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II. Il carattere non nazionale-popolare della letteratura italiana

 
Indice
 

Nesso di problemi (Q. 21)
Per questa rubrica è da studiare (Q. 15)

Contenuto e forma (Q. 14)

Italia e Francia (Q. 14)

[Degenerazioni artistiche] (Q. 14)

[Letterati e «bohême» artistica] (Q. 6)

Consenso della nazione o degli «spiriti eletti» (Q. 8)

Popolarità della letteratura italiana (Q. 6)

Il gusto melodrammatico (Q. 14)

[Il melodramma] (Q. 9)

Il Cinquecento (Q. 5)

Goldoni (Q. 6)

Ugo Foscolo e la retorica letteraria italiana (Q. 5)

Gli «umili» (Q. 21)

Manzoni e gli «umili» (Q. 14)
Del carattere non popolare-nazionale della letteratura italiana (Q. 7)
Adolfo Faggi (Q. 14)

«Popolarità» del Tolstoi e del Manzoni (Q. 23)

[Ironia e gergo letterario] (Q. 15)

[«Contenutisti» e «calligrafi»] (Q. 15)

Il pubblico e la letteratura italiana (Q. 21)

La cultura nazionale italiana (Q. 23)

[Polemiche inconcludenti] (Q. 14)

[Ciò che è «interessante» nell'arte] (Q. 5)
Cfr. l'articolo «Dell'interesse» (Q. 6)
Cfr. l'articolo di Piero Rébora (Q. 8)

[Un saggio di Giuseppe Antonio Borgese] (Q. 6)

[Atteggiamento dello scrittore verso l'ambiente] (Q. 8)

[Gli italiani e il romanzo] (Q. 15)

Il sentimento «attivo» nazionale degli scrittori (Q. 23)

[Enrico Thovez] (Q. 5)

Giovanni Cena (Q. 2)
Sul Cena è molto interessante (Q. 6)
Sull'attività svolta dal Cena (Q. 23)

Gino Saviotti (Q. 23)

La «scoperta» di Italo Svevo (Q. 23)

[Secentismo dell'attuale poesia] (Q. 17)

[Letterati puri] (Q. 3)

Poesia cosí detta sociale italiana (Q. 6)

Piedigrotta (Q. 1)

Letteratura italiana. Contributo dei burocratici (Q. 5)
Ho scritto già una nota (Q. 5)

Daniele Varé, Pagine di un diario (Q. 2)

Il ministro plenipotenziario Antonino D'Alia (Q. 9)

La Fiera del Libro (Q. 23)

[G. Zonta] (Q. 15)

Testi


Nesso di problemi. Polemiche sorte nel periodo di formazione della nazione italiana e della lotta per l'unità politica e territoriale e che hanno continuato e continuano ad ossessionare almeno una parte degli intellettuali italiani. Alcuni di tali problemi (come quello della lingua) molto antichi. Risalgono ai primi tempi della formazione di una unità culturale italiana. Nati per il confronto tra le condizioni generali dell'Italia e quelle di altri paesi, specialmente della Francia o per il riflesso di condizioni peculiari italiane come il fatto che la penisola fu la sede dell'Impero Romano e divenne la sede del maggiore centro della religione cristiana. L'insieme di questi problemi è il riflesso della faticosa elaborazione di una nazione italiana di tipo moderno, contrastata da condizioni di equilibrio di forze interne e internazionali.

Non è mai esistita una coscienza, tra le classi intellettuali e dirigenti, che esista un nesso tra questi problemi, nesso di coordinazione e di subordinazione. Nessuno ha mai presentato questi problemi come un insieme collegato e coerente, ma ognuno di essi si è ripresentato periodicamente a seconda di interessi polemici immediati, non sempre chiaramente espressi, senza volontà di approfondimento; la trattazione ne è stata perciò fatta in forma astrattamente culturale, intellettualistica, senza prospettiva storica esatta e pertanto senza che se ne prospettasse una soluzione politico-sociale concreta e coerente. Quando si dice che non è mai esistita una coscienza dell'unità organica di tali problemi occorre intendersi: forse è vero che non si è avuto il coraggio di impostare esaurientemente la quistione, perché da una tale impostazione rigorosamente critica e consequenziaria si temeva derivassero immediatamente pericoli vitali per la vita nazionale unitaria; questa timidezza di molti intellettuali italiani deve essere a sua volta spiegata, ed è caratteristica della nostra vita nazionale. D'altronde pare inconfutabile che nessuno di tali problemi può essere risolto isolatamente (in quanto essi sono ancora attuali e vitali). Pertanto una trattazione critica e spassionata di tutte queste quistioni che ancora ossessionano gli intellettuali e anzi vengono oggi presentate come in via di organica soluzione (unità della lingua, rapporto tra arte e vita, quistione del romanzo e del romanzo popolare, quistione di una riforma intellettuale e morale cioè di una rivoluzione popolare che abbia la stessa funzione della Riforma protestante nei paesi germanici e della Rivoluzione francese, quistione della «popolarità» del Risorgimento che sarebbe stata raggiunta con la guerra del 1915-18 e coi rivolgimenti successivi, onde l'impiego inflazionistico dei termini di rivoluzione e rivoluzionario) può dare la traccia piú utile per ricostruire i caratteri fondamentali della vita culturale italiana, e delle esigenze che da essi sono indicate e proposte per la soluzione. Ecco il «catalogo» delle piú significative quistioni da esaminare ed analizzare: 1) «Perché la letteratura italiana non è popolare in Italia?» (per usare l'espressione di Ruggero Bonghi); 2) esiste un teatro italiano: polemica impostata da Ferdinando Martini e che va collegata con l'altra sulla maggiore o minore vitalità del teatro dialettale e di quello in lingua; 3) quistione della lingua nazionale, cosí come fu impostata da Alessandro Manzoni; 4) se sia esistito un romanticismo italiano; 5) è necessario provocare in Italia una riforma religiosa come quella protestante: cioè l'assenza di lotte religiose vaste e profonde determinata dall'essere stata in Italia la sede del papato quando fermentarono le innovazioni politiche che sono alla base degli Stati moderni fu origine di progresso o di regresso?; 6) l'Umanesimo e il Rinascimento sono stati progressivi o regressivi?; 7) impopolarità del Risorgimento ossia indifferenza popolare nel periodo delle lotte per l'indipendenza e l'unità nazionale; 8) apoliticismo del popolo italiano che viene espresso con le frasi di «ribellismo», di «sovversivismo», di «antistatalismo» primitivo ed elementare; 9) non esistenza di una letteratura popolare in senso stretto (romanzi d'appendice, d'avventure, scientifici, polizieschi ecc.) e «popolarità» persistente di questo tipo di romanzo tradotto da lingue straniere, specialmente dal francese; non esistenza di una letteratura per l'infanzia. In Italia il romanzo popolare di produzione nazionale è quello anticlericale oppure le biografie di briganti. Si ha però un primato italiano nel melodramma, che in un certo senso è il romanzo popolare musicato.

Una delle ragioni per cui tali problemi non sono stati trattati esplicitamente e criticamente è da trovarsi nel pregiudizio rettorico (d'origine letteraria) che la nazione italiana sia sempre esistita da Roma antica ad oggi e su alcuni altri idoli e borie intellettuali che se furono «utili» politicamente nel periodo della lotta nazionale, come motivo per entusiasmare e concentrare le forze, sono inette criticamente e, in ultima istanza, diventano un elemento di debolezza, perché non permettono di apprezzare giustamente lo sforzo compiuto dalle generazioni che realmente lottarono per costituire l'Italia moderna e perché inducono a una sorta di fatalismo e di aspettazione passiva di un avvenire che sarebbe predeterminato completamente dal passato. Altre volte questi problemi sono mal posti per l'influsso di concetti estetici di origine crociana, specialmente quelli concernenti il cosí detto «moralismo» nell'arte, il «contenuto» estrinseco all'arte, la storia della cultura da non confondersi con la storia dell'arte ecc. Non si riesce a intendere concretamente che l'arte è sempre legata a una determinata cultura o civiltà, e che lottando per riformare la cultura si giunge a modificare il «contenuto» dell'arte, si lavora a creare una nuova arte, non dall'esterno (pretendendo un'arte didascalica, a tesi, moralistica), ma dall'intimo, perché si modifica tutto l'uomo in quanto si modificano i suoi sentimenti, le sue concezioni e i rapporti di cui l'uomo è l'espressione necessaria.

Connessione del «futurismo» col fatto che alcune di tali quistioni sono state mal poste e non risolute, specialmente il futurismo nella forma piú intelligente datagli dai gruppi fiorentini di «Lacerba» e della «Voce», col loro «romanticismo» o Sturm und Drang popolaresco. Ultima manifestazione «Strapaese». Ma sia il futurismo di Marinetti, sia quello di Papini, sia Strapaese hanno urtato, oltre il resto, in questo ostacolo: l'assenza di carattere e di fermezza dei loro inscenatori e la tendenza carnevalesca e pagliaccesca dei piccoli borghesi intellettuali, aridi e scettici.

Anche la letteratura regionale è stata essenzialmente folcloristica e pittoresca: il popolo «regionale» era visto «paternalisticamente», dall'esterno, con spirito disincantato, cosmopolitico, da turisti in cerca di sensazioni forti e originali per la loro crudezza. Agli scrittori italiani ha proprio nuociuto l'«apoliticismo» intimo, verniciato di rettorica nazionale verbosa. Da questo punto di vista sono stati piú simpatici Enrico Corradini e il Pascoli, col loro nazionalismo confessato e militante, in quanto cercarono risolvere il dualismo letterario tradizionale tra popolo e nazione, sebbene siano caduti in altre forme di rettorica e di oratoria.

 

Per questa rubrica è da studiare il volume di B. Croce, Poesia popolare e poesia d'arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento, Laterza, Bari, 1933. Il concetto di popolare nel libro del Croce non è quello di queste note: per il Croce si tratta di un atteggiamento psicologico, per cui il rapporto tra poesia popolare e poesia d'arte è come quello tra il buon senso e il pensiero critico, tra l'accorgimento naturale e l'accorgimento esperto, tra la candida innocenza e l'avveduta e accurata bontà. Tuttavia dalla lettura di alcuni saggi di questo libro pubblicati nella «Critica» pare si possa dedurre che mentre dal Trecento al Cinquecento la poesia popolare, anche in questo senso, ha una importanza notevole, perché è legata ancora a una certa vivacità di resistenza delle forze sociali sorte col movimento di ripresa verificatosi dopo il Mille e culminato nei Comuni, dopo il Cinquecento queste forze sono abbrutite completamente e la poesia popolare decade fino alle forme attuali in cui l'interesse popolare è soddisfatto dal Guerin Meschino, e da simile letteratura. Dopo il Cinquecento cioè si rende radicale quel distacco tra intellettuali e popolo che è alla base di queste note e che tanto significato ha avuto per la storia italiana moderna politica e culturale.

 

 

Contenuto e forma. L'accostamento di questi due termini può assumere nella critica d'arte molti significati. Ammesso che contenuto e forma sono la stessa cosa, ecc. ecc., non significa ancora che non si possa fare la distinzione tra contenuto e forma. Si può dire che chi insiste sul «contenuto» in realtà lotta per una determinata cultura, per una determinata concezione del mondo contro altre culture e altre concezioni del mondo; si può anche dire che storicamente, finora, i cosí detti contenutisti sono stati «piú democratici» dei loro avversari parnassiani, per esempio, cioè volevano una letteratura che non fosse per gli «intellettuali», ecc. Si può parlare di una priorità del contenuto sulla forma? Se ne può parlare in questo senso, che l'opera d'arte è un processo e che i cambiamenti di contenuto sono anche cambiamenti di forma, ma è «piú facile» parlare di contenuto che di forma, perché il contenuto può essere «riassunto» logicamente. Quando si dice che il contenuto precede la forma si vuol dire semplicemente che, nell'elaborazione, i tentativi successivi vengono presentati col nome di contenuto, niente altro. Il primo contenuto che non soddisfaceva era anche forma e in realtà quando si è raggiunta la «forma» soddisfacente anche il contenuto è cambiato. È vero che spesso quelli che chiacchierano di forma ecc. contro il contenuto, sono completamente vuoti, accozzano parole che non sempre si tengono neanche secondo grammatica (esempio Ungaretti); per tecnica, forma ecc. intendono vacuità di gergo da conventicola di teste vuote.

Anche questa è da porre fra le quistioni della storia nazionale italiana, in altra nota registrata, e assume varie forme: 1) c'è una differenza di stile tra gli scritti dedicati al pubblico e gli altri, per esempio tra le lettere e le opere letterarie. Sembra spesso di aver che fare con due scrittori diversi tanta è la differenza. Nelle lettere (salvo eccezioni, come quella di D'Annunzio che fa la commedia anche allo specchio, per se stesso), nelle memorie e in generale in tutti gli scritti dedicati a poco pubblico o a se stesso, predomina la sobrietà, la semplicità, la immediatezza, mentre negli altri scritti predomina la tronfiezza, lo stile oratorio, l'ipocrisia stilistica Questa «malattia» è talmente diffusa che si è attaccata al popolo, per il quale infatti «scrivere» significa «montare sui trampoli», mettersi a festa, «fingere» uno stile ridondante, ecc., in ogni modo esprimersi in modo diverso dal comune; e siccome il popolo non è letterato, e di letteratura conosce solo il libretto dell'opera ottocentesca, avviene che gli uomini del popolo «melodrammatizzano». Ecco allora che «contenuto e forma» oltre che un significato «estetico» hanno anche un significato «storico». Forma «storica» significa un determinato linguaggio, come «contenuto» indica un determinato modo di pensare, non solo storico, ma «sobrio», espressivo senza pugni in faccia, passionale senza che le passioni siano arroventate all'Otello o al melodramma, senza la maschera teatrale, insomma. Questo fenomeno, credo, si verifica solo nel nostro paese, come fenomeno di massa, s'intende, perché papi singoli sono da per tutto. Ma occorre stare attenti: perché il paese nostro è quello in cui al convenzionale barocco è successo il convenzionale arcadico: sempre teatro e convenzione però. Occorre dire che in questi anni le cose sono molto migliorate: D'Annunzio è stato l'ultimo accesso di malattia del popolo italiano e il giornale, per le sue necessità, ha avuto il gran merito di «razionalizzare» la prosa. Però l'ha impoverita e stremenzita e anche questo è un danno. Ma purtroppo nel popolo, accanto ai «futuristi antiaccademici» esistono ancora i «secentisti» di conversione. D'altronde qui si fa una quistione storica, per spiegare il passato, e non una lotta puramente attuale, per combattere mali attuali, sebbene anche questi non siano del tutto scomparsi e si ritrovano in alcune manifestazioni specialmente (discorsi solenni, specialmente funebri, patriottici, iscrizioni idem, ecc.). (Si potrebbe dire che si tratta di «gusto» e sarebbe errato. Il gusto è «individuale» o di piccoli gruppi; qui si tratta di grandi masse, e non può non trattarsi di cultura, di fenomeno storico, di esistenza di due culture; individuale è il gusto «sobrio», non l'altro, il melodramma è il gusto nazionale, cioè la cultura nazionale). Né si dica che di tale quistione non occorre occuparsi: anzi, la formazione di una prosa vivace ed espressiva e nello stesso tempo sobria e misurata deve essere uno dei fini culturali da proporsi. Anche in questo caso forma ed espressione si identificano ed insistere sulla «forma» non è che un mezzo pratico per lavorare sul contenuto, per ottenere una deflazione della retorica tradizionale che guasta ogni forma di cultura, anche quella «antiretorica», ahimè!

