Nesso di problemi. Polemiche sorte nel periodo di formazione della
nazione italiana e della lotta per l'unità politica e
territoriale e che hanno continuato e continuano ad ossessionare
almeno una parte degli intellettuali italiani. Alcuni di tali
problemi (come quello della lingua) molto antichi. Risalgono ai
primi tempi della formazione di una unità culturale italiana.
Nati per il confronto tra le condizioni generali dell'Italia e
quelle di altri paesi, specialmente della Francia o per il riflesso
di condizioni peculiari italiane come il fatto che la penisola fu la
sede dell'Impero Romano e divenne la sede del maggiore centro della
religione cristiana. L'insieme di questi problemi è il
riflesso della faticosa elaborazione di una nazione italiana di tipo
moderno, contrastata da condizioni di equilibrio di forze interne e
internazionali.
Non è mai esistita una coscienza, tra le classi intellettuali
e dirigenti, che esista un nesso tra questi problemi, nesso di
coordinazione e di subordinazione. Nessuno ha mai presentato questi
problemi come un insieme collegato e coerente, ma ognuno di essi si
è ripresentato periodicamente a seconda di interessi polemici
immediati, non sempre chiaramente espressi, senza volontà di
approfondimento; la trattazione ne è stata perciò
fatta in forma astrattamente culturale, intellettualistica, senza
prospettiva storica esatta e pertanto senza che se ne prospettasse
una soluzione politico-sociale concreta e coerente. Quando si dice
che non è mai esistita una coscienza dell'unità
organica di tali problemi occorre intendersi: forse è vero
che non si è avuto il coraggio di impostare esaurientemente
la quistione, perché da una tale impostazione rigorosamente
critica e consequenziaria si temeva derivassero immediatamente
pericoli vitali per la vita nazionale unitaria; questa timidezza di
molti intellettuali italiani deve essere a sua volta spiegata, ed
è caratteristica della nostra vita nazionale. D'altronde pare
inconfutabile che nessuno di tali problemi può essere risolto
isolatamente (in quanto essi sono ancora attuali e vitali). Pertanto
una trattazione critica e spassionata di tutte queste quistioni che
ancora ossessionano gli intellettuali e anzi vengono oggi presentate
come in via di organica soluzione (unità della lingua,
rapporto tra arte e vita, quistione del romanzo e del romanzo
popolare, quistione di una riforma intellettuale e morale
cioè di una rivoluzione popolare che abbia la stessa funzione
della Riforma protestante nei paesi germanici e della Rivoluzione
francese, quistione della «popolarità» del
Risorgimento che sarebbe stata raggiunta con la guerra del 1915-18 e
coi rivolgimenti successivi, onde l'impiego inflazionistico dei
termini di rivoluzione e rivoluzionario) può dare la traccia
piú utile per ricostruire i caratteri fondamentali della vita
culturale italiana, e delle esigenze che da essi sono indicate e
proposte per la soluzione. Ecco il «catalogo» delle
piú significative quistioni da esaminare ed analizzare: 1)
«Perché la letteratura italiana non è popolare
in Italia?» (per usare l'espressione di Ruggero Bonghi); 2)
esiste un teatro italiano: polemica impostata da Ferdinando Martini
e che va collegata con l'altra sulla maggiore o minore
vitalità del teatro dialettale e di quello in lingua; 3)
quistione della lingua nazionale, cosí come fu impostata da
Alessandro Manzoni; 4) se sia esistito un romanticismo italiano; 5)
è necessario provocare in Italia una riforma religiosa come
quella protestante: cioè l'assenza di lotte religiose vaste e
profonde determinata dall'essere stata in Italia la sede del papato
quando fermentarono le innovazioni politiche che sono alla base
degli Stati moderni fu origine di progresso o di regresso?; 6)
l'Umanesimo e il Rinascimento sono stati progressivi o regressivi?;
7) impopolarità del Risorgimento ossia indifferenza popolare
nel periodo delle lotte per l'indipendenza e l'unità
nazionale; 8) apoliticismo del popolo italiano che viene espresso
con le frasi di «ribellismo», di
«sovversivismo», di «antistatalismo»
primitivo ed elementare; 9) non esistenza di una letteratura
popolare in senso stretto (romanzi d'appendice, d'avventure,
scientifici, polizieschi ecc.) e «popolarità»
persistente di questo tipo di romanzo tradotto da lingue straniere,
specialmente dal francese; non esistenza di una letteratura per
l'infanzia. In Italia il romanzo popolare di produzione nazionale
è quello anticlericale oppure le biografie di briganti. Si ha
però un primato italiano nel melodramma, che in un certo
senso è il romanzo popolare musicato.
Una delle ragioni per cui tali problemi non sono stati trattati
esplicitamente e criticamente è da trovarsi nel pregiudizio
rettorico (d'origine letteraria) che la nazione italiana sia sempre
esistita da Roma antica ad oggi e su alcuni altri idoli e borie
intellettuali che se furono «utili» politicamente nel
periodo della lotta nazionale, come motivo per entusiasmare e
concentrare le forze, sono inette criticamente e, in ultima istanza,
diventano un elemento di debolezza, perché non permettono di
apprezzare giustamente lo sforzo compiuto dalle generazioni che
realmente lottarono per costituire l'Italia moderna e perché
inducono a una sorta di fatalismo e di aspettazione passiva di un
avvenire che sarebbe predeterminato completamente dal passato. Altre
volte questi problemi sono mal posti per l'influsso di concetti
estetici di origine crociana, specialmente quelli concernenti il
cosí detto «moralismo» nell'arte, il
«contenuto» estrinseco all'arte, la storia della cultura
da non confondersi con la storia dell'arte ecc. Non si riesce a
intendere concretamente che l'arte è sempre legata a una
determinata cultura o civiltà, e che lottando per riformare
la cultura si giunge a modificare il «contenuto»
dell'arte, si lavora a creare una nuova arte, non dall'esterno
(pretendendo un'arte didascalica, a tesi, moralistica), ma
dall'intimo, perché si modifica tutto l'uomo in quanto si
modificano i suoi sentimenti, le sue concezioni e i rapporti di cui
l'uomo è l'espressione necessaria.
Connessione del «futurismo» col fatto che alcune di tali
quistioni sono state mal poste e non risolute, specialmente il
futurismo nella forma piú intelligente datagli dai gruppi
fiorentini di «Lacerba» e della «Voce», col
loro «romanticismo» o Sturm und Drang popolaresco.
Ultima manifestazione «Strapaese». Ma sia il futurismo
di Marinetti, sia quello di Papini, sia Strapaese hanno urtato,
oltre il resto, in questo ostacolo: l'assenza di carattere e di
fermezza dei loro inscenatori e la tendenza carnevalesca e
pagliaccesca dei piccoli borghesi intellettuali, aridi e scettici.
Anche la letteratura regionale è stata essenzialmente
folcloristica e pittoresca: il popolo «regionale» era
visto «paternalisticamente», dall'esterno, con spirito
disincantato, cosmopolitico, da turisti in cerca di sensazioni forti
e originali per la loro crudezza. Agli scrittori italiani ha proprio
nuociuto l'«apoliticismo» intimo, verniciato di
rettorica nazionale verbosa. Da questo punto di vista sono stati
piú simpatici Enrico Corradini e il Pascoli, col loro
nazionalismo confessato e militante, in quanto cercarono risolvere
il dualismo letterario tradizionale tra popolo e nazione, sebbene
siano caduti in altre forme di rettorica e di oratoria.
Per questa rubrica è da studiare il volume di B. Croce,
Poesia popolare e poesia d'arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre
al Cinquecento, Laterza, Bari, 1933. Il concetto di popolare nel
libro del Croce non è quello di queste note: per il Croce si
tratta di un atteggiamento psicologico, per cui il rapporto tra
poesia popolare e poesia d'arte è come quello tra il buon
senso e il pensiero critico, tra l'accorgimento naturale e
l'accorgimento esperto, tra la candida innocenza e l'avveduta e
accurata bontà. Tuttavia dalla lettura di alcuni saggi di
questo libro pubblicati nella «Critica» pare si possa
dedurre che mentre dal Trecento al Cinquecento la poesia popolare,
anche in questo senso, ha una importanza notevole, perché
è legata ancora a una certa vivacità di resistenza
delle forze sociali sorte col movimento di ripresa verificatosi dopo
il Mille e culminato nei Comuni, dopo il Cinquecento queste forze
sono abbrutite completamente e la poesia popolare decade fino alle
forme attuali in cui l'interesse popolare è soddisfatto dal
Guerin Meschino, e da simile letteratura. Dopo il Cinquecento
cioè si rende radicale quel distacco tra intellettuali e
popolo che è alla base di queste note e che tanto significato
ha avuto per la storia italiana moderna politica e culturale.
Contenuto e forma. L'accostamento di questi due termini può
assumere nella critica d'arte molti significati. Ammesso che
contenuto e forma sono la stessa cosa, ecc. ecc., non significa
ancora che non si possa fare la distinzione tra contenuto e forma.
Si può dire che chi insiste sul «contenuto» in
realtà lotta per una determinata cultura, per una determinata
concezione del mondo contro altre culture e altre concezioni del
mondo; si può anche dire che storicamente, finora, i
cosí detti contenutisti sono stati «piú
democratici» dei loro avversari parnassiani, per esempio,
cioè volevano una letteratura che non fosse per gli
«intellettuali», ecc. Si può parlare di una
priorità del contenuto sulla forma? Se ne può parlare
in questo senso, che l'opera d'arte è un processo e che i
cambiamenti di contenuto sono anche cambiamenti di forma, ma
è «piú facile» parlare di contenuto che di
forma, perché il contenuto può essere
«riassunto» logicamente. Quando si dice che il contenuto
precede la forma si vuol dire semplicemente che, nell'elaborazione,
i tentativi successivi vengono presentati col nome di contenuto,
niente altro. Il primo contenuto che non soddisfaceva era anche
forma e in realtà quando si è raggiunta la
«forma» soddisfacente anche il contenuto è
cambiato. È vero che spesso quelli che chiacchierano di forma
ecc. contro il contenuto, sono completamente vuoti, accozzano parole
che non sempre si tengono neanche secondo grammatica (esempio
Ungaretti); per tecnica, forma ecc. intendono vacuità di
gergo da conventicola di teste vuote.
Anche questa è da porre fra le quistioni della storia
nazionale italiana, in altra nota registrata, e assume varie forme:
1) c'è una differenza di stile tra gli scritti dedicati al
pubblico e gli altri, per esempio tra le lettere e le opere
letterarie. Sembra spesso di aver che fare con due scrittori diversi
tanta è la differenza. Nelle lettere (salvo eccezioni, come
quella di D'Annunzio che fa la commedia anche allo specchio, per se
stesso), nelle memorie e in generale in tutti gli scritti dedicati a
poco pubblico o a se stesso, predomina la sobrietà, la
semplicità, la immediatezza, mentre negli altri scritti
predomina la tronfiezza, lo stile oratorio, l'ipocrisia stilistica
Questa «malattia» è talmente diffusa che si
è attaccata al popolo, per il quale infatti
«scrivere» significa «montare sui trampoli»,
mettersi a festa, «fingere» uno stile ridondante, ecc.,
in ogni modo esprimersi in modo diverso dal comune; e siccome il
popolo non è letterato, e di letteratura conosce solo il
libretto dell'opera ottocentesca, avviene che gli uomini del popolo
«melodrammatizzano». Ecco allora che «contenuto e
forma» oltre che un significato «estetico» hanno
anche un significato «storico». Forma
«storica» significa un determinato linguaggio, come
«contenuto» indica un determinato modo di pensare, non
solo storico, ma «sobrio», espressivo senza pugni in
faccia, passionale senza che le passioni siano arroventate
all'Otello o al melodramma, senza la maschera teatrale, insomma.
Questo fenomeno, credo, si verifica solo nel nostro paese, come
fenomeno di massa, s'intende, perché papi singoli sono da per
tutto. Ma occorre stare attenti: perché il paese nostro
è quello in cui al convenzionale barocco è successo il
convenzionale arcadico: sempre teatro e convenzione però.
Occorre dire che in questi anni le cose sono molto migliorate:
D'Annunzio è stato l'ultimo accesso di malattia del popolo
italiano e il giornale, per le sue necessità, ha avuto il
gran merito di «razionalizzare» la prosa. Però
l'ha impoverita e stremenzita e anche questo è un danno. Ma
purtroppo nel popolo, accanto ai «futuristi
antiaccademici» esistono ancora i «secentisti» di
conversione. D'altronde qui si fa una quistione storica, per
spiegare il passato, e non una lotta puramente attuale, per
combattere mali attuali, sebbene anche questi non siano del tutto
scomparsi e si ritrovano in alcune manifestazioni specialmente
(discorsi solenni, specialmente funebri, patriottici, iscrizioni
idem, ecc.). (Si potrebbe dire che si tratta di «gusto»
e sarebbe errato. Il gusto è «individuale» o di
piccoli gruppi; qui si tratta di grandi masse, e non può non
trattarsi di cultura, di fenomeno storico, di esistenza di due
culture; individuale è il gusto «sobrio», non
l'altro, il melodramma è il gusto nazionale, cioè la
cultura nazionale). Né si dica che di tale quistione non
occorre occuparsi: anzi, la formazione di una prosa vivace ed
espressiva e nello stesso tempo sobria e misurata deve essere uno
dei fini culturali da proporsi. Anche in questo caso forma ed
espressione si identificano ed insistere sulla «forma»
non è che un mezzo pratico per lavorare sul contenuto, per
ottenere una deflazione della retorica tradizionale che guasta ogni
forma di cultura, anche quella «antiretorica»,
ahimè!
