoi tre atti è una
    «avventura fantastica». La definizione è molto
    pretenziosa, e implica un giudizio di perfezione: come si dovrebbe
    definire il Sogno di una notte di mezza estate dello Shakespeare?
    
    Nei tre atti c'è poca avventura e pochissima fantasia;
    abbonda invece la scaltrezza letteraria, abbonda lo spirito pratico
    che freddamente applica un metodo e riesce a sistemare un certo
    equilibrio che dà l'illusione dell'armonia.
    
    L'avventura è il dominio dell'imprevisto, della vita che
    fiorisce spontaneamente nuova e attuale dal suo morto passato; se la
    fantasia dell'artista vive questa attualità, sboccia la
    poesia, si realizza il capolavoro nell'armonia dei caratteri umani,
    delle azioni che da questi caratteri sono determinate e delle
    immagini che la espressione suscita. Nessuna avventura nella fiaba
    dell'Antonelli: essa è una moralità, è una
    dimostrazione logica, è una tesi, una vecchia tesi diventata
    accademica e pedantesca per essere troppo ripetuta, una tesi che
    l'Antonelli nega in atto nel tentativo di fermarla. La giustizia e
    la verità uccidono, la poesia vivifica. I tre maghi della
    verità, della giustizia e della poesia si mischiano alla vita
    degli uomini. La Verità mette a nudo l'essenza di ognuno:
    ciarlataneria, tradimento, ipocrisia, violenza cozzano e minacciano
    di condurre al mutuo sterminio. La Giustizia conseguentemente fa
    giocare le cause e gli effetti: un disastro, uno squallore, la
    disperazione, il suicidio. La Poesia ricompone, tira a lucido,
    folleggia, dà impulso alla continuità. La favola
    centrale è poverissima: una comitiva di amici casuali sbarca
    in Europa con un bambino: il bambino viene assassinato. Da chi?
    Giuoco della Verità. È responsabile un figlio,
    è giusto che un figlio subisca una qualsiasi sanzione,
    ché un padre epilettico ha ucciso senza sapere che si
    facesse? Giuoco della Giustizia. Come può risanare un
    principio vitale dalle rovine accumulatesi per l'affermarsi delle
    due prime forze? Giuoco della Poesia. La secchezza del processo di
    sviluppo è invano rivestita di brillantina verbale; nel terzo
    atto il giuoco non basta piú, le parole si stemperano. La
    commedia rinnega se stessa; la poesia non vivifica. Fin dove essa si
    mantiene nel dominio delle premesse la scaltrezza letteraria riesce
    a suscitare l'interesse, la curiosità si tende ansiosa se non
    commossa. Ma l'albero della vita non emerge, non incanta con
    l'atteso lusso di fiori, di colori, di frutti: una banale sequela di
    bozzetti e una coreografia snervata e tediosa concludono la
    commedia.
    
    (13 aprile 1919).
    
     
    
     
    
    «L'intesa» di Rocca e «La trappola
    sentimentale» di Vecchietti all'Alfieri. La commedia di Gino
    Rocca è una lievissima costruzione scenica, culminante in un
    epigramma che può essere diversamente gustato e che va oltre
    l'intenzione stessa dell'autore, fervente interventista. Una cocotte
    italiana divide la sua grazia con tre soldati: un inglese, un
    francese e un italiano (l'italiano è imboscato); in essa
    ognuno dei tre trova un fascino come nell'intesa politica ognuna
    delle tre nazioni (l'italiano è l'amico del cuore, metafora
    che il dilettantismo morale e politico dell'autore getta lí,
    con una disinvoltura che in altri tempi e in altri sarebbe giudicata
    cinico e malvagio disfattismo). Un bozzetto senza importanza e senza
    altra conseguenza che non sia una risatina nervosa a fior di pelle.
    
    I tre atti di Pilade Vecchietti sono invece una complessa
    costruzione: essi seguono il modello classico della commedia
    d'intreccio. Bisogna, in fondo, congratularsi con l'autore, che ha
    avuto l'audacia di tornare all'antico, in questi tempi di frenetica
    modernità, di spasmodica ricerca del nuovo e dello strano. La
    trappola sentimentale espone i casi di una moglie trentacinquenne
    che sfiora l'adulterio e viene salvata dall'accorto e intelligente
    marito. Tutti i pezzi dello svolgimento sono preparati con cura e
    diligenza: la moglie può innamorarsi del primo uomo che le fa
    la corte (Paolo Anselmi), il marito, che possiede un intiero, un
    copioso epistolario amoroso di un ignoto anonimo, fa pervenire alla
    moglie queste lettere, le crea l'illusione di un innamorato
    misterioso, la culla in un incanto sentimentale che rende ripugnante
    la realtà. Ma l'autore delle lettere è proprio
    l'Anselmi, il quale tenta di rivolgere a suo giovamento l'astuzia
    dell'accorto marito, rimanendo finalmente sconfitto. Una commedia
    bonaria, senza pretese, che si sgomitola pacatamente e si ascolta
    senza alcuna scossa e nessuna reazione: un bicchiere di acqua con
    pochi sali.
    
    (15 aprile 1919).
    
     
    
     
    
    «La volata» di Niccodemi al Chiarella. L'officina
    irrompe nel palazzo. Il vecchio palazzo aristocratico, dove i
    sentimenti, gli affetti, le abitudini, i rapporti familiari sono
    diventati una muffa variopinta alla superficie ma germinata da una
    putredine fondamentale, è assediato dalla fervida
    attività del lavoro moderno, che lo sgretola e provoca
    numerosi crolli. Il lavoro vince il palazzo, il compartimento stagno
    della casta si sfascia sotto i colpi di maglio del proletario: la
    contessina Dora si ribella alla tirannia delle convenzioni
    ancestrali e sposa Mario Gaddi, un modesto operaio che si è
    aperta la strada nel mondo con la tenace volontà e
    l'intelligenza natia.
    
    Il motivo ritorna spesso nel teatro di Dario Niccodemi. Il
    Niccodemi, come preparazione intellettuale, come esperienza sociale
    e storica, dipende direttamente dai romantici francesi del '48;
    è un epigono spirituale degli scrittori borghesi che nel
    romanzo, nel dramma, nella poesia continuarono la battaglia ideale
    per i diritti dell'uomo, per l'uguaglianza di fronte al cuore e al
    sentimento, vinta dai loro antenati dell'89 per i diritti dell'uomo,
    per l'uguaglianza di fronte alla legge.
    
    Il Niccodemi è un Giorgio Ohnet in ritardo, e Giorgio Ohnet
    era già in ritardo a Eugenio Sue, a Victor Hugo e alla
    infinita schiera degli scrittori di appendici. Ma il motivo ha
    conservato una virtú di suggestione: riesce sempre ad
    avvincere e a commuovere, segno che il costume non si è
    modificato ed arricchito sentimentalmente e razionalmente con lo
    stesso ritmo della legge scritta e del progresso meccanico. La lotta
    di classe è vista dall'angolo visuale della tenerezza e del
    buon cuore: non è neppure una distinzione di classi che si
    fissa, ma una convenzionale caricatura degli uomini, secondo le
    categorie morali del bene e del male, secondo le categorie
    letterarie dell'angelo e del piededicapra, secondo le categorie
    oleografiche di lavoro e del sangue putrido. Sdolcinature
    piccolo-borghesi, che avrebbero provocato il vomito a Ottavio
    Mirbeau, e susciterebbero un sorriso ironico sul labbro di Massimo
    Gorki; prodotto di una invidiuzza inerente alla mentalità del
    borghesuccio francese che non sa perdonare alla propria
    mediocrità di sentire una grande ammirazione per il nobile,
    col quale spera di imparentarsi. Il Niccodemi non si innalza di un
    dito sulla statura intellettuale e artistica di Carolina Invernizio.
    La volata è costruita coi procedimenti teatrali abituali al
    «mago» della scena italiana: grandi urti, situazioni
    piccanti, conflitti esasperati, che fanno scoccare il desiato
    applauso promettitore di un buon numero di repliche.
    
    (24 aprile 1919).
    
     
    
     
    
    Gli spettacoli al Teatro del Popolo. Con L'onore di Sudermann
    s'è iniziato sabato sera il corso delle rappresentazioni al
    Teatro del Popolo. La interpretazione della interessante commedia, a
    fondo psicologico e filosofico, è stata condotta con vero
    senso artistico dalla compagnia Sangiorgi-Carini, i cui attori sono
    stati ripetutamente, insistentemente applauditi a ogni fine di atto
    e anche durante lo svolgimento dell'azione. La commedia ha
    interessato moltissimo il nostro pubblico che ha potuto vedere e
    sentire condito in tutte le salse il concetto borghese e bottegaio
    dell'«onore», che nella società capitalista si
    compra e si vende come una merce qualunque. E ha applaudito
    fragorosamente alla invettiva che Roberto, il giovane laborioso
    emerso dalla nullità del suo ambiente, ha lanciato contro i
    ricchi, padroni dei corpi e delle anime della povera gente.
    
    Interessantissima anche la brillante commedia rappresentata nella
    giornata di domenica: Il deputato di Bombignac. L'allegra satira dei
    costumi parlamentari e delle leggerezze dell'alta aristocrazia non
    poteva non divertire il pubblico che frequenta i nostri ambienti
    dato il periodo di dissolvimento che stanno attraversando le classi
    dirigenti d'Italia e di altri siti.
    
    Non cosí vivo interesse ha destato domenica sera il dramma di
    Bernstein: La raffica, dove l'azione si svolge esclusivamente nel
    mondo borghese della nobiltà infrollita dall'ozio e
    incartapecorita negli affari. I lavori capaci di emozionare il
    nostro pubblico sono quelli che mettono a contatto il presente con
    l'avvenire, i dominatori cogli oppressi, il sistema sociale
    dell'oggi colle ardite speranze del domani. E questo crediamo sia il
    concetto ispiratore della benemerita commissione del teatro.
    
    Il locale ampio e arieggiato di Corso Siccardi è stato sempre
    affollatissimo e dobbiamo lodare gli organizzatori per
    l'allestimento elegante e popolare del caratteristico teatro in cui
    si svolgeranno le sane rappresentazioni educative del nostro popolo.
    
    (30 aprile 1919).
    
     
    
     
    
    «I giocatori» di Poggio al Carignano. Al signor Cesare
    Biliotti capita ogni dieci anni un'avventura bisbetica. Sui
    ventotto, il signor Cesare s'innamorò della signorina Maria;
    ma aveva avuto il torto di presentare alla fanciulla un amico, Mario
    Bini, che destramente gliela soffiò, aggiungiamo, per il
    prestigio del candore femminile e dell'amicizia, che né Maria
    né Mario conoscevano l'amore di Cesare. Sui trentotto, il
    signor Cesare si innamora della signorina Emma, e anche a lei
    presenta l'amico Mario Bini, il quale si prova a soffiargliela.
    Ma... in questo ma consiste la commedia.
    
    Mario Bini non ha mutato il pelo, né ha perduto il vizio, ma
    Cesare Biliotti e le condizioni generali dell'avventura sono mutate.
    Intanto Mario Bini ha moglie e due figli; è separato dalla
    moglie ma intimamente ne è innamorato e adora i figlioletti.
    Cesare, poi, in dieci anni l'ha imparata lunga: ha indossato una
    palandrana filosofica, si è catafratto contro le
    avversità e i giuochi del caso; resiste, combatte e vince. La
    signorina Emma ignora anch'essa l'amore del signor Cesare; è
    una donnina dal caratterino bizzarro, questa signorina Emma. Ha
    ventisei anni (l'autore nota scrupolosamente l'età dei
    personaggi), e da nove anni abita in una bicocca rurale col vecchio
    e cadente padre e la non piú giovane sorella; è stanca
    di questa muffa, vuol vivere, vuole espandersi, vuole audacemente
    conquistarsi la felicità e la luce. Si ribella clamorosamente
    al genitore, non si commuove per le sue tremule ginocchia e la sua
    canizie (questo padre è stato un poco di buono, nove anni
    prima, e l'inesorabile figlia glielo ricorda fremente): se ne
    andrà col Bini, pur di evadere dalla cella domestica, pur di
    sentirsi libera, indipendente, se stessa. Cesare Biliotti veglia e
    opera: ingelosisce Mario Bini, facendogli credere che sua moglie
    vuol divorziare per sposare il suo primo pretendente e convince la
    signora Bini a intervenire nell'avventura. Terzo atto. Torino. Una
    sala di casa Bini. La signorina Emma invece di Mario, trova la
    signora Maria. Serrato duello tra le due donne. Entrano in scena i
    due pargoletti. Emma è disfatta. Il marito e la moglie si
    riconciliano. Il signor Cesare si porta via Emma verso il municipio
    e la felicità. Gli spettatori, che hanno con molto
    compiacimento seguito lo sviluppo dell'intrigo e hanno gustato con
    pacata soddisfazione le centinaia di massime, di paragoni, allegorie
    e apologhi con cui l'autore lo ha snellito e illeggiadrito, dopo
    aver applaudito i primi due atti, applaudono anche il terzo godendo
    di tanta felicità e tanta armonia di cuori e di sentimenti.
    