La domanda se sia esistito un romanticismo italiano può avere diverse risposte, a seconda di ciò che s'intende per romanticismo. E certo molte sono le definizioni che del termine di romanticismo sono state date. Ma a noi importa una di queste definizioni e importa non precisamente l'aspetto «letterario» del problema. Romanticismo ha, tra gli altri significati, assunto quello di uno speciale rapporto o legame tra gli intellettuali e il popolo, la nazione, cioè è un particolare riflesso della «democrazia» (in senso largo) nelle lettere (in senso largo, per cui anche il cattolicismo può essere stato «democratico» mentre il «liberalismo» può esserlo non stato). In questo senso ci interessa il problema per l'Italia ed esso è legato ai problemi che abbiamo raccolto in serie: se è esistito un teatro italiano, la quistione della lingua, perché la letteratura non è stata popolare, ecc. Occorre dunque, nella sterminata letteratura sul romanticismo, isolare questo aspetto e di esso interessarsi, teoricamente e praticamente, come fatto storico cioè e come tendenza generale che può dar luogo a un movimento attuale, a un attuale problema da risolvere. In questo senso il romanticismo precede, accompagna, sanziona e svolge tutto quel movimento europeo che prese nome dalla Rivoluzione francese; ne è l'aspetto sentimentale-letterario (piú sentimentale che letterario, nel senso che l'aspetto letterario è stato solo una parte dell'espressione della corrente sentimentale che ha pervaso tutta la vita e una parte molto importante della vita, e di questa vita solo una piccolissima parte ha potuto trovare espressione nella letteratura). La ricerca quindi è di storia della cultura e non di storia letteraria, meglio di storia letteraria in quanto parte e aspetto di una piú vasta storia della cultura. Ebbene, in questo preciso senso, il romanticismo non è esistito in Italia, e nel miglior caso le sue manifestazioni sono state minime, scarsissime e in ogni caso di aspetto puramente letterario. (Su questo punto è necessario il ricordo delle teorie del Thierry e del riflesso manzoniano, teorie del Thierry che appunto sono uno degli aspetti piú importanti di questo aspetto del romanticismo di cui si vuole parlare). È da vedere come in Italia anche queste discussioni abbiano assunto un aspetto intellettuale e astratto: i pelasgi del Gioberti, le popolazioni «preromane», ecc., in realtà niente che fosse in rapporto col vivente popolo attuale che invece interessava il Thierry e la storiografia politica affine. Si è detto che la parola «democrazia» non deve essere assunta in tal senso, solo nel significato «laico» o «laicista» che si vuol dire; ma anche nel significato «cattolico», anche reazionario, se si vuole; ciò che importa è il fatto che si ricerchi un legame col popolo, con la nazione, che si ritenga necessaria una unità non servile, dovuta all'obbedienza passiva, ma un'unità attiva, vivente, qualunque sia il contenuto di questa vita. Questa unità vivente, a parte ogni contenuto, è appunto mancata in Italia, è mancata almeno nella misura sufficiente a farla diventare un fatto storico, e perciò si capisce il significato della domanda: «è esistito un romanticismo italiano»?

 

 

Italia e Francia. Si può forse affermare che tutta la vita intellettuale italiana fino al 1900 (e precisamente fino al formarsi della corrente culturale idealistica Croce-Gentile) in quanto ha tendenze democratiche, cioè in quanto vuole (anche se non ci riesce sempre) prendere contatto con le masse popolari è semplicemente un riflesso francese, dell'ondata democratica francese che ha avuto origine dalla Rivoluzione del 1789: l'artificiosità di questa vita è nel fatto che in Italia essa non aveva avuto le premesse storiche che invece erano state in Francia. Niente in Italia di simile alla Rivoluzione del 1789 e alle lotte che ne seguirono; tuttavia in Italia si «parlava» come se tali premesse fossero esistite. Ma si capisce che un tale parlare non poteva essere che a fior di labbra. Da tal punto di vista, s'intende il significato «nazionale», seppure poco profondo, delle correnti conservatrici e reazionarie in confronto di quelle democratiche; queste erano grandi «fuochi di paglia», di grande estensione superficiale, quelle erano di poca estensione, ma ben radicate e intense. Se non si studia la cultura italiana fino al 1900 come un fenomeno di provincialismo francese, se ne comprende ben poco. Tuttavia occorre distinguere: c'è misto un sentimento nazionale antifrancese, nell'ammirazione per le cose di Francia: si vive di riflesso e si odia nello stesso tempo. Almeno fra gli intellettuali. Nel popolo i sentimenti «francesi» non sono tali, appaiono come «senso comune», come cose proprie del popolo stesso e il popolo è francofilo o francofobo secondo che viene aizzato o meno dalle forze dominanti. Era comodo far credere che la Rivoluzione del 1789, poiché avvenuta in Francia, era come se avvenuta in Italia, per quel tanto che delle idee francesi era comodo servirsi per guidare le masse; ed era comodo servirsi dell'antigiacobinismo forcaiolo per andare contro la Francia, quando ciò serviva.

 

 

[Degenerazioni artistiche.] Luigi Volpicelli, nella «Italia Letteraria» del 1° gennaio 1933 (articolo Arte e religione) nota: «Il quale (il popolo) si potrebbe osservare tra parentesi, ha amato sempre l'arte piú per quello che non è arte che per ciò che è essenziale all'arte; e forse proprio per questo è cosí diffidente verso gli artisti di oggi, i quali, volendo nell'arte la pura e sola arte, finiscono col diventare enigmatici, inintelligibili, profeti di pochi iniziati».

Osservazione senza costrutto né base: è certo che il popolo vuole un'arte «storica» (se non si vuole impiegare la parola «sociale»), cioè vuol un'arte espressa in termini di cultura «comprensibili», cioè universali, o «obbiettivi», o «storici» o «sociali» che è la stessa cosa. Non vuole «neolalismi» artistici, specialmente se il «neolalico» è anche un imbecille.

Mi pare che il problema è sempre da porre partendo dalla domanda: «Perché scrivono i poeti? Perché dipingono i pittori? ecc.» (Ricordare l'articolo di Adriano Tilgher nell'«Italia che scrive»). Il Croce risponde, su per giú: per ricordare le proprie opere, dato che, secondo l'estetica crociana, l'opera d'arte è «perfetta» anche già e solo nel cervello dell'artista. Ciò che potrebbe ammettersi approssimativamente e in un certo senso. Ma solo approssimativamente e in un certo senso. In realtà si ricade nella quistione della «natura dell'uomo» e nella quistione «cos'è l'individuo?». Se non si può pensare l'individuo fuori della società, e quindi se non si può pensare nessun individuo che non sia storicamente determinato, è evidente che ogni individuo e anche l'artista, e ogni sua attività, non può essere pensata fuori della società, di una società determinata. L'artista pertanto non scrive o dipinge, ecc., cioè non «segna» esteriormente i suoi fantasmi solo per «un suo ricordo», per poter rivivere l'istante della creazione, ma è artista solo in quanto «segna» esteriormente, oggettivizza, storicizza i suoi fantasmi. Ma ogni individuo-artista è tale in modo piú o meno largo e comprensivo, piú o meno «storico» o «sociale». Ci sono i «neolalici» o i «gerghisti», cioè quelli che essi soli possono rivivere il ricordo dell'istante creativo (ed è di solito un'illusione, il ricordo di un sogno o di una velleità), altri che appartengono a conventicole piú o meno larghe (che hanno un gergo corporativo) e finalmente quelli che sono universali, cioè «nazionali-popolari». L'estetica del Croce ha determinato molte degenerazioni artistiche, e non è poi vero che ciò sia avvenuto sempre contro le intenzioni e lo spirito dell'estetica crociana stessa; per molte degenerazioni, sí, ma non per tutte, e specialmente per questa fondamentale, dell'«individualismo» artistico espressivo antistorico (o anti-sociale, o anti-nazionale-popolare).

 

 

[Letterati e «bohême» artistica.] È da notare come in Italia il concetto di cultura sia prettamente libresco: i giornali letterari si occupano di libri o di chi scrive libri. Articoli di impressioni sulla vita collettiva, sui modi di pensare, sui «segni del tempo», sulle modificazioni che avvengono nei costumi, ecc., non se ne leggono mai. Differenza tra la letteratura italiana e le altre letterature. In Italia mancano i memorialisti e sono rari i biografi e gli autobiografi. Manca l'interesse per l'uomo vivente, per la vita vissuta (Le Cose viste di Ugo Ojetti sono poi quel gran capolavoro di cui si è incominciato a parlare da quando Ojetti è stato direttore del «Corriere della Sera» e cioè dell'organismo letterario che paga meglio gli scrittori e dà piú fama? Anche nelle Cose viste si parla specialmente di scrittori, da quelle che io ho letto anni fa, almeno. Si potrebbe rivedere). È un altro segno del distacco degli intellettuali italiani dalla realtà popolare-nazionale.

Sugli intellettuali questa osservazione di Prezzolini (Mi pare..., p. 16) scritta nel 1920: «L'intellettuale da noi ha la pretesa di fare il parassita. Si considera come l'uccellino fatto per la gabbietta d'oro che dev'essere mantenuto a pastone e a chicchini di miglio. Lo sdegno che c'è ancora per tutto quello che somiglia al lavoro, le carezze che si fanno sempre alla concezione romantica di un estro che bisogna aspettare dal cielo, come la Pitia aspettava i suoi invasamenti, sono dei sintomi piuttosto puzzolenti di marcia interiore. Bisogna che gli intellettuali capiscano che i bei tempi per queste mascherate interessanti sono passati. Di qui a qualche anno non sarà permesso essere ammalati di letteratura o restare inutili». Gli intellettuali concepiscono la letteratura come una «professione» a sé, che dovrebbe «rendere» anche quando non si produce nulla immediatamente e dovrebbe dar diritto a una pensione. Ma chi stabilisce che Tizio è veramente un «letterato» e che la società può mantenerlo in attesa del «capolavoro»? Il letterato rivendica il diritto di stare in «ozio» («otium et non negotium»), di viaggiare, di fantasticare, senza preoccupazioni di carattere economico. Questo modo di pensare è legato al mecenatismo delle corti, male interpretato del resto, perché i grandi letterati del Rinascimento, oltre a scrivere, lavoravano in qualche modo (anche l'Ariosto, letterato per eccellenza, aveva incombenze amministrative e politiche): un'immagine del letterato del Rinascimento falsa e sbagliata. Oggi il letterato [è] professore e giornalista o semplice letterato (nel senso che tende a diventarlo, se è funzionario, ecc.).

Si può dire che la «letteratura» è una funzione sociale, ma che i letterati, presi singolarmente, non sono necessari alla funzione, sebbene ciò sembri paradossale. Ma è vero nel senso, che mentre le altre professioni sono collettive, e la funzione sociale si scompone nei singoli, ciò non avviene nella letteratura. La quistione è dell'«apprendissaggio»: ma si può parlare di «apprendissaggio» artistico letterario? La funzione intellettuale non può essere staccata dal lavoro produttivo generale neanche per gli artisti: se non quando essi hanno dimostrato di essere effettivamente produttivi «artisticamente». Né ciò nuocerà all'«arte», forse anzi le gioverà: nuocerà solo alla «bohème» artistica e non sarà un male, tutt'altro.

 

 

Consenso della nazione o degli «spiriti eletti». Cosa deve interessare di piú un artista, il consenso all'opera sua della «nazione» o quello degli «spiriti eletti»? Ma può esserci separazione tra «spiriti eletti» e «nazione»? Il fatto che la quistione sia stata posta e si continui a porre in questi termini, mostra per se stesso una situazione determinata storicamente di distacco tra intellettuali e nazione. Quali sono poi gli «spiriti» riputati «eletti»? Ogni scrittore o artista ha i suoi «spiriti eletti», cioè si ha la realtà di una disgregazione degli intellettuali in combriccole e sette di «spiriti eletti», disgregazione che appunto dipende dalla non aderenza alla nazione-popolo, dal fatto che il «contenuto» sentimentale dell'arte, il mondo culturale è astratto dalle correnti profonde della vita popolare-nazionale, che essa stessa rimane disgregata e senza espressione. Ogni movimento intellettuale diventa o ridiventa nazionale se si è verificata una «andata al popolo», se si è avuta una fase «Riforma» e non solo una fase «Rinascimento» e se le fasi «Riforma-Rinascimento» si susseguono organicamente e non coincidono con fasi storiche distinte (come in Italia, in cui tra il movimento comunale – riforma – e quello del Rinascimento c'è stato un iato storico dal punto di vista della partecipazione popolare alla vita pubblica). Anche se si dovesse cominciare con lo scrivere «romanzi d'appendice» e versi da melodramma, senza un periodo di andata al popolo non c'è «Rinascimento» e non c'è letteratura nazionale.