La domanda se sia esistito un romanticismo italiano può avere
diverse risposte, a seconda di ciò che s'intende per
romanticismo. E certo molte sono le definizioni che del termine di
romanticismo sono state date. Ma a noi importa una di queste
definizioni e importa non precisamente l'aspetto
«letterario» del problema. Romanticismo ha, tra gli
altri significati, assunto quello di uno speciale rapporto o legame
tra gli intellettuali e il popolo, la nazione, cioè è
un particolare riflesso della «democrazia» (in senso
largo) nelle lettere (in senso largo, per cui anche il cattolicismo
può essere stato «democratico» mentre il
«liberalismo» può esserlo non stato). In questo
senso ci interessa il problema per l'Italia ed esso è legato
ai problemi che abbiamo raccolto in serie: se è esistito un
teatro italiano, la quistione della lingua, perché la
letteratura non è stata popolare, ecc. Occorre dunque, nella
sterminata letteratura sul romanticismo, isolare questo aspetto e di
esso interessarsi, teoricamente e praticamente, come fatto storico
cioè e come tendenza generale che può dar luogo a un
movimento attuale, a un attuale problema da risolvere. In questo
senso il romanticismo precede, accompagna, sanziona e svolge tutto
quel movimento europeo che prese nome dalla Rivoluzione francese; ne
è l'aspetto sentimentale-letterario (piú sentimentale
che letterario, nel senso che l'aspetto letterario è stato
solo una parte dell'espressione della corrente sentimentale che ha
pervaso tutta la vita e una parte molto importante della vita, e di
questa vita solo una piccolissima parte ha potuto trovare
espressione nella letteratura). La ricerca quindi è di storia
della cultura e non di storia letteraria, meglio di storia
letteraria in quanto parte e aspetto di una piú vasta storia
della cultura. Ebbene, in questo preciso senso, il romanticismo non
è esistito in Italia, e nel miglior caso le sue
manifestazioni sono state minime, scarsissime e in ogni caso di
aspetto puramente letterario. (Su questo punto è necessario
il ricordo delle teorie del Thierry e del riflesso manzoniano,
teorie del Thierry che appunto sono uno degli aspetti piú
importanti di questo aspetto del romanticismo di cui si vuole
parlare). È da vedere come in Italia anche queste discussioni
abbiano assunto un aspetto intellettuale e astratto: i pelasgi del
Gioberti, le popolazioni «preromane», ecc., in
realtà niente che fosse in rapporto col vivente popolo
attuale che invece interessava il Thierry e la storiografia politica
affine. Si è detto che la parola «democrazia» non
deve essere assunta in tal senso, solo nel significato
«laico» o «laicista» che si vuol dire; ma
anche nel significato «cattolico», anche reazionario, se
si vuole; ciò che importa è il fatto che si ricerchi
un legame col popolo, con la nazione, che si ritenga necessaria una
unità non servile, dovuta all'obbedienza passiva, ma
un'unità attiva, vivente, qualunque sia il contenuto di
questa vita. Questa unità vivente, a parte ogni contenuto,
è appunto mancata in Italia, è mancata almeno nella
misura sufficiente a farla diventare un fatto storico, e
perciò si capisce il significato della domanda:
«è esistito un romanticismo italiano»?
Italia e Francia. Si può forse affermare che tutta la vita
intellettuale italiana fino al 1900 (e precisamente fino al formarsi
della corrente culturale idealistica Croce-Gentile) in quanto ha
tendenze democratiche, cioè in quanto vuole (anche se non ci
riesce sempre) prendere contatto con le masse popolari è
semplicemente un riflesso francese, dell'ondata democratica francese
che ha avuto origine dalla Rivoluzione del 1789:
l'artificiosità di questa vita è nel fatto che in
Italia essa non aveva avuto le premesse storiche che invece erano
state in Francia. Niente in Italia di simile alla Rivoluzione del
1789 e alle lotte che ne seguirono; tuttavia in Italia si
«parlava» come se tali premesse fossero esistite. Ma si
capisce che un tale parlare non poteva essere che a fior di labbra.
Da tal punto di vista, s'intende il significato
«nazionale», seppure poco profondo, delle correnti
conservatrici e reazionarie in confronto di quelle democratiche;
queste erano grandi «fuochi di paglia», di grande
estensione superficiale, quelle erano di poca estensione, ma ben
radicate e intense. Se non si studia la cultura italiana fino al
1900 come un fenomeno di provincialismo francese, se ne comprende
ben poco. Tuttavia occorre distinguere: c'è misto un
sentimento nazionale antifrancese, nell'ammirazione per le cose di
Francia: si vive di riflesso e si odia nello stesso tempo. Almeno
fra gli intellettuali. Nel popolo i sentimenti
«francesi» non sono tali, appaiono come «senso
comune», come cose proprie del popolo stesso e il popolo
è francofilo o francofobo secondo che viene aizzato o meno
dalle forze dominanti. Era comodo far credere che la Rivoluzione del
1789, poiché avvenuta in Francia, era come se avvenuta in
Italia, per quel tanto che delle idee francesi era comodo servirsi
per guidare le masse; ed era comodo servirsi dell'antigiacobinismo
forcaiolo per andare contro la Francia, quando ciò serviva.
[Degenerazioni artistiche.] Luigi Volpicelli, nella «Italia
Letteraria» del 1° gennaio 1933 (articolo Arte e
religione) nota: «Il quale (il popolo) si potrebbe osservare
tra parentesi, ha amato sempre l'arte piú per quello che non
è arte che per ciò che è essenziale all'arte; e
forse proprio per questo è cosí diffidente verso gli
artisti di oggi, i quali, volendo nell'arte la pura e sola arte,
finiscono col diventare enigmatici, inintelligibili, profeti di
pochi iniziati».
Osservazione senza costrutto né base: è certo che il
popolo vuole un'arte «storica» (se non si vuole
impiegare la parola «sociale»), cioè vuol un'arte
espressa in termini di cultura «comprensibili»,
cioè universali, o «obbiettivi», o
«storici» o «sociali» che è la stessa
cosa. Non vuole «neolalismi» artistici, specialmente se
il «neolalico» è anche un imbecille.
Mi pare che il problema è sempre da porre partendo dalla
domanda: «Perché scrivono i poeti? Perché
dipingono i pittori? ecc.» (Ricordare l'articolo di Adriano
Tilgher nell'«Italia che scrive»). Il Croce risponde, su
per giú: per ricordare le proprie opere, dato che, secondo
l'estetica crociana, l'opera d'arte è «perfetta»
anche già e solo nel cervello dell'artista. Ciò che
potrebbe ammettersi approssimativamente e in un certo senso. Ma solo
approssimativamente e in un certo senso. In realtà si ricade
nella quistione della «natura dell'uomo» e nella
quistione «cos'è l'individuo?». Se non si
può pensare l'individuo fuori della società, e quindi
se non si può pensare nessun individuo che non sia
storicamente determinato, è evidente che ogni individuo e
anche l'artista, e ogni sua attività, non può essere
pensata fuori della società, di una società
determinata. L'artista pertanto non scrive o dipinge, ecc.,
cioè non «segna» esteriormente i suoi fantasmi
solo per «un suo ricordo», per poter rivivere l'istante
della creazione, ma è artista solo in quanto
«segna» esteriormente, oggettivizza, storicizza i suoi
fantasmi. Ma ogni individuo-artista è tale in modo piú
o meno largo e comprensivo, piú o meno «storico»
o «sociale». Ci sono i «neolalici» o i
«gerghisti», cioè quelli che essi soli possono
rivivere il ricordo dell'istante creativo (ed è di solito
un'illusione, il ricordo di un sogno o di una velleità),
altri che appartengono a conventicole piú o meno larghe (che
hanno un gergo corporativo) e finalmente quelli che sono universali,
cioè «nazionali-popolari». L'estetica del Croce
ha determinato molte degenerazioni artistiche, e non è poi
vero che ciò sia avvenuto sempre contro le intenzioni e lo
spirito dell'estetica crociana stessa; per molte degenerazioni,
sí, ma non per tutte, e specialmente per questa fondamentale,
dell'«individualismo» artistico espressivo antistorico
(o anti-sociale, o anti-nazionale-popolare).
[Letterati e «bohême» artistica.] È da
notare come in Italia il concetto di cultura sia prettamente
libresco: i giornali letterari si occupano di libri o di chi scrive
libri. Articoli di impressioni sulla vita collettiva, sui modi di
pensare, sui «segni del tempo», sulle modificazioni che
avvengono nei costumi, ecc., non se ne leggono mai. Differenza tra
la letteratura italiana e le altre letterature. In Italia mancano i
memorialisti e sono rari i biografi e gli autobiografi. Manca
l'interesse per l'uomo vivente, per la vita vissuta (Le Cose viste
di Ugo Ojetti sono poi quel gran capolavoro di cui si è
incominciato a parlare da quando Ojetti è stato direttore del
«Corriere della Sera» e cioè dell'organismo
letterario che paga meglio gli scrittori e dà piú
fama? Anche nelle Cose viste si parla specialmente di scrittori, da
quelle che io ho letto anni fa, almeno. Si potrebbe rivedere).
È un altro segno del distacco degli intellettuali italiani
dalla realtà popolare-nazionale.
Sugli intellettuali questa osservazione di Prezzolini (Mi pare...,
p. 16) scritta nel 1920: «L'intellettuale da noi ha la pretesa
di fare il parassita. Si considera come l'uccellino fatto per la
gabbietta d'oro che dev'essere mantenuto a pastone e a chicchini di
miglio. Lo sdegno che c'è ancora per tutto quello che
somiglia al lavoro, le carezze che si fanno sempre alla concezione
romantica di un estro che bisogna aspettare dal cielo, come la Pitia
aspettava i suoi invasamenti, sono dei sintomi piuttosto puzzolenti
di marcia interiore. Bisogna che gli intellettuali capiscano che i
bei tempi per queste mascherate interessanti sono passati. Di qui a
qualche anno non sarà permesso essere ammalati di letteratura
o restare inutili». Gli intellettuali concepiscono la
letteratura come una «professione» a sé, che
dovrebbe «rendere» anche quando non si produce nulla
immediatamente e dovrebbe dar diritto a una pensione. Ma chi
stabilisce che Tizio è veramente un «letterato» e
che la società può mantenerlo in attesa del
«capolavoro»? Il letterato rivendica il diritto di stare
in «ozio» («otium et non negotium»), di
viaggiare, di fantasticare, senza preoccupazioni di carattere
economico. Questo modo di pensare è legato al mecenatismo
delle corti, male interpretato del resto, perché i grandi
letterati del Rinascimento, oltre a scrivere, lavoravano in qualche
modo (anche l'Ariosto, letterato per eccellenza, aveva incombenze
amministrative e politiche): un'immagine del letterato del
Rinascimento falsa e sbagliata. Oggi il letterato [è]
professore e giornalista o semplice letterato (nel senso che tende a
diventarlo, se è funzionario, ecc.).
Si può dire che la «letteratura» è una
funzione sociale, ma che i letterati, presi singolarmente, non sono
necessari alla funzione, sebbene ciò sembri paradossale. Ma
è vero nel senso, che mentre le altre professioni sono
collettive, e la funzione sociale si scompone nei singoli,
ciò non avviene nella letteratura. La quistione è
dell'«apprendissaggio»: ma si può parlare di
«apprendissaggio» artistico letterario? La funzione
intellettuale non può essere staccata dal lavoro produttivo
generale neanche per gli artisti: se non quando essi hanno
dimostrato di essere effettivamente produttivi
«artisticamente». Né ciò nuocerà
all'«arte», forse anzi le gioverà: nuocerà
solo alla «bohème» artistica e non sarà un
male, tutt'altro.
Consenso della nazione o degli «spiriti eletti». Cosa
deve interessare di piú un artista, il consenso all'opera sua
della «nazione» o quello degli «spiriti
eletti»? Ma può esserci separazione tra «spiriti
eletti» e «nazione»? Il fatto che la quistione sia
stata posta e si continui a porre in questi termini, mostra per se
stesso una situazione determinata storicamente di distacco tra
intellettuali e nazione. Quali sono poi gli «spiriti»
riputati «eletti»? Ogni scrittore o artista ha i suoi
«spiriti eletti», cioè si ha la realtà di
una disgregazione degli intellettuali in combriccole e sette di
«spiriti eletti», disgregazione che appunto dipende
dalla non aderenza alla nazione-popolo, dal fatto che il
«contenuto» sentimentale dell'arte, il mondo culturale
è astratto dalle correnti profonde della vita
popolare-nazionale, che essa stessa rimane disgregata e senza
espressione. Ogni movimento intellettuale diventa o ridiventa
nazionale se si è verificata una «andata al
popolo», se si è avuta una fase «Riforma» e
non solo una fase «Rinascimento» e se le fasi
«Riforma-Rinascimento» si susseguono organicamente e non
coincidono con fasi storiche distinte (come in Italia, in cui tra il
movimento comunale – riforma – e quello del Rinascimento c'è
stato un iato storico dal punto di vista della partecipazione
popolare alla vita pubblica). Anche se si dovesse cominciare con lo
scrivere «romanzi d'appendice» e versi da melodramma,
senza un periodo di andata al popolo non c'è
«Rinascimento» e non c'è letteratura nazionale.
Popolarità della letteratura italiana. «Nuova
Antologia», 1° ottobre 1930: Ercole Reggio, Perché
la letteratura italiana non è popolare in Europa. «La
poca fortuna che incontrano, presso di noi, libri italiani anche
illustri, a paragone con quella di tanti libri stranieri, dovrebbe
farci persuasi che le ragioni della scarsa popolarità della
nostra letteratura in Europa sono probabilmente le stesse che la
rendono poco popolare da noi; e che perciò, tutto sommato,
non ci sarà nemmeno da chiedere agli altri quello che noi,
per i primi, non ci attendiamo in casa nostra. A detta anche
d'italianizzanti, di simpatizzanti stranieri, la nostra letteratura
manca in massima di qualità modeste e necessarie, di
ciò che s'indirizza all'uomo medio, all'uomo degli economisti
(?!); ed è in ragione delle sue prerogative, di quanto ne
costituisce l'originalità, come il merito, ch'essa non tocca
né potrà mai toccare alla popolarità delle
altre grandi letterature europee». Il Reggio accenna al fatto
che invece le arti figurative italiane (dimentica la musica) sono
popolari in Europa e si domanda: o esiste un abisso tra la
letteratura e le altre arti italiane, e questo abisso sarebbe
impossibile da spiegare, oppure il fatto deve essere spiegato con
ragioni secondarie, extrartistiche, cioè mentre le arti
figurative (e la musica) parlano un linguaggio europeo e universale,
la letteratura ha i suoi limiti nei confini della lingua nazionale.
Non mi pare che l'obbiezione regga: 1) perché c'è
stato un periodo storico in cui anche la letteratura italiana fu
popolare in Europa (Rinascimento) oltre alle arti figurative e anzi
insieme a queste: cioè l'intera cultura italiana fu popolare.
2) Perché in Italia, oltre alla letteratura, non sono
popolari neanche le arti figurative (sono popolari invece Verdi,
Puccini, Mascagni ecc.). 3) Perché la popolarità delle
arti figurative italiane in Europa è relativa: si limita agli
intellettuali e in alcune altre zone della popolazione europea,
è popolare perché legata a ricordi classici o
romantici; non come arte. 4) Invece la musica italiana è
popolare tanto in Europa come in Italia. L'articolo del Reggio
continua sui binari della solita retorica, quantunque qua e
là contenga osservazioni sagaci.