    (13 maggio 1919).
    
     
    
     
    
    «La vena d'oro» di Zorzi al Chiarella. L'amore del
    titolo ha tradito l'autore; lo ha condotto ad aggiungere alla azione
    del suo dramma due lunghe scene finali che ne guastano l'armonia, e
    non hanno alcun fine artistico. Troppo piccola cosa, l'immagine
    della vena d'oro, per tanto sacrifizio. L'autore era riuscito, in
    limiti soddisfacenti, a contenere la letteratura: non è
    riuscito a vincersi sempre, ed è un peccato.
    
    L'azione del dramma culmina nel sacrifizio che un figlio fa di tutta
    la sua piú intima coscienza per sua madre. I greci non
    amavano descrivere lo stato d'animo inerente ai dolori che toccano i
    cardini stessi dell'essere uomini; e neppure Dante. In un quadro di
    Pompei, Medea assiste all'uccisione dei figli, ma il suo volto
    è ricoperto da un drappo: il pittore non osò
    effigiarne la maschera atroce. Cavalcante ricade nell'arca appena
    gli pare di aver compreso che suo figlio è morto, senza
    parole, senza gesti, per Dante. Il lettore, l'osservatore possono
    immaginare, o forse solo sentire un tonfo, un brivido, che li
    immedesima col dramma: non di piú, forse. Lo Zorzi non
    è certo riuscito a ottenere di piú, non è
    riuscito neppure a determinare quel tonfo, quel brivido. È
    voluto uscire dai limiti, non ha creato nulla: disillusione.
    
    Una donna (una madre), abbandonata dal marito dopo pochi mesi di
    convivenza fredda ed esteriore, per vent'anni si salva nell'affetto
    del figlio. È la matrona, la Giulia romana, che fila e alleva
    la prole in castità. La passione, Afrodite, dorme in lei, non
    la scuote, non la tormenta. Conosce il poeta Manfredi (il pericolo
    del poeta in iscena è stato superato dallo Zorzi con misura e
    garbo), si innamora, con innocenza, con candore. Il figlio
    interviene brutalmente, selvaticamente, in una scena che è la
    piú bella e la piú efficace del dramma. Il poeta
    parte. La contessa Usberti langue, si consuma. Un uomo di scienza,
    il dottor Albani, trova la parola «umana»; il figlio
    deve permettere alla madre di amare, contro tutte le leggi, contro
    tutte le morali, contro tutte le vergogne. È un uomo di
    scienza che parla: la tesi ne diventa «umana», perde
    ogni sapore di facile e dilettantesca audacia verbale. E il figlio
    acconsente e richiama il Manfredi. L'autore non ha saputo fermarsi.
    
    (14 maggio 1919).
    
     
    
     
    
    «L'ultimo nemico» di Mazzolotti al Carignano. L'ultimo
    nemico è un ingegnere tedesco che ritorna in Italia dopo la
    pace e viene strozzato da un reduce. Commedia del cannibalismo
    nazionalista. Con tutta l'enfasi e la rozza crudeltà retorica
    del cannibalismo nazionalista. Greve, tediosa,
    «prussiana», come ogni cattiva azione nazionalista.
    Antinazionale, come ogni prodotto della barbarica concezione
    nazionalista. È come un avviso ai tedeschi: non ritornate in
    Italia, o gli italiani vi strozzeranno. Gli italiani avrebbero
    bisogno di voi, perché voi siete laboriosi e tenaci, siete
    pazienti e mantenete gli impegni. Gli italiani avrebbero bisogno di
    voi, perché devono moltiplicare i loro impianti industriali e
    mancano di personale tecnico; i capitalisti italiani vi
    riaccetterebbero, perché gli affari sono gli affari e non
    sentimentalismo: ma badate, v'è in Italia chi vi
    strozzerebbe, perché pensa che l'Italia «debba»
    far da sé, anche se non può, anche se la sua classe
    dirigente è costituita di individui che pensano a
    riacquistare il tempo perduto per la gioia e il sollazzo invece di
    lavorare, che pensano a dare incremento alla galanteria invece che
    alla industria e agli studi. Molti spettatori dei palchi e delle
    poltrone devono essere stati seccati di questa commedia, che denota
    il sussistere d'uno stato d'animo che turba i traffici. Per noi essa
    è una cattiva azione nell'ordine artistico, e una evasione
    dalla sfera dell'umanità nell'ordine morale.
    
    (20 maggio 1919).
    
     
    
     
    
    «Un baro d'amore» di A. Guglielminetti al Chiarella. In
    un pomeriggio romano afoso di temporale, la signora Elena Demei,
    consorte del signor Giorgio Demei, rivela alla baronessa Lanfranchi
    di aver conservato, sulle sue bianche spalle, il sigillo di un bacio
    impressovi due anni avanti, a San Sebastiano, dalle ardenti labbra
    di un tenebroso e fatidico andaluso.
    
    Ella è presa, è schiava: avrà un convegno col
    bel cavaliere che deve rivelarle l'amore. E la moglie inganna
    astutamente il consorte, e la madre non si intenerisce alle lacrime
    inconsapevoli dell'innocente figliolina, che ha dieci anni e legge
    Peter Pan e sta per imparare la regola del tre e svolge componimenti
    su presaghe e galeotte frasi di Napoleone (che scuole! assegnare
    alle innocenti bambine temi che corrompono le genitrici), e va in
    una camera d'albergo. Ahimè, quale delusione. Il bel
    tenebroso è uno zingaro, un avventuriero, un truffatore, un
    baro d'amore. La signora fugge, lasciando il suo mantello
    d'ermellino, come Giuseppe la sua tunica, e il giorno dopo tradisce
    il marito col medico di casa. La commedia di Amalia Guglielminetti:
    Un baro d'amore, essenzialmente si regge su due mantelli
    d'ermellino, una sera di burrasca e una lunga telefonata dietro le
    quinte: le spagnolerie, le andaluserie, le siviglierie, le lunghe
    psico-pato-senso-femminilerie sono il bianco mangiare in cui affoga
    il moscerino stremenzito e volato dalla non fantasia drammatica
    della Guglielminetti. Il pubblico ha pazientemente ascoltato i primi
    due atti; al terzo si è scosso dal torpore e ha protestato
    indelicatamente.
    
    (28 maggio 1919).
    
     
    
     
    
    «Nino er boja» di Monaldi allo Scribe. Ladri, assassini,
    prostitute, ruffiani, scatti di coltelli a molla, lividi
    lampeggiamenti di acciari, urla, sfide, streghe, fatture, donne
    sfregiate da una parte, tenerezze, senso morboso dell'onore, spirito
    cavalleresco, coraggio dall'altra. In questo quadro si rileva un
    personaggio che sintetizza tutto il bene e tutto il male
    dell'ambiente: il capo della onorata società che entrando in
    scena fa scattare il ferro e zic, sfregia l'amante traditora.
    L'azione si complica: nell'ordine delle bassezze c'è una
    vecchia che se la intende col marito della figliuola, il quale
    marito è il Giuda pallido e repugnante di questa caverna da
    mille e una notte; nell'ordine degli eroismi c'è la
    magnanimità del capo che non uccide il Giuda per le
    supplicazioni di una sua amante (la quale è la moglie del
    Giuda, ma ha avuto un figliuolo dal capo, anzi il Giuda l'ha sposata
    per coprire il fallo e il figliuolo). L'azione culmina nella
    esecuzione che il capo fa del traditore. E qui è capitato un
    fatto che rende interessante questo pasticcetto romantico e
    trucolento (Nino er boja) e le recite del Monaldi. Quando Nino, il
    capo della paranza, afferra per i capelli, con gesto ampio e
    magnifico di grandezza, Pietro il traditore e gli taglia la gola,
    dal pubblico del teatro si sprigiona un sospiro di soddisfazione e
    da una cinquantina di bocche strette sibila l'approvazione: ben
    fatto. Sí, il pubblico (un teatrone e scelto, come dicono i
    cronisti) è rimasto incatenato allo svolgersi dei momenti
    drammatici della rappresentazione, ha palpitato, ha rabbrividito, si
    è commosso, e non solo per la virtú degli attori, ma
    per i fatti in sé, che lo interessavano come lo interessano
    tuttora i librucciacci sui banditi celebri, sugli sventratori di
    donne, su Guerin Meschino e i reali di Francia. Con questa
    differenza: che i lettori di questi libri sono lettori clandestini e
    in pubblico fanno il chi la sa lunga in letteratura e in buon gusto;
    in teatro, collettivamente, non nascondono la loro predilezione.
    È un problema di costume di non trascurabile importanza: a
    Torino, c'è la possibilità che un teatro zeppo langua
    e rabbrividisca vedendo e udendo sulla scena ladri, assassini,
    ruffiani, prostitute, coltelli, sangue, e tutto l'armamento
    romantico e trucolento del cliché della mala vita.
    
    (2 giugno 1919).
    
     
    
     
    
    «La nostra immagine» di Bataille al Carignano. Nel
    recente poema del Bataille, La divine tragédie, è
    riprodotta l'immagine di un uomo le cui carni in disfacimento
    cadono, scoprendo la nuda aridezza dello scheletro; ma il braccio ha
    strappato il cuore dal petto, e lo tende verso l'alto, per salvarlo
    dalla putredine con un gesto disperatamente eroico.
    
    Il mondo interiore del Bataille è simbolizzato in quella
    immagine, e anche l'espressione nella quale il Bataille concreta il
    suo mondo interiore. Una tensione esasperata, uno sforzo spasmodico
    di raggiungere le cime, che spesso, troppo spesso, si concreta in
    forme manierate e dolciastre, illanguidisce in compromessi banali e
    accomodanti. Nei due atti di La nostra immagine, il dissidio si
    presenta piú vistoso e urtante perché cozza nei due
    atti, tra un dramma e una farsa. Vediamo prima contrapporsi una
    madre e una figlia che furiosamente difendono ognuna la propria
    vita, la propria libertà. Enrichetta, con fredda
    crudeltà, domanda a sua madre, ancor giovane, ancora
    ammirata, di sposare un vecchio idiota per espiare il passato di
    avventure, per mettere in regola le sue carte di stato civile, per
    darle un nome e permetterle di entrare nel mondo
    «ufficiale», per permetterle di realizzare la
    felicità. Tra questa giovinetta, che ragiona freddamente e si
    dispera, che è crudele e tenera, spietata e commossa, e la
    donna che è posta dinanzi al compimento di un dovere che deve
    attuarsi in una cerimonia ridicola ferocemente, l'urto fa sprizzare
    scintille luminosamente vive di drammaticità. Ma il
    componimento avviene per un processo in cui tutta l'energia
    creatrice si è oscurata e ammorbidita: l'esperienza per cui
    Onorina si umilia e accetta di compiere l'espiazione è un
    tessuto di mere parole flosce e povere, di scene vuote ed esteriori,
    disperatamente uggiose e sconfortanti: e il pubblico ha sanzionato
    giustamente.
    
    Questa sera la commedia si replica.
    
    (13 giugno 1919).
    
     
    
     
    
    «Cesare e Cleopatra» di Shaw al Chiarella. Questo lavoro
    di Bernard Shaw è stato giudicato in Italia dagli echi
    diluiti della polemica che esso ha suscitato in Inghilterra.
    È un lavoro semplice e piano, condotto su motivi di
    umanità semplice e piana (umanità che si incarna in
    Giulio Cesare e in Cleopatra, semplice e piana, quindi, come
    può essere nella rappresentazione che dei due può
    esprimere uno che vuole rispettare i valori fissati dalla storia: e
    lo Shaw ha voluto rispettare questi valori); si è cercato e
    si cercherà in esso il paradosso, l'acrobatismo,
    l'«originalità». Gli italiani non hanno la
    percezione dello spirito: Shaw è originale perché ha
    rispettato la buona e normale umanità. Il suo lavoro è
    una ribellione, una stranezza, un paradosso per gli inglesi. Shaw ha
    scritto di Giulio Cesare dopo Shakespeare, ha cercato di imporre,
    con insolente prepotenza, alla fantasia degli inglesi, una immagine
    di Cesare che non è quella creata da Shakespeare. Lo scandalo
    può essere paragonato a quello sorto in Italia, in qualche
    gruppo di esteti fiorentini, quando il Cesareo pubblicò la
    sua Francesca da Rimini: esiste una sola Francesca, fu scritto, ed
    è quella di Dante; ogni altra rappresentazione di Francesca
    è una insolente caricatura. Per gli inglesi, Shakespeare
    è piú di quanto Dante sia per gli italiani; gli
    inglesi hanno tutti «riletto» Shakespeare, pochi
    italiani hanno studiato a scuola i commenti della Divina commedia.
    Cosí è che da noi il lavoro dello Shaw non sarà
    presentato al pubblico nella sua vera luce: la rappresentazione
    efficacissima e drammaticissima di un grande uomo, di un grande uomo
    di Stato, di un grande generale, Giulio Cesare, visto proprio
    umanamente, senza sublimazioni tragiche, ma ugualmente grande in
    ogni sua attività, come fu veramente, come è stato
    presentato dagli storici antichi, come si rivela dai suoi candidi
    libri di ricordi che sono tra i capolavori della letteratura romana
    per il candore e la schiettezza semplice.
    