 

 

Popolarità della letteratura italiana. «Nuova Antologia», 1° ottobre 1930: Ercole Reggio, Perché la letteratura italiana non è popolare in Europa. «La poca fortuna che incontrano, presso di noi, libri italiani anche illustri, a paragone con quella di tanti libri stranieri, dovrebbe farci persuasi che le ragioni della scarsa popolarità della nostra letteratura in Europa sono probabilmente le stesse che la rendono poco popolare da noi; e che perciò, tutto sommato, non ci sarà nemmeno da chiedere agli altri quello che noi, per i primi, non ci attendiamo in casa nostra. A detta anche d'italianizzanti, di simpatizzanti stranieri, la nostra letteratura manca in massima di qualità modeste e necessarie, di ciò che s'indirizza all'uomo medio, all'uomo degli economisti (?!); ed è in ragione delle sue prerogative, di quanto ne costituisce l'originalità, come il merito, ch'essa non tocca né potrà mai toccare alla popolarità delle altre grandi letterature europee». Il Reggio accenna al fatto che invece le arti figurative italiane (dimentica la musica) sono popolari in Europa e si domanda: o esiste un abisso tra la letteratura e le altre arti italiane, e questo abisso sarebbe impossibile da spiegare, oppure il fatto deve essere spiegato con ragioni secondarie, extrartistiche, cioè mentre le arti figurative (e la musica) parlano un linguaggio europeo e universale, la letteratura ha i suoi limiti nei confini della lingua nazionale. Non mi pare che l'obbiezione regga: 1) perché c'è stato un periodo storico in cui anche la letteratura italiana fu popolare in Europa (Rinascimento) oltre alle arti figurative e anzi insieme a queste: cioè l'intera cultura italiana fu popolare. 2) Perché in Italia, oltre alla letteratura, non sono popolari neanche le arti figurative (sono popolari invece Verdi, Puccini, Mascagni ecc.). 3) Perché la popolarità delle arti figurative italiane in Europa è relativa: si limita agli intellettuali e in alcune altre zone della popolazione europea, è popolare perché legata a ricordi classici o romantici; non come arte. 4) Invece la musica italiana è popolare tanto in Europa come in Italia. L'articolo del Reggio continua sui binari della solita retorica, quantunque qua e là contenga osservazioni sagaci.

 

 

Il gusto melodrammatico. Come combattere il gusto melodrammatico del popolano italiano quando si avvicina alla letteratura, ma specialmente alla poesia? Egli crede che la poesia sia caratterizzata da certi tratti esteriori, fra cui predomina la rima e il fracasso degli accenti prosodici, ma specialmente dalla solennità gonfia, oratoria, e dal sentimentalismo melodrammatico, cioè dall'espressione teatrale, congiunta a un vocabolario barocco. Una delle cause di questo gusto è da ricercare nel fatto che esso si è formato non alla lettura e alla meditazione intima e individuale della poesia e dell'arte, ma nelle manifestazioni collettive, oratorie e teatrali. E per «oratorie» non bisogna solo riferirsi ai comizi popolari di famigerata memoria, ma a tutta una serie di manifestazioni di tipo urbano e paesano. Nella provincia, per esempio, è molto seguita l'oratoria funebre e quella delle preture e dei tribunali (e anche delle conciliature): queste manifestazioni hanno tutte un pubblico di «tifosi» di carattere popolare, e un pubblico costituito (per i tribunali) da quelli che attendono il proprio turno, testimoni, ecc. In certe sedi di pretura mandamentale, l'aula è sempre piena di questi elementi, che si imprimono nella memoria i giri di frase e le parole solenni, se ne pascono e le ricordano. Cosí nei funerali di maggiorenti, cui affluisce molta folla, spesso solo per sentire i discorsi.

Le conferenze nelle città hanno lo stesso ufficio e cosí i tribunali, ecc. I teatri popolari con gli spettacoli cosí detti da arena (e oggi, forse il cinematografo parlato, ma anche le didascalie del vecchio cinematografo muto, compilato tutto in stile melodrammatico), sono della massima importanza per creare questo gusto e il linguaggio conforme.

Si combatte questo gusto in due modi principali: con la critica spietata di esso, e anche diffondendo libri di poesia scritti o tradotti in lingua non «aulica», e dove i sentimenti espressi non siano retorici o melodrammatici.

Cfr. l'Antologia compilata dallo Schiavi; poesie del Gori. Traduzione possibile di M. Martinet e di altri scrittori che oggi [sono] piú numerosi che in passato: traduzioni sobrie, del tipo di quelle del Togliatti per Whitman e Martinet.

 

 

[Il melodramma.] Ho accennato in altra nota come in Italia la musica abbia in una certa misura sostituito, nella cultura popolare, quella espressione artistica che in altri paesi è data dal romanzo popolare e come i genii musicali abbiano avuto quella popolarità che invece è mancata ai letterati. È da ricercare: 1°) se la fioritura dell'opera in musica coincide in tutte le sue fasi di sviluppo (cioè non come espressione individuale di singoli artisti geniali, ma come fatto, manifestazione storico-culturale) con la fioritura dell'epica popolare rappresentata dal romanzo. Mi pare di sí: il romanzo e il melodramma hanno l'origine nel settecento e fioriscono nel primo 50° del secolo XIX, cioè essi coincidono con la manifestazione e l'espansione delle forze democratiche popolari-nazionali in tutta l'Europa. 2°) Se coincidono l'espansione europea del romanzo popolare anglo-francese e quella del melodramma italiano.

Perché la «democrazia» artistica italiana ha avuto una espressione musicale e non «letteraria»? Che il linguaggio non sia stato nazionale, ma cosmopolita, come è la musica, può connettersi alla deficienza di carattere popolare-nazionale degli intellettuali italiani? Nello stesso momento in cui in ogni paese avviene una stretta nazionalizzazione degli intellettuali indigeni, e questo fenomeno si verifica anche in Italia, sebbene in misura meno larga (anche il settecento italiano, specialmente nella seconda metà, è piú «nazionale» che cosmopolita), gli intellettuali italiani continuano la loro funzione europea attraverso la musica. Si potrà forse osservare che la trama dei libretti non è mai «nazionale» ma europea, in due sensi: o perché l'«intrigo» del dramma si svolge in tutti i paesi d'Europa e piú raramente in Italia, muovendo da leggende popolari o da romanzi popolari; o perché i sentimenti e le passioni del dramma riflettono la particolare sensibilità europea settecentesca e romantica, cioè una sensibilità europea, che non pertanto coincide con elementi cospicui della sensibilità popolare di tutti i paesi, da cui del resto aveva attinto la corrente romantica. (È da collegare questo fatto con la popolarità di Shakespeare e anche dei tragici greci, i cui personaggi, travolti da passioni elementari – gelosia, amor paterno, vendetta, ecc. – sono essenzialmente popolari in ogni paese). Si può perciò dire che il rapporto melodramma italiano – letteratura popolare anglo-francese non è sfavorevole criticamente al melodramma, poiché il rapporto è storico-popolare e non artistico-critico. Verdi non può essere paragonato, per dir cosí, a Eugenio Sue, come artista, se pure occorre dire che la fortuna popolare di Verdi può solo essere paragonata a quella del Sue, sebbene per gli estetizzanti (wagneriani) aristocratici della musica, Verdi occupi lo stesso posto nella storia della musica che Sue nella storia della letteratura. La letteratura popolare in senso deteriore (tipo Sue e tutta la sequela) è una degenerazione politico-commerciale della letteratura nazionale-popolare, il cui modello sono appunto i tragici greci e Shakespeare.

Questo punto di vista sul melodramma può anche essere un criterio per comprendere la popolarità del Metastasio che fu tale specialmente come scrittore di libretti.

 

 

Il Cinquecento. Il modo di giudicare la letteratura del Cinquecento secondo determinati canoni stereotipati ha dato luogo in Italia a curiosi giudizi e a limitazioni di attività critica che sono significativi per giudicare il carattere astratto dalla realtà nazionale-popolare dei nostri intellettuali. Qualcosa ora sta cambiando lentamente, ma il vecchio reagisce. Nel 1928 Emilio Lovarini ha stampato una commedia in 5 atti La Venexiana, commedia di ignoto cinquecentesco (Zanichelli, 1928, n. 1 della «Nuova scelta di curiosità letterarie inedite o rare») che è stata riconosciuta come una bellissima opera d'arte (cfr. Benedetto Croce nella «Critica» del 1930). Ireneo Sanesi (autore del volume La Commedia nella collezione dei Generi letterari del Vallardi) in un articolo La Venexiana nella «Nuova Antologia» del 1° ottobre 1929, cosí imposta quello che per lui è il problema critico posto dalla commedia: l'autore ignoto della Venexiana è un ritardatario, un codino, un conservatore, perché rappresenta la commedia nata dalla novellistica medioevale, la commedia realistica, vivace (anche se scritta in latino) che prende gli argomenti dalla realtà della comune vita borghese o cittadinesca, i cui personaggi sono riprodotti da questa medesima realtà, le cui azioni sono semplici, chiare, lineari e il cui maggiore interesse riposa appunto nella loro sobrietà e nella loro lucidezza. Mentre, secondo il Sanesi, sono rivoluzionari gli scrittori del teatro erudito e classicheggiante, che riportavano sulla scena gli antichissimi tipi e motivi cari a Plauto e Terenzio. Per il Sanesi, gli scrittori della nuova classe storica sono codini e sono rivoluzionari gli scrittori cortigiani: è stupefacente.

È interessante ciò che è avvenuto per la Venexiana a poca distanza da ciò che era avvenuto per le commedie del Ruzzante, tradotte in francese arcaicizzante dal dialetto padovano del Cinquecento da Alfredo Mortier. Il Ruzzante era stato rivelato da Maurizio Sand (figlio di Georges Sand) che lo proclamò maggiore non solo dell'Ariosto (nella commedia) e del Bibbiena, ma dello stesso Machiavelli, precursore del Molière e del naturalismo francese moderno. Anche per la Venexiana, Adolfo Orvieto («Marzocco», 30 settembre 1928) scrisse sembrare essa «il prodotto di una fantasia drammatica dei nostri tempi» e accennò al Becque.

È interessante notare questo doppio filone nel Cinquecento: uno veramente nazionale-popolare (nei dialetti, ma anche in latino) legato alla novellistica precedente, espressione della borghesia, e l'altro aulico, cortigiano, anazionale, che però è portato sugli scudi dai retori.

 

 

Goldoni. Perché il Goldoni è popolare anche oggi? Goldoni è quasi «unico» nella tradizione letteraria italiana. I suoi atteggiamenti ideologici: democratico prima di aver letto Rousseau e della Rivoluzione francese. Contenuto popolare delle sue commedie: lingua popolare nella sua espressione, mordace critica dell'aristocrazia corrotta e imputridita.

Conflitto Goldoni-Carlo Gozzi. Gozzi reazionario. Le sue Fiabe, scritte per dimostrare che il popolo accorre alle piú insulse strampalerie, e che invece hanno successo: in verità anche le Fiabe hanno un contenuto popolare, sono un aspetto della cultura popolare o folclore, in cui il meraviglioso e l'inverosimile (presentato come tale in un mondo fiabesco) è parte integrante. (Fortuna delle Mille e una notte anche oggi, ecc.).

 

 

Ugo Foscolo e la retorica letteraria italiana. I Sepolcri devono essere considerati come la maggiore «fonte» della tradizione culturale retorica che vede nei monumenti un motivo di esaltazione delle glorie nazionali. La «nazione» non è il popolo, o il passato che continua nel «popolo», ma è invece l'insieme delle cose materiali che ricordano il passato: strana deformazione che poteva spiegarsi ai primi dell'800 quando si trattava di svegliare delle energie latenti e di entusiasmare la gioventú, ma che è appunto «deformazione» perché è diventato puro motivo decorativo, esteriore, retorico (l'ispirazione dei sepolcri non è nel Foscolo simile a quella della cosí detta poesia sepolcrale: è un'ispirazione «politica», come egli stesso scrive nella lettera al Guillon).

 

 

Gli «umili». Questa espressione – «gli umili» – è caratteristica per comprendere l'atteggiamento tradizionale degli intellettuali italiani verso il popolo e quindi il significato della «letteratura per gli umili». Non si tratta del rapporto contenuto nell'espressione dostoievschiana di «umiliati e offesi». In Dostojevskij c'è potente il sentimento nazionale-popolare, cioè la coscienza di una missione degli intellettuali verso il popolo che magari è «oggettivamente» costituito di «umili» ma deve essere liberato da questa «umiltà», trasformato, rigenerato. Nell'intellettuale italiano l'espressione di «umili» indica un rapporto di protezione paterna e padreternale, il sentimento «sufficiente» di una propria indiscussa superiorità, il rapporto come tra due razze, una ritenuta superiore e l'altra inferiore, il rapporto come tra adulti e bambini nella vecchia pedagogia e peggio ancora un rapporto da «società protettrice degli animali», o da esercito della salute anglosassone verso i cannibali della Papuasia.

 

 

Manzoni e gli «umili». L'atteggiamento «democratico» del Manzoni verso gli umili (nei Promessi Sposi) in quanto è d'origine «cristiana» e in quanto è da connettere con gli interessi storiografici che il Manzoni aveva derivato dal Thierry e dalle sue teorie sul contrasto tra le razze (conquistatrice e conquistata) divenuto contrasto di classi. Queste teorie del Thierry sono da vedere in quanto sono legate al romanticismo e al suo interesse storico per il Medio Evo e per le origini delle nazioni moderne, cioè nei rapporti tra razze germaniche invaditrici e razze neolatine invase, ecc. (Su questo argomento del «democraticismo» o «popolarismo» del Manzoni vedere altre note). Anche su questo punto dei rapporti tra l'atteggiamento del Manzoni e le teorie dei Thierry è da vedere il libro dello Zottoli, Umili e potenti nella poetica di A. Manzoni.

Queste teorie di Thierry nel Manzoni si complicano, o almeno hanno aspetti nuovi nella discussione sul «romanzo storico» in quanto esso rappresenta persone delle «classi subalterne» che «non hanno storia», cioè la cui storia non lascia tracce nei documenti storici del passato. (Questo punto è da connettere con la rubrica «Storia delle classi subalterne», in cui si può fare riferimento alle dottrine del Thierry, che del resto hanno avuto tanta importanza per le origini della storiografia della filosofia della prassi).

 

Del carattere non popolare-nazionale della letteratura italiana. Atteggiamento verso il popolo nei Promessi Sposi. [Il] carattere «aristocratico» del cattolicismo manzoniano appare dal «compatimento» scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare in Tolstoi) come fra Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa Lucia, ecc. (Su questo argomento ho scritto altra nota). Vedere se spunti interessanti nel libro di A. A. Zottoli, Umili e potenti nella poetica di A. Manzoni, Ed. «La Cultura», Roma-Milano 1931.

