Nesso di problemi. Polemiche sorte nel periodo di formazione della
    nazione italiana e della lotta per l'unità politica e
    territoriale e che hanno continuato e continuano ad ossessionare
    almeno una parte degli intellettuali italiani. Alcuni di tali
    problemi (come quello della lingua) molto antichi. Risalgono ai
    primi tempi della formazione di una unità culturale italiana.
    Nati per il confronto tra le condizioni generali dell'Italia e
    quelle di altri paesi, specialmente della Francia o per il riflesso
    di condizioni peculiari italiane come il fatto che la penisola fu la
    sede dell'Impero Romano e divenne la sede del maggiore centro della
    religione cristiana. L'insieme di questi problemi è il
    riflesso della faticosa elaborazione di una nazione italiana di tipo
    moderno, contrastata da condizioni di equilibrio di forze interne e
    internazionali.
    
    Non è mai esistita una coscienza, tra le classi intellettuali
    e dirigenti, che esista un nesso tra questi problemi, nesso di
    coordinazione e di subordinazione. Nessuno ha mai presentato questi
    problemi come un insieme collegato e coerente, ma ognuno di essi si
    è ripresentato periodicamente a seconda di interessi polemici
    immediati, non sempre chiaramente espressi, senza volontà di
    approfondimento; la trattazione ne è stata perciò
    fatta in forma astrattamente culturale, intellettualistica, senza
    prospettiva storica esatta e pertanto senza che se ne prospettasse
    una soluzione politico-sociale concreta e coerente. Quando si dice
    che non è mai esistita una coscienza dell'unità
    organica di tali problemi occorre intendersi: forse è vero
    che non si è avuto il coraggio di impostare esaurientemente
    la quistione, perché da una tale impostazione rigorosamente
    critica e consequenziaria si temeva derivassero immediatamente
    pericoli vitali per la vita nazionale unitaria; questa timidezza di
    molti intellettuali italiani deve essere a sua volta spiegata, ed
    è caratteristica della nostra vita nazionale. D'altronde pare
    inconfutabile che nessuno di tali problemi può essere risolto
    isolatamente (in quanto essi sono ancora attuali e vitali). Pertanto
    una trattazione critica e spassionata di tutte queste quistioni che
    ancora ossessionano gli intellettuali e anzi vengono oggi presentate
    come in via di organica soluzione (unità della lingua,
    rapporto tra arte e vita, quistione del romanzo e del romanzo
    popolare, quistione di una riforma intellettuale e morale
    cioè di una rivoluzione popolare che abbia la stessa funzione
    della Riforma protestante nei paesi germanici e della Rivoluzione
    francese, quistione della «popolarità» del
    Risorgimento che sarebbe stata raggiunta con la guerra del 1915-18 e
    coi rivolgimenti successivi, onde l'impiego inflazionistico dei
    termini di rivoluzione e rivoluzionario) può dare la traccia
    piú utile per ricostruire i caratteri fondamentali della vita
    culturale italiana, e delle esigenze che da essi sono indicate e
    proposte per la soluzione. Ecco il «catalogo» delle
    piú significative quistioni da esaminare ed analizzare: 1)
    «Perché la letteratura italiana non è popolare
    in Italia?» (per usare l'espressione di Ruggero Bonghi); 2)
    esiste un teatro italiano: polemica impostata da Ferdinando Martini
    e che va collegata con l'altra sulla maggiore o minore
    vitalità del teatro dialettale e di quello in lingua; 3)
    quistione della lingua nazionale, cosí come fu impostata da
    Alessandro Manzoni; 4) se sia esistito un romanticismo italiano; 5)
    è necessario provocare in Italia una riforma religiosa come
    quella protestante: cioè l'assenza di lotte religiose vaste e
    profonde determinata dall'essere stata in Italia la sede del papato
    quando fermentarono le innovazioni politiche che sono alla base
    degli Stati moderni fu origine di progresso o di regresso?; 6)
    l'Umanesimo e il Rinascimento sono stati progressivi o regressivi?;
    7) impopolarità del Risorgimento ossia indifferenza popolare
    nel periodo delle lotte per l'indipendenza e l'unità
    nazionale; 8) apoliticismo del popolo italiano che viene espresso
    con le frasi di «ribellismo», di
    «sovversivismo», di «antistatalismo»
    primitivo ed elementare; 9) non esistenza di una letteratura
    popolare in senso stretto (romanzi d'appendice, d'avventure,
    scientifici, polizieschi ecc.) e «popolarità»
    persistente di questo tipo di romanzo tradotto da lingue straniere,
    specialmente dal francese; non esistenza di una letteratura per
    l'infanzia. In Italia il romanzo popolare di produzione nazionale
    è quello anticlericale oppure le biografie di briganti. Si ha
    però un primato italiano nel melodramma, che in un certo
    senso è il romanzo popolare musicato.
    
    Una delle ragioni per cui tali problemi non sono stati trattati
    esplicitamente e criticamente è da trovarsi nel pregiudizio
    rettorico (d'origine letteraria) che la nazione italiana sia sempre
    esistita da Roma antica ad oggi e su alcuni altri idoli e borie
    intellettuali che se furono «utili» politicamente nel
    periodo della lotta nazionale, come motivo per entusiasmare e
    concentrare le forze, sono inette criticamente e, in ultima istanza,
    diventano un elemento di debolezza, perché non permettono di
    apprezzare giustamente lo sforzo compiuto dalle generazioni che
    realmente lottarono per costituire l'Italia moderna e perché
    inducono a una sorta di fatalismo e di aspettazione passiva di un
    avvenire che sarebbe predeterminato completamente dal passato. Altre
    volte questi problemi sono mal posti per l'influsso di concetti
    estetici di origine crociana, specialmente quelli concernenti il
    cosí detto «moralismo» nell'arte, il
    «contenuto» estrinseco all'arte, la storia della cultura
    da non confondersi con la storia dell'arte ecc. Non si riesce a
    intendere concretamente che l'arte è sempre legata a una
    determinata cultura o civiltà, e che lottando per riformare
    la cultura si giunge a modificare il «contenuto»
    dell'arte, si lavora a creare una nuova arte, non dall'esterno
    (pretendendo un'arte didascalica, a tesi, moralistica), ma
    dall'intimo, perché si modifica tutto l'uomo in quanto si
    modificano i suoi sentimenti, le sue concezioni e i rapporti di cui
    l'uomo è l'espressione necessaria.
    
    Connessione del «futurismo» col fatto che alcune di tali
    quistioni sono state mal poste e non risolute, specialmente il
    futurismo nella forma piú intelligente datagli dai gruppi
    fiorentini di «Lacerba» e della «Voce», col
    loro «romanticismo» o Sturm und Drang popolaresco.
    Ultima manifestazione «Strapaese». Ma sia il futurismo
    di Marinetti, sia quello di Papini, sia Strapaese hanno urtato,
    oltre il resto, in questo ostacolo: l'assenza di carattere e di
    fermezza dei loro inscenatori e la tendenza carnevalesca e
    pagliaccesca dei piccoli borghesi intellettuali, aridi e scettici.
    
    Anche la letteratura regionale è stata essenzialmente
    folcloristica e pittoresca: il popolo «regionale» era
    visto «paternalisticamente», dall'esterno, con spirito
    disincantato, cosmopolitico, da turisti in cerca di sensazioni forti
    e originali per la loro crudezza. Agli scrittori italiani ha proprio
    nuociuto l'«apoliticismo» intimo, verniciato di
    rettorica nazionale verbosa. Da questo punto di vista sono stati
    piú simpatici Enrico Corradini e il Pascoli, col loro
    nazionalismo confessato e militante, in quanto cercarono risolvere
    il dualismo letterario tradizionale tra popolo e nazione, sebbene
    siano caduti in altre forme di rettorica e di oratoria.
    
     
    
    Per questa rubrica è da studiare il volume di B. Croce,
    Poesia popolare e poesia d'arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre
    al Cinquecento, Laterza, Bari, 1933. Il concetto di popolare nel
    libro del Croce non è quello di queste note: per il Croce si
    tratta di un atteggiamento psicologico, per cui il rapporto tra
    poesia popolare e poesia d'arte è come quello tra il buon
    senso e il pensiero critico, tra l'accorgimento naturale e
    l'accorgimento esperto, tra la candida innocenza e l'avveduta e
    accurata bontà. Tuttavia dalla lettura di alcuni saggi di
    questo libro pubblicati nella «Critica» pare si possa
    dedurre che mentre dal Trecento al Cinquecento la poesia popolare,
    anche in questo senso, ha una importanza notevole, perché
    è legata ancora a una certa vivacità di resistenza
    delle forze sociali sorte col movimento di ripresa verificatosi dopo
    il Mille e culminato nei Comuni, dopo il Cinquecento queste forze
    sono abbrutite completamente e la poesia popolare decade fino alle
    forme attuali in cui l'interesse popolare è soddisfatto dal
    Guerin Meschino, e da simile letteratura. Dopo il Cinquecento
    cioè si rende radicale quel distacco tra intellettuali e
    popolo che è alla base di queste note e che tanto significato
    ha avuto per la storia italiana moderna politica e culturale.
    
     
    
     
    
    Contenuto e forma. L'accostamento di questi due termini può
    assumere nella critica d'arte molti significati. Ammesso che
    contenuto e forma sono la stessa cosa, ecc. ecc., non significa
    ancora che non si possa fare la distinzione tra contenuto e forma.
    Si può dire che chi insiste sul «contenuto» in
    realtà lotta per una determinata cultura, per una determinata
    concezione del mondo contro altre culture e altre concezioni del
    mondo; si può anche dire che storicamente, finora, i
    cosí detti contenutisti sono stati «piú
    democratici» dei loro avversari parnassiani, per esempio,
    cioè volevano una letteratura che non fosse per gli
    «intellettuali», ecc. Si può parlare di una
    priorità del contenuto sulla forma? Se ne può parlare
    in questo senso, che l'opera d'arte è un processo e che i
    cambiamenti di contenuto sono anche cambiamenti di forma, ma
    è «piú facile» parlare di contenuto che di
    forma, perché il contenuto può essere
    «riassunto» logicamente. Quando si dice che il contenuto
    precede la forma si vuol dire semplicemente che, nell'elaborazione,
    i tentativi successivi vengono presentati col nome di contenuto,
    niente altro. Il primo contenuto che non soddisfaceva era anche
    forma e in realtà quando si è raggiunta la
    «forma» soddisfacente anche il contenuto è
    cambiato. È vero che spesso quelli che chiacchierano di forma
    ecc. contro il contenuto, sono completamente vuoti, accozzano parole
    che non sempre si tengono neanche secondo grammatica (esempio
    Ungaretti); per tecnica, forma ecc. intendono vacuità di
    gergo da conventicola di teste vuote.
    
    Anche questa è da porre fra le quistioni della storia
    nazionale italiana, in altra nota registrata, e assume varie forme:
    1) c'è una differenza di stile tra gli scritti dedicati al
    pubblico e gli altri, per esempio tra le lettere e le opere
    letterarie. Sembra spesso di aver che fare con due scrittori diversi
    tanta è la differenza. Nelle lettere (salvo eccezioni, come
    quella di D'Annunzio che fa la commedia anche allo specchio, per se
    stesso), nelle memorie e in generale in tutti gli scritti dedicati a
    poco pubblico o a se stesso, predomina la sobrietà, la
    semplicità, la immediatezza, mentre negli altri scritti
    predomina la tronfiezza, lo stile oratorio, l'ipocrisia stilistica
    Questa «malattia» è talmente diffusa che si
    è attaccata al popolo, per il quale infatti
    «scrivere» significa «montare sui trampoli»,
    mettersi a festa, «fingere» uno stile ridondante, ecc.,
    in ogni modo esprimersi in modo diverso dal comune; e siccome il
    popolo non è letterato, e di letteratura conosce solo il
    libretto dell'opera ottocentesca, avviene che gli uomini del popolo
    «melodrammatizzano». Ecco allora che «contenuto e
    forma» oltre che un significato «estetico» hanno
    anche un significato «storico». Forma
    «storica» significa un determinato linguaggio, come
    «contenuto» indica un determinato modo di pensare, non
    solo storico, ma «sobrio», espressivo senza pugni in
    faccia, passionale senza che le passioni siano arroventate
    all'Otello o al melodramma, senza la maschera teatrale, insomma.
    Questo fenomeno, credo, si verifica solo nel nostro paese, come
    fenomeno di massa, s'intende, perché papi singoli sono da per
    tutto. Ma occorre stare attenti: perché il paese nostro
    è quello in cui al convenzionale barocco è successo il
    convenzionale arcadico: sempre teatro e convenzione però.
    Occorre dire che in questi anni le cose sono molto migliorate:
    D'Annunzio è stato l'ultimo accesso di malattia del popolo
    italiano e il giornale, per le sue necessità, ha avuto il
    gran merito di «razionalizzare» la prosa. Però
    l'ha impoverita e stremenzita e anche questo è un danno. Ma
    purtroppo nel popolo, accanto ai «futuristi
    antiaccademici» esistono ancora i «secentisti» di
    conversione. D'altronde qui si fa una quistione storica, per
    spiegare il passato, e non una lotta puramente attuale, per
    combattere mali attuali, sebbene anche questi non siano del tutto
    scomparsi e si ritrovano in alcune manifestazioni specialmente
    (discorsi solenni, specialmente funebri, patriottici, iscrizioni
    idem, ecc.). (Si potrebbe dire che si tratta di «gusto»
    e sarebbe errato. Il gusto è «individuale» o di
    piccoli gruppi; qui si tratta di grandi masse, e non può non
    trattarsi di cultura, di fenomeno storico, di esistenza di due
    culture; individuale è il gusto «sobrio», non
    l'altro, il melodramma è il gusto nazionale, cioè la
    cultura nazionale). Né si dica che di tale quistione non
    occorre occuparsi: anzi, la formazione di una prosa vivace ed
    espressiva e nello stesso tempo sobria e misurata deve essere uno
    dei fini culturali da proporsi. Anche in questo caso forma ed
    espressione si identificano ed insistere sulla «forma»
    non è che un mezzo pratico per lavorare sul contenuto, per
    ottenere una deflazione della retorica tradizionale che guasta ogni
    forma di cultura, anche quella «antiretorica»,
    ahimè!
    