    Domandare altro allo Shaw, far credere che altro lo Shaw abbia
    voluto dare, pretendere che sia necessario star lí ad
    ascoltare con tutto l'arco dell'intelligenza teso per colpire al
    volo paradossi e originalità se si vuole non apparire
    cretini, sarebbe stolto e inintelligente.
    
    Cesare e Cleopatra è un bellissimo lavoro anche senza che gli
    si imprestino arzigogoli ermetici per le persone comuni: un
    bellissimo lavoro, presentato in forma magnifica dalla compagnia di
    Emma Gramatica, in tutte le sue parti, degno di essere veduto e
    riveduto.
    
    (14 giugno 1919).
    
     
    
     
    
    «Il silenzio» di Pescetti al Carignano. Il dramma si
    svolge con un protagonista silenzioso: la casa. Dramma sentimentale,
    di piccole lacerazioni sentimentali, che si esaurisce nel mero
    dialogo e nelle contrazioni dei muscoli facciali: un motivo tenue,
    senza conseguenze gravi, che l'autore, giovanissimo, ha il merito
    grandissimo di aver espresso sobriamente, senza amplificazioni
    enfatiche e letterarie. Giovanni Bereni vive una sola vita con la
    sua casa, coi ricordi, con le immagini del passato che perennemente
    nascono e popolano, viventi creature, il silenzio discreto delle
    stanze. Giovanni Bereni è il passato, è la
    contemplazione, è l'inerzia che sogna; la vita pullula
    intorno e dentro la casa, prorompe vittoriosa, frange e lacera,
    spalanca le finestre e fa scappare esterrefatti i fantasmi. Una
    figliuola cresce accanto al Bereni, ama, tende alla vita attiva, si
    sposa e parte. Ha svuotato la casa, ne ha rotto l'incanto, l'ha
    spopolata dei suoi abitatori per farsi posto e la lascia
    cosí, ridotta una tomba, definitivamente. L'azione drammatica
    è tutta in questa tenuità, interrotta da quadretti
    brevi, di vita provinciale, ed è condotta con candore, con
    dizione semplice e quasi scialba. È lavoro di un giovane,
    perciò è notevole tanta sobria misura e assenza di
    esaltazione letteraria. Rappresentata con cura dei particolari da
    Luigi Carini e dai suoi collaboratori, ha ottenuto un successo che
    non è solo d'incoraggiamento.
    
    (19 giugno 1919).
    
     
    
     
    
    «Nell'ombra della vallata» di Synge al Chiarella.
    L'interno di una casupola da pastore, ai piedi di una collina
    irlandese, in una sera di uragano. Un vagabondo bussa e domanda
    ristoro. Una giovane donna accigliata lo invita a entrare. In casa
    c'è un morto, il vecchio marito. La compagnia del cadavere
    non turba la donna che la distanza e la tempesta separano dai
    viventi. Una cosa la turba: sarà sola anche domani e
    dopodomani e ci son le pecore da condurre, e in casa non c'è
    torba, ed ella non può uscire perché bisogna vegliare
    il cadavere. Il vagabondo veglierà, ella esce. Il vecchio si
    scuote, fingeva d'esser morto; è un vecchio pastore bizzarro,
    roso da un'ira cupa e sordida verso la moglie. Si fa dare da bere,
    si fa consegnare un randello e si distende nuovamente sotto il
    sudario, gorgogliando acquavite e maledizioni. Nara rientra, con un
    giovane pastore: parla, della sua vita sacrificata, dei suoi aneliti
    bramosi alla libertà, alla maternità, accanto al
    marito, un rozzo tronco di umanità feroce e bisbetica. Il
    giovane fa l'inventario dell'eredità: le offre di sposarla.
    Il cadavere si risolleva spettrito, squassato dalla tosse,
    minaccioso col randello. Scaccia la moglie, furioso, mentre ella sta
    impassibile, fredda dinanzi a quella frenesia senile che si consuma
    maledicendo, vogliosa di nuocere, di vedere la nemica ridotta
    all'abiezione della fame e del vagabondaggio, per quindi uscire, in
    compagnia del vagabondo che le parla con dolcezza virile e le offre
    il suo sostegno per una nuova vita, fuori dalla valle, dalla nebbia,
    dal trito inseguirsi dei giorni, delle settimane, dei mesi, delle
    stagioni. E il vecchio, dopo aver impaurito il giovanotto, siede
    insieme a costui e beve, sghignazzando trucemente.
    
    Un seguirsi di rappresentazioni rapide, secche, incisive che si
    giustificano in se stesse, nel rilievo dei singoli quadretti.
    
    (29 giugno 1919).
    
     
    
     
    
    Emma Gramatica. Il teatro, come organizzazione pratica di uomini e
    di strumenti di lavoro, non è sfuggito dalle spire del
    maelström capitalistico. Ma l'organizzazione pratica del teatro
    è nel suo insieme un mezzo di espressione artistica: non si
    può turbarla senza turbare e rovinare il processo espressivo,
    senza sterilire l'organo «linguistico» della
    rappresentazione teatrale.
    
    L'industrialismo ha determinato le sue necessarie conseguenze. La
    compagnia teatrale, come complesso di lavoro retto dai rapporti che
    intercedevano nell'arte medioevale tra il maestro e i discepoli, si
    è dissolta: ai vincoli disciplinari generati spontaneamente
    dal lavoro in comune – lavoro di natura particolare, perché
    tendente a fini di creazione artistica – sono successi i
    «vincoli» che legano l'intraprenditore ai salariati, i
    vincoli della forca e dell'impiccato. Le leggi della concorrenza
    hanno rapidamente condotto a termine l'opera loro disgregatrice: il
    comico è diventato un individuo, in lotta coi suoi compagni
    di lavoro, col «maestro», divenuto mediatore e
    coll'industriale del teatro. Sfrenata la speculazione sordida, essa
    non ha conosciuto piú confini. Il carattere stesso peculiare
    del lavoro da svolgere è diventato reagente corrosivo.
    Primeggiare nel guadagno va di pari passo col primeggiare nella
    compagnia, nelle funzioni direttive e autoritarie, nella
    libertà di scegliere per sé le parti a successo e
    spiccare, monumento funerario, in un cimitero di fosse comuni. La
    tecnica teatrale ne è stata scombussolata, la produzione si
    è adattata «facilmente» alle condizioni nuove;
    facilmente, nel senso che l'equilibrio è stato raggiunto in
    un piano infimo, di compagnie, di pubblico, di scrittori di teatro.
    Si parla di depravazione del gusto, di decadenza dei costumi, di
    dissoluzione artistica. L'origine di questi fenomeni vistosi
    è da ricercare unicamente nel mutarsi dei rapporti economici
    tra l'impresario del teatro, divenuto industriale associato in un
    trust, il capocomico, divenuto mediatore, e i comici soggiogati alla
    schiavitú del salario.
    
    Poche resistenze si verificarono a questo imperversare della
    concorrenza e della speculazione. Resistere d'altronde è
    difficile. Qualcuno cercò di salvare almeno una parte della
    libertà d'espressione artistica di fra le urla e gli stridi
    avidi del mercato capitalistico. Emma Gramatica è certamente
    di questi pochi: segno della sua personalità e della sua
    volontà artistica. Ribellarsi sarebbe stato pazzo e puerile:
    è finito il tempo delle avventure romantiche e delle audacie
    donchisciottesche. Del resto queste sono possibili alle iniziative
    individuali, non alle imprese che domandano un complesso di
    individui. Ribellarsi avrebbe solo significato essere immediatamente
    privati delle possibilità maggiori di espressione. Ma
    c'è adattamento e adattamento. La Gramatica ha conservato una
    sua libertà di movimento e di scelta: c'è una ricerca
    continua, una lotta continua nella sua attività: c'è
    vita. Può conoscere zone inesplorate, può allargare la
    sfera della sua sensibilità e delle sue esperienze: non cade
    nella routine, non è diventata una mera impiegata, che ha
    applicato il metodo Taylor all'espressione plastica della vita, che
    ha ridotto a meccanismo – complicato, esperto, di 20.000 pezzi
    mobili, ma meccanismo – ciò che è in quanto
    imprevedibile e incoercibile: l'espressione.
    
    A Torino, almeno, dove l'industrialismo teatrale opera implacabile
    come un flagello, la Gramatica è la sola che in questi ultimi
    anni ha «prodotto» novità, ha suscitato
    dall'interiore sua vita creature nuove, che vibrano d'amore e di
    odio o svolgono la quotidiana fatica del vivere in forme non
    logorate e rese opache dall'abitudine e dallo schema del mestiere,
    che è regolato dalla legge del minimo sforzo. Ha tentato, ha
    osato, dicono che abbia anche arrischiato dei capitali senza
    certezza di rivalsa, per imporre fantasmi artistici che altrimenti
    non avrebbero mai passeggiato sulle scene italiane. Vive dunque in
    lei e opera incessantemente, condizionando anche l'attività
    pratica, il principio della creazione irresistibile e prepotente che
    foggia una personalità e plasma un carattere secondo le leggi
    sue proprie: le leggi della bellezza.
    
    (1° luglio 1919).
    
     
    
     
    
    «Una donna moderna» di Berrini al Teatro del Popolo.
    Questa sera il nostro Teatro del Popolo darà la prima
    rappresentazione di Una donna moderna, commedia in tre atti di Nino
    Berrini. Il lavoro non è nuovissimo, perché venne
    rappresentato per la prima volta nel 1912 al Teatro Carignano dalla
    compagnia di Tina Di Lorenzo. Allora, appena alzato il sipario,
    prima che l'azione si iniziasse e cominciassero i dialoghi di
    preparazione, un sussurro di delusione correva fra gli spettatori
    eleganti e impomatati dell'aristocratico teatro. Quel pubblico,
    abituato a vedere in iscena la bellissima attrice in vesti sfarzose,
    contornata da rigidi gentiluomini in marsina, aveva provato e subito
    manifestato il suo stupore nel vedere la prima attrice in un
    semplice e umile vestitino di dattilografa, impiegata in un ufficio
    di avvocato. La commedia infatti svolge le vicende di una signorina
    che, nata in una ricca famiglia borghese, in seguito a disgrazie
    familiari è ricondotta alla legge comune del lavoro. Energica
    e volenterosa, ella si mette nella nuova via acquistando a poco a
    poco, insieme con l'indipendenza economica, anche una indipendenza
    morale e sentimentale, trovandosi perciò in contrasto con le
    tradizioni e con le persone della sua famiglia, rappresentate da un
    fratello ufficiale e allievo della scuola di guerra a Torino.
    
    La commedia dunque, sia per l'ambiente, sia per le idee cui si
    ispira, trovò nel pubblico borghese delle resistenze che
    però vennero vinte dall'azione serrata e dalle verità
    anche se poco gradite, scaraventate dall'autore senza esitazioni; e
    conseguí un buon successo con un buon numero di repliche.
    
    La rappresentazione di questa sera pel nostro pubblico ha
    perciò valore di una prima rappresentazione. L'autore
    curò personalmente le prove e attende l'esito al Teatro del
    Popolo come una vera e piú schietta riprova del valore d'arte
    e di vita dell'opera sua.
    
    (5 luglio 1919).
    
     
    
     
    
    «Addio sogno» di Motta al Carignano. Luigi Motta
    è un copioso scrittore di romanzi d'avventure nei quali
    abbondano i sultani, i pirati, i diamanti, gli scotennatori
    piú che il buon senso e il buon gusto. L'anno scorso ha
    incominciato a uscire dal suo dominio, commercialmente cosí
    fruttuoso, e ha scritto un libretto per operetta. Con questa sua
    commedia, Addio sogno, il Motta ha voluto tentare le grandi vie. Non
    contento di aver istupidito tanti innocenti bambini, vorrebbe
    continuare la sua opera anche con gli adulti. Nei tre atti non
    è possibile trovare neppure una immagine, neppure un gesto
    che riveli una sensibilità artistica: si tratta di un
    mucchietto di scempiaggini, che sono anche mediocri nella loro
    scempiaggine. Il pubblico scarso ha riso gustosamente dove l'autore
    si proponeva di far piangere a calde lagrime, e il tentativo del
    Motta è stato cosí allegramente seppellito.
    