Il gusto melodrammatico. Come combattere il gusto melodrammatico del
popolano italiano quando si avvicina alla letteratura, ma
specialmente alla poesia? Egli crede che la poesia sia
caratterizzata da certi tratti esteriori, fra cui predomina la rima
e il fracasso degli accenti prosodici, ma specialmente dalla
solennità gonfia, oratoria, e dal sentimentalismo
melodrammatico, cioè dall'espressione teatrale, congiunta a
un vocabolario barocco. Una delle cause di questo gusto è da
ricercare nel fatto che esso si è formato non alla lettura e
alla meditazione intima e individuale della poesia e dell'arte, ma
nelle manifestazioni collettive, oratorie e teatrali. E per
«oratorie» non bisogna solo riferirsi ai comizi popolari
di famigerata memoria, ma a tutta una serie di manifestazioni di
tipo urbano e paesano. Nella provincia, per esempio, è molto
seguita l'oratoria funebre e quella delle preture e dei tribunali (e
anche delle conciliature): queste manifestazioni hanno tutte un
pubblico di «tifosi» di carattere popolare, e un
pubblico costituito (per i tribunali) da quelli che attendono il
proprio turno, testimoni, ecc. In certe sedi di pretura
mandamentale, l'aula è sempre piena di questi elementi, che
si imprimono nella memoria i giri di frase e le parole solenni, se
ne pascono e le ricordano. Cosí nei funerali di maggiorenti,
cui affluisce molta folla, spesso solo per sentire i discorsi.
Le conferenze nelle città hanno lo stesso ufficio e
cosí i tribunali, ecc. I teatri popolari con gli spettacoli
cosí detti da arena (e oggi, forse il cinematografo parlato,
ma anche le didascalie del vecchio cinematografo muto, compilato
tutto in stile melodrammatico), sono della massima importanza per
creare questo gusto e il linguaggio conforme.
Si combatte questo gusto in due modi principali: con la critica
spietata di esso, e anche diffondendo libri di poesia scritti o
tradotti in lingua non «aulica», e dove i sentimenti
espressi non siano retorici o melodrammatici.
Cfr. l'Antologia compilata dallo Schiavi; poesie del Gori.
Traduzione possibile di M. Martinet e di altri scrittori che oggi
[sono] piú numerosi che in passato: traduzioni sobrie, del
tipo di quelle del Togliatti per Whitman e Martinet.
[Il melodramma.] Ho accennato in altra nota come in Italia la musica
abbia in una certa misura sostituito, nella cultura popolare, quella
espressione artistica che in altri paesi è data dal romanzo
popolare e come i genii musicali abbiano avuto quella
popolarità che invece è mancata ai letterati. È
da ricercare: 1°) se la fioritura dell'opera in musica coincide
in tutte le sue fasi di sviluppo (cioè non come espressione
individuale di singoli artisti geniali, ma come fatto,
manifestazione storico-culturale) con la fioritura dell'epica
popolare rappresentata dal romanzo. Mi pare di sí: il romanzo
e il melodramma hanno l'origine nel settecento e fioriscono nel
primo 50° del secolo XIX, cioè essi coincidono con la
manifestazione e l'espansione delle forze democratiche
popolari-nazionali in tutta l'Europa. 2°) Se coincidono
l'espansione europea del romanzo popolare anglo-francese e quella
del melodramma italiano.
Perché la «democrazia» artistica italiana ha
avuto una espressione musicale e non «letteraria»? Che
il linguaggio non sia stato nazionale, ma cosmopolita, come è
la musica, può connettersi alla deficienza di carattere
popolare-nazionale degli intellettuali italiani? Nello stesso
momento in cui in ogni paese avviene una stretta nazionalizzazione
degli intellettuali indigeni, e questo fenomeno si verifica anche in
Italia, sebbene in misura meno larga (anche il settecento italiano,
specialmente nella seconda metà, è piú
«nazionale» che cosmopolita), gli intellettuali italiani
continuano la loro funzione europea attraverso la musica. Si
potrà forse osservare che la trama dei libretti non è
mai «nazionale» ma europea, in due sensi: o
perché l'«intrigo» del dramma si svolge in tutti
i paesi d'Europa e piú raramente in Italia, muovendo da
leggende popolari o da romanzi popolari; o perché i
sentimenti e le passioni del dramma riflettono la particolare
sensibilità europea settecentesca e romantica, cioè
una sensibilità europea, che non pertanto coincide con
elementi cospicui della sensibilità popolare di tutti i
paesi, da cui del resto aveva attinto la corrente romantica.
(È da collegare questo fatto con la popolarità di
Shakespeare e anche dei tragici greci, i cui personaggi, travolti da
passioni elementari – gelosia, amor paterno, vendetta, ecc. – sono
essenzialmente popolari in ogni paese). Si può perciò
dire che il rapporto melodramma italiano – letteratura popolare
anglo-francese non è sfavorevole criticamente al melodramma,
poiché il rapporto è storico-popolare e non
artistico-critico. Verdi non può essere paragonato, per dir
cosí, a Eugenio Sue, come artista, se pure occorre dire che
la fortuna popolare di Verdi può solo essere paragonata a
quella del Sue, sebbene per gli estetizzanti (wagneriani)
aristocratici della musica, Verdi occupi lo stesso posto nella
storia della musica che Sue nella storia della letteratura. La
letteratura popolare in senso deteriore (tipo Sue e tutta la
sequela) è una degenerazione politico-commerciale della
letteratura nazionale-popolare, il cui modello sono appunto i
tragici greci e Shakespeare.
Questo punto di vista sul melodramma può anche essere un
criterio per comprendere la popolarità del Metastasio che fu
tale specialmente come scrittore di libretti.
Il Cinquecento. Il modo di giudicare la letteratura del Cinquecento
secondo determinati canoni stereotipati ha dato luogo in Italia a
curiosi giudizi e a limitazioni di attività critica che sono
significativi per giudicare il carattere astratto dalla
realtà nazionale-popolare dei nostri intellettuali. Qualcosa
ora sta cambiando lentamente, ma il vecchio reagisce. Nel 1928
Emilio Lovarini ha stampato una commedia in 5 atti La Venexiana,
commedia di ignoto cinquecentesco (Zanichelli, 1928, n. 1 della
«Nuova scelta di curiosità letterarie inedite o
rare») che è stata riconosciuta come una bellissima
opera d'arte (cfr. Benedetto Croce nella «Critica» del
1930). Ireneo Sanesi (autore del volume La Commedia nella collezione
dei Generi letterari del Vallardi) in un articolo La Venexiana nella
«Nuova Antologia» del 1° ottobre 1929, cosí
imposta quello che per lui è il problema critico posto dalla
commedia: l'autore ignoto della Venexiana è un ritardatario,
un codino, un conservatore, perché rappresenta la commedia
nata dalla novellistica medioevale, la commedia realistica, vivace
(anche se scritta in latino) che prende gli argomenti dalla
realtà della comune vita borghese o cittadinesca, i cui
personaggi sono riprodotti da questa medesima realtà, le cui
azioni sono semplici, chiare, lineari e il cui maggiore interesse
riposa appunto nella loro sobrietà e nella loro lucidezza.
Mentre, secondo il Sanesi, sono rivoluzionari gli scrittori del
teatro erudito e classicheggiante, che riportavano sulla scena gli
antichissimi tipi e motivi cari a Plauto e Terenzio. Per il Sanesi,
gli scrittori della nuova classe storica sono codini e sono
rivoluzionari gli scrittori cortigiani: è stupefacente.
È interessante ciò che è avvenuto per la
Venexiana a poca distanza da ciò che era avvenuto per le
commedie del Ruzzante, tradotte in francese arcaicizzante dal
dialetto padovano del Cinquecento da Alfredo Mortier. Il Ruzzante
era stato rivelato da Maurizio Sand (figlio di Georges Sand) che lo
proclamò maggiore non solo dell'Ariosto (nella commedia) e
del Bibbiena, ma dello stesso Machiavelli, precursore del
Molière e del naturalismo francese moderno. Anche per la
Venexiana, Adolfo Orvieto («Marzocco», 30 settembre
1928) scrisse sembrare essa «il prodotto di una fantasia
drammatica dei nostri tempi» e accennò al Becque.
È interessante notare questo doppio filone nel Cinquecento:
uno veramente nazionale-popolare (nei dialetti, ma anche in latino)
legato alla novellistica precedente, espressione della borghesia, e
l'altro aulico, cortigiano, anazionale, che però è
portato sugli scudi dai retori.
Goldoni. Perché il Goldoni è popolare anche oggi?
Goldoni è quasi «unico» nella tradizione
letteraria italiana. I suoi atteggiamenti ideologici: democratico
prima di aver letto Rousseau e della Rivoluzione francese. Contenuto
popolare delle sue commedie: lingua popolare nella sua espressione,
mordace critica dell'aristocrazia corrotta e imputridita.
Conflitto Goldoni-Carlo Gozzi. Gozzi reazionario. Le sue Fiabe,
scritte per dimostrare che il popolo accorre alle piú insulse
strampalerie, e che invece hanno successo: in verità anche le
Fiabe hanno un contenuto popolare, sono un aspetto della cultura
popolare o folclore, in cui il meraviglioso e l'inverosimile
(presentato come tale in un mondo fiabesco) è parte
integrante. (Fortuna delle Mille e una notte anche oggi, ecc.).
Ugo Foscolo e la retorica letteraria italiana. I Sepolcri devono
essere considerati come la maggiore «fonte» della
tradizione culturale retorica che vede nei monumenti un motivo di
esaltazione delle glorie nazionali. La «nazione» non
è il popolo, o il passato che continua nel
«popolo», ma è invece l'insieme delle cose
materiali che ricordano il passato: strana deformazione che poteva
spiegarsi ai primi dell'800 quando si trattava di svegliare delle
energie latenti e di entusiasmare la gioventú, ma che
è appunto «deformazione» perché è
diventato puro motivo decorativo, esteriore, retorico (l'ispirazione
dei sepolcri non è nel Foscolo simile a quella della
cosí detta poesia sepolcrale: è un'ispirazione
«politica», come egli stesso scrive nella lettera al
Guillon).
Gli «umili». Questa espressione – «gli
umili» – è caratteristica per comprendere
l'atteggiamento tradizionale degli intellettuali italiani verso il
popolo e quindi il significato della «letteratura per gli
umili». Non si tratta del rapporto contenuto nell'espressione
dostoievschiana di «umiliati e offesi». In Dostojevskij
c'è potente il sentimento nazionale-popolare, cioè la
coscienza di una missione degli intellettuali verso il popolo che
magari è «oggettivamente» costituito di
«umili» ma deve essere liberato da questa
«umiltà», trasformato, rigenerato.
Nell'intellettuale italiano l'espressione di «umili»
indica un rapporto di protezione paterna e padreternale, il
sentimento «sufficiente» di una propria indiscussa
superiorità, il rapporto come tra due razze, una ritenuta
superiore e l'altra inferiore, il rapporto come tra adulti e bambini
nella vecchia pedagogia e peggio ancora un rapporto da
«società protettrice degli animali», o da
esercito della salute anglosassone verso i cannibali della Papuasia.
Manzoni e gli «umili». L'atteggiamento
«democratico» del Manzoni verso gli umili (nei Promessi
Sposi) in quanto è d'origine «cristiana» e in
quanto è da connettere con gli interessi storiografici che il
Manzoni aveva derivato dal Thierry e dalle sue teorie sul contrasto
tra le razze (conquistatrice e conquistata) divenuto contrasto di
classi. Queste teorie del Thierry sono da vedere in quanto sono
legate al romanticismo e al suo interesse storico per il Medio Evo e
per le origini delle nazioni moderne, cioè nei rapporti tra
razze germaniche invaditrici e razze neolatine invase, ecc. (Su
questo argomento del «democraticismo» o
«popolarismo» del Manzoni vedere altre note). Anche su
questo punto dei rapporti tra l'atteggiamento del Manzoni e le
teorie dei Thierry è da vedere il libro dello Zottoli, Umili
e potenti nella poetica di A. Manzoni.
Queste teorie di Thierry nel Manzoni si complicano, o almeno hanno
aspetti nuovi nella discussione sul «romanzo storico» in
quanto esso rappresenta persone delle «classi
subalterne» che «non hanno storia», cioè la
cui storia non lascia tracce nei documenti storici del passato.
(Questo punto è da connettere con la rubrica «Storia
delle classi subalterne», in cui si può fare
riferimento alle dottrine del Thierry, che del resto hanno avuto
tanta importanza per le origini della storiografia della filosofia
della prassi).
Del carattere non popolare-nazionale della letteratura italiana.
Atteggiamento verso il popolo nei Promessi Sposi. [Il] carattere
«aristocratico» del cattolicismo manzoniano appare dal
«compatimento» scherzoso verso le figure di uomini del
popolo (ciò che non appare in Tolstoi) come fra Galdino (in
confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese, Perpetua,
la stessa Lucia, ecc. (Su questo argomento ho scritto altra nota).
Vedere se spunti interessanti nel libro di A. A. Zottoli, Umili e
potenti nella poetica di A. Manzoni, Ed. «La Cultura»,
Roma-Milano 1931.
Sul libro dello Zottoli cfr. Filippo Crispolti, Nuove indagini sul
Manzoni, nel «Pègaso», di agosto 1931. Questo
articolo del Crispolti è interessante di per se stesso, per
comprendere l'atteggiamento del cristianesimo gesuitico verso gli
«umili». Ma in realtà mi pare che il Crispolti
abbia ragione contro lo Zottoli, sebbene il Crispolti ragioni
«gesuiticamente». Dice il Crispolti del Manzoni:
«Il popolo ha per sé tutto il cuore di lui, ma egli non
si piega ad adularlo mai; lo vede anzi collo stesso occhio severo
con cui vede i piú di coloro che non sono popolo». Ma
non si tratta di volere che il Manzoni «aduli il
popolo», si tratta del suo atteggiamento psicologico verso i
singoli personaggi che sono «popolari»; questo
atteggiamento è nettamente di casta pur nella sua forma
religiosa cattolica; i popolani, per il Manzoni, non hanno
«vita interiore», non hanno personalità morale
profonda; essi sono «animali» e il Manzoni è
«benevolo» verso di loro proprio della benevolenza di
una cattolica società di protezione degli animali. In un
certo senso il Manzoni ricorda l'epigramma su Paolo Bourget: che per
il Bourget occorre che una donna abbia 100.000 franchi di rendita
per avere una psicologia. Da questo punto di vista il Manzoni (e il
Bourget) sono schiettamente cattolici; niente in loro dello spirito
«popolare» di Tolstoi, cioè dello spirito
evangelico del cristianesimo primitivo. L'atteggiamento del Manzoni
verso i suoi popolani è l'atteggiamento della Chiesa
Cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di
medesimezza umana. Lo stesso Crispolti, nella frase citata,
inconsapevolmente confessa questa «parzialità» (o
«partigianeria») del Manzoni: il Manzoni vede con
«occhio severo» tutto il popolo, mentre vede con occhio
severo «i piú di coloro che non sono popolo»:
egli trova «magnanimità», «alti
pensieri», «grandi sentimenti» solo in alcuni
della classe alta, in nessuno del popolo, che nella sua
totalità è bassamente animalesco.