    La domanda se sia esistito un romanticismo italiano può avere
    diverse risposte, a seconda di ciò che s'intende per
    romanticismo. E certo molte sono le definizioni che del termine di
    romanticismo sono state date. Ma a noi importa una di queste
    definizioni e importa non precisamente l'aspetto
    «letterario» del problema. Romanticismo ha, tra gli
    altri significati, assunto quello di uno speciale rapporto o legame
    tra gli intellettuali e il popolo, la nazione, cioè è
    un particolare riflesso della «democrazia» (in senso
    largo) nelle lettere (in senso largo, per cui anche il cattolicismo
    può essere stato «democratico» mentre il
    «liberalismo» può esserlo non stato). In questo
    senso ci interessa il problema per l'Italia ed esso è legato
    ai problemi che abbiamo raccolto in serie: se è esistito un
    teatro italiano, la quistione della lingua, perché la
    letteratura non è stata popolare, ecc. Occorre dunque, nella
    sterminata letteratura sul romanticismo, isolare questo aspetto e di
    esso interessarsi, teoricamente e praticamente, come fatto storico
    cioè e come tendenza generale che può dar luogo a un
    movimento attuale, a un attuale problema da risolvere. In questo
    senso il romanticismo precede, accompagna, sanziona e svolge tutto
    quel movimento europeo che prese nome dalla Rivoluzione francese; ne
    è l'aspetto sentimentale-letterario (piú sentimentale
    che letterario, nel senso che l'aspetto letterario è stato
    solo una parte dell'espressione della corrente sentimentale che ha
    pervaso tutta la vita e una parte molto importante della vita, e di
    questa vita solo una piccolissima parte ha potuto trovare
    espressione nella letteratura). La ricerca quindi è di storia
    della cultura e non di storia letteraria, meglio di storia
    letteraria in quanto parte e aspetto di una piú vasta storia
    della cultura. Ebbene, in questo preciso senso, il romanticismo non
    è esistito in Italia, e nel miglior caso le sue
    manifestazioni sono state minime, scarsissime e in ogni caso di
    aspetto puramente letterario. (Su questo punto è necessario
    il ricordo delle teorie del Thierry e del riflesso manzoniano,
    teorie del Thierry che appunto sono uno degli aspetti piú
    importanti di questo aspetto del romanticismo di cui si vuole
    parlare). È da vedere come in Italia anche queste discussioni
    abbiano assunto un aspetto intellettuale e astratto: i pelasgi del
    Gioberti, le popolazioni «preromane», ecc., in
    realtà niente che fosse in rapporto col vivente popolo
    attuale che invece interessava il Thierry e la storiografia politica
    affine. Si è detto che la parola «democrazia» non
    deve essere assunta in tal senso, solo nel significato
    «laico» o «laicista» che si vuol dire; ma
    anche nel significato «cattolico», anche reazionario, se
    si vuole; ciò che importa è il fatto che si ricerchi
    un legame col popolo, con la nazione, che si ritenga necessaria una
    unità non servile, dovuta all'obbedienza passiva, ma
    un'unità attiva, vivente, qualunque sia il contenuto di
    questa vita. Questa unità vivente, a parte ogni contenuto,
    è appunto mancata in Italia, è mancata almeno nella
    misura sufficiente a farla diventare un fatto storico, e
    perciò si capisce il significato della domanda:
    «è esistito un romanticismo italiano»?
    
     
    
     
    
    Italia e Francia. Si può forse affermare che tutta la vita
    intellettuale italiana fino al 1900 (e precisamente fino al formarsi
    della corrente culturale idealistica Croce-Gentile) in quanto ha
    tendenze democratiche, cioè in quanto vuole (anche se non ci
    riesce sempre) prendere contatto con le masse popolari è
    semplicemente un riflesso francese, dell'ondata democratica francese
    che ha avuto origine dalla Rivoluzione del 1789:
    l'artificiosità di questa vita è nel fatto che in
    Italia essa non aveva avuto le premesse storiche che invece erano
    state in Francia. Niente in Italia di simile alla Rivoluzione del
    1789 e alle lotte che ne seguirono; tuttavia in Italia si
    «parlava» come se tali premesse fossero esistite. Ma si
    capisce che un tale parlare non poteva essere che a fior di labbra.
    Da tal punto di vista, s'intende il significato
    «nazionale», seppure poco profondo, delle correnti
    conservatrici e reazionarie in confronto di quelle democratiche;
    queste erano grandi «fuochi di paglia», di grande
    estensione superficiale, quelle erano di poca estensione, ma ben
    radicate e intense. Se non si studia la cultura italiana fino al
    1900 come un fenomeno di provincialismo francese, se ne comprende
    ben poco. Tuttavia occorre distinguere: c'è misto un
    sentimento nazionale antifrancese, nell'ammirazione per le cose di
    Francia: si vive di riflesso e si odia nello stesso tempo. Almeno
    fra gli intellettuali. Nel popolo i sentimenti
    «francesi» non sono tali, appaiono come «senso
    comune», come cose proprie del popolo stesso e il popolo
    è francofilo o francofobo secondo che viene aizzato o meno
    dalle forze dominanti. Era comodo far credere che la Rivoluzione del
    1789, poiché avvenuta in Francia, era come se avvenuta in
    Italia, per quel tanto che delle idee francesi era comodo servirsi
    per guidare le masse; ed era comodo servirsi dell'antigiacobinismo
    forcaiolo per andare contro la Francia, quando ciò serviva.
    
     
    
     
    
    [Degenerazioni artistiche.] Luigi Volpicelli, nella «Italia
    Letteraria» del 1° gennaio 1933 (articolo Arte e
    religione) nota: «Il quale (il popolo) si potrebbe osservare
    tra parentesi, ha amato sempre l'arte piú per quello che non
    è arte che per ciò che è essenziale all'arte; e
    forse proprio per questo è cosí diffidente verso gli
    artisti di oggi, i quali, volendo nell'arte la pura e sola arte,
    finiscono col diventare enigmatici, inintelligibili, profeti di
    pochi iniziati».
    
    Osservazione senza costrutto né base: è certo che il
    popolo vuole un'arte «storica» (se non si vuole
    impiegare la parola «sociale»), cioè vuol un'arte
    espressa in termini di cultura «comprensibili»,
    cioè universali, o «obbiettivi», o
    «storici» o «sociali» che è la stessa
    cosa. Non vuole «neolalismi» artistici, specialmente se
    il «neolalico» è anche un imbecille.
    
    Mi pare che il problema è sempre da porre partendo dalla
    domanda: «Perché scrivono i poeti? Perché
    dipingono i pittori? ecc.» (Ricordare l'articolo di Adriano
    Tilgher nell'«Italia che scrive»). Il Croce risponde, su
    per giú: per ricordare le proprie opere, dato che, secondo
    l'estetica crociana, l'opera d'arte è «perfetta»
    anche già e solo nel cervello dell'artista. Ciò che
    potrebbe ammettersi approssimativamente e in un certo senso. Ma solo
    approssimativamente e in un certo senso. In realtà si ricade
    nella quistione della «natura dell'uomo» e nella
    quistione «cos'è l'individuo?». Se non si
    può pensare l'individuo fuori della società, e quindi
    se non si può pensare nessun individuo che non sia
    storicamente determinato, è evidente che ogni individuo e
    anche l'artista, e ogni sua attività, non può essere
    pensata fuori della società, di una società
    determinata. L'artista pertanto non scrive o dipinge, ecc.,
    cioè non «segna» esteriormente i suoi fantasmi
    solo per «un suo ricordo», per poter rivivere l'istante
    della creazione, ma è artista solo in quanto
    «segna» esteriormente, oggettivizza, storicizza i suoi
    fantasmi. Ma ogni individuo-artista è tale in modo piú
    o meno largo e comprensivo, piú o meno «storico»
    o «sociale». Ci sono i «neolalici» o i
    «gerghisti», cioè quelli che essi soli possono
    rivivere il ricordo dell'istante creativo (ed è di solito
    un'illusione, il ricordo di un sogno o di una velleità),
    altri che appartengono a conventicole piú o meno larghe (che
    hanno un gergo corporativo) e finalmente quelli che sono universali,
    cioè «nazionali-popolari». L'estetica del Croce
    ha determinato molte degenerazioni artistiche, e non è poi
    vero che ciò sia avvenuto sempre contro le intenzioni e lo
    spirito dell'estetica crociana stessa; per molte degenerazioni,
    sí, ma non per tutte, e specialmente per questa fondamentale,
    dell'«individualismo» artistico espressivo antistorico
    (o anti-sociale, o anti-nazionale-popolare).
    
     
    
     
    
    [Letterati e «bohême» artistica.] È da
    notare come in Italia il concetto di cultura sia prettamente
    libresco: i giornali letterari si occupano di libri o di chi scrive
    libri. Articoli di impressioni sulla vita collettiva, sui modi di
    pensare, sui «segni del tempo», sulle modificazioni che
    avvengono nei costumi, ecc., non se ne leggono mai. Differenza tra
    la letteratura italiana e le altre letterature. In Italia mancano i
    memorialisti e sono rari i biografi e gli autobiografi. Manca
    l'interesse per l'uomo vivente, per la vita vissuta (Le Cose viste
    di Ugo Ojetti sono poi quel gran capolavoro di cui si è
    incominciato a parlare da quando Ojetti è stato direttore del
    «Corriere della Sera» e cioè dell'organismo
    letterario che paga meglio gli scrittori e dà piú
    fama? Anche nelle Cose viste si parla specialmente di scrittori, da
    quelle che io ho letto anni fa, almeno. Si potrebbe rivedere).
    È un altro segno del distacco degli intellettuali italiani
    dalla realtà popolare-nazionale.
    
    Sugli intellettuali questa osservazione di Prezzolini (Mi pare...,
    p. 16) scritta nel 1920: «L'intellettuale da noi ha la pretesa
    di fare il parassita. Si considera come l'uccellino fatto per la
    gabbietta d'oro che dev'essere mantenuto a pastone e a chicchini di
    miglio. Lo sdegno che c'è ancora per tutto quello che
    somiglia al lavoro, le carezze che si fanno sempre alla concezione
    romantica di un estro che bisogna aspettare dal cielo, come la Pitia
    aspettava i suoi invasamenti, sono dei sintomi piuttosto puzzolenti
    di marcia interiore. Bisogna che gli intellettuali capiscano che i
    bei tempi per queste mascherate interessanti sono passati. Di qui a
    qualche anno non sarà permesso essere ammalati di letteratura
    o restare inutili». Gli intellettuali concepiscono la
    letteratura come una «professione» a sé, che
    dovrebbe «rendere» anche quando non si produce nulla
    immediatamente e dovrebbe dar diritto a una pensione. Ma chi
    stabilisce che Tizio è veramente un «letterato» e
    che la società può mantenerlo in attesa del
    «capolavoro»? Il letterato rivendica il diritto di stare
    in «ozio» («otium et non negotium»), di
    viaggiare, di fantasticare, senza preoccupazioni di carattere
    economico. Questo modo di pensare è legato al mecenatismo
    delle corti, male interpretato del resto, perché i grandi
    letterati del Rinascimento, oltre a scrivere, lavoravano in qualche
    modo (anche l'Ariosto, letterato per eccellenza, aveva incombenze
    amministrative e politiche): un'immagine del letterato del
    Rinascimento falsa e sbagliata. Oggi il letterato [è]
    professore e giornalista o semplice letterato (nel senso che tende a
    diventarlo, se è funzionario, ecc.).
    
    Si può dire che la «letteratura» è una
    funzione sociale, ma che i letterati, presi singolarmente, non sono
    necessari alla funzione, sebbene ciò sembri paradossale. Ma
    è vero nel senso, che mentre le altre professioni sono
    collettive, e la funzione sociale si scompone nei singoli,
    ciò non avviene nella letteratura. La quistione è
    dell'«apprendissaggio»: ma si può parlare di
    «apprendissaggio» artistico letterario? La funzione
    intellettuale non può essere staccata dal lavoro produttivo
    generale neanche per gli artisti: se non quando essi hanno
    dimostrato di essere effettivamente produttivi
    «artisticamente». Né ciò nuocerà
    all'«arte», forse anzi le gioverà: nuocerà
    solo alla «bohème» artistica e non sarà un
    male, tutt'altro.
    
     
    
     
    
    Consenso della nazione o degli «spiriti eletti». Cosa
    deve interessare di piú un artista, il consenso all'opera sua
    della «nazione» o quello degli «spiriti
    eletti»? Ma può esserci separazione tra «spiriti
    eletti» e «nazione»? Il fatto che la quistione sia
    stata posta e si continui a porre in questi termini, mostra per se
    stesso una situazione determinata storicamente di distacco tra
    intellettuali e nazione. Quali sono poi gli «spiriti»
    riputati «eletti»? Ogni scrittore o artista ha i suoi
    «spiriti eletti», cioè si ha la realtà di
    una disgregazione degli intellettuali in combriccole e sette di
    «spiriti eletti», disgregazione che appunto dipende
    dalla non aderenza alla nazione-popolo, dal fatto che il
    «contenuto» sentimentale dell'arte, il mondo culturale
    è astratto dalle correnti profonde della vita
    popolare-nazionale, che essa stessa rimane disgregata e senza
    espressione. Ogni movimento intellettuale diventa o ridiventa
    nazionale se si è verificata una «andata al
    popolo», se si è avuta una fase «Riforma» e
    non solo una fase «Rinascimento» e se le fasi
    «Riforma-Rinascimento» si susseguono organicamente e non
    coincidono con fasi storiche distinte (come in Italia, in cui tra il
    movimento comunale – riforma – e quello del Rinascimento c'è
    stato un iato storico dal punto di vista della partecipazione
    popolare alla vita pubblica). Anche se si dovesse cominciare con lo
    scrivere «romanzi d'appendice» e versi da melodramma,
    senza un periodo di andata al popolo non c'è
    «Rinascimento» e non c'è letteratura nazionale.
    
     
    
     
    
    Popolarità della letteratura italiana. «Nuova
    Antologia», 1° ottobre 1930: Ercole Reggio, Perché
    la letteratura italiana non è popolare in Europa. «La
    poca fortuna che incontrano, presso di noi, libri italiani anche
    illustri, a paragone con quella di tanti libri stranieri, dovrebbe
    farci persuasi che le ragioni della scarsa popolarità della
    nostra letteratura in Europa sono probabilmente le stesse che la
    rendono poco popolare da noi; e che perciò, tutto sommato,
    non ci sarà nemmeno da chiedere agli altri quello che noi,
    per i primi, non ci attendiamo in casa nostra. A detta anche
    d'italianizzanti, di simpatizzanti stranieri, la nostra letteratura
    manca in massima di qualità modeste e necessarie, di
    ciò che s'indirizza all'uomo medio, all'uomo degli economisti
    (?!); ed è in ragione delle sue prerogative, di quanto ne
    costituisce l'originalità, come il merito, ch'essa non tocca
    né potrà mai toccare alla popolarità delle
    altre grandi letterature europee». Il Reggio accenna al fatto
    che invece le arti figurative italiane (dimentica la musica) sono
    popolari in Europa e si domanda: o esiste un abisso tra la
    letteratura e le altre arti italiane, e questo abisso sarebbe
    impossibile da spiegare, oppure il fatto deve essere spiegato con
    ragioni secondarie, extrartistiche, cioè mentre le arti
    figurative (e la musica) parlano un linguaggio europeo e universale,
    la letteratura ha i suoi limiti nei confini della lingua nazionale.
    Non mi pare che l'obbiezione regga: 1) perché c'è
    stato un periodo storico in cui anche la letteratura italiana fu
    popolare in Europa (Rinascimento) oltre alle arti figurative e anzi
    insieme a queste: cioè l'intera cultura italiana fu popolare.
    2) Perché in Italia, oltre alla letteratura, non sono
    popolari neanche le arti figurative (sono popolari invece Verdi,
    Puccini, Mascagni ecc.). 3) Perché la popolarità delle
    arti figurative italiane in Europa è relativa: si limita agli
    intellettuali e in alcune altre zone della popolazione europea,
    è popolare perché legata a ricordi classici o
    romantici; non come arte. 4) Invece la musica italiana è
    popolare tanto in Europa come in Italia. L'articolo del Reggio
    continua sui binari della solita retorica, quantunque qua e
    là contenga osservazioni sagaci.
    