    (10 settembre 1919).
    
     
    
     
    
    «Il soldato millantatore» («Miles
    gloriosus») di Plauto al Carignano. Il soldato Pirgopolinice,
    mentre il giovane Pleusicle è lontano da Atene, perché
    conduce un'ambasceria a Naupatto, rapisce la meretrice Filocomasia e
    se la conduce per forza a Efeso. Palestrione, schiavo di Pleusicle,
    si imbarca per andare ad avvertire il padrone, ma è catturato
    dai pirati e regalato a Pirgopolinice. Pleusicle viene da lui
    chiamato a Efeso e diventa ospite di Periplettomene, vicino di casa
    di Pirgopolinice. Tra le due case viene praticato un passaggio
    segreto, attraverso il quale Filocomasia vola tra le braccia del suo
    fedele e perseverante amico Pleusicle. Sceledro, altro schiavo del
    soldato, mentre insegue una scimmia sui tetti, li sorprende
    abbracciati; Palestrione e Periplettomene lo convincono che è
    arrivata a Efeso la madre e una sorella di Filocomasia, e che la
    donna che egli ha visto abbracciata da un giovane è appunto
    questa sorella, che rassomiglia a Filocomasia come due gocce
    d'acqua. Per risolvere la situazione, Palestrione inventa l'intrigo
    che dovrà liberare lui e i due amanti dalle grinfie di
    Pirgopolinice e dovrà condurre il soldato a una solennissima
    beffa e a una solennissima bastonatura. Pirgopolinice, oltre a
    credersi un secondo Achille (il suo nome significa
    l'«espugnatore di città») si crede anche un
    nipote di Venere, un irresistibile conquistatore di donne:
    Palestrione gli fa credere che la moglie di Periplettomene è
    innamorata follemente della sua bellezza e della sua virtú,
    che per lui ha divorziato dal marito e che vuole sposarlo e recargli
    in dote la casa. Una meretrice di Efeso, Acrotelenzia, viene assunta
    per far la parte di moglie divorziata e innamorata. Pirgopolinice
    cade nella rete; rimanda in Atene Filocomasia con l'amante, che si
    è travestito da marinaio e libera Palestrione, che parte
    anch'egli con la piccola meretrice ateniese. Ma quando
    Pirgopolinice, baldanzosamente entra in casa di Periplettomene,
    viene preso e legato dagli schiavi di costui e sottoposto alla
    umiliante e indescrivibile punizione degli adulteri colti in
    flagrante.
    
    La commedia ha avuto un vivo successo nell'adattamento di G.
    Sinimberghi. Occorre dire subito che il successo è dovuto
    alla buffoneria intrinseca nell'intrigo e nel carattere tipizzato
    dei protagonisti e alle virtú comiche degli artisti della
    compagnia «Eclettica». Di Plauto, in questo adattamento,
    rimane nulla. Perché di Plauto, nella commedia latina, era il
    linguaggio, l'espressione particolare del dialogo, la ricchezza del
    vocabolario popolaresco: tutto ciò che nell'adattamento
    è precisamente svanito. Il dialogo, come espressione del
    particolare, come varietà individuale, è pessimo in
    questo adattamento. La scoloritura incomincia nella traduzione del
    titolo: gloriosus (millantatore, spaccone) viene reso con
    «vanaglorioso». Si può immaginare la truculenza
    iperbolica di Pirgopolinice rappresentata come una
    «vanagloria» da studentello? Si può immaginare un
    tipo da commedia, che ha generato Falstaff e il capitan Fracassa e
    l'Ammazzasette (Pirgopolinice ne ammazza settemila in un giorno)
    qualificato come un «vanaglorioso»? La commedia è
    tutta «ridotta» in tal modo.
    
    (11 novembre 1919).
    
     
    
     
    
    «Quella che t'assomiglia» di Cavacchioli all'Alfieri. In
    questo «tentativo scenico» (la definizione è
    dell'autore o è stata autorizzata dall'autore) il Cavacchioli
    si è «proposto» di arrovesciare il processo di
    intuizione e di espressione artistica. L'artista intuisce, vede,
    vive la sua concezione, la unifica, la concreta, nel suo interiore
    travaglio, e la esprime, le dà una forma linguistica,
    cioè la conduce alla sua perfezione (quando è
    perfezione) assoluta, alla sua universalità. Dal generale,
    dall'indistinto, l'artista giunge all'universale, al distinto
    individuato, al lirismo. Il Cavacchioli si è
    «proposto»... cioè ha incominciato col negare in
    sé l'artista, il fabbro di forme espressive, e ha lavorato
    con la volontà dello scrittore inchiodato al tavolino
    professionale. Egli ha fissato l'«esistenza» di una
    serie di stati d'animo tradizionali nelle belle arti e nella
    psicologia; cioè è partito – non dal tumulto interiore
    della fantasia che cerca attraverso una sua intima dialettica, di
    comporsi, di organarsi, di esprimersi, di giungere alla sua
    maturità lirica – ma da una astrazione, da un mondo meramente
    cartaceo, libresco, dove le parole sono cifre, dove i sentimenti non
    sono, come sono nella vita individuale degli uomini, imprevedibili
    nel loro svolgimento, nel loro divenire motivo d'azione e di
    passione, ma sono freddi pezzi anatomici da gabinetto di psicologia
    letteraria; e ha «tentato» di
    «materializzarli», di fasciarli in uomini che: – si
    chiamano Leonardo, hanno quarant'anni, sono calvi baffuti e di
    grossa pancia quando rappresentano il senso statico, fanfarone,
    pauroso della vita – si chiamano Gabriele, sono lunghi, allampanati,
    spettrali, lamentosi quando rappresentano l'ideale sempre calpestato
    – si chiamano Gabriella quando sono giovani donne, hanno i capelli
    verdi, sono volubili, carnali, rancide di sentimento e trovano solo
    nel sentimento la loro umanità – e non si chiamano con un
    nome, ma con la designazione professionale «il
    meccanico», quando sono il praticismo inesorabile macchinale
    dell'esistenza, hanno due ruote al posto degli occhi e sembrano
    tutto un congegno di leve e di ingranaggi.
    
    Il Cavacchioli non ha raggiunto nessuno dei fini che si era
    «proposto» perché essi potrebbero essere
    raggiunti, tutt'al piú, con una conferenza da
    università popolare arricchita di molte proiezioni. Ha
    raggiunto una costruzione, degna del «meccanico» che ha
    due ruote al posto degli occhi e sembra ecc. ecc. L'intrigo
    dell'azione ha, contro la sua volontà, continuato a essere il
    tradizionale intrigo, e, come succede per il novantanove per cento
    degli intrighi, ha guidato l'attenzione degli spettatori attraverso
    un rosario di scene «ogni figura un fatto», piuttosto
    che fino al fuoco di una visione drammatica. L'intrigo comune
    postbellico della moglie che tradisce il marito al fronte dopo
    averlo, con le sue perfidie di sposa, ahimè!, infedele,
    spinto a partire volontario, e si pente e si converte alla vita
    casta e pura quando il marito ritorna cieco, non è stato per
    nulla «originalizzato» dalle luci diverse, dagli scenari
    fantastici, dall'essere il «drudo» un avventuriero
    illusionista, e dai fantocci parlanti, dagli spettri ecc. ecc. Il
    Cavacchioli è stato un militante della retroguardia
    marinettiana; in lui il futurismo appare nella sua forma letteraria
    essenziale, come un travestimento, nell'epoca delle macchine e della
    grande industria moderna, del romanticismo trucolento e
    grandiosamente cretino del 1848.
    
    Il «tentativo» ha, tuttavia, fortemente interessato il
    pubblico. Una lotta si è impegnata tra ammiratori e
    «denigratori»; fischi, applausi, gente in piedi che si
    sporge e si tende, fuori dai parapetti e dalle file, per approvare o
    disapprovare. Risultato: sopravvento degli applausi, una quindicina
    di chiamate al Cavacchioli e agli interpreti (Tina Di Lorenzo, Luigi
    Cimara, Ruggero Lupi, Armando Falconi, D. M. Migliari) che avevano
    spesso ricondotto a umanità viva e individuale gli
    «stati d'animo» della commedia, contravvenendo ai
    «propositi» del Cavacchioli.
    
    (27 novembre 1919).
    
     
    
     
    
    «La sonata a Kreutzer» di Fleischmann al Chiarella. Gli
    operai russi non avevano ancora dato tutto il potere ai soviet. La
    Russia non era ancora diventata, nella fantasia dei portinai, dei
    pizzicagnoli e dei farmacisti, l'apocalittico paese di Gog e Magog,
    dove Satana arruola le sue milizie per mettere il mondo a sacco
    prima del giudizio universale. Jasnaia Polijana non era ancora stata
    violata dalla rozzezza e dalla insensibilità dei contadini
    bolscevichi. Ma da un pezzo gli speculatori occidentali
    dell'intelligenza avevano già messo a sacco e violato le
    opere di Tolstoj, senza che nessun giornalista, depositario della
    fiaccola di Prometeo, ululasse lamentosamente e invocasse tutte le
    forze sane del mondo contro i sacrileghi e i barbari. Cosí
    è avvenuto che gli italiani non possono conoscere, dalle
    edizioni italiane, l'opera che Tolstoj ha intitolato: La sonata a
    Kreutzer. L'editore italiano ha giudicato che Tolstoj non conoscesse
    l'arte sua e ha fatto aggiungere alla traduzione francese già
    modificata sulla traduzione tedesca del testo russo, qualche decina
    di pagine di impressioni e di descrizioni che rimpolpassero la
    scarsità verbale di Tolstoj. A questa contraffazione,
    attraverso la quale la massa degli ammiratori italiani di Tolstoj
    hanno conosciuto La sonata a Kreutzer, si è aggiunta la
    traduzione di quest'altra contraffazione del Fleischmann: il
    «borghesismo» italiano non è tenero col grande
    scrittore russo. Questi tre atti non hanno niente che li distingua
    da una pessima contraffazione. La Sonata a Kreutzer è un
    violento pamphlet, che risulta artisticamente piú efficace
    dalla commistione del dialogo alla dimostrazione logica fino
    all'assurdo; non è un dramma di individui particolari, che
    possano essere immaginati viventi singolarmente. La riduzione
    scenica non può che risultare una raffazzonatura, se il
    dramma, che è interiore alla coscienza morale del Tolstoj,
    viene profilato come urto fra uomini e donne realmente vivi,
    muoventisi e speranti in un mondo corporeo. E cosí è
    stato, con un peggiorativo per l'interpretazione artificiosa e
    superficiale del Tempesti. Una serata da registrare nel catalogo del
    perverso destino italiano di Tolstoj.
    
    (20 dicembre 1919).
    
     
    
     
    
    «Il chiostro» di Verhaeren al Chiarella. Una nota del
    traduttore, stampata nel programma della serata, avverte:
    
    «Il dramma è dominato da una concezione "claustrale"
    della vita, che cozza e urta contro un'opposta concezione "umana"
    della vita stessa. Ma sopra il dramma determinato dall'urto di
    codeste due opposte concezioni sta, apparentemente, il dramma che si
    opera in una coscienza, in quella cioè del protagonista
    principale, di "frate Baldassare".
    
    «Dico apparentemente, perché, a chi ben guarda, non
    può sfuggire che il dramma di frate Baldassare è, nel
    suo fondo, generato dall'urto in se stesso di codeste due medesime
    concezioni della vita: la concezione "claustrale" e quella "umana".
    Affermare, perciò, la personalità del protagonista,
    equivale a comprendere lucidamente tutto il significato del
    dramma».
    
    La personalità del protagonista di questo come di ogni altro
    lavoro di teatro, può essere afferrata e ricostruita
    dall'interpretazione dell'attore che lo impersona.
    Dall'«interpretazione» dell'attore Tempesti non appare
    che il protagonista abbia una personalità e tanto meno appare
    che essa sia una personalità «dialettica»,
    vivente e svolgentesi per il cozzo di due concezioni della vita;
    appare solo la «maniera» di recitare, propria del
    Tempesti, formatasi nella ripetizione a getto continuo dei lavori
    teatrali di Sem Benelli. Qualche cosa appare tuttavia chiaramente:
    il distacco tra l'attore e le parole che l'attore recita, il
    distacco tra il significato delle parole, tra la vita interiore che
    le parole esprimono e i gesti, i moti, le contorsioni, le smorfie
    dell'attore. Appare chiaramente che il protagonista viene dinanzi al
    pubblico ricoperto da una maschera: la maschera dei protagonisti
    dalla gola canora e dall'anima di legno dei lavori di Sem Benelli. E
    cosí viene presentato al pubblico italiano un dramma di
    Verhaeren...
    