Che non abbia un gran significato il fatto che gli
«umili» abbiano una parte di prim'ordine nel romanzo
manzoniano, è giusto, come dice il Crispolti. Il Manzoni pone
il «popolo» nel suo romanzo, oltre che per i personaggi
principali (Renzo, Lucia, Perpetua, fra Galdino, ecc.) anche per la
massa (tumulti di Milano, popolani di campagna, il sarto, ecc.), ma
appunto il suo atteggiamento verso il popolo non è
«popolare-nazionale», ma aristocratico.
Studiando il libro dello Zottoli, occorre ricordare questo articolo
del Crispolti. Si può mostrare che il
«cattolicismo» anche in uomini superiori e non
«gesuitici» come il Manzoni (il Manzoni aveva certamente
una vena giansenistica e antigesuitica) non contribuí a
creare in Italia il «popolo-nazione» neanche nel
Romanticismo, anzi fu un elemento anti-nazionale-popolare e
solamente aulico. Il Crispolti accenna solo al fatto che il Manzoni
per un certo tempo accolse la concezione del Thierry (per la
Francia) della lotta di razza nel seno del popolo (Longobardi e
Romani, come in Francia Franchi e Galli) come lotta tra umili e
potenti. Lo Zottoli cerca di rispondere al Crispolti nel
«Pègaso» del settembre 1931.
Adolfo Faggi nel «Marzocco» del 1° novembre 1931
scrive alcune osservazioni sulla sentenza «Vox populi vox
Dei» nei Promessi Sposi. La sentenza è citata due volte
(secondo il Faggi) nel romanzo: una volta nell'ultimo capitolo ed
appare detta da Don Abbondio a proposito del marchese successore di
Don Rodrigo: «E poi non vorrà che si dica che è
un grand'uomo. Lo dico e lo voglio dire. E anche se io stessi zitto,
già non servirebbe a nulla, perché parlan tutti, e vox
populi, vox Dei». Il Faggi fa osservare che questo solenne
proverbio è impiegato da don Abbondio un po' enfaticamente,
mentre egli si trova in quella felice disposizione d'animo per la
morte di don Rodrigo, ecc.; non ha particolare importanza o
significato. L'altra volta la sentenza si trova nel cap. XXXI, dove
si parla della peste: «Molti medici ancora, facendo eco alla
voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?) deridevano
gli auguri sinistri, gli avvertimenti minacciosi dei pochi,
ecc.». Qui il proverbio è riportato in italiano e in
parentesi, con intonazione ironica. Negli Sposi Promessi (cap. III
del tomo IV, ediz. Lesca) il Manzoni scrive a lungo sulle idee
tenute generalmente per vere in un tempo o in un altro dagli uomini
e conchiude che se oggi si possono trovare ridicole le idee diffuse
tra il popolo al tempo della peste di Milano, non possiamo sapere se
idee odierne non saranno trovate ridicole domani, ecc. Questo lungo
ragionamento della prima stesura è riassunto nel testo
definitivo nella breve domanda: «Era anche in questo caso voce
di Dio?»
Il Faggi distingue tra i casi in cui per il Manzoni la voce del
popolo non è in certi casi voce di Dio, da altri in cui
può esser tale. Non sarebbe voce di Dio «quando si
tratti d'idee o meglio di cognizioni specifiche, che soltanto dalla
scienza e dai suoi continui progressi possono essere determinate; ma
quando si tratti di quei principii generali e sentimenti comuni per
natura a tutti quanti gli uomini, che gli antichi comprendevano
nella ben nota espressione di conscentia generis humani». Ma
il Faggi non pone molto esattamente la quistione, che non può
essere risolta senza riferirsi alla religione del Manzoni, al suo
cattolicismo. Cosí riporta per esempio il famoso parere di
Perpetua a don Abbondio, parere che coincide con l'opinione del
card. Borromeo. Ma nel caso non si tratta di una quistione morale o
religiosa, ma di un consiglio di prudenza pratica, dettato dal senso
comune piú banale. Che il card. Borromeo si trovi d'accordo
con Perpetua non ha quella importanza che sembra al Faggi. Mi pare
sia legato al tempo e al fatto che l'autorità ecclesiastica
aveva un potere politico e un'influenza; che Perpetua pensi che don
Abbondio debba ricorrere all'arcivescovo di Milano, è cosa
naturale (serve solo a mostrare come Don Abbondio avesse perduto la
testa in quel momento e Perpetua avesse piú «spirito di
corpo» di lui), come è naturale che Federico Borromeo
cosí parli. Non c'entra la voce di Dio in questo caso.
Cosí non ha molto rilievo l'altro caso: Renzo non crede
all'efficienza del voto di castità fatto da Lucia e in
ciò si trova d'accordo col padre Cristoforo. Si tratta anche
qui di «casistica» e non di morale. Il Faggi scrive che
«il Manzoni ha voluto fare un romanzo di umili», ma
ciò ha un significato piú complesso di ciò che
il Faggi mostri di credere. Tra il Manzoni e gli «umili»
c'è distacco sentimentale; gli umili sono per il Manzoni un
«problema di storiografia», un problema teorico che egli
crede di poter risolvere col romanzo storico, col
«verosimile» del romanzo storico. Perciò gli
umili sono spesso presentati come «macchiette» popolari,
con bonarietà ironica, ma ironica. E il Manzoni è
troppo cattolico per pensare che la voce del popolo sia voce di Dio:
tra il popolo e Dio c'è la chiesa, e Dio non s'incarna nel
popolo, ma nella chiesa. Che Dio s'incarni nel popolo può
crederlo il Tolstoi, non il Manzoni.
Certo questo atteggiamento del Manzoni è sentito dal popolo e
perciò i Promessi Sposi non sono mai stati popolari:
sentimentalmente il popolo sentiva il Manzoni lontano da sé e
il suo libro come un libro di devozione non come un'epopea popolare.
«Popolarità» del Tolstoi e del Manzoni. Nel
«Marzocco» dell'11 novembre 1928 è pubblicato un
articolo di Adolfo Faggi, Fede e dramma, nel quale sono contenuti
alcuni elementi per istituire un confronto tra la concezione del
mondo del Tolstoi e quella del Manzoni, sebbene il Faggi affermi
arbitrariamente che i «Promessi Sposi corrispondono
perfettamente al suo (del Tolstoi) concetto dell'arte
religiosa», esposto nello studio critico sullo Shakespeare:
«L'arte in generale e in particolare l'arte drammatica fu
sempre religiosa, ebbe cioè sempre per iscopo di chiarire
agli uomini i loro rapporti con Dio, secondo la comprensione che di
questi rapporti s'erano fatta in ogni età gli uomini
piú eminenti e destinati perciò a guidare gli altri...
Ci fu poi una deviazione nell'arte che l'asserví al
passatempo e al divertimento; deviazione che ha avuto luogo anche
nell'arte cristiana». Nota il Faggi che in Guerra e Pace i due
personaggi che hanno la maggior importanza religiosa sono Platone
Karatajev e Pietro Biezuchov: il primo è uomo del popolo, e
il suo pensiero ingenuo ed istintivo ha molta efficacia sulla
concezione della vita di P. Biezuchov.
Nel Tolstoi è caratteristico appunto che la saggezza ingenua
ed istintiva del popolo, enunciata anche con una parola casuale,
faccia la luce e determini una crisi nell'uomo colto. Ciò
appunto è il tratto piú rilevante della religione del
Tolstoi che intende l'Evangelo «democraticamente»,
cioè secondo il suo spirito originario e originale. Il
Manzoni invece ha subíto la Controriforma: il suo
cristianesimo ondeggia tra un aristocraticismo giansenistico e un
paternalismo popolaresco gesuitico. Il rilievo del Faggi che
«nei Promessi Sposi sono gli spiriti superiori come il padre
Cristoforo e il cardinale Borromeo che agiscono sugli inferiori e
sanno sempre trovare per loro la parola che illumina e guida»
non ha connessione sostanziale con la formulazione di ciò che
è l'arte religiosa di Tolstoi, che si riferisce alla
concezione generale e non ai particolari modi di estrinsecazione: le
concezioni del mondo non possono non essere elaborate da spiriti
eminenti, ma la «realtà» è espressa dagli
umili, dai semplici di spirito.
Bisogna inoltre notare che nei Promessi Sposi non c'è
popolano che non sia «preso in giro» e canzonato: da don
Abbondio a fra Galdino, al sarto, a Gervasio, ad Agnese, a Perpetua,
a Renzo, alla stessa Lucia: essi sono rappresentati come gente
meschina, angusta, senza vita interiore. Vita interiore hanno solo i
signori: fra Cristoforo, il Borromeo, l'Innominato, lo stesso don
Rodrigo. Perpetua, secondo don Abbondio, aveva detto presso a poco
ciò che disse poi il Borromeo, ma intanto si tratta di
quistioni pratiche e poi è notevole come lo spunto sia
oggetto di comicità. Cosí il fatto che il parere di
Renzo sul valore del voto di verginità di Lucia coincide
esteriormente col parere di padre Cristoforo. L'importanza che ha la
frase di Lucia nel turbare la coscienza dell'Innominato e nel
secondarne la crisi morale è di carattere non illuminante e
folgorante come ha l'apporto del popolo, sorgente di vita morale e
religiosa, nel Tolstoi, ma meccanico e di carattere
«sillogistico». In realtà anche nel Manzoni si
possono trovare notevoli tracce di brescianesimo. (È da
notare che prima del Parini, furono i gesuiti a
«valorizzare» «paternalisticamente» il
popolo: cfr. La giovinezza del Parini, Verri e Beccaria di C. A.
Vianello (Milano, 1933), dove si accenna al padre gesuita Pozzi
«che tanto prima del Parini insorse a difendere ed esaltare –
innanzi al consesso del migliore patriziato milanese – «il
plebeo» o proletario, come ora si direbbe» (vedi
«Civiltà Cattolica» del 4 agosto 1934, p. 272).
In un secondo articolo pubblicato nel «Marzocco» del 9
settembre 1928, il Faggi (Tolstoi e Shakespeare) esamina l'opuscolo
di Tolstoi su Shakespeare, al quale aveva accennato nell'articolo
precedente: Leo N. Tolstoi: Shakespeare, eine kritische Studie,
Hannover, 1906. Il volumetto contiene anche un articolo di Ernest
Crosby su L'atteggiamento dello Shakespeare davanti alle classi
lavoratrici e una breve lettera di Bernardo Shaw sulla filosofia
dello Shakespeare. Tolstoi vuole demolire lo Shakespeare partendo
dal punto di vista della propria ideologia cristiana; la sua critica
non è artistica, ma morale e religiosa. L'articolo del
Crosby, da cui prese le mosse, mostra, contrariamente all'opinione
di molti illustri inglesi, che non c'è in tutta l'opera dello
Shakespeare quasi alcuna parola di simpatia per il popolo e le masse
lavoratrici. Lo Shakespeare, conforme alle tendenze del suo tempo,
parteggia manifestamente per le classi elevate della società:
il suo dramma è essenzialmente aristocratico. Quasi tutte le
volte che egli introduce sulla scena dei borghesi o dei popolani, li
presenta in maniera sprezzante o repugnante, e li fa materia o
argomento di riso (cfr. ciò che già detto del Manzoni,
la cui tendenza è analoga, sebbene le manifestazioni ne siano
attenuate).
La lettera dello Shaw è rivolta contro Shakespeare
«pensatore», non contro Shakespeare
«artista». Secondo lo Shaw nella letteratura si deve
dare il primo posto a quegli autori che hanno superato la morale del
loro tempo e intraveduto le nuove esigenze dell'avvenire:
Shakespeare non fu «moralmente» superiore al suo tempo
ecc.
In queste note occorre evitare ogni tendenziosità moralistica
tipo Tolstoi e anche ogni tendenziosità del «senno di
poi» tipo Shaw. Si tratta di una ricerca di storia della
cultura, non di critica artistica in senso stretto: si vuole
dimostrare che sono gli autori esaminati che introducono un
contenuto morale estrinseco, cioè fanno della propaganda e
non dell'arte, e che la concezione del mondo implicita nelle loro
opere è angusta e meschina, non nazionale-popolare ma di
casta chiusa. La ricerca sulla bellezza di un'opera è
subordinata alla ricerca del perché essa è
«letta», è «popolare», è
«ricercata» o, all'opposto, del perché non tocca
il popolo e non l'interessa, mettendo in evidenza la assenza di
unità nella vita culturale nazionale.
[Ironia e gergo letterario.] Nel «Marzocco» del 18
settembre 1932 Tullia Franzi scrive sulla quistione sorta tra il
Manzoni e il traduttore inglese dei Promessi Sposi, il pastore
anglicano Carlo Swan, a proposito della espressione, contenuta verso
la fine del capitolo settimo, impiegata per indicare Shakespeare:
«Tra il primo concetto di una impresa terribile e l'esecuzione
di essa (ha detto un barbaro che non era privo d'ingegno)
l'intervallo è un sogno pieno di fantasmi e di paure».
Lo Swan scrisse al Manzoni: «Un barbaro che non era privo
d'ingegno is a phrase, calculated to draw upon you the anathema of
every admirer of our bard». Nonostante che Swan conoscesse gli
scritti del Voltaire contro Shakespeare, egli non colse l'ironia
manzoniana, che era appunto rivolta contro il Voltaire (che aveva
definito lo Shakespeare «un sauvage avec des étincelles
de génie»). Lo Swan pubblicò come prefazione
alla sua traduzione la lettera dove il Manzoni gli spiega il
significato della sua espressione ironica. Ma la Franzi ricorda che
nelle altre traduzioni inglesi l'espressione manzoniana o è
taciuta o è resa anodina (scrive uno scrittore straniero
ecc.). Cosí nelle traduzioni in altre lingue, ciò che
dimostra come questa ironia che ha bisogno di essere spiegata per
essere compresa e assaporata, sia in fondo un'ironia in
«gergo», da conventicola letteraria. Mi pare che il
fatto sia molto piú esteso di quanto non sembri, e renda
difficile tradurre dall'italiano non solo ma anche, spesso,
comprendere un italiano che parla in conversazione. La
«finezza» di cui pare si abbia bisogno in tali
conversazioni non è un fatto dell'intelligenza normale, ma il
fatto di dover conoscere fatterelli e atteggiamenti intellettuali di
«gergo», proprii di letterati e anzi di certi gruppi di
letterati. (Nell'articolo della Franzi è da notare una
metafora «femminile» sorprendente: «Col sentimento
di un uomo che, strapazzato e battuto dalla sua sposa per sospetto
geloso, si rallegra tutto di quegli sdegni e benedice quelle
percosse che gli sono testimonianza di amore, il Manzoni accolse
questa lettera». Un uomo che si rallegra di essere bastonato
dalla moglie è certo una forma originale di femminismo
contemporaneo).