     
    
     
    
    Il gusto melodrammatico. Come combattere il gusto melodrammatico del
    popolano italiano quando si avvicina alla letteratura, ma
    specialmente alla poesia? Egli crede che la poesia sia
    caratterizzata da certi tratti esteriori, fra cui predomina la rima
    e il fracasso degli accenti prosodici, ma specialmente dalla
    solennità gonfia, oratoria, e dal sentimentalismo
    melodrammatico, cioè dall'espressione teatrale, congiunta a
    un vocabolario barocco. Una delle cause di questo gusto è da
    ricercare nel fatto che esso si è formato non alla lettura e
    alla meditazione intima e individuale della poesia e dell'arte, ma
    nelle manifestazioni collettive, oratorie e teatrali. E per
    «oratorie» non bisogna solo riferirsi ai comizi popolari
    di famigerata memoria, ma a tutta una serie di manifestazioni di
    tipo urbano e paesano. Nella provincia, per esempio, è molto
    seguita l'oratoria funebre e quella delle preture e dei tribunali (e
    anche delle conciliature): queste manifestazioni hanno tutte un
    pubblico di «tifosi» di carattere popolare, e un
    pubblico costituito (per i tribunali) da quelli che attendono il
    proprio turno, testimoni, ecc. In certe sedi di pretura
    mandamentale, l'aula è sempre piena di questi elementi, che
    si imprimono nella memoria i giri di frase e le parole solenni, se
    ne pascono e le ricordano. Cosí nei funerali di maggiorenti,
    cui affluisce molta folla, spesso solo per sentire i discorsi.
    
    Le conferenze nelle città hanno lo stesso ufficio e
    cosí i tribunali, ecc. I teatri popolari con gli spettacoli
    cosí detti da arena (e oggi, forse il cinematografo parlato,
    ma anche le didascalie del vecchio cinematografo muto, compilato
    tutto in stile melodrammatico), sono della massima importanza per
    creare questo gusto e il linguaggio conforme.
    
    Si combatte questo gusto in due modi principali: con la critica
    spietata di esso, e anche diffondendo libri di poesia scritti o
    tradotti in lingua non «aulica», e dove i sentimenti
    espressi non siano retorici o melodrammatici.
    
    Cfr. l'Antologia compilata dallo Schiavi; poesie del Gori.
    Traduzione possibile di M. Martinet e di altri scrittori che oggi
    [sono] piú numerosi che in passato: traduzioni sobrie, del
    tipo di quelle del Togliatti per Whitman e Martinet.
    
     
    
     
    
    [Il melodramma.] Ho accennato in altra nota come in Italia la musica
    abbia in una certa misura sostituito, nella cultura popolare, quella
    espressione artistica che in altri paesi è data dal romanzo
    popolare e come i genii musicali abbiano avuto quella
    popolarità che invece è mancata ai letterati. È
    da ricercare: 1°) se la fioritura dell'opera in musica coincide
    in tutte le sue fasi di sviluppo (cioè non come espressione
    individuale di singoli artisti geniali, ma come fatto,
    manifestazione storico-culturale) con la fioritura dell'epica
    popolare rappresentata dal romanzo. Mi pare di sí: il romanzo
    e il melodramma hanno l'origine nel settecento e fioriscono nel
    primo 50° del secolo XIX, cioè essi coincidono con la
    manifestazione e l'espansione delle forze democratiche
    popolari-nazionali in tutta l'Europa. 2°) Se coincidono
    l'espansione europea del romanzo popolare anglo-francese e quella
    del melodramma italiano.
    
    Perché la «democrazia» artistica italiana ha
    avuto una espressione musicale e non «letteraria»? Che
    il linguaggio non sia stato nazionale, ma cosmopolita, come è
    la musica, può connettersi alla deficienza di carattere
    popolare-nazionale degli intellettuali italiani? Nello stesso
    momento in cui in ogni paese avviene una stretta nazionalizzazione
    degli intellettuali indigeni, e questo fenomeno si verifica anche in
    Italia, sebbene in misura meno larga (anche il settecento italiano,
    specialmente nella seconda metà, è piú
    «nazionale» che cosmopolita), gli intellettuali italiani
    continuano la loro funzione europea attraverso la musica. Si
    potrà forse osservare che la trama dei libretti non è
    mai «nazionale» ma europea, in due sensi: o
    perché l'«intrigo» del dramma si svolge in tutti
    i paesi d'Europa e piú raramente in Italia, muovendo da
    leggende popolari o da romanzi popolari; o perché i
    sentimenti e le passioni del dramma riflettono la particolare
    sensibilità europea settecentesca e romantica, cioè
    una sensibilità europea, che non pertanto coincide con
    elementi cospicui della sensibilità popolare di tutti i
    paesi, da cui del resto aveva attinto la corrente romantica.
    (È da collegare questo fatto con la popolarità di
    Shakespeare e anche dei tragici greci, i cui personaggi, travolti da
    passioni elementari – gelosia, amor paterno, vendetta, ecc. – sono
    essenzialmente popolari in ogni paese). Si può perciò
    dire che il rapporto melodramma italiano – letteratura popolare
    anglo-francese non è sfavorevole criticamente al melodramma,
    poiché il rapporto è storico-popolare e non
    artistico-critico. Verdi non può essere paragonato, per dir
    cosí, a Eugenio Sue, come artista, se pure occorre dire che
    la fortuna popolare di Verdi può solo essere paragonata a
    quella del Sue, sebbene per gli estetizzanti (wagneriani)
    aristocratici della musica, Verdi occupi lo stesso posto nella
    storia della musica che Sue nella storia della letteratura. La
    letteratura popolare in senso deteriore (tipo Sue e tutta la
    sequela) è una degenerazione politico-commerciale della
    letteratura nazionale-popolare, il cui modello sono appunto i
    tragici greci e Shakespeare.
    
    Questo punto di vista sul melodramma può anche essere un
    criterio per comprendere la popolarità del Metastasio che fu
    tale specialmente come scrittore di libretti.
    
     
    
     
    
    Il Cinquecento. Il modo di giudicare la letteratura del Cinquecento
    secondo determinati canoni stereotipati ha dato luogo in Italia a
    curiosi giudizi e a limitazioni di attività critica che sono
    significativi per giudicare il carattere astratto dalla
    realtà nazionale-popolare dei nostri intellettuali. Qualcosa
    ora sta cambiando lentamente, ma il vecchio reagisce. Nel 1928
    Emilio Lovarini ha stampato una commedia in 5 atti La Venexiana,
    commedia di ignoto cinquecentesco (Zanichelli, 1928, n. 1 della
    «Nuova scelta di curiosità letterarie inedite o
    rare») che è stata riconosciuta come una bellissima
    opera d'arte (cfr. Benedetto Croce nella «Critica» del
    1930). Ireneo Sanesi (autore del volume La Commedia nella collezione
    dei Generi letterari del Vallardi) in un articolo La Venexiana nella
    «Nuova Antologia» del 1° ottobre 1929, cosí
    imposta quello che per lui è il problema critico posto dalla
    commedia: l'autore ignoto della Venexiana è un ritardatario,
    un codino, un conservatore, perché rappresenta la commedia
    nata dalla novellistica medioevale, la commedia realistica, vivace
    (anche se scritta in latino) che prende gli argomenti dalla
    realtà della comune vita borghese o cittadinesca, i cui
    personaggi sono riprodotti da questa medesima realtà, le cui
    azioni sono semplici, chiare, lineari e il cui maggiore interesse
    riposa appunto nella loro sobrietà e nella loro lucidezza.
    Mentre, secondo il Sanesi, sono rivoluzionari gli scrittori del
    teatro erudito e classicheggiante, che riportavano sulla scena gli
    antichissimi tipi e motivi cari a Plauto e Terenzio. Per il Sanesi,
    gli scrittori della nuova classe storica sono codini e sono
    rivoluzionari gli scrittori cortigiani: è stupefacente.
    
    È interessante ciò che è avvenuto per la
    Venexiana a poca distanza da ciò che era avvenuto per le
    commedie del Ruzzante, tradotte in francese arcaicizzante dal
    dialetto padovano del Cinquecento da Alfredo Mortier. Il Ruzzante
    era stato rivelato da Maurizio Sand (figlio di Georges Sand) che lo
    proclamò maggiore non solo dell'Ariosto (nella commedia) e
    del Bibbiena, ma dello stesso Machiavelli, precursore del
    Molière e del naturalismo francese moderno. Anche per la
    Venexiana, Adolfo Orvieto («Marzocco», 30 settembre
    1928) scrisse sembrare essa «il prodotto di una fantasia
    drammatica dei nostri tempi» e accennò al Becque.
    
    È interessante notare questo doppio filone nel Cinquecento:
    uno veramente nazionale-popolare (nei dialetti, ma anche in latino)
    legato alla novellistica precedente, espressione della borghesia, e
    l'altro aulico, cortigiano, anazionale, che però è
    portato sugli scudi dai retori.
    
     
    
     
    
    Goldoni. Perché il Goldoni è popolare anche oggi?
    Goldoni è quasi «unico» nella tradizione
    letteraria italiana. I suoi atteggiamenti ideologici: democratico
    prima di aver letto Rousseau e della Rivoluzione francese. Contenuto
    popolare delle sue commedie: lingua popolare nella sua espressione,
    mordace critica dell'aristocrazia corrotta e imputridita.
    
    Conflitto Goldoni-Carlo Gozzi. Gozzi reazionario. Le sue Fiabe,
    scritte per dimostrare che il popolo accorre alle piú insulse
    strampalerie, e che invece hanno successo: in verità anche le
    Fiabe hanno un contenuto popolare, sono un aspetto della cultura
    popolare o folclore, in cui il meraviglioso e l'inverosimile
    (presentato come tale in un mondo fiabesco) è parte
    integrante. (Fortuna delle Mille e una notte anche oggi, ecc.).
    
     
    
     
    
    Ugo Foscolo e la retorica letteraria italiana. I Sepolcri devono
    essere considerati come la maggiore «fonte» della
    tradizione culturale retorica che vede nei monumenti un motivo di
    esaltazione delle glorie nazionali. La «nazione» non
    è il popolo, o il passato che continua nel
    «popolo», ma è invece l'insieme delle cose
    materiali che ricordano il passato: strana deformazione che poteva
    spiegarsi ai primi dell'800 quando si trattava di svegliare delle
    energie latenti e di entusiasmare la gioventú, ma che
    è appunto «deformazione» perché è
    diventato puro motivo decorativo, esteriore, retorico (l'ispirazione
    dei sepolcri non è nel Foscolo simile a quella della
    cosí detta poesia sepolcrale: è un'ispirazione
    «politica», come egli stesso scrive nella lettera al
    Guillon).
    
     
    
     
    
    Gli «umili». Questa espressione – «gli
    umili» – è caratteristica per comprendere
    l'atteggiamento tradizionale degli intellettuali italiani verso il
    popolo e quindi il significato della «letteratura per gli
    umili». Non si tratta del rapporto contenuto nell'espressione
    dostoievschiana di «umiliati e offesi». In Dostojevskij
    c'è potente il sentimento nazionale-popolare, cioè la
    coscienza di una missione degli intellettuali verso il popolo che
    magari è «oggettivamente» costituito di
    «umili» ma deve essere liberato da questa
    «umiltà», trasformato, rigenerato.
    Nell'intellettuale italiano l'espressione di «umili»
    indica un rapporto di protezione paterna e padreternale, il
    sentimento «sufficiente» di una propria indiscussa
    superiorità, il rapporto come tra due razze, una ritenuta
    superiore e l'altra inferiore, il rapporto come tra adulti e bambini
    nella vecchia pedagogia e peggio ancora un rapporto da
    «società protettrice degli animali», o da
    esercito della salute anglosassone verso i cannibali della Papuasia.
    
     
    
     
    
    Manzoni e gli «umili». L'atteggiamento
    «democratico» del Manzoni verso gli umili (nei Promessi
    Sposi) in quanto è d'origine «cristiana» e in
    quanto è da connettere con gli interessi storiografici che il
    Manzoni aveva derivato dal Thierry e dalle sue teorie sul contrasto
    tra le razze (conquistatrice e conquistata) divenuto contrasto di
    classi. Queste teorie del Thierry sono da vedere in quanto sono
    legate al romanticismo e al suo interesse storico per il Medio Evo e
    per le origini delle nazioni moderne, cioè nei rapporti tra
    razze germaniche invaditrici e razze neolatine invase, ecc. (Su
    questo argomento del «democraticismo» o
    «popolarismo» del Manzoni vedere altre note). Anche su
    questo punto dei rapporti tra l'atteggiamento del Manzoni e le
    teorie dei Thierry è da vedere il libro dello Zottoli, Umili
    e potenti nella poetica di A. Manzoni.
    
    Queste teorie di Thierry nel Manzoni si complicano, o almeno hanno
    aspetti nuovi nella discussione sul «romanzo storico» in
    quanto esso rappresenta persone delle «classi
    subalterne» che «non hanno storia», cioè la
    cui storia non lascia tracce nei documenti storici del passato.
    (Questo punto è da connettere con la rubrica «Storia
    delle classi subalterne», in cui si può fare
    riferimento alle dottrine del Thierry, che del resto hanno avuto
    tanta importanza per le origini della storiografia della filosofia
    della prassi).
    
     
    
    Del carattere non popolare-nazionale della letteratura italiana.
    Atteggiamento verso il popolo nei Promessi Sposi. [Il] carattere
    «aristocratico» del cattolicismo manzoniano appare dal
    «compatimento» scherzoso verso le figure di uomini del
    popolo (ciò che non appare in Tolstoi) come fra Galdino (in
    confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese, Perpetua,
    la stessa Lucia, ecc. (Su questo argomento ho scritto altra nota).
    Vedere se spunti interessanti nel libro di A. A. Zottoli, Umili e
    potenti nella poetica di A. Manzoni, Ed. «La Cultura»,
    Roma-Milano 1931.
    
    Sul libro dello Zottoli cfr. Filippo Crispolti, Nuove indagini sul
    Manzoni, nel «Pègaso», di agosto 1931. Questo
    articolo del Crispolti è interessante di per se stesso, per
    comprendere l'atteggiamento del cristianesimo gesuitico verso gli
    «umili». Ma in realtà mi pare che il Crispolti
    abbia ragione contro lo Zottoli, sebbene il Crispolti ragioni
    «gesuiticamente». Dice il Crispolti del Manzoni:
    «Il popolo ha per sé tutto il cuore di lui, ma egli non
    si piega ad adularlo mai; lo vede anzi collo stesso occhio severo
    con cui vede i piú di coloro che non sono popolo». Ma
    non si tratta di volere che il Manzoni «aduli il
    popolo», si tratta del suo atteggiamento psicologico verso i
    singoli personaggi che sono «popolari»; questo
    atteggiamento è nettamente di casta pur nella sua forma
    religiosa cattolica; i popolani, per il Manzoni, non hanno
    «vita interiore», non hanno personalità morale
    profonda; essi sono «animali» e il Manzoni è
    «benevolo» verso di loro proprio della benevolenza di
    una cattolica società di protezione degli animali. In un
    certo senso il Manzoni ricorda l'epigramma su Paolo Bourget: che per
    il Bourget occorre che una donna abbia 100.000 franchi di rendita
    per avere una psicologia. Da questo punto di vista il Manzoni (e il
    Bourget) sono schiettamente cattolici; niente in loro dello spirito
    «popolare» di Tolstoi, cioè dello spirito
    evangelico del cristianesimo primitivo. L'atteggiamento del Manzoni
    verso i suoi popolani è l'atteggiamento della Chiesa
    Cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di
    medesimezza umana. Lo stesso Crispolti, nella frase citata,
    inconsapevolmente confessa questa «parzialità» (o
    «partigianeria») del Manzoni: il Manzoni vede con
    «occhio severo» tutto il popolo, mentre vede con occhio
    severo «i piú di coloro che non sono popolo»:
    egli trova «magnanimità», «alti
    pensieri», «grandi sentimenti» solo in alcuni
    della classe alta, in nessuno del popolo, che nella sua
    totalità è bassamente animalesco.
    