Sul libro dello Zottoli cfr. Filippo Crispolti, Nuove indagini sul Manzoni, nel «Pègaso», di agosto 1931. Questo articolo del Crispolti è interessante di per se stesso, per comprendere l'atteggiamento del cristianesimo gesuitico verso gli «umili». Ma in realtà mi pare che il Crispolti abbia ragione contro lo Zottoli, sebbene il Crispolti ragioni «gesuiticamente». Dice il Crispolti del Manzoni: «Il popolo ha per sé tutto il cuore di lui, ma egli non si piega ad adularlo mai; lo vede anzi collo stesso occhio severo con cui vede i piú di coloro che non sono popolo». Ma non si tratta di volere che il Manzoni «aduli il popolo», si tratta del suo atteggiamento psicologico verso i singoli personaggi che sono «popolari»; questo atteggiamento è nettamente di casta pur nella sua forma religiosa cattolica; i popolani, per il Manzoni, non hanno «vita interiore», non hanno personalità morale profonda; essi sono «animali» e il Manzoni è «benevolo» verso di loro proprio della benevolenza di una cattolica società di protezione degli animali. In un certo senso il Manzoni ricorda l'epigramma su Paolo Bourget: che per il Bourget occorre che una donna abbia 100.000 franchi di rendita per avere una psicologia. Da questo punto di vista il Manzoni (e il Bourget) sono schiettamente cattolici; niente in loro dello spirito «popolare» di Tolstoi, cioè dello spirito evangelico del cristianesimo primitivo. L'atteggiamento del Manzoni verso i suoi popolani è l'atteggiamento della Chiesa Cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di medesimezza umana. Lo stesso Crispolti, nella frase citata, inconsapevolmente confessa questa «parzialità» (o «partigianeria») del Manzoni: il Manzoni vede con «occhio severo» tutto il popolo, mentre vede con occhio severo «i piú di coloro che non sono popolo»: egli trova «magnanimità», «alti pensieri», «grandi sentimenti» solo in alcuni della classe alta, in nessuno del popolo, che nella sua totalità è bassamente animalesco.

Che non abbia un gran significato il fatto che gli «umili» abbiano una parte di prim'ordine nel romanzo manzoniano, è giusto, come dice il Crispolti. Il Manzoni pone il «popolo» nel suo romanzo, oltre che per i personaggi principali (Renzo, Lucia, Perpetua, fra Galdino, ecc.) anche per la massa (tumulti di Milano, popolani di campagna, il sarto, ecc.), ma appunto il suo atteggiamento verso il popolo non è «popolare-nazionale», ma aristocratico.

Studiando il libro dello Zottoli, occorre ricordare questo articolo del Crispolti. Si può mostrare che il «cattolicismo» anche in uomini superiori e non «gesuitici» come il Manzoni (il Manzoni aveva certamente una vena giansenistica e antigesuitica) non contribuí a creare in Italia il «popolo-nazione» neanche nel Romanticismo, anzi fu un elemento anti-nazionale-popolare e solamente aulico. Il Crispolti accenna solo al fatto che il Manzoni per un certo tempo accolse la concezione del Thierry (per la Francia) della lotta di razza nel seno del popolo (Longobardi e Romani, come in Francia Franchi e Galli) come lotta tra umili e potenti. Lo Zottoli cerca di rispondere al Crispolti nel «Pègaso» del settembre 1931.

 

Adolfo Faggi nel «Marzocco» del 1° novembre 1931 scrive alcune osservazioni sulla sentenza «Vox populi vox Dei» nei Promessi Sposi. La sentenza è citata due volte (secondo il Faggi) nel romanzo: una volta nell'ultimo capitolo ed appare detta da Don Abbondio a proposito del marchese successore di Don Rodrigo: «E poi non vorrà che si dica che è un grand'uomo. Lo dico e lo voglio dire. E anche se io stessi zitto, già non servirebbe a nulla, perché parlan tutti, e vox populi, vox Dei». Il Faggi fa osservare che questo solenne proverbio è impiegato da don Abbondio un po' enfaticamente, mentre egli si trova in quella felice disposizione d'animo per la morte di don Rodrigo, ecc.; non ha particolare importanza o significato. L'altra volta la sentenza si trova nel cap. XXXI, dove si parla della peste: «Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?) deridevano gli auguri sinistri, gli avvertimenti minacciosi dei pochi, ecc.». Qui il proverbio è riportato in italiano e in parentesi, con intonazione ironica. Negli Sposi Promessi (cap. III del tomo IV, ediz. Lesca) il Manzoni scrive a lungo sulle idee tenute generalmente per vere in un tempo o in un altro dagli uomini e conchiude che se oggi si possono trovare ridicole le idee diffuse tra il popolo al tempo della peste di Milano, non possiamo sapere se idee odierne non saranno trovate ridicole domani, ecc. Questo lungo ragionamento della prima stesura è riassunto nel testo definitivo nella breve domanda: «Era anche in questo caso voce di Dio?»

Il Faggi distingue tra i casi in cui per il Manzoni la voce del popolo non è in certi casi voce di Dio, da altri in cui può esser tale. Non sarebbe voce di Dio «quando si tratti d'idee o meglio di cognizioni specifiche, che soltanto dalla scienza e dai suoi continui progressi possono essere determinate; ma quando si tratti di quei principii generali e sentimenti comuni per natura a tutti quanti gli uomini, che gli antichi comprendevano nella ben nota espressione di conscentia generis humani». Ma il Faggi non pone molto esattamente la quistione, che non può essere risolta senza riferirsi alla religione del Manzoni, al suo cattolicismo. Cosí riporta per esempio il famoso parere di Perpetua a don Abbondio, parere che coincide con l'opinione del card. Borromeo. Ma nel caso non si tratta di una quistione morale o religiosa, ma di un consiglio di prudenza pratica, dettato dal senso comune piú banale. Che il card. Borromeo si trovi d'accordo con Perpetua non ha quella importanza che sembra al Faggi. Mi pare sia legato al tempo e al fatto che l'autorità ecclesiastica aveva un potere politico e un'influenza; che Perpetua pensi che don Abbondio debba ricorrere all'arcivescovo di Milano, è cosa naturale (serve solo a mostrare come Don Abbondio avesse perduto la testa in quel momento e Perpetua avesse piú «spirito di corpo» di lui), come è naturale che Federico Borromeo cosí parli. Non c'entra la voce di Dio in questo caso. Cosí non ha molto rilievo l'altro caso: Renzo non crede all'efficienza del voto di castità fatto da Lucia e in ciò si trova d'accordo col padre Cristoforo. Si tratta anche qui di «casistica» e non di morale. Il Faggi scrive che «il Manzoni ha voluto fare un romanzo di umili», ma ciò ha un significato piú complesso di ciò che il Faggi mostri di credere. Tra il Manzoni e gli «umili» c'è distacco sentimentale; gli umili sono per il Manzoni un «problema di storiografia», un problema teorico che egli crede di poter risolvere col romanzo storico, col «verosimile» del romanzo storico. Perciò gli umili sono spesso presentati come «macchiette» popolari, con bonarietà ironica, ma ironica. E il Manzoni è troppo cattolico per pensare che la voce del popolo sia voce di Dio: tra il popolo e Dio c'è la chiesa, e Dio non s'incarna nel popolo, ma nella chiesa. Che Dio s'incarni nel popolo può crederlo il Tolstoi, non il Manzoni.

Certo questo atteggiamento del Manzoni è sentito dal popolo e perciò i Promessi Sposi non sono mai stati popolari: sentimentalmente il popolo sentiva il Manzoni lontano da sé e il suo libro come un libro di devozione non come un'epopea popolare.

 

 

«Popolarità» del Tolstoi e del Manzoni. Nel «Marzocco» dell'11 novembre 1928 è pubblicato un articolo di Adolfo Faggi, Fede e dramma, nel quale sono contenuti alcuni elementi per istituire un confronto tra la concezione del mondo del Tolstoi e quella del Manzoni, sebbene il Faggi affermi arbitrariamente che i «Promessi Sposi corrispondono perfettamente al suo (del Tolstoi) concetto dell'arte religiosa», esposto nello studio critico sullo Shakespeare: «L'arte in generale e in particolare l'arte drammatica fu sempre religiosa, ebbe cioè sempre per iscopo di chiarire agli uomini i loro rapporti con Dio, secondo la comprensione che di questi rapporti s'erano fatta in ogni età gli uomini piú eminenti e destinati perciò a guidare gli altri... Ci fu poi una deviazione nell'arte che l'asserví al passatempo e al divertimento; deviazione che ha avuto luogo anche nell'arte cristiana». Nota il Faggi che in Guerra e Pace i due personaggi che hanno la maggior importanza religiosa sono Platone Karatajev e Pietro Biezuchov: il primo è uomo del popolo, e il suo pensiero ingenuo ed istintivo ha molta efficacia sulla concezione della vita di P. Biezuchov.

Nel Tolstoi è caratteristico appunto che la saggezza ingenua ed istintiva del popolo, enunciata anche con una parola casuale, faccia la luce e determini una crisi nell'uomo colto. Ciò appunto è il tratto piú rilevante della religione del Tolstoi che intende l'Evangelo «democraticamente», cioè secondo il suo spirito originario e originale. Il Manzoni invece ha subíto la Controriforma: il suo cristianesimo ondeggia tra un aristocraticismo giansenistico e un paternalismo popolaresco gesuitico. Il rilievo del Faggi che «nei Promessi Sposi sono gli spiriti superiori come il padre Cristoforo e il cardinale Borromeo che agiscono sugli inferiori e sanno sempre trovare per loro la parola che illumina e guida» non ha connessione sostanziale con la formulazione di ciò che è l'arte religiosa di Tolstoi, che si riferisce alla concezione generale e non ai particolari modi di estrinsecazione: le concezioni del mondo non possono non essere elaborate da spiriti eminenti, ma la «realtà» è espressa dagli umili, dai semplici di spirito.

Bisogna inoltre notare che nei Promessi Sposi non c'è popolano che non sia «preso in giro» e canzonato: da don Abbondio a fra Galdino, al sarto, a Gervasio, ad Agnese, a Perpetua, a Renzo, alla stessa Lucia: essi sono rappresentati come gente meschina, angusta, senza vita interiore. Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il Borromeo, l'Innominato, lo stesso don Rodrigo. Perpetua, secondo don Abbondio, aveva detto presso a poco ciò che disse poi il Borromeo, ma intanto si tratta di quistioni pratiche e poi è notevole come lo spunto sia oggetto di comicità. Cosí il fatto che il parere di Renzo sul valore del voto di verginità di Lucia coincide esteriormente col parere di padre Cristoforo. L'importanza che ha la frase di Lucia nel turbare la coscienza dell'Innominato e nel secondarne la crisi morale è di carattere non illuminante e folgorante come ha l'apporto del popolo, sorgente di vita morale e religiosa, nel Tolstoi, ma meccanico e di carattere «sillogistico». In realtà anche nel Manzoni si possono trovare notevoli tracce di brescianesimo. (È da notare che prima del Parini, furono i gesuiti a «valorizzare» «paternalisticamente» il popolo: cfr. La giovinezza del Parini, Verri e Beccaria di C. A. Vianello (Milano, 1933), dove si accenna al padre gesuita Pozzi «che tanto prima del Parini insorse a difendere ed esaltare – innanzi al consesso del migliore patriziato milanese – «il plebeo» o proletario, come ora si direbbe» (vedi «Civiltà Cattolica» del 4 agosto 1934, p. 272).

In un secondo articolo pubblicato nel «Marzocco» del 9 settembre 1928, il Faggi (Tolstoi e Shakespeare) esamina l'opuscolo di Tolstoi su Shakespeare, al quale aveva accennato nell'articolo precedente: Leo N. Tolstoi: Shakespeare, eine kritische Studie, Hannover, 1906. Il volumetto contiene anche un articolo di Ernest Crosby su L'atteggiamento dello Shakespeare davanti alle classi lavoratrici e una breve lettera di Bernardo Shaw sulla filosofia dello Shakespeare. Tolstoi vuole demolire lo Shakespeare partendo dal punto di vista della propria ideologia cristiana; la sua critica non è artistica, ma morale e religiosa. L'articolo del Crosby, da cui prese le mosse, mostra, contrariamente all'opinione di molti illustri inglesi, che non c'è in tutta l'opera dello Shakespeare quasi alcuna parola di simpatia per il popolo e le masse lavoratrici. Lo Shakespeare, conforme alle tendenze del suo tempo, parteggia manifestamente per le classi elevate della società: il suo dramma è essenzialmente aristocratico. Quasi tutte le volte che egli introduce sulla scena dei borghesi o dei popolani, li presenta in maniera sprezzante o repugnante, e li fa materia o argomento di riso (cfr. ciò che già detto del Manzoni, la cui tendenza è analoga, sebbene le manifestazioni ne siano attenuate).

La lettera dello Shaw è rivolta contro Shakespeare «pensatore», non contro Shakespeare «artista». Secondo lo Shaw nella letteratura si deve dare il primo posto a quegli autori che hanno superato la morale del loro tempo e intraveduto le nuove esigenze dell'avvenire: Shakespeare non fu «moralmente» superiore al suo tempo ecc.

In queste note occorre evitare ogni tendenziosità moralistica tipo Tolstoi e anche ogni tendenziosità del «senno di poi» tipo Shaw. Si tratta di una ricerca di storia della cultura, non di critica artistica in senso stretto: si vuole dimostrare che sono gli autori esaminati che introducono un contenuto morale estrinseco, cioè fanno della propaganda e non dell'arte, e che la concezione del mondo implicita nelle loro opere è angusta e meschina, non nazionale-popolare ma di casta chiusa. La ricerca sulla bellezza di un'opera è subordinata alla ricerca del perché essa è «letta», è «popolare», è «ricercata» o, all'opposto, del perché non tocca il popolo e non l'interessa, mettendo in evidenza la assenza di unità nella vita culturale nazionale.

 

 

[Ironia e gergo letterario.] Nel «Marzocco» del 18 settembre 1932 Tullia Franzi scrive sulla quistione sorta tra il Manzoni e il traduttore inglese dei Promessi Sposi, il pastore anglicano Carlo Swan, a proposito della espressione, contenuta verso la fine del capitolo settimo, impiegata per indicare Shakespeare: «Tra il primo concetto di una impresa terribile e l'esecuzione di essa (ha detto un barbaro che non era privo d'ingegno) l'intervallo è un sogno pieno di fantasmi e di paure». Lo Swan scrisse al Manzoni: «Un barbaro che non era privo d'ingegno is a phrase, calculated to draw upon you the anathema of every admirer of our bard». Nonostante che Swan conoscesse gli scritti del Voltaire contro Shakespeare, egli non colse l'ironia manzoniana, che era appunto rivolta contro il Voltaire (che aveva definito lo Shakespeare «un sauvage avec des étincelles de génie»). Lo Swan pubblicò come prefazione alla sua traduzione la lettera dove il Manzoni gli spiega il significato della sua espressione ironica. Ma la Franzi ricorda che nelle altre traduzioni inglesi l'espressione manzoniana o è taciuta o è resa anodina (scrive uno scrittore straniero ecc.). Cosí nelle traduzioni in altre lingue, ciò che dimostra come questa ironia che ha bisogno di essere spiegata per essere compresa e assaporata, sia in fondo un'ironia in «gergo», da conventicola letteraria. Mi pare che il fatto sia molto piú esteso di quanto non sembri, e renda difficile tradurre dall'italiano non solo ma anche, spesso, comprendere un italiano che parla in conversazione. La «finezza» di cui pare si abbia bisogno in tali conversazioni non è un fatto dell'intelligenza normale, ma il fatto di dover conoscere fatterelli e atteggiamenti intellettuali di «gergo», proprii di letterati e anzi di certi gruppi di letterati. (Nell'articolo della Franzi è da notare una metafora «femminile» sorprendente: «Col sentimento di un uomo che, strapazzato e battuto dalla sua sposa per sospetto geloso, si rallegra tutto di quegli sdegni e benedice quelle percosse che gli sono testimonianza di amore, il Manzoni accolse questa lettera». Un uomo che si rallegra di essere bastonato dalla moglie è certo una forma originale di femminismo contemporaneo).