[«Contenutisti» e «calligrafi».] Polemica
svoltasi nell'«Italia Letteraria», nel
«Tevere», nel «Lavoro Fascista», nella
«Critica Fascista» tra «contenutisti» e
«calligrafi». Pareva da alcuni accenni che Gherardo
Casini (Direttore del «Lavoro fascista» e redattore capo
della «Critica fascista») dovesse impostare almeno
criticamente in modo esatto il problema, ma il suo articolo nella
«Critica» del 1° maggio è una delusione. Egli
non riesce a definire i rapporti tra «politica» e
«letteratura» nel terreno della scienza e dell'arte
politica come non riesce a definirli nel terreno della critica
letteraria: egli non sa praticamente indicare come possa essere
impostata e condotta una lotta o aiutato un movimento per il trionfo
di una nuova cultura o civiltà, né si pone il problema
del come possa avvenire che una nuova civiltà, affermata come
già esistente, possa non avere una sua espressione letteraria
e artistica, possa non espandersi nella letteratura, mentre è
sempre avvenuto il contrario nella storia, che ogni nuova
civiltà, in quanto era tale, anche compressa, combattuta, in
tutti i modi impastoiata, si sia precisamente espressa
letterariamente prima che nella vita statale, anzi la sua
espressione letteraria sia stata il modo di creare le condizioni
intellettuali e morali per l'espressione legislativa e statale.
Poiché nessuna opera d'arte può non avere un
contenuto, cioè non essere legata a un mondo poetico e questo
a un mondo intellettuale e morale, è evidente che i
«contenutisti» sono semplicemente i portatori di una
nuova cultura, di un nuovo contenuto e i «calligrafi» i
portatori di un vecchio o diverso contenuto, di una vecchia o
diversa cultura (a parte ogni quistione di valore su questi
contenuti o «culture» per il momento, sebbene in
realtà è proprio il valore delle culture in contrasto
e la superiorità di una sull'altra che decide del contrasto).
Il problema quindi è di «storicità»
dell'arte, di «storicità e perpetuità» nel
tempo stesso, è di ricerca del fatto se il fatto bruto,
economico-politico, di forza, abbia (e possa) subíto
l'elaborazione ulteriore che si esprime nell'arte o se invece si
tratti di pura economicità inelaborabile artisticamente in
modo originale in quanto l'elaborazione precedente già
contiene il nuovo contenuto, che è nuovo solo
cronologicamente. Può avvenire infatti, dato che ogni
complesso nazionale è una combinazione spesso eterogenea di
elementi, che gli intellettuali di esso, per il loro carattere
cosmopolitico, non coincidano col contenuto nazionale, ma con un
contenuto preso a prestito da altri complessi nazionali o
addirittura cosmopoliticamente astratto. Cosí il Leopardi si
può dire il poeta della disperazione portata in certi spiriti
dal sensismo settecentesco, a cui in Italia non corrispondeva lo
sviluppo di forze e lotte materiali e politiche caratteristico dei
paesi in cui il sensismo era forma culturale organica. Quando nel
paese arretrato, le forze civili corrispondenti alla forma culturale
si affermano ed espandono, è certo che esse non possono
creare una nuova originale letteratura, non solo, ma anzi [è
naturale] che ci sia un «calligrafismo» cioè, in
realtà, uno scetticismo diffuso e generico per ogni
«contenuto» passionale serio e profondo. Pertanto il
«calligrafismo» sarà la letteratura organica di
tali complessi nazionali, che come Lao-tse, nascono già
vecchi di ottanta anni, senza freschezza e spontaneità di
sentimento, senza «romanticismi» ma anche senza
«classicismi» o con un romanticismo di maniera, in cui
la rozzezza iniziale delle passioni è quella delle
«estati di San Martino», di un vecchio voronovizzato,
non di una virilità o maschilità irrompente,
cosí come il classicismo sarà anch'esso di maniera,
«calligrafismo» appunto, mera forma come una livrea da
maggiordomo. Avremo «strapaese» e
«stracittà», e lo «stra» avrà
piú significato di quanto non sembri.
È da notare inoltre come in questa discussione manchi ogni
serietà di preparazione: le teorie del Croce saranno da
accogliere o da respingere, ma bisognerebbe conoscerle con esattezza
e citarle con scrupolo. Invece è da notare come nella
discussione esse siano riferite a orecchio,
«giornalisticamente». È evidente che il momento
«artistico» come categoria, nel Croce, anche se esso
è presentato come momento della pura forma, non è il
presupposto di nessun calligrafismo né la negazione di nessun
contenutismo, cioè del vivace irrompere di nessun nuovo
motivo culturale. Neanche conta, in realtà, il concreto
atteggiamento del Croce, come politico, verso questa o quella
corrente di passioni e sentimenti; come esteta il Croce rivendica il
carattere di liricità dell'arte, anche se come politico
rivendichi e lotti per il trionfo di un determinato programma invece
che di un altro. Pare anzi che con la sua teoria della
circolarità delle categorie spirituali, non possa negarsi che
nell'artista il Croce presupponga una forte
«moralità», anche se non come fatto morale
consideri l'opera d'arte ma come fatto estetico, cioè
consideri un momento e non un altro del circolo come quello di cui
si tratta. Cosí, per esempio, nel momento economico considera
il «brigantaggio», come l'affare di borsa, ma non pare
che come uomo lavori allo sviluppo del brigantaggio piú che
agli affari di borsa (e si può dire che, in misura della sua
importanza politica, il suo atteggiamento non sia senza
ripercussione sugli affari di borsa). Questo stesso fatto, della
poca serietà della discussione e del non soverchio scrupolo
dei disputanti nell'impadronirsi dei termini del problema e nello
scrupolo dell'esattezza, non è certo documento che il
problema sia vitale e di importanza eccezionale: è una
polemica di piccoli e mediocri giornalisti piú che i
«dolori del parto» di una nuova civiltà
letteraria.
Il pubblico e la letteratura italiana. In un articolo pubblicato dal
«Lavoro» e riportato in estratti dalla «Fiera
Letteraria» del 28 ottobre 1928, Leo Ferrero scrive:
«Per una ragione o per l'altra si può dire che gli
scrittori italiani non abbiano piú pubblico. [...] Un
pubblico infatti vuol dire un insieme di persone, non soltanto che
compra dei libri, ma soprattutto che ammira degli uomini. Una
letteratura non può fiorire che in un clima di ammirazione e
l'ammirazione non è, come si potrebbe credere, il compenso,
ma lo stimolo del lavoro. [...] Il pubblico che ammira, che ammira
davvero, di cuore, con gioia, il pubblico che ha la felicità
di ammirare (niente è piú deleterio dell'ammirazione
convenzionale) è il piú grande animatore di una
letteratura. Da molti segni si capisce ahimè che il pubblico
sta abbandonando gli scrittori italiani».
L'«ammirazione» del Ferrero non è altro che una
metafora e un «nome collettivo» per indicare il
complesso sistema di rapporti, la forma di contatto tra una nazione
e i suoi scrittori. Oggi questo contatto manca, cioè la
letteratura non è nazionale perché non è
popolare. Paradosso del tempo attuale. Inoltre non c'è una
gerarchia nel mondo letterario, cioè manca una
personalità eminente che eserciti una egemonia culturale.
Quistione del perché e del come una letteratura sia popolare.
La «bellezza» non basta: ci vuole un determinato
contenuto intellettuale e morale che sia l'espressione elaborata e
compiuta delle aspirazioni piú profonde di un determinato
pubblico, cioè della nazione-popolo in una certa fase del suo
sviluppo storico. La letteratura deve essere nello stesso tempo
elemento attuale di civiltà e opera d'arte, altrimenti alla
letteratura d'arte viene preferita la letteratura d'appendice che, a
modo suo, è un elemento attuale di cultura, di una cultura
degradata quanto si vuole ma sentita vivamente.
La cultura nazionale italiana. Nella Lettera a Umberto Fracchia
sulla critica («Pègaso», agosto 1930) Ugo Ojetti
fa due osservazioni notevoli. 1) Ricorda che il Thibaudet divide la
critica in tre classi: quella dei critici di professione, quella
degli stessi autori e quella «des honnêtes gens»,
cioè del pubblico «illuminato», che alla fine
è la vera Borsa dei valori letterari, visto che in Francia
esiste un pubblico largo ed attento a seguire tutte le vicende della
letteratura. In Italia mancherebbe la critica del pubblico
(cioè mancherebbe o sarebbe troppo scarso un pubblico medio
illuminato come esiste in Francia), «manca la persuasione o,
se si vuole, l'illusione che questi (lo scrittore) compia opera
d'importanza nazionale, anzi, i migliori, storica, perché,
come ella (il Fracchia) dice "ogni anno e ogni giorno che passa ha
ugualmente la sua letteratura, e cosí è sempre stato,
e cosí sarà sempre, ed è assurdo aspettare o
pronosticare o invocare per domani ciò che oggi è.
Ogni secolo, ogni porzione di secolo, ha sempre esaltato le proprie
opere; è anzi stato portato se mai ad esagerarne
l'importanza, la grandezza, il valore e la durata". Giusto, ma non
in Italia ecc.». (L'Ojetti prende lo spunto dalla lettera
aperta di Umberto Fracchia a S. E. Gioacchino Volpe, pubblicata
nell'«Italia Letteraria» del 22 giugno 1930 e che si
riferisce al discorso del Volpe tenuto nella seduta dell'Accademia
in cui furono distribuiti dei premi. Il Volpe aveva detto, fra
l'altro: «Non si vedono spuntare grandi opere pittoriche,
grandi opere storiche, grandi romanzi. Ma chi guarda attentamente,
vede nella presente letteratura forze latenti, aneliti all'ascesa,
alcune buone e promettenti realizzazioni»).
2) L'altra osservazione dell'Ojetti è questa: «La
scarsa popolarità della nostra letteratura passata,
cioè dei nostri classici. È vero: nella critica
inglese e francese si leggono spesso paragoni tra gli autori viventi
e i classici ecc. ecc.». Questa osservazione è
fondamentale per un giudizio storico sulla presente cultura
italiana: il passato non vive nel presente, non è elemento
essenziale del presente, cioè nella storia della cultura
nazionale non c'è continuità e unità.
L'affermazione di una continuità ed unità è
solo un'affermazione retorica o ha valore di mera propaganda
suggestiva, è un atto pratico, che tende a creare
artificialmente ciò che non esiste, non è una
realtà in atto. (Una certa continuità e unità
parve esistere dal Risorgimento fino al Carducci e al Pascoli, per i
quali era possibile un richiamo fino alla letteratura latina; furono
spezzate col D'Annunzio e successori). Il passato, compresa la
letteratura, non è elemento di vita, ma solo di cultura
libresca e scolastica; ciò che poi significa che il
sentimento nazionale è recente, se addirittura non conviene
dire che esso è solo ancora in via di formazione,
riaffermando che in Italia la letteratura non è mai stata un
fatto nazionale, ma di carattere «cosmopolitico».
Dalla lettera aperta di Umberto Fracchia a S. E. G. Volpe si possono
estrarre altri brani tipici: «Solo un po' [piú] di
coraggio, di abbandono (!), di fede (!) basterebbero per trasformare
l'elogio a denti stretti che Ella ha fatto della presente
letteratura in un elogio aperto ed esplicito; per dire che la
presente letteratura italiana ha forze non solo latenti, ma anche
scoperte, visibili (!) le quali non aspettano (!) che di essere
vedute (!) e riconosciute da quanti le ignorano, ecc. ecc.».
Il Volpe aveva un po' «sul serio» parafrasato i versi
giocosi del Giusti: «Eroi, eroi, che fate voi? – Ponziamo il
poi!», e il Fracchia si lamenta miserevolmente che non siano
riconosciute ed apprezzate le ponzature come ponzature.
Il Fracchia parecchie volte ha minacciato gli editori che stampano
troppe traduzioni di misure legislative-corporative che proteggano
gli scrittori italiani (è da ricordare l'ordinanza del
sottosegretario agli Interni on. Bianchi, poi
«interpretata» e di fatto revocata, e che era connessa a
una campagna giornalistica del Fracchia). Il ragionamento del
Fracchia già citato: ogni secolo, ogni frazione di secolo ha
la sua letteratura, non solo, ma la esalta; tanto che le storie
letterarie hanno dovuto mettere a posto molte opere esaltatissime e
che oggi si riconosce non valgono nulla. All'ingrosso il fatto
è giusto, ma se ne deve dedurre che l'attuale periodo
letterario non sa interpretare il suo tempo, è staccato dalla
vita nazionale effettiva, sicché neanche per «ragioni
pratiche» vengono esaltate opere che poi magari potrebbero
essere riconosciute artisticamente nulle perché la loro
«praticità» sarà stata superata. Ma
è vero che non ci siano libri molto letti? ci sono, ma sono
stranieri e ce ne sarebbero di piú se fossero tradotti, come
i libri di Remarque, ecc. Realmente il tempo presente non ha una
letteratura aderente ai suoi bisogni piú profondi ed
elementari, perché la letteratura esistente, salvo rare
eccezioni, non è legata alla vita popolare-nazionale, ma a
gruppi ristretti che della vita nazionale sono le mosche cocchiere.
Il Fracchia si lamenta della critica, che si pone solo dal punto di
vista dei grandi capolavori, che si è rarefatta nella
perfezione delle teorie estetiche ecc. Ma se i libri fossero
esaminati da un punto di vista di storia della cultura, si
lamenterebbe lo stesso e peggio, perché il contenuto
ideologico e culturale dell'attuale letteratura è quasi zero,
ed è, per di piú, contraddittorio e discretamente
gesuitico.
Non è neanche vero (come ha scritto l'Ojetti nella lettera al
Fracchia) che in Italia non esista una «critica del
pubblico»; esiste, ma a suo modo, perché il pubblico
legge molto e quindi sceglie tra ciò che esiste a sua
disposizione. Perché questo pubblico preferisce ancora
Alessandro Dumas e Carolina Invernizio e si getta avidamente sui
romanzi gialli? D'altronde questa critica del pubblico italiano ha
una sua organizzazione, che è rappresentata dagli editori,
dai direttori di quotidiani e periodici popolari; si manifesta nella
scelta delle appendici; si manifesta nella traduzione di libri
stranieri e non solo attuali, ma vecchi, molto vecchi; si manifesta
nei repertori delle compagnie teatrali ecc. Né si tratta di
esotismo al cento per cento, perché in musica lo stesso
pubblico vuole Verdi, Puccini, Mascagni, che non hanno i
corrispondenti nella letteratura, evidentemente. Non solo; ma
all'estero Verdi, Puccini, Mascagni sono preferiti spesso dai
pubblici stranieri ai loro stessi musicisti nazionali e attuali.
Questo fatto è la riprova piú perentoria che in Italia
c'è distacco tra pubblico e scrittori e il pubblico cerca la
«sua» letteratura all'estero, perché la sente
piú «sua» di quella cosí detta nazionale.