    Che non abbia un gran significato il fatto che gli
    «umili» abbiano una parte di prim'ordine nel romanzo
    manzoniano, è giusto, come dice il Crispolti. Il Manzoni pone
    il «popolo» nel suo romanzo, oltre che per i personaggi
    principali (Renzo, Lucia, Perpetua, fra Galdino, ecc.) anche per la
    massa (tumulti di Milano, popolani di campagna, il sarto, ecc.), ma
    appunto il suo atteggiamento verso il popolo non è
    «popolare-nazionale», ma aristocratico.
    
    Studiando il libro dello Zottoli, occorre ricordare questo articolo
    del Crispolti. Si può mostrare che il
    «cattolicismo» anche in uomini superiori e non
    «gesuitici» come il Manzoni (il Manzoni aveva certamente
    una vena giansenistica e antigesuitica) non contribuí a
    creare in Italia il «popolo-nazione» neanche nel
    Romanticismo, anzi fu un elemento anti-nazionale-popolare e
    solamente aulico. Il Crispolti accenna solo al fatto che il Manzoni
    per un certo tempo accolse la concezione del Thierry (per la
    Francia) della lotta di razza nel seno del popolo (Longobardi e
    Romani, come in Francia Franchi e Galli) come lotta tra umili e
    potenti. Lo Zottoli cerca di rispondere al Crispolti nel
    «Pègaso» del settembre 1931.
    
     
    
    Adolfo Faggi nel «Marzocco» del 1° novembre 1931
    scrive alcune osservazioni sulla sentenza «Vox populi vox
    Dei» nei Promessi Sposi. La sentenza è citata due volte
    (secondo il Faggi) nel romanzo: una volta nell'ultimo capitolo ed
    appare detta da Don Abbondio a proposito del marchese successore di
    Don Rodrigo: «E poi non vorrà che si dica che è
    un grand'uomo. Lo dico e lo voglio dire. E anche se io stessi zitto,
    già non servirebbe a nulla, perché parlan tutti, e vox
    populi, vox Dei». Il Faggi fa osservare che questo solenne
    proverbio è impiegato da don Abbondio un po' enfaticamente,
    mentre egli si trova in quella felice disposizione d'animo per la
    morte di don Rodrigo, ecc.; non ha particolare importanza o
    significato. L'altra volta la sentenza si trova nel cap. XXXI, dove
    si parla della peste: «Molti medici ancora, facendo eco alla
    voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?) deridevano
    gli auguri sinistri, gli avvertimenti minacciosi dei pochi,
    ecc.». Qui il proverbio è riportato in italiano e in
    parentesi, con intonazione ironica. Negli Sposi Promessi (cap. III
    del tomo IV, ediz. Lesca) il Manzoni scrive a lungo sulle idee
    tenute generalmente per vere in un tempo o in un altro dagli uomini
    e conchiude che se oggi si possono trovare ridicole le idee diffuse
    tra il popolo al tempo della peste di Milano, non possiamo sapere se
    idee odierne non saranno trovate ridicole domani, ecc. Questo lungo
    ragionamento della prima stesura è riassunto nel testo
    definitivo nella breve domanda: «Era anche in questo caso voce
    di Dio?»
    
    Il Faggi distingue tra i casi in cui per il Manzoni la voce del
    popolo non è in certi casi voce di Dio, da altri in cui
    può esser tale. Non sarebbe voce di Dio «quando si
    tratti d'idee o meglio di cognizioni specifiche, che soltanto dalla
    scienza e dai suoi continui progressi possono essere determinate; ma
    quando si tratti di quei principii generali e sentimenti comuni per
    natura a tutti quanti gli uomini, che gli antichi comprendevano
    nella ben nota espressione di conscentia generis humani». Ma
    il Faggi non pone molto esattamente la quistione, che non può
    essere risolta senza riferirsi alla religione del Manzoni, al suo
    cattolicismo. Cosí riporta per esempio il famoso parere di
    Perpetua a don Abbondio, parere che coincide con l'opinione del
    card. Borromeo. Ma nel caso non si tratta di una quistione morale o
    religiosa, ma di un consiglio di prudenza pratica, dettato dal senso
    comune piú banale. Che il card. Borromeo si trovi d'accordo
    con Perpetua non ha quella importanza che sembra al Faggi. Mi pare
    sia legato al tempo e al fatto che l'autorità ecclesiastica
    aveva un potere politico e un'influenza; che Perpetua pensi che don
    Abbondio debba ricorrere all'arcivescovo di Milano, è cosa
    naturale (serve solo a mostrare come Don Abbondio avesse perduto la
    testa in quel momento e Perpetua avesse piú «spirito di
    corpo» di lui), come è naturale che Federico Borromeo
    cosí parli. Non c'entra la voce di Dio in questo caso.
    Cosí non ha molto rilievo l'altro caso: Renzo non crede
    all'efficienza del voto di castità fatto da Lucia e in
    ciò si trova d'accordo col padre Cristoforo. Si tratta anche
    qui di «casistica» e non di morale. Il Faggi scrive che
    «il Manzoni ha voluto fare un romanzo di umili», ma
    ciò ha un significato piú complesso di ciò che
    il Faggi mostri di credere. Tra il Manzoni e gli «umili»
    c'è distacco sentimentale; gli umili sono per il Manzoni un
    «problema di storiografia», un problema teorico che egli
    crede di poter risolvere col romanzo storico, col
    «verosimile» del romanzo storico. Perciò gli
    umili sono spesso presentati come «macchiette» popolari,
    con bonarietà ironica, ma ironica. E il Manzoni è
    troppo cattolico per pensare che la voce del popolo sia voce di Dio:
    tra il popolo e Dio c'è la chiesa, e Dio non s'incarna nel
    popolo, ma nella chiesa. Che Dio s'incarni nel popolo può
    crederlo il Tolstoi, non il Manzoni.
    
    Certo questo atteggiamento del Manzoni è sentito dal popolo e
    perciò i Promessi Sposi non sono mai stati popolari:
    sentimentalmente il popolo sentiva il Manzoni lontano da sé e
    il suo libro come un libro di devozione non come un'epopea popolare.
    
     
    
     
    
    «Popolarità» del Tolstoi e del Manzoni. Nel
    «Marzocco» dell'11 novembre 1928 è pubblicato un
    articolo di Adolfo Faggi, Fede e dramma, nel quale sono contenuti
    alcuni elementi per istituire un confronto tra la concezione del
    mondo del Tolstoi e quella del Manzoni, sebbene il Faggi affermi
    arbitrariamente che i «Promessi Sposi corrispondono
    perfettamente al suo (del Tolstoi) concetto dell'arte
    religiosa», esposto nello studio critico sullo Shakespeare:
    «L'arte in generale e in particolare l'arte drammatica fu
    sempre religiosa, ebbe cioè sempre per iscopo di chiarire
    agli uomini i loro rapporti con Dio, secondo la comprensione che di
    questi rapporti s'erano fatta in ogni età gli uomini
    piú eminenti e destinati perciò a guidare gli altri...
    Ci fu poi una deviazione nell'arte che l'asserví al
    passatempo e al divertimento; deviazione che ha avuto luogo anche
    nell'arte cristiana». Nota il Faggi che in Guerra e Pace i due
    personaggi che hanno la maggior importanza religiosa sono Platone
    Karatajev e Pietro Biezuchov: il primo è uomo del popolo, e
    il suo pensiero ingenuo ed istintivo ha molta efficacia sulla
    concezione della vita di P. Biezuchov.
    
    Nel Tolstoi è caratteristico appunto che la saggezza ingenua
    ed istintiva del popolo, enunciata anche con una parola casuale,
    faccia la luce e determini una crisi nell'uomo colto. Ciò
    appunto è il tratto piú rilevante della religione del
    Tolstoi che intende l'Evangelo «democraticamente»,
    cioè secondo il suo spirito originario e originale. Il
    Manzoni invece ha subíto la Controriforma: il suo
    cristianesimo ondeggia tra un aristocraticismo giansenistico e un
    paternalismo popolaresco gesuitico. Il rilievo del Faggi che
    «nei Promessi Sposi sono gli spiriti superiori come il padre
    Cristoforo e il cardinale Borromeo che agiscono sugli inferiori e
    sanno sempre trovare per loro la parola che illumina e guida»
    non ha connessione sostanziale con la formulazione di ciò che
    è l'arte religiosa di Tolstoi, che si riferisce alla
    concezione generale e non ai particolari modi di estrinsecazione: le
    concezioni del mondo non possono non essere elaborate da spiriti
    eminenti, ma la «realtà» è espressa dagli
    umili, dai semplici di spirito.
    
    Bisogna inoltre notare che nei Promessi Sposi non c'è
    popolano che non sia «preso in giro» e canzonato: da don
    Abbondio a fra Galdino, al sarto, a Gervasio, ad Agnese, a Perpetua,
    a Renzo, alla stessa Lucia: essi sono rappresentati come gente
    meschina, angusta, senza vita interiore. Vita interiore hanno solo i
    signori: fra Cristoforo, il Borromeo, l'Innominato, lo stesso don
    Rodrigo. Perpetua, secondo don Abbondio, aveva detto presso a poco
    ciò che disse poi il Borromeo, ma intanto si tratta di
    quistioni pratiche e poi è notevole come lo spunto sia
    oggetto di comicità. Cosí il fatto che il parere di
    Renzo sul valore del voto di verginità di Lucia coincide
    esteriormente col parere di padre Cristoforo. L'importanza che ha la
    frase di Lucia nel turbare la coscienza dell'Innominato e nel
    secondarne la crisi morale è di carattere non illuminante e
    folgorante come ha l'apporto del popolo, sorgente di vita morale e
    religiosa, nel Tolstoi, ma meccanico e di carattere
    «sillogistico». In realtà anche nel Manzoni si
    possono trovare notevoli tracce di brescianesimo. (È da
    notare che prima del Parini, furono i gesuiti a
    «valorizzare» «paternalisticamente» il
    popolo: cfr. La giovinezza del Parini, Verri e Beccaria di C. A.
    Vianello (Milano, 1933), dove si accenna al padre gesuita Pozzi
    «che tanto prima del Parini insorse a difendere ed esaltare –
    innanzi al consesso del migliore patriziato milanese – «il
    plebeo» o proletario, come ora si direbbe» (vedi
    «Civiltà Cattolica» del 4 agosto 1934, p. 272).
    
    In un secondo articolo pubblicato nel «Marzocco» del 9
    settembre 1928, il Faggi (Tolstoi e Shakespeare) esamina l'opuscolo
    di Tolstoi su Shakespeare, al quale aveva accennato nell'articolo
    precedente: Leo N. Tolstoi: Shakespeare, eine kritische Studie,
    Hannover, 1906. Il volumetto contiene anche un articolo di Ernest
    Crosby su L'atteggiamento dello Shakespeare davanti alle classi
    lavoratrici e una breve lettera di Bernardo Shaw sulla filosofia
    dello Shakespeare. Tolstoi vuole demolire lo Shakespeare partendo
    dal punto di vista della propria ideologia cristiana; la sua critica
    non è artistica, ma morale e religiosa. L'articolo del
    Crosby, da cui prese le mosse, mostra, contrariamente all'opinione
    di molti illustri inglesi, che non c'è in tutta l'opera dello
    Shakespeare quasi alcuna parola di simpatia per il popolo e le masse
    lavoratrici. Lo Shakespeare, conforme alle tendenze del suo tempo,
    parteggia manifestamente per le classi elevate della società:
    il suo dramma è essenzialmente aristocratico. Quasi tutte le
    volte che egli introduce sulla scena dei borghesi o dei popolani, li
    presenta in maniera sprezzante o repugnante, e li fa materia o
    argomento di riso (cfr. ciò che già detto del Manzoni,
    la cui tendenza è analoga, sebbene le manifestazioni ne siano
    attenuate).
    
    La lettera dello Shaw è rivolta contro Shakespeare
    «pensatore», non contro Shakespeare
    «artista». Secondo lo Shaw nella letteratura si deve
    dare il primo posto a quegli autori che hanno superato la morale del
    loro tempo e intraveduto le nuove esigenze dell'avvenire:
    Shakespeare non fu «moralmente» superiore al suo tempo
    ecc.
    
    In queste note occorre evitare ogni tendenziosità moralistica
    tipo Tolstoi e anche ogni tendenziosità del «senno di
    poi» tipo Shaw. Si tratta di una ricerca di storia della
    cultura, non di critica artistica in senso stretto: si vuole
    dimostrare che sono gli autori esaminati che introducono un
    contenuto morale estrinseco, cioè fanno della propaganda e
    non dell'arte, e che la concezione del mondo implicita nelle loro
    opere è angusta e meschina, non nazionale-popolare ma di
    casta chiusa. La ricerca sulla bellezza di un'opera è
    subordinata alla ricerca del perché essa è
    «letta», è «popolare», è
    «ricercata» o, all'opposto, del perché non tocca
    il popolo e non l'interessa, mettendo in evidenza la assenza di
    unità nella vita culturale nazionale.
    
     
    
     
    
    [Ironia e gergo letterario.] Nel «Marzocco» del 18
    settembre 1932 Tullia Franzi scrive sulla quistione sorta tra il
    Manzoni e il traduttore inglese dei Promessi Sposi, il pastore
    anglicano Carlo Swan, a proposito della espressione, contenuta verso
    la fine del capitolo settimo, impiegata per indicare Shakespeare:
    «Tra il primo concetto di una impresa terribile e l'esecuzione
    di essa (ha detto un barbaro che non era privo d'ingegno)
    l'intervallo è un sogno pieno di fantasmi e di paure».
    Lo Swan scrisse al Manzoni: «Un barbaro che non era privo
    d'ingegno is a phrase, calculated to draw upon you the anathema of
    every admirer of our bard». Nonostante che Swan conoscesse gli
    scritti del Voltaire contro Shakespeare, egli non colse l'ironia
    manzoniana, che era appunto rivolta contro il Voltaire (che aveva
    definito lo Shakespeare «un sauvage avec des étincelles
    de génie»). Lo Swan pubblicò come prefazione
    alla sua traduzione la lettera dove il Manzoni gli spiega il
    significato della sua espressione ironica. Ma la Franzi ricorda che
    nelle altre traduzioni inglesi l'espressione manzoniana o è
    taciuta o è resa anodina (scrive uno scrittore straniero
    ecc.). Cosí nelle traduzioni in altre lingue, ciò che
    dimostra come questa ironia che ha bisogno di essere spiegata per
    essere compresa e assaporata, sia in fondo un'ironia in
    «gergo», da conventicola letteraria. Mi pare che il
    fatto sia molto piú esteso di quanto non sembri, e renda
    difficile tradurre dall'italiano non solo ma anche, spesso,
    comprendere un italiano che parla in conversazione. La
    «finezza» di cui pare si abbia bisogno in tali
    conversazioni non è un fatto dell'intelligenza normale, ma il
    fatto di dover conoscere fatterelli e atteggiamenti intellettuali di
    «gergo», proprii di letterati e anzi di certi gruppi di
    letterati. (Nell'articolo della Franzi è da notare una
    metafora «femminile» sorprendente: «Col sentimento
    di un uomo che, strapazzato e battuto dalla sua sposa per sospetto
    geloso, si rallegra tutto di quegli sdegni e benedice quelle
    percosse che gli sono testimonianza di amore, il Manzoni accolse
    questa lettera». Un uomo che si rallegra di essere bastonato
    dalla moglie è certo una forma originale di femminismo
    contemporaneo).
    