    (24 dicembre 1919).
    
     
    
     
    
    «La principessa» di Géraldy al Carignano.
    Susanna, principessa, ama Giorgio Enrico, re. Giorgio Enrico, re,
    ama Susanna, principessa. Susanna è, dinanzi al mondo, alla
    corte e nello stato civile, la sorella di Giorgio Enrico. Ma Giorgio
    Enrico non è fratello di Susanna che nello stato civile; egli
    è un intruso nel regno e nella dinastia, egli è il
    frutto di un adulterio della prima moglie del padre di Susanna, e
    solo per evitare uno scandalo clamoroso e per non insozzare la
    memoria di una regina, gli è stato trasmesso il potere.
    Giorgio Enrico potrebbe dunque amare Susanna e Susanna amare Giorgio
    Enrico: invece Susanna sposa un principe di... Imbritch.
    
    Tutto questo intreccio è sviluppato nella sua
    esteriorità superficiale. Il conflitto è presentato
    nelle fasi salienti di bizze, dispetti, sgarberie, rivelazioni
    esterne. Il dramma è incorniciato nel cerimoniale e nella
    ragione di Stato, è ridotto a un episodio borghese o piccolo
    borghese: sí, insomma, è doloroso che un amore
    legittimo, dinanzi all'innocenza dei fiori e degli astri, debba
    sacrificarsi alla ragione di Stato, ma questo sacrificio può
    costare una lacrimuccia, può determinare anche uno strappo
    abbastanza fiero alle abitudini della vita quotidiana, non far
    però affiorare dall'intima umanità nessun grido di
    poesia, non produce nessuna lacerazione vitale. Lo Géraldy
    immagina i re moderni molto diversi dagli eroi della
    classicità; essi sono indispensabili nell'intreccio per
    giustificare l'intreccio stesso, per giustificare i motivi del
    dramma; ma i motivi, che hanno domandato come attori del conflitto
    persone regali, sono rimasti inerti nella fantasia, sono rimasti
    alla fase dell'invenzione; le persone regali non sentono il dramma
    piú che non lo sentano due coniugi droghieri, improsciuttiti
    nell'esercizio della professione, resi teneri e patetici di
    temperamento dallo spettacolo permanente delle provviste di
    magazzino, che, per distrarsi, leggano una traduzione popolare di
    Sofocle. Lo Géraldy ha solo lavorato con cura e attenzione
    letteraria la forma esterna scenica, in modo da presentare al
    pubblico una cosina ben gentile e garbata, che ha avuto un buon
    successo di applausi anche e specialmente per la recitazione
    accurata e viva del Carini, della Gentilli e della Sanmarco.
    
    (3 gennaio 1920).
    
     
    
     
    
    «La nostra ricchezza» di Gotta al Carignano.
    Dov'è la nostra ricchezza? È nell'attività
    industriale o nell'agricoltura, nelle speculazioni di borsa o nella
    coltivazione dei campi, nelle città o nella campagna?
    
    Siamo nel dopo guerra: il problema è, come usa dire, di
    attualità, non v'è studente che abbia masticato un po'
    di scienza economica e politica il quale non si senta in grado di
    farvi un discorso, con gli ingredienti di uso (le virtú e i
    vizi di oggi e di una volta, l'urbanesimo, il decentramento
    regionale, se occorre) la sua brava dissertazione. Salvator Gotta
    invece ha scritto una commedia; gli ingredienti però sono gli
    stessi, quelli di una dissertazione accademica di seconda mano. E
    quanto all'arte? Vediamo.
    
    Tre uomini: un nonno, un padre, un figlio. Il figlio è stato
    in guerra, volontario, e la guerra lo ha fatto diventare,
    cosí dice l'autore, socialista. Il padre è un
    industriale che si è arricchito con le forniture governative.
    Il nonno è un ricco campagnuolo, che ama la sua casa e la sua
    terra, che è legato dai piú tenaci vincoli d'affetto e
    di tradizione al suolo ch'egli coltiva, al podere che è per
    lui la sola, la vera ricchezza. Tra questi tre uomini dovrebbero
    sorgere il contrasto, la tensione drammatica e l'urto. E
    apparentemente sorgono. L'industriale specula, perde, vuol salvare
    la sua posizione e non vede di meglio che vendere la vecchia casa,
    liquidare il podere, trasformarlo in ciò che per lui è
    ricchezza, in denaro da lanciare nel giuoco e nel circolo degli
    affari cittadini. Per il nonno questa è una enormità:
    si ribella, resiste, poi non si sa come, cede, vende casa e podere e
    va in esilio. E il figlio che prima, allontanatosi dal padre,
    sembrava volersi dedicare egli pure alla vita dei campi, si pone
    recisamente contro tutti e fa l'organizzatore dei contadini.
    
    Il contrasto, come si vede, c'è. Siamo davanti a tre
    posizioni mentali, a tre tendenze diverse, a tre diverse soluzioni
    di un problema. Ma niente di piú. L'urto deriva da una
    antitesi logica, non da una contrapposizione di passioni, di
    volontà, di sentimenti.
    
    Dalla prima battuta all'ultima non vi è nulla che accenni a
    umanizzare il problema, a far sí che i protagonisti cessino
    di essere rappresentanti di una tesi o di una idea, e diventino
    uomini. Non vi è, dal principio alla fine, uno sviluppo.
    Accenti di umanità profonda avrebbero potuto essere tratti
    dalla posizione della donna che è insieme figlia, sposa e
    madre, e invece questa donna non ha un'anima, è un piccolo
    fantoccio che si può far ballare con tre fili diversi,
    è un brandello di carne che oscilla senza una direzione e
    senza un significato.
    
    Ma nessuno ha un'anima qua dentro, nessuno vive di una vita che non
    sia quella artificiale, che l'autore crede possa consistere
    nell'essere per l'industria o per l'agricoltura, per il denaro o per
    i campi. E nessuno parla realmente un linguaggio umano: declamano
    tutti, declamano per l'una e per l'altra tesi.
    
    Vero è che gli artisti si sforzano di aggiungere con l'azione
    loro ciò che ai personaggi l'autore non ha dato, e, bisogna
    dirlo, ci riescono talora assai bene. E il pubblico applaude.
    Applaude un po' come ai comizi, non perché la
    rappresentazione artistica lo conquisti e lo faccia vibrare di un
    sentimento unico, ma perché condivide l'una o l'altra tesi,
    perché gli piace o non gli piace sentir svalutare il febbrile
    lavoro delle città di fronte alle calme e sane fatiche dei
    campi, gli piace o non gli piace veder piú o meno biasimato
    il contadino che si inurba o quello che resta legato alla sua terra
    e all'opera sua, e getta contro alla tempesta l'acqua santa
    invocando da santa Barbara e da san Simone la salvezza delle terre
    padronali.
    
    Ma a noi, che non vogliamo che dare un giudizio sul valore
    dell'opera di arte teatrale, sia permesso di non discutere la tesi.
    
    (10 gennaio 1920).
    
     
    
     
    
    «La ragione degli altri» di Pirandello al Carignano. La
    casa è dove sono i figli. La convivenza familiare non
    può essere fondata su meri rapporti sessuali, non può
    essere fondata sul codice, non può essere fondata sulle idee
    convenzionali di dovere, non può essere fondata su motivi
    sentimentali di pietà; un solo legame esiste, elementare e
    perciò costante e incoercibile, i figli e solo dove sono i
    figli esiste la casa...
    
    La logica di questo principio (condotta fino all'assurdo: i figli
    anche se di un'altra donna, la maternità anche se... presa a
    prestito) sostanzia questi atti del Pirandello. Pirandello abbandona
    i motivi letterari, i motivi... filosofici di intrigo e di
    conversazione drammatica e poggia lo svolgimento dell'azione su un
    motivo primordiale di umanità, la piú profonda e
    istintiva. Il dramma si rivela atroce e scheletrico nel terzo atto:
    sono di fronte due donne, che si contendono una bambina, l'una per
    difendere la sua maternità, non per conservare un amante:
    l'altra per avere in casa una figlia di suo marito, apparire a suo
    marito come madre, e con questa illusione di maternità
    ricostruire o costruire la famiglia, dare all'amore una
    moralità. Lotta atroce, crudele, perché la madre
    dovrà rinunziare alla sua bambina per assicurarle un
    avvenire, il nome del padre, una ricchezza, una casa; dramma
    rappresentato senza lenocini oratori, senza sdilinquimenti, senza
    scene grandiloquenti, e perciò direttamente rivolto a colpire
    tutte le abitudini sentimentali del pubblico, che reagisce con irti
    tutti i pregiudizi piccolo-borghesi. Ma il Pirandello è poi
    riuscito a esprimere il dramma in tutta la sua pienezza? Si ha
    l'impressione penosa, nei primi due atti, dello stento, del tormento
    senza uscita, che si adagia nella direzione, nella prolissa
    insistenza su particolari inutili: il motivo fondamentale è
    accennato vagamente, non conduce e non indica lo sviluppo
    dell'azione: il terzo atto appare come una rivelazione troppo cruda,
    troppo offensiva del... buon gusto e delle buone maniere.
    
    Il dramma non si replica.
    
    (13 gennaio 1920).
    
     
    
     
    
    «Io prima di te» di Veneziani al Carignano. Si
    contempla, in questi tre atti, lo svolgersi di un intrigo molto
    drammatico e pieno di risposte e profondissime significazioni: nel
    terzo atto compare perfino un personaggio simbolico, l'ignoto che fa
    da reagente sulle coscienze e determina precipitazioni ricche di
    sapori nuovi e mai gustati.
    
    L'intrigo è questo: il cav. Giovanni Ranzi vuole sempre
    essere un personaggio di dramma e giammai di commedia, vuole sempre
    essere protagonista e giammai comparsa sul palcoscenico della vita,
    vuole sempre essere «prima di te», di lui, di voi, di
    loro, di tutti. La moglie del cavaliere è amata da un
    tanghero imbecille, che finanzia le imprese del cavaliere, ed
    è amata da un tal altro, che è stato un anno in Cina.
    Una notte (ahi, notte di misteri e di orrori!) il tanghero imbecille
    ottiene un convegno (o quasi); mentre attende viene ucciso da uno
    dei «soliti ignoti» che voleva semplicemente derubarlo.
    Nel frattempo il tal altro si introduce furtivamente nel salotto
    della dama (scena rivelatrice di riposti amorosi sensi), viene
    bloccato dalla polizia che cerca l'assassino e dal marito tornato
    d'improvviso da una partita di caccia. Il marito fa il protagonista
    con la polizia, facendo arrestare il tal altro come assassino, e fa
    il protagonista con la moglie, dicendosi l'assassino del povero
    giovane vittima di ignoti. La moglie è presa nella morsa; la
    morsa viene allentata dal «solito ignoto» che si
    presenta, scopre il trucco alla moglie e sta per costituirsi come
    assassino legittimo. Allora il cavaliere si decide ad essere ancora
    una volta protagonista, e irrompe furiosamente per... chissà
    mai cosa dire dinanzi al giudice istruttore.
    
    Si contempla, nei tre atti, lo spettacolo penoso di un mediocre
    freddurista che si sforza di sembrare intelligente e originale.
    
    (20 gennaio 1920).
    
     
    
     
    
    «Chimere» di Chiarelli al Carignano. L'ingegner Claudio
    Rialto è un uomo d'affari; si crede un forte ed è un
    debole; crede di riuscire a dominare il mondo, ed è una
    marionetta in pugno al banchiere Rogai. Marina Rialto, sua moglie,
    è una donna come ce ne sono poche: ha una coscienza questa
    donna, ha degli ideali e un piano generale della sua vita di sposa
    amata e amante.
    
    Alla fine del terzo atto Marina dorme su un sofà, stanca per
    le soverchie emozioni, suo marito rimpannucciatosi dopo una minaccia
    clamorosa di fallimento e di gattabuia, dorme tranquillo al
    capezzale della sposa addormentata: il banchiere Rogai dorme
    anch'egli sicuro che all'indomani Marina diventerà la sua
    amante.
    