 

 

[«Contenutisti» e «calligrafi».] Polemica svoltasi nell'«Italia Letteraria», nel «Tevere», nel «Lavoro Fascista», nella «Critica Fascista» tra «contenutisti» e «calligrafi». Pareva da alcuni accenni che Gherardo Casini (Direttore del «Lavoro fascista» e redattore capo della «Critica fascista») dovesse impostare almeno criticamente in modo esatto il problema, ma il suo articolo nella «Critica» del 1° maggio è una delusione. Egli non riesce a definire i rapporti tra «politica» e «letteratura» nel terreno della scienza e dell'arte politica come non riesce a definirli nel terreno della critica letteraria: egli non sa praticamente indicare come possa essere impostata e condotta una lotta o aiutato un movimento per il trionfo di una nuova cultura o civiltà, né si pone il problema del come possa avvenire che una nuova civiltà, affermata come già esistente, possa non avere una sua espressione letteraria e artistica, possa non espandersi nella letteratura, mentre è sempre avvenuto il contrario nella storia, che ogni nuova civiltà, in quanto era tale, anche compressa, combattuta, in tutti i modi impastoiata, si sia precisamente espressa letterariamente prima che nella vita statale, anzi la sua espressione letteraria sia stata il modo di creare le condizioni intellettuali e morali per l'espressione legislativa e statale. Poiché nessuna opera d'arte può non avere un contenuto, cioè non essere legata a un mondo poetico e questo a un mondo intellettuale e morale, è evidente che i «contenutisti» sono semplicemente i portatori di una nuova cultura, di un nuovo contenuto e i «calligrafi» i portatori di un vecchio o diverso contenuto, di una vecchia o diversa cultura (a parte ogni quistione di valore su questi contenuti o «culture» per il momento, sebbene in realtà è proprio il valore delle culture in contrasto e la superiorità di una sull'altra che decide del contrasto). Il problema quindi è di «storicità» dell'arte, di «storicità e perpetuità» nel tempo stesso, è di ricerca del fatto se il fatto bruto, economico-politico, di forza, abbia (e possa) subíto l'elaborazione ulteriore che si esprime nell'arte o se invece si tratti di pura economicità inelaborabile artisticamente in modo originale in quanto l'elaborazione precedente già contiene il nuovo contenuto, che è nuovo solo cronologicamente. Può avvenire infatti, dato che ogni complesso nazionale è una combinazione spesso eterogenea di elementi, che gli intellettuali di esso, per il loro carattere cosmopolitico, non coincidano col contenuto nazionale, ma con un contenuto preso a prestito da altri complessi nazionali o addirittura cosmopoliticamente astratto. Cosí il Leopardi si può dire il poeta della disperazione portata in certi spiriti dal sensismo settecentesco, a cui in Italia non corrispondeva lo sviluppo di forze e lotte materiali e politiche caratteristico dei paesi in cui il sensismo era forma culturale organica. Quando nel paese arretrato, le forze civili corrispondenti alla forma culturale si affermano ed espandono, è certo che esse non possono creare una nuova originale letteratura, non solo, ma anzi [è naturale] che ci sia un «calligrafismo» cioè, in realtà, uno scetticismo diffuso e generico per ogni «contenuto» passionale serio e profondo. Pertanto il «calligrafismo» sarà la letteratura organica di tali complessi nazionali, che come Lao-tse, nascono già vecchi di ottanta anni, senza freschezza e spontaneità di sentimento, senza «romanticismi» ma anche senza «classicismi» o con un romanticismo di maniera, in cui la rozzezza iniziale delle passioni è quella delle «estati di San Martino», di un vecchio voronovizzato, non di una virilità o maschilità irrompente, cosí come il classicismo sarà anch'esso di maniera, «calligrafismo» appunto, mera forma come una livrea da maggiordomo. Avremo «strapaese» e «stracittà», e lo «stra» avrà piú significato di quanto non sembri.

È da notare inoltre come in questa discussione manchi ogni serietà di preparazione: le teorie del Croce saranno da accogliere o da respingere, ma bisognerebbe conoscerle con esattezza e citarle con scrupolo. Invece è da notare come nella discussione esse siano riferite a orecchio, «giornalisticamente». È evidente che il momento «artistico» come categoria, nel Croce, anche se esso è presentato come momento della pura forma, non è il presupposto di nessun calligrafismo né la negazione di nessun contenutismo, cioè del vivace irrompere di nessun nuovo motivo culturale. Neanche conta, in realtà, il concreto atteggiamento del Croce, come politico, verso questa o quella corrente di passioni e sentimenti; come esteta il Croce rivendica il carattere di liricità dell'arte, anche se come politico rivendichi e lotti per il trionfo di un determinato programma invece che di un altro. Pare anzi che con la sua teoria della circolarità delle categorie spirituali, non possa negarsi che nell'artista il Croce presupponga una forte «moralità», anche se non come fatto morale consideri l'opera d'arte ma come fatto estetico, cioè consideri un momento e non un altro del circolo come quello di cui si tratta. Cosí, per esempio, nel momento economico considera il «brigantaggio», come l'affare di borsa, ma non pare che come uomo lavori allo sviluppo del brigantaggio piú che agli affari di borsa (e si può dire che, in misura della sua importanza politica, il suo atteggiamento non sia senza ripercussione sugli affari di borsa). Questo stesso fatto, della poca serietà della discussione e del non soverchio scrupolo dei disputanti nell'impadronirsi dei termini del problema e nello scrupolo dell'esattezza, non è certo documento che il problema sia vitale e di importanza eccezionale: è una polemica di piccoli e mediocri giornalisti piú che i «dolori del parto» di una nuova civiltà letteraria.

 

 

Il pubblico e la letteratura italiana. In un articolo pubblicato dal «Lavoro» e riportato in estratti dalla «Fiera Letteraria» del 28 ottobre 1928, Leo Ferrero scrive: «Per una ragione o per l'altra si può dire che gli scrittori italiani non abbiano piú pubblico. [...] Un pubblico infatti vuol dire un insieme di persone, non soltanto che compra dei libri, ma soprattutto che ammira degli uomini. Una letteratura non può fiorire che in un clima di ammirazione e l'ammirazione non è, come si potrebbe credere, il compenso, ma lo stimolo del lavoro. [...] Il pubblico che ammira, che ammira davvero, di cuore, con gioia, il pubblico che ha la felicità di ammirare (niente è piú deleterio dell'ammirazione convenzionale) è il piú grande animatore di una letteratura. Da molti segni si capisce ahimè che il pubblico sta abbandonando gli scrittori italiani».

L'«ammirazione» del Ferrero non è altro che una metafora e un «nome collettivo» per indicare il complesso sistema di rapporti, la forma di contatto tra una nazione e i suoi scrittori. Oggi questo contatto manca, cioè la letteratura non è nazionale perché non è popolare. Paradosso del tempo attuale. Inoltre non c'è una gerarchia nel mondo letterario, cioè manca una personalità eminente che eserciti una egemonia culturale. Quistione del perché e del come una letteratura sia popolare. La «bellezza» non basta: ci vuole un determinato contenuto intellettuale e morale che sia l'espressione elaborata e compiuta delle aspirazioni piú profonde di un determinato pubblico, cioè della nazione-popolo in una certa fase del suo sviluppo storico. La letteratura deve essere nello stesso tempo elemento attuale di civiltà e opera d'arte, altrimenti alla letteratura d'arte viene preferita la letteratura d'appendice che, a modo suo, è un elemento attuale di cultura, di una cultura degradata quanto si vuole ma sentita vivamente.

 

 

La cultura nazionale italiana. Nella Lettera a Umberto Fracchia sulla critica («Pègaso», agosto 1930) Ugo Ojetti fa due osservazioni notevoli. 1) Ricorda che il Thibaudet divide la critica in tre classi: quella dei critici di professione, quella degli stessi autori e quella «des honnêtes gens», cioè del pubblico «illuminato», che alla fine è la vera Borsa dei valori letterari, visto che in Francia esiste un pubblico largo ed attento a seguire tutte le vicende della letteratura. In Italia mancherebbe la critica del pubblico (cioè mancherebbe o sarebbe troppo scarso un pubblico medio illuminato come esiste in Francia), «manca la persuasione o, se si vuole, l'illusione che questi (lo scrittore) compia opera d'importanza nazionale, anzi, i migliori, storica, perché, come ella (il Fracchia) dice "ogni anno e ogni giorno che passa ha ugualmente la sua letteratura, e cosí è sempre stato, e cosí sarà sempre, ed è assurdo aspettare o pronosticare o invocare per domani ciò che oggi è. Ogni secolo, ogni porzione di secolo, ha sempre esaltato le proprie opere; è anzi stato portato se mai ad esagerarne l'importanza, la grandezza, il valore e la durata". Giusto, ma non in Italia ecc.». (L'Ojetti prende lo spunto dalla lettera aperta di Umberto Fracchia a S. E. Gioacchino Volpe, pubblicata nell'«Italia Letteraria» del 22 giugno 1930 e che si riferisce al discorso del Volpe tenuto nella seduta dell'Accademia in cui furono distribuiti dei premi. Il Volpe aveva detto, fra l'altro: «Non si vedono spuntare grandi opere pittoriche, grandi opere storiche, grandi romanzi. Ma chi guarda attentamente, vede nella presente letteratura forze latenti, aneliti all'ascesa, alcune buone e promettenti realizzazioni»).

2) L'altra osservazione dell'Ojetti è questa: «La scarsa popolarità della nostra letteratura passata, cioè dei nostri classici. È vero: nella critica inglese e francese si leggono spesso paragoni tra gli autori viventi e i classici ecc. ecc.». Questa osservazione è fondamentale per un giudizio storico sulla presente cultura italiana: il passato non vive nel presente, non è elemento essenziale del presente, cioè nella storia della cultura nazionale non c'è continuità e unità. L'affermazione di una continuità ed unità è solo un'affermazione retorica o ha valore di mera propaganda suggestiva, è un atto pratico, che tende a creare artificialmente ciò che non esiste, non è una realtà in atto. (Una certa continuità e unità parve esistere dal Risorgimento fino al Carducci e al Pascoli, per i quali era possibile un richiamo fino alla letteratura latina; furono spezzate col D'Annunzio e successori). Il passato, compresa la letteratura, non è elemento di vita, ma solo di cultura libresca e scolastica; ciò che poi significa che il sentimento nazionale è recente, se addirittura non conviene dire che esso è solo ancora in via di formazione, riaffermando che in Italia la letteratura non è mai stata un fatto nazionale, ma di carattere «cosmopolitico».

Dalla lettera aperta di Umberto Fracchia a S. E. G. Volpe si possono estrarre altri brani tipici: «Solo un po' [piú] di coraggio, di abbandono (!), di fede (!) basterebbero per trasformare l'elogio a denti stretti che Ella ha fatto della presente letteratura in un elogio aperto ed esplicito; per dire che la presente letteratura italiana ha forze non solo latenti, ma anche scoperte, visibili (!) le quali non aspettano (!) che di essere vedute (!) e riconosciute da quanti le ignorano, ecc. ecc.». Il Volpe aveva un po' «sul serio» parafrasato i versi giocosi del Giusti: «Eroi, eroi, che fate voi? – Ponziamo il poi!», e il Fracchia si lamenta miserevolmente che non siano riconosciute ed apprezzate le ponzature come ponzature.

Il Fracchia parecchie volte ha minacciato gli editori che stampano troppe traduzioni di misure legislative-corporative che proteggano gli scrittori italiani (è da ricordare l'ordinanza del sottosegretario agli Interni on. Bianchi, poi «interpretata» e di fatto revocata, e che era connessa a una campagna giornalistica del Fracchia). Il ragionamento del Fracchia già citato: ogni secolo, ogni frazione di secolo ha la sua letteratura, non solo, ma la esalta; tanto che le storie letterarie hanno dovuto mettere a posto molte opere esaltatissime e che oggi si riconosce non valgono nulla. All'ingrosso il fatto è giusto, ma se ne deve dedurre che l'attuale periodo letterario non sa interpretare il suo tempo, è staccato dalla vita nazionale effettiva, sicché neanche per «ragioni pratiche» vengono esaltate opere che poi magari potrebbero essere riconosciute artisticamente nulle perché la loro «praticità» sarà stata superata. Ma è vero che non ci siano libri molto letti? ci sono, ma sono stranieri e ce ne sarebbero di piú se fossero tradotti, come i libri di Remarque, ecc. Realmente il tempo presente non ha una letteratura aderente ai suoi bisogni piú profondi ed elementari, perché la letteratura esistente, salvo rare eccezioni, non è legata alla vita popolare-nazionale, ma a gruppi ristretti che della vita nazionale sono le mosche cocchiere. Il Fracchia si lamenta della critica, che si pone solo dal punto di vista dei grandi capolavori, che si è rarefatta nella perfezione delle teorie estetiche ecc. Ma se i libri fossero esaminati da un punto di vista di storia della cultura, si lamenterebbe lo stesso e peggio, perché il contenuto ideologico e culturale dell'attuale letteratura è quasi zero, ed è, per di piú, contraddittorio e discretamente gesuitico.