     
    
     
    
    [«Contenutisti» e «calligrafi».] Polemica
    svoltasi nell'«Italia Letteraria», nel
    «Tevere», nel «Lavoro Fascista», nella
    «Critica Fascista» tra «contenutisti» e
    «calligrafi». Pareva da alcuni accenni che Gherardo
    Casini (Direttore del «Lavoro fascista» e redattore capo
    della «Critica fascista») dovesse impostare almeno
    criticamente in modo esatto il problema, ma il suo articolo nella
    «Critica» del 1° maggio è una delusione. Egli
    non riesce a definire i rapporti tra «politica» e
    «letteratura» nel terreno della scienza e dell'arte
    politica come non riesce a definirli nel terreno della critica
    letteraria: egli non sa praticamente indicare come possa essere
    impostata e condotta una lotta o aiutato un movimento per il trionfo
    di una nuova cultura o civiltà, né si pone il problema
    del come possa avvenire che una nuova civiltà, affermata come
    già esistente, possa non avere una sua espressione letteraria
    e artistica, possa non espandersi nella letteratura, mentre è
    sempre avvenuto il contrario nella storia, che ogni nuova
    civiltà, in quanto era tale, anche compressa, combattuta, in
    tutti i modi impastoiata, si sia precisamente espressa
    letterariamente prima che nella vita statale, anzi la sua
    espressione letteraria sia stata il modo di creare le condizioni
    intellettuali e morali per l'espressione legislativa e statale.
    Poiché nessuna opera d'arte può non avere un
    contenuto, cioè non essere legata a un mondo poetico e questo
    a un mondo intellettuale e morale, è evidente che i
    «contenutisti» sono semplicemente i portatori di una
    nuova cultura, di un nuovo contenuto e i «calligrafi» i
    portatori di un vecchio o diverso contenuto, di una vecchia o
    diversa cultura (a parte ogni quistione di valore su questi
    contenuti o «culture» per il momento, sebbene in
    realtà è proprio il valore delle culture in contrasto
    e la superiorità di una sull'altra che decide del contrasto).
    Il problema quindi è di «storicità»
    dell'arte, di «storicità e perpetuità» nel
    tempo stesso, è di ricerca del fatto se il fatto bruto,
    economico-politico, di forza, abbia (e possa) subíto
    l'elaborazione ulteriore che si esprime nell'arte o se invece si
    tratti di pura economicità inelaborabile artisticamente in
    modo originale in quanto l'elaborazione precedente già
    contiene il nuovo contenuto, che è nuovo solo
    cronologicamente. Può avvenire infatti, dato che ogni
    complesso nazionale è una combinazione spesso eterogenea di
    elementi, che gli intellettuali di esso, per il loro carattere
    cosmopolitico, non coincidano col contenuto nazionale, ma con un
    contenuto preso a prestito da altri complessi nazionali o
    addirittura cosmopoliticamente astratto. Cosí il Leopardi si
    può dire il poeta della disperazione portata in certi spiriti
    dal sensismo settecentesco, a cui in Italia non corrispondeva lo
    sviluppo di forze e lotte materiali e politiche caratteristico dei
    paesi in cui il sensismo era forma culturale organica. Quando nel
    paese arretrato, le forze civili corrispondenti alla forma culturale
    si affermano ed espandono, è certo che esse non possono
    creare una nuova originale letteratura, non solo, ma anzi [è
    naturale] che ci sia un «calligrafismo» cioè, in
    realtà, uno scetticismo diffuso e generico per ogni
    «contenuto» passionale serio e profondo. Pertanto il
    «calligrafismo» sarà la letteratura organica di
    tali complessi nazionali, che come Lao-tse, nascono già
    vecchi di ottanta anni, senza freschezza e spontaneità di
    sentimento, senza «romanticismi» ma anche senza
    «classicismi» o con un romanticismo di maniera, in cui
    la rozzezza iniziale delle passioni è quella delle
    «estati di San Martino», di un vecchio voronovizzato,
    non di una virilità o maschilità irrompente,
    cosí come il classicismo sarà anch'esso di maniera,
    «calligrafismo» appunto, mera forma come una livrea da
    maggiordomo. Avremo «strapaese» e
    «stracittà», e lo «stra» avrà
    piú significato di quanto non sembri.
    
    È da notare inoltre come in questa discussione manchi ogni
    serietà di preparazione: le teorie del Croce saranno da
    accogliere o da respingere, ma bisognerebbe conoscerle con esattezza
    e citarle con scrupolo. Invece è da notare come nella
    discussione esse siano riferite a orecchio,
    «giornalisticamente». È evidente che il momento
    «artistico» come categoria, nel Croce, anche se esso
    è presentato come momento della pura forma, non è il
    presupposto di nessun calligrafismo né la negazione di nessun
    contenutismo, cioè del vivace irrompere di nessun nuovo
    motivo culturale. Neanche conta, in realtà, il concreto
    atteggiamento del Croce, come politico, verso questa o quella
    corrente di passioni e sentimenti; come esteta il Croce rivendica il
    carattere di liricità dell'arte, anche se come politico
    rivendichi e lotti per il trionfo di un determinato programma invece
    che di un altro. Pare anzi che con la sua teoria della
    circolarità delle categorie spirituali, non possa negarsi che
    nell'artista il Croce presupponga una forte
    «moralità», anche se non come fatto morale
    consideri l'opera d'arte ma come fatto estetico, cioè
    consideri un momento e non un altro del circolo come quello di cui
    si tratta. Cosí, per esempio, nel momento economico considera
    il «brigantaggio», come l'affare di borsa, ma non pare
    che come uomo lavori allo sviluppo del brigantaggio piú che
    agli affari di borsa (e si può dire che, in misura della sua
    importanza politica, il suo atteggiamento non sia senza
    ripercussione sugli affari di borsa). Questo stesso fatto, della
    poca serietà della discussione e del non soverchio scrupolo
    dei disputanti nell'impadronirsi dei termini del problema e nello
    scrupolo dell'esattezza, non è certo documento che il
    problema sia vitale e di importanza eccezionale: è una
    polemica di piccoli e mediocri giornalisti piú che i
    «dolori del parto» di una nuova civiltà
    letteraria.
    
     
    
     
    
    Il pubblico e la letteratura italiana. In un articolo pubblicato dal
    «Lavoro» e riportato in estratti dalla «Fiera
    Letteraria» del 28 ottobre 1928, Leo Ferrero scrive:
    «Per una ragione o per l'altra si può dire che gli
    scrittori italiani non abbiano piú pubblico. [...] Un
    pubblico infatti vuol dire un insieme di persone, non soltanto che
    compra dei libri, ma soprattutto che ammira degli uomini. Una
    letteratura non può fiorire che in un clima di ammirazione e
    l'ammirazione non è, come si potrebbe credere, il compenso,
    ma lo stimolo del lavoro. [...] Il pubblico che ammira, che ammira
    davvero, di cuore, con gioia, il pubblico che ha la felicità
    di ammirare (niente è piú deleterio dell'ammirazione
    convenzionale) è il piú grande animatore di una
    letteratura. Da molti segni si capisce ahimè che il pubblico
    sta abbandonando gli scrittori italiani».
    
    L'«ammirazione» del Ferrero non è altro che una
    metafora e un «nome collettivo» per indicare il
    complesso sistema di rapporti, la forma di contatto tra una nazione
    e i suoi scrittori. Oggi questo contatto manca, cioè la
    letteratura non è nazionale perché non è
    popolare. Paradosso del tempo attuale. Inoltre non c'è una
    gerarchia nel mondo letterario, cioè manca una
    personalità eminente che eserciti una egemonia culturale.
    Quistione del perché e del come una letteratura sia popolare.
    La «bellezza» non basta: ci vuole un determinato
    contenuto intellettuale e morale che sia l'espressione elaborata e
    compiuta delle aspirazioni piú profonde di un determinato
    pubblico, cioè della nazione-popolo in una certa fase del suo
    sviluppo storico. La letteratura deve essere nello stesso tempo
    elemento attuale di civiltà e opera d'arte, altrimenti alla
    letteratura d'arte viene preferita la letteratura d'appendice che, a
    modo suo, è un elemento attuale di cultura, di una cultura
    degradata quanto si vuole ma sentita vivamente.
    
     
    
     
    
    La cultura nazionale italiana. Nella Lettera a Umberto Fracchia
    sulla critica («Pègaso», agosto 1930) Ugo Ojetti
    fa due osservazioni notevoli. 1) Ricorda che il Thibaudet divide la
    critica in tre classi: quella dei critici di professione, quella
    degli stessi autori e quella «des honnêtes gens»,
    cioè del pubblico «illuminato», che alla fine
    è la vera Borsa dei valori letterari, visto che in Francia
    esiste un pubblico largo ed attento a seguire tutte le vicende della
    letteratura. In Italia mancherebbe la critica del pubblico
    (cioè mancherebbe o sarebbe troppo scarso un pubblico medio
    illuminato come esiste in Francia), «manca la persuasione o,
    se si vuole, l'illusione che questi (lo scrittore) compia opera
    d'importanza nazionale, anzi, i migliori, storica, perché,
    come ella (il Fracchia) dice "ogni anno e ogni giorno che passa ha
    ugualmente la sua letteratura, e cosí è sempre stato,
    e cosí sarà sempre, ed è assurdo aspettare o
    pronosticare o invocare per domani ciò che oggi è.
    Ogni secolo, ogni porzione di secolo, ha sempre esaltato le proprie
    opere; è anzi stato portato se mai ad esagerarne
    l'importanza, la grandezza, il valore e la durata". Giusto, ma non
    in Italia ecc.». (L'Ojetti prende lo spunto dalla lettera
    aperta di Umberto Fracchia a S. E. Gioacchino Volpe, pubblicata
    nell'«Italia Letteraria» del 22 giugno 1930 e che si
    riferisce al discorso del Volpe tenuto nella seduta dell'Accademia
    in cui furono distribuiti dei premi. Il Volpe aveva detto, fra
    l'altro: «Non si vedono spuntare grandi opere pittoriche,
    grandi opere storiche, grandi romanzi. Ma chi guarda attentamente,
    vede nella presente letteratura forze latenti, aneliti all'ascesa,
    alcune buone e promettenti realizzazioni»).
    
    2) L'altra osservazione dell'Ojetti è questa: «La
    scarsa popolarità della nostra letteratura passata,
    cioè dei nostri classici. È vero: nella critica
    inglese e francese si leggono spesso paragoni tra gli autori viventi
    e i classici ecc. ecc.». Questa osservazione è
    fondamentale per un giudizio storico sulla presente cultura
    italiana: il passato non vive nel presente, non è elemento
    essenziale del presente, cioè nella storia della cultura
    nazionale non c'è continuità e unità.
    L'affermazione di una continuità ed unità è
    solo un'affermazione retorica o ha valore di mera propaganda
    suggestiva, è un atto pratico, che tende a creare
    artificialmente ciò che non esiste, non è una
    realtà in atto. (Una certa continuità e unità
    parve esistere dal Risorgimento fino al Carducci e al Pascoli, per i
    quali era possibile un richiamo fino alla letteratura latina; furono
    spezzate col D'Annunzio e successori). Il passato, compresa la
    letteratura, non è elemento di vita, ma solo di cultura
    libresca e scolastica; ciò che poi significa che il
    sentimento nazionale è recente, se addirittura non conviene
    dire che esso è solo ancora in via di formazione,
    riaffermando che in Italia la letteratura non è mai stata un
    fatto nazionale, ma di carattere «cosmopolitico».
    
    Dalla lettera aperta di Umberto Fracchia a S. E. G. Volpe si possono
    estrarre altri brani tipici: «Solo un po' [piú] di
    coraggio, di abbandono (!), di fede (!) basterebbero per trasformare
    l'elogio a denti stretti che Ella ha fatto della presente
    letteratura in un elogio aperto ed esplicito; per dire che la
    presente letteratura italiana ha forze non solo latenti, ma anche
    scoperte, visibili (!) le quali non aspettano (!) che di essere
    vedute (!) e riconosciute da quanti le ignorano, ecc. ecc.».
    Il Volpe aveva un po' «sul serio» parafrasato i versi
    giocosi del Giusti: «Eroi, eroi, che fate voi? – Ponziamo il
    poi!», e il Fracchia si lamenta miserevolmente che non siano
    riconosciute ed apprezzate le ponzature come ponzature.
    
    Il Fracchia parecchie volte ha minacciato gli editori che stampano
    troppe traduzioni di misure legislative-corporative che proteggano
    gli scrittori italiani (è da ricordare l'ordinanza del
    sottosegretario agli Interni on. Bianchi, poi
    «interpretata» e di fatto revocata, e che era connessa a
    una campagna giornalistica del Fracchia). Il ragionamento del
    Fracchia già citato: ogni secolo, ogni frazione di secolo ha
    la sua letteratura, non solo, ma la esalta; tanto che le storie
    letterarie hanno dovuto mettere a posto molte opere esaltatissime e
    che oggi si riconosce non valgono nulla. All'ingrosso il fatto
    è giusto, ma se ne deve dedurre che l'attuale periodo
    letterario non sa interpretare il suo tempo, è staccato dalla
    vita nazionale effettiva, sicché neanche per «ragioni
    pratiche» vengono esaltate opere che poi magari potrebbero
    essere riconosciute artisticamente nulle perché la loro
    «praticità» sarà stata superata. Ma
    è vero che non ci siano libri molto letti? ci sono, ma sono
    stranieri e ce ne sarebbero di piú se fossero tradotti, come
    i libri di Remarque, ecc. Realmente il tempo presente non ha una
    letteratura aderente ai suoi bisogni piú profondi ed
    elementari, perché la letteratura esistente, salvo rare
    eccezioni, non è legata alla vita popolare-nazionale, ma a
    gruppi ristretti che della vita nazionale sono le mosche cocchiere.
    Il Fracchia si lamenta della critica, che si pone solo dal punto di
    vista dei grandi capolavori, che si è rarefatta nella
    perfezione delle teorie estetiche ecc. Ma se i libri fossero
    esaminati da un punto di vista di storia della cultura, si
    lamenterebbe lo stesso e peggio, perché il contenuto
    ideologico e culturale dell'attuale letteratura è quasi zero,
    ed è, per di piú, contraddittorio e discretamente
    gesuitico.
    
    Non è neanche vero (come ha scritto l'Ojetti nella lettera al
    Fracchia) che in Italia non esista una «critica del
    pubblico»; esiste, ma a suo modo, perché il pubblico
    legge molto e quindi sceglie tra ciò che esiste a sua
    disposizione. Perché questo pubblico preferisce ancora
    Alessandro Dumas e Carolina Invernizio e si getta avidamente sui
    romanzi gialli? D'altronde questa critica del pubblico italiano ha
    una sua organizzazione, che è rappresentata dagli editori,
    dai direttori di quotidiani e periodici popolari; si manifesta nella
    scelta delle appendici; si manifesta nella traduzione di libri
    stranieri e non solo attuali, ma vecchi, molto vecchi; si manifesta
    nei repertori delle compagnie teatrali ecc. Né si tratta di
    esotismo al cento per cento, perché in musica lo stesso
    pubblico vuole Verdi, Puccini, Mascagni, che non hanno i
    corrispondenti nella letteratura, evidentemente. Non solo; ma
    all'estero Verdi, Puccini, Mascagni sono preferiti spesso dai
    pubblici stranieri ai loro stessi musicisti nazionali e attuali.
    Questo fatto è la riprova piú perentoria che in Italia
    c'è distacco tra pubblico e scrittori e il pubblico cerca la
    «sua» letteratura all'estero, perché la sente
    piú «sua» di quella cosí detta nazionale.
    In questo fatto è posto un problema di vita nazionale
    essenziale. Se è vero che ogni secolo o frazione di secolo ha
    la sua letteratura, non è sempre vero che questa letteratura
    sia prodotta nella stessa comunità nazionale. Ogni popolo ha
    la sua letteratura, ma essa può venirgli da un altro popolo,
    cioè il popolo in parola può essere subordinato
    all'egemonia intellettuale e morale di altri popoli. È questo
    spesso il paradosso piú stridente per molte tendenze
    monopolistiche di carattere nazionalistico e repressivo: che mentre
    si costruiscono piani grandiosi di egemonia, non ci si accorge di
    essere oggetto di egemonie straniere; cosí come, mentre si
    fanno piani imperialistici, in realtà si è oggetto di
    altri imperialismi ecc. D'altronde non si sa se il centro politico
    dirigente non capisca benissimo la situazione di fatto e non cerchi
    di superarla: è certo però che i letterati, in questo
    caso, non aiutano il centro dirigente politico in questi sforzi e i
    loro cervelli vuoti si accaniscono nell'esaltazione nazionalistica
    per non sentire il peso dell'egemonia da cui si dipende e si
    è oppressi.
    