    L'originalità della commedia consiste in questo: l'ideale,
    che di solito si infrange e quindi si chiama ideale infranto, nel
    secondo atto si tira un colpo di rivoltella, non muore, e quindi non
    può chiamarsi ideale rivoltellato: vive al lumicino,
    l'infelice ideale, per essersi procurata la tubercolosi galoppante e
    al terzo atto muore per un colpo d'aria. È la sua morte
    appunto che provoca la scena finale dei tre assopiti. Il Chiarelli
    insomma esteriorizza in due fantasmi il Bene e il Male che si
    combattono ferocemente nell'intimo di ogni ben nata e mal nata
    coscienza: un poeta è il bene, l'ideale, è la purezza
    ecc., ecc., che vorrebbe tutta per sé la donna; un fallito
    vizioso ubriacone cinico chiacchierone è il sogghigno della
    realtà che, come Satana, tira per le gambe la gente e la
    spedisce al calderone di pece e zolfo. L'ingegnere Claudio Rialto,
    un debole che si crede un forte, un uomo che si crede un lottatore
    ed è puramente un energumeno senza numero per l'eroismo, si
    rivela nella sua piccolezza alla moglie: fallito, si dispera
    vanamente, si contorce come un vermiciattolo assalito da uno
    scorpione: il banchiere Rogai, che lo ha rovinato per ricattare
    Marina, offre a Marina di salvarlo dietro ricompensa: Marina esita,
    e l'ideale-poeta si tira un colpo, mortale, ma non immediatamente.
    
    L'ideale, divenuto tisico, si decompone ed è naturale muoia
    di un colpo d'aria, mentre Rogai bacia Marina: il Cinismo ubriaco e
    sconcio trionfa e ride silenziosamente.
    
    La commedia ha avuto successo contrastato: una parte del pubblico
    temeva di essere preso in burletta, un'altra parte trovava nei
    personaggi simbolici significati profondi, degni di pensiero e di
    matura riflessione. Ha divertito molto lo spettacolo dell'ubriaco in
    iscena, che parla chiaro dicendo pane al pane vino al vino: un
    ubriaco sulla scena fa infatti sempre divertire.
    
    (7 febbraio 1920).
    
     
    
     
    
    «Pane altrui» di Turghenieff al Balbo. Turghenieff ha
    rivelato all'occidente la vita della nobiltà provinciale
    russa, ignorante e presuntuosa, credente in Dio, fedele allo zar,
    crudele col servo che chiama fratello. Tutta l'opera letteraria di
    Ivan Turghenieff è animata dalla ripugnanza per questa vita,
    da lui conosciuta in ogni particolare, da lui vissuta dolorosamente.
    Pane altrui non è che un bozzetto, una scena. Ma è
    tutta la tragedia del popolo russo che rivela. È la
    meschinità ripugnante dell'ambiente posta in rilievo con
    richiami sentimentali, è la reazione della nobiltà
    dell'anima al costume volgare della nobiltà russa qual era
    ancora pochi anni fa, in regime di servitú della gleba e di
    incontrastato feudalismo.
    
    L'interpretazione di Ermete Zacconi è appassionata, ottima,
    efficace.
    
    (14 marzo 1920).
    
     
    
     
    
    «Sorelle d'amore» di Bataille all'Alfieri. Amore,
    dolcezza, virtú, generosità, tenerezza, candore: sono
    queste le doti che campeggiano nei quattro atti di Sorelle d'amore
    di Henri Bataille. Ma quale passione vivifica queste qualità,
    quale vita interiore attiva e operante? Nessuna. Esse rimangono
    inerti, non hanno una giustificazione, sono nient'altro che la
    monotona descrizione letteraria dei rapporti esterni, di avvenimenti
    che si succedono, perché le parole li riferiscono nella loro
    banalità vuota, d'una vuotaggine iridescente come nelle bolle
    di sapone. Vediamo muoversi e parlare fisicamente una donna:
    Federica; un essere tenue ed evanescente che ha marito e una
    figliuola e ama Giuliano. Per sei mesi, per un anno, per due anni,
    Giuliano attende che l'amore diventi realtà, si conceda alla
    passione; Federica ama Giuliano seriamente (l'autore lo afferma in
    modo perentorio), ma non vuole materializzare l'amore. E per quattro
    atti è un rincorrersi della materia e dello spirito, della
    carne e dell'anima, nel quarto atto si intravede anche un letto, un
    materialissimo e volgarissimo letto, ma Federica se ne va e sul
    letto lascia una rosa, e lascia un bel discorso che dovrà
    consolare Giuliano, che dovrà indirizzarlo a pensieri e
    azioni alte e nobili. Tutto ciò è brutto e anche
    antispirituale, è falso artisticamente ed è falso
    moralmente, perché non è vivo, perché una tale
    virtú esangue e snervata rasenta la turpitudine. La commedia
    di Bataille è una mera esercitazione letteraria, che
    può essere assunta come documento storico di grande
    corruzione e di irrimediabile scadimento dei costumi. L'esaltazione
    fredda di un atteggiamento sentimentale come quello di Federica
    può nascere solo dopo una stanchezza fisica prodotta dalla
    voluttà professionale. La madre di Amore è piú
    bella e piú morale delle sorelle di Amore.
    
    (20 marzo 1920).
    
     
    
     
    
    «La bilancia» di Martoglio e Pirandello allo Scribe.
    Nino Martoglio e Luigi Pirandello hanno sceneggiato nei tre atti di
    una nuova loro commedia dialettale, La bilancia, questo spunto
    folcloristico: un marito scopre di essere tradito: non si vendica
    immediatamente, ma pensa di vendicarsi ristabilendo l'equilibrio nei
    conti coniugali. Il rivale credendolo lontano tranquillamente si
    è installato nel suo talamo, egli va in casa del rivale e col
    terrore di un massacro, ne costringe la moglie a prestarsi alla sua
    vendetta. I tre atti sono freddi e scarni; non si esce dalla
    esteriore narrazione di un avvenimento di cronaca: l'azione si
    svolge secondo il piano irrigidito dell'assioma «dente per
    dente» con un parallelismo crudo senza che entrino in giuoco
    motivi sentimentali e passionali che diano particolare vita e
    carattere individuale ai personaggi.
    
    Teatro semivuoto, sebbene la compagnia del Grasso sia composta di
    buoni attori, che meriterebbero migliore fortuna. La commedia si
    replica, sebbene non ne valga la pena e il teatro siciliano sia
    ricco di ben altri lavori.
    
    (24 marzo 1920).
    
     
    
     
    
    «Il beffardo» di Berrini al Regio. Nino Berrini ha
    voluto ricostruire, dai documenti letterari, la figura e il dramma
    interiore di Cecco Angiolieri, poeta senese del secolo XIII. Sarebbe
    vano porsi il problema se il Berrini sia stato fedele ai
    «testi»: il lavoro deve essere giudicato nel suo pregio
    intrinseco. Anche se l'Angiolieri del Berrini non avesse nessun
    rapporto con l'Angiolieri del XIII secolo, ciò importerebbe
    poco, è il Berrini riuscito a creare una figura umana,
    vivente nelle sue azioni e per le sue azioni, il dramma del quale
    egli è protagonista è un dramma reale, giustificato
    psicologicamente ed espresso artisticamente? Il Berrini si è
    lasciato trascinare dalla ricerca letteraria e ha sacrificato
    l'interiorità all'esteriorità; per contrapposto ha
    collocato l'Angiolieri in un cupo abisso di orrore, ha cercato di
    far convergere sulla sua figura dei fasci di luce infernale.
    L'Angiolieri diventa un Ezzelino da Romano, il frutto di un
    accoppiamento mostruoso, determinato da questa sua origine a
    compiere orrende gesta e ad assistere a orrende gesta: il suo
    ghigno, illeggiadrito da parolette che suonano leziose, diventa
    superficiale, è staccato dalla sua vita, e la sua vita stessa
    non esiste piú. Il Berrini è un lavoratore
    coscienzioso: la sua preoccupazione soverchia del particolare
    provoca rotture, fragilità, franamenti del mondo interiore
    che egli si propone di esprimere; provoca disuguaglianze e contrasti
    che poi il Berrini non riesce a superare artisticamente. Nel
    Beffardo il Berrini ha sentito ancora piú energicamente il
    freno di queste preoccupazioni e ha esitato tra il documento storico
    cui avrebbe voluto rimanere fedele e la concezione sua del dramma di
    Cecco Angiolieri: non ha osato sacrificare il documento.
    
    I quattro atti del Berrini hanno avuto buon successo: una ventina di
    chiamate.
    
    (4 aprile 1920).
    
     
    
     
    
    «Come prima, meglio di prima» di Pirandello al
    Carignano. Tredici anni prima: la signora Fulvia Gelli abbandona il
    tetto coniugale, il marito e una figliolina. Tredici anni dopo: la
    signora Fulvia Gelli rientra sotto il tetto coniugale, col marito ma
    senza essere riconosciuta (e dovendo non essere riconosciuta) dalla
    figlia. Nei tredici anni è successo questo: la signora Fulvia
    è diventata una Flora qualunque; la sua ultima avventura
    è un disgraziato pretore che abbandona per lei moglie, figli
    e pretura; la sua ultimissima avventura è un tentativo di
    suicidio; il marito chirurgo che la salva, è nuovamente preso
    d'amore per lei e la riporta a casa. Ma nei tredici anni è
    successo anche questo: il professore Gelli ha educato la figliuola
    Lina nel culto della madre morta; per Lina la signora Fulvia Gelli
    è morta, la signora Fulvia ritorna come un'intrusa, come
    un'estranea, che sarà odiata e disprezzata dalla figliuola.
    
    La commedia consiste in questo contrasto, ma il contrasto è
    accennato, non è approfondito; gli episodi nei quali si
    rivela sono di carattere secondario. L'autore non ha curato il
    lavoro nel dialogo, come è nel suo carattere di scrittore di
    teatro: il dramma è solamente impostato e non è svolto
    in nessun modo, né con un'azione serrata, né con una
    «trattazione» dialogata.
    
    (8 aprile 1920).
    
     
    
     
    
    «L'amico di famiglia» di Caillavet e De Flers al
    Carignano. L'amico di famiglia, di Caillavet e De Flers, è il
    lavoro teatrale da cui è stato estratto il libretto
    dell'operetta: La regina del fonografo. Nessun elemento teatrale di
    notevole importanza esiste nella commedia che non sia passato
    nell'operetta: la figura di «amico di famiglia»,
    quantunque dia il titolo, non è effettivamente che la
    «macchina» che serve esteriormente a saldare i vari
    episodi dell'azione. La commedia si svolge in questi due motivi: una
    donna «onesta» dà buoni consigli a una cocotte, e
    una cocotte dà buoni consigli a una donna onesta. Una cocotte
    è rammaricata perché come donna ella è sempre
    scelta e non ha la libertà di scegliere: una moglie le
    insegna come si possa scegliere l'uomo che piace. La cocotte
    è stata educata a vedere nell'amore «una
    carriera», è stata educata a non vedere negli uomini
    altro che dei clienti, di cui non bisogna mai innamorarsi, per non
    compromettere la carriera; la moglie invece è stata educata a
    far innamorare e quindi a mostrarsi innamorata: può insegnare
    qualcosa. Ma anche la cocotte può insegnare qualcosa alla
    moglie: può insegnare come si faccia a conservare un uomo,
    arte che non conosce la fanciulla «onesta» che deve
    trovar marito e non pensare al domani, non pensare a conservarlo: la
    cocotte deve sapersi conservare le buone «pratiche».
    Sono questi due motivi che dànno un qualche sapore ai tre
    atti, nonostante la farraggine degli episodi e delle situazioni,
    costruite secondo uno schema, per far ridere a tutti i costi il
    pubblico.
    
    (27 giugno 1920).
    