In questo fatto è posto un problema di vita nazionale
essenziale. Se è vero che ogni secolo o frazione di secolo ha
la sua letteratura, non è sempre vero che questa letteratura
sia prodotta nella stessa comunità nazionale. Ogni popolo ha
la sua letteratura, ma essa può venirgli da un altro popolo,
cioè il popolo in parola può essere subordinato
all'egemonia intellettuale e morale di altri popoli. È questo
spesso il paradosso piú stridente per molte tendenze
monopolistiche di carattere nazionalistico e repressivo: che mentre
si costruiscono piani grandiosi di egemonia, non ci si accorge di
essere oggetto di egemonie straniere; cosí come, mentre si
fanno piani imperialistici, in realtà si è oggetto di
altri imperialismi ecc. D'altronde non si sa se il centro politico
dirigente non capisca benissimo la situazione di fatto e non cerchi
di superarla: è certo però che i letterati, in questo
caso, non aiutano il centro dirigente politico in questi sforzi e i
loro cervelli vuoti si accaniscono nell'esaltazione nazionalistica
per non sentire il peso dell'egemonia da cui si dipende e si
è oppressi.
[Polemiche inconcludenti.] Si moltiplicano gli scritti sul distacco
tra arte e vita. Articolo di Papini, nella «Nuova
Antologia» del 1° gennaio 1933, articolo di Luigi Chiarini
nell'«Educazione Fascista» del dicembre 1932. Attacchi
contro Papini nell'«Italia Letteraria» ecc... Polemiche
noiose e quanto inconcludenti. Papini è cattolico e
anticrociano; le contraddizioni del suo superficiale scritto
risultano da questa doppia qualità. In ogni modo questo
rinnovarsi delle polemiche (alcuni articoli di «Critica
Fascista», quelli di Gherardo Casini e uno di Bruno Spampanato
contro gli intellettuali sono i piú notevoli e si avvicinano
di piú al nocciolo della quistione) è sintomatico e
mostra come si senta il disagio per il contrasto tra le parole e i
fatti, tra le affermazioni recise e la realtà che le
contraddice.
Pare però che oggi sia piú possibile far riconoscere
la realtà della situazione: c'è indubbiamente
piú buona volontà di comprendere, piú
spregiudicatezza ed esse sono date dal diffuso spirito antiborghese
anche se generico e di origini spurie. Per lo meno si vorrebbe
creare una effettiva unità nazionale-popolare, anche se con
mezzi estrinseci, pedagogici, scolastici, col
«volontarismo»: per lo meno si sente che questa
unità manca e che tale mancanza è una debolezza
nazionale e statale. Ciò differenzia radicalmente l'attuale
epoca da quella degli Ojetti, dei Panzini e C. Perciò nella
trattazione di questa rubrica conviene tenerne conto. Le debolezze,
d'altronde, sono evidenti: la prima è quella dell'essere
persuasi che sia avvenuto un rivolgimento radicale
popolare-nazionale; se è avvenuto, vuol dire che non si deve
far nulla piú oltre di radicale, ma che si tratta solo di
«organizzare», educare, ecc.; tutt'al piú si
parla di «rivoluzione permanente» ma in significato
ristretto, nella solita accezione che tutta la vita è
dialettica, è milizia, quindi rivoluzione. Le altre debolezze
sono di piú difficile comprensione: esse infatti possono
risultare solo da una esatta analisi della composizione sociale
italiana, da cui risulta che la grande massa degli intellettuali
appartiene a quella borghesia rurale, la cui posizione economica
è possibile solo se le masse contadine sono spremute fino
alle midolla. Quando dalle parole si dovesse passare ai fatti
concreti, questi significherebbero una distruzione radicale della
base economica di questi gruppi intellettuali.
[Ciò che è «interessante» nell'arte.]
Bisognerà fissare bene ciò che deve intendersi per
«interessante» nell'arte in generale e specialmente
nella letteratura narrativa e nel teatro. L'elemento
«interessante» muta secondo gli individui o i gruppi
sociali o la folla in generale: è quindi un elemento della
cultura, non dell'arte, ecc. Ma è perciò un fatto
completamente estraneo e separato dall'arte? Intanto l'arte stessa
interessa, è interessante cioè per se stessa, in
quanto soddisfa una esigenza della vita. Ancora: oltre questo
carattere piú intimo all'arte di essere interessante per se
stessa, quali altri elementi di «interesse» può
presentare un'opera d'arte, per esempio un romanzo o un poema o un
dramma? Teoricamente infiniti. Ma quelli che
«interessano» non sono infiniti: sono precisamente solo
gli elementi che si ritiene contribuiscano piú direttamente
alla «fortuna» immediata o mediata (in primo grado) del
romanzo, del poema, del dramma. Un grammatico si può
interessare ad un dramma di Pirandello perché vuol sapere
quanti elementi lessicali, morfologici e sintattici di marca
siciliana il Pirandello introduce o può introdurre nella
lingua italiana letteraria: ecco un elemento
«interessante» che non contribuirà molto alla
diffusione del dramma in parola. I «metri barbari» del
Carducci erano un elemento «interessante» per una
cerchia piú vasta, per la corporazione dei letterati di
professione, e per quelli che intendevano diventarlo: furono dunque
un elemento di «fortuna» immediata già notevole,
contribuirono a diffondere qualche migliaia di copie dei versi
scritti in metri barbari. Questi elementi «interessanti»
variano secondo i tempi, i climi culturali e secondo le
idiosincrasie personali.
L'elemento piú stabile di «interesse» è
certamente l'interesse «morale» positivo o negativo,
cioè per adesione o per contraddizione: «stabile»
in un certo senso, cioè nel senso della «categoria
morale», non del contenuto concreto morale. Strettamente
legato a questo è l'elemento «tecnico» in un
certo senso particolare, cioè «tecnico» come modo
di far capire nel modo piú immediato e piú drammatico
il contenuto morale, il contrasto morale del romanzo, del poema, del
dramma: cosí abbiamo nel dramma i «colpi» di
scena, nel romanzo l'«intrigo» prevalente, ecc. Tutti
questi elementi non sono necessariamente «artistici», ma
non sono neanche necessariamente non artistici. Dal punto di vista
dell'arte essi sono in un certo senso «indifferenti»,
cioè extra-artistici: sono dati di storia della cultura e da
questo punto di vista devono essere valutati.
Che ciò avvenga, che cosí sia, è appunto
provato dalla cosí detta letteratura mercantile, che è
una sezione della letteratura popolare-nazionale: il carattere
«mercantile» è dato dal fatto che l'elemento
«interessante» non è «ingenuo»,
«spontaneo», intimamente fuso nella concezione
artistica, ma ricercato dall'esterno, meccanicamente, dosato
industrialmente come elemento certo di «fortuna»
immediata. Ciò significa, in ogni caso, però, che
anche la letteratura commerciale non dev'essere trascurata nella
storia della cultura: essa anzi ha un valore grandissimo proprio da
questo punto di vista, perché il successo di un libro di
letteratura commerciale indica (e spesso è il solo indicatore
esistente) quale sia la «filosofia dell'epoca»,
cioè quale massa di sentimenti e di concezioni del mondo
predomini nella moltitudine «silenziosa». Questa
letteratura è uno «stupefacente» popolare,
è un «oppio». (Da questo punto di vista si
potrebbe fare un'analisi del Conte di Montecristo di A. Dumas, che
è forse il piú «oppiaceo» dei romanzi
popolari: quale uomo del popolo non crede di aver subito
un'ingiustizia dai potenti e non fantastica sulla
«punizione» da infliggere loro? Edmondo Dantès
gli offre il modello, lo «ubbriaca» di esaltazione,
sostituisce il credo di una giustizia trascendente in cui non crede
piú «sistematicamente»).
Cfr. l'articolo Dell'interesse di Carlo Linati nei «Libri del
giorno» del febbraio 1929. Il Linati si domanda in che
consista quel «quid» per cui i libri interessano e
finisce col non trovare una risposta. Ed è certo che una
risposta precisa non si può trovare, nel senso almeno che
intende il Linati, il quale vorrebbe trovare il «quid»
per essere in grado o per mettere gli altri in grado di scrivere
libri interessanti. Il Linati dice che il problema in questi ultimi
tempi è diventato «scottante» ed è vero,
come è naturale che sia. C'è stato un certo risveglio
di sentimenti nazionalistici: è spiegabile che si ponga il
problema del perché i libri italiani non siano letti, del
perché essi siano ritenuti «noiosi» e
«interessanti» invece quelli stranieri, ecc. Il
risveglio nazionalistico fa sentire che la letteratura italiana non
è «nazionale» nel senso che non è popolare
e che si subisce come popolo l'egemonia straniera. Onde programmi,
polemiche, tentativi, che non riescono però in nulla. Sarebbe
necessaria una critica spietata della tradizione e un rinnovamento
culturale-morale da cui dovrebbe nascere una nuova letteratura. Ma
ciò appunto non può avvenire per la contraddizione
ecc.: risveglio nazionalistico ha assunto il significato di
esaltazione del passato. Marinetti è diventato accademico e
lotta contro la tradizione della pastasciutta.
Cfr. l'articolo di Piero Rébora, Libri italiani ed editori
inglesi, nell'«Italia che scrive» del marzo 1932.
Perché la letteratura italiana contemporanea non ha quasi
corso in Inghilterra: «Scarsa capacità di obiettiva
narrazione e d'osservazione, egocentrismo morboso, antiquata
ossessione erotica; ed insieme, caos linguistico e stilistico, pel
quale molti nostri libri son scritti tuttora con torbido
impressionismo lirico che infastidisce il lettore italiano e
stordisce uno straniero. Centinaia di vocaboli usati dagli scrittori
contemporanei non si trovano nei vocabolari e nessuno sa quello che
significhino esattamente». «Sopratutto, forse,
rappresentazione dell'amore e della donna piú o meno
incomprensibile per gli anglo-sassoni, verismo provinciale
semi-vernacolo, mancanza di unità linguistica e
stilistica». «Occorrono libri di tipo europeo, non di
trito verismo provinciale». «L'esperienza m'insegna che
il lettore straniero (e probabilmente anche l'italiano) trova nei
nostri libri spesso qualcosa di caotico, di urtante, di ripugnante
quasi, inseritosi chissà come qua e là, in mezzo a
pagine invece ammirevoli, rivelanti un ingegno solido e
profondo». «Vi sono romanzi, libri di prose, commedie
riuscitissime, che sono irremissibilmente guastate da due o tre
pagine, da una scena, da qualche battuta magari, di sconcertante
volgarità, sciatteria, disgustosità; che rovina
tutto». «... Il fatto rimane che un professore italiano
all'estero non riesce, anche con la maggior buona volontà, a
mettere insieme una dozzina di buoni libri italiani contemporanei,
che non contengano qualche pagina disgustosa, discreditante,
[disastrosa] per la nostra elementare dignità, penosamente
triviale, che è meglio non metter sotto il naso di
intelligenti lettori stranieri. Taluni hanno il malvezzo di chiamare
tali pudori e tali disgusti con l'infamante nome di "puritanismo";
mentre invece si tratta solo ed unicamente di "buon gusto"».
L'editore, secondo il Rébora, dovrebbe intervenire di
piú nel fatto letterario, e non essere solo un
commerciante-industriale, funzionando da prima istanza
«critica», specialmente per quanto riguarda la
«socialità» del lavoro ecc.
[Un saggio di Giuseppe Antonio Borgese.] Cfr. il saggio di G. A.
Borgese Il senso della letteratura italiana nella «Nuova
Antologia» del 1° gennaio 1930. «Un epiteto, un
motto, non può riassumere lo spirito di un'epoca o di un
popolo, ma giova qualche volta come riferimento o appiglio
mnemonico. Per la letteratura francese si suol dire: grazia, ovvero:
chiarezza, logica. Si potrebbe dire: cavalleresca lealtà
dell'analisi. Diremmo per la letteratura inglese: lirismo
dell'intimità; per la tedesca: audacia della libertà;
per la russa: coraggio della verità. Le parole di cui
possiamo servirci per la letteratura italiana sono quelle appunto
che ci sono servite per questi ricordi visivi: maestà,
magnificenza, grandezza». Insomma il Borgese trova che il
carattere della letteratura italiana è
«teologico-assoluto-metafisico-antiromantico» ecc., e
forse, il suo linguaggio da ierofante si potrebbe appunto tradurre
nel giudizio in parole povere che la letteratura italiana è
staccata dallo sviluppo reale del popolo italiano, è di
casta, non sente il dramma della storia, non è cioè
popolare-nazionale.
Parla del libro del Bonghi: «L'autore e i suoi amici si
accorsero presto, ma troppo tardi per correggere un titolo divenuto
in breve tempo eccessivamente famoso, che il piccolo libro avrebbe
dovuto intitolarsi piuttosto: perché la prosa italiana non
sia popolare in Italia. Questo appunto è debole relativamente
nella letteratura italiana: la prosa, o, meglio ancora che la prosa
intesa come genere letterario e ritmo verbale, diremo il senso del
prosaico: l'interesse, la curiosità osservatrice, l'amore
paziente per la vita storica e contingente quale si svolge sotto i
nostri occhi, per il mondo nel suo divenire, per l'attuazione
drammatica e progressiva del divino».
È interessante poco prima un brano sul De Sanctis e il
rimprovero buffo: «Vedeva vivere la letteratura italiana da
piú di sei secoli e le chiedeva di nascere». In
realtà il De Sanctis voleva che la «letteratura»
si rinnovasse perché si erano rinnovati gli italiani,
perché sparito il distacco tra letteratura e vita ecc.
È interessante osservare che il De Sanctis è
progressista anche oggi nei confronti dei tanti Borgesi della
critica attuale.
«La sua limitata popolarità (della letteratura
italiana), il singolare e quasi aristocratico e appartato genere di
fortuna che le toccò per tanto tempo, non si spiega soltanto
(!) con la sua inferiorità: si spiega piú
completamente (!) con le sue altezze (! altezze mescolate con
inferiorità!), con l'aria rarefatta in cui si
sviluppò. Non-popolarità è come dire
non-divulgazione; conseguenza che discende dalla premessa: odi
profanum vulgus et arceo. Tutt'altro che popolana e profana, questa
letteratura nacque sacra, con un poema, che il suo stesso poeta
chiamò sacro (sacro perché parla di Dio, ma quale
argomento piú popolare di Dio? E nella Divina Commedia non si
parla solo di Dio ma anche dei diavoli e della loro "nuova
cennamella") ecc. ecc.». «Il destino politico, che,
togliendo all'Italia libertà e potenza materiale, ne fece
quello che biblicamente, leviticamente, si chiamerebbe un popolo di
sacerdoti».
Il saggio conchiude, meno male, che il carattere della letteratura
italiana può cambiare, anzi deve cambiare ecc. ma ciò
è stonato con il complesso del saggio stesso.