Non è neanche vero (come ha scritto l'Ojetti nella lettera al Fracchia) che in Italia non esista una «critica del pubblico»; esiste, ma a suo modo, perché il pubblico legge molto e quindi sceglie tra ciò che esiste a sua disposizione. Perché questo pubblico preferisce ancora Alessandro Dumas e Carolina Invernizio e si getta avidamente sui romanzi gialli? D'altronde questa critica del pubblico italiano ha una sua organizzazione, che è rappresentata dagli editori, dai direttori di quotidiani e periodici popolari; si manifesta nella scelta delle appendici; si manifesta nella traduzione di libri stranieri e non solo attuali, ma vecchi, molto vecchi; si manifesta nei repertori delle compagnie teatrali ecc. Né si tratta di esotismo al cento per cento, perché in musica lo stesso pubblico vuole Verdi, Puccini, Mascagni, che non hanno i corrispondenti nella letteratura, evidentemente. Non solo; ma all'estero Verdi, Puccini, Mascagni sono preferiti spesso dai pubblici stranieri ai loro stessi musicisti nazionali e attuali. Questo fatto è la riprova piú perentoria che in Italia c'è distacco tra pubblico e scrittori e il pubblico cerca la «sua» letteratura all'estero, perché la sente piú «sua» di quella cosí detta nazionale. In questo fatto è posto un problema di vita nazionale essenziale. Se è vero che ogni secolo o frazione di secolo ha la sua letteratura, non è sempre vero che questa letteratura sia prodotta nella stessa comunità nazionale. Ogni popolo ha la sua letteratura, ma essa può venirgli da un altro popolo, cioè il popolo in parola può essere subordinato all'egemonia intellettuale e morale di altri popoli. È questo spesso il paradosso piú stridente per molte tendenze monopolistiche di carattere nazionalistico e repressivo: che mentre si costruiscono piani grandiosi di egemonia, non ci si accorge di essere oggetto di egemonie straniere; cosí come, mentre si fanno piani imperialistici, in realtà si è oggetto di altri imperialismi ecc. D'altronde non si sa se il centro politico dirigente non capisca benissimo la situazione di fatto e non cerchi di superarla: è certo però che i letterati, in questo caso, non aiutano il centro dirigente politico in questi sforzi e i loro cervelli vuoti si accaniscono nell'esaltazione nazionalistica per non sentire il peso dell'egemonia da cui si dipende e si è oppressi.

 

 

[Polemiche inconcludenti.] Si moltiplicano gli scritti sul distacco tra arte e vita. Articolo di Papini, nella «Nuova Antologia» del 1° gennaio 1933, articolo di Luigi Chiarini nell'«Educazione Fascista» del dicembre 1932. Attacchi contro Papini nell'«Italia Letteraria» ecc... Polemiche noiose e quanto inconcludenti. Papini è cattolico e anticrociano; le contraddizioni del suo superficiale scritto risultano da questa doppia qualità. In ogni modo questo rinnovarsi delle polemiche (alcuni articoli di «Critica Fascista», quelli di Gherardo Casini e uno di Bruno Spampanato contro gli intellettuali sono i piú notevoli e si avvicinano di piú al nocciolo della quistione) è sintomatico e mostra come si senta il disagio per il contrasto tra le parole e i fatti, tra le affermazioni recise e la realtà che le contraddice.

Pare però che oggi sia piú possibile far riconoscere la realtà della situazione: c'è indubbiamente piú buona volontà di comprendere, piú spregiudicatezza ed esse sono date dal diffuso spirito antiborghese anche se generico e di origini spurie. Per lo meno si vorrebbe creare una effettiva unità nazionale-popolare, anche se con mezzi estrinseci, pedagogici, scolastici, col «volontarismo»: per lo meno si sente che questa unità manca e che tale mancanza è una debolezza nazionale e statale. Ciò differenzia radicalmente l'attuale epoca da quella degli Ojetti, dei Panzini e C. Perciò nella trattazione di questa rubrica conviene tenerne conto. Le debolezze, d'altronde, sono evidenti: la prima è quella dell'essere persuasi che sia avvenuto un rivolgimento radicale popolare-nazionale; se è avvenuto, vuol dire che non si deve far nulla piú oltre di radicale, ma che si tratta solo di «organizzare», educare, ecc.; tutt'al piú si parla di «rivoluzione permanente» ma in significato ristretto, nella solita accezione che tutta la vita è dialettica, è milizia, quindi rivoluzione. Le altre debolezze sono di piú difficile comprensione: esse infatti possono risultare solo da una esatta analisi della composizione sociale italiana, da cui risulta che la grande massa degli intellettuali appartiene a quella borghesia rurale, la cui posizione economica è possibile solo se le masse contadine sono spremute fino alle midolla. Quando dalle parole si dovesse passare ai fatti concreti, questi significherebbero una distruzione radicale della base economica di questi gruppi intellettuali.

 

 

[Ciò che è «interessante» nell'arte.] Bisognerà fissare bene ciò che deve intendersi per «interessante» nell'arte in generale e specialmente nella letteratura narrativa e nel teatro. L'elemento «interessante» muta secondo gli individui o i gruppi sociali o la folla in generale: è quindi un elemento della cultura, non dell'arte, ecc. Ma è perciò un fatto completamente estraneo e separato dall'arte? Intanto l'arte stessa interessa, è interessante cioè per se stessa, in quanto soddisfa una esigenza della vita. Ancora: oltre questo carattere piú intimo all'arte di essere interessante per se stessa, quali altri elementi di «interesse» può presentare un'opera d'arte, per esempio un romanzo o un poema o un dramma? Teoricamente infiniti. Ma quelli che «interessano» non sono infiniti: sono precisamente solo gli elementi che si ritiene contribuiscano piú direttamente alla «fortuna» immediata o mediata (in primo grado) del romanzo, del poema, del dramma. Un grammatico si può interessare ad un dramma di Pirandello perché vuol sapere quanti elementi lessicali, morfologici e sintattici di marca siciliana il Pirandello introduce o può introdurre nella lingua italiana letteraria: ecco un elemento «interessante» che non contribuirà molto alla diffusione del dramma in parola. I «metri barbari» del Carducci erano un elemento «interessante» per una cerchia piú vasta, per la corporazione dei letterati di professione, e per quelli che intendevano diventarlo: furono dunque un elemento di «fortuna» immediata già notevole, contribuirono a diffondere qualche migliaia di copie dei versi scritti in metri barbari. Questi elementi «interessanti» variano secondo i tempi, i climi culturali e secondo le idiosincrasie personali.

L'elemento piú stabile di «interesse» è certamente l'interesse «morale» positivo o negativo, cioè per adesione o per contraddizione: «stabile» in un certo senso, cioè nel senso della «categoria morale», non del contenuto concreto morale. Strettamente legato a questo è l'elemento «tecnico» in un certo senso particolare, cioè «tecnico» come modo di far capire nel modo piú immediato e piú drammatico il contenuto morale, il contrasto morale del romanzo, del poema, del dramma: cosí abbiamo nel dramma i «colpi» di scena, nel romanzo l'«intrigo» prevalente, ecc. Tutti questi elementi non sono necessariamente «artistici», ma non sono neanche necessariamente non artistici. Dal punto di vista dell'arte essi sono in un certo senso «indifferenti», cioè extra-artistici: sono dati di storia della cultura e da questo punto di vista devono essere valutati.

Che ciò avvenga, che cosí sia, è appunto provato dalla cosí detta letteratura mercantile, che è una sezione della letteratura popolare-nazionale: il carattere «mercantile» è dato dal fatto che l'elemento «interessante» non è «ingenuo», «spontaneo», intimamente fuso nella concezione artistica, ma ricercato dall'esterno, meccanicamente, dosato industrialmente come elemento certo di «fortuna» immediata. Ciò significa, in ogni caso, però, che anche la letteratura commerciale non dev'essere trascurata nella storia della cultura: essa anzi ha un valore grandissimo proprio da questo punto di vista, perché il successo di un libro di letteratura commerciale indica (e spesso è il solo indicatore esistente) quale sia la «filosofia dell'epoca», cioè quale massa di sentimenti e di concezioni del mondo predomini nella moltitudine «silenziosa». Questa letteratura è uno «stupefacente» popolare, è un «oppio». (Da questo punto di vista si potrebbe fare un'analisi del Conte di Montecristo di A. Dumas, che è forse il piú «oppiaceo» dei romanzi popolari: quale uomo del popolo non crede di aver subito un'ingiustizia dai potenti e non fantastica sulla «punizione» da infliggere loro? Edmondo Dantès gli offre il modello, lo «ubbriaca» di esaltazione, sostituisce il credo di una giustizia trascendente in cui non crede piú «sistematicamente»).

 

Cfr. l'articolo Dell'interesse di Carlo Linati nei «Libri del giorno» del febbraio 1929. Il Linati si domanda in che consista quel «quid» per cui i libri interessano e finisce col non trovare una risposta. Ed è certo che una risposta precisa non si può trovare, nel senso almeno che intende il Linati, il quale vorrebbe trovare il «quid» per essere in grado o per mettere gli altri in grado di scrivere libri interessanti. Il Linati dice che il problema in questi ultimi tempi è diventato «scottante» ed è vero, come è naturale che sia. C'è stato un certo risveglio di sentimenti nazionalistici: è spiegabile che si ponga il problema del perché i libri italiani non siano letti, del perché essi siano ritenuti «noiosi» e «interessanti» invece quelli stranieri, ecc. Il risveglio nazionalistico fa sentire che la letteratura italiana non è «nazionale» nel senso che non è popolare e che si subisce come popolo l'egemonia straniera. Onde programmi, polemiche, tentativi, che non riescono però in nulla. Sarebbe necessaria una critica spietata della tradizione e un rinnovamento culturale-morale da cui dovrebbe nascere una nuova letteratura. Ma ciò appunto non può avvenire per la contraddizione ecc.: risveglio nazionalistico ha assunto il significato di esaltazione del passato. Marinetti è diventato accademico e lotta contro la tradizione della pastasciutta.

 

Cfr. l'articolo di Piero Rébora, Libri italiani ed editori inglesi, nell'«Italia che scrive» del marzo 1932. Perché la letteratura italiana contemporanea non ha quasi corso in Inghilterra: «Scarsa capacità di obiettiva narrazione e d'osservazione, egocentrismo morboso, antiquata ossessione erotica; ed insieme, caos linguistico e stilistico, pel quale molti nostri libri son scritti tuttora con torbido impressionismo lirico che infastidisce il lettore italiano e stordisce uno straniero. Centinaia di vocaboli usati dagli scrittori contemporanei non si trovano nei vocabolari e nessuno sa quello che significhino esattamente». «Sopratutto, forse, rappresentazione dell'amore e della donna piú o meno incomprensibile per gli anglo-sassoni, verismo provinciale semi-vernacolo, mancanza di unità linguistica e stilistica». «Occorrono libri di tipo europeo, non di trito verismo provinciale». «L'esperienza m'insegna che il lettore straniero (e probabilmente anche l'italiano) trova nei nostri libri spesso qualcosa di caotico, di urtante, di ripugnante quasi, inseritosi chissà come qua e là, in mezzo a pagine invece ammirevoli, rivelanti un ingegno solido e profondo». «Vi sono romanzi, libri di prose, commedie riuscitissime, che sono irremissibilmente guastate da due o tre pagine, da una scena, da qualche battuta magari, di sconcertante volgarità, sciatteria, disgustosità; che rovina tutto». «... Il fatto rimane che un professore italiano all'estero non riesce, anche con la maggior buona volontà, a mettere insieme una dozzina di buoni libri italiani contemporanei, che non contengano qualche pagina disgustosa, discreditante, [disastrosa] per la nostra elementare dignità, penosamente triviale, che è meglio non metter sotto il naso di intelligenti lettori stranieri. Taluni hanno il malvezzo di chiamare tali pudori e tali disgusti con l'infamante nome di "puritanismo"; mentre invece si tratta solo ed unicamente di "buon gusto"».

L'editore, secondo il Rébora, dovrebbe intervenire di piú nel fatto letterario, e non essere solo un commerciante-industriale, funzionando da prima istanza «critica», specialmente per quanto riguarda la «socialità» del lavoro ecc.

 

 

[Un saggio di Giuseppe Antonio Borgese.] Cfr. il saggio di G. A. Borgese Il senso della letteratura italiana nella «Nuova Antologia» del 1° gennaio 1930. «Un epiteto, un motto, non può riassumere lo spirito di un'epoca o di un popolo, ma giova qualche volta come riferimento o appiglio mnemonico. Per la letteratura francese si suol dire: grazia, ovvero: chiarezza, logica. Si potrebbe dire: cavalleresca lealtà dell'analisi. Diremmo per la letteratura inglese: lirismo dell'intimità; per la tedesca: audacia della libertà; per la russa: coraggio della verità. Le parole di cui possiamo servirci per la letteratura italiana sono quelle appunto che ci sono servite per questi ricordi visivi: maestà, magnificenza, grandezza». Insomma il Borgese trova che il carattere della letteratura italiana è «teologico-assoluto-metafisico-antiromantico» ecc., e forse, il suo linguaggio da ierofante si potrebbe appunto tradurre nel giudizio in parole povere che la letteratura italiana è staccata dallo sviluppo reale del popolo italiano, è di casta, non sente il dramma della storia, non è cioè popolare-nazionale.

Parla del libro del Bonghi: «L'autore e i suoi amici si accorsero presto, ma troppo tardi per correggere un titolo divenuto in breve tempo eccessivamente famoso, che il piccolo libro avrebbe dovuto intitolarsi piuttosto: perché la prosa italiana non sia popolare in Italia. Questo appunto è debole relativamente nella letteratura italiana: la prosa, o, meglio ancora che la prosa intesa come genere letterario e ritmo verbale, diremo il senso del prosaico: l'interesse, la curiosità osservatrice, l'amore paziente per la vita storica e contingente quale si svolge sotto i nostri occhi, per il mondo nel suo divenire, per l'attuazione drammatica e progressiva del divino».

È interessante poco prima un brano sul De Sanctis e il rimprovero buffo: «Vedeva vivere la letteratura italiana da piú di sei secoli e le chiedeva di nascere». In realtà il De Sanctis voleva che la «letteratura» si rinnovasse perché si erano rinnovati gli italiani, perché sparito il distacco tra letteratura e vita ecc. È interessante osservare che il De Sanctis è progressista anche oggi nei confronti dei tanti Borgesi della critica attuale.

«La sua limitata popolarità (della letteratura italiana), il singolare e quasi aristocratico e appartato genere di fortuna che le toccò per tanto tempo, non si spiega soltanto (!) con la sua inferiorità: si spiega piú completamente (!) con le sue altezze (! altezze mescolate con inferiorità!), con l'aria rarefatta in cui si sviluppò. Non-popolarità è come dire non-divulgazione; conseguenza che discende dalla premessa: odi profanum vulgus et arceo. Tutt'altro che popolana e profana, questa letteratura nacque sacra, con un poema, che il suo stesso poeta chiamò sacro (sacro perché parla di Dio, ma quale argomento piú popolare di Dio? E nella Divina Commedia non si parla solo di Dio ma anche dei diavoli e della loro "nuova cennamella") ecc. ecc.». «Il destino politico, che, togliendo all'Italia libertà e potenza materiale, ne fece quello che biblicamente, leviticamente, si chiamerebbe un popolo di sacerdoti».