     
    
     
    
    «Tutto per bene» di Pirandello al Chiarella. Nei tre
    atti di Tutto per bene, Luigi Pirandello dipana questa matassa: un
    tale Martino Lori ha sposato la figlia di un illustre scienziato che
    lascia, morendo, un pacco di appunti sulle sue ricerche rimaste
    incompiute. Salvo Manfroni, discepolo dello scienziato, manomette e
    gli appunti e la figlia del suo maestro, moglie del Lori. Manfroni
    diventa una illustrazione della scienza, è deputato, diventa
    ministro, diventa senatore; il Lori è da lui trascinato nella
    carriera politica e giunge fino al posto di consigliere di Stato.
    Questo tale Martino Lori non sospetta di nulla; non sospetta che sua
    moglie l'abbia tradito, non sospetta che sua figlia Palma sia invece
    figlia del Manfroni, non sospetta di nulla, sebbene il Manfroni si
    sostituisca a lui nel curare la fanciulla, divenuta orfana della
    madre, e la tiri su per conto suo e le costituisca una dote e le
    trovi un marito aristocratico; non sospetta di nulla, sebbene tutti
    gli intimi di casa sappiano, e Palma sappia, e il fidanzato di Palma
    sappia. Non sospetta di nulla e per sedici anni si costruisce una
    vita sua particolare, che a tutti pare la commedia di un miserabile,
    contento dei benefizi ricavati dal consenso dato alla moglie per la
    tresca col grande uomo politico. Non sospetta nulla e un bel giorno,
    dopo tanto tempo, dopo tanta illusione sull'onestà e sulla
    bontà degli uomini, la verità gli è rivelata.
    La commedia si impernia su questa rivelazione: dovrebbe essere la
    rappresentazione di questo dramma fulmineo: il dramma di un uomo che
    si è costruita tutta la sua vita interiore ed esteriore
    sull'ignoranza di un fatto essenziale della sua vita stessa, e d'un
    tratto si trova sperduto, perché il suo «io»
    intimo è svanito e il panorama circostante, veduto sempre in
    un modo per tanti e tanti anni, è mutato radicalmente,
    è un panorama di rovine e di macerie. Bisogna subito dire che
    il Pirandello si limita a dipanare la matassa, a condurre l'intrigo;
    il lavoro è affrettato, e la figura di Martino Lori non
    riesce a dominare lo svolgimento e a organizzarlo per giustificarlo;
    è smorto, non reagisce altro che a sospiri e gemiti; non
    diventa un carattere, rimane una vittima senza energia né
    sentimentale, né dialettica (come avviene nelle creazioni del
    Pirandello), che si affloscia e scompare, rientrando nel buio della
    nullaggine drammatica.
    
    (7 luglio 1920).
    
     
    
     
    
    «Gli interessi creati» di Benavente al Balbo. Gli uomini
    sono dei fantocci che si muovono per il mondo e operano guidati dai
    fili degli interessi. Su questo comune spunto della filosofia
    popolare il Benavente ha intrecciato la sua commedia; le ha dato un
    colore di novità introducendo nella scena le maschere del
    teatro italiano, Pulcinella, Arlecchino, Balanzone, Colombina; gli
    uomini fantocci appaiono rappresentati da tipi di fantocci uomini
    creati dal teatro dell'arte. L'intrigo è anch'esso comune:
    come un furbo avventuriero riesca a combinare un matrimonio,
    determinando una serie di interessi costituiti intorno alla fortuna
    del suo amico-padrone. Ma il matrimonio è d'amore: esistono
    dunque altri fili, oltre agli interessi, che fanno muovere gli
    uomini e dànno loro una dignità. Tre atti lievi,
    graziosi, senza pretese, che furono accolti con favore dal non
    troppo numeroso pubblico.
    
    (27 luglio 1920).
    
     
    
     
    
    «Il fantoccio» di Cantoni-Gibertini al Balbo.
    Nell'ascoltare la commedia Il fantoccio di Osvaldo
    Cantoni-Gibertini, si pone irresistibilmente questo problema, che
    nasce dall'intimità piú preziosa della commedia
    stessa. Poiché il protagonista, signor Mario Stella, è
    un superuomo, che soffre della malattia propria dei superuomini, il
    discentramento scheletrico tra l'io-superuomo e l'io-fantoccio di
    legno, e poiché Osvaldo Cantoni-Gibertini, se può
    rappresentare nella pienezza della sua superumanità un
    superuomo, è da supporsi partecipi della sublimazione geniale
    e soffra quindi anch'egli di discentramento tra i due
    «io» – quale dei due «io» di Osvaldo
    Cantoni-Gibertini ha trovato la sua espressione in questa commedia?
    L'«io» di legno non stagionato, che a primavera urge
    l'involucro umano, o l'«io» superuomo? Il problema, che
    irresistibilmente si è imposto, si è, per questa sua
    irresistibilità, risolto automaticamente; la commedia
    è espressione di legnosità non maturata piú di
    quanto sia espressione di genialità superumana; Osvaldo
    Cantoni-Gibertini è un genio foderato di una pesantissima
    cappa da filisteo. Egli ha ridotto in cifra matematica il giudizio
    del buon senso comune che in ogni uomo c'è un fantoccio; ha
    materializzato la metafora, ha costituito intorno a essa un intrigo
    qualsiasi e ha affogato in una nube di trivialità bambagiosa
    il qualche tratto originale che era risultato casualmente dal giuoco
    della macchina inventata. Manca al Cantoni-Gibertini proprio quel
    gusto letterario che è indispensabile per nascondere
    l'automatismo legnoso sotto l'apparenza umana; il gusto della
    semplicità e della misura; gli manca specialmente
    l'equilibrio dell'inventore che non balla la danza indiana intorno
    al suo ordigno, gridando: come è bello! come è bello!
    quale grande inventore di ordigni io sono! Il Cantoni-Gibertini
    insomma ha messo troppo del suo io-fantoccio nella commedia e
    pochina pochina della sua umanità; ha elaborato un
    «penso», non ha scritto un'opera letteraria.
    
    (4 agosto 1920).
    
     
    
     
    
    «Colline, filosofo» di Veneziani al Carignano. Carlo
    Veneziani ha rimesso in iscena i personaggi della Bohême. La
    gaiezza del Mürger si è invenezianizzata in
    farsaioleria, la vena di malinconia e di sentimento è
    divenuta fiume lutulento di mutria e di sentimentalismo. Colline, il
    filosofo, è divenuto un predicatore di energia, un
    propagandista delle immortali parole d'ordine: «progresso nel
    lavoro e nell'ordine», «volere è potere»,
    «le bugie hanno le gambe corte», «le donne sono la
    causa di tutti i mali», «l'ozio è il padre dei
    vizi». È questa, in fondo, l'originalità della
    commedia, la quale può essere assunta a simbolo del periodo
    che attraversa il nostro paese. Nella rovina di tutte le forze
    morali che sostengono ogni società bene organizzata, nel
    venir meno di ogni norma di condotta, che serva all'individuo e alla
    collettività, in Italia, che ha dato i natali a Stenterello,
    sono i farsaioli che parlano delle cose serie e fanno la predica
    della saggezza: cosí avviene che le cose serie e la saggezza
    predicate da tali bocche non siano piú distinguibili dalle
    farsaiolerie e la vita italiana diventi sempre piú gioconda.
    
    Per la cronaca: nella commedia del Veneziani, Colline, deluso in
    amore, sposa l'affittasoffitte, risolve radicalmente il problema
    dell'alloggio, diventa genitore di tre pargoletti, ma non perde
    l'abitudine di dormire sulle pubbliche panche. Sono stati applauditi
    i primi due atti, il terzo è stato accolto da applausi
    commisti con abbondanti zittii e qualche fischio. Luigi Carini
    (Colline) recitò con molto buon gusto e collaborò
    parecchio alla buona riuscita del lavoro.
    
    (13 ottobre 1920).
    
     
    
     
    
    «Il bell'Apollo» di Praga al Carignano. Piero Badia,
    signore milanese dell'anno di grazia 1893, è il
    «bell'Apollo». Ciò significa che Piero Badia
    è un conquistatore di signore, è uno specialista nella
    professione di sedurre e di abbandonare; ma la parola
    «Apollo» non deve trarre in errore: non c'è
    alcuna traccia di lirismo nella figura di Piero Badia, egli non
    esplica la sua attività come creazione artistica, come
    espressione di una personalità che non può ritrovarsi
    altro che nel sedurre belle signore. Piero Badia è un
    omaccione molto volgare e molto banale, che si preoccupa solo di
    godere senza far nascere scandali e senza determinare drammi
    incresciosi.
    
    In che consistano questi quattro atti di Marco Praga, non si riesce
    a stabilire con esattezza: probabilmente Marco Praga ha
    semplicemente voluto scrivere quattro atti, ben congegnati
    tecnicamente, che avessero un buon successo di platea. Pare la
    commedia sia stata, tempo fa, una battaglia contro lo spirito dei
    tempi e sia stata una battaglia perduta. La fortuna odierna
    proverebbe in questo caso che si è fatto un passo indietro
    nell'educazione del buon gusto popolare. Poiché nella
    commedia si vede un uomo, e precisamente l'eroe, il bell'Apollo,
    infilarsi le scarpe dinanzi al pubblico; poiché il
    bell'Apollo è un uomo senza cuore, che fa all'amore col solo
    cervello; poiché si assiste a scene veramente
    «ardite» e si odono proposizioni molto ciniche, è
    da supporre che la battaglia, che la commedia ha rappresentato tempo
    fa, sia stata combattuta per il «realismo».
    
    La battaglia meritava di essere perduta: la commedia non ha alcuna
    consistenza drammatica, essa è una pura esteriorità di
    parole e di scene ben congegnate. Manca in questa commedia ogni
    rappresentazione di caratteri; sarebbe stato meglio trarre
    dall'argomento un romanzo d'appendice con un urlo popolaresco contro
    il cinico signore che non si preoccupa se i suoi sollazzi lascino
    uno strascico di cuori insanguinati. In un tale romanzo d'appendice
    ci sarebbe stata piú umanità e quindi piú arte
    che in questo quadro sbiadito di un cinismo di maniera che ragiona
    su se stesso e si giustifica con ragionamenti da lenone che non vuol
    abbandonare la professione lucrativa.
    
    La commedia ha avuto successo: c'è però da domandarsi
    quanto abbia contribuito al successo l'interpretazione degli attori.
    È un successo da teatro moderno o da teatro dell'arte? Pare
    veramente che si ritorni indietro di duecento anni; il pubblico non
    si preoccupa del lavoro artistico, ma dell'interpretazione
    artistica.
    
    Non ci sarebbe niente di male, se dal teatro non ricavassero fama e
    quattrini scrittori che non meritano né l'una, né gli
    altri a cosí buon mercato.
    
    (20 ottobre 1920).
    
     
    
     
    
    «Anfissa» di Andreieff al Carignano. Per il borghese che
    ha cenato bene e ha tre ore da perdere tra la cena e il letto, un
    dramma è qualcosa di mezzo tra il digestivo e l'afrodisiaco.
    Per il critico, dramma è una contrapposizione di
    «caratteri», cioè di marionette che giocano alla
    vita. Anfissa di Andreieff non è né l'una cosa
    né l'altra. Il borghese che vuol digerire ne riceve come un
    pugno sullo stomaco, il critico vi cerca invano le marionette. La
    drammaticità di Anfissa è nell'inasprimento, portato
    fino all'assurdo, fino alla lacerazione, fino al delitto, di un
    contrasto originariamente semplice di passioni.
    
    Nel centro è un uomo, Teodoro Kostamarov, un avvocato,
    orgoglioso, vano, sensuale, grande ingegno per la città di
    provincia. Ha pose da superuomo, ma da superuomo provinciale:
    insulta gli avversari in un'arringa, prende a schiaffi per via chi
    non lo saluta, è un conquistatore di donne, uno sprezzatore
    della moralità comune, ma non ha maggiore originalità
    di un libertino. In complesso una figura che vuol dominare restando
    legata a terra. Una crisi, che sorge piú da contrasti
    esteriori che da un intimo dissenso, lo sconvolge, gli fa perdere il
    dominio di sé, lo fa insieme incerto e brutale, violento e
    pauroso.
    
    Intorno, tre figure di donne, o meglio in tutte una figura sola:
    l'essere che vive dell'amore e del dominio dell'uomo, ne vive fino
    al sacrifizio, alla perdita di sé, all'odio, al delitto.
    
    La moglie di Kostamarov, tradita, trascurata, chiama presso di
    sé la sorella, Anfissa, vedova che giunge con non si sa qual
    fama di autorità, e spera che la sorella, ammonendo,
    esortando, inspirando magari un nuovo sentimento, le riporti
    l'affetto e la fedeltà del marito. Ma questi ama Anfissa, fin
    dal giorno che ne ha sposato la sorella e Anfissa ama essa pure il
    cognato. Il sentimento, doppiamente colpevole, dei cognati si
    esaspera nella strana situazione in cui essi vengono a trovarsi.
    Giungerà esso a purificarsi, a trionfare come un sentimento
    primordiale, che non ha bisogno di giustificazioni, che non soffre
    attenuazioni, che di per sé vale ed è tutto? Il dramma
    si dibatte per quattro atti, per alcuni mesi di vita, e si chiude
    con un delitto. Dico che si dibatte e non lo dico per esprimere un
    giudizio di condanna. La scena è anzi perfetta. Se qualcosa
    vi è da rimproverare, è piuttosto la tensione che non
    si allenta per un attimo, dalla prima all'ultima battuta, dando
    l'impressione di una logicità perfetta e di uno sviluppo
    pienamente conforme alle leggi della vita. Ma il dibattersi
    angoscioso, in cui la drammaticità, in cui i limiti della
    comune esistenza sono superati, in cui si giunge alla tragedia e
    alla poesia, è quello di alcune coscienze prese nelle spire
    di una sorte che per essere fatta della loro stessa passione non
    appare meno come qualcosa di tragicamente imponente. È tutto
    spiegabile, a cominciare dalla prima ripulsa di Anfissa fino alla
    sua caduta, e alle promesse dell'amante, e al suo desiderio piccino
    di vendetta e all'esasperarsi nella donna del sentimento e della
    gelosia. È un processo tutto umano di sviluppo quello che
    porta alla stanchezza dell'uno e all'odio dell'altra, alle offese
    che l'uomo fa all'amore e la donna all'orgoglio, alla violenta
    scena, in cui Anfissa di fronte alla famiglia riunita rinfaccia a
    Teodoro di aver tradito la moglie, di essersi fatto della cognata
    un'amante e di cercare ora un'amante nuova nella terza sorella,
    giovane, ingenua, ignara. È tutto umano e tutto si snoda con
    agilità e rapidità, ma tu senti che un gorgo di
    passione si è aperto nel quale questi uomini sono trascinati
    come festuche, che si è prodotta una lacerazione che non
    può essere chiusa perché forze e sentimenti umani si
    adoprano a renderla sempre piú grande e profonda.
    