     
    
     
    
    [Polemiche inconcludenti.] Si moltiplicano gli scritti sul distacco
    tra arte e vita. Articolo di Papini, nella «Nuova
    Antologia» del 1° gennaio 1933, articolo di Luigi Chiarini
    nell'«Educazione Fascista» del dicembre 1932. Attacchi
    contro Papini nell'«Italia Letteraria» ecc... Polemiche
    noiose e quanto inconcludenti. Papini è cattolico e
    anticrociano; le contraddizioni del suo superficiale scritto
    risultano da questa doppia qualità. In ogni modo questo
    rinnovarsi delle polemiche (alcuni articoli di «Critica
    Fascista», quelli di Gherardo Casini e uno di Bruno Spampanato
    contro gli intellettuali sono i piú notevoli e si avvicinano
    di piú al nocciolo della quistione) è sintomatico e
    mostra come si senta il disagio per il contrasto tra le parole e i
    fatti, tra le affermazioni recise e la realtà che le
    contraddice.
    
    Pare però che oggi sia piú possibile far riconoscere
    la realtà della situazione: c'è indubbiamente
    piú buona volontà di comprendere, piú
    spregiudicatezza ed esse sono date dal diffuso spirito antiborghese
    anche se generico e di origini spurie. Per lo meno si vorrebbe
    creare una effettiva unità nazionale-popolare, anche se con
    mezzi estrinseci, pedagogici, scolastici, col
    «volontarismo»: per lo meno si sente che questa
    unità manca e che tale mancanza è una debolezza
    nazionale e statale. Ciò differenzia radicalmente l'attuale
    epoca da quella degli Ojetti, dei Panzini e C. Perciò nella
    trattazione di questa rubrica conviene tenerne conto. Le debolezze,
    d'altronde, sono evidenti: la prima è quella dell'essere
    persuasi che sia avvenuto un rivolgimento radicale
    popolare-nazionale; se è avvenuto, vuol dire che non si deve
    far nulla piú oltre di radicale, ma che si tratta solo di
    «organizzare», educare, ecc.; tutt'al piú si
    parla di «rivoluzione permanente» ma in significato
    ristretto, nella solita accezione che tutta la vita è
    dialettica, è milizia, quindi rivoluzione. Le altre debolezze
    sono di piú difficile comprensione: esse infatti possono
    risultare solo da una esatta analisi della composizione sociale
    italiana, da cui risulta che la grande massa degli intellettuali
    appartiene a quella borghesia rurale, la cui posizione economica
    è possibile solo se le masse contadine sono spremute fino
    alle midolla. Quando dalle parole si dovesse passare ai fatti
    concreti, questi significherebbero una distruzione radicale della
    base economica di questi gruppi intellettuali.
    
     
    
     
    
    [Ciò che è «interessante» nell'arte.]
    Bisognerà fissare bene ciò che deve intendersi per
    «interessante» nell'arte in generale e specialmente
    nella letteratura narrativa e nel teatro. L'elemento
    «interessante» muta secondo gli individui o i gruppi
    sociali o la folla in generale: è quindi un elemento della
    cultura, non dell'arte, ecc. Ma è perciò un fatto
    completamente estraneo e separato dall'arte? Intanto l'arte stessa
    interessa, è interessante cioè per se stessa, in
    quanto soddisfa una esigenza della vita. Ancora: oltre questo
    carattere piú intimo all'arte di essere interessante per se
    stessa, quali altri elementi di «interesse» può
    presentare un'opera d'arte, per esempio un romanzo o un poema o un
    dramma? Teoricamente infiniti. Ma quelli che
    «interessano» non sono infiniti: sono precisamente solo
    gli elementi che si ritiene contribuiscano piú direttamente
    alla «fortuna» immediata o mediata (in primo grado) del
    romanzo, del poema, del dramma. Un grammatico si può
    interessare ad un dramma di Pirandello perché vuol sapere
    quanti elementi lessicali, morfologici e sintattici di marca
    siciliana il Pirandello introduce o può introdurre nella
    lingua italiana letteraria: ecco un elemento
    «interessante» che non contribuirà molto alla
    diffusione del dramma in parola. I «metri barbari» del
    Carducci erano un elemento «interessante» per una
    cerchia piú vasta, per la corporazione dei letterati di
    professione, e per quelli che intendevano diventarlo: furono dunque
    un elemento di «fortuna» immediata già notevole,
    contribuirono a diffondere qualche migliaia di copie dei versi
    scritti in metri barbari. Questi elementi «interessanti»
    variano secondo i tempi, i climi culturali e secondo le
    idiosincrasie personali.
    
    L'elemento piú stabile di «interesse» è
    certamente l'interesse «morale» positivo o negativo,
    cioè per adesione o per contraddizione: «stabile»
    in un certo senso, cioè nel senso della «categoria
    morale», non del contenuto concreto morale. Strettamente
    legato a questo è l'elemento «tecnico» in un
    certo senso particolare, cioè «tecnico» come modo
    di far capire nel modo piú immediato e piú drammatico
    il contenuto morale, il contrasto morale del romanzo, del poema, del
    dramma: cosí abbiamo nel dramma i «colpi» di
    scena, nel romanzo l'«intrigo» prevalente, ecc. Tutti
    questi elementi non sono necessariamente «artistici», ma
    non sono neanche necessariamente non artistici. Dal punto di vista
    dell'arte essi sono in un certo senso «indifferenti»,
    cioè extra-artistici: sono dati di storia della cultura e da
    questo punto di vista devono essere valutati.
    
    Che ciò avvenga, che cosí sia, è appunto
    provato dalla cosí detta letteratura mercantile, che è
    una sezione della letteratura popolare-nazionale: il carattere
    «mercantile» è dato dal fatto che l'elemento
    «interessante» non è «ingenuo»,
    «spontaneo», intimamente fuso nella concezione
    artistica, ma ricercato dall'esterno, meccanicamente, dosato
    industrialmente come elemento certo di «fortuna»
    immediata. Ciò significa, in ogni caso, però, che
    anche la letteratura commerciale non dev'essere trascurata nella
    storia della cultura: essa anzi ha un valore grandissimo proprio da
    questo punto di vista, perché il successo di un libro di
    letteratura commerciale indica (e spesso è il solo indicatore
    esistente) quale sia la «filosofia dell'epoca»,
    cioè quale massa di sentimenti e di concezioni del mondo
    predomini nella moltitudine «silenziosa». Questa
    letteratura è uno «stupefacente» popolare,
    è un «oppio». (Da questo punto di vista si
    potrebbe fare un'analisi del Conte di Montecristo di A. Dumas, che
    è forse il piú «oppiaceo» dei romanzi
    popolari: quale uomo del popolo non crede di aver subito
    un'ingiustizia dai potenti e non fantastica sulla
    «punizione» da infliggere loro? Edmondo Dantès
    gli offre il modello, lo «ubbriaca» di esaltazione,
    sostituisce il credo di una giustizia trascendente in cui non crede
    piú «sistematicamente»).
    
     
    
    Cfr. l'articolo Dell'interesse di Carlo Linati nei «Libri del
    giorno» del febbraio 1929. Il Linati si domanda in che
    consista quel «quid» per cui i libri interessano e
    finisce col non trovare una risposta. Ed è certo che una
    risposta precisa non si può trovare, nel senso almeno che
    intende il Linati, il quale vorrebbe trovare il «quid»
    per essere in grado o per mettere gli altri in grado di scrivere
    libri interessanti. Il Linati dice che il problema in questi ultimi
    tempi è diventato «scottante» ed è vero,
    come è naturale che sia. C'è stato un certo risveglio
    di sentimenti nazionalistici: è spiegabile che si ponga il
    problema del perché i libri italiani non siano letti, del
    perché essi siano ritenuti «noiosi» e
    «interessanti» invece quelli stranieri, ecc. Il
    risveglio nazionalistico fa sentire che la letteratura italiana non
    è «nazionale» nel senso che non è popolare
    e che si subisce come popolo l'egemonia straniera. Onde programmi,
    polemiche, tentativi, che non riescono però in nulla. Sarebbe
    necessaria una critica spietata della tradizione e un rinnovamento
    culturale-morale da cui dovrebbe nascere una nuova letteratura. Ma
    ciò appunto non può avvenire per la contraddizione
    ecc.: risveglio nazionalistico ha assunto il significato di
    esaltazione del passato. Marinetti è diventato accademico e
    lotta contro la tradizione della pastasciutta.
    
     
    
    Cfr. l'articolo di Piero Rébora, Libri italiani ed editori
    inglesi, nell'«Italia che scrive» del marzo 1932.
    Perché la letteratura italiana contemporanea non ha quasi
    corso in Inghilterra: «Scarsa capacità di obiettiva
    narrazione e d'osservazione, egocentrismo morboso, antiquata
    ossessione erotica; ed insieme, caos linguistico e stilistico, pel
    quale molti nostri libri son scritti tuttora con torbido
    impressionismo lirico che infastidisce il lettore italiano e
    stordisce uno straniero. Centinaia di vocaboli usati dagli scrittori
    contemporanei non si trovano nei vocabolari e nessuno sa quello che
    significhino esattamente». «Sopratutto, forse,
    rappresentazione dell'amore e della donna piú o meno
    incomprensibile per gli anglo-sassoni, verismo provinciale
    semi-vernacolo, mancanza di unità linguistica e
    stilistica». «Occorrono libri di tipo europeo, non di
    trito verismo provinciale». «L'esperienza m'insegna che
    il lettore straniero (e probabilmente anche l'italiano) trova nei
    nostri libri spesso qualcosa di caotico, di urtante, di ripugnante
    quasi, inseritosi chissà come qua e là, in mezzo a
    pagine invece ammirevoli, rivelanti un ingegno solido e
    profondo». «Vi sono romanzi, libri di prose, commedie
    riuscitissime, che sono irremissibilmente guastate da due o tre
    pagine, da una scena, da qualche battuta magari, di sconcertante
    volgarità, sciatteria, disgustosità; che rovina
    tutto». «... Il fatto rimane che un professore italiano
    all'estero non riesce, anche con la maggior buona volontà, a
    mettere insieme una dozzina di buoni libri italiani contemporanei,
    che non contengano qualche pagina disgustosa, discreditante,
    [disastrosa] per la nostra elementare dignità, penosamente
    triviale, che è meglio non metter sotto il naso di
    intelligenti lettori stranieri. Taluni hanno il malvezzo di chiamare
    tali pudori e tali disgusti con l'infamante nome di "puritanismo";
    mentre invece si tratta solo ed unicamente di "buon gusto"».
    
    L'editore, secondo il Rébora, dovrebbe intervenire di
    piú nel fatto letterario, e non essere solo un
    commerciante-industriale, funzionando da prima istanza
    «critica», specialmente per quanto riguarda la
    «socialità» del lavoro ecc.
    
     
    
     
    
    [Un saggio di Giuseppe Antonio Borgese.] Cfr. il saggio di G. A.
    Borgese Il senso della letteratura italiana nella «Nuova
    Antologia» del 1° gennaio 1930. «Un epiteto, un
    motto, non può riassumere lo spirito di un'epoca o di un
    popolo, ma giova qualche volta come riferimento o appiglio
    mnemonico. Per la letteratura francese si suol dire: grazia, ovvero:
    chiarezza, logica. Si potrebbe dire: cavalleresca lealtà
    dell'analisi. Diremmo per la letteratura inglese: lirismo
    dell'intimità; per la tedesca: audacia della libertà;
    per la russa: coraggio della verità. Le parole di cui
    possiamo servirci per la letteratura italiana sono quelle appunto
    che ci sono servite per questi ricordi visivi: maestà,
    magnificenza, grandezza». Insomma il Borgese trova che il
    carattere della letteratura italiana è
    «teologico-assoluto-metafisico-antiromantico» ecc., e
    forse, il suo linguaggio da ierofante si potrebbe appunto tradurre
    nel giudizio in parole povere che la letteratura italiana è
    staccata dallo sviluppo reale del popolo italiano, è di
    casta, non sente il dramma della storia, non è cioè
    popolare-nazionale.
    
    Parla del libro del Bonghi: «L'autore e i suoi amici si
    accorsero presto, ma troppo tardi per correggere un titolo divenuto
    in breve tempo eccessivamente famoso, che il piccolo libro avrebbe
    dovuto intitolarsi piuttosto: perché la prosa italiana non
    sia popolare in Italia. Questo appunto è debole relativamente
    nella letteratura italiana: la prosa, o, meglio ancora che la prosa
    intesa come genere letterario e ritmo verbale, diremo il senso del
    prosaico: l'interesse, la curiosità osservatrice, l'amore
    paziente per la vita storica e contingente quale si svolge sotto i
    nostri occhi, per il mondo nel suo divenire, per l'attuazione
    drammatica e progressiva del divino».
    
    È interessante poco prima un brano sul De Sanctis e il
    rimprovero buffo: «Vedeva vivere la letteratura italiana da
    piú di sei secoli e le chiedeva di nascere». In
    realtà il De Sanctis voleva che la «letteratura»
    si rinnovasse perché si erano rinnovati gli italiani,
    perché sparito il distacco tra letteratura e vita ecc.
    È interessante osservare che il De Sanctis è
    progressista anche oggi nei confronti dei tanti Borgesi della
    critica attuale.
    
    «La sua limitata popolarità (della letteratura
    italiana), il singolare e quasi aristocratico e appartato genere di
    fortuna che le toccò per tanto tempo, non si spiega soltanto
    (!) con la sua inferiorità: si spiega piú
    completamente (!) con le sue altezze (! altezze mescolate con
    inferiorità!), con l'aria rarefatta in cui si
    sviluppò. Non-popolarità è come dire
    non-divulgazione; conseguenza che discende dalla premessa: odi
    profanum vulgus et arceo. Tutt'altro che popolana e profana, questa
    letteratura nacque sacra, con un poema, che il suo stesso poeta
    chiamò sacro (sacro perché parla di Dio, ma quale
    argomento piú popolare di Dio? E nella Divina Commedia non si
    parla solo di Dio ma anche dei diavoli e della loro "nuova
    cennamella") ecc. ecc.». «Il destino politico, che,
    togliendo all'Italia libertà e potenza materiale, ne fece
    quello che biblicamente, leviticamente, si chiamerebbe un popolo di
    sacerdoti».
    
    Il saggio conchiude, meno male, che il carattere della letteratura
    italiana può cambiare, anzi deve cambiare ecc. ma ciò
    è stonato con il complesso del saggio stesso.
    