Il saggio conchiude, meno male, che il carattere della letteratura italiana può cambiare, anzi deve cambiare ecc. ma ciò è stonato con il complesso del saggio stesso.

 

 

[Atteggiamento dello scrittore verso l'ambiente.] Da un articolo di Paolo Milano nell'«Italia letteraria» del 27 dicembre 1931: «Il valore che si dà al contenuto di un'opera d'arte non è mai troppo – ha scritto Goethe. Un simile aforisma può tornare in mente a chi rifletta sullo sforzo, da tante generazioni (?) avviato (sic) e che si sta tuttora compiendo, di creare una tradizione del moderno romanzo italiano. Quale società, anzi quale ceto dipingere? I tentativi piú recenti non consistono forse nel desiderio di uscire dai personaggi popolareschi che tengono la scena nell'opera manzoniana e verghiana? E le mezze riuscite non si possono forse ricondurre alle difficoltà e all'incertezza nel fissare un ambiente (fra alta borghesia oziosa e gente minuta e bohème marginale)?».

Il brano è sorprendente per il modo meccanico ed esteriore di porre le quistioni. Infatti avviene che «generazioni» di scrittori tentino a freddo di fissare l'ambiente da descrivere senza con ciò stesso manifestare il loro carattere «astorico» e la loro povertà morale e sentimentale? Del resto per «contenuto» non basta intendere la scelta di un dato ambiente: ciò che è essenziale per il contenuto è l'atteggiamento dello scrittore e di una generazione verso questo ambiente. L'atteggiamento solo determina il mondo culturale di una generazione e di un'epoca e quindi il suo stile. Anche nel Manzoni e nel Verga, non i «personaggi popolareschi» sono determinanti, ma l'atteggiamento dei due scrittori verso di essi, e questo atteggiamento è antitetico nei due: nel Manzoni è un paternalismo cattolico, una ironia sottintesa, indizio di assenza di profondo istintivo amore verso quei personaggi, è un atteggiamento dettato da un esteriore sentimento di astratto dovere dettato dalla morale cattolica, corretto appunto e vivificato dall'ironia diffusa. Nel Verga è un atteggiamento di fredda impassibilità scientifica e fotografica, dettata dai canoni del verismo applicato piú razionalmente che dallo Zola. L'atteggiamento del Manzoni è il piú diffuso nella letteratura che rappresenta «personaggi popolareschi» e basta ricordare Renato Fucini; esso è ancora di carattere superiore, ma si muove su un filo di rasoio e infatti degenera, negli scrittori subalterni, nell'atteggiamento «brescianesco» stupidamente e gesuiticamente sarcastico.

 

 

[Gli italiani e il romanzo.] Sarà da vedere un discorso sul tema «Gli italiani e il romanzo», tenuto da Angelo Gatti e riprodotto in parte dall'«Italia Letteraria» del 9 aprile 1933. Una notazione interessante pare quella che tocca i rapporti tra moralisti e romanzieri in Francia e in Italia. In Francia il tipo del moralista è ben diverso da quello italiano, che è piuttosto «politico»: l'italiano studia come «dominare», come essere piú forte, piú abile, piú furbo; il francese come «dirigere» e quindi come «comprendere» per influenzare e ottenere un «consenso spontaneo e attivo». I Ricordi politici e civili del Guicciardini, sono di questo tipo. Cosí in Italia grande abbondanza di libri come il Galateo, in cui si bada all'atteggiamento esteriore delle classi alte. Nessun libro come quelli dei grandi moralisti francesi (o di ordine subalterno come in Gaspare Gozzi), con le loro analisi raffinate e capillari. Questa differenza nel «romanzo» che in Italia è piú esteriore, gretto, senza contenuto umano nazionale-popolare o universale.

 

 

Il sentimento «attivo» nazionale degli scrittori. Estratto dalla Lettera a Piero Parini sugli scrittori sedentari di Ugo Ojetti (nel «Pègaso» del settembre 1930): «Come mai noi italiani che abbiamo portato su tutta la terra il nostro lavoro e non soltanto il lavoro manuale, e che da Melbourne a Rio, da S. Francisco a Marsiglia, da Lima a Tunisi abbiamo dense colonie nostre, siamo i soli a non avere romanzi in cui i nostri costumi e la nostra coscienza siano rivelati in contrasto con la coscienza e i costumi di quelli stranieri fra i quali siamo capitati a vivere, a lottare, a soffrire, e talvolta anche a vincere? D'italiani, in basso e in alto, manovali o banchieri, minatori o medici, camerieri o ingegneri, muratori o mercanti, se ne trovano in ogni angolo del mondo. La letteratissima letteratura nostra li ignora, anzi li ha sempre ignorati. Se non v'è romanzo o dramma senza un progrediente contrasto d'anime, quale contrasto piú profondo e concreto di questo tra due razze, e la piú antica delle due, la piú ricca cioè d'usi e riti immemorabili, spatriata e ridotta a vivere senza altro soccorso che quello della propria energia e resistenza?».

Molte osservazioni o aggiunte da fare. In Italia è sempre esistita una notevole massa di pubblicazioni sull'emigrazione, come fenomeno economico-sociale. Non corrisponde una letteratura artistica: ma ogni emigrante racchiude in sé un dramma, già prima di partire dall'Italia. Che i letterati non si occupino dell'emigrato all'estero dovrebbe far meno meraviglia del fatto che non si occupano di lui prima che emigri, delle condizioni che lo costringono a emigrare ecc.; che non si occupino cioè delle lacrime e del sangue che in Italia, prima che all'estero, ha voluto dire l'emigrazione in massa. D'altronde occorre dire che se è scarsa (e per lo piú retorica) la letteratura sugli italiani all'estero, è scarsa anche la letteratura sui paesi stranieri. Perché fosse possibile, come scrive l'Ojetti, rappresentare il contrasto tra italiani immigrati e le popolazioni dei paesi d'immigrazione, occorrerebbe conoscere e questi paesi e... gli italiani.

 

 

[Enrico Thovez.] Nel trattare questa quistione ma specialmente nel fare la storia dell'atteggiamento di tutta una serie di letterati e di critici, che sentivano la falsità della tradizione e il suono falso della sua intima retorica, della sua non aderenza con la realtà storica, non bisogna dimenticare Enrico Thovez, il suo libro Il pastore, il gregge, la zampogna. La reazione del Thovez non è stata giusta, ma importa in questo caso che egli abbia reagito, cioè che abbia sentito almeno che qualcosa non andava.

La sua distinzione tra poesia di forma e poesia di contenuto era falsa teoricamente: la poesia cosí detta di forma è caratterizzata dall'indifferenza del contenuto, cioè dall'indifferenza morale, ma è anche questo un «contenuto», il «vuoto storico e morale dello scrittore». Il Thovez in gran parte si riattaccava al De Sanctis, per il suo aspetto di «innovatore della cultura» italiana ed è da ritenere insieme alla «Voce» una delle forze che lavoravano, caoticamente a dire il vero, per una riforma intellettuale e morale nel periodo prima della guerra.

Sul Thovez bisognerebbe vedere anche le polemiche che suscitò col suo atteggiamento. Nell'articolo Enrico Thovez poeta e il problema della formazione artistica di Alfonso Ricolfi nella «Nuova Antologia» del 16 agosto 1929 c'è qualche spunto utile, ma troppo poco. Bisognerebbe trovare l'articolo di Prezzolini Thovez il precursore.

 

 

Giovanni Cena. La figura di Cena deve essere studiata sotto due punti di vista: come scrittore e poeta «popolare» (cfr. Ada Negri) e come uomo attivo nel cercare di creare istituzioni per l'educazione dei contadini (scuole dell'Agro Romano e delle Paludi Pontine, fondate con Angelo e Anna Celli). Il Cena nacque a Montanaro Canavese il 12 gennaio 1870, morí a Roma il 7 dicembre 1917. Nel 1900-1901 fu corrispondente della «Nuova Antologia» a Parigi e a Londra. Nel 1902 redattore-capo della rivista fino alla morte. Discepolo di Arturo Graf. (Nei Candidati all'Immortalità di Giulio De Frenzi è pubblicata una lettera autobiografica del Cena). Ricordare l'articolo del Cena Che fare? pubblicato dalla «Voce» nel 1912 (mi pare).

 

Sul Cena è molto interessante l'articolo di Arrigo Cajumi Lo strano caso di Giovanni Cena («Italia letteraria», 24 novembre 1929).

Del Cajumi sarà utile ricercare le raccolte di articoli; il Cajumi è molto capace nel trovare certi nessi nel mondo della cultura italiana. Del Cajumi occorre ricordare la quistione di Arrigo ed Enrico: Enrico segretario di redazione dell'«Italia Nostra» il settimanale dei neutralisti intellettuali del 1914-15 e direttore dell'«Ambrosiano» nel periodo in cui l'«Ambrosiano» era controllato da Gualino; mi pare che nel giornale, come direttore responsabile, firmasse cav. o comm. Enrico Cajumi; Arrigo, scrittore di articoli letterari e di cultura nella «Stampa», corrispondente della «Stampa» da Ginevra, durante le sessioni della S. d. N., esaltatore della politica e dell'oratoria di Briand. Perché questo cambiamento di Arrigo in Enrico e di Enrico in Arrigo? Il Cajumi era in terz'anno della Università di Torino quando io ero in primo anno: era un giovane brillante come studente e come conversatore. Ricordare l'episodio di Berra, nel '18 o '19, cioè appena nella «Stampa» cominciò ad apparire la firma di Arrigo Cajumi; il Berra mi raccontò d'aver incontrato Enrico Cajumi e di aver parlato con lui di questi articoli: il Cajumi si mostrava offeso che lo si potesse credere l'autore per l'Enrico-Arrigo. Dall'Università di Torino il Cajumi si trasferí nel '12-13 all'Università di Roma e divenne amico, oltre che allievo di Cesare De Lollis, specializzandosi nella letteratura francese. Che si tratti della stessa persona è dimostrato dall'attuale culto di Arrigo per il De Lollis e dal fatto che egli è del gruppo che ha continuato «La Cultura». Ancora: il Cajumi, col nome di Enrico, continuò a firmare l'«Ambrosiano» anche quando se ne era allontanato, credo per un ammutinamento della redazione; in un articolo della «Stampa» su Marco Ramperti, ricordava in questo tempo, di aver conosciuto personalmente il Ramperti durante una sua avventura giornalistica, e di averlo visto lavorare da vicino: ora il Ramperti era appunto il critico drammatico dell'«Ambrosiano». Adesso il Cajumi è impiegato presso la ditta Bemporad di Firenze e scrive solo articoli di riviste e di letteratura nella «Stampa» (credo) e nell'«Italia Letteraria».

Dall'articolo su Cena stralcio qualche brano: «Nato nel 1870, morto nel 1917, Giovanni Cena ci appare come una figura rappresentativa del movimento intellettuale che la parte migliore della nostra borghesia compí al rimorchio delle nuove idee che venivano di Francia e di Russia; con un apporto personalmente piú amaro ed energico, causato dalle origini proletarie (! o contadine?) e dagli anni di miseria. Autodidatta uscito per miracolo dall'abbrutimento del lavoro paterno e del natio paesello, Cena entrò inconsciamente nella corrente che in Francia – proseguendo una tradizione (!) derivata (!) da Proudhon via via (!) attraverso Vallès e i comunardi sino ai Quatre évangiles zoliani, all'affare Dreyfus, alle Università popolari di Daniel Halévy e che oggi continua in Guéhenno (!) (piuttosto in Pierre Dominique e in altri) – fu definita come l'andata al popolo (il Cajumi trasporta nel passato una parola d'ordine odierna, dei populisti; nel passato tra popolo e scrittori in Francia non ci fu mai scissione dopo la Rivoluzione francese e fino a Zola: la reazione simbolista scavò un fosso tra popolo e scrittori, tra scrittori e vita e Anatole France è il tipo piú compiuto di scrittore libresco e di casta). Il nostro (Cena) veniva dal popolo, di qui l'originalità (!) della sua posizione, ma l'ambiente della lotta era sempre lo stesso, quello dove si affermò il socialismo di un Prampolini. Era la seconda generazione piccolo-borghese dopo l'unità italiana (della prima ha scritto magistralmente la cronistoria Augusto Monti nei Sansoussî), estranea alla politica delle classi conservatrici dominanti, in letteratura piú connessa al De Amicis o allo Stecchetti che al Carducci, lontana da d'Annunzio, e che preferirà formarsi su Tolstoi, considerato piuttosto come pensatore che quale artista, scoprirà Wagner, crederà vagamente ai simbolisti, alla poesia sociale (simbolisti e poesia sociale?), alla pace perpetua, insulterà i governanti perché poco idealisti, e non si ridesterà dai suoi sogni neppure per le cannonate del 1914» (un po' di maniera e stiracchiato tutto ciò). «Cresciuto fra incredibili stenti, sapeva di essere anfibio, né borghese, né popolano: "Come mi facessi un'istruzione accademica e prendessi diplomi, è cosa che mi fa perdere spesso ogni calma a pensarci. E quando, pensandoci, sento che potrò perdonare, allora ho veramente il senso di essere un vittorioso". "Sento profondamente che soltanto lo sfogo della letteratura e la fede nel suo potere di liberazione e di elevazione mi hanno salvato dal diventare un Ravachol"».

Nel primo abbozzo degli Ammonitori il Cena immaginò che il suicida si gettasse sotto un'automobile reale, ma nell'edizione definitiva non mantenne la scena: «... Studioso di cose sociali, estraneo a Croce, a Missiroli, Jaurès, Oriani, alle vere esigenze del proletariato settentrionale che lui, contadino, non poteva sentire. Torinese, era ostile al giornale che rappresentava la borghesia liberale, anzi socialdemocratica. Di sindacalismo non v'è traccia, di Sorel manca il nome. Il modernismo non lo preoccupava». Questo brano mostra quanto sia superficiale la cultura politica del Cajumi. Il Cena è volta a volta popolano, proletario, contadino. La «Stampa» è socialdemocratica, anzi esiste una borghesia torinese socialdemocratica: il Cajumi imita in ciò certi uomini politici siciliani che fondavano partiti democratici sociali, o addirittura laburisti e cade nel tranello di molti pubblicisti da ridere che hanno cucinato la parola socialdemocrazia in tutte le salse. Il Cajumi dimentica che a Torino la «Stampa» era, prima della guerra, a destra della «Gazzetta del Popolo», giornale democratico moderato. È poi grazioso l'accoppiamento Croce-Missiroli-Jaurès-Oriani per gli studi sociali.