    Il delitto, col quale si chiude il dramma, quando Anfissa uccide col
    veleno l'uomo che odia e ama, grava in realtà sull'azione fin
    dalle prime scene. Si direbbe un destino se non fosse una cosa che
    vien fuori in modo cosí chiaro dal cuore di questi uomini.
    
    In questo senso Andreieff ha scritto un dramma borghese, non solo
    introducendo in un ambiente comune un fatto tragico o qualche
    elemento di tragicità, ma cercando di ottenere da un
    esacerbato contrasto di passioni una trasfigurazione dell'ambiente,
    e se un appunto è da fargli, è quello di avere in
    questo senso troppo insistito, introducendo a esempio elementi
    secondari che servono a creare e mantenere un senso di diffusa
    drammaticità e di incertezza, ma sono poco strettamente
    collegati con l'azione scenica principale, restano impliciti e non
    si spiegano con essa. Tale la figura della nonna che ha avvelenato
    il primo marito, che fa la sorda ed è l'incubo del
    protagonista.
    
    Anche su di ciò però l'appunto sarebbe valido se
    l'opera drammatica non fosse opera d'arte, cioè di poesia,
    soggetta a nessuna logicità che non sia quella della fantasia
    del poeta, che ha in sé la sua legge e soltanto a essa deve
    obbedire. Riconosciamo che la vita stessa non è logica, ma
    è piena di elementi che non si pesano con la bilancia del
    ragionatore; e riconosciamo soprattutto che Andreieff ha dato vita a
    un quadro tragico di cui la figura della nonna, nella stessa sua
    incerta posizione, è un elemento essenziale. Se quell'essere
    parlasse e si sapesse chiaramente chi è, verrebbe meno non
    solo un elemento scenico di incomparabile suggestione, ma sarebbe
    distrutto un elemento intuitivo che è inseparabile dal resto
    dell'opera d'arte. Lo stesso si dica di molti altri particolari e
    del rilievo e della finitezza loro.
    
    Tutto ciò fu reso dalla compagnia in modo scenicamente
    perfetto. Se però vi è nel dramma un'ombra di
    pesantezza, questo difetto fu accentuato dal tipo di recitazione,
    specialmente della signora Melato, tipo di recitazione che risente
    troppo della scena cinematografica e tenne sí avvinto il
    pubblico, ma finí per stancarlo. Cosí avvenne che
    alcuni passaggi parvero pesanti per soverchia tensione, e avvenne
    che dopo tre atti, condotti a termine con successo e con un buon
    numero di chiamate, alla fine si sentí qualche zittio.
    
    Confessiamo però che il pubblico borghese del teatro non era
    dei meglio adatti a seguire e sentire l'opera d'arte. L'intiera
    verità di essa doveva purtroppo fargli l'impressione di un
    pugno sullo stomaco.
    
    Auguriamo dunque a questo dramma un pubblico migliore, piú
    rozzo, piú immediatamente sincero, piú vicino a godere
    e soffrire l'impetuosa angoscia della tragedia. Gli auguriamo un
    pubblico di proletari.
    
    (14 novembre 1920).
    
     
    
     
    
    «Glauco» di Morselli al Carignano. Glauco, l'eroe della
    mitologia greca, è presentato, al principio del primo atto,
    come un pescatore, il pescatore piú povero della Sicilia,
    privo di ogni ricchezza, ma pieno il cuore delle piú grandi
    cose. Tende l'orecchio al canto delle sirene e agli allettamenti dei
    tritoni e sogna terre lontane. Sogna l'Africa piena di mostri da
    uccidere, di oro e di regni da conquistare, sogna la Colchide verso
    la quale l'eroe Giasone sta guidando gli Argonauti. Sogna
    soprattutto la gloria che uguaglia gli uomini agli dei. Ma insieme a
    queste alte voci di gloria anche una modesta voce di amore parla al
    cuore del giovane. È l'amore di Scilla, una fresca e
    tranquilla vena di acqua chiara, in mezzo a un tumulto di
    insoddisfatte brame.
    
    Glauco convince i pescatori a partire con lui per l'Africa, con un
    carico di lana tessuta.
    
    Lasciata l'isola, egli li trascinerà poi con sé alle
    imprese che sogna. Ma la lana è di Forchis, il pastore padre
    di Scilla, ricchezza e grettezza riunite, e Forchis come la figlia
    cosí nega al pescatore la stoffa. I sogni debbono
    precipitare. E Scilla, la fanciulla che poco prima si è
    disperata nel vedere Glauco, entusiasta dei suoi progetti,
    dimenticare la voce tenera e sicura dell'amore, ora dà essa
    l'aiuto suo perché i progetti possano diventare
    realtà. Consegna ai pescatori la chiave della capanna dove si
    trova la stoffa: i pescatori la rubano e fanno vela per l'Africa.
    Glauco è sulla poppa della nave e tende le braccia alla
    fanciulla che si abbatte su una pietra della riva, come schiacciata
    da un'altra pietra invisibile.
    
    Cosí all'inizio si prospetta un fondamentale contrasto, sul
    quale dovrebbe correre tutta la tessitura della tragedia.
    
    Piú che di sentimenti, vuol essere contrasto di aspirazioni e
    di concezioni. Forse, e bisogna pur dire subito queste parole, anche
    se in esse e già implicito un giudizio, è piú
    che altro un contrasto di tesi e di simboli. Il quadro vuol quindi
    avere una cornice piú ampia di quella di ogni comune azione
    scenica nella quale uomini parlano e vogliono e agiscono e il
    ricorso a personaggi, scene e decorazioni mitologiche è
    fondamentalmente giustificato da questa aspirazione. Ma fin dal
    primo atto appaiono gli strappi e attraverso di essi l'arida, ossuta
    schematicità dei simboli: la fanciulla che invoca la
    virtú come la sola cosa che può fare di una capanna
    una reggia, le soddisfazioni e le dolcezze umili, le grettezze, le
    bassezze anche della vita contrastanti con l'ardore di un sogno.
    
    Tutto ciò l'autore vuol rendere concreto e vivente in modo
    che sia drammatico e lirico insieme, ma la scena decorativa e
    simbolica rende stentato, difficile a esser còlto
    immediatamente il ritmo della vita, e la lirica non c'è
    ancora.
    
    Dopo il primo atto il difetto si accentua. Glauco è andato in
    Colchide, ha combattuto e vinto, ha liberato un popolo, è
    diventato re e giunge, nel viaggio di ritorno, all'isola di Circe.
    È un dominatore che arriva e la maga lo vuol conquistare con
    le sue arti, avvincerlo, tenerlo per sempre legato a sé col
    suo magico influsso, come tiene chiusi in stalla gli altri eroi che
    sono venuti per godere di lei, e ch'essa ha cambiato in porci.
    Glauco vince. Fingendosi ubriaco e dormente carpisce alla dea il
    bacio che lo rende immortale e poi respingendone l'amplesso fugge,
    richiamato dal ricordo di Scilla, dalla voce sempre viva dell'amore
    di lei. La sua nave si allontana veloce spinta dai tritoni, e la dea
    si vendica, recide il filo della vita di Scilla, strappandolo dalle
    mani delle Parche.
    
    Cosí quando l'eroe giunge alla Sicilia e scende alla riva i
    pastori stanno piangendo la morte della ragazza che si è
    gettata in mare. Il corpicino giace sulla sabbia e dopo essersi
    fatto legare a esso con la catena dell'ancora, Glauco si fa gettare
    in mare. Dalla profondità salgono ancora il suo lamento e il
    suo pianto.
    
    Questa, nella sua trama e nella sua conclusione, la favola. E di
    piú che la favola che vi è in questo dramma? L'autore,
    dicevamo, ha voluto metterci grandi cose. Per velare dietro di esso
    grandi cose ha scelto e sceneggiato un soggetto mitologico. Le cose
    grandi però, sono rimaste cosí, dietro un velo, una
    velleità senza espressione definita. Tale è pure la
    liricità di questa tragedia. È esatto dire che si
    tratta di un tentativo apertamente confessato di fare in teatro
    cosa, se non nuova, diversa almeno dal comune, di trasfigurare
    l'azione scenica con una intuizione di poesia. Ma è pure
    esatto dire che il tentativo è fallito. La mitologia ha
    inaridito la fonte della poesia, invece di alimentarla. Chi conosca
    la serena e grande poesia dei miti greci, non ravvisa in questa
    tragedia che un travestimento di problemi o di pseudoproblemi
    moderni.
    
    Forse chi è abituato al teatro attuale vi trova qualcosa di
    nuovo. Ma per il nuovo si perde il meglio, si perde quello che conta
    e che vale: si perde la spontaneità e la pienezza
    dell'azione, si oscilla tra una realtà e un sogno che non
    hanno entrambi consistenza che di parole.
    
    Non si afferra, di concreto, nulla che non potrebbe esser contenuto
    in una qualsiasi mediocre favola borghese.
    
    Il successo c'è stato, sebbene un po' tiepido.
    
    Tre chiamate a ogni atto. Nessun entusiasmo.
    
    (21 novembre 1920).
    
     
    
     
    
    Tre novità al Teatro Alfieri («Cecé» di
    Pirandello, «Ma non lo nominare» di Fraccaroli,
    «Schiccheri, tu sei grande!» di Lopez). Pirandello,
    Fraccaroli, Lopez. Tre atti unici, del genere, «per rivista
    mensile "Lettura", "Secolo XX"». Tre novelline dialogate: le
    prime due farsesche, la terza sentimentalmente rosea, per fanciulle
    di buona famiglia, che abitano nella mitica provincia gozzaniana. La
    prima, Cecé, di Luigi Pirandello, è una sciocchezza
    semplice senza capo né coda: si descrive, a puro titolo di
    fare il solletico sotto la pianta dei piedi, come avvenga che un
    viveur riesca a non pagare seimila lire a una prostituta. La seconda
    Ma non lo nominare, di Arnaldo Fraccaroli, è una sciocchezza
    con molte complicazioni. Arnaldo Fraccaroli ha scritto la
    sciocchezza pensando che il pubblico fosse la sublimazione sintetica
    di 10 abbonati da 20 anni al «Corriere della Sera» e
    alla «Domenica del Corriere», che poi hanno alquanto
    mutato la loro psicologia leggendo assiduamente anche il
    «Corriere dei Piccoli», moltiplicati per 10 scrittori di
    «cartoline del pubblico», divisi per 4 ammiratori di
    Luigi Barzini, ridotti ai minimi termini di intelligenza. Il
    Fraccaroli descrive come avvenga che, in un albergo con parco, un
    signore, travestendosi da iettatore, riesca a far scappare, da un
    angolo propizio ai convegni amorosi, una cocotte, la madre che la
    cocotte ha preso in affitto, un pescecane, un celebre scrittore
    genere «milanese», un ricco di prima della guerra e un
    polacco, e come poi, nell'angolo propizio, corrompa una dama
    morigerata.
    
    La commedia di Sabatino Lopez, Schiccheri, tu sei grande!
    rappresentata come conclusione, ha guadagnato enormemente per il
    confronto; la bonarietà casalinga del Lopez è
    diventata grandezza goldoniana. Dopo aver visto tutta la flora e la
    fauna che può sorgere dalla putrefazione dell'intelligenza,
    del senso comune e del buon gusto, vedere un buon diavolaccio di
    vecchio dottore che riesce felicemente a trovar marito per due
    nipoti! Sabatino Lopez è diventato grande, come sono grandi
    le Piramidi, quando la pianura del Nilo è una marcita
    popolata di ranocchi.
    
    (16 dicembre 1920).