     
    
     
    
    [Atteggiamento dello scrittore verso l'ambiente.] Da un articolo di
    Paolo Milano nell'«Italia letteraria» del 27 dicembre
    1931: «Il valore che si dà al contenuto di un'opera
    d'arte non è mai troppo – ha scritto Goethe. Un simile
    aforisma può tornare in mente a chi rifletta sullo sforzo, da
    tante generazioni (?) avviato (sic) e che si sta tuttora compiendo,
    di creare una tradizione del moderno romanzo italiano. Quale
    società, anzi quale ceto dipingere? I tentativi piú
    recenti non consistono forse nel desiderio di uscire dai personaggi
    popolareschi che tengono la scena nell'opera manzoniana e verghiana?
    E le mezze riuscite non si possono forse ricondurre alle
    difficoltà e all'incertezza nel fissare un ambiente (fra alta
    borghesia oziosa e gente minuta e bohème marginale)?».
    
    Il brano è sorprendente per il modo meccanico ed esteriore di
    porre le quistioni. Infatti avviene che «generazioni» di
    scrittori tentino a freddo di fissare l'ambiente da descrivere senza
    con ciò stesso manifestare il loro carattere
    «astorico» e la loro povertà morale e
    sentimentale? Del resto per «contenuto» non basta
    intendere la scelta di un dato ambiente: ciò che è
    essenziale per il contenuto è l'atteggiamento dello scrittore
    e di una generazione verso questo ambiente. L'atteggiamento solo
    determina il mondo culturale di una generazione e di un'epoca e
    quindi il suo stile. Anche nel Manzoni e nel Verga, non i
    «personaggi popolareschi» sono determinanti, ma
    l'atteggiamento dei due scrittori verso di essi, e questo
    atteggiamento è antitetico nei due: nel Manzoni è un
    paternalismo cattolico, una ironia sottintesa, indizio di assenza di
    profondo istintivo amore verso quei personaggi, è un
    atteggiamento dettato da un esteriore sentimento di astratto dovere
    dettato dalla morale cattolica, corretto appunto e vivificato
    dall'ironia diffusa. Nel Verga è un atteggiamento di fredda
    impassibilità scientifica e fotografica, dettata dai canoni
    del verismo applicato piú razionalmente che dallo Zola.
    L'atteggiamento del Manzoni è il piú diffuso nella
    letteratura che rappresenta «personaggi popolareschi» e
    basta ricordare Renato Fucini; esso è ancora di carattere
    superiore, ma si muove su un filo di rasoio e infatti degenera,
    negli scrittori subalterni, nell'atteggiamento
    «brescianesco» stupidamente e gesuiticamente sarcastico.
    
     
    
     
    
    [Gli italiani e il romanzo.] Sarà da vedere un discorso sul
    tema «Gli italiani e il romanzo», tenuto da Angelo Gatti
    e riprodotto in parte dall'«Italia Letteraria» del 9
    aprile 1933. Una notazione interessante pare quella che tocca i
    rapporti tra moralisti e romanzieri in Francia e in Italia. In
    Francia il tipo del moralista è ben diverso da quello
    italiano, che è piuttosto «politico»: l'italiano
    studia come «dominare», come essere piú forte,
    piú abile, piú furbo; il francese come
    «dirigere» e quindi come «comprendere» per
    influenzare e ottenere un «consenso spontaneo e attivo».
    I Ricordi politici e civili del Guicciardini, sono di questo tipo.
    Cosí in Italia grande abbondanza di libri come il Galateo, in
    cui si bada all'atteggiamento esteriore delle classi alte. Nessun
    libro come quelli dei grandi moralisti francesi (o di ordine
    subalterno come in Gaspare Gozzi), con le loro analisi raffinate e
    capillari. Questa differenza nel «romanzo» che in Italia
    è piú esteriore, gretto, senza contenuto umano
    nazionale-popolare o universale.
    
     
    
     
    
    Il sentimento «attivo» nazionale degli scrittori.
    Estratto dalla Lettera a Piero Parini sugli scrittori sedentari di
    Ugo Ojetti (nel «Pègaso» del settembre 1930):
    «Come mai noi italiani che abbiamo portato su tutta la terra
    il nostro lavoro e non soltanto il lavoro manuale, e che da
    Melbourne a Rio, da S. Francisco a Marsiglia, da Lima a Tunisi
    abbiamo dense colonie nostre, siamo i soli a non avere romanzi in
    cui i nostri costumi e la nostra coscienza siano rivelati in
    contrasto con la coscienza e i costumi di quelli stranieri fra i
    quali siamo capitati a vivere, a lottare, a soffrire, e talvolta
    anche a vincere? D'italiani, in basso e in alto, manovali o
    banchieri, minatori o medici, camerieri o ingegneri, muratori o
    mercanti, se ne trovano in ogni angolo del mondo. La letteratissima
    letteratura nostra li ignora, anzi li ha sempre ignorati. Se non
    v'è romanzo o dramma senza un progrediente contrasto d'anime,
    quale contrasto piú profondo e concreto di questo tra due
    razze, e la piú antica delle due, la piú ricca
    cioè d'usi e riti immemorabili, spatriata e ridotta a vivere
    senza altro soccorso che quello della propria energia e
    resistenza?».
    
    Molte osservazioni o aggiunte da fare. In Italia è sempre
    esistita una notevole massa di pubblicazioni sull'emigrazione, come
    fenomeno economico-sociale. Non corrisponde una letteratura
    artistica: ma ogni emigrante racchiude in sé un dramma,
    già prima di partire dall'Italia. Che i letterati non si
    occupino dell'emigrato all'estero dovrebbe far meno meraviglia del
    fatto che non si occupano di lui prima che emigri, delle condizioni
    che lo costringono a emigrare ecc.; che non si occupino cioè
    delle lacrime e del sangue che in Italia, prima che all'estero, ha
    voluto dire l'emigrazione in massa. D'altronde occorre dire che se
    è scarsa (e per lo piú retorica) la letteratura sugli
    italiani all'estero, è scarsa anche la letteratura sui paesi
    stranieri. Perché fosse possibile, come scrive l'Ojetti,
    rappresentare il contrasto tra italiani immigrati e le popolazioni
    dei paesi d'immigrazione, occorrerebbe conoscere e questi paesi e...
    gli italiani.
    
     
    
     
    
    [Enrico Thovez.] Nel trattare questa quistione ma specialmente nel
    fare la storia dell'atteggiamento di tutta una serie di letterati e
    di critici, che sentivano la falsità della tradizione e il
    suono falso della sua intima retorica, della sua non aderenza con la
    realtà storica, non bisogna dimenticare Enrico Thovez, il suo
    libro Il pastore, il gregge, la zampogna. La reazione del Thovez non
    è stata giusta, ma importa in questo caso che egli abbia
    reagito, cioè che abbia sentito almeno che qualcosa non
    andava.
    
    La sua distinzione tra poesia di forma e poesia di contenuto era
    falsa teoricamente: la poesia cosí detta di forma è
    caratterizzata dall'indifferenza del contenuto, cioè
    dall'indifferenza morale, ma è anche questo un
    «contenuto», il «vuoto storico e morale dello
    scrittore». Il Thovez in gran parte si riattaccava al De
    Sanctis, per il suo aspetto di «innovatore della
    cultura» italiana ed è da ritenere insieme alla
    «Voce» una delle forze che lavoravano, caoticamente a
    dire il vero, per una riforma intellettuale e morale nel periodo
    prima della guerra.
    
    Sul Thovez bisognerebbe vedere anche le polemiche che suscitò
    col suo atteggiamento. Nell'articolo Enrico Thovez poeta e il
    problema della formazione artistica di Alfonso Ricolfi nella
    «Nuova Antologia» del 16 agosto 1929 c'è qualche
    spunto utile, ma troppo poco. Bisognerebbe trovare l'articolo di
    Prezzolini Thovez il precursore.
    
     
    
     
    
    Giovanni Cena. La figura di Cena deve essere studiata sotto due
    punti di vista: come scrittore e poeta «popolare» (cfr.
    Ada Negri) e come uomo attivo nel cercare di creare istituzioni per
    l'educazione dei contadini (scuole dell'Agro Romano e delle Paludi
    Pontine, fondate con Angelo e Anna Celli). Il Cena nacque a
    Montanaro Canavese il 12 gennaio 1870, morí a Roma il 7
    dicembre 1917. Nel 1900-1901 fu corrispondente della «Nuova
    Antologia» a Parigi e a Londra. Nel 1902 redattore-capo della
    rivista fino alla morte. Discepolo di Arturo Graf. (Nei Candidati
    all'Immortalità di Giulio De Frenzi è pubblicata una
    lettera autobiografica del Cena). Ricordare l'articolo del Cena Che
    fare? pubblicato dalla «Voce» nel 1912 (mi pare).
    
     
    
    Sul Cena è molto interessante l'articolo di Arrigo Cajumi Lo
    strano caso di Giovanni Cena («Italia letteraria», 24
    novembre 1929).
    
    Del Cajumi sarà utile ricercare le raccolte di articoli; il
    Cajumi è molto capace nel trovare certi nessi nel mondo della
    cultura italiana. Del Cajumi occorre ricordare la quistione di
    Arrigo ed Enrico: Enrico segretario di redazione dell'«Italia
    Nostra» il settimanale dei neutralisti intellettuali del
    1914-15 e direttore dell'«Ambrosiano» nel periodo in cui
    l'«Ambrosiano» era controllato da Gualino; mi pare che
    nel giornale, come direttore responsabile, firmasse cav. o comm.
    Enrico Cajumi; Arrigo, scrittore di articoli letterari e di cultura
    nella «Stampa», corrispondente della
    «Stampa» da Ginevra, durante le sessioni della S. d. N.,
    esaltatore della politica e dell'oratoria di Briand. Perché
    questo cambiamento di Arrigo in Enrico e di Enrico in Arrigo? Il
    Cajumi era in terz'anno della Università di Torino quando io
    ero in primo anno: era un giovane brillante come studente e come
    conversatore. Ricordare l'episodio di Berra, nel '18 o '19,
    cioè appena nella «Stampa» cominciò ad
    apparire la firma di Arrigo Cajumi; il Berra mi raccontò
    d'aver incontrato Enrico Cajumi e di aver parlato con lui di questi
    articoli: il Cajumi si mostrava offeso che lo si potesse credere
    l'autore per l'Enrico-Arrigo. Dall'Università di Torino il
    Cajumi si trasferí nel '12-13 all'Università di Roma e
    divenne amico, oltre che allievo di Cesare De Lollis,
    specializzandosi nella letteratura francese. Che si tratti della
    stessa persona è dimostrato dall'attuale culto di Arrigo per
    il De Lollis e dal fatto che egli è del gruppo che ha
    continuato «La Cultura». Ancora: il Cajumi, col nome di
    Enrico, continuò a firmare l'«Ambrosiano» anche
    quando se ne era allontanato, credo per un ammutinamento della
    redazione; in un articolo della «Stampa» su Marco
    Ramperti, ricordava in questo tempo, di aver conosciuto
    personalmente il Ramperti durante una sua avventura giornalistica, e
    di averlo visto lavorare da vicino: ora il Ramperti era appunto il
    critico drammatico dell'«Ambrosiano». Adesso il Cajumi
    è impiegato presso la ditta Bemporad di Firenze e scrive solo
    articoli di riviste e di letteratura nella «Stampa»
    (credo) e nell'«Italia Letteraria».
    
    Dall'articolo su Cena stralcio qualche brano: «Nato nel 1870,
    morto nel 1917, Giovanni Cena ci appare come una figura
    rappresentativa del movimento intellettuale che la parte migliore
    della nostra borghesia compí al rimorchio delle nuove idee
    che venivano di Francia e di Russia; con un apporto personalmente
    piú amaro ed energico, causato dalle origini proletarie (! o
    contadine?) e dagli anni di miseria. Autodidatta uscito per miracolo
    dall'abbrutimento del lavoro paterno e del natio paesello, Cena
    entrò inconsciamente nella corrente che in Francia –
    proseguendo una tradizione (!) derivata (!) da Proudhon via via (!)
    attraverso Vallès e i comunardi sino ai Quatre
    évangiles zoliani, all'affare Dreyfus, alle Università
    popolari di Daniel Halévy e che oggi continua in
    Guéhenno (!) (piuttosto in Pierre Dominique e in altri) – fu
    definita come l'andata al popolo (il Cajumi trasporta nel passato
    una parola d'ordine odierna, dei populisti; nel passato tra popolo e
    scrittori in Francia non ci fu mai scissione dopo la Rivoluzione
    francese e fino a Zola: la reazione simbolista scavò un fosso
    tra popolo e scrittori, tra scrittori e vita e Anatole France
    è il tipo piú compiuto di scrittore libresco e di
    casta). Il nostro (Cena) veniva dal popolo, di qui
    l'originalità (!) della sua posizione, ma l'ambiente della
    lotta era sempre lo stesso, quello dove si affermò il
    socialismo di un Prampolini. Era la seconda generazione
    piccolo-borghese dopo l'unità italiana (della prima ha
    scritto magistralmente la cronistoria Augusto Monti nei
    Sansoussî), estranea alla politica delle classi conservatrici
    dominanti, in letteratura piú connessa al De Amicis o allo
    Stecchetti che al Carducci, lontana da d'Annunzio, e che
    preferirà formarsi su Tolstoi, considerato piuttosto come
    pensatore che quale artista, scoprirà Wagner, crederà
    vagamente ai simbolisti, alla poesia sociale (simbolisti e poesia
    sociale?), alla pace perpetua, insulterà i governanti
    perché poco idealisti, e non si ridesterà dai suoi
    sogni neppure per le cannonate del 1914» (un po' di maniera e
    stiracchiato tutto ciò). «Cresciuto fra incredibili
    stenti, sapeva di essere anfibio, né borghese, né
    popolano: "Come mi facessi un'istruzione accademica e prendessi
    diplomi, è cosa che mi fa perdere spesso ogni calma a
    pensarci. E quando, pensandoci, sento che potrò perdonare,
    allora ho veramente il senso di essere un vittorioso". "Sento
    profondamente che soltanto lo sfogo della letteratura e la fede nel
    suo potere di liberazione e di elevazione mi hanno salvato dal
    diventare un Ravachol"».
    
    Nel primo abbozzo degli Ammonitori il Cena immaginò che il
    suicida si gettasse sotto un'automobile reale, ma nell'edizione
    definitiva non mantenne la scena: «... Studioso di cose
    sociali, estraneo a Croce, a Missiroli, Jaurès, Oriani, alle
    vere esigenze del proletariato settentrionale che lui, contadino,
    non poteva sentire. Torinese, era ostile al giornale che
    rappresentava la borghesia liberale, anzi socialdemocratica. Di
    sindacalismo non v'è traccia, di Sorel manca il nome. Il
    modernismo non lo preoccupava». Questo brano mostra quanto sia
    superficiale la cultura politica del Cajumi. Il Cena è volta
    a volta popolano, proletario, contadino. La «Stampa»
    è socialdemocratica, anzi esiste una borghesia torinese
    socialdemocratica: il Cajumi imita in ciò certi uomini
    politici siciliani che fondavano partiti democratici sociali, o
    addirittura laburisti e cade nel tranello di molti pubblicisti da
    ridere che hanno cucinato la parola socialdemocrazia in tutte le
    salse. Il Cajumi dimentica che a Torino la «Stampa» era,
    prima della guerra, a destra della «Gazzetta del
    Popolo», giornale democratico moderato. È poi grazioso
    l'accoppiamento Croce-Missiroli-Jaurès-Oriani per gli studi
    sociali.
    