Nello scritto Che fare? il Cena voleva fondere i nazionalisti coi filosocialisti come lui; ma in fondo tutto questo socialismo piccolo borghese alla De Amicis non era un embrione di socialismo nazionale, o nazionalsocialismo, che ha cercato di farsi strada in tanti modi in Italia e che ha trovato nel dopoguerra un terreno propizio?

 

Sull'attività svolta dal Cena per le scuole dei contadini dell'Agro Romano sono da vedere le pubblicazioni di Alessandro Marcucci. (Il Cena intendeva proprio «andare al popolo»; è interessante vedere come praticamente cercò di attuare il suo proposito, perché ciò mostra cosa poteva intendere un intellettuale italiano, d'altronde pieno di buone intenzioni, per «amore per il popolo»).

 

 

Gino Saviotti. Sul carattere antipopolare o almeno apopolare-nazionale della letteratura italiana hanno scritto e continuano a scrivere molti letterati. Ma in queste scritture l'argomento non è posto nei suoi termini reali e le conclusioni concrete sono spesso stupefacenti. Per esempio di Gino Saviotti, che volentieri scrive contro la letteratura dei letterati, si trova citato nell'«Italia Letteraria» del 24 agosto 1930 questo brano riportato da un articolo pubblicato nell'«Ambrosiano» del 15 agosto: «Buon Parini, si capisce perché avete sollevato la poesia italiana, ai vostri tempi. Le avete dato la serietà che le mancava, avete trasfuso nelle sue aride vene il vostro buon sangue popolano. Vi sieno rese grazie anche in questo giorno dopo centotrentun'anni dalla vostra morte. Ci vorrebbe un altro uomo come voi, oggi, nella nostra cosí detta poesia!». Nel 1934 è stato dato al Saviotti un premio letterario (una parte del premio Viareggio) per un romanzo in cui si rappresenta lo sforzo di un popolano per diventare «artista» (cioè per diventare «artista professionale», non essere piú «popolano», ma innalzarsi al rango degli intellettuali di professione): argomento essenzialmente «antipopolare» ed esaltazione della casta, come modello di vita «superiore»: ciò che di piú vecchio e stantío può trovarsi nella tradizione italiana.

 

 

La «scoperta» di Italo Svevo. Italo Svevo fu rivelato al pubblico dei letterati italiani da James Joyce, che lo aveva conosciuto personalmente a Trieste (tuttavia è da ricordare che Italo Svevo aveva scritto qualche volta nella «Critica Sociale» intorno al 1900).

Commemorando lo Svevo, la «Fiera Letteraria» sostenne che prima di questa rivelazione c'era stata la «scoperta» italiana: «In questi giorni parte della stampa italiana ha ripetuto l'errore della "scoperta francese" (cioè dovuta al Crémieux, al quale però dello Svevo aveva parlato il Joyce, quindi la «Fiera Letteraria» gioca sull'equivoco); anche i maggiori giornali par che ignorino ciò che pure è stato detto e ripetuto a tempo debito. È dunque necessario scrivere ancora una volta che gli italiani colti furono per i primi informati dell'opera dello Svevo; e che per merito di Eugenio Montale, il quale ne scrisse sulle riviste l'"Esame" e il "Quindicinale", lo scrittore triestino ebbe in Italia il primo e legittimo riconoscimento. Con ciò non si vuol togliere agli stranieri nulla di quanto spetta loro; soltanto, ci par giusto che nessuna ombra offuschi la sincerità e, diciamo pure, la fierezza (!!) del nostro omaggio all'amico scomparso». («Fiera Letteraria» del 23 settembre 1928 – lo Svevo era morto il 13 settembre – in un editoriale introduttivo a un articolo del Montale Ultimo addio, e a uno di Giovanni Comisso, Colloquio). Ma questa prosetta untuosa e gesuitesca è in contraddizione con ciò che afferma Carlo Linati, nella «Nuova Antologia» del 1° febbraio 1928 (Italo Svevo, romanziere): «Due anni fa, trovandomi a prender parte alla serata di un club intellettuale milanese, ricordo che ad un certo punto entrò un giovane scrittore tornato allora allora da Parigi, il quale dopo aver discorso a lungo con noi di un pranzo del Pen Club offerto a Pirandello dai letterati parigini, aggiunse che alla fine di esso il celebre romanziere irlandese James Joyce, chiacchierando con lui della letteratura italiana moderna, gli aveva detto: – Ma voialtri italiani avete un grande prosatore e forse neanche lo sapete – Quale? – Italo Svevo, triestino». Il Linati dice che nessuno conosceva quel nome, come non lo conosceva il giovane letterato che aveva parlato col Joyce. Il Montale riuscí finalmente a «scoprire» una copia di Senilità e ne scrisse sull'«Esame». Ecco come i letterati italiani hanno «scoperto» Svevo «fieramente». Si tratta di un puro caso? Non pare. Per la «Fiera Letteraria» sono da ricordare almeno altri due «casi», quello degli Indifferenti di Moravia e quello del Malagigi di Nino Savarese, di cui parlò solo dopo che fu indicato da un concorso a premio letterario. In realtà questa gente si infischia della letteratura e della poesia, della cultura e dell'arte: esercita la professione di sacrestano letterario e nulla piú.

 

 

[Secentismo dell'attuale poesia.] Che una parte della attuale poesia sia «puro secentismo» appare per confessione spontanea di alcuni critici ortodossi di essa. Per esempio Aldo Capasso in un suo saggio su Ungaretti (brano citato in «Leonardo» del marzo 1934) scrive: «L'aura attonita non potrebbe formarsi, se il poeta fosse meno laconico». L'«aura attonita» richiama la famosa definizione che «del poeta il fine è la maraviglia». Si può notare tuttavia che il secentismo classico, purtroppo, è stato popolare e continua ad esserlo tuttora (è noto come all'uomo del popolo piacciano le acrobazie d'immagini in poesia), mentre il secentismo attuale è popolare fra gli intellettuali puri.

L'Ungaretti ha scritto che le sue poesie piacevano ai suoi compagni di trincea «del popolo», e può esser vero: piacere di carattere particolare legato al sentimento che la poesia «difficile» (incomprensibile) deve esser bella e l'autore un grande uomo appunto perché staccato dal popolo e incomprensibile: ciò avvenne anche per il futurismo ed è un aspetto del culto popolare per gli intellettuali (che in verità sono ammirati e disprezzati nello stesso tempo).

 

 

[Letterati puri.] Il popolo (ohibò!), il pubblico (ohibò!). I politici d'avventura domandano con cipiglio di chi la sa lunga: «Il popolo! Ma cos'è questo popolo? Ma chi lo conosce? Ma chi l'ha mai definito?» e intanto non fanno che escogitare trucchi e trucchi per avere le maggioranze elettorali (dal '24 al '29 quanti comunicati ci sono stati in Italia per annunziare nuovi ritocchi alla legge elettorale? Quanti progetti presentati e ritirati di nuove leggi elettorali? Il catalogo sarebbe interessante di per sé). Lo stesso dicono i letterati puri: «Un vizio portato dalle idee romantiche è quello di chiamare a giudice il pubblico. Chi è il pubblico? Chi è costui? Questo testone onnisciente, questo gusto squisito, quest'assoluta probità, questa perla dov'è?» (G. Ungaretti, «Resto del Carlino», 23 ottobre 1929). Ma intanto domandano che sia instaurata una protezione contro le traduzioni da lingue straniere e quando vendono mille copie di un libro fanno suonare le campane del loro paese. Il «popolo» però ha dato il titolo a molti importanti giornali, proprio di quelli che oggi domandano «cosa è questo popolo?» proprio nei giornali che si intitolano al popolo.

 

 

Poesia cosí detta sociale italiana. Rapisardi. Cfr. l'articolo molto interessante di Nunzio Vaccalluzzo La poesia di Mario Rapisardi nella «Nuova Antologia» del 16 febbraio 1930. Il Rapisardi fu fatto passare per materialista e anzi per materialista storico. È ciò vero? O non piuttosto fu egli un «mistico» del naturalismo e del panteismo? Però legato al popolo, specialmente al popolo siciliano, alle miserie del contadino siciliano ecc.

L'articolo del Vaccalluzzo può servire per iniziare uno studio sul Rapisardi anche per le indicazioni che dà. Procurarsi un prospetto delle opere del Rapisardi, ecc. Importa specialmente la raccolta Giustizia che, dice il Vaccalluzzo, la aveva cantata come poeta proletario (!), «piú con veemenza di parole che di sentimento»: ma appunto questa Giustizia è poesia da democratico-contadino, secondo i miei ricordi.

 

 

Piedigrotta. In un articolo sul «Lavoro» (8 settembre 1929) Adriano Tilgher scrive che la poesia dialettale napoletana e quindi in gran parte la fortuna delle canzoni di Piedigrotta è in fiera crisi. Se ne sarebbero essicate le due grandi fonti: realismo e sentimentalismo. «Il mutamento di sentimenti e di gusti è stato cosí rapido e sconvolgente, cosí vorticoso e subitaneo, ed è ancora cosí lontano dall'essersi cristallizzato in qualcosa di stabile e di duraturo che i poeti dialettali che si avventurano su quelle sabbie mobili per tentare di portarle alla durezza e alla chiarezza della forma sono condannati a sparirvi dentro senza rimedio».

La crisi di Piedigrotta è veramente un segno dei tempi. La teorizzazione di Strapaese ha ucciso strapaese (in realtà si voleva fissare un figurino tendenzioso di strapaese assai ammuffito e scimunito). E poi l'epoca moderna non è espansiva, è repressiva. Non si ride piú di cuore: si sogghigna e si fa dell'arguzia meccanica tipo Campanile. La fonte di Piedigrotta non si è essicata, è stata essicata perché era diventata «ufficiale» e i canzonieri erano diventati funzionari (vedi Libero Bovio) (e cfr. l'apologo francese del becco funzionario).

 

 

Letteratura italiana. Contributo dei burocratici. Articolo di Orazio Pedrazzi nell'«Italia Letteraria» del 4 agosto 1929: Le tradizioni antiletterarie della burocrazia italiana. Il Pedrazzi non fa alcune distinzioni necessarie. Non è vero che la burocrazia italiana sia cosí «antiletteraria» come sostiene il Pedrazzi, mentre è vero che la burocrazia (e si vuol dire l'alta burocrazia) non scrive della sua propria attività. Le due cose sono diverse: credo anzi che ci sia una mania letteraria propria della burocrazia, ma riguarda il «bello scrivere», «l'arte», ecc.: forse si potrebbe trovare che la grande massa della paccottiglia letteraria è dovuta a burocrati. Invece è vero che non esiste in Italia (come in Francia e altrove) una letteratura dovuta ai funzionari statali (militari e civili) di valore e che riguardi l'attività svolta, all'estero, dal personale diplomatico, al fronte, dagli ufficiali, ecc.; quella che c'è, per lo piú è «apologetica». «In Francia, in Inghilterra, generali ed ammiragli scrivono per il loro popolo, da noi scrivono solo per i loro superiori». La burocrazia cioè non ha un carattere nazionale, ma di casta.

 

Ho scritto già una nota su questo argomento, osservando quanto poco scrivano i funzionari italiani di ogni categoria, intorno a ciò che costituisce la loro specialità e la loro particolare attività (se scrivono lo fanno solo per i superiori non per il popolo-nazione). Nella «Nuova Antologia» del 16 settembre 1929, a p. 267 è detto che il libro Nazioni e minoranze etniche (Zanichelli, 2 voll.) è stato scritto «da un giovane gentiluomo romano, che, non volendo confusi i suoi studi giuridici e storici con i suoi uffici diplomatici, ha adottato il nome un poco arcaico di Luca dei Sabelli».

 

 

Daniele Varé, Pagine di un diario in Estremo Oriente, «Nuova Antologia» del 16 settembre, 1° e 16 ottobre 1928. Il Varé è un diplomatico italiano ministro in Cina non so di che grado: ha firmato l'accordo tra il governo italiano e quello di Ciang-Kai-Sceck nel '28 o '29. Queste pagine di diario sono disastrose sia letterariamente che da ogni altro punto di vista. Ai diplomatici dovrebbe essere proibita ogni pubblicazione (non solo per ciò che riguarda la politica) senza il placet di un ufficio speciale di revisione costituito di persone intelligenti, perché le loro fesserie extra-diplomatiche nuocciono al governo tanto quanto quelle diplomatiche e feriscono il prestigio dello Stato che ha dato loro incarichi di rappresentanza.

 

 

Il ministro plenipotenziario Antonino D'Alia ha scritto un Saggio di Scienza politica (Roma, Treves, 1932, in 8°, pp. XXXII-710) che sarebbe insieme una storia universale e un manuale di Politica e di Diplomazia (secondo Alberto Lumbroso, che lo esalta nel «Marzocco» del 17 aprile 1932).

 

 

La Fiera del Libro. Poiché il popolo non va al libro (a un certo tipo di libro, quello dei letterati professionali) il libro andrà al popolo. L'iniziativa fu lanciata dalla «Fiera Letteraria» e dal suo direttore d'allora Umberto Fracchia, nel 1927 a Milano. L'iniziativa in sé non era cattiva e ha dato qualche piccolo risultato: ma la quistione non fu affrontata nel senso che il libro deve diventare intimamente nazionale-popolare per andare al popolo e non solo «materialmente», con le bancarelle, gli strilloni ecc. In realtà, un'organizzazione per portare il libro al popolo esisteva ed esiste, ed è rappresentata dai «pontremolesi», ma il libro cosí diffuso è quello della piú bassa letteratura popolare, dal Segretario degli amanti al Guerino ecc. Questa organizzazione potrebbe essere «imitata», ampliata, controllata e fornita di libri meno scemi e con maggiore varietà di scelta.

 

 

[G. Zonta.] È da tener nota della grande Storia della Letteratura Italiana di Giuseppe Zonta, in quattro grossi volumi, con note bibliografiche di Gustavo Balsamo-Crivelli, pubblicata dall'Utet di Torino, per la speciale attenzione che l'autore pare abbia dato all'influsso sociale nello svolgimento dell'attività letteraria. L'opera, pubblicata a fascicoli dal 1928 al '32 non ha dato luogo a grandi discussioni, a quanto pare dalle pubblicazioni disponibili (letto un solo cenno affrettato nell'«Italia Letteraria»). Lo Zonta, d'altronde, non è il primo venuto nel campo della filologia (cfr. il suo L'anima dell'ottocento del 1924).