[Atteggiamento dello scrittore verso l'ambiente.] Da un articolo di
Paolo Milano nell'«Italia letteraria» del 27 dicembre
1931: «Il valore che si dà al contenuto di un'opera
d'arte non è mai troppo – ha scritto Goethe. Un simile
aforisma può tornare in mente a chi rifletta sullo sforzo, da
tante generazioni (?) avviato (sic) e che si sta tuttora compiendo,
di creare una tradizione del moderno romanzo italiano. Quale
società, anzi quale ceto dipingere? I tentativi piú
recenti non consistono forse nel desiderio di uscire dai personaggi
popolareschi che tengono la scena nell'opera manzoniana e verghiana?
E le mezze riuscite non si possono forse ricondurre alle
difficoltà e all'incertezza nel fissare un ambiente (fra alta
borghesia oziosa e gente minuta e bohème marginale)?».
Il brano è sorprendente per il modo meccanico ed esteriore di
porre le quistioni. Infatti avviene che «generazioni» di
scrittori tentino a freddo di fissare l'ambiente da descrivere senza
con ciò stesso manifestare il loro carattere
«astorico» e la loro povertà morale e
sentimentale? Del resto per «contenuto» non basta
intendere la scelta di un dato ambiente: ciò che è
essenziale per il contenuto è l'atteggiamento dello scrittore
e di una generazione verso questo ambiente. L'atteggiamento solo
determina il mondo culturale di una generazione e di un'epoca e
quindi il suo stile. Anche nel Manzoni e nel Verga, non i
«personaggi popolareschi» sono determinanti, ma
l'atteggiamento dei due scrittori verso di essi, e questo
atteggiamento è antitetico nei due: nel Manzoni è un
paternalismo cattolico, una ironia sottintesa, indizio di assenza di
profondo istintivo amore verso quei personaggi, è un
atteggiamento dettato da un esteriore sentimento di astratto dovere
dettato dalla morale cattolica, corretto appunto e vivificato
dall'ironia diffusa. Nel Verga è un atteggiamento di fredda
impassibilità scientifica e fotografica, dettata dai canoni
del verismo applicato piú razionalmente che dallo Zola.
L'atteggiamento del Manzoni è il piú diffuso nella
letteratura che rappresenta «personaggi popolareschi» e
basta ricordare Renato Fucini; esso è ancora di carattere
superiore, ma si muove su un filo di rasoio e infatti degenera,
negli scrittori subalterni, nell'atteggiamento
«brescianesco» stupidamente e gesuiticamente sarcastico.
[Gli italiani e il romanzo.] Sarà da vedere un discorso sul
tema «Gli italiani e il romanzo», tenuto da Angelo Gatti
e riprodotto in parte dall'«Italia Letteraria» del 9
aprile 1933. Una notazione interessante pare quella che tocca i
rapporti tra moralisti e romanzieri in Francia e in Italia. In
Francia il tipo del moralista è ben diverso da quello
italiano, che è piuttosto «politico»: l'italiano
studia come «dominare», come essere piú forte,
piú abile, piú furbo; il francese come
«dirigere» e quindi come «comprendere» per
influenzare e ottenere un «consenso spontaneo e attivo».
I Ricordi politici e civili del Guicciardini, sono di questo tipo.
Cosí in Italia grande abbondanza di libri come il Galateo, in
cui si bada all'atteggiamento esteriore delle classi alte. Nessun
libro come quelli dei grandi moralisti francesi (o di ordine
subalterno come in Gaspare Gozzi), con le loro analisi raffinate e
capillari. Questa differenza nel «romanzo» che in Italia
è piú esteriore, gretto, senza contenuto umano
nazionale-popolare o universale.
Il sentimento «attivo» nazionale degli scrittori.
Estratto dalla Lettera a Piero Parini sugli scrittori sedentari di
Ugo Ojetti (nel «Pègaso» del settembre 1930):
«Come mai noi italiani che abbiamo portato su tutta la terra
il nostro lavoro e non soltanto il lavoro manuale, e che da
Melbourne a Rio, da S. Francisco a Marsiglia, da Lima a Tunisi
abbiamo dense colonie nostre, siamo i soli a non avere romanzi in
cui i nostri costumi e la nostra coscienza siano rivelati in
contrasto con la coscienza e i costumi di quelli stranieri fra i
quali siamo capitati a vivere, a lottare, a soffrire, e talvolta
anche a vincere? D'italiani, in basso e in alto, manovali o
banchieri, minatori o medici, camerieri o ingegneri, muratori o
mercanti, se ne trovano in ogni angolo del mondo. La letteratissima
letteratura nostra li ignora, anzi li ha sempre ignorati. Se non
v'è romanzo o dramma senza un progrediente contrasto d'anime,
quale contrasto piú profondo e concreto di questo tra due
razze, e la piú antica delle due, la piú ricca
cioè d'usi e riti immemorabili, spatriata e ridotta a vivere
senza altro soccorso che quello della propria energia e
resistenza?».
Molte osservazioni o aggiunte da fare. In Italia è sempre
esistita una notevole massa di pubblicazioni sull'emigrazione, come
fenomeno economico-sociale. Non corrisponde una letteratura
artistica: ma ogni emigrante racchiude in sé un dramma,
già prima di partire dall'Italia. Che i letterati non si
occupino dell'emigrato all'estero dovrebbe far meno meraviglia del
fatto che non si occupano di lui prima che emigri, delle condizioni
che lo costringono a emigrare ecc.; che non si occupino cioè
delle lacrime e del sangue che in Italia, prima che all'estero, ha
voluto dire l'emigrazione in massa. D'altronde occorre dire che se
è scarsa (e per lo piú retorica) la letteratura sugli
italiani all'estero, è scarsa anche la letteratura sui paesi
stranieri. Perché fosse possibile, come scrive l'Ojetti,
rappresentare il contrasto tra italiani immigrati e le popolazioni
dei paesi d'immigrazione, occorrerebbe conoscere e questi paesi e...
gli italiani.
[Enrico Thovez.] Nel trattare questa quistione ma specialmente nel
fare la storia dell'atteggiamento di tutta una serie di letterati e
di critici, che sentivano la falsità della tradizione e il
suono falso della sua intima retorica, della sua non aderenza con la
realtà storica, non bisogna dimenticare Enrico Thovez, il suo
libro Il pastore, il gregge, la zampogna. La reazione del Thovez non
è stata giusta, ma importa in questo caso che egli abbia
reagito, cioè che abbia sentito almeno che qualcosa non
andava.
La sua distinzione tra poesia di forma e poesia di contenuto era
falsa teoricamente: la poesia cosí detta di forma è
caratterizzata dall'indifferenza del contenuto, cioè
dall'indifferenza morale, ma è anche questo un
«contenuto», il «vuoto storico e morale dello
scrittore». Il Thovez in gran parte si riattaccava al De
Sanctis, per il suo aspetto di «innovatore della
cultura» italiana ed è da ritenere insieme alla
«Voce» una delle forze che lavoravano, caoticamente a
dire il vero, per una riforma intellettuale e morale nel periodo
prima della guerra.
Sul Thovez bisognerebbe vedere anche le polemiche che suscitò
col suo atteggiamento. Nell'articolo Enrico Thovez poeta e il
problema della formazione artistica di Alfonso Ricolfi nella
«Nuova Antologia» del 16 agosto 1929 c'è qualche
spunto utile, ma troppo poco. Bisognerebbe trovare l'articolo di
Prezzolini Thovez il precursore.
Giovanni Cena. La figura di Cena deve essere studiata sotto due
punti di vista: come scrittore e poeta «popolare» (cfr.
Ada Negri) e come uomo attivo nel cercare di creare istituzioni per
l'educazione dei contadini (scuole dell'Agro Romano e delle Paludi
Pontine, fondate con Angelo e Anna Celli). Il Cena nacque a
Montanaro Canavese il 12 gennaio 1870, morí a Roma il 7
dicembre 1917. Nel 1900-1901 fu corrispondente della «Nuova
Antologia» a Parigi e a Londra. Nel 1902 redattore-capo della
rivista fino alla morte. Discepolo di Arturo Graf. (Nei Candidati
all'Immortalità di Giulio De Frenzi è pubblicata una
lettera autobiografica del Cena). Ricordare l'articolo del Cena Che
fare? pubblicato dalla «Voce» nel 1912 (mi pare).
Sul Cena è molto interessante l'articolo di Arrigo Cajumi Lo
strano caso di Giovanni Cena («Italia letteraria», 24
novembre 1929).
Del Cajumi sarà utile ricercare le raccolte di articoli; il
Cajumi è molto capace nel trovare certi nessi nel mondo della
cultura italiana. Del Cajumi occorre ricordare la quistione di
Arrigo ed Enrico: Enrico segretario di redazione dell'«Italia
Nostra» il settimanale dei neutralisti intellettuali del
1914-15 e direttore dell'«Ambrosiano» nel periodo in cui
l'«Ambrosiano» era controllato da Gualino; mi pare che
nel giornale, come direttore responsabile, firmasse cav. o comm.
Enrico Cajumi; Arrigo, scrittore di articoli letterari e di cultura
nella «Stampa», corrispondente della
«Stampa» da Ginevra, durante le sessioni della S. d. N.,
esaltatore della politica e dell'oratoria di Briand. Perché
questo cambiamento di Arrigo in Enrico e di Enrico in Arrigo? Il
Cajumi era in terz'anno della Università di Torino quando io
ero in primo anno: era un giovane brillante come studente e come
conversatore. Ricordare l'episodio di Berra, nel '18 o '19,
cioè appena nella «Stampa» cominciò ad
apparire la firma di Arrigo Cajumi; il Berra mi raccontò
d'aver incontrato Enrico Cajumi e di aver parlato con lui di questi
articoli: il Cajumi si mostrava offeso che lo si potesse credere
l'autore per l'Enrico-Arrigo. Dall'Università di Torino il
Cajumi si trasferí nel '12-13 all'Università di Roma e
divenne amico, oltre che allievo di Cesare De Lollis,
specializzandosi nella letteratura francese. Che si tratti della
stessa persona è dimostrato dall'attuale culto di Arrigo per
il De Lollis e dal fatto che egli è del gruppo che ha
continuato «La Cultura». Ancora: il Cajumi, col nome di
Enrico, continuò a firmare l'«Ambrosiano» anche
quando se ne era allontanato, credo per un ammutinamento della
redazione; in un articolo della «Stampa» su Marco
Ramperti, ricordava in questo tempo, di aver conosciuto
personalmente il Ramperti durante una sua avventura giornalistica, e
di averlo visto lavorare da vicino: ora il Ramperti era appunto il
critico drammatico dell'«Ambrosiano». Adesso il Cajumi
è impiegato presso la ditta Bemporad di Firenze e scrive solo
articoli di riviste e di letteratura nella «Stampa»
(credo) e nell'«Italia Letteraria».
Dall'articolo su Cena stralcio qualche brano: «Nato nel 1870,
morto nel 1917, Giovanni Cena ci appare come una figura
rappresentativa del movimento intellettuale che la parte migliore
della nostra borghesia compí al rimorchio delle nuove idee
che venivano di Francia e di Russia; con un apporto personalmente
piú amaro ed energico, causato dalle origini proletarie (! o
contadine?) e dagli anni di miseria. Autodidatta uscito per miracolo
dall'abbrutimento del lavoro paterno e del natio paesello, Cena
entrò inconsciamente nella corrente che in Francia –
proseguendo una tradizione (!) derivata (!) da Proudhon via via (!)
attraverso Vallès e i comunardi sino ai Quatre
évangiles zoliani, all'affare Dreyfus, alle Università
popolari di Daniel Halévy e che oggi continua in
Guéhenno (!) (piuttosto in Pierre Dominique e in altri) – fu
definita come l'andata al popolo (il Cajumi trasporta nel passato
una parola d'ordine odierna, dei populisti; nel passato tra popolo e
scrittori in Francia non ci fu mai scissione dopo la Rivoluzione
francese e fino a Zola: la reazione simbolista scavò un fosso
tra popolo e scrittori, tra scrittori e vita e Anatole France
è il tipo piú compiuto di scrittore libresco e di
casta). Il nostro (Cena) veniva dal popolo, di qui
l'originalità (!) della sua posizione, ma l'ambiente della
lotta era sempre lo stesso, quello dove si affermò il
socialismo di un Prampolini. Era la seconda generazione
piccolo-borghese dopo l'unità italiana (della prima ha
scritto magistralmente la cronistoria Augusto Monti nei
Sansoussî), estranea alla politica delle classi conservatrici
dominanti, in letteratura piú connessa al De Amicis o allo
Stecchetti che al Carducci, lontana da d'Annunzio, e che
preferirà formarsi su Tolstoi, considerato piuttosto come
pensatore che quale artista, scoprirà Wagner, crederà
vagamente ai simbolisti, alla poesia sociale (simbolisti e poesia
sociale?), alla pace perpetua, insulterà i governanti
perché poco idealisti, e non si ridesterà dai suoi
sogni neppure per le cannonate del 1914» (un po' di maniera e
stiracchiato tutto ciò). «Cresciuto fra incredibili
stenti, sapeva di essere anfibio, né borghese, né
popolano: "Come mi facessi un'istruzione accademica e prendessi
diplomi, è cosa che mi fa perdere spesso ogni calma a
pensarci. E quando, pensandoci, sento che potrò perdonare,
allora ho veramente il senso di essere un vittorioso". "Sento
profondamente che soltanto lo sfogo della letteratura e la fede nel
suo potere di liberazione e di elevazione mi hanno salvato dal
diventare un Ravachol"».
Nel primo abbozzo degli Ammonitori il Cena immaginò che il
suicida si gettasse sotto un'automobile reale, ma nell'edizione
definitiva non mantenne la scena: «... Studioso di cose
sociali, estraneo a Croce, a Missiroli, Jaurès, Oriani, alle
vere esigenze del proletariato settentrionale che lui, contadino,
non poteva sentire. Torinese, era ostile al giornale che
rappresentava la borghesia liberale, anzi socialdemocratica. Di
sindacalismo non v'è traccia, di Sorel manca il nome. Il
modernismo non lo preoccupava». Questo brano mostra quanto sia
superficiale la cultura politica del Cajumi. Il Cena è volta
a volta popolano, proletario, contadino. La «Stampa»
è socialdemocratica, anzi esiste una borghesia torinese
socialdemocratica: il Cajumi imita in ciò certi uomini
politici siciliani che fondavano partiti democratici sociali, o
addirittura laburisti e cade nel tranello di molti pubblicisti da
ridere che hanno cucinato la parola socialdemocrazia in tutte le
salse. Il Cajumi dimentica che a Torino la «Stampa» era,
prima della guerra, a destra della «Gazzetta del
Popolo», giornale democratico moderato. È poi grazioso
l'accoppiamento Croce-Missiroli-Jaurès-Oriani per gli studi
sociali.