    Nello scritto Che fare? il Cena voleva fondere i nazionalisti coi
    filosocialisti come lui; ma in fondo tutto questo socialismo piccolo
    borghese alla De Amicis non era un embrione di socialismo nazionale,
    o nazionalsocialismo, che ha cercato di farsi strada in tanti modi
    in Italia e che ha trovato nel dopoguerra un terreno propizio?
    
     
    
    Sull'attività svolta dal Cena per le scuole dei contadini
    dell'Agro Romano sono da vedere le pubblicazioni di Alessandro
    Marcucci. (Il Cena intendeva proprio «andare al popolo»;
    è interessante vedere come praticamente cercò di
    attuare il suo proposito, perché ciò mostra cosa
    poteva intendere un intellettuale italiano, d'altronde pieno di
    buone intenzioni, per «amore per il popolo»).
    
     
    
     
    
    Gino Saviotti. Sul carattere antipopolare o almeno
    apopolare-nazionale della letteratura italiana hanno scritto e
    continuano a scrivere molti letterati. Ma in queste scritture
    l'argomento non è posto nei suoi termini reali e le
    conclusioni concrete sono spesso stupefacenti. Per esempio di Gino
    Saviotti, che volentieri scrive contro la letteratura dei letterati,
    si trova citato nell'«Italia Letteraria» del 24 agosto
    1930 questo brano riportato da un articolo pubblicato
    nell'«Ambrosiano» del 15 agosto: «Buon Parini, si
    capisce perché avete sollevato la poesia italiana, ai vostri
    tempi. Le avete dato la serietà che le mancava, avete
    trasfuso nelle sue aride vene il vostro buon sangue popolano. Vi
    sieno rese grazie anche in questo giorno dopo centotrentun'anni
    dalla vostra morte. Ci vorrebbe un altro uomo come voi, oggi, nella
    nostra cosí detta poesia!». Nel 1934 è stato
    dato al Saviotti un premio letterario (una parte del premio
    Viareggio) per un romanzo in cui si rappresenta lo sforzo di un
    popolano per diventare «artista» (cioè per
    diventare «artista professionale», non essere piú
    «popolano», ma innalzarsi al rango degli intellettuali
    di professione): argomento essenzialmente «antipopolare»
    ed esaltazione della casta, come modello di vita
    «superiore»: ciò che di piú vecchio e
    stantío può trovarsi nella tradizione italiana.
    
     
    
     
    
    La «scoperta» di Italo Svevo. Italo Svevo fu rivelato al
    pubblico dei letterati italiani da James Joyce, che lo aveva
    conosciuto personalmente a Trieste (tuttavia è da ricordare
    che Italo Svevo aveva scritto qualche volta nella «Critica
    Sociale» intorno al 1900).
    
    Commemorando lo Svevo, la «Fiera Letteraria» sostenne
    che prima di questa rivelazione c'era stata la
    «scoperta» italiana: «In questi giorni parte della
    stampa italiana ha ripetuto l'errore della "scoperta francese"
    (cioè dovuta al Crémieux, al quale però dello
    Svevo aveva parlato il Joyce, quindi la «Fiera
    Letteraria» gioca sull'equivoco); anche i maggiori giornali
    par che ignorino ciò che pure è stato detto e ripetuto
    a tempo debito. È dunque necessario scrivere ancora una volta
    che gli italiani colti furono per i primi informati dell'opera dello
    Svevo; e che per merito di Eugenio Montale, il quale ne scrisse
    sulle riviste l'"Esame" e il "Quindicinale", lo scrittore triestino
    ebbe in Italia il primo e legittimo riconoscimento. Con ciò
    non si vuol togliere agli stranieri nulla di quanto spetta loro;
    soltanto, ci par giusto che nessuna ombra offuschi la
    sincerità e, diciamo pure, la fierezza (!!) del nostro
    omaggio all'amico scomparso». («Fiera Letteraria»
    del 23 settembre 1928 – lo Svevo era morto il 13 settembre – in un
    editoriale introduttivo a un articolo del Montale Ultimo addio, e a
    uno di Giovanni Comisso, Colloquio). Ma questa prosetta untuosa e
    gesuitesca è in contraddizione con ciò che afferma
    Carlo Linati, nella «Nuova Antologia» del 1°
    febbraio 1928 (Italo Svevo, romanziere): «Due anni fa,
    trovandomi a prender parte alla serata di un club intellettuale
    milanese, ricordo che ad un certo punto entrò un giovane
    scrittore tornato allora allora da Parigi, il quale dopo aver
    discorso a lungo con noi di un pranzo del Pen Club offerto a
    Pirandello dai letterati parigini, aggiunse che alla fine di esso il
    celebre romanziere irlandese James Joyce, chiacchierando con lui
    della letteratura italiana moderna, gli aveva detto: – Ma voialtri
    italiani avete un grande prosatore e forse neanche lo sapete –
    Quale? – Italo Svevo, triestino». Il Linati dice che nessuno
    conosceva quel nome, come non lo conosceva il giovane letterato che
    aveva parlato col Joyce. Il Montale riuscí finalmente a
    «scoprire» una copia di Senilità e ne scrisse
    sull'«Esame». Ecco come i letterati italiani hanno
    «scoperto» Svevo «fieramente». Si tratta di
    un puro caso? Non pare. Per la «Fiera Letteraria» sono
    da ricordare almeno altri due «casi», quello degli
    Indifferenti di Moravia e quello del Malagigi di Nino Savarese, di
    cui parlò solo dopo che fu indicato da un concorso a premio
    letterario. In realtà questa gente si infischia della
    letteratura e della poesia, della cultura e dell'arte: esercita la
    professione di sacrestano letterario e nulla piú.
    
     
    
     
    
    [Secentismo dell'attuale poesia.] Che una parte della attuale poesia
    sia «puro secentismo» appare per confessione spontanea
    di alcuni critici ortodossi di essa. Per esempio Aldo Capasso in un
    suo saggio su Ungaretti (brano citato in «Leonardo» del
    marzo 1934) scrive: «L'aura attonita non potrebbe formarsi, se
    il poeta fosse meno laconico». L'«aura attonita»
    richiama la famosa definizione che «del poeta il fine è
    la maraviglia». Si può notare tuttavia che il
    secentismo classico, purtroppo, è stato popolare e continua
    ad esserlo tuttora (è noto come all'uomo del popolo piacciano
    le acrobazie d'immagini in poesia), mentre il secentismo attuale
    è popolare fra gli intellettuali puri.
    
    L'Ungaretti ha scritto che le sue poesie piacevano ai suoi compagni
    di trincea «del popolo», e può esser vero:
    piacere di carattere particolare legato al sentimento che la poesia
    «difficile» (incomprensibile) deve esser bella e
    l'autore un grande uomo appunto perché staccato dal popolo e
    incomprensibile: ciò avvenne anche per il futurismo ed
    è un aspetto del culto popolare per gli intellettuali (che in
    verità sono ammirati e disprezzati nello stesso tempo).
    
     
    
     
    
    [Letterati puri.] Il popolo (ohibò!), il pubblico
    (ohibò!). I politici d'avventura domandano con cipiglio di
    chi la sa lunga: «Il popolo! Ma cos'è questo popolo? Ma
    chi lo conosce? Ma chi l'ha mai definito?» e intanto non fanno
    che escogitare trucchi e trucchi per avere le maggioranze elettorali
    (dal '24 al '29 quanti comunicati ci sono stati in Italia per
    annunziare nuovi ritocchi alla legge elettorale? Quanti progetti
    presentati e ritirati di nuove leggi elettorali? Il catalogo sarebbe
    interessante di per sé). Lo stesso dicono i letterati puri:
    «Un vizio portato dalle idee romantiche è quello di
    chiamare a giudice il pubblico. Chi è il pubblico? Chi
    è costui? Questo testone onnisciente, questo gusto squisito,
    quest'assoluta probità, questa perla dov'è?» (G.
    Ungaretti, «Resto del Carlino», 23 ottobre 1929). Ma
    intanto domandano che sia instaurata una protezione contro le
    traduzioni da lingue straniere e quando vendono mille copie di un
    libro fanno suonare le campane del loro paese. Il
    «popolo» però ha dato il titolo a molti
    importanti giornali, proprio di quelli che oggi domandano
    «cosa è questo popolo?» proprio nei giornali che
    si intitolano al popolo.
    
     
    
     
    
    Poesia cosí detta sociale italiana. Rapisardi. Cfr.
    l'articolo molto interessante di Nunzio Vaccalluzzo La poesia di
    Mario Rapisardi nella «Nuova Antologia» del 16 febbraio
    1930. Il Rapisardi fu fatto passare per materialista e anzi per
    materialista storico. È ciò vero? O non piuttosto fu
    egli un «mistico» del naturalismo e del panteismo?
    Però legato al popolo, specialmente al popolo siciliano, alle
    miserie del contadino siciliano ecc.
    
    L'articolo del Vaccalluzzo può servire per iniziare uno
    studio sul Rapisardi anche per le indicazioni che dà.
    Procurarsi un prospetto delle opere del Rapisardi, ecc. Importa
    specialmente la raccolta Giustizia che, dice il Vaccalluzzo, la
    aveva cantata come poeta proletario (!), «piú con
    veemenza di parole che di sentimento»: ma appunto questa
    Giustizia è poesia da democratico-contadino, secondo i miei
    ricordi.
    
     
    
     
    
    Piedigrotta. In un articolo sul «Lavoro» (8 settembre
    1929) Adriano Tilgher scrive che la poesia dialettale napoletana e
    quindi in gran parte la fortuna delle canzoni di Piedigrotta
    è in fiera crisi. Se ne sarebbero essicate le due grandi
    fonti: realismo e sentimentalismo. «Il mutamento di sentimenti
    e di gusti è stato cosí rapido e sconvolgente,
    cosí vorticoso e subitaneo, ed è ancora cosí
    lontano dall'essersi cristallizzato in qualcosa di stabile e di
    duraturo che i poeti dialettali che si avventurano su quelle sabbie
    mobili per tentare di portarle alla durezza e alla chiarezza della
    forma sono condannati a sparirvi dentro senza rimedio».
    
    La crisi di Piedigrotta è veramente un segno dei tempi. La
    teorizzazione di Strapaese ha ucciso strapaese (in realtà si
    voleva fissare un figurino tendenzioso di strapaese assai ammuffito
    e scimunito). E poi l'epoca moderna non è espansiva, è
    repressiva. Non si ride piú di cuore: si sogghigna e si fa
    dell'arguzia meccanica tipo Campanile. La fonte di Piedigrotta non
    si è essicata, è stata essicata perché era
    diventata «ufficiale» e i canzonieri erano diventati
    funzionari (vedi Libero Bovio) (e cfr. l'apologo francese del becco
    funzionario).
    
     
    
     
    
    Letteratura italiana. Contributo dei burocratici. Articolo di Orazio
    Pedrazzi nell'«Italia Letteraria» del 4 agosto 1929: Le
    tradizioni antiletterarie della burocrazia italiana. Il Pedrazzi non
    fa alcune distinzioni necessarie. Non è vero che la
    burocrazia italiana sia cosí «antiletteraria»
    come sostiene il Pedrazzi, mentre è vero che la burocrazia (e
    si vuol dire l'alta burocrazia) non scrive della sua propria
    attività. Le due cose sono diverse: credo anzi che ci sia una
    mania letteraria propria della burocrazia, ma riguarda il
    «bello scrivere», «l'arte», ecc.: forse si
    potrebbe trovare che la grande massa della paccottiglia letteraria
    è dovuta a burocrati. Invece è vero che non esiste in
    Italia (come in Francia e altrove) una letteratura dovuta ai
    funzionari statali (militari e civili) di valore e che riguardi
    l'attività svolta, all'estero, dal personale diplomatico, al
    fronte, dagli ufficiali, ecc.; quella che c'è, per lo
    piú è «apologetica». «In Francia, in
    Inghilterra, generali ed ammiragli scrivono per il loro popolo, da
    noi scrivono solo per i loro superiori». La burocrazia
    cioè non ha un carattere nazionale, ma di casta.
    
     
    
    Ho scritto già una nota su questo argomento, osservando
    quanto poco scrivano i funzionari italiani di ogni categoria,
    intorno a ciò che costituisce la loro specialità e la
    loro particolare attività (se scrivono lo fanno solo per i
    superiori non per il popolo-nazione). Nella «Nuova
    Antologia» del 16 settembre 1929, a p. 267 è detto che
    il libro Nazioni e minoranze etniche (Zanichelli, 2 voll.) è
    stato scritto «da un giovane gentiluomo romano, che, non
    volendo confusi i suoi studi giuridici e storici con i suoi uffici
    diplomatici, ha adottato il nome un poco arcaico di Luca dei
    Sabelli».
    
     
    
     
    
    Daniele Varé, Pagine di un diario in Estremo Oriente,
    «Nuova Antologia» del 16 settembre, 1° e 16 ottobre
    1928. Il Varé è un diplomatico italiano ministro in
    Cina non so di che grado: ha firmato l'accordo tra il governo
    italiano e quello di Ciang-Kai-Sceck nel '28 o '29. Queste pagine di
    diario sono disastrose sia letterariamente che da ogni altro punto
    di vista. Ai diplomatici dovrebbe essere proibita ogni pubblicazione
    (non solo per ciò che riguarda la politica) senza il placet
    di un ufficio speciale di revisione costituito di persone
    intelligenti, perché le loro fesserie extra-diplomatiche
    nuocciono al governo tanto quanto quelle diplomatiche e feriscono il
    prestigio dello Stato che ha dato loro incarichi di rappresentanza.
    
     
    
     
    
    Il ministro plenipotenziario Antonino D'Alia ha scritto un Saggio di
    Scienza politica (Roma, Treves, 1932, in 8°, pp. XXXII-710) che
    sarebbe insieme una storia universale e un manuale di Politica e di
    Diplomazia (secondo Alberto Lumbroso, che lo esalta nel
    «Marzocco» del 17 aprile 1932).
    
     
    
     
    
    La Fiera del Libro. Poiché il popolo non va al libro (a un
    certo tipo di libro, quello dei letterati professionali) il libro
    andrà al popolo. L'iniziativa fu lanciata dalla «Fiera
    Letteraria» e dal suo direttore d'allora Umberto Fracchia, nel
    1927 a Milano. L'iniziativa in sé non era cattiva e ha dato
    qualche piccolo risultato: ma la quistione non fu affrontata nel
    senso che il libro deve diventare intimamente nazionale-popolare per
    andare al popolo e non solo «materialmente», con le
    bancarelle, gli strilloni ecc. In realtà, un'organizzazione
    per portare il libro al popolo esisteva ed esiste, ed è
    rappresentata dai «pontremolesi», ma il libro
    cosí diffuso è quello della piú bassa
    letteratura popolare, dal Segretario degli amanti al Guerino ecc.
    Questa organizzazione potrebbe essere «imitata»,
    ampliata, controllata e fornita di libri meno scemi e con maggiore
    varietà di scelta.
    
     
    
     
    
    [G. Zonta.] È da tener nota della grande Storia della
    Letteratura Italiana di Giuseppe Zonta, in quattro grossi volumi,
    con note bibliografiche di Gustavo Balsamo-Crivelli, pubblicata
    dall'Utet di Torino, per la speciale attenzione che l'autore pare
    abbia dato all'influsso sociale nello svolgimento
    dell'attività letteraria. L'opera, pubblicata a fascicoli dal
    1928 al '32 non ha dato luogo a grandi discussioni, a quanto pare
    dalle pubblicazioni disponibili (letto un solo cenno affrettato
    nell'«Italia Letteraria»). Lo Zonta, d'altronde, non
    è il primo venuto nel campo della filologia (cfr. il suo
    L'anima dell'ottocento del 1924).