Nello scritto Che fare? il Cena voleva fondere i nazionalisti coi
filosocialisti come lui; ma in fondo tutto questo socialismo piccolo
borghese alla De Amicis non era un embrione di socialismo nazionale,
o nazionalsocialismo, che ha cercato di farsi strada in tanti modi
in Italia e che ha trovato nel dopoguerra un terreno propizio?
Sull'attività svolta dal Cena per le scuole dei contadini
dell'Agro Romano sono da vedere le pubblicazioni di Alessandro
Marcucci. (Il Cena intendeva proprio «andare al popolo»;
è interessante vedere come praticamente cercò di
attuare il suo proposito, perché ciò mostra cosa
poteva intendere un intellettuale italiano, d'altronde pieno di
buone intenzioni, per «amore per il popolo»).
Gino Saviotti. Sul carattere antipopolare o almeno
apopolare-nazionale della letteratura italiana hanno scritto e
continuano a scrivere molti letterati. Ma in queste scritture
l'argomento non è posto nei suoi termini reali e le
conclusioni concrete sono spesso stupefacenti. Per esempio di Gino
Saviotti, che volentieri scrive contro la letteratura dei letterati,
si trova citato nell'«Italia Letteraria» del 24 agosto
1930 questo brano riportato da un articolo pubblicato
nell'«Ambrosiano» del 15 agosto: «Buon Parini, si
capisce perché avete sollevato la poesia italiana, ai vostri
tempi. Le avete dato la serietà che le mancava, avete
trasfuso nelle sue aride vene il vostro buon sangue popolano. Vi
sieno rese grazie anche in questo giorno dopo centotrentun'anni
dalla vostra morte. Ci vorrebbe un altro uomo come voi, oggi, nella
nostra cosí detta poesia!». Nel 1934 è stato
dato al Saviotti un premio letterario (una parte del premio
Viareggio) per un romanzo in cui si rappresenta lo sforzo di un
popolano per diventare «artista» (cioè per
diventare «artista professionale», non essere piú
«popolano», ma innalzarsi al rango degli intellettuali
di professione): argomento essenzialmente «antipopolare»
ed esaltazione della casta, come modello di vita
«superiore»: ciò che di piú vecchio e
stantío può trovarsi nella tradizione italiana.
La «scoperta» di Italo Svevo. Italo Svevo fu rivelato al
pubblico dei letterati italiani da James Joyce, che lo aveva
conosciuto personalmente a Trieste (tuttavia è da ricordare
che Italo Svevo aveva scritto qualche volta nella «Critica
Sociale» intorno al 1900).
Commemorando lo Svevo, la «Fiera Letteraria» sostenne
che prima di questa rivelazione c'era stata la
«scoperta» italiana: «In questi giorni parte della
stampa italiana ha ripetuto l'errore della "scoperta francese"
(cioè dovuta al Crémieux, al quale però dello
Svevo aveva parlato il Joyce, quindi la «Fiera
Letteraria» gioca sull'equivoco); anche i maggiori giornali
par che ignorino ciò che pure è stato detto e ripetuto
a tempo debito. È dunque necessario scrivere ancora una volta
che gli italiani colti furono per i primi informati dell'opera dello
Svevo; e che per merito di Eugenio Montale, il quale ne scrisse
sulle riviste l'"Esame" e il "Quindicinale", lo scrittore triestino
ebbe in Italia il primo e legittimo riconoscimento. Con ciò
non si vuol togliere agli stranieri nulla di quanto spetta loro;
soltanto, ci par giusto che nessuna ombra offuschi la
sincerità e, diciamo pure, la fierezza (!!) del nostro
omaggio all'amico scomparso». («Fiera Letteraria»
del 23 settembre 1928 – lo Svevo era morto il 13 settembre – in un
editoriale introduttivo a un articolo del Montale Ultimo addio, e a
uno di Giovanni Comisso, Colloquio). Ma questa prosetta untuosa e
gesuitesca è in contraddizione con ciò che afferma
Carlo Linati, nella «Nuova Antologia» del 1°
febbraio 1928 (Italo Svevo, romanziere): «Due anni fa,
trovandomi a prender parte alla serata di un club intellettuale
milanese, ricordo che ad un certo punto entrò un giovane
scrittore tornato allora allora da Parigi, il quale dopo aver
discorso a lungo con noi di un pranzo del Pen Club offerto a
Pirandello dai letterati parigini, aggiunse che alla fine di esso il
celebre romanziere irlandese James Joyce, chiacchierando con lui
della letteratura italiana moderna, gli aveva detto: – Ma voialtri
italiani avete un grande prosatore e forse neanche lo sapete –
Quale? – Italo Svevo, triestino». Il Linati dice che nessuno
conosceva quel nome, come non lo conosceva il giovane letterato che
aveva parlato col Joyce. Il Montale riuscí finalmente a
«scoprire» una copia di Senilità e ne scrisse
sull'«Esame». Ecco come i letterati italiani hanno
«scoperto» Svevo «fieramente». Si tratta di
un puro caso? Non pare. Per la «Fiera Letteraria» sono
da ricordare almeno altri due «casi», quello degli
Indifferenti di Moravia e quello del Malagigi di Nino Savarese, di
cui parlò solo dopo che fu indicato da un concorso a premio
letterario. In realtà questa gente si infischia della
letteratura e della poesia, della cultura e dell'arte: esercita la
professione di sacrestano letterario e nulla piú.
[Secentismo dell'attuale poesia.] Che una parte della attuale poesia
sia «puro secentismo» appare per confessione spontanea
di alcuni critici ortodossi di essa. Per esempio Aldo Capasso in un
suo saggio su Ungaretti (brano citato in «Leonardo» del
marzo 1934) scrive: «L'aura attonita non potrebbe formarsi, se
il poeta fosse meno laconico». L'«aura attonita»
richiama la famosa definizione che «del poeta il fine è
la maraviglia». Si può notare tuttavia che il
secentismo classico, purtroppo, è stato popolare e continua
ad esserlo tuttora (è noto come all'uomo del popolo piacciano
le acrobazie d'immagini in poesia), mentre il secentismo attuale
è popolare fra gli intellettuali puri.
L'Ungaretti ha scritto che le sue poesie piacevano ai suoi compagni
di trincea «del popolo», e può esser vero:
piacere di carattere particolare legato al sentimento che la poesia
«difficile» (incomprensibile) deve esser bella e
l'autore un grande uomo appunto perché staccato dal popolo e
incomprensibile: ciò avvenne anche per il futurismo ed
è un aspetto del culto popolare per gli intellettuali (che in
verità sono ammirati e disprezzati nello stesso tempo).
[Letterati puri.] Il popolo (ohibò!), il pubblico
(ohibò!). I politici d'avventura domandano con cipiglio di
chi la sa lunga: «Il popolo! Ma cos'è questo popolo? Ma
chi lo conosce? Ma chi l'ha mai definito?» e intanto non fanno
che escogitare trucchi e trucchi per avere le maggioranze elettorali
(dal '24 al '29 quanti comunicati ci sono stati in Italia per
annunziare nuovi ritocchi alla legge elettorale? Quanti progetti
presentati e ritirati di nuove leggi elettorali? Il catalogo sarebbe
interessante di per sé). Lo stesso dicono i letterati puri:
«Un vizio portato dalle idee romantiche è quello di
chiamare a giudice il pubblico. Chi è il pubblico? Chi
è costui? Questo testone onnisciente, questo gusto squisito,
quest'assoluta probità, questa perla dov'è?» (G.
Ungaretti, «Resto del Carlino», 23 ottobre 1929). Ma
intanto domandano che sia instaurata una protezione contro le
traduzioni da lingue straniere e quando vendono mille copie di un
libro fanno suonare le campane del loro paese. Il
«popolo» però ha dato il titolo a molti
importanti giornali, proprio di quelli che oggi domandano
«cosa è questo popolo?» proprio nei giornali che
si intitolano al popolo.
Poesia cosí detta sociale italiana. Rapisardi. Cfr.
l'articolo molto interessante di Nunzio Vaccalluzzo La poesia di
Mario Rapisardi nella «Nuova Antologia» del 16 febbraio
1930. Il Rapisardi fu fatto passare per materialista e anzi per
materialista storico. È ciò vero? O non piuttosto fu
egli un «mistico» del naturalismo e del panteismo?
Però legato al popolo, specialmente al popolo siciliano, alle
miserie del contadino siciliano ecc.
L'articolo del Vaccalluzzo può servire per iniziare uno
studio sul Rapisardi anche per le indicazioni che dà.
Procurarsi un prospetto delle opere del Rapisardi, ecc. Importa
specialmente la raccolta Giustizia che, dice il Vaccalluzzo, la
aveva cantata come poeta proletario (!), «piú con
veemenza di parole che di sentimento»: ma appunto questa
Giustizia è poesia da democratico-contadino, secondo i miei
ricordi.
Piedigrotta. In un articolo sul «Lavoro» (8 settembre
1929) Adriano Tilgher scrive che la poesia dialettale napoletana e
quindi in gran parte la fortuna delle canzoni di Piedigrotta
è in fiera crisi. Se ne sarebbero essicate le due grandi
fonti: realismo e sentimentalismo. «Il mutamento di sentimenti
e di gusti è stato cosí rapido e sconvolgente,
cosí vorticoso e subitaneo, ed è ancora cosí
lontano dall'essersi cristallizzato in qualcosa di stabile e di
duraturo che i poeti dialettali che si avventurano su quelle sabbie
mobili per tentare di portarle alla durezza e alla chiarezza della
forma sono condannati a sparirvi dentro senza rimedio».
La crisi di Piedigrotta è veramente un segno dei tempi. La
teorizzazione di Strapaese ha ucciso strapaese (in realtà si
voleva fissare un figurino tendenzioso di strapaese assai ammuffito
e scimunito). E poi l'epoca moderna non è espansiva, è
repressiva. Non si ride piú di cuore: si sogghigna e si fa
dell'arguzia meccanica tipo Campanile. La fonte di Piedigrotta non
si è essicata, è stata essicata perché era
diventata «ufficiale» e i canzonieri erano diventati
funzionari (vedi Libero Bovio) (e cfr. l'apologo francese del becco
funzionario).
Letteratura italiana. Contributo dei burocratici. Articolo di Orazio
Pedrazzi nell'«Italia Letteraria» del 4 agosto 1929: Le
tradizioni antiletterarie della burocrazia italiana. Il Pedrazzi non
fa alcune distinzioni necessarie. Non è vero che la
burocrazia italiana sia cosí «antiletteraria»
come sostiene il Pedrazzi, mentre è vero che la burocrazia (e
si vuol dire l'alta burocrazia) non scrive della sua propria
attività. Le due cose sono diverse: credo anzi che ci sia una
mania letteraria propria della burocrazia, ma riguarda il
«bello scrivere», «l'arte», ecc.: forse si
potrebbe trovare che la grande massa della paccottiglia letteraria
è dovuta a burocrati. Invece è vero che non esiste in
Italia (come in Francia e altrove) una letteratura dovuta ai
funzionari statali (militari e civili) di valore e che riguardi
l'attività svolta, all'estero, dal personale diplomatico, al
fronte, dagli ufficiali, ecc.; quella che c'è, per lo
piú è «apologetica». «In Francia, in
Inghilterra, generali ed ammiragli scrivono per il loro popolo, da
noi scrivono solo per i loro superiori». La burocrazia
cioè non ha un carattere nazionale, ma di casta.
Ho scritto già una nota su questo argomento, osservando
quanto poco scrivano i funzionari italiani di ogni categoria,
intorno a ciò che costituisce la loro specialità e la
loro particolare attività (se scrivono lo fanno solo per i
superiori non per il popolo-nazione). Nella «Nuova
Antologia» del 16 settembre 1929, a p. 267 è detto che
il libro Nazioni e minoranze etniche (Zanichelli, 2 voll.) è
stato scritto «da un giovane gentiluomo romano, che, non
volendo confusi i suoi studi giuridici e storici con i suoi uffici
diplomatici, ha adottato il nome un poco arcaico di Luca dei
Sabelli».
Daniele Varé, Pagine di un diario in Estremo Oriente,
«Nuova Antologia» del 16 settembre, 1° e 16 ottobre
1928. Il Varé è un diplomatico italiano ministro in
Cina non so di che grado: ha firmato l'accordo tra il governo
italiano e quello di Ciang-Kai-Sceck nel '28 o '29. Queste pagine di
diario sono disastrose sia letterariamente che da ogni altro punto
di vista. Ai diplomatici dovrebbe essere proibita ogni pubblicazione
(non solo per ciò che riguarda la politica) senza il placet
di un ufficio speciale di revisione costituito di persone
intelligenti, perché le loro fesserie extra-diplomatiche
nuocciono al governo tanto quanto quelle diplomatiche e feriscono il
prestigio dello Stato che ha dato loro incarichi di rappresentanza.
Il ministro plenipotenziario Antonino D'Alia ha scritto un Saggio di
Scienza politica (Roma, Treves, 1932, in 8°, pp. XXXII-710) che
sarebbe insieme una storia universale e un manuale di Politica e di
Diplomazia (secondo Alberto Lumbroso, che lo esalta nel
«Marzocco» del 17 aprile 1932).
La Fiera del Libro. Poiché il popolo non va al libro (a un
certo tipo di libro, quello dei letterati professionali) il libro
andrà al popolo. L'iniziativa fu lanciata dalla «Fiera
Letteraria» e dal suo direttore d'allora Umberto Fracchia, nel
1927 a Milano. L'iniziativa in sé non era cattiva e ha dato
qualche piccolo risultato: ma la quistione non fu affrontata nel
senso che il libro deve diventare intimamente nazionale-popolare per
andare al popolo e non solo «materialmente», con le
bancarelle, gli strilloni ecc. In realtà, un'organizzazione
per portare il libro al popolo esisteva ed esiste, ed è
rappresentata dai «pontremolesi», ma il libro
cosí diffuso è quello della piú bassa
letteratura popolare, dal Segretario degli amanti al Guerino ecc.
Questa organizzazione potrebbe essere «imitata»,
ampliata, controllata e fornita di libri meno scemi e con maggiore
varietà di scelta.
[G. Zonta.] È da tener nota della grande Storia della
Letteratura Italiana di Giuseppe Zonta, in quattro grossi volumi,
con note bibliografiche di Gustavo Balsamo-Crivelli, pubblicata
dall'Utet di Torino, per la speciale attenzione che l'autore pare
abbia dato all'influsso sociale nello svolgimento
dell'attività letteraria. L'opera, pubblicata a fascicoli dal
1928 al '32 non ha dato luogo a grandi discussioni, a quanto pare
dalle pubblicazioni disponibili (letto un solo cenno affrettato
nell'«Italia Letteraria»). Lo Zonta, d'altronde, non
è il primo venuto nel campo della filologia (cfr. il suo
L'anima dell'ottocento del 